Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
IL PIEMONTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
TUTTO SU TORINO ED IL PIEMONTE
I TORINESI ED I PIEMONTESI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI?!?!?
Quello che i Torinesi ed i Piemontesi non avrebbero mai potuto scrivere.
Quello che i Torinesi ed i Piemontesi non avrebbero mai voluto leggere.
di Antonio Giangrande
SOMMARIO
INTRODUZIONE
I PIEMONTESI SON COSI'...ONESTA', ONESTA', TRALLALLA'...
LA DEMERITOCRAZIA.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
IL CRACK DEL PIEMONTE: FALLIMENTO SABAUDO.
DECENNI DI 'NDRANGHETA. BRUNO CACCIA E LA TORINO CRIMINALE.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
MAGISTRATI…STATE ZITTI!
E RAFFAELE GUARINIELLO SE NE VA...
GRINZANE E LA MAFIA BIANCA.
APPALTOPOLI, BRUNO TINTI E QUELLO CHE NON SI DICE.
TORINO NON AMA ALESSANDRO DEL PIERO.
SE RUBARE PER COLPA NON COSTITUISCE REATO.
FIRME FALSE, ABITUDINI PIEMONTESI.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
DUBBI SULL’OMICIDIO MUSY.
ANDREA SOLDI E GLI ALTRI. MORIRE PER UN TSO.
LUIGIA PADALINO. MESSA A TACERE PERCHE’ CERCAVA LA VERITA’.
PIEMONTE…VERGOGNA. SI FA MA NON SI DICE.
PIEMONTE. GIUNTA REGIONALE ABUSIVA.
RIMBORSOPOLI. POLITICI PIEMONTESI: ABUSIVI E DANNOSI?
GIANCARLO CASELLI: LUCI ED OMBRE.
GIUSEPPE MARABOTTO NON HA INSEGNATO NIENTE. IL CASO DI VINCENZO TOSCANO E DI GIUSEPPE SALERNO.
LA LEGA DA LEGARE. RIMBORSOPOLI REGIONALE.
CONCITTADINI FAMOSI: DON CIOTTI, LA MAFIA DELLE CHIACCHIERE.
PARLIAMO DI MAFIA.
SPRECOPOLI. MORALITA’ A GO GO.
MAI DIRE INTERDIZIONE ED INABILITAZIONE: “MESSI A TACERE PERCHE’ RICERCAVAMO LA VERITA’….”
PADANIA: PO' LENTONIA? BARBARIA? NO, LADRONIA!
PARLIAMO DI MASSONERIA.
PARLIAMO DI MAGISTRATI.
ITALIA MALATA - QUANDO I "BUONI" TRADISCONO.
PARLIAMO DI CONCORSI UNIVERSITARI TRUCCATI.
PARLIAMO DI MALASANITA'.
PARLIAMO DI INGIUSTIZIA.
PARLIAMO DI ALESSANDRIA
L'ETERNIT A CASALE MONFERRATO: MALAPOLVERE E MALAGIUSTIZIA.
ALESSANDRIA E LA MASSONERIA.
ALESSANDRIA MAFIOSA.
ALESSANDRIA FALLITA.
TORTONA E LA MALAGIUSTIZIA. ALDO CUVA.
PARLIAMO DI BIELLA
I MISTERI DEL FALLIMENTO AIAZZONE E DELLA MORTE DI LIBERO CORSO BOVIO.
PARLIAMO DI CUNEO
LA VERGOGNA NELLE LANGHE. MAXI OSPEDALE MAI FINITO.
CUNEO MASSONE.
LA MAFIA A CUNEO.
COLLAUDI TRUFFA.
PARLIAMO DI NOVARA
BUROCRAZIA DA STRAPAZZO.
LA MAFIA A NOVARA.
PARLIAMO DI VERCELLI
VERCELLI E LA MASSONERIA.
STORIE DI MALAGIUSTIZIA.
PARLIAMO DELLA VALLE D’AOSTA.
PURE AD AOSTA. E' TUTTO UN MAGNA MAGNA.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Perché leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
I PIEMONTESI SON COSI'...ONESTA', ONESTA', TRALLALLA'...
I Piemontesi son così…Onestà, onestà, trallallà...
Viaggio nella Torino grillina che ha abbandonato le periferie. Degrado. Solitudine. Nella cintura della città dove italiani e immigrati lottano tra loro per ottenere una casa popolare. E che diventa metafora di un’Italia dimenticata anche dai nuovi politici. «Penso che voterò Lega. Ero indecisa con i Cinque stelle, ma la loro sindaca mi ha deluso», scrive Fabrizio Gatti l'1 febbraio 2018 su "L'Espresso". Quando anche l’ultima bottega italiana avrà chiuso, gli spacciatori saranno gli unici padroni dell’isolato. Maria, 63 anni, immigrata a Torino da Gravina di Puglia più di trent’anni fa, si è convinta dopo le feste di Natale. È sua la latteria all’angolo tra la vie dedicate al partigiano Errico Giachino e allo scrittore piemontese Luigi Gramegna. Elegante, minuta, viene davanti al bancone frigorifero pieno di formaggi delle Alpi e lo dice sottovoce: «Li guardi. È mattina e già spacciano. Vendo le cose che mi restano da vendere e chiudo per sempre. Qui, tranne pochissimi clienti storici, non entra più nessuno a fare la spesa. Qualche anno fa c’erano i carabinieri di quartiere. Era una presenza rassicurante. Spariti anche loro. Quando esce di qui, la fermeranno per offrirle la droga». Ma lo hanno già fatto prima, alla luce del sole, in mezzo alla strada senza traffico: «Ehi amico, vuoi qualcosa?», ha chiesto un uomo sulla trentina con l’impunità tipica dei luoghi dove il Comune, la Prefettura, lo Stato sono scomparsi oltre l’orizzonte. Borgo Vittoria, a Torino, non è nemmeno estrema periferia. Così come non lo sono Barriera di Milano e Aurora, grandi isole di storia operaia e umanità più o meno a metà strada tra il centro e i confini orientali della città metropolitana. La latteria che sta vivendo le sue ultime settimane è all’angolo dell’isolato di case di ringhiera. Quattro piani di facciate a mattoni rossi e decori scrostati. Sul retro, strati di ballatoi e la turca in cortile. Dalla lapide accanto alla vetrina le foto di sei partigiani, fucilati che avevano tra i 18 e i 23 anni, osservano i loro coetanei comprare hashish e cocaina o tracannare fino allo stordimento bottiglie di birra vendute per strada a cinquanta centesimi. Finti passanti pattugliano la zona. Se si insospettiscono ti seguono fino alla fine del loro territorio, il marciapiede della scuola professionale “Casa di carità, arti e mestieri”. Di là della strada, l’ultima generazione di immigrati studia e cerca una qualifica tra i corsi aperti a tutti. Di qua, ciondolano quelli che per destino o scelta ci hanno rinunciato. In mezzo, a separarli, via Salvini. Ironia della toponomastica. Il fatto che gli spacciatori qui siano marocchini e tunisini aumenta le diffidenze. «Sì, penso che voterò Lega», dice Maria. «Ero indecisa con i Cinque stelle, ma la loro sindaca mi ha deluso». La sua è la tipica famiglia post industriale, schiacciata tra cinque anni di crisi migratoria e dieci di crisi economica. «Mio marito», racconta, «faceva l’idraulico in proprio. Se paghi le tasse e copri le spese, non puoi scendere con i prezzi. Ma oggi quello che costava cento, c’è gente che te lo fa a quaranta. Così ha dovuto chiudere. Abbiamo tre figli, lavorano ma non se la passano bene. Fanno i commessi. Ottocento euro al mese, contratti a termine. Adesso a uno gli danno l’assunzione fino a tre anni. Ma sono contratti part-time, deve mettere insieme lo stipendio con quello di sua moglie per campare. Nei supermercati fanno così. Solo part-time». È il risultato che piace alle statistiche: formalmente aumentano i lavoratori. Sì, ma a fine mese sono comunque poveri. Nell’antica fabbrica trasformata in sede della Circoscrizione 5, in via Stradella 192, due stanze deserte e senza luce ospitano la mostra “Addio giovinezza! Gli effetti della Prima guerra mondiale sulla condizione dei giovani e delle donne nella periferia torinese”. Il cartellone su “La moralità patriarcale del regime fascista” potrebbe descrivere l’Italia di oggi: «La politica dei bassi salari del regime, con ben due tagli nel giro di 15 anni, impone alle donne di dover lavorare per integrare il salario del marito... Il salario dei figli è insufficiente a garantire condizioni di potenziale autonomia dei giovani». Il rapporto 2017 della fondazione dedicata all’economista torinese Giorgio Rota mostra dati economici preoccupanti. In molte classifiche la città è scivolata nel Mezzogiorno. Un esempio è proprio l’occupazione giovanile. Questo l’ordine delle peggiori: Bari, Cagliari, Reggio Calabria, Torino, Napoli, Palermo, Catania, Messina. «Nel capoluogo piemontese il tasso di disoccupazione tra i 15 ai 24 anni è pari nel 2015 al 57,8 per cento, tra le ragazze al 64,4 per cento», scrivono gli autori Luca Davico, Luisa Debernardi, Viviana Gullino, Luca Staricco ed Elisa Vitale. A parte i successi del Politecnico, «Torino era e rimane meno istruita di molte altre grandi città, patisce un’elevata dispersione scolastica, conta pochi laureati e di questi un certo numero va poi a lavorare altrove». Le conseguenze sono prevedibili: «Il forte rallentamento della mobilità professionale verso l’alto, secondo alcuni analisti, farebbe aumentare il rischio di una competizione etnica tra stranieri e italiani a basso titolo, per ottenere i posti di lavoro meno qualificati». Il tram numero 4 attraversa la città in un’ora. Parte da Falchera, il quartiere delle bombe di Capodanno, quattro feriti, trenta appartamenti danneggiati. E arriva a Mirafiori, la periferia opposta che si affaccia sullo stabilimento della Fiat. Nella carrozza in mezzo discutono di lavoro. Cioè di disoccupazione. Debora Marsala, 46 anni, è salita a Barriera di Milano con tutta la sua disperazione. Chiede a due donne che ha appena conosciuto se sanno di qualche anziano che ha bisogno di una badante. In tasca ha dieci euro che i suoi genitori pensionati le hanno dato per fare la spesa. Sopravvive grazie a loro. La crisi ha quasi cancellato i lavoratori italiani. Ma gli operai fisicamente esistono ancora. Intorno la ascoltano in rispettoso silenzio. È disoccupata dal 2009. Da allora soltanto qualche cosa a breve. L’ultima prima di Natale: «Un giorno e mezzo a spalare la neve per il Comune, 104 euro di paga. Ero l’unica italiana, tutti gli altri africani». La prossima: «Farò la scrutatrice ai seggi il 4 marzo. Ho sempre votato a sinistra, questa volta proprio non lo so». Si sente terribilmente in colpa: «Lavoravo nelle mense. Poi sono passata a un’industria di materie plastiche dove c’era già mio marito. La fabbrica era l’ambizione di tutti. Chi immaginava che l’industria sarebbe scomparsa? Ci hanno annunciato la chiusura quando sono nati i nostri due gemelli. Ho potuto fare la maternità, poi fine del lavoro. E fine del matrimonio». La disoccupazione ha separato Debora dal marito. Il giudice ha tolto i bambini alla coppia perché indigente e li ha affidati allo zio materno, che ha un lavoro nella pulizia delle strade. «Meno male che ho mio fratello», sussurra lei: «Non mi vergogno a dire che a volte vado a raccogliere la verdura che al mercato buttano via. E cosa dovrei fare per mangiare?». Scendiamo in centro, tra le bancarelle di Porta Palazzo: «Si risparmia qualche euro qui, rispetto ai minimarket in periferia». Il Comune non l’aiuta? «Mi assistono con il pagamento delle bollette. Ma non ho altri aiuti perché risulto proprietaria di casa. Da ragazza credevo di essermi messa al sicuro: cento milioni di lire nel 1998 per comprare 45 metri quadri in una casa di ringhiera dove abito». La fiducia nel mattone: «Sì, ma adesso è malmessa, si è riempita di stranieri. Nessuno comprerebbe un posto del genere. E poi non ho abbastanza figli e quindi abbastanza punti nelle graduatorie per la casa popolare. Se la vendo, dove vado?». Senza più stipendi o i soldi per pagare l’affitto, non si fanno più manutenzioni. Interi isolati cadono a pezzi. Le vetrine delle agenzie sono ricoperte di offerte. Un “Ingresso cucina abitabile due camere bagno due balconi e cantina” a Borgo Vittoria lo propongono a quarantamila euro trattabili. Nel 2006, l’anno della Torino olimpica, sarebbe stato un affare. Oggi nessuno si fa avanti. Che cosa sogna dopo quasi dieci anni di stenti? «Un lavoro a cinquecento euro al mese, con cui possa dare un po’ di sicurezza ai miei bambini», risponde Debora Marsala. Dall’inizio della crisi globale nel 2008 il numero di famiglie che a Torino hanno subito uno sfratto per morosità è aumentato del 284 per cento (media nazionale: più 108 per cento). I torinesi che stanno in alloggi popolari sono ottantamila: il 53 per cento vive in condizioni di povertà, con redditi inferiori a 500 euro al mese. «È cambiato nettamente il quadro relativo alla nazionalità dei nuclei familiari cui vengono assegnati gli alloggi popolari», spiega il Rapporto Rota: «Anche per effetto della legge regionale 3 del 2010 che li equipara agli italiani (purché residenti o occupati da almeno tre anni), la quota di stranieri tra gli assegnatari di alloggi popolari è cresciuta dal 15,2 per cento del periodo 2005-2008 al 38,3 per cento dal 2013 in poi: ciò dipende dal fatto che le famiglie straniere sono mediamente più povere di quelle italiane, oltre che più numerose, altro criterio che dà punteggio nelle graduatorie». L’ultimo aggiornamento delle liste è stato pubblicato nell’ottobre scorso: tra i primi cento posti gli assegnatari stranieri sono 49, quasi la metà. Come raffronto sugli 899 mila abitanti, i residenti non italiani a Torino sono invece il 15,4 per cento. Il regolamento di conti piomba sul marciapiede come una folata di vento. Corrono tutti e non si capisce perché. Una donna che non c’entra nulla viene travolta e si rifugia impaurita dentro il numero 37 di corso Giulio Cesare. Sono le quattro del pomeriggio, ordinaria quotidianità al quartiere Aurora. Fuori la rissa continua. L’uomo che scappava, in bermuda piedi nudi e infradito nonostante l’inverno, adesso provoca quelli che gliela volevano far pagare. Sono tutti africani, come i loro colleghi che a centinaia spacciano al parco del Valentino lungo il Po. Questi si sono invece impossessati dei giardini di Madre Teresa di Calcutta, tra corso Giulio Cesare e corso Vercelli, quasi di fronte alla facciata con la scritta “Scuola elementare di Stato Giuseppe Parini”. Un bel rettangolo di verde pubblico con parco giochi e pista per skateboard che i bambini possono solo guardare dalle finestre. Gli spacciatori, rissosi e irascibili per la quantità di hashish che non smettono di fumare, sono aumentati con gli sbarchi degli ultimi anni. E chi non compra droghe ha smesso di frequentare anche questo pezzo di città. Si gira l’angolo e in fondo alla prima strada a sinistra, in via Carmagnola 20, la proprietà del palazzo ha deciso di vendere tutti gli appartamenti. Li ha prima proposti ai suoi inquilini con un avviso in due lingue, italiano e arabo. Su 26 famiglie, solo tre non sono straniere. Anziani che vivono barricati in casa: «È difficile, non credo che qualcuno di noi compri», risponde un accento torinese da dietro la porta, senza aprire. Sulle scale, come nei caseggiati accanto, si incontrano soltanto marocchini e africani. Nessuno risponde al saluto. I rapporti di buon vicinato sono rari. Tra i condomìni di via Coppino, ce n’è uno di 30 appartamenti e un solo italiano, anche lui ultra ottantenne. Il solito giro di spacciatori di Borgo Vittoria si era impossessato delle cantine grazie a un amico nel palazzo. I vicini, nordafricani e romeni, hanno protestato. Come ritorsione la notte di Natale 2016 hanno incendiato le cantine. Poi hanno dato fuoco a un passeggino all’ingresso. Servirebbe, come minimo, una grande opera di mediazione culturale. Magari informale, dal basso. Ma il centro sociale della zona l’unica soluzione che propone è un’agghiacciante minaccia scritta ovunque sui muri: «Più vedove, più orfani, più sbirri morti». Al di fuori dei turisti nei musei, la movida di San Salvario e il ricordo ormai sbiadito delle Olimpiadi, mezza Torino è una città da ricreare. I consiglieri del sindaco Chiara Appendino hanno provato a riallacciare i legami con la periferia portandoci le Luci d’artista, la rassegna di luminarie che a Natale decorano le vie del centro. Forse credevano bastasse. E in piazza Montale, periferia nord, sono arrivati 18 coni gelato luminosi alti un metro. Li hanno appesi, un po’ nascosti e beffardi, alle colonne dei portici. Dieci li hanno subito abbattuti a sassate. È cominciata così l’ultima ondata di baby-gang in città. Il Comune ha poi sostituito le luminarie rotte. E passate le feste, i diciotto coni sono ancora lì. Intatti, ma spenti e patetici. La piazza dedicata al poeta premio Nobel rivela tutta la solitudine della Torino post industriale. Basta sedersi sulle panchine ad ascoltare. Colpisce immediatamente il silenzio, al freddo dell’ora di punta. È vero, sui grandi viali è sparito il traffico: in un quartiere popolare di pensionati, cassintegrati, disoccupati, non ci sono più pendolari che tornano a casa la sera.
Torino, dagli scrannetti del Comune per gridare: onestà, onestà al falso ideologico per la sindaca Chiara Appendino, scrive il 18 ottobre 2017 "Il Quotidiano di Alessandria Asti on line". Che gridare: onestà onestà sia più facile che amministrare la sindaca, Chiara Appendino, lo sta sperimentando sulla sua pelle e ad un anno e mezzo dal suo insediamento ha ricevuto il secondo avviso di garanzia, indagata per falso ideologico in relazione all’inchiesta Westinghouse. Il reato di falso ideologico in atto pubblico in relazione al bilancio del 2016. La procura di Torino contesta alla sindaca Chiara Appendino e all’assessore al Bilancio Sergio Rolando, per l’inchiesta Westinghouse, il da 5 milioni verso Ream, scomparso dal bilancio 2016 del Comune di Torino. Avviso di garanzia anche per Paolo Giordana, il Capo di Gabinetto di Palazzo civico. Nel luglio scorso Alberto Morana e Stefano Lo Russo presentarono un esposto al quale fece seguito quella del collegio dei revisori dei conti di Palazzo Civico. La vicenda dell’area ex Westinghouse che nel 2012 Ream acquisì il diritto di prelazione sulla zona dove sorgerà il nuovo centro congressi di Torino versando una caparra di 5 milioni di euro. La Città aggiudica ad Amteco-Maiora il progetto, perfezionato a fine del 2013, da cui li comune ha incassato parte dei 19,7 milioni di euro dell’offerta, ma ha dimenticato di restituire i 5 milioni a Ream e di decurtarla dal bilancio: non è stata restituita al Ream e neppure iscritta a bilancio. La Guardia di finanza h acquisito la documentazione negli uffici di Palazzo Civico. Nelle carte scritti nero su bianco i rapporti con la società immobiliare partecipata dalla Fondazione Crt e mail tra sindaca, assessori e funzionari. I funzionari e i dirigenti di Palazzo Civico, l’ex direttrice del settore finanze del Comune, Anna Tornoni, sono stati sentiti in procura dal procuratore aggiunto, Marco Gianoglio. In particolare Anna Tornoni avrebbe riferito di pressioni da parte del capo di gabinetto, Paolo Giordana, con cui aveva rapporti per la predisposizione dei conti per il bilancio di assestamento. Le accuse confermate dalle mail che Giordano avrebbe inviato alla Tornoni: “Ti pregherei di rifare la nota evidenziando solo le poste per le quali possono essere usati i 19,6 milioni di Westinghouse,22 novembre 2016. Per quanto riguarda il debito con Ream lo escluderei al momento dal ragionamento, in quanto con quel soggetto sono aperti altri tavoli di confronto”. La sindaca, Chiara Appendino, intanto tentava di concordare con il presidente di Ream la dilazione del debito, così da chiudere i conti del 2016 senza affanni, per la restituzione tutto rimandato al 2018. Il 30 novembre è la sindaca a scrivere: “informa l’assessore al Bilancio Rolando, Tornoni, il vice sindaco Montanari e l’allora direttore dell’Urbanistica Virano che a seguito delle trattative con Ream il Comune non restituirà i 5 milioni nel 2016. La cifra non viene comunque iscritta a bilancio. Il Comune, mergerebbe dall’inchiesta della procura, avrebbe garantito l’equilibrio del bilancio del 2016 con un falso: conteggiando un credito, ma non il debito.
ONESTÀ, ONESTÀ, scrive il 10 giugno 2017 Drake su "Nuova società". La “creatività” contabile-amministrativa partorita dalla giunta Appendino, ricostruita con dovizia di particolari da Nuovasocietà, ha riportato indietro le lancette del tempo di un anno. Siamo così ritornati alla notte di Chiara Appendino, alla donna dalla faccia pulita che salutava ebbra di gioia dal balcone di Palazzo civico con la folla grillina d’abbasso che le rimandava pari entusiasmo per il sorpasso al ballottaggio. Attimi dopo, il fotogramma si stacca su di lei che scende in strada, lei avvolta dalla gente e la pista audio che scatta con un corale urlo “innocente” e offensivo: “onestà, onestà”. Un attacco del grillismo al cosiddetto Sistema Torino, al Partito Democratico, a Piero Fassino e alla sua giunta. Infamante? No, ben orchestrato da chi voleva coniugare l’Appendismo all’anno zero di Torino, all’inizio di una nuova era, alla costruzione del mito. In quei giorni e nei mesi successivi l’unico a reagire con fermezza, chiedendo le scuse di Chiara Appendino, fu il segretario provinciale del Pd, Fabrizio Morri. E non è passato giorno che Morri non sia ritornato su quelle offese ingenerose e sulle scuse che riteneva gli fossero dovute. Oggi le scuse di Chiara Appendino alla città indirettamente sono anche a Morri che ha mostrato coerenza e forza morale. Peccato che alla Appendino ci siano voluti 1527 feriti e sette giorni di riflessione. Fuori tempo. Ma ormai vi è abituata ad essere fuori: i “fuori bilancio” parlano per lei. Chissà se scoprirà da sola di essere fuori posto?
Onestà, trallallà. Il braccio destro del sindaco di Torino, Chiara Appendino, toglie una multa all'amico: altra figuraccia grillina, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 29/10/2017, su "Il Giornale". «La ferocia dei moralisti è superata soltanto dalla loro profonda stupidità», scriveva Filippo Turati. Ma quanto sono stupidi questi grillini che urlano nelle piazze «onestà, onestà» e poi si fanno beccare a togliere le multe ai loro amichetti? È successo a Torino. Paolo Giordana, capo di Gabinetto e braccio destro della sindaca Chiara Appendino, è stato intercettato mentre pietiva il più classico e stupido abuso di potere, roba da sottobosco di Prima Repubblica. Giordana non è soltanto un tecnico, è l'ideologo della Appendino, il Rasputin dei Cinquestelle, uno organico al movimento degli onesti, che solo poche ore prima aveva subito un altro colpo, cioè l'avviso di garanzia per turbativa d'asta al proprio sindaco di Livorno Filippo Nogarin. Chi fa aumentare lo stipendio al fratello del suo socio, chi toglie le multe agli amici, chi pasticcia con i bilanci e chi con gli appalti. Da Roma a Torino via Livorno è questo il bilancio del partito degli onesti dove è andato al governo. Del resto che c'è da aspettarsi di diverso da un partito il cui leader, Beppe Grillo - come racconta Antonio Ricci, padre di Striscia la notizia, nella sua biografia anticipata ieri dal Corriere -, non tanti anni fa girava nudo negli hotel di Tokyo facendo agguati ai clienti, copiava le battute da altri autori e millantava di aver scritto famose canzoni? Una simpatica canaglia, un pregiudicato per omicidio che non ha mai smentito di essere stato pure evasore fiscale. Di lui, e degli onesti che impongono ai loro dirigenti di togliere le multe agli amici, si sono innamorati pezzi forti della magistratura moralizzatrice, da Piercamillo Davigo a Nino Di Matteo, eroe dell'antimafia pronto a lasciare la toga per entrare in un eventuale governo Cinquestelle. Piccoli truffatori e feroci moralizzatori in campo al grido di «onestà trallallà». Storia già raccontata da un altro capocomico, Totò, nel celebre film Gli onorevoli, in cui il maldestro e nostalgico Antonio La Trippa tentò di scalzare il potere al motto di «vota Antonio, vota Antonio». Salvo poi scoprire che la sua squadra era più furba e corrotta di quella che si proponeva di sostituire. Abbiamo tutti riso, era solo un film. Vai a immaginare che Grillo avrebbe provato a metterlo in pratica.
Ciononostante...
Il vizietto dei piemontesi...
"Napoli indecorosa". E il pm dà ragione a Giletti. Il conduttore Rai aveva denunciato una situazione scandalosa a Napoli. De Magistris lo ha querelato, ma il pm chiede l'archiviazione, scrive Chiara Sarra, Domenica 17/07/2016, su "Il Giornale". "Napoli è indecorosa". Parole pronunciate in Rai da Massimo Giletti e che avevano suscitato un vespaio di polemiche, oltre a costargli una querela da parte di Luigi De Magistris. Ma, come racconta oggi Repubblica, per il conduttore tv la procura di Napoli ha chiesto l'archiviazione. "La situazione di degrado che affligge alcune zone di Napoli e, in particolare, quella della stazione ferroviaria centrale, è da tempo oggetto di trattazione e denuncia e in diversi quotidiani e in varie trasmissioni televisive", scrive nella sua richiesta il sostituto procuratore Anna Frasca, "Significativa è, in tal senso, la notizia riportata, in più occasioni, proprio da alcuni giornali in ordine ai cosiddetti mercatini dei rifiuti che venivano svolti, fino a poco tempo fa, con periodicità proprio nei pressi della stazione centrale di Napoli, alimentando il fenomeno di accumulo di rifiuti e dunque di degrado dell'intera zona circostante". Insomma, un quadro tale per cui Giletti non deve essere accusato di diffamazione: "Tale situazione, attesa la sua rilevanza sociale, rende legittimi anche valutazioni e giudizi molto forti quali quelli espressi dall'odierno indagato in ordine allo stato di decoro della città e all'efficacia dell'azione di governo condotta negli anni dalla classe politica locale".
Massimo Giletti offende il Sud all’Arena: “Furbetti? Tutti meridionali”, scrive il 10 ottobre 2016 "La Voce di Napoli". Massimo Giletti ci casca di nuovo e offende il Sud. Durante la scorsa puntata, domenica 9 ottobre, de L’Arena il conduttore milanese torna a fare dichiarazioni poco lusinghiere sul Meridione. La lezione della scorsa volta pare non sia servita, sembrava che fosse “pace fatta” con Napoli dopo l’incontro in canoa con l’imprenditore Enrico Schettino. Il conduttore di Rai Uno avrebbe attribuito la colpa della crisi economica agli “sprechi tutti meridionali”. Non è la prima volta che Giletti utilizza una problematica italiana per infangare il Mezzogiorno quindi verrebbe da chiedersi: come mai l’uomo non hai mai additato città del Nord di fronte a situazioni anche molto complesse che hanno investito l’Italia Settentrionale con scandali finanziari? Questa volta le dichiarazioni di Massimo Giletti non sono passate inosservate, il Movimento Neoborbonico, infatti, avrebbe inviato una petizione alla Camera e una richiesta di intervento alla Commissione Vigilanza della Rai. Questa è la proposta del Movimento avanzata su Facebook: “Ancora una volta il conduttore piemontese, non nuovo a uscite contro Napoli, contro il Sud e contro la storia meridionale, ha presentato la solita lunga e unilaterale serie di luoghi comuni tra “furbetti”, vitalizi, pensioni e sprechi tutti meridionali. Premesso che chi commette questi reati deve essere sempre punito, non si ricordano, però, servizi simili in quella trasmissione per casi come quelli magari veneti (tra Mose e banche fallite) o lombardi (tra maxi-evasioni fiscali ed Expo) o tosco-padani (Monte Paschi in testa) o anche per la stessa “bigliettopoli” che ha coinvolto la Juventus in queste settimane. Si richiede, allora, se si tratta di una linea editoriale seguita da Giletti o se si tratta di una linea politica che, in un momento di crisi grave come quello attuale, vuole magari evidenziare l’impossibilità di “redimere” il Sud e la conseguente inutilità di aiutarlo. Il Movimento Neoborbonico ha invitato anche gli altri movimenti meridionalisti a inviare agli sponsor della trasmissione delle mail per comunicare che non utilizzeranno più prodotti e servizi di aziende che sostengono programmi che, di fatto, danneggiano il Sud.”
Giletti come la mettiamo...
Periferie e degrado: Torino scrive a Mattarella, si legge venerdì 26 maggio 2017 su "Torino Oggi". Uno dei maggiori comitati spontanei di cittadini, TorinoinMovimento, ha deciso di scrivere una lettera al Presidente della Repubblica: ex Moi, campi rom, aggressioni, buche, disservizi e clochard tra i problemi segnalati al Capo dello stato. Il miracolo nelle periferie torinesi non si è verificato. In alcune zone la sicurezza resta precaria, deludendo le speranze di chi aveva invocato un cambio di marcia e continua invece a vedere gli stessi problemi di sempre, segnalati a più riprese. Ed è così che uno dei maggiori comitati spontanei di cittadini, TorinoinMovimento, ha deciso di scrivere una lettera al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, cercando di attirare sulle questioni un'attenzione di scala nazionale. La lettera comincia con un racconto delle principali situazioni di difficoltà della città: “In questi anni ci stiamo occupando delle aggressioni alle donne, di segnalare persone in difficoltà come i clochard, delle buche, dei vari disservizi della sanità ma anche di cose più grandi, come l'occupazione delle palazzine dell'ex villaggio Olimpico ex Moi in Piazza Galimberti da parte di certi ma anche di presunti profughi. Siamo in attesa dell'inizio dello sgombero previsto per questa primavera e non ancora iniziato. Ci occupiamo anche dei campi Rom ubicati in via Germagnano nei quali è da tempo uso e costume bruciare giornalmente materiali di ogni genere e tipo procurando fumi tossici che da anni respirano i cittadini residenti nelle zone circostanti. A riguardo vi è un'indagine in corso per disastro ambientale e finalmente l'Arpa ha rilevato le sostanze tossiche presenti sia nel terreno che nell'aria come zinco, stagno, piombo. Di fronte al campo vi è il canile vandalizzato più volte per un ammontare di centomila euro”. Le segnalazioni, raccontano dal comitato, si sono sprecate: “Tutto questo è stato ampiamente denunciato, segnalato e documentato. Anche il tg3 Piemonte ha documentato assieme a noi il tutto con servizi andati in onda anche sulla terza rete Rai nazionale. Qui i problemi oltre a quelli di legalità sono anche legati al diritto della tutela della salute dei cittadini. Da tempo chiediamo di rivedere la Giustizia che rientra nella sicurezza”. Infine, l'appello: “Egregio Presidente, non riusciamo a vedere un futuro adeguato tra i continui tagli ai servizi base, dato il lavoro sempre più precario ed una situazione di illegalità dilagante. Come si può far crescere un figlio in questa società dove pare che vinca sempre chi delinque anziché il cittadino onesto? Chiediamo se fosse possibile intervenire su queste problematiche: (ex Moi, campi rom con relativi fumi tossici, mercato abusivo) con delle interrogazioni parlamentari per tutte le situazioni esposte che non tutelano i cittadini da tempo. Questa non è integrazione. Chi delinque deve essere allontanato e chi ha bisogno deve essere aiutato”.
E poi il solito razzismo becero...
L'immigrazione a Torino. Scritto su "Museo Torino". A partire dal primo dopoguerra, Torino è al centro di un consistente flusso migratorio che, iniziato nei primi anni Cinquanta, raggiunge il suo apice nel periodo del miracolo economico proseguendo per tutti gli anni Settanta del Novecento. A partire sono soprattutto uomini e donne residenti nel Sud Italia, zona di fame e miseria, attratti dalle possibilità lavorative offerte dalle fabbriche cittadine, che attraversano una fase di straordinario sviluppo, a stento supportato dalla manodopera locale. Città dell’industria e capitale dell’auto, Torino esercita una forte capacità attrattiva, ben esemplificata da una filastrocca, molto diffusa tra i bambini della Puglia: “Torino, Torino, che bella città, si mangia, si beve e bene si sta!”. Tra il 1958 e il 1963 più di 1.300.000 meridionali abbandonano le proprie case per trasferirsi nel Centro e nel Nord Italia; tra essi sono più di 800.000 coloro che si dirigono verso le grandi città del triangolo industriale, prima tra tutte Torino. Ogni giorno, sulle banchine della stazione di Porta Nuova, si riversa un numero sempre più consistente di persone arrivate a bordo del “Treno del Sole”, un convoglio che in ventitré ore attraversa l’Italia, dalla Sicilia al Piemonte. Un flusso migratorio che si traduce in una crescita immediata della popolazione torinese, passata dai 753.000 abitanti del 1953 a 1.114.000 del 1963, molti dei quali costituiti da immigrati, che portano il saldo migratorio cittadino a essere quello “più elevato di tutte le altre città italiane”. Sul territorio cittadino si snodano parabole migratorie che vedono i nuovi arrivati dal sud sostituirsi a quelli dell’Italia settentrionale, i primi ad arrivare in città. A partire dagli anni Cinquanta lo scenario muta radicalmente: pugliesi, calabresi, lucani, siciliani e sardi prendono il sopravvento sugli immigrati dell’Italia settentrionale, “fino ad allora la maggioranza assoluta”. Secondo il censimento del 1971, risiedono in città 77.589 siciliani, 106.413 pugliesi, 44.723 calabresi, 35.489 campani e 22.813 lucani: Torino diventa così “una città meridionale di dimensioni paragonabili a Palermo”. Anche il Veneto rappresenta un consistente serbatoio migratorio. Un’immigrazione, quest’ultima, risalente ai primi decenni del Novecento e che prosegue negli anni seguenti, come dimostrano i 65.741 immigrati veneti residenti in città nel 1971. Molti di essi provengono dalle zone bracciantili di Rovigo e del Polesine, messe in ginocchio nel 1951 dall’alluvione del Po. Un evento drammatico, che porta a Torino anche una cospicua quota di individui originari della provincia di Ferrara. Un altro tassello del mosaico è costituito dalla comunità sarda, che ha a Torino radici antiche, dal momento che i primi flussi migratori dall’isola risalgono al periodo sabaudo: una lunga tradizione migratoria, che nel 1971 raggiunge la quota di 19.858 individui. Infine vi sono gli immigrati giunti in città dalla campagna e dalle montagne circostanti: uomini e donne che sostituiscono le fatiche della terra con la catena di montaggio, attratti dal posto fisso e dello stipendio sicuro offerti dalla grande fabbrica. Nell’immaginario di chi emigra, Torino assume i contorni di una realtà capace di offrire casa e lavoro, ponendo fine alla miseria e agli stenti patiti nella terra natia. In realtà così non è, poiché l’arrivo in città si trascina dietro problematiche e difficoltà di non facile superamento. Differenze culturali e identitarie trasformano infatti l’incontro tra i torinesi e gli immigrati, specialmente quelli giunti dal sud, in un momento dai contorni frastagliati e spigolosi. Una discriminazione che assume le sembianze dei cartelli affissi ai portoni delle case arrecanti la frase non si affitta ai meridionali, oppure quella dell’attuazione di dinamiche esclusive che passano attraverso epiteti carichi di astio (napuli, terroni, mau mau) coniati dalla popolazione locale per definire, identificare, “screditare e deridere gli individui nativi delle regioni del sud”. Un fenomeno diffuso, inerente molti comparti della vita quotidiana e che sembra essere accettato anche da «La Stampa», principale testata cittadina, che, lontana dallo svolgere un ruolo di avvicinamento tra torinesi e immigrati, alimenta sulle proprie pagine, attraverso articoli, annunci e servizi, stereotipi e pregiudizi nei confronti degli immigrati del sud Italia, ampiamente consolidati tra i lettori torinesi. Si crea così una situazione di emarginazione, superata attraverso una progressiva condivisione di spazi ed esperienze nella sfera pubblica, privata e lavorativa, che consente di scalare il muro che divide i torinesi dagli immigrati incanalando il rapporto sui binari di un’integrazione pressoché pienamente avvenuta.
Nel 2011 si festeggiano i 150 anni dell’unità d’Italia, eppure il Regno delle due Sicilie era uno degli stati europei più prosperi che non conosceva emigrazione alcuna. La sua posizione strategica nel Mediterraneo e la sua politica che lo rendevano indipendente erano contrarie agli interessi dei Savoia e delle altre potenze europee del tempo. Il rapporto tra debito, con interessi, e prodotto interno lordo era del 16% in confronto del Piemonte dove ammontava al 75%. Le prima emigrazione massiccia fu proprio quella del Nord con Piemonte, Veneto e Friuli in particolare ed erano i secoli XIX° e XX°. Solo dal 1880, dopo la forzata unificazione che costò perdita di vite umane, soprusi, violenze sulle donne meridionali da parte delle truppe piemontesi e trafugamento del ricchissimo tesoro del Regno di Napoli; milioni di calabresi, campani, pugliesi e siciliani furono costretti a cercar fortuna oltreoceano. L’altra emigrazione più recente si avrà col boom economico, agli inizi degli anni ’60, ma quella sarà una migrazione tutta interna, non esente da tutti i problemi ad essa connessi che noi del Sud ci siamo trascinati fino a pochi anni addietro. Ci ritornano alla memoria i tempi in cui gli schiavi emigrati meridionali si imbattevano negli implacabili cartelli posti all’ingresso di certi locali pubblici padani quale monito discriminatorio sub-razziale e territoriale: “Vietato l’ingresso ai cani e ai terroni”. E quando il povero cristo, stanco di dividere il giaciglio coi compagni di cantiere, si metteva in cerca di un alloggio per accogliere finalmente la famiglia rimasta al paese, s’imbatteva spesso in altri cartelli con la dicitura: “Non si affitta ai meridionali”, perché ci consideravano sporchi ed incivili, abituati a coltivare i pomodori nella vasca da bagno. Sono passati tanti anni ma molti pregiudizi sono davvero duri a morire: quelli del Nord sono intolleranti verso quelli del Sud, quelli del Sud, a loro volta, si rifanno verso i rumeni, i cinesi, gli africani e sembra che ci siamo dimenticati del tutto quando gli stranieri eravamo noi. Certo che l'esilio è proprio brutto. Dice Dante nel canto XVII° del Paradiso, a proposito di esilio da lui vissuto negli ultimi anni di vita: “Tu proverai sí come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e 'l salir per l'altrui scale”.
In principio, negli anni Sessanta, furono le grandi città del nord a dare l'"esempio": non si affitta a meridionali, scrivevano sugli annunci immobiliari. La prima emergenza immigrazione fu tutta nostra, interna, da sud a nord. Non c'era la Lega, ma c'era già qualcuno che la sostituiva egregiamente. Da qualche parte, proprio come a Roma, comparvero anche cartelli nei bar: "Vietato l'ingresso ai cani e ai meridionali". Il mondo torna sempre sui suoi balordi passi. Mezzo secolo dopo infatti, un'altra emergenza migratoria, ma stavolta al posto dei terroni e dei polentoni (mangia polenta o un po’ lenti di comprendonio) ci sono tutti gli altri, c'è il mondo, ma come in un stupido gioco dell'oca pare che siamo tornati daccapo, anche coi cartelli immobiliari. Molto, ma molto lontano da Lampedusa e da Ventimiglia, ultimo crocevia di chi arriva e non sa dove andare, a Pordenone, nella pancia del nord-est che è sempre stato locomotiva, nel bene e nel male. Una notizia spulciata da una cronaca locale, un taglio basso, ma un taglio vero, perché ormai la realtà è sempre più lontana dalle prime pagine inchiodate a quello che fa il monarca coi suoi cortigiani. "Affittasi solo a italiani". Diceva così il cartello appeso davanti ad un palazzo nel quartiere di Rorai (Pordenone). "Abbiamo avuto una brutta esperienza, una coppia di stranieri ci ha vissuto lo scorso anno. Lei una brava ragazza, ma lui l'ha lasciata e lei si è trovata in difficoltà. Non ce la faceva a starci dietro. Così abbiamo detto basta. Tanto più che nel palazzo vivono dei professionisti. Vogliamo che qui vivano brave persone": così si è giustificata la padrona di casa, che evidentemente non conosce i dati sulla morosità negli affitti e sulle cause civili pendenti davanti ai tribunali, nella nostra sciagurata repubblica, tra locatori e locatari italiani. Vale anche per il titolare di un'agenzia immobiliare di Pordenone, che ha giustificato l'annuncio con questo ponderoso e pregnante ragionamento: "Purtroppo queste persone hanno ragione. Dispiace dirlo ma con gli stranieri ti va bene una volta su dieci. Noi abbiamo una cliente che ha affittato a degli albanesi: non solo non pagavano ma le hanno distrutto la casa. L'appartamento, 15mila euro di danni, ora è chiuso e i proprietari non vogliono più affittarlo. Ci sono poi quelli che non pagano l'affitto e le spese condominiali e non perchè non abbiano i soldi: è questione di mentalità. A fronte di queste esperienze abbiamo così clienti che ci dicono espressamente che non vogliono più affittare case agli immigrati ed è difficile dar loro torto".
Da "I Briganti": «i dintorni di Porta Palazzo a Torino, Porta Nuova, Corso V.Emanuele, erano tante Shanghai. In ogni topaia, una famiglia, in ogni soffitta un clan intero, e ogni palazzo a corte con i ballatoi interni, era spesso un intero paese meridionale. Gente spesso disprezzata, "non si affitta ai meridionali" dicevano i cartelli nelle case o gli annunci su "La Stampa". Qualcuno oltrepassò i limiti: in questo Natale 1961 e senza fare lo spiritoso scrisse nella sua vetrina: "Buon Natale ai piemontesi", e in un bar apparve anche "vietato l'ingresso ai cani e ai meridionali"......In principio, negli anni Sessanta, furono le grandi città del nord a dare l'"esempio": non si affitta a meridionali, scrivevano sugli annunci immobiliari. La prima emergenza immigrazione fu tutta nostra, interna, da sud a nord. Non c'era la Lega, ma c'era già qualcuno che la sostituiva egregiamente. Da qualche parte, proprio come a Roma, comparvero anche cartelli nei bar: "Vietato l'ingresso ai cani e ai meridionali". Il mondo torna sempre sui suoi balordi passi.
La testimonianza di di Erri De Luca. Verso la fine degli anni Settanta ho abitato a Torino, ospite di persone amiche. Facevo il mestiere più antico del mondo, per il genere maschile, l’operaio. Nel palazzo in cui abitavo, nei pressi della stazione, c’era all’ingresso un cartello: “Non si affitta a meridionali”. Era schietto e leale. In molti altri palazzi di Torino si affittavano a meridionali immigrati degli abbaini, dei sottoscala a prezzi da strozzini e sottobanco. Il posto letto di meridionali, d’Italia e del mondo, rendeva e rende bene. Mi era simpatico perciò il cartello. In quel palazzo si rinunciava al facile e losco guadagno. A furia di leggerlo mi sembrava rivolto ai piemontesi, vietando loro di sfruttare il bisogno dei meridionali. È un episodio di altra Italia, di quando era Repubblica fondata sul lavoro all’estero. Il Sud resisteva agli stenti con le rimesse degli emigrati che spedivano a casa valuta pregiata, monete più forti della debole lira. E quel denaro, frutto dell’avventura dell’espatrio, veniva speso, investito in Italia. Milioni di rimesse di emigranti sostenevano la bilancia dei pagamenti. Mentre i benestanti portavano a valigie i soldi in Svizzera, sabotando alla loro maniera la vita economica del nostro Paese. Era un’altra nazione quella che aveva per meridionale il Sud d’Italia.
Nessuno ha il coraggio di dire a Bindi che è razzista? Scrive Mimmo Gangemi il 22 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Per la presidente dell’Antimafia è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta, stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese. La Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, on. le Rosy Bindi, dichiara che è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta – «che ha condizionato e continua a condizionare l’economia» – stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese. Qua e là annota punti di vista di matrice abbastanza lombrosiana, che criminalizzano molto oltre i demeriti reali, aggiungono pregiudizio al pregiudizio, alimentano la fantasia assurda che quaggiù sia il Far West e una terra irredimibile, allontanano l’idea di una patria comune, distruggono i sogni dei nostri giovani su un futuro possibile. Io non sono in grado di escludere la presenza della ’ndrangheta – essa va dove fiuta i soldi o dove c’è, da parte di imprenditori locali, una richiesta sociale di ’ndrangheta, delle prestazioni in cui è altamente specializzata: i subappalti da spremere, il lavoro nero, la fornitura di inerti di dubbia provenienza, lo smaltimento dei rifiuti di cantiere, di quelli tossici o peggio, l’abbattimento violento dei costi, la pace sindacale per sì o per forza, la garanzia di controlli addomesticabili, e non con il sorriso. Ma, dopo aver controllato la cronaca delittuosa, non mi pare che compaia granché o che sia incisiva da dover indurre a tali spietate esternazioni. E non mi piace che tra le righe si colga l’insinuazione che il calabrese è, in diverse misure, colpevole di ’ ndrangheta – o di calabresità, che è l’identica cosa. Alludervi è anche disprezzare il bisogno che ha spinto tanto lontano i passi della speranza e gli immani sacrifici sopportati per tirarsi su. L’emigrazione in Valle d’Aosta è stata tra le più faticose e disperate. I primi giunsero nel 1924. E giunsero per fame. Lavorarono alla Cogne, nelle miniere di magnetite. E quelli di seconda e terza generazione hanno dimenticato le origini, sono ben inseriti e valdostani fino al midollo, pochi quelli che ricompaiono per una visita a San Giorgio Morgeto, nel Reggino, da dove partirono in massa. Più che ai “nostri” tanto discriminati, forse si dovrebbe guardare alle storie di ordinaria corruzione, non calabrese e non ’ ndranghetista, che nelle Procure di lì hanno fascicoli robusti. Detto questo, la on. le Bindi Rosy da Sinalunga – civile Toscana, non l’abbrutita Calabria – dovrebbe mettersi d’accordo con se stessa.
Chiarisco: alle ultime politiche, dopo che la sua candidatura traballò da ottavo grado della scala Richter e non ci fu regione disposta ad accoglierla, per sottrarsi alla rottamazione a costo zero ha dovuto riparare nell’abbrutita Calabria, che sarà tutta mafiosa ma sa essere anche generosa e salvatrice per chi, come lei, non intende rinunciare alla poltrona imbottita, con le molle ormai sbrindellate stante i decenni che le stuzzica poggiando il nobile deretano. È prona come si pretende da una colonia, la Calabria. In quell’occasione elettorale lo fu due volte, con la on. le Bindi e con un altro personaggio di cui l’Italia va fiera, tale Scilipoti Domenico, una bella accoppiata, entrambi eletti. La on. le fu prima con migliaia di voti nelle primarie PD del Reggino e, da capolista, ottenne l’entrata trionfale in Parlamento. Assecondando la sua ipotesi sulla Valle d’Aosta e sulla presenza ’ ndranghetista, diventa legittimo estendere a lei il suo stesso convincimento che, dove ci sono calabresi, per forza ci sono ’ndranghetisti. Quindi, essendo la Calabria piena di calabresi – questa, una perla di saggezza alla Max Catalano, in “Quelli della notte” – logica pretende che tra le sue migliaia di voti ci siano stati quelli degli ’ ndranghetisti, non si scappa.
Ne tragga le conseguenze. Oppure per lei, e per le Santa Maria Goretti in circolazione, l’equazione non vale e i voti ’ndranghetisti non puzzano e non infettano? Eh no, troppo comodo. Qua da noi persino il vago sospetto d’aver preso certi voti conduce a una incriminazione per 416 bis e spesso al carcere duro del 41 bis. Questo è. Forse però si è trattato di parole in libera uscita, di un blackout momentaneo del cervello. Se così, dovrebbe battersi il petto con una mazza ferrata, chiedere scusa ai calabresi onesti, che sono la stragrande maggioranza della popolazione, e fare penitenza magari davanti alla Madonna dagli occhi incerti nel Santuario di Polsi oltraggiato come ritrovo di ’ ndrangheta e invece da decenni diventato solo luogo di preghiera e di devozione. Ora mi aspetto l’indignazione dei calabresi. Temo che non ci sarà, a parte quella di qualche spirito libero – e incosciente, vista l’aria che tira. E stavolta dovrebbero invece, di più i nostri politici che, ahinoi, tacciono sempre, mai una voce che si alzi possente e riesca ad oltrepassare il Pollino. Coraggio, uno scatto d’orgoglio, tirate fuori la rabbia e gli attributi. Se non ci riuscite, almeno il mea culpa per aver miracolato una parlamentare che ripaga con acredine la terra che l’ha eletta e a cui, nell’euforia della rielezione piovuta dal cielo, aveva promesso attenzioni amorevoli.
Poi nei corsi e ricorsi storici ti accorgi che ci sono due pesi e due misure…
Incendi tra Piemonte e Lombardia. La situazione. Circa 3000 ettari interessati dalle fiamme, 5 incendi anche in Lombardia, scrive il 29 ottobre 2017 la Redazione di 3BMeteo. Stato d'emergenza in Piemonte a causa degli incendi incontrollati, che da giorni infiammano parte della Regione, devastando la vegetazione nella Città metropolitana di Torino e in provincia di Cuneo, oltre che in quelle di Biella e Novara; finora si parla di circa 3mila ettari interessati dalle fiamme. Bruciano le vallate ma è anche il fumo a preoccupare, che ha fatto salire negli ultimi giorni il livello delle polveri sottili di ben 7 volte il limite previsto, arrivando a toccare i 350 microgrammi su metro cubo su moltissime località del Torinese! In valle Orco, a poca distanza dal parco nazionale del Gran Paradiso, il fuoco è arrivato a lambire alcune frazioni e il sindaco invita gli abitanti a rimanere in casa. E' sempre vasto il fronte di fuoco anche in Valchiusella, un'altra vallata del Torinese, ed è ancora fuori controllo il rogo in Valle Varaita (Cuneo) che sta devastando il vallone di Bellino, incenerendo centinaia di ettari di boschi e pinete. Un altro fronte critico è in Valle di Stura, dove per il terzo giorno consecutivo è chiusa la statale 21 che porta al Colle della Maddalena, valico per la Francia. E' migliorata, invece, la situazione nel Pinerolese.
LOMBARDIA - Cinque diversi incendi nella giornata da sabato hanno iniziato a interessare anche la Lombardia, nei comuni di Varese, Tavernerio (Como), Forcola (Sondrio), Tremosine (Brescia) e Varzi (Pavia). Nei pressi di Varese sono state fatte evacuare 50 persone, dopo che l'incendio è avanzato velocemente lambendo anche alcune abitazioni nei pressi di Campo dei Fiori. A rischio anche il Monte Legnone, sopra Rasa di Varese, e le pendici che sovrastano il comune di Luvinate.
PREVISIONI - Purtroppo non si intravede un miglioramento significativo delle condizioni meteo, la pioggia non giungerà se non verso la fine della prima decade del nuovo mese e resta lo stato di massima allerta fino alla settimana entrante. Per di più il rinforzo della ventilazione favonica nelle valli occidentali nel corso di domenica non favorirà le operazioni di spegnimento, alimentando così le fiamme.
Piemonte devastato dagli incendi, Torino inquinata oltre i limiti. Emergenza in Val Susa, vigili del fuoco bloccati nella notte, scrive l'Ansa il 28 ottobre 2017. Il presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino, ha formalizzato la richiesta di stato di emergenza per gli incendi che da giorni devastano centinaia di ettari di vegetazione nella Città metropolitana di Torino e in provincia di Cuneo. Nella richiesta, indirizzata al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e al Capo Dipartimento della Protezione Civile Angelo Borrelli, si indica in "2 mila ettari" la superficie al momento percorsa dal fuoco. Bruciano senza sosta le vallate piemontesi e, con il fuoco, preoccupa il fumo che ha saturato anche l'aria di Torino, spingendosi fino alla Valle d'Aosta. Il capoluogo di Regione è da ieri sera avvolto dalla caligine e il livello delle 'polveri sottili' è salito, quattro volte oltre i limiti previsti, a 199 microgrammi per metro cubo, ha rilevato Arpa (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale). In Valle di Susa il forte vento in quota ha accerchiato all'alba, a Mompantero, una squadra dei Vigili del Fuoco, che sono state messe in salvo dopo un'ora. Il fronte di fuoco continua a spostarsi, rendendo difficile l'intervento dei soccorritori. In valle Orco, a poca distanza dal parco nazionale del Gran Paradiso, il fuoco è arrivato a lambire alcune frazioni e il sindaco invita gli abitanti a restare in casa, fino a quando non sarà cessata l'emergenza. L'Unione Montana ha convocato un "tavolo tecnico urgente" con Arpa, Asl To4, Aib (Antincendi boschivi), carabinieri e vigili del fuoco per valutare le condizioni di salubrità della zona. E' sempre vasto il fronte di fuoco anche in Valchiusella, un'altra vallata del Torinese, ed è ancora fuori controllo il rogo in Valle Varaita (Cuneo) che sta devastando il vallone di Bellino, incenerendo centinaia di ettari di boschi e pinete. Un altro fronte critico è in Valle di Stura, dove per il terzo giorno consecutivo è chiusa la statale 21 che porta al Colle della maddalena, valico per la Francia. Fiamme anche sulla collina torinese: i vigili del fuoco sono intervenuti nella notte per domare un incendio divampato a Pecetto, nella frazione San Luca. E' migliorata, invece, la situazione nel pinerolese: a Cantalupa è salvo il rifugio montano Casa Canada, per giorni minacciato da un vasto rogo. Per ora, gli incendi non avrebbero creato pericoli per la salute umana. "Le analisi effettuate permettono, al momento di escludere rischi - spiega l'assessore regionale alla Sanità, Antonio Saitta - occorre però rilevare che se, sulla base dei rilievi dell'ARPA, si evidenziassero pericoli, l'Asl To3 proporrà senza indugio ai sindaci gli interventi necessari". "Purtroppo, non si vede un miglioramento significativo delle condizioni e resta lo stato di massima allerta fino alla settimana entrante, una situazione che rende necessario mantenere la massima presenza di mezzi e persone". Lo ha affermato, a margine della giunta regionale, il presidente del Piemonte, Sergio Chiamparino: "Abbiamo formalizzato - rivela - la copertura finanziaria atta a mantenere questa massima presenza. Ed abbiamo formalizzato l'avvio della proceduta dello stato di calamità".
Incendi in Piemonte, trovati inneschi nel Torinese. I roghi continuano a devastare i boschi della Regione. Paura anche per il Parco del Gran Paradiso, minacciato dalle fiamme. E i vigili del fuoco trovano gli inneschi di alcuni roghi nella Valle Sangone, scrive il 28 ottobre 2017 “Il Corriere della Sera”. Mentre i roghi continuano a devastare i boschi del Piemonte, in Valle di Susa, nel Canavese e nella provincia di Cuneo, nella Valle Sangone sono stati trovati inneschi incendiari: alcuni hanno funzionato, altri no. Lo hanno rivelato i responsabili delle squadre di intervento, a Giaveno (Torino), dove è arrivato il presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino. Le indagini sono condotte dal nucleo investigativo dei carabinieri forestali.
Paura per il Parco del Gran Paradiso. Intanto l'allerta resta altissimo. Ill fumo acre rende ormai irrespirabile l'aria. Allarme a Torino, dove le polveri sottili superano di 7 volte la soglia massima. Paura per il Parco del Gran Paradiso, minacciato dalle fiamme. Molto ampi i roghi, che le squadre tentano di circoscrivere. Difficile l'uso dei Canadair per nubi, vento e fumo intenso. Solo le piogge potranno risolvere definitivamente la situazione, ma non sono previste prima di una settimana. In fiamme anche il parco regionale del Campo dei Fiori, nel Varesotto, e i boschi delle Alpi Orobie vicino Sondrio.
Chiamparino sui luoghi colpiti. «Pur con tutte le difficoltà del caso, la macchina dei soccorsi racconta di un pezzo d'Italia che funziona». Così su twitter il presidente di Regione Piemonte Sergio Chiamparino che ieri ha inviato al Governo la richiesta di stato di emergenza per le zone colpite dagli incendi boschivi. Oggi Chiamparino sta visitando alcune delle aree interessate dai roghi. Il sopralluogo è partito da Bussoleno, in Val Susa. Il presidente piemontese ha poi fatto il punto della situazione a Caprie, dove c'è un fronte ancora attivo. «Se ci fosse anche la mano dell'uomo si aggiungerebbe tragedia a tragedia», ha dichiarato in mattinata incontrando le autorità locali.
Incendi in Piemonte, trovati degli inneschi nel Pinerolese: "La prova che molti sono dolosi". Chiamparino in val Susa annuncia: "Chiesto lo stato di calamità", scrive Carlotta Rocci il 28 ottobre 2017 su "La Repubblica". E' sempre più concreta l'ipotesi che gran parte degli incendi che stanno devastando boschi e montagne del Piemonte sia di origine dolosa. Oggi infatti tra la Val Sangone e Pinerolese sono stati trovati inneschi che non hanno funzionato. Per questo i 44 militari che sono stati inviati nelle aree a rischio sono stati concentrati in quella zona. I roghi sul Piemonte ad oggi sono 21, 12 i più gravi. In 18 giorni da quando è stata dichiarata la massima allerta incendi sono partiti 135 incendi. Il presidente della Regione Sergio Chiamparino oggi sta facendo un sopralluogo in Valsusa e prima di incontrare i sindaci dei paesi toccati dall'incendio ha annunciato di aver chiesto al governo che sia proclamato lo stato di calamità per le aree colpite dal fuoco. La ricognizione di Chiamparino che è accompagnato dall'assessore Alberto Valmaggia, era iniziata dalla borgata del Seghino e dalle altre zone dove ieri la situazione era più critica in valle Susa. Poi il presidente è andato a Bussoleno nella sede della polizia municipale dove è stato aperto il Coc, comitato operativo comunale per l'emergenza. Qui ha incontrato i sindaci di Bussoleno Anna Allasio, di Mompantero Piera Favro e di Susa Sandro Plano. "Voglio ringraziare tutti quelli che stanno lavorando su questa emergenza, il lavoro dei volontari è fondamentale - ha detto Chiamparino- Noi abbiamo fatto quello che potevamo, dando copertura finanziaria illimitata per far volare i mezzi aerei". Dopo la tappa di Bussoleno il presidente proseguirà per Caprie, Rubiana, Giaveno. Chiamparino ha poi aggiunto: "L'allarme non è finito e durerà fino alla prossima settimana. Ora la situazione è sotto controllo, in Val di Susa e nel cuneese dove è entrato in funzione un secondo elicottero Ericson. Il fuoco è arrivato a lambire le case ma nel complesso i danni per il momento e per fortuna sono limitate ai boschi. Nel complesso possiamo dire che il sistema che ha governato il sistema antincendio è un pezzo di Italia che funziona".
Incendi in Piemonte, il sindaco di Sambuco: "Soccorsi in ritardo, mi dimetto". Il paesino del Cuneese è circondato dalle fiamme e il primo cittadino lascia la carica in polemica, scrive il 27 ottobre 2017 "La Repubblica". La Valle Stura è in fiamme, i soccorsi sono arrivati in ritardo, così il sindaco di Sambuco, nel Cuneese, ha deciso di dimettersi. "C'è stato un ritardo oggettivo nell'intervento degli elicotteri. L'incendio è scoppiato nel pomeriggio di giovedì, ma i mezzi aerei sono arrivati solamente venerdì a mezzogiorno", denuncia di Giovanni Battista Fossati, che conferma all'Ansa i motivi del suo passo indietro. "I Vigili del Fuoco, i volontari dell'Aib (Antincendio boschivo) e le forze dell'ordine sono state eccezionali - precisa Fossati -, ma c'è stata una disfunzione da parte di chi ha deciso. Ci vuole una revisione della macchina". Fossati è stato per la prima volta vicesindaco di Sambuco nel 1967 ed ha oltre cinquant'anni di esperienza amministrativa. Tra le ragioni delle dimissioni, che arrivano a soli quattro mesi dal voto, secondo indiscrezioni ci sarebbe anche la mancata approvazione da parte del Consiglio comunale della sua proposta di costituire il Comune parte civile per i gravi danni ambientali causati dall'incendio.
La denuncia degli animalisti Incendi in Piemonte, la denuncia degli animalisti: "I cacciatori sparano agli animali in fuga dalle fiamme". E chiedono la sospensione della stagione venatoria. I carabinieri però: "Non ci risulta", scrive Jacopo Ricca il 28 ottobre 2017 su "La Repubblica". I roghi in Piemonte accendono la polemica tra animalisti e cacciatori che, secondo quanto denunciato dalla Lipu-BirdLife Italia, sfruttano gli incendi per sparare agli animali in fuga dalle fiamme. Gli attivisti della Lega protezione uccelli chiedono lo stop alla stagione venatoria: "Siamo preoccupati per la grave situazione che si è creata nella regione. Gli incendi che divampano nelle vallate piemontesi da una settimana stanno mettendo a dura prova boschi ed ecosistemi montani, già messi in crisi dalla perdurante mancanza di precipitazioni - attaccano gli animalisti - Roghi quasi sempre di origine dolosa, favoriti dalla perdurante siccità e dal vento dei giorni scorsi. Cui si aggiunge un fatto gravissimo: cacciatori che aspettano la fauna in fuga per sparargli”. Questi episodi non sono stati registrati dalle forze dell'ordine, ai carabinieri che in questi giorni stanno indagando sui roghi e monitorando le aree interessate non risultano al momento queste attività venatorie al limite dell'assurdo, ma il consigliere della Lipu, Riccardo Ferrari, insiste: "La fauna messa in fuga dalle fiamme e nel fumo trova le doppiette di cacciatori scellerati che approfittano degli spostamenti degli animali terrorizzati per fare carneficine - spiega - Le aree percorse da incendi e le zone limitrofe devono essere tutelate in modo più rigido contro la scriteriata voglia di uccidere di pochi che mettono oltretutto a rischio l'incolumità del personale che opera per contrastare gli incendi". Dalla Lega italiana protezione uccelli arriva anche un ringraziamento ai vigili del fuoco e ai volontari Aib (Anti incendi boschivi): "Ancor più in questo momento in cui l'accorpamento del Corpo Forestale con i Carabinieri, appena realizzato ma che ancora stenta ad essere pienamente operativo, non aiuta certo le azioni di salvaguardia del patrimonio naturale delle nostre valli, vero scrigno di biodiversità e preziosa eredità che stiamo sempre più mettendo a repentaglio”. Dagli animalisti lancia un appello alle autorità: "Chiediamo all'amministrazione regionale di mettere in atto i provvedimenti necessari a tutelare la fauna selvatica e gli ambienti naturali, sospendendo la stagione venatoria - conclude Ferrari - Già non avrebbe neppure dovuto essere aperta date le condizioni di stress ambientale che perdurano da ormai tutta l'estate”.
Sprechi e abbandono: l’emergenza incendi in Piemonte non è solo colpa della siccità. Così l’uomo sta facilitando i criminali del fuoco, scrive Mario Tozzi il 28/10/2017 su “La Stampa”. Sappiamo che le condizioni meteorologiche particolari di questo ottobre 2017 hanno contribuito in maniera fondamentale al ripetersi e al propagarsi degli incendi. E ormai conosciamo il ruolo cruciale che il cambiamento climatico gioca nell’innescare e far perdurare condizioni favorevoli ai roghi. Ma, se vogliamo comprendere le ragioni di questo fenomeno, che sta rovinando il Piemonte e che rischia di interessare tutta Italia, conviene scendere a terra, e magari anche sotto. Se è ormai chiaro che la drammatica diminuzione delle precipitazioni provoca la siccità superficiale, bisogna tener conto di un’altra siccità, ben più grave: quella delle falde sotterranee, le vere spugne geologiche da cui dipende la salute degli ecosistemi vegetali e animali. Una falda depauperata o depressa sotto i suoi limiti di ricarica usuali rende più secchi boschi e pianure e appassisce complessivamente il verde su tutto il territorio. E qui non conta più soltanto la mancanza di piogge, ma anche il consumo esagerato e lo spreco di acqua. Uno spreco le cui basi non si pongono solo nella stagione estiva torrida, bensì soprattutto in quelle precedenti, magari durante gli inverni in cui cade pochissima neve. Per ragioni esclusivamente di profitto, l’acqua dolce viene riconvertita in neve artificiale a ritmi che incrementano il ricorso ulteriore ai cannoni sparaneve, visto che continua a non nevicare, in un drammatico circolo vizioso che non si riesce né a risolvere né a spezzare. Tantomeno con la richiesta di uno stato di emergenza che non dovrebbe essere incoraggiata, se non quando tutto il possibile non fosse stato fatto in termini di previsione e sorveglianza. Una volta poi che l’incendio viene appiccato, può accadere che il vento aggiunga problematiche, ma è sempre a terra che le situazioni diventano critiche e precipitano. In condizioni naturali gli incendi sono fenomeni inevitabili che rinnovano paesaggio e flora. Si estinguono da soli e vengono alla fine riassorbiti da ecosistemi sani che così si rigenerano. Ma da quando gli uomini abitano stabilmente la Penisola gli incendi spontanei non si propagano più e l’autocombustione è diventata un fenomeno di fantasia: quasi tutti gli incedi sono dolosi (raramente colposi). Per questa ragione sono più pericolosi: sono diventati meno prevedibili e vengono appiccati quando l’attenzione è bassa, rispondendo a strategie speculative la cui soppressione sarebbe l’unico modo per fermare il fuoco. Su questo contesto artificialmente compromesso influisce in maniera negativa la situazione delle nostre campagne e montagne, cambiate radicalmente nel corso di questi ultimi cinquant’anni. Il sottobosco non ripulito con attenzione costituisce un’esca fantastica, così come gli eventuali accumuli di tronchi e legname abbandonato. Non vengono più intagliate le fasce tagliafuoco che, almeno, servivano a evitare la propagazione degli incendi. Senza piogge ogni ceppo è diventato potenzialmente un focolaio. Il meteo locale fa il resto. Ma non è problematica che si possa risolvere dal cielo. Si discute molto delle difficoltà di manovra dei Canadair in condizioni critiche di visibilità, ma ci si dimentica di sottolineare che quando si ricorre all’aiuto aereo, la battaglia contro gli incendi è già persa. Quella battaglia va combattuta, se possibile prima, a terra, contrastando gli inneschi e controllando le possibilità di espansione delle fiamme. Anche se le leggi vietano di costruire nelle zone incendiate, non è facile ricostruire il perimetro dei boschi una volta che sono stati inceneriti ed è così comunque più facile costruire o chiedere di farlo in aree che non presentano più, evidentemente, il pregio che la foresta gli conferiva. I parchi naturali, visti come un vincolo alle ansie costruttive o di sfruttamento turistico, sono poi il secondo motivo di attacco con il fuoco, con l’aggravante che si tratta in molti casi di foreste primigenie, che si ricostituiscono solo in secoli. Una perimetrazione accurata dei boschi, il catasto obbligatorio delle aree incendiate, il divieto assoluto di ricostruire nelle aree bruciate e la sorveglianza satellitare nelle aree protette possono ridurre il rischio, a patto di trovare e perseguire i criminali del fuoco, unico deterrente che sembra funzionare davvero.
Continua a bruciare il Piemonte. Per Libero, “Si stanno bruciando da soli…”? Continuano gli incendi in Piemonte. Evacuate sessanta persone nella Val di Susa. Il Parco del Gran Paradiso in pericolo. Cosa dirà ora Libero? Scrive Rosario Scarcelli il 29 ottobre 2017 su "Napoli più". Continua a bruciare il Piemonte. Nella Val di Susa (dove sono state evacuate sessanta persone), nel Canavese, e nella Valle Sangone, sono stati trovati inneschi incendiari. Alcuni hanno funzionato e alcuni no. Il fumo acre, rende l’aria irrespirabile, e c’è paura pure per il Parco del Gran Paradiso, dopo che le fiamme hanno già devastato il parco regionale del Campo dei Fiori, e i boschi delle Alpi Orobie nei pressi di Sondrio. Una situazione difficile da gestire, anche perchè le ultime raffiche di vento, non stanno di certo, dando una mano. Sembra di rivivere l’inferno vesuviano, quello che abbiamo assistito tristemente l’ultima estate. Difficile dimenticare il sarcasmo italiota. Tutto racchiuso in quella vergognosa prima pagina di Libero dal titolo “Si bruciano da soli”, e le solite marachelle nordiche che già tutti conosciamo. Che dire. La ruota quando gira, è impietosa e non si ferma di fronte a niente. Ricordo pure il giusto disgusto (provammo lo stesso anche noi) quando trapelò la notizia che per gli incendi vesuviani si faceva uso di animali, quali gatti e cani randagi come innesco. Lo stesso sta capitando in Piemonte. Oddio la storia non è proprio la stessa, ma racconta di cacciatori che aspettano al varco gli animali che scappano stremati dalle fiamme, per poi ammazzarli. Insomma, fa schifo lo stesso, non c’è che dire. Ma sicuramente questi cacciatori si chiameranno Gennaro Esposito detto ‘à carogna’, e Ciruzzo ‘ò malomm’. Altrimenti non si spiega tanta atrocità. Vero? Che sia chiaro, tutto ciò è di grande dispiacere, perchè sta andando in rovina un patrimonio paesaggistico del nostro paese dal valore inestimabile, così come per noi resta il nostro Vesuvio. Ma il tutto è per far capire che l’uomo, quello di sani principi, non può farci nulla di fronte a certi avvenimenti, o a certi sistemi. Che questo sia napoletano o piemontese. Sperando che il tutto possa risolversi per il meglio e quanto prima.
Le ultime parole famose…razziste. "Guardatevi allo specchio e poi sputatevi": Feltri, lo schiaffo a (certi) napoletani, scrive il 13 Luglio 2017 "Libero Quotidiano". Il Vesuvio è in fiamme. Chi ha appiccato il fuoco? Persone del posto, ovviamente, criminali che nessuno ha ostacolato e dei quali non si scoprirà mai l'identità per un motivo banale: essi agiscono grazie a una rete di complici che pascolano nella malavita locale, attiva più che mai, e sono al servizio di boss potenti. Lo stesso fenomeno si registra in Sicilia dove non c' è verso di scoprire né gli autori materiali degli incendi né i loro mandanti, i quali non agiscono a capocchia, ma sono mossi da loschi interessi. Di fronte al fuoco che si propaga a grande velocità e su vasti territori, la maggior parte dei cittadini punta il dito accusatore sullo Stato, dice che l'autorità è inesistente, assente. Non c' è anima che si chieda cosa facciano le migliaia di guardie forestali, pagate dalla pubblica amministrazione, per sorvegliare le zone loro affidate ed evitare che siano incenerite. Il sospetto, anzi la certezza, è che si grattino il ventre e non svolgano neanche distrattamente i compiti loro assegnati in cambio di una buona retribuzione. Secondo la vulgata meridionale la colpa di ogni sfacelo è sempre del mitico Stato, quasi che questo fosse una divinità demiurgica. In realtà lo Stato che manifesta le proprie forze, o debolezze, a Napoli o a Palermo, è lo stesso presente a Pordenone e a Conegliano Veneto, per altro incarnato prevalentemente da funzionari del Mezzogiorno emigrati per questioni alimentari, i quali se al Nord sono efficienti significa che non sono stupidi e indolenti. Se sono bravi quassù perché laggiú sono asini? Evidentemente il problema nasce dal condizionamento ambientale. Non c' entra l'antropologia, bensì la sociologia. La gente del Mezzogiorno è più portata a collaborare con i delinquenti, temuti e venerati, che non con le Forze dell'ordine, poco rispettate. Infatti i meridionali che vivono a Milano sono diventati più milanesi dei milanesi, si sono perfettamente inseriti e sono i primi a comportarsi osservando le regole. Parecchi di quelli rimasti in Terronia, invece, influenzati dalla comunità storta in cui campano, ne adottano le cattive abitudini e sono guai. I peggiori di essi sono addirittura piromani e danneggiano i compaesani. Avranno la loro bella convenienza. E allora è inutile e ridicolo che il sindaco di Napoli quereli Libero perché analizza i costumi partenopei senza ipocrisia, focalizzandone i difetti maggiori. Qui non c' entra il razzismo e altre simili stupidaggini. Si tratta soltanto di prendere atto di ciò che è sotto gli occhi di chiunque ne abbia due aperti. Il disastro del Vesuvio, dove non è sorto un edificio che non sia abusivo (complimenti alle amministrazioni cieche), non é stato provocato da calamità naturali: i napoletani - non tutti per carità - si sono bruciati da sé. Si guardino allo specchio e sputino. Non sbagliano bersaglio. Di Vittorio Feltri
La leggenda assurda della mafia che incendia i boschi e i monti, scrive Alberto Cisterna il 27 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Sia chiaro uno può anche sbagliare. Ma ad occhio e croce saranno vent’anni che circola la storia che ad incendiare i boschi ed a devastare le colline della Calabria, della Sicilia o della Campania siano ndrangheta, mafia e camorra. La leggenda assurda della mafia che incendia i boschi e i monti. Tuttavia, a memoria, non ci si ricorda di uomini delle cosche che siano stati arrestati e men che meno condannati per barbarie del genere. Non è un’esclusiva della Calabria dove la tesi circola da maggiore tempo. In Sicilia e in Campania si sentono le stesse cose da altrettanti anni. Tra squinternati, giovinastri, villeggianti incauti, pastori in cerca di pascoli, vigili del fuoco esaltati, il panorama (il bestiario) degli incendiari è composito e multiforme, ma di mafiosi non si vede neanche l’ombra. La qualcosa, alla lunga, non può restare priva di ricadute. O gli inquirenti sono degli inetti che non riescono a venire a capo della questione oppure, in genere, le mafie non c’entrano nulla. E poiché occorre scartare la prima ipotesi, tenuto conto del livello delle forze antimafia nel paese, la seconda prospettiva comincia a prendere piede in modo sostanziale. Non è una questione da poco. Un conto è teorizzare una strategia mafiosa volta a depredare e deturpare il territorio, altro è dare la caccia ai portatori di microinteressi e microbisogni, quando non a dei veri e propri teppisti e mascalzoni. Si tratta di adottare strategie del tutto diverse, ricorrere a strumenti investigativi completamente nuovi. Ad esempio qualche drone gioverebbe più di cento intercettazioni. Nel frattempo, invece, è tutto un teorizzare, ipotizzare, allarmare in vista di tenebrose trame mafiose che, alla fine, è il caso di dire, risultano fumose e prive di riscontri. D’altronde bruciano la California, la Spagna, la Francia, la Grecia, il Portogallo, ed in modo anche più devastante che in Italia, e nessuno si azzarda a lanciare l’idea che le mafie italiane, espandendosi per il mondo, si siano messe a dar fuoco alle foreste di mezzo globo come se fossero in Aspromonte. E’ all’incirca una sciocchezza e, come tutte, le superstizioni ha una matrice tutta italica. Il sillogismo è semplice: la mafia controlla il territorio in modo capillare, il territorio brucia, la mafia incendia il territorio. Naturalmente, come tutte le aberrazioni logiche, anche questa parte da un postulato opinabile, anzi da due. Non è più vero, e per fortuna da un paio di decenni, che le mafie controllino il territorio in modo così asfissiante e meticoloso, come in passato. Hanno strategie ed obiettivi diversi e il controllo è costoso e poco redditizio ormai. In secondo luogo il fatto che i boschi brucino non realizza alcun evidente interesse delle mafie che, difatti, nessuno indica con un minimo di precisione. Piuttosto, per molti decenni, i più importanti esponenti della ndrangheta amavano essere additati come i «re della montagna». Si facevano chiamare così i più pericolosi ras della ndrangheta reggina, tutti direttamente impegnati nell’industria boschiva che ha costituito, almeno nella Calabria aspromontana, la prima forma di imprenditoria mafiosa. Dalla montagna e dal suo controllo la ndrangheta ha ricavato vantaggi enormi, si pensi soltanto alla stagione dei sequestri di persona e alle fasi iniziali dello stoccaggio della cocaina. In montagna, in fosse scavate nel terreno, la ndrangheta ci nascondeva persino il denaro. E poi è vero o no che i picciotti hanno invocato per decenni la protezione della Madonna della Montagna a Polsi? Basterebbe rileggere con attenzione il capolavoro di Gioacchino Criaco, Anime nere, per rendersi conto di quale rapporto ancestrale, interiore, anzi intimo leghi la gente di ‘ndrangheta (come tanti calabresi perbene) alla montagna e sbarazzarsi, così, di una certa allure che nasconde, da qualche tempo, le proprie inefficienze dietro lo spettro di una mafia purtroppo, a suo dire, imbattibile. Sia chiaro, non si sono mai viste neppure coppole iscritte al WWF o versare contributi ad Italia Nostra, ma qui parliamo di interessi, di denaro, di progetti di egemonia che dovrebbero indurre i boss ad appiccare incendi qui e là in giro per il Mezzogiorno d’Italia. Tra parecchie dozzine di pentiti e decine di migliaia di intercettazioni, che nulla raccontano in proposito, gli unici a farsi beccare al telefono a parlare di fuoco e fiamme sono stati i vigili volontari di Ragusa per intascare dieci euro l’ora. Siccome la storia prosegue, come detto, da troppo tempo è forse giunta l’ora di chiedere le prove a chi sostiene cose del genere. La pubblica opinione è ormai alluvionata dai “ragionamenti” degli inquirenti, avrebbe diritto anche alla dimostrazione di ciò che si sostiene. Se davvero ci fossero le cosche dietro la distruzione piromane sarebbe un fatto gravissimo, un vero e proprio attentato alla Repubblica. Un atto di guerra e, come ricordava Georges Benjamin Clemenceau, «La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai militari», figuriamoci ad altri.
Referendum autonomia, Vittorio Feltri l'Ottobre 2017 su "Libero Quotidiano": non diamo i nostri soldi a quelli che li spendono male. Il referendum che si voterà in ottobre circa l’autonomia delle regioni Veneto e Lombardia non viene pubblicizzato a dovere poiché infastidisce il potere centrale e il Mezzogiorno. I quali temono di perdere la tetta da cui succhiare risorse. È noto che il Nord produca più del Sud e mandi a Roma la quasi totalità dei proventi fiscali locali, che poi servono ad alimentare le casse dello Stato, incline a sprecare capitali a scopi elettoralistici. La novità consiste nel fatto che i lombardi e i veneti ne hanno piene le scatole di versare denaro a chi non è in grado di utilizzarlo convenientemente. Lavorare per gli altri che non lavorano affatto non è piacevole. Ecco perché i governatori Maroni e Zaia si sono impegnati legittimamente in questo plebiscito consultivo: si tratta di accertare se gli abitanti delle zone ad alta densità industriale vogliono o no amministrarsi in proprio, trattenendo sul territorio una quantità maggiore, rispetto ad oggi, dei loro quattrini sudati. Dove sia lo scandalo della iniziativa non sappiamo. La contrarietà da taluni manifestata a questo sano progetto si spiega soltanto col desiderio di negare a Milano e a Venezia il diritto di amministrare i loro beni in favore dei propri cittadini. Durante una trasmissione televisiva imperniata sul tema dell’autonomia, il direttore del Messaggero di Roma, Virman Cusenza, si è espresso contro il referendum senza una ragione plausibile. Egli infatti è siciliano, e di ciò almeno noi non abbiamo colpa, quindi di una regione che della autonomia ha fatto pessimo uso. Ebbene con quale faccia egli vieta alla Lombardia di avere le stesse facoltà gestionali di cui gode (inutilmente, per cronica inettitudine) la Sicilia? La quale, se fa schifo, non è responsabilità dei lombardi bensì dei concittadini di Cusenza. In Italia le regioni autonome sono cinque. Perché non averne sei o sette? Sul punto il direttore del Messaggero, come tutti i meridionali, tace o tergiversa. In silenzio stanno anche i giornaloni nazionali e le tivù più importanti. Gli addetti alla informazione sono quasi tutti terroni e terrorizzati alla idea che Lombardia e Veneto cessino di versare palanche sotto il Po. La questione è molto semplice. Ciascuno è obbligato a vivere del suo, come si diceva una volta. Nessuno impedisce al Mezzogiorno di creare imprese, posti di lavoro e ricchezza. Le popolazioni meridionali utilizzino i finanziamenti statali per realizzare infrastrutture, cioè le basi per incrementare l’economia. Non si illudano di campare in eterno alle spalle degli odiati nordici, che sono stanchi di essere sfruttati quali bancomat. Il mese prossimo lombardi e veneti pertanto voteranno sì al referendum per essere padroni del loro portafogli. Non c’è nulla di ideologico né di razzistico nella ricerca della autonomia, solo l’esigenza di essere uguali alla Sicilia e di dimostrare ad essa che tale autonomia si può sfruttare per crescere e non per sprofondare in un mare di debiti palermitani. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 16.03.2017. Da oltre mezzo secolo ascolto discorsi e leggo articoli che auspicano la crescita del Mezzogiorno. I politici meridionali in particolare predicano in continuazione che è necessario investire al Sud per migliorare le condizioni generali del Paese. Belle parole, ma soltanto parole. Fatti concreti se ne sono visti pochi, se si escludono vari foraggiamenti a pioggia distribuiti nelle regioni più disastrate dello Stivale, denaro non utilizzato poi per creare infrastrutture, bensì per arricchire mafie e oligarchie. Cosicché il divario tra il ricco Nord e il resto della penisola non è mai stato colmato. E oggi siamo ancora qui a blaterare sul modo per aiutare i terroni (senza offesa) a essere un po' meno terroni. I soliti pistolotti vacui, la solita retorica inconcludente. Risultato, la spaccatura tra le due Italie è sempre più profonda. Quando si dice che la politica è incapace di fare progetti e di realizzarli ci si attiene al realismo più crudo. Oltretutto, le cose non migliorano neanche per forza di inerzia, ma peggiorano. Per risollevare la Calabria e la Sicilia, prima Berlusconi e dopo Renzi si erano messi in testa di costruire il ponte sullo stretto di Messina. Una idea del cavolo ma comunque un'idea. Ovviamente abortita per motivi che è inutile elencare tutti, basta citarne uno: mancavano i soldi.
Ci domandiamo come immaginassero, sia Silvio sia Matteo, di trovare il grano necessario per legare col cemento l'isola alla penisola. Mistero. Sorvoliamo sulle velleità infantili dei due ex premier e veniamo alla più stringente attualità. I deficienti che amministrano la nostra vituperata nazione, per dare una mano ai fratelli calabresi hanno deciso di chiudere l'Aeroporto di Reggio. Perché non rende alle compagnie che gestiscono i voli, che pertanto si rifiutano di seguitare a decollare e ad atterrare nel suddetto scalo. Da giugno in poi i reggini che desidereranno venire a Milano e poi tornare nella loro città saranno costretti a usare mezzi diversi dal jet: il treno (non quello ad alta velocità che laggiù non c'è), l'automobile o la carrozza di San Francesco, cioè i sandali. Vi rendete conto, cari lettori, che avanti di questo passo il Mezzogiorno precipiterà a livelli africani?
Vi pare una mossa intelligente sopprimere l'aeroporto nel capoluogo di una regione che non dispone di altre infrastrutture, visto che l'autostrada è un sentiero accidentato e la ferrovia è ottocentesca? Dato che il ponte tra Scilla e Cariddi non si può erigere, per compensare il buco togliamo anche l'aerostazione e che i reggini vadano a fare in culo, loro, la 'Ndrangheta e la 'nduja. Il ragionamento cretino prosegue. La Calabria ha una sola risorsa importante, il turismo, e noi ci attrezziamo per ucciderlo abbattendo gli aerei perché costano di più di quanto ricavano. Ecco come i nostri meridionalisti del piffero intendono incrementare l'economia del Sud. Non sanno poveri idioti che i trasporti sono un servizio oneroso, questo è pacifico, ma indispensabile per creare giri di affari e quindi ricchezza. Hanno condannato a morte la regione e ne piangono la salma. Sono scemi o delinquenti? Entrambe le cose. Ai calabresi tocca soltanto l'incombenza di ospitare e assistere profughi portatori di miseria, malattie e problemi sociali. E ci stupiamo che essi preferiscano la mafia allo Stato.
“I meridionali? Altro che cultura, hanno esportato solo mafia e pidocchi”, scrive il 9 dicembre 2014 Francesco Pipitone su "Vesuvio Live". In occasione delle elezioni europee dello scorso maggio Matteo Salvini e la sua Lega Nord hanno trovato il conquistato qualche decina di migliaia di voti al Sud: 43.180 nella circoscrizione meridionale, equivalente allo 0,75% dei voti; 15.235 voti in Campania, lo 0,66% del totale. Numeri piccoli, ma da non trascurare a causa dell’astensionismo e della capacità dei leghisti di far leva sugli istinti bassi delle persone, sull’intolleranza, sull’ignoranza, fattori che potrebbero determinare un aumento dei consensi per Salvini, specialmente se costui sarà messo a capo di una coalizione di “destra” sostenuta, tra gli altri, da Silvio Berlusconi, il quale ha già fatto sapere che intende elevare il segretario della Lega al rango di goleador. Grazie al potere mediatico di Berlusconi, prima che politico ed economico, ci dobbiamo insomma aspettare una rilevante presenza di Matteo Salvini in Televisione e sui giornali, dove avrà l’occasione di riferire le proprie sciocchezze atte a raggirare i poveri cristi che, pur avendo la memoria corta e capendo poco dei fatti della politica, intendono esercitare lo stesso il proprio diritto di voto: la Lega Nord incrementerà il proprio consenso al Sud, e troppo se non stiamo attenti e non creiamo un’alternativa a questi individui che da 154 anni stanno succhiando il sangue del Mezzogiorno. Non dobbiamo dimenticare i decenni di razzismo praticati dal Nord a discapito del Sud, non dobbiamo dimenticare che ci hanno chiamato e continuano a chiamarci scimmie, marocchini (in senso dispregiativo), terroni, colerosi, mafiosi, pidocchiosi, ladri, assassini, scansafatiche e tutto il resto. Milioni di persone hanno abbandonato la propria casa, la moglie e i figli per andare a produrre al Nord, il quale ha guadagnato con il lavoro degli emigrati del Sud, che vivevano peggio delle bestie in stanze piccolissime e affollate, tenuti alla larga dai signori “perbene” come fossero appestati. “Non si affitta ai meridionali”, questa è l’accoglienza dei nostri fratelli italiani. Su questi sentimenti la Lega Nord ha edificato la propria forza, per poi vedere un crollo dei consensi dopo due decenni in cui non ha fatto niente a parte rubare, e lo dimostrano gli scandali che hanno coinvolto gli uomini di punta del partito del Nord, compreso il fondatore Umberto Bossi che usava i soldi pubblici per pagare il proprio lusso. Nel video seguente potete ascoltare la registrazione di qualche telefonata degli ascoltatori all’emittente Radio Padania Libera, dove emergono il razzismo e il ribrezzo verso i “terroni”, ignoranti e nullafacenti, che hanno rubato il lavoro e esportato solamente la mafia e i pidocchi. Questa è la Lega Nord, votatela.
Da quel pulpito non può venire altro che quella predica…
Referendum, Berlusconi: "Soddisfatto, non è contro lʼUnità nazionale". "Se Veneto e Lombardia crescono ne guadagna il Paese intero", scrive il 23 ottobre 2017 TGcom 24. Silvio Berlusconi si dice "soddisfatto per il risultato dei referendum della Lombardia e del Veneto, che abbiamo sostenuto con convinzione e con impegno attivo". Secondo il leader di Forza Italia, "era giusto consentire ai cittadini di esprimersi, ed ora è necessario che da questo voto nasca un processo di riforma federalista, che avvicini le scelte di governo alla gente. Non è un risultato che va contro l'unità nazionale, che per noi è sacra". "L'unità nazionale è sacra", dice Berlusconi che aggiunge: "Sono convinto che se Lombardia e Veneto potranno crescere più velocemente, tutto il paese ne guadagnerà". Per il leader di Forza Italia, in una nota. "Il principio di sussidiarietà, quello secondo il quale il pubblico non deve fare ciò che può fare il privato, e nel pubblico le decisioni vanno prese al livello più vicino possibile ai cittadini, è da sempre al centro dei nostri programmi. Gli elettori del Veneto e della Lombardia hanno dimostrato di condividerlo - prosegue Berlusconi -. Ora comincia una fase nuova: credo che toccherà a noi, quando torneremo alla guida del paese dopo le elezioni, dare compiuta attuazione a una riforma che potrà riguardare tutte le regioni italiane".
Autonomia Veneto, Berlusconi: "Sì convinto, non è contro unità", scrive il 13 ottobre 2017 "TgCom24". Il referendum "non ha ovviamente nulla in comune con le drammatiche notizie che ci vengono dalla Catalogna". "Se il Veneto deve tornare ad essere una delle locomotive d'Italia, ha bisogno di istituzioni che siano in grado di supportare e non ostacolare il lavoro dei veneti. Per questo voteremo 'sì' con grande convinzione al referendum di domenica 22". Lo ha detto il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, precisando che il referendum per l'autonomia "non è contro l'unità nazionale, anzi: un Veneto più libero e avanzato è un vantaggio per l'Italia intera". "Non ha ovviamente nulla in comune con le drammatiche notizie che ci vengono dalla Catalogna - prosegue Berlusconi -. Quello Veneto è un referendum per affermare il principio di sussidiarietà, che è nel nostro programma fin dal 1994.
Berlusconi e le uscite razziste, scrive l'11 ottobre 2016 "Lettera 43". «Una che va con un negro mi fa schifo», disse B riferito a Fico e Balotelli. Ma non è stato un caso isolato. «Che poi, te lo dico, a me una che va con un negro mi fa schifo». No, non è l'ennesimo video rubato di Donald Trump. Arcore, Villa San Martino. Silvio Berlusconi sta parlando amabilmente nel suo salotto con Marysthelle Polanco e altre due ragazze della relazione tra Roberta Fico e Mario Balotelli. «Raffaella Fico…Raffaella…», dice la showgirl domenicana al Cav che le risponde, ignorando di essere ripreso: «A me una che va con un negro mi fa schifo».
«PAPI, ANCHE IO SONO NEGRA». Polanco a quel punto fa notare al gentile e generoso ospite che in fondo anche lei proprio caucasica non è. «Papi, ma io sono negra!». «No tesoro», risponde lui sorridendo, «lascia stare, tu sei abbronzata». Con Polanco quel giorno ad Arcore c'erano anche altre due ragazze accorse per chiedere all'ex premier un posticino in televisione. Come la Fico, oppure come «quella di Sipario» o come Emilio Fede. «Devi chiamare e dire: lui non fa più il direttore, lo faccio io il direttore del Tg4», scherza Polanco che per inciso era l'olgettina che durante i dopocena eleganti raccontò di essersi travestita anche da Ilda Boccassini.
L'INCHIESTA RUBY TER. Il video di 27 minuti, il cui contenuto è stato reso pubblico da Giustiziami, è stato depositato agli avvocati dalla Procura di Milano e proviene dalla rogatoria Svizzera condotta nell’ambito dell’inchiesta Ruby ter. «Abbronzato, bello e giovane» per il Cav era pure Barack Obama. Una dichiarazione del 2008 che fece scoppiare una bufera. Non è stato però l'unico scivolone a sfondo razzista di Berlusconi.
OSSESSIONE BALOTELLI. Il 21 febbraio scorso, festeggiando a Milanello i suoi 30 anni di Milan, era tornato su Balotelli «che è italiano, ma ha preso un po' troppo sole». Quella del calciatore bresciano pare essere una ossessione di famiglia visto che a febbraio 2013 a cadere in fallo era stato pure Paolo. «E adesso», chiuse un suo intervento durante la campagna elettorale il fratello dell'ex premier, «andiamo a vedere come se la cava il negretto di famiglia, la testa calda». Il meglio di sé B. però lo diede nel giugno 2009.
«MILANO? UNA CITTÀ AFRICANA». «Non posso accettare che quando circoliamo nelle nostre città ci sembra di essere, e mi è capitato nel centro di Milano, in una città africana e non in una città europea per il numero di stranieri che ci sono». Città africana nella quale però una giovane marocchina fermata in questura venne fatta rimettere in libertà su pressione di B perché «nipote di Mubarak». Karima El Mahroug forse non era al 100% africana, ma solo abbronzata.
II Mattino del 15 aprile 1995. Ieri sera l'onorevole Berlusconi a "Tempo reale" ha indirettamente offeso napoletani e meridionali usando l'aggettivo borbonico in senso spregiativo incorrendo in uno dei più squallidi luoghi comuni che si perpetuano da tanto tempo. Rispondendo ad un articolo comparso sulla Voce molti mesi fa su questo giornale avevo dimostrato l'infondatezza del "facite ammuina", un falso decreto che facendo bella mostra di sé in tanti uffici e in tante case settentrionali e non, mortifica i meridionali facendoli passare per quello che non sono stati, e noto con amarezza che per ridare alla nostra gente la dignità che gli spetta non basteranno cent'anni. Il lavoro scientifico di denigrazione e di cancellazione della memoria operato per più di un secolo è proprio difficile da smontare. Quando sostengo che noi meridionali veniamo alla luce con delle tare genetiche e siamo quindi un po' mafiosi, un po' camorristi, un po' furbetti, un po' ladruncoli, un po' lazzari non lo dico per piangermi addosso, lo dico solo perché sono i fatti che lo dimostrano. Le pubblicità con i napoletani della Findus o quella della pizza surgelata, oggetto di polemiche in questi giorni ne sono la dimostrazione. Ieri davanti a milioni di italiani Berlusconi ha usato l'aggettivo borbonico per ricordare per l'ennesima volta quel falso regolamento di marina che campeggia forse anche nei suoi uffici. Quel "facite ammuina" inventato per denigrare i napoletani, per farli passare sempre e comunque per fannulloni e imbroglioni continua a dilettare la gente soprattutto quella che ci vuole male. E' lo stesso andazzo che fa sì che un manuale Mondadori per le scuole medie riporti come immagine di Napoli capitale del Regno delle Due Sicilie un piccolo e "folkloristico vicolo dei quartieri spagnoli". Berlusconi faccia ricercare i regolamenti della marina napoletana, che fu la terza d'Europa e vedrà che di quel decreto non v'è traccia e se pensa seriamente di operare in favore di quel Sud di cui tutti si riempiono la bocca senza poi far niente o pensando di sradicare ancora una volta i suoi abitanti per farli emigrare di nuovo, magari con una ventina di milioni per incoraggiamento, vedi vicenda dei portalettere, trovi modo di fare ammenda e di rettificare. Se non lo farà saranno i meridionali e i napoletani a regolarsi di conseguenza.
Berlusconi, il ritorno: dal “bidet per scopatori africani” all’apprezzamento per moglie e figlia di Trump, scrive Gisella Ruccia il 15 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Gag, barzellette, freddure, ode per gli animali “esseri senzienti”, battute pruriginose assortite. Silvio Berlusconi non smentisce il suo tradizionale repertorio nel lungo “one man show” tenuto a Ischia per presentare i punti del programma di Forza Italia. Lo spauracchio principale del Cavaliere è il M5S, movimento “pericoloso, incapace e pauperista”, che, a suo dire, ha un frontman chiamato Luigi Di Maio, con un deus ex machina che è nientepopodimeno che il magistrato Piercamillo Davigo: “So che ci sono stati tre incontri tra Grillo, Casaleggio e Davigo che ora smentisce. Guardate chi è Davigo: è un concentrato di odio, invidia e rabbia. I suoi collaboratori dicono che non l’hanno mai visto sorridere nemmeno una volta. Non so perché abbia dei brutti denti oppure perché non ne sia proprio capace”. Via libera quindi agli strali contro i giustizialisti pentastellati, occasione per annunciare la riforma della giustizia secondo Silvio: cambiamento assoluto delle intercettazioni, non appellabilità delle sentenze di assoluzione, pm con stessi diritti degli avvocati della difesa, carcere prima del processo solo a chi commette atti di violenza, per tutti gli altri varrà invece la cauzione, secondo il modello americano. “C’è qualcuno di voi che ancora si fida di dire al telefono alla propria mogliettina un complimento birichino?”, chiede Berlusconi al pubblico. Poi un tributo a Donald Trump: “Che pena vedere i candidati alle presidenziali che gli americani hanno messo in campo. C’è un’incredibile crisi di leadership a livello internazionale. Ora c’è questo signor Trump, di cui ammiro la moglie e la figlia”. Immancabile il ricordo di Gheddafi: “Sono andato nei centri di accoglienza e non ho visto bidet. Ho cercato di dire che erano necessari e ho pensato: ‘Voglio insegnare a questi scopatori africani che anche i preliminari sono importanti’. Vedo che la signora Carfagna in prima fila si è scandalizzata, e questo va bene”. Infine, una battuta sul Paradiso: “Dio mi ha chiamato e mi ha detto: la tua idea di trasformare il Paradiso in società per azioni e quotarla, mi è piaciuta moltissimo. C’è solo una cosa che non capisco: perché dovrei fare il vicepresidente?”
Saviano: «I piemontesi non facevano il bidet». Lo scrittore risponde ad Amandola. Scrive "Lettera 43" il 22 ottobre 2012. Il tweet di Roberto Saviano dopo la dichiarazione del giornalista del Tgr Piemonte, Giampiero Amandola. La frase infelice che il giornalista della Rai, Giampiero Amandola durante il Tgr Piemonte ha espresso nei confronti dei napoletani («Puzzano») ha sconvolto anche il giornalista e scrittore campano Roberto Saviano. Su twitter, lunedì 22 ottobre, ha espresso il suo disappunto: «Quando i piemontesi videro il bidet nella Reggia di Caserta lo definirono oggetto sconosciuto a forma di chitarra». Amandola intanto è stato sospeso. La decisione è stata presa dalla Rai che ha definito il comportamento del giornalista «inqualificabile». Il mister dei partenopei Walter Mazzarri era entrato a gamba tesa: «Spero che chi ha sbagliato paghi. Se la giustizia permette che si sentano i cori che ho sentito io (i cori razzisti cantati allo Juventus Stadium, ndr), è una vergogna. Gli organi competenti facciano quel che si deve. Vale per tutti, che lo facciamo noi o i tifosi Juve. Spero paghino». «VOI LI DISTINGUETE DALLA PUZZA?». A scatenare la furibonda reazione dei napoletani è stato un momento del servizio del Tg regionale piemontese trasmesso sabato 20. «I napoletani sono ovunque, come i cinesi», ha detto un tifoso bianconero. Amandola ha rincarato la dose: «E voi li distinguete dalla puzza, a quanto pare...».
Certo, però, che al piemontese Gramellini la puntualizzazione non è andata giù.
Fogne e bidet, scrive il 23/10/2012 Massimo Gramellini su “La Stampa”. Quando si scriverà il libro più lungo del mondo - l’enciclopedia della stupidità umana - due righe verranno dedicate al servizio trasmesso l’altra sera dal Tg3 Piemonte. Il giornalista inviato a Juve-Napoli per uno di quei famigerati pezzi che si definiscono «di colore» chiede a un tifoso juventino se sia in grado di distinguere i napoletani dai cinesi in base alla puzza. Nella scenetta tutto è grottesco: l’intento ironico incomprensibile e persino il fatto che a discettare razzisticamente sui «terroni» sia un ragazzo dal vistoso accento meridionale. Un tempo il siparietto penoso non avrebbe oltrepassato le valli piemontesi, ma ormai la potenza della Rete amplifica le fesserie. Così la puzza dei napoletani (un po’ meno quella dei cinesi) è diventata argomento di discussione nazionale, riaprendo le solite ferite freschissime che risalgono al Risorgimento. Anche Saviano si è sentito punto sul vivo e ha pensato bene di inzupparci la penna in modo spiritoso: «Quando i piemontesi videro il bidet nella reggia di Caserta lo definirono “oggetto sconosciuto a forma di chitarra”». Vero: in Piemonte all’epoca non avevano i bidet. Però avevano le fogne. Mentre i rimpianti Borbone, per potersi pulire le loro terga nel bidet, tenevano la gran parte della popolazione nella melma. Ora, che agli eredi diretti di Franceschiello dispiaccia di non potersi più pulire le terga nel bidet in esclusiva, posso capirlo. Ma che i pronipoti di quelli che venivano tenuti nella melma vivano l’arrivo dei piemontesi come una degradazione, mi pare esagerato. Vedete un po’ dove ci ha portati quel servizio razzista. Comunque, a scanso di equivoci, per lo scudetto io tifo Napoli.
Son razzisti anche se comunisti…Scrive Stefano Di Michele per "il Foglio" il 22 ottobre 2012. Prima l'uovo o la gallina? Oppure: prima il bidet o la fogna? Non bastassero le primarie ad aprire epocali questioni a sinistra - sotto le palme alle Cayman o alla pompa a Bettola? - ora è il momento della disputa: ha da considerarsi segno di maggiore civiltà l'oggetto che consente agevolmente di detergere le terga o la destinazione finale, diciamo così, della produzione fuoriuscita dalle stesse? Tra molte dispute che in zona sfiorano temerariamente il sanitario - intese quali questioni che richiedono conforto e spiegazioni di appositi luminari, adesso si è passati più prosaicamente allo scontro intorno ai sanitari - intesi quali manufatti che richiedono innanzi tutto il conforto di capaci idraulici. E' una questione esplosa tutta all'interno del faziano programma "Che tempo che fa" - con un'impennata che a questo punto necessita non solo di meteorologiche previsioni sull'anticiclone, ma anche di condominiali valutazioni sui tubi di scarico. E' come rivedere in campo Sua Maestà borbonica e Sua Eccellenza il conte di Cavour - nella fattispecie, Roberto Saviano (dal Regno delle Due Sicilie) e Massimo Gramellini (dal Regno di Sardegna). Tutto è cominciato con quel giornalista della Rai piemontese che ha avuto la bella pensata di chiedere ai tifosi juventini, in attesa della squadra dei napoletani, se dalla puzza avrebbero riconosciuto i medesimi. A parte la battuta godibile (per non allontanarsi dalla metafora) come una merda di cavallo sotto i piedi, la questione del puzzare più a nord o più a sud ha richiesto l'intervento dei due più avvertiti intellettuali del cenacolo regolato e adunato da don Fazio: appunto Saviano e dunque Gramellini - "i gioielli preferiti", ironizza il Corriere del Mezzogiorno.
Il primo ha espresso subito il suo disappunto igienico-borbonico-antirisorgimentale con un tweet, rievocando lo stupore dei piemontesi quando nella Reggia di Caserta si trovarono davanti l'innovativo bidet, e ignorando sia la forma sia la praticità del manufatto, con gaddiano trasporto lo definirono "oggetto sconosciuto a forma di chitarra" - il che, peraltro, non pochi dubbi accende tanto sullo stato igienico sottostante dei militi nordici, quanto sulla loro personale arguzia.
Gramellini (cavouriano: si desume dal collo delle camicie, oltre che dal ritratto del Conte che spicca sopra il suo letto), non volendo essere da meno, ha immediatamente fatto conoscere il proprio fervido disappunto igienico- savoiardo-risorgimentale sulla prima pagina della Stampa, concedendo l'onore del bidet al napoletano, ma rivendicando ai piemontesi quello non meno fondamentale delle fogne, "mentre i rimpianti Borboni, per potersi pulire le loro terga nel bidet, tenevano la gran parte della popolazione nella melma". Polemica di sostanza e sapori (per non dire odori) forti. Urge in trasmissione rapida convocazione di filosofi e storici a consueta transumanza faziana - oltre alla cara Littizzetto, che dibattendo così spesso tanto del "Walter" quanto della "Jolanda" (nello specifico: Quello e Quella) né sul bidet né sulle fogne dovrebbe mostrarsi impreparata. E all'uovo e alla gallina, pertanto, si torna: si può avere il bidet senza fogne? e se c'hai le fogne ma non il bidet, con le fogne che ci fai? C'è materia per un'intera prima serata su RaiTre, così da consentire alle due colonne portanti della trasmissione di poter pubblicamente e una volta per tutte chiarire la vexata quaestio. E invece del solito raffinatissimo gruppo musicale, al centro dello studio una riproduzione della famosa fontana, da ognuno inteso "pisciatoio", di Duchamp: così che nei pressi, sia Cavour sia Franceschiello possano finalmente liberarsi (di ogni dubbio storico).
Bidet. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il suo nome deriva dal francese bidet, termine che indica anche il pony. L'omonimia è dovuta alla somiglianza della posizione che si assume durante l'utilizzo del bidet con quella della cavalcata del pony. La parola deriva dalla radice celtica bid, col significato di piccolo, e bidein, piccola creatura.
Il bidet inizia a comparire negli arredamenti francesi tra la fine del XVII e l'inizio del XVIII secolo, ma non si conosce ovviamente né la data certa né il nome del suo inventore. La prima testimonianza certa risale al 1710, anno in cui tale Christophe Des Rosiers, lo installò presso l'abitazione della famiglia reale francese. In realtà i bidet, immediatamente dopo l'introduzione, furono poco utilizzati in Francia; a Versailles ne esistevano in circa cento stanze, ma furono dismessi tutti in una decina di anni. I pochi esemplari usati finirono nelle case d'appuntamenti. Nella seconda metà del Settecento la Regina di Napoli Maria Carolina d'Asburgo-Lorena volle un bidet nel suo bagno personale alla Reggia di Caserta, ignorandone l'etichetta di "strumento di lavoro da meretricio". Secondo l'anedottica l'inizio della diffusione di questo sanitario in Italia coinciderebbe con questo evento e, sempre secondo una leggenda priva di riscontri, dopo l'unità d'Italia, nella Reggia di Caserta i funzionari chiamati a redigere l'inventario dei beni si sarebbero trovati di fronte al bidet che non conoscevano e l'avrebbero catalogato come "oggetto per uso sconosciuto a forma di chitarra". In realtà il bidet si è diffuso in Italia in tempi relativamente recenti dopo il secondo dopoguerra. Tanto i gabinetti comuni delle case operaie dei grandi centri urbani, quanto le latrine contadine ne erano generalmente privi. Ancora negli anni '60 del Novecento non era raro che soprattutto i nuovi immigrati nelle grandi città del nord usassero il bidet come lavatoio per i panni o "pulisci piedi".
Dal 1900, durante l'età vittoriana, con la diffusione delle tubature all'interno delle case private, il bidet divenne un oggetto utilizzato non più in camera da letto, ma nel bagno, insieme al water, che sostituiva il pitale tenuto in camera.
Nel 1960 invece ci fu l'introduzione sul mercato di un sanitario risultante dall'unione del water con il bidet, particolarmente utile in piccoli ambienti in cui i due sanitari non troverebbero posto; esso è a volte detto "bidet elettronico", ma in Italia non ha incontrato favore e non si è diffuso.
I bidet non sono presenti in tutti i paesi europei: sono comuni solo in Grecia, Spagna, e soprattutto in Italia e in Portogallo, paesi nei quali l'installazione di un bidet fu resa obbligatoria nel 1975. Secondo un sondaggio francese del 1995, è l'Italia il paese in cui il bidet è utilizzato più di frequente (97%), seguito dal Portogallo al secondo posto (92%) e dalla Francia al terzo (42%); in Germania il suo uso è raro (6%) e in Gran Bretagna rarissimo (3%). In America Latina i bidet si trovano in Brasile, Paraguay e Cile, e soprattutto in Argentina e Uruguay, dove sono installati nel 90% delle case private; sono abbastanza comuni anche in Medio Oriente. In Giappone, pur essendo pressoché assenti, sono però sostituiti nella funzione da un sanitario che unisce le funzioni del water e quella del bidet, detto washlet, presente nel 60% delle case private e non raro negli alberghi. In Francia, Paese d'origine del bidet, a partire dagli anni settanta, per ragioni di economia e di spazio, sono raramente installati bidet nei nuovi appartamenti (dal 95% di presenza nei bagni nel 1970, la percentuale è scesa al 42% nel 1993) e una grande quantità di persone ha eliminato il bidet dalla propria casa. Un fenomeno analogo si sta riscontrando in Spagna, dove è sempre più frequente la mancanza del bidet nelle nuove abitazioni e nelle vecchie case ristrutturate, per un uso diverso dello spazio, sebbene gli appartamenti di lusso e con almeno due stanze da bagno continuino a esserne equipaggiati. I residenti di paesi in cui il bidet domestico è raro (come gli Stati Uniti d'America e il Regno Unito, ad esempio) spesso non hanno alcuna idea di come usarlo quando ne trovano uno all'estero. Gli statunitensi hanno visto per la prima volta il bidet nei bordelli francesi durante la seconda guerra mondiale e ancora collegano questo sanitario all'idea che le prostitute lo usassero per lavarsi i genitali in seguito ai rapporti sessuali. I pregiudizi sono comuni tra gli abitanti di questi paesi, che a volte considerano il bidet un oggetto strano e anche sporco; ciò fa parte dei tabù legati all'igiene personale.
Quando al nord ancora mangiavano con le mani...
Dopo il bidet un altro primato meridionale: la forchetta, scrive il 20 ottobre 2014 Angelo Calemme. Lo sapevate che la forchetta con cui quotidianamente tutto il mondo attorciglia gli spaghetti è un’invenzione napoletana? In stretta controtendenza con lo “SputtaNapoli” e le menzognere letture risorgimentali e filosabaude della storia d’Italia diffondiamo questa notizia curiosa che in questi giorni grande clamore e consensi sembra suscitare sul web e, soprattutto, sui social network: la forchetta a 4 rebbi è un’invenzione duosiciliana e, più precisamente, napoletana. La forchetta ha origini antiche e, in base agli ultimi studi storici e archeologici, si presume sia una specificità della civiltà antica, mediterranea e romana. La forchetta venne sin da subito concepita come uno strumento da affiancare ai ditali d’argento con i quali i delicati polpastrelli delle famiglie patrizie greche e romane preferivano non ustionarsi durante i banchetti. Con la scomparsa della civiltà romana d’Occidente la forchetta sopravvisse solo nell’Impero romano d’Oriente e reintrodotta in Europa a partire dal 1003 dai veneziani, in seguito al matrimonio tra Maria Argyropoulaina, nipote di Costantino VIII, e Giovanni Orseolo, figlio del Doge Pietro II Orseolo. In seguito al boicottaggio della Chiesa che la definì un “demoniaco oggetto” essa ebbe una diffusione travagliata per circa 767 anni fino a quando il Regno di Ferdinando IV di Borbone e la regina Maria Carolina, nella persona del gran ciambellano Gennaro Spadaccini, non la secolarizzò, e ridisegnò, con 4 punte, ribattezzandola con il nome di modello broccia o napolitania.
Quest’ultima è la forchetta che tutto l’Occidente in particolare e la ristorazione in generale utilizza quotidianamente e che, solitamente, viene associata alla degustazione degli spaghetti al sugo di pomodoro.
Peccato Gramellini…anche le fogne in Italia sono nate prima al sud.
Fognatura. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Per fognatura (più formalmente sistema di drenaggio urbano o impianto di fognatura, volgarmente chiavica) si intende il complesso di canalizzazioni, generalmente sotterranee, per raccogliere e smaltire lontano da insediamenti civili e/o produttivi le acque superficiali (meteoriche, di lavaggio, ecc.) e quelle reflue provenienti dalle attività umane in generale. Le canalizzazioni, in generale, funzionano a pelo libero; in tratti particolari, in funzione dell'altimetria dell'abitato da servire, il loro funzionamento può essere in pressione (condotte prementi in partenza da stazioni di pompaggio, attraversamenti, sifoni, ecc.). Le prime testimonianze storiche di fognature risalgono ad un periodo compreso tra il 2500 e il 2000 a.C. circa e sono state trovate a Mohenjo-daro, nell'attuale Pakistan. Dai resti si è potuta ricostruire la fisionomia della città che, sotto il livello stradale, presentava una vasta rete di canali in mattoni in grado di convogliare le acque reflue provenienti dalle abitazioni. Anche la città di Ninive, capitale del regno assiro tra l'VIII e il VI secolo a.C. era fornita di una rete fognaria. Le fognature antiche più efficienti furono però quelle di Roma. La prima cloaca romana di cui si abbia notizia risale al VII secolo a.C. e fu progettata per bonificare gli acquitrini che occupavano le vallate alla base dei colli dell'Urbe, e far defluire verso il Tevere i liquami del Foro Romano, di Campo Marzio e del Foro Boario. La realizzazione più importante fu però la cloaca massima, la cui costruzione fu avviata nel VI secolo a.C. sotto il leggendario re di Roma di origine etrusca Tarquinio Prisco. Con la cloaca massima (inizialmente era un canale a cielo aperto ma successivamente fu coperto per consentire l'espansione del centro cittadino), di cui si possono vedere alcuni tratti e lo sbocco presso i resti del Ponte Rotto, i romani ci hanno tramandato uno dei più importanti esempi di ingegneria idraulico-sanitaria. Con la caduta dell'impero, non vennero più costruite nuove fogne e spesso quelle esistenti furono abbandonate. Solo molto più tardi, nel XVII secolo, si sentì nuovamente l'esigenza di costruire fognature a seguito della forte urbanizzazione di città come Parigi e, dal XIX secolo, Londra.
DIECI COSE CHE NON SAI SULLE FOGNE Cosa c'è da sapere sulle fogne? Tante cose, almeno 10. Eccole! Scrive "Focusjunior.it".
1. Fogna, chiavica, cloaca sono tutti nomi che indicano la stessa cosa: un sistema di canalizzazioni per raccogliere e smaltire le acque di scarico. La più antica che si conosca è stata ritrovata fra i resti di Mohenjo-Daro, una città della Valle dell’Indo, nell’attuale Pakistan, e risale al 2500 a. C.
2. Roma può vantare la rete di scarico più efficiente dell’antichità. L’asse portante era la Cloaca Maxima, un canale di scolo sotterraneo che, nel punto di maggiore ampiezza, era alto 3,3 metri e largo 4 metri e mezzo!
3. Le fogne più famose dell’età moderna sono quelle di Parigi. I cunicoli descritti nei Miserabili di Victor Hugo sono una vera città sotto la città: a ogni strada in superficie corrisponde la sua galleria sotterranea, con tanto di segnaletica, per un totale di 2.300 chilometri di percorso.
4. Nell'Ottocento a Londra c'erano solo 24 km di fognature: il grosso dei rifiuti organici finiva nei pozzi neri, che nessuno svuotava. Nel 1858 il fetore era così forte che non si poteva uscire di casa senza un fazzoletto sul naso: ancora oggi è ricordato come l'anno della Grande Puzza.
5. Non era solo questione di odori: la mancanza di igiene era una continua fonte di malattie. Dopo l’episodio della Grande Puzza (v. punto 4), a Londra si iniziarono i lavori per 2.000 km di tunnel fognari che in pochi anni misero fine alle epidemie di colera, prima frequentissime.
6. Mai sentito parlare di coccodrilli nelle fogne di New York? È ovviamente una leggenda metropolitana, ma con un fondo di verità. Nel 1935, sotto la 123a strada fu realmente avvistato (e catturato) un alligatore di 2 m, forse fuggito dal carico di una nave ormeggiata al porto.
7. Spesso nelle fogne finisce anche l’olio usato, che oltre a essere inquinante rischia di provocare danni anche seri. Nel 2013 i tecnici chiamati a ispezionare le fogne di Londra per un’ostruzione, trovarono un enorme grumo di grasso di 15 tonnellate. Per rimuoverlo ci sono voluti 3 giorni di lavoro.
8. Nelle fogne c’è anche chi ci abita. Nel 2013 la polizia di Bucarest ha fatto sgomberare un canale fognario divenuto la dimora di 35 ragazzi. Purtroppo non è una storia nuova: da tempo la sorte dei ragazzi di strada romeni è stata denunciata dal clown francese Miloud, che dal ’92 li coinvolge nei suoi spettacoli.
9. Mai sentito parlare del Musée des Egouts? È il museo delle fogne di Parigi, visitato ogni anno da circa 100 mila persone. Si entra (ovviamente) da un tombino, al 93 di quai d’Orsay, e si percorrono circa 500 metri nel sottosuolo, alla scoperta della storia e del funzionamento della rete fognaria.
10. “Oggi mi sento una cacca”. Al museo della Scienza e della tecnica di Tokyo si è tenuta un’interessante mostra sulle toilette dove, calandosi con uno scivolo in un enorme water, si poteva provare l’ebbrezza di un viaggio virtuale nelle fogne. Obbligatorio, però, indossare un casco protettivo... a forma di escremento!
Le fogne borboniche e la melma… di Venezia, scrive il 24 ottobre 2012 Angelo Forgione. Riflessivo sul bidet e colto da un impeto d’orgoglio piemontese, Massimo Gramellini nega che nella Napoli borbonica esistesse una rete fognaria e dice che dappertutto fosse melma. Lo scrittore si è infilato in un vicolo cieco dal quale è uscito scrivendo su Facebook di voler approfondire la lettura della storia dei Borbone ma non rettificando le sue inesattezze sul giornale dove le aveva scritte. Nella foto tratta da una relazione del Centro Speleologico Meridionale si può notare una fogna borbonica in disuso. Certo, la rete fognaria era statica, proprio perché antica; divenne sempre più inadeguata con l’espansione demografica e urbana, non vi è alcun dubbio, e si arrivò al punto di dover mettere mano al sottosuolo di Napoli all’epoca del “Risanamento”, ma accadde 34 anni dopo l’unità d’Italia, non 5 e nemmeno 10. Del resto, come dimostrano i tecnici del Comune di Napoli in una relazione sugli “interventi di razionalizzazione del sistema fognario cittadino” di qualche anno fa, “il mutato assetto degli insediamenti sul territorio richiedeva interventi urgenti sulla rete fognaria cittadina, in parte risalente ad epoca borbonica”. D’altronde, quando due settimane fa Napoli si allagò per il primo temporale autunnale, tutti i quotidiani si affrettarono a scrivere che “Napoli è dotata di un impianto fognario che risale all’epoca dei Borbone…”. La melma a Napoli? Wolfgang Goethe raccontò nel Viaggio in Italia del 1787 la pulizia delle strade della città dovuta anche ad un formidabile riciclaggio degli alimenti in eccesso che si attuava tra la città e le campagne tutt’intorno, un’operosità che faceva persino in modo che, nonostante girassero numerose carrozze per le strade della città, lo sterco dei cavalli fosse praticamente inesistente. Lo descrisse così: “E con quanta cura raccattano lo sterco di cavalli e di muli! A malincuore abbandonano le strade quando si fa buio, e i ricchi che a mezzanotte escono dall’Opera certo non pensano che già prima dello spuntar dell’alba qualcuno si metterà a inseguire diligentemente le tracce dei loro cavalli”. A Napoli, in pratica, si faceva una specie di “compost” ante litteram. Una pulizia che lo scrittore tedesco (tedesco!) reputò superiore agli altri posti visitati: Trento, Verona, Vicenza, Padova, Venezia, Ferrara, Bologna, Firenze, Perugia, Roma, e poi le città siciliane. E vide pure la melma, si, proprio quella buttata da Gramellini su Napoli, ma non a Napoli bensì a Venezia, che trovò sporchissima. Per la precisione la definì “melma corrosiva” lungo le strade. Inutile far notare che il viaggio in Italia del grande letterato tedesco non passò per Torino. Piuttosto bisognerebbe domandarsi perchè la città pulita del Sette-Ottocento sia divenuta sporca nel Novecento.
Referendum per l’autonomia: pensavamo di essercene liberati, invece ritorna la fiera delle identità, scrive Francescomaria Tedesco il 23 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Pensavamo di esserci liberati della farsa in costume delle identità, di esserci finalmente tolti la zavorra del particolarismo linguistico, culturale e perfino etnico. Lo pensavamo dopo le vicende giudiziarie della Lega Nord, ma anche dopo la svolta “nazionale” di Salvinie di quel partito che aveva smesso di gridare “prima il Nord” (certo, ahimè Salvini si è messo a gridare “prima gli italiani”, non è che sia meglio…). Ma soprattutto pensavamo di esserci liberati di quei bislacchi progetti dopo decenni di studi in cui la linguistica, l’antropologia, l’etnologia, ci avevano detto e ripetuto che le identità sono porose, osmotiche, comunicanti, che le lingue sono vive, e che rintracciare e isolare i singoli “contributi” alla costruzione delle culture è un’opera non solo e non tanto pericolosa (poiché, come dice il poeta, i frutti puri impazziscono), ma inutile. Avevamo letto le Comunità immaginate di Anderson e ci eravamo fatti un’idea sul ruolo del capitalismo-a-stampa nella costruzione delle identità, avevamo compulsato il celeberrimo volume curato da Hobsbawm e Ranger sull’Invenzione della tradizione, che iniziava proprio così: “Le ‘tradizioni’ che ci appaiono, o si pretendono, antiche hanno spesso un’origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta”. Eravamo anche riusciti a elaborare il fatto che l’invenzione delle identità e delle tradizioni aveva avuto una funzione “ideologica”, e che dunque esse non necessariamente andavano scartate come fanfole e carnevalate. In fondo anche l’identità nazionale è un’invenzione, ci eravamo convinti a ragione. E avevamo però detto, come ha scritto Alain Touraine, che “è perché ci opponiamo risolutamente agli Stati comunitari che rimaniamo attaccati agli Stati nazionali. Poiché in essi delle popolazioni e culture differenti si mischiano per costituire una civiltà”.
Lo Stato nazionale come comunità di diritto e non di destino, in cui non siamo consanguinei per via di una madre comune, ma fratelli posticci, affratellati da un patto (che si chiama Costituzione). Certo, si dirà: questo progetto è nato male, traballante, violento, tranchant, e oggi più che mai è fragile, stretto tra le spinte esterne, la tensione omologante delle istituzioni sovranazionali e internazionali, e le spinte interne. E non è un caso che la rimessa in discussione di quel progetto avvenga nel momento della gravissima crisi economica di questo decennio, poiché essa spinge verso la rivendicazione del “nostro” suolo, della “nostra” lingua, della “nostra” cultura e – perché no? – dei “nostri” soldi. Così, quello che non era riuscito alla Lega è riuscito alla crisi: rimettere di nuovo in discussione le nostre acquisizioni, minare l’idea della creolizzazione delle culture, rilanciare il progetto di una cristallizzazione e musealizzazione (e ri-politicizzazione) delle identità e delle lingue attraverso fantasiose grammatiche e discutibili alberi genealogici. Con l’esito che dalla critica dello Stato nazionale promanino, attraverso un paradossale avvitamento, progetti di creazione di piccoli Stati nazionali che procedano attraverso gli stessi schemi di quelli: nazione, lingua, cultura, perfino etnia (o addirittura “razza”). Gli stessi schemi, ma senza l’apparato critico che ne è seguito, senza la rielaborazione che ha permesso di mettere all’opera la fictio e passare dall’identità nazionale alla comunità di diritto attraverso la finzione giuridica della cittadinanza. E se oggi dallo Stato nazionale siamo potuti approdare allo Stato tout court, le piccole patrie propongono il ritorno a piccoli staterelli nazionali, comunità di destino. Ma lo Stato nazionale è una fratria inventata, ed è tramite essa che possiamo costruire il vivere insieme. Questo non vuol dire dismettere ogni rivendicazione di autonomia, ma smontare il dispositivo che le sottende quasi tutte. Perché ad oggi non si vedono all’opera rivendicazioni autonomiste o indipendentiste che usino il lessico della comunità di diritto, che segnalino l’esigenza di comunità interconnesse a livello europeo con altre comunità, municipalità, esperimenti di autogoverno. Comunità aperte agli altri, all’integrazione. Ciò a cui si assiste è la recrudescenza delle classiche rivendicazioni nazionali in scala ridotta. E certo, i lombardi e i veneti rivendicano i loro soldi (che poi occorrerebbe capire come calcolare il residuo fiscale, cosa da far tremare le vene e i polsi), ma gratta gratta al fondo c’è l’idea di un tufo profondo, un’identità particolaristica, un “noi” 2.0.
Referendum Lombardia Veneto, a ribellarsi dovrebbero essere le persone del Sud, scrive Alessandro Cannavale il 22 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Oggi, in Italia, una parte di una parte del Paese chiede di tenere per sé più risorse perché in questa fase storica il suo reddito pro capite è più alto e, per mantenere standard di servizi più alti per i propri cittadini, decide bene di spendere circa 70 milioni di euro per un referendum dall’orizzonte quanto meno fumoso. Sempre positivo il ricorso alle urne, ma il fine non giustifica i mezzi, in alcuni casi, dato che le Regioni hanno ben altri strumenti, senz’altro più economici, per invocare più autonomia. È il caso del referendum Lombardo-Veneto, basato sull’idea che troppo alto sarebbe il residuo fiscale delle regioni coinvolte: intorno ai 50 miliardi. In realtà, secondo Paolo Balduzzi, l’ammontare vero di quel residuo, sarebbe circa la metà. Mi pare sempre più frequente il ricorso all’immagine comoda e rassicurante dello steccato, a livello globale. Da Donald Trump, che sostiene: “A Nation Without Borders Is Not A Nation” ai referendum autonomisti, fino alla Brexit. Ovunque, la paura dell’uomo occidentale lo sta portando a erigere muri di protezione: contro i migranti, contro il nemico. Aggiungerei, contro i meridionali. Eppure, in Italia vige ancora una Costituzione. Questa Costituzione sostiene all’art. 117 lett.m che occorre provvedere alla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Parole che rischiano di rimanere una dichiarazione formale e vuota, se tutti i cittadini italiani non vedono riconosciuti eguali diritti: la Costituzione rischia sempre più di esser violata nella sostanza e tutto ciò che conduce verso una simile aberrazione è in conflitto con quel dettato, violandone i principi fondamentali. L’esperienza quotidiana insegna, purtroppo, che in molte regioni (meridionali) il livello dei servizi offerti ai cittadini è sempre più basso. Trasporti, sanità, asili, scuola, università. Le migliaia di studenti che emigrano nelle università del Nord e l’emorragia di capitale umano hanno fatto sì che in dieci anni il Sud abbia perso 3,3 miliardi di euro di investimento in capitale umano e 2,5 miliardi di tasse, che emigrano verso le università del Nord. Infatti, il Sud ha perso 716 mila persone, in questi anni, di cui circa 198 mila laureati, solo negli ultimi anni. Queste ingenti somme il residuo fiscale, evidentemente, non le conta. Come il quotidiano acquisto di prodotti e servizi. E che dire della spesa drammatica dei migranti della sanità che, per avere cure migliori, si trasferiscono quotidianamente al Nord con un triste indotto collegato? Chi solletichi le paure e gli egoismi della gente, sa perfettamente che un Pil più alto oggi è il frutto di spese sostenute da tutto il Paese per arricchire aree più sviluppate e farne “locomotori” che avrebbero dovuto trainare tutto il paese. E invece non trainano nulla a quanto pare. Bisognerebbe metter mano alla gravissima discrepanza tra trasferimenti alle Regioni e livelli dei servizi, mettere a nudo l’inettitudine di chi i fondi trasferiti non riesce a metterli a frutto, invece di aggiungere confusione demagogica. Un bell’articolo di Francesco Sabatino su Lettera43 ricorda che “il divario tra Sud e Nord nelle risorse pubbliche va ben oltre il residuo fiscale, anche tenendo conto che i centro settentrionali possono contare sul supporto di un sistema semipubblico come quello delle fondazioni (patrimonio totale di 40 miliardi quasi interamente collocato sopra Roma) o che gli incentivi a fondo perduto sono stati sostituiti da strumenti legati all’acquisto di macchinari e servizi (la nuova Sabatini o i superammortamenti di Industria 4.0) che premiano soprattutto le aree più produttive”. Si fa sempre così, in Italia: anziché metter mano ai problemi si elucubra e si divide nel segno della demagogia. Dove vanno a finire i soldi trasferiti? Perché non si chiarisce questo punto? Perché non si mette il cittadino nelle condizioni di sapere la ragione di questi buchi e di queste disfunzioni? Dovrebbe esser la gente del Sud a ribellarsi, di fronte a tanto spreco di risorse. Infine, le interdipendenze dell’economia globale rendono ridicolo ogni sussulto neonazionalista. Il concetto di confine è superato e scandaloso e rischia di mettere in discussione il più nobile progetto europeo che, pur con gravi defaillance, è riuscito ad avvicinare le popolazioni del nostro continente come mai nella storia. Non confondiamo l’oro con le patacche. Ringrazio Natale Cuccurese per le gradevoli conversazioni sul Sud.
Referendum per l’autonomia di Lombardia e Veneto, le scomode verità da non dire, scrive Lavoce.info il 14 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Il 22 ottobre si tengono in Lombardia e Veneto due referendum per “ottenere maggiore autonomia”. Circolano molte inesattezze sui cosiddetti residui fiscali e sulle materie su cui si chiede la competenza. Forse un negoziato avrebbe prodotto più risultati. Di Paolo Balduzzi (Fonte: lavoce.info).
La questione dei residui. Si avvicina la data del referendum sull’autonomia in Veneto e Lombardia. L’obiettivo dei proponenti, dando per scontata una vittoria del “sì”, è quello di ottenere una partecipazione al voto molto elevata. Nel tentativo di suscitare tanto l’interesse di chi è favorevole quanto lo sdegno di chi è contrario, si assiste perciò all’ennesima campagna elettorale farcita di esagerazioni e inesattezze. L’inesattezza maggiore ruota interno ai cosiddetti residui fiscali. Si tratta della differenza tra entrate e spese della pubblica amministrazione riferite a ogni singola regione. Il calcolo dei residui è molto critico, soprattutto per la componente di spesa regionalizzata. Come considerare infatti la spesa per la difesa nazionale, concentrata prevalentemente nelle sole regioni di confine? O la spesa per tutti gli organi costituzionali, localizzata esclusivamente nel Lazio? È evidente che quelle spese devono essere ricollocate anche rispetto alle altre regioni, utilizzando un criterio discrezionale (per esempio, la dimensione demografica). Sull’entità dei residui esistono dunque stime molto diverse. Per esempio, Eupolis Lombardia ha pubblicato uno studio in cui confronta le proprie stime (47 miliardi di euro come media nel triennio 2009-2011 per la Lombardia) con quelle di altre ricerche, alcune più ottimistiche e altre meno. Curiosamente, Eupolis viene citata dai proponenti come fonte di un’altra cifra (57 miliardi) la cui precisa origine, tuttavia, rimane ignota. In entrambi i casi si tratta di numeri abbastanza irrealistici: contributi di maggiore rigore scientifico li hanno stimati in circa 30 miliardi. Ma fossero pure47 o 57 miliardi, il punto è che i residui vengono originati per differenza. È ovvio che se lo Stato concederà autonomia a una regione su una quota, a seconda della dimensione delle competenze trasferite, smetterà di spenderli esso stesso sotto forma di spesa regionalizzata: il residuo fiscale rimarrà dunque identico.
Anche sulle materie trasferite si sono sentite molte inesattezze. Innanzitutto, le regioni possono chiedere di ottenere competenza esclusiva in tutte le materie a competenza concorrente (art. 117 terzo comma, Costituzione). Possono anche chiedere competenza esclusiva su alcune materie che la Costituzione attribuisce in maniera esclusiva allo Stato: organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull’istruzione; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Quantitativamente, la più rilevante tra tutte è sicuramente l’istruzione, escludendo la sanità che già però occupa in media l’80 per cento dei bilanci regionali.
Cosa farà il governo? Cosa succederà poi il giorno successivo alla chiusura delle urne? Innanzitutto, la regione avvierà l’iter necessario e previsto dall’articolo 116, vale a dire aprirà ufficialmente il procedimento di richiesta e sentirà gli enti locali. In seguito, avvierà la trattativa con lo Stato (il governo). Ora, se la regione avesse a disposizione un criterio tecnico per sostenere la propria richiesta (ad esempio, l’equilibrio di spese e entrate, come era previsto dall’articolo 116 della riforma costituzionale bocciata nel 2016), il governo avrebbe poche armi a disposizione per dire di no o per non procedere (come avvenuto in tutti i tentativi precedenti). Sulla base del semplice risultato di un referendum, invece, il governo avrà certamente più libertà e discrezionalità nel temporeggiare e nell’argomentare contro la sua valenza politica. Infatti, c’è un pericolo sottovalutato dai proponenti del referendum: che il governo decida di non dare alcun credito alla consultazione per mandare un segnale alle altre regioni. In altri termini, se domani il governo concede maggiore autonomia a Lombardia e Veneto sulla base di un referendum, è lecito aspettarsi che dopodomani anche le altre regioni a statuto ordinario organizzino un’analoga consultazione. Ma è difficile credere che il governo sia disposto a concedere maggiore autonomia a tutte le regioni italiane. Come scoraggiare quindi referendum di questo tipo? Dando poco peso a quelli già svolti. Ciò non vuol dire che Veneto e Lombardia non otterranno nulla: ma quello che otterranno, se lo otterranno, arriverà sulla base di criteri tecnici e non politici. L’articolo 116 contiene un richiamo ai principi dell’articolo 119. Tra questi, vi è anche quello organizzativo di garantire l’equilibrio tra entrate e spese a seguito della concessione di maggiore autonomia. Certo, è una cosa ben diversa dal criterio selettivo che è rimasto escluso dall’articolo 116; è comunque con molta probabilità l’unico che sarà fatto valere. Ci si sarebbe potuti arrivare direttamente per via negoziale (come sta cercando di fare la regione Emilia-Romagna), senza il rischio di un flop referendario che – quello sì, invece – metterà la parola fine alle velleità di (maggiore) autonomia delle regioni per i prossimi dieci o venti anni. Con buona pace di chi sostiene un referendum a soli fini meramente ed egoisticamente elettorali.
Referendum sull'autonomia, i numeri del divario Nord-Sud. Rispetto alle tasse pagate, nelle due Regioni non tornano complessivamente 8.400 euro per cittadino. Dal crollo degli investimenti nel Mezzogiorno alla fuga di braccia e cervelli: la situazione ai raggi X, scrive Francesco Pacifico il 21 ottobre 2017 su "Lettera 43". Prima della crisi ogni cittadino della Lombardia, rispetto alle tasse pagate, si vedeva restituire quasi 6 mila euro in meno rispetto a quanto aveva versato. Il Veneto ha visto scendere da quasi 3 mila euro a poco meno di 2.400 la differenza. Contemporaneamente la Campania, che storicamente ottiene in trasferimenti più di quanto versa in tributi, ha perso quasi 1.000 euro procapite, la Sicilia 375. Sulla Voce.info gli economisti Paolo Di Caro e Maria Teresa Monteduro hanno chiarito quanto valgono i residui fiscali nelle Regioni che sono andate al referendum. Non a caso il cavallo di battaglia dei governatori Roberto Maroni e Luca Zaia, che in nome della perequazione e con questo voto chiedono una non meglio specificata autonomia, che potrebbe tradursi in minori trasferimenti verso il centro, mantenendo più risorse sul proprio territorio. Eppure questo dato rischia di creare confusione, perché il divario tra Sud e Nord nelle risorse pubbliche va ben oltre il residuo fiscale, anche tenendo conto che i centri settentrionali possono contare sul supporto di un sistema semipubblico come quello delle fondazioni (patrimonio totale di 40 miliardi quasi interamente collocato sopra Roma) o che gli incentivi a fondo perduto sono stati sostituiti da strumenti legati all’acquisto di macchinari e servizi (la nuova Sabatini o i superammortamenti di Industria 4.0) che premiano soprattutto le aree più produttive.
CROLLO DEGLI INVESTIMENTI AL SUD. Tra il 2015 e il 2016 il Sud è cresciuto più del Nord perché la spesa per investimenti (+2%) ha guardato soprattutto in direzione della parte più debole del Paese. Un’eccezione, perché non sempre le cose sono andate così. Soltanto nel 2014 la spesa pubblica in percentuale del Pil in conto capitale era calata nel Mezzogiorno del 2,1% contro lo 0,8 del Centro-Nord, con un effetto depressivo sia sui servizi sia sui consumi. Non a caso lo Svimez ha fatto notare che soltanto negli anni della crisi, «a livello settoriale, c'è stato un crollo epocale al Sud degli investimenti dell'industria in senso stretto, ridottisi dal 2008 al 2014 addirittura del 59,3%, oltre tre volte in più rispetto al già pesante calo del Centro-Nord (-17,1%)».
CERVELLI E BRACCIA IN FUGA. Prima del riequilibrio avuto con i nuovi parametri di valutazione della ricerca, l’università meridionale si è vista tagliare le risorse di un valore superiore al 15%. In base alla qualità dei servizi offerti e alle altissime aliquote legate al dissesto dei conti della sanità, i cittadini meridionali finiscono per spendere di più proprio attraverso strumenti di rientro come i ticket. Ed è anche per questo che nel Mezzogiorno, come avverte la stessa Svimez, circa 10 abitanti su 100 vivono in povertà assoluta, contro i sei del Centro Nord. Senza contare che negli ultimi cinque anni sono emigrati dall’area più debole del Paese 1,7 milioni di persone a fronte di 1 milione di rientri: la perdita secca è stata di 716 unità, il 72,4% under 34 e 198 mila i laureati. Cervelli e braccia che per lo più stanno arricchendo il Nord con il loro lavoro e le loro competenze.
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.
RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".
I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".
IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.
Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.
Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.
Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).
Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.
E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.
E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.
E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.
Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.
Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...
Quindi, viva il referendum…
LA DEMERITOCRAZIA.
La demeritocrazia che uccide. Luana Ricca, dopo una brillante carriera da chirurgo a Parigi, torna in Italia e si suicida, scrive Ilaria Bifarini il 6 febbraio 2016 su "L'Intellettuale dissidente". È la storia di un controesodo, del ritorno in patria di un cervello in fuga. Un rientro desiderato, ambito, sospirato. Era il 2014 quando Luana raccontava la sua storia a Radio24 “Sono Luana, ho 36 anni, sono una mamma ed un chirurgo (…) Per lavorare vivo a Parigi con mio figlio di 5 mesi, mentre mio marito vive e lavora a Roma, facendo i tripli salti mortali per vederci. Dopo avere inviato diverse domande per concorsi pubblici, in Italia attualmente non ho alcuna possibilità”. Un curriculum di tutta eccellenza il suo, che racconta una storia fatta di esodi e di speranze, che la veda giovanissima abbandonare la natìa Sicilia per andare a studiare a Roma, in uno dei migliori atenei di Medicina, dove si laurea a solo 23 anni. Segue la specializzazione in Chirurgia Generale alla Sapienza e Luana decide di arricchire la sua formazione con stages all’estero: Londra, Barcellona e Parigi. Proprio nella capitale francese trova la sua prima occupazione da chirurgo nel primo centro francese di trapianti di fegato e di chirurgia epato-biliare, “gratificante in termini di responsabilità e remunerazione”, come racconta agli utenti radiofonici italiani. Il desiderio di migliorarsi e la passione per la sua professione rendono inarrestabile il suo impegno: effettua più di 1500 interventi chirurgici, scrive su riviste chirurgiche internazionali e parla tre lingue straniere (inglese, francese e spagnolo). Dal 2012 comincia un doppio dottorato di ricerca in oncologia, in italiano e francese, alla ricerca di una via di ritorno in Italia che riunisca la sua famiglia. Dopo anni di sospiri arriva il concorso all’Ospedale Regionale de L’Aquila e Luana lo vince, arrivando quinta. Ma l’esultanza dura poco. Viene spedita al distaccamento di Sulmona, a ore di auto da L’Aquila, dove risiede con il marito che fa la spola con Roma, a occuparsi di endoscopie digestive. Si apre un periodo buio nella vita di Luana, il suo brillante percorso formativo e professionale si interrompe, anni di studio e di esperienza vanno in fumo; la giovane chirurgo nell’ambiente medico italiano si sente isolata, incompresa, per la prima volta impreparata. Anni all’estero di studio e lavoro, di risultati e gratificazione conseguiti con l’impegno e la passione non l’hanno formata per sopravvivere alla realtà lavorativa italiana, in cui per andare avanti le logiche meritocratiche non solo non aiutano ma ostacolano. Per mettere in campo le proprie capacità e competenze bisogna accettare le logiche clientelari e corrotte, conoscerle e saperle cavalcare. Luana, con la sua brillante carriera all’estero alle spalle, non ce l’ha fatta, troppo estranee alla sua forma mentis acquisita studiando e lavorando sodo. Si è ammalata di uno dei mali più oscuri anche per i medici come lei: la depressione. Così, nel silenzio generale della stampa e dei media, pochi giorni dopo Natale si è suicidata. Vittima di mobbing, di demansionamento, di aspettative infrante. In una sola parola, demeritocrazia.
Poi c'è il caso di Antonio Palma, il ragazzo commerciante non omologato ed inviso dai suoi compagni comunisti (moralisti ipocriti, che magari le merendine a nero le avevano comprate), perchè esercitava al di fuori delle regole dettate da uno Stato ladrone.
Torino, vendeva merendine in nero: sospeso un 17enne a Torino. Avrebbe iniziato un traffico nero di merendine nonostante fosse stato sospeso lo scorso anno per 10 giorni: il consiglio di classe deciderà a breve le sanzioni, scrive Enrica Iacono, Lunedì 21/11/2016, su "Il Giornale". All'Istituto Pininfarina di Moncalieri, in provincia di Torino, uno studente è stato sospeso dopo aver avviato un commercio nero di merendine. La vicenda ha dell'incredibile ma, come riporta La Repubblica, tutto sarebbe iniziato durante lo scorso anno scolastico quando il ragazzo diciassettenne aveva iniziato a comprare delle merendine al supermercato per poi rivenderle a un prezzo più basso del bar della scuola ai numerosi studenti. La sospensione di 10 giorni è stata inevitabile ma anche quest'anno lo studente ci è ricascato. La scorsa settimana infatti è stato scoperto nuovamente dagli insegnanti mentre ricominciava, da vero imprenditore, il suo "traffico di merendine". Il preside dell'istituto Pininfarina Stefano Fava si è detto molto risentito del comportamento dell'alunno: "Questo è un problema di legalità. La scuola, insieme ai saperi, alle conoscenze, alle abilità, deve anche insegnare a questi ragazzi a essere cittadini e dunque a rispettare le leggi. Non vogliamo inibire la sua vena imprenditoriale, ma dobbiamo pensare al benessere e alla salute dei nostri studenti. Non sappiamo da dove provenissero quelle merendine, né se fossero scadute o mal conservate. E se i nostri allievi fossero stati male? A me le famiglie consegnano ragazzi sani e si aspettano che glieli restituisca tali". Le sanzioni nei confronti del ragazzo recidivo saranno decise dal consiglio di classe anche se lo studente sembra non voler imparare la lezione certamente affascinato dal mondo dell'imprenditoria.
Lo strano caso delle merendine, scrive Econoliberal il 16 dicembre 2016. Qualche giorno fa appare la notizia di uno studente di un istituto tecnico di Moncalieri (TO) premiato dalla Fondazione Einaudi per aver venduto merendine a scuola, subendo per questo una sospensione. Faccio un salto sulla sedia: la Fondazione Einaudi di Torino ha la fama di essere una istituzione seria. Perchè dovrebbe premiare uno studente sospeso due volte in due anni? Basta qualche controllo per capire che il premio (500 euro) arriva dall'omonima fondazione con sede a Roma, che non ha un comitato scientifico composto da seri economisti ma è formata per lo più da politici e giornalisti uniti da una comune passione contro le imposte e lo Stato. Cosa faceva di grave lo studente? Comprava merendine uguali a quelle del distributore automatico e le vendeva a scuola a un prezzo inferiore a quello del distributore automatico, ottenendo guadagni non irrilevanti (pare 15 mila euro in alcuni anni), naturalmente esentasse. E' stato sospeso due volte in due anni e tutto sarebbe finito lì se non fosse che la Fondazione Einaudi di Roma ha deciso di premiarlo con una borsa di studio e qualche intervista, nella quale si dice pronto a andare a vivere in Portogallo perchè le imposte sono basse. Battaglia ideologica che rischia di costargli cara: dopo il premio sono arrivate le proteste dei compagni di scuola, e qualche minaccia. Così il Tribunale di Torino si sta chiedendo quale sia stato il ruolo del padre del ragazzo (che rischia di subire qualche provvedimento del Tribunale dei Minori) mentre il fisco è interessato a indagare sui guadagni del piccolo commercio.
Pininfarina: gli studenti scendono in piazza contro il premio al compagno "venditore di merendine". Benedetto (Fondazione Einaudi):"Pronti a confrontarci con loro per spiegare", scrive Jacopo Ricca il 12 dicembre 2016 su "La Repubblica". Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Einaudi Gli studenti del Pininfarina si schierano contro la decisione della fondazione Luigi Einaudi di premiare il loro compagno Antonio, il venditore abusivo di merendine dell'istituto di Moncalieri che è stato sospeso per 15 giorni dalla scuola proprio per questa sua attività. “Non ci sembra giusto premiare un comportamento illecito. Non è un messaggio corretto per i tanti che si impegnano a rispettare le regole” attaccano i rappresentanti degli studenti che domattina saranno fuori dalla scuola insieme ai loro compagni per manifestare il dissenso. Hanno scelto di scendere in piazza domattina quando il ragazzo sarà con suo padre a Roma nella sede della fondazione Einaudi per ritirare la borsa di studio che il centro dedicato a uno dei più importanti autori liberali d'Italia ha deciso di offrirgli: “Il suo spirito d’iniziativa non è da perseguire, ma da promuovere – recita la motivazione – In un Paese dove l’iniziativa privata è spesso ostacolata riteniamo che il ragazzo abbia invece messo in pratica molti degli insegnamenti di von Hayek e dello stesso Einaudi”. Questa scelta, ma anche le tante offerte di lavoro arrivate ad Antonio non hanno convinto i suoi compagni: “Sia chiaro che non è una manifestazione contro di lui – continuano i rappresentanti – Noi non ce l'abbiamo con lui, ma ci sembra scorretto dare riconoscimenti a lui e non ai tanti studenti meritevoli che ci sono anche in questa scuola”. La vicenda del venditore di merendine insomma continua a scatenare polemiche, anche dentro la scuola. Il preside Stefano Fava considerava la vicenda chiusa dopo che la sospensione di due settimane, spalmata su tutto il 2017, da passare in un'associazione di volontaria decisa dalla scuola, era diventata definitiva nonostante la richiesta che il consiglio di classe aveva fatto al consiglio d'istituto di inasprirla. La presenza del programma tv “Le iene”, che aveva intervistato Antonio e suo padre, confermando, quanto sempre sostenuto dai ragazzi, che il business dietro alla vendita di merendine fosse di alcune decine di migliaia di euro ha ulteriormente inasprito gli animi. E ora si arriva addirittura a una manifestazione: “Staremo fuori dalla scuola per far sentire la nostra voce e far capire che anche al Pininfarina c'è chi rispetta le regole” concludono gli studenti. Nei giorni scorsi la fondazione Einaudi ha invitato anche il preside della scuola, Stefano Fava, alla premiazione di domani. “La sua storia ci ha colpito molto e mi sembra che la sua sia stata una scelta d'impresa applicata – aveva spiegato il presidente della fondazione, l'avvocato Giuseppe Benedetto, – Non credo che quella di questo giovane sia un'attività illecita, ho sentito parlare di nero, ma non mi pare sia questo da mettere in evidenza in questa storia”. In queste settimane la fondazione è rimasta in contatto constante con la famiglia del ragazzo e si è detta anche disponibile a confrontarsi con gli altri studenti della scuola per spiegare la scelta.
TGcom 24 del 13 dicembre 2016: Sospeso dalla scuola perché vende snack in nero e premiato da una Fondazione, Regione: "Sbagliato". Il giovane era stato sorpreso mentre spacciava merendine a un prezzo più basso delle macchinette. La Fondazione Einaudi lo ha premiato per spirito imprenditoriale. Fioccano le polemiche a Moncalieri. Presidio dei compagni davanti alla scuola per protesta. "E' comprensibile che la decisione della Fondazione Einaudi di assegnare una borsa di studio allo studente del Pininfarina, sospeso per aver venduto abusivamente merendine, susciti un certo sconcerto tra i suoi compagni". Lo ha affermato l'assessora all'Istruzione della Regione Piemonte, Gianna Pentenero. Il giovane era stato sospeso per aver creato uno spaccio di merendine, che comprava al supermercato e poi le rivendeva ai compagni a un prezzo più basso rispetto agli snack della scuola. La notizia del premio ha fatto scoppiare le polemiche. "Credo infatti sia sbagliato far passare il messaggio secondo il quale non rispettare le regole viene letto come un'innovativa capacità imprenditoriale - ha aggiunto l'assessora regionale -. Senza voler criminalizzare nessuno o esacerbare gli animi, penso tuttavia che punizioni o, al contrario, riconoscimenti finiscano per essere fini a se stessi se non aiutano il giovane a distinguere tra ciò che è lecito e ciò che non lo è". "Con la premiazione di oggi il rischio concreto è che l'unico insegnamento che il ragazzo trarrà da questa vicenda - ha concluso - è che chi è più furbo avrà sempre la strada spianata". La protesta: "Non ce l'abbiamo con Antonio, ma il premio è sbagliato" - "Non ce l'abbiamo con Antonio, ma riteniamo sbagliato attribuire un premio a lui e non ai tanti studenti meritevoli che ci sono anche nella nostra scuola", è la presa di posizione dei rappresentanti dell'istituto, che sono scesi in piazza per protestare contro la borsa di studio che ritengono ingiusta. "Staremo fuori dalla scuola, per far sentire le nostre ragioni", dicono annunciando il presidio.
“No alla borsa di studio ad Antonio”: un terzo degli studenti del “Pininfarina” di Moncalieri diserta le lezioni, scrive "Torino Oggi" martedì 13 dicembre 2016. La protesta, dicono gli studenti, non sarebbe contro Antonio ma contro quelli che hanno deciso di premiarlo. Ma la verità sarebbe assai diversa e la situazione potrebbe anche diventare davvero difficile da gestire, da parte delle autorità scolastica dell’Istituto. Prende le distanze anche l'assessora Pentenero. All’insegna di un emblematico "Le borse ai fuorilegge, no a chi legge", 500 dei 1.600 studenti che frequentano l'Istituto Pininfarina di Moncalieri non hanno preso parte alle lezioni, stamani per protestare contro la decisione della fondazione Einaudi di Roma di assegnare una borsa di studio ad Antonio, il loro compagno diciassettenne sorpreso per ben due volte a vendere abusivamente di merendine. La protesta, dicono gli studenti, non sarebbe contro Antonio ma contro quelli che hanno deciso di premiarlo. Ma la verità sarebbe assai diversa e la sensazione è che la situazione potrebbe anche diventare davvero difficile da gestire, da parte delle autorità scolastica dell’Istituto. Questa mattina, infatti, alcuno studenti avevano in mano il cellulare con alcuni messaggi non propriamente “accomodanti” (anzi) inviati dallo stesso Antonio via WhatsApp: "Io andrò in tv e anche quelli del Pininfarina là fuori a protestare come cog... con il freddo, tanto la borsa di studio la prendo comunque" oppure "Sono solo degli handicappati loro". Nel tritatutto delle polemiche è finita così la Fondazione Luigi Einaudi, dipinta come colei che premia l’illegalità e – dopo i messaggi inviati da Antonio, che nel frattempo ha denunciato di essere stato aggredito da un paio di dozzine di compagni più grandi nel corso dell’intervallo di ieri – anche l’arroganza e la strafottenza. La Fondazione ha un bel dire che il suo intento è quello di premiare “lo spirito d'iniziativa imprenditoriale del giovane ": i compagni di Antonio all’esterno del Pininfarina, hanno allestito un paio di bar "abusivi", per protesta contro quanto avvenuto all’interno della scuola ed il successivo “premio”. Il tutto sotto gli occhi discreti dei carabinieri di Moncalieri. Sulla stessa lunghezza d'onda degli studenti anche l'Assessora all'Istruzione della Regione Piemonte, Gianna Pentenero: "E’ comprensibile che la decisione della Fondazione Einaudi di assegnare una borsa di studio allo studente del Pininfarina, sospeso per aver venduto abusivamente merendine, susciti un certo sconcerto tra i suoi compagni. Credo infatti sia sbagliato far passare il messaggio secondo il quale non rispettare le regole viene letto come un’innovativa capacità imprenditoriale. Senza voler criminalizzare nessuno o esacerbare gli animi, penso tuttavia che punizioni o, al contrario, riconoscimenti finiscano per essere fini a se stessi se non aiutano il giovane a distinguere tra ciò che è lecito e ciò che non lo è. Con la premiazione di oggi il rischio concreto è che l’unico insegnamento che il ragazzo trarrà da questa vicenda è che chi è più furbo avrà sempre la strada spianata".
Spacciatore di merendine tradito dai compagni: no al premio, studenti in piazza, scrive il 13 dicembre 2016 Manlio Grossi su "Skuola net". Sembra davvero senza fine la vicenda che coinvolge l’ormai noto spacciatore di merendine dell’Istituto Pininfarina di Moncalieri. Dopo esser finito su tutti i giornali per la sua attività illecita, aver ricevuto proposte di lavoro da più aziende ed esser stato sospeso per due settimane dal Consiglio d’Istituto, il giovane si trova oggi a Roma per ricevere una borsa di studio dalla fondazione Luigi Einaudi. Proprio questo premio ha scatenato le razione dei suoi compagni di classe, scesi in piazza per manifestare il loro dissenso. Secondo gli studenti del Pininfarina, il premio dato al loro compagno non è un messaggio corretto da dare, soprattutto nei confronti di chi rispetta le regole. Alla base del premio che la fondazione Luigi Einaudi ha voluto dare al giovane, il suo spirito di iniziativa che secondo l’istituto “Non è da perseguire ma da promuovere, in un Paese dove l’iniziativa privata è spesso ostacolata riteniamo che il ragazzo abbia invece messo in pratica molti degli insegnamenti di von Hayek e dello stesso Einaudi”. Dopo aver saputo delle polemiche nate al Pininfarina proprio per questo premio, la fondazione si è detta disponibile a confrontarsi con gli studenti per chiarire meglio e far comprendere la decisione presa. La vicenda dello spacciatore di merendine, sembra quindi destinata a continuare…
Nobel allo spacciatore di merendine: studente di Torino premiato con una borsa di studio. È polemica tra gli studenti del Pininfarina di Moncalieri per il premio conferito dalla Fondazione Luigi Einaudi di Roma, scrive Giulia Morici su "Pontile news" il 13-12-2016. Chissà se un giorno, tra i vari premi Nobel, spunterà fuori anche quello delle merendine. Per il momento, lo studente dell’Itis Pininfarina di Moncalieri, in provincia di Torino, dovrà accontentarsi di una bella borsa di studio conferita dalla Fondazione Luigi Einaudi di Roma. Andando indietro nel tempo, fino ad arrivare alla fine del novembre scorso, si ricorderà che il giovane in questione balzò agli onori della cronaca per il suo spirito imprenditoriale, grazie al quale diede vita a un traffico illecito di merendine all’interno dell’istituto scolastico. Un episodio che gli costò un provvedimento disciplinare, tanta notorietà e l’apprezzamento da parte di alcuni imprenditori; oggi a questa lista va aggiunta la borsa di studio conferitagli dalla Fondazione Einaudi. La creatività, in tempi di crisi, non è di certo una questione da sottovalutare, ma l’episodio di Moncalieri, ragionevolmente, ha suscitato non poche critiche le quali, oggi, hanno assunto i toni di una vera e propria protesta sfociata tra gli studenti del Pininfarina. A spingere la Fondazione a conferire la borsa di studio allo studente imprenditore, come è riportato sul sito web, vi è stata la volontà di promuovere lo spirito di iniziativa del giovane: «In un Paese dove l’iniziativa privata è spesso ostacolata riteniamo che il ragazzo abbia invece messo in pratica molti degli insegnamenti di von Hayek e dello stesso Einaudi», si legge nell’articolo. Proprio stamani, il giovane imprenditore di merendine e la sua famiglia sono stati ospiti nella sede di Roma dell'ente erogatore del premio, presso la quale al ragazzo è stata conferita la borsa di studio. Un’occasione, quella di oggi, «per condividere assieme alla Fondazione Einaudi una bella giornata all’insegna della libertà e della creatività dello spirito imprenditoriale». Eppure, messaggio peggiore non sarebbe potuto passare dall’episodio in questione. Viva il liberalismo, viva lo spirito imprenditoriale, potrebbero sostenere alcuni difensori di tale corrente di pensiero, ma un dubbio sorge spontaneo: dove la mettiamo la legalità? Seppur i guadagni del giovane imprenditore non siano stati da capogiro, la sua azione non è di certo da incoraggiare, in quanto si poggia su basi scorrette, ovvero quelle dell’illegalità. Dunque, come dar torto a una lecita osservazione di uno degli slogan comparsi durante la protesta degli studenti del Pininfarina, il quale recitava «cervelli in fuga, venditori di snack abusivi da Nobel»?
Torino, borsa di studio a studente che vende merendine a scuola. Protesta dei compagni: “Immeritata”. La decisione della Fondazione Einaudi di premiare il 17enne (già sospeso per 15 giorni) per il suo spirito imprenditoriale ha scatenato l'ira degli altri alunni Itis Pininfarina di Moncalieri. Assessore Regionale: "Messaggio sbagliato", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 13 dicembre 2016. Merendine comprate al supermercato e rivendute ai compagni a un prezzo più basso rispetto agli snack della scuola. Per l’istituto, il comportamento del 17enne torinese è scorretto, tanto che il ragazzo è stato sospeso per 15 giorni. Di tutt’altro parere la Fondazione Einaudi, che ha voluto premiare lo studente con una borsa di studio per il suo “spirito imprenditoriale”. Una decisione che ha scatenato le proteste dei compagni di scuola che questa mattina, mentre a Roma il ragazzo riceveva il premio, hanno organizzato un presidio davanti all’Itis Pininfarina di Moncalieri, alle porte di Torino. “E’ un premio immeritato: un illecito in una scuola non è un motivo serio per dare una borsa di studio”, dice uno studente. “Hanno dato una borsa di studio a caso”, aggiunge un rappresentante dei circa 500 studenti presenti alla manifestazione. E ancora: “Al Pinin non vince il dieci ma gli evasori”, “borse di studio anche per noi”, “cervelli in fuga, venditori di snack abusivi da Nobel”, sono alcuni dei cartelli esposti davanti alla scuola dagli studenti, che hanno anche mostrato alcuni messaggi dello studente-imprenditore in cui li prenderebbe in giro. “Noi non ce l’abbiamo con il nostro compagno, sia chiaro – dicono i ragazzi – ma riteniamo che questa borsa di studio sia stata data a caso”. Interviene anche la Regione Piemonte, che si schiera con gli studenti. “E’ comprensibile che la decisione della Fondazione Einaudi di assegnare una borsa di studio allo studente del Pininfarina, sospeso per aver venduto abusivamente merendine, susciti un certo sconcerto tra i suoi compagni”, afferma in una nota l’assessora all’Istruzione della Regione Piemonte, Gianna Pentenero. “Credo infatti sia sbagliato far passare il messaggio secondo il quale non rispettare le regole viene letto come un’innovativa capacità imprenditoriale”, aggiunge Pentenero. E così la storia di Antonio, papà operaio, mamma casalinga e un grande fiuto per gli affari, da giorni fa discutere tra i banchi dell’Itis di Moncalieri, e non solo. “Ho iniziato per scherzo, i compagni mi ordinavano la roba perché risparmiavano”, ha raccontato lo studente che si era inventato anche una chat su Whatsapp per raccogliere le ordinazioni. “Pagavo gli snack 30 centesimi, li rivendevo a 50. Alla macchinetta costano un euro”, ha spiegato il giovane che con questa attività avrebbe intascato, secondo alcuni, qualche migliaia di euro. “Saranno stati cento euro al mese”, ha sostenuto invece il ragazzo, che sogna di aprire un locale da gestire con i genitori e la famiglia. L’iniziativa di Antonio non è passata inosservata al preside dell’istituto, che lo ha punito per quello che era diventata una vera e propria borsa nera delle merendine. Quindici giorni di sospensione, spalmati su tutto l’anno, da passare in un’associazione di volontariato, perché “le regole vanno rispettate”, è stata la spiegazione, e perché “non sappiamo da dove provenissero le merendine ed è un problema di sicurezza alimentare”. Eppure per la Fondazione Luigi Einaudi, che dal 1962 promuove la diffusione del pensiero liberale, quello spirito d’iniziativa non è da punire, ma da promuovere. Per questo motivo, presso la sua sede romana di largo dei Fiorentini, il presidente Giuseppe Benedetto ha conferito un assegno e dei libri dei maestri del liberismo. “Con questa iniziativa non vogliamo certo premiare una attività illegale, che anzi condanniamo, ma semplicemente lo spirito di iniziativa imprenditoriale del giovane studente”, spiega Benedetto, che alla cerimonia ha anche invitato la famiglia dello studente e il suo preside. “Non ce l’abbiamo con Antonio, ma riteniamo sbagliato attribuire un premio a lui e non ai tanti studenti meritevoli che ci sono anche nella nostra scuola”, è la presa di posizione dei rappresentanti dell’istituto.
Moncalieri, la Procura apre un'inchiesta sul venditore di merendine: verifica fiscale sugli incassi. "Palma t'ammazzo" e "Muori male": alcune delle minacce comparse davanti al "Pininfarina" contro lo studente venditore di merendine. L'indagine affidata ai carabinieri, decisa dopo le minacce di morte allo studente comparse davanti al Pininfarina, si allarga a tutti gli aspetti della vicenda, scrive Jacopo Ricca il 16 dicembre 2016 su "La Repubblica". Finisce in procura la vicenda del venditore abusivo di merendine del Pininfarina di Moncalieri. I carabinieri della cittadina alle porte di Torino stanno preparando un rapporto su quanto accaduto nella scuola del ragazzo, dalla vendita abusiva di snack fino alle minacce ricevute negli ultimi giorni dal giovane. Da tempo il preside è in contatto con le forze dell'ordine che stanno monitorando la situazione: ieri è stato ascoltato come persona informata sui fatti per la relazione che i militari invieranno in procura. Tra le testimonianze raccolte dai mezzi d'informazione ci sono anche quelle dei compagni del diciassettenne che attribuiscono al padre del ragazzo un ruolo attivo nella vendita di merendine. Accuse sempre respinte dalla sua famiglia, ma che potrebbero portate a un coinvolgimento del tribunale dei minori e dei servizi sociali. Altro filone è quello del mancato pagamento delle tasse sui ricavi del business abusivo di merendine: secondo alcuni il guadagno in tre anni avrebbe raggiunto 15mila euro, ma è stato lo stesso venditore a riconoscere che negli ultimi tempi l'incasso mensile aveva raggiunto quota 800. Per questo l'informativa dei carabinieri sarà inoltrata anche all'Agenzia dell'Entrate e agli uffici comunali componenti che valuteranno se ci siano gli estremi per un intervento del Fisco.
Lo Studente sospeso: ai pusher però non fanno niente, scrive Martedì 22 Novembre 2016 "Leggo". L'idea era semplice ma geniale: dal momento che snack e bibite venduti nei distributori automatici della scuola erano troppo costosi, studiava appositamente le offerte di tutti i supermercati della zona e acquistava i prodotti più richiesti negli esercizi commerciali con i prezzi migliori, per poi rivenderli a scuola. Un piccolo business nato per gioco, ma illegale, che è già costato caro ad uno studente 17enne di Moncalieri (Torino) e che ora rischia di costare carissimo. «Tutto era cominciato lo scorso anno, quando mi resi conto che era troppo far pagare agli studenti 1,50 euro un tè freddo che al supermercato costa non più di 35 centesimi, o merendine da 30 centesimi addirittura un euro. Così iniziai a organizzarmi e a fare la spesa per i miei compagni di classe» - racconta Antonio, lo studente che gestiva il mercato parallelo - «Non vendevo a prezzi eccessivamente maggiorati, i margini di guadagno erano bassi ma chi comprava poteva risparmiare moltissimo rispetto alle macchinette. Poi mi sorpresero e fui prima sospeso e poi bocciato. Per parecchio tempo mi fu anche impedito di uscire dalla classe durante la ricreazione». Con l'arrivo del nuovo anno scolastico, il ragazzo ha riprovato l'avventura imprenditoriale, ma è stato colto sul fatto e sospeso ancora una volta. Il padre lo difende: «L'anno scorso lo sgridai e decisi di punirlo, poi mi aveva detto che alcuni compagni di classe continuavano a chiedergli quel favore. D'altronde, questa volta è stato sorpreso con poche merendine e qualche bottiglietta di tè. Antonio è un bravo ragazzo, molto timido. Non beve, non fuma, non si droga e non ha piercing né tatuaggio». Il ragazzo però non vuole accettare una nuova sanzione da parte della scuola: «C'è chi in classe porta e vende droga, ma a loro non fanno nulla. Perché?». La scuola fa sapere che si tratta di una decisione doverosa: quegli snack e bibite potrebbero essere scaduti o mal conservati. Antonio però non ci sta: «Li compravo il giorno prima al supermercato, non potevano essere scaduti». Il preside dell'Itis Pininfarina, Stefano Fava, avrebbe però in mente una sanzione alternativa: «Merita di essere punito ma non di essere lasciato solo, potremmo anche inserirlo in un progetto legato all'imprenditorialità e ai giovani». Il ragazzo, comunque, non ha dubbi sulle aspirazioni future: «Mi piacerebbe aprire un'attività per aiutare la mia famiglia, ma papà fa l'operaio e abbiamo solo il suo reddito».
Torino, snack a scuola. Parla Antonio: "Io, venditore di merendine, sospendono me e non i pusher". Il ragazzo di 17 anni che nella sua classe di Moncalieri smerciava spezzafame e bevande ai compagni "Nell’istituto gira droga, ma a loro non fanno niente", scrive Stefano Parola su "La Repubblica" il 22 novembre 2016. Il vicepreside lo ha visto entrare con uno zaino enorme e si è insospettito. Ora rischia una sospensione ancora più lunga della precedente, anche se il preside Stefano Fava sta pensando a una soluzione "alternativa": "Proporrò al consiglio di classe di inserirlo in un progetto legato all'imprenditorialità. Vogliamo lavorare per il successo dello studente, non lo lasceremo indietro", assicura. Faccia da bravo ragazzo, papà operaio, mamma casalinga, una famiglia numerosa. Antonio racconta a Repubblica la sua versione dei fatti con il papà al suo fianco, che lo definisce "bravo, timido: non fuma, non si droga, non beve, non ha piercing né tatuaggi".
Partiamo dall'inizio: dopo aver letto quell'articolo, come le è venuto in mente di passare all'azione?
"Quando ho notato che gli snack a scuola erano cari. Un tè freddo da mezzo litro costa 1,50 euro, quando al supermercato va dai 29 ai 35 centesimi. Ho iniziato per scherzo: i compagni mi ordinavano la roba, perché risparmiavano".
E una merendina dopo l'altra, il mercato si è ingrandito. Dicono che lei avesse un bel giro d'affari, è così?
"Ma no, mi usciva a malapena una ricarica telefonica al mese. Durante il mio periodo di attività mi sono comprato un cellulare usato da 300 euro, niente di più. È vero che nel mio istituto ci sono 1.700 allievi, ma mica compravano tutti da me".
Quanti clienti aveva?
"Guardi, quando mi hanno beccato la settimana scorsa nello zaino avevo 20 snack, 10 lattine di bibite e 10 tè freddi".
Com'erano le tariffe?
"Pagavo gli snack 30 centesimi, li rivendevo a 50. Alla macchinetta, però, costano un euro. I margini erano minimi, faccia lei i conti. Saranno stati cento euro al mese".
A scuola si parla di cifre ben più alte.
"Girano tante voci, qualcuno è invidioso".
Dicono che fosse anche molto attento ai gusti dei suoi compagni.
"Avevamo una chat su Whatsapp e loro mi dicevano cosa avrebbero voluto. Io andavo al supermercato e compravo ciò che serviva".
E i compagni? Tutti soddisfatti?
"Erano tutti contenti perché risparmiavano. Ecco, la cosa che mi fa arrabbiare è che a scuola gira droga, ma a chi la porta non viene detto nulla. A me invece...".
Però anche vendere prodotti in nero è illegale. Infatti lo scorso anno lei era già stato sospeso, no?
"Per dieci giorni. In più, per 20 giorni sono stato piantonato in classe durante i due intervalli, delle 10 e delle 12, in modo che non potessi smerciare gli snack".
Il preside ha fatto notare che in ballo c'era anche una questione di sicurezza alimentare: come potevano essere sicuri che i suoi prodotti non fossero scaduti o mal conservati?
"Li compravo poco prima al supermercato, lì mica vendono le cose scadute".
Nonostante la punizione, la settimana scorsa ci è ricascato: perché?
"Tutti i miei compagni continuavano a chiedermi la roba".
E i suoi genitori non si sono accorti di nulla?
Qui interviene il papà di Antonio: "L'altra volta l'ho punito. Poi mi diceva che i suoi compagni continuavano a chiedergli di portare merendine e io pensavo fossero quattro, cinque, dieci compagni. Poi, appunto, quando l'hanno scoperto aveva una ventina di snack, parliamo di una classe".
Antonio, da grande cosa vorrebbe fare?
"Il mio sogno sarebbe aprire un locale per far lavorare la mia famiglia e i miei fratelli. Mi piace avere a che fare con le persone. Ma è un sogno irrealizzabile, papà fa l'operaio, abbiamo solo il suo reddito".
Spacciatore di merende, scrive il 23/11/2016 Massimo Gramellini su "La Stampa". Per capire l’aria di rivolta che si respira in giro, l’adolescente di Moncalieri punito dalla scuola perché vendeva merendine è già un eroe nazionale. Le notizie che lo riguardano sono tra le più condivise sul web e la sua storia di intraprendenza al di fuori delle regole, lungi dallo scandalizzare, affascina. Anche me. Di lui colpisce la capacità di mettersi nei panni degli altri per coglierne i bisogni e trasformarli in affari. Quanti manager strapagati la possiedono ancora? Ai vertici di troppe aziende pascolano individui che se ne infischiano dei clienti e pensano solo a fare carriera con le pubbliche relazioni. I veri affossatori del capitalismo sono loro. Il giovane Antonio osserva gli snack nelle macchinette della scuola e si accorge che costano il quintuplo rispetto al supermercato. Allora va a fare la spesa, riempie lo zaino di merendine e le rivende ai compagni a un prezzo lievemente superiore, ma pur sempre conveniente. L’abicì del commerciante di razza. Di lui piace la diversità che lo rende inviso al sistema, messo in crisi dal suo spirito di iniziativa. E il sistema reagisce, normalizzando il diverso in nome delle regole. Quelle stesse regole che i conformisti possono invece violare ogni volta che vogliono. Antonio dice: puniscono me e non il pusher che nello stesso corridoio smercia la droga. Per fortuna nel sistema c’è una crepa: un preside intelligente. Ribalta la decisione dei sottoposti di sospendere lo spacciatore di merendine e propone di affidargli un progetto imprenditoriale. Applausi (e tasse, ma in modica quantità).
Torino, tutti vogliono assumere il ragazzo che vende merendine. Ha fatto breccia tra gli imprenditori la storia dello studente del Pininfarina, scrivono Stefano Parola e Jacopo Ricca su "La Repubblica" il 23 novembre 2016. Dopo aver ricevuto tanta solidarietà da tutta Italia (ma pure molti rimbrotti e inviti a rispettare le regole, per il ragazzo che aveva creato un mercato alternativo e abusivo di merendine a basso costo nell'Istituto Pininfarina di Moncalieri sono arrivate pure delle offerte di lavoro. Andrea Visconti, co-fondatore di una startup torinese chiamata Sinba, dice di avere una proposta di assunzione pronta: "È strutturata in modo che Antonio possa finire la scuola", assicura l'imprenditore, che spiega di aver vissuto un'esperienza simile al liceo. "Abbiamo ricevuto investimenti importanti e li vogliamo utilizzare per puntare sui giovani talenti italiani: lui è esattamente il prototipo di talento che stiamo cercando" dice Visconti, che ha costruito la propria azienda attorno a un'applicazione per cellulari che consente di pagare senza fare code in cassa. Anche Michele Valentino, giornalista e co-proprietario di M&C Media, una piccola società di comunicazione, ha scritto al Pininfarina per offrire "uno stage formativo al fine di indirizzarne in modo positivo lo spirito di imprenditorialità, di creatività e di iniziativa". Insomma, la storia di Antonio (questo il nome di fantasia usato da Repubblica per raccontare la sua storia) ha fatto breccia nei cuori degli imprenditori, nonostante le regole infrante. Sarà il consiglio di classe di venerdì a stabilire quale punizione infliggergli, anche se il preside Stefano Fava sta pensando a una soluzione per veicolare l'intraprendenza del ragazzo nella giusta direzione. Su tutto il resto, il dirigente predica calma: "Ci sono arrivate proposte ma le valuteremo nei prossimi giorni, quando richiamerò chi ce le ha inviate. In questo momento voglio tutelare sia lo studente coinvolto sia i tanti allievi della mia scuola. Il mio obiettivo sono loro". Anche l'I3p, l'incubatore d'impresa del Politecnico di Torino, è pronto a dare una mano: "Con il Pininfarina abbiamo già avviato un progetto di avviamento all'imprenditorialità e siamo pronti a rafforzarlo ancora" assicura il presidente Marco Cantamessa. La storia di Antonio ha colpito pure lui: "Ci sono talenti che vanno stimolati, ovviamente vanno aiutati, ma mai e poi mai vanno considerati come malati". In fondo, dice il docente del Poli, "è normale che l'imprenditore sia un po' matto e che talvolta si ponga ai confini delle regole. Ovvio, le norme vanno rispettate. Ma non possiamo pensare di 'normalizzare i nostri ragazzi più intraprendenti". Domani Alberto Barberis, presidente del gruppo Giovani imprenditori dell'Unione industriale di Torino, incontrerà il preside del Pininfarina: "Vogliamo dare la nostra disponibilità per insegnare al ragazzo come diventare imprenditore attraverso un percorso di tutoraggio", spiega il numero uno degli industriali under 40. E commenta: "La sua intuizione è apprezzabile: ha individuato un bisogno e ha cercato di soddisfarlo. I modi invece non lo sono e probabilmente questo è dovuto al fatto che lo studente non è stato formato adeguatamente su cosa significhi essere imprenditore e avere un'attività. Per questo crediamo che anziché condannarlo sia meglio formarlo".
Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su "ItaliaOggi". Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti). Ne consegue una constatazione ovvia, per quanto dolorosa, che nulla toglie al merito – a volte condotto fino all'eroismo – di singoli magistrati che sacrificano le loro giornate e a volte la loro vita per compiere al meglio un dovere esigentissimo: la constatazione è che di tanti singoli magistrati ci si può fidare, della magistratura come «sistema» no. Essa è parte del problema generale dell'inefficienza di una macchina statale e burocratica che rappresenta il vero male oscuro (mica tanto oscuro) dell'Azienda Italia. Pensare che questa magistratura, così com'è, sia la soluzione al problema generale della cattiva amministrazione è quantomeno ingenuo. I vizi del nostro pubblico impiego – talmente eclatanti da essere meritatamente tema costate della commedia all'italiana – ricorrono tutti anche nella «casta delle toghe»: clientelismo, furbettismo, «demeritocrazia», pressappochismo. Bisognerebbe riformare la magistratura: ma non può farlo nessuno, se non essa stessa. Chi ci prova dall'esterno – compreso Renzi – viene respinto con perdite e anatemi. E immediatamente comincia a temere, forse a torto forse no, rappresaglie. Allora che la magistratura si autoriformi. Piercamillo Davigo, il segretario dell'Associazione magistrati, è certo un magistrato duro, serio e severo. Non sarà contento che le nuove leve della categoria siano selezionate grazie ai geroglifici che segnano sui compiti per farli riconoscere dagli esaminatori imbroglioni.
Per Montesquieu (1748): «Chiunque abbia potere è portato a abusarne, egli arriva fin dove non trova limiti». Ci vuole «il potere che arresti il potere», scrive Serena Gana Cavallo su "ItaliaOggi". Numero 206 pag. 10 del 31/08/2016. Recentemente su queste pagine (ItaliaOggi del 20/08/2016) Sergio Luciano ha trattato il caso, rivelato da Il Fatto Quotidiano, dei concorsi per la magistratura vistosamente e diffusamente truccati. Luciano, invitando ad una riflessione sullo stato della Magistratura, ha invocato una riforma, o meglio una autoriforma, promossa magari da Piercamillo Davigo, di recente assurto al ruolo di Segretario della corrente sindacale (maggioritaria) Magistratura democratica. Condividendo molte delle affermazioni di Luciano, trovo tuttavia alquanto irrituale, se non impraticabile, l'idea che una sindacato, o meglio una corrente sindacale, possa e voglia procedere ad una «autoriforma», anche perché la bandiera, in genere di un sindacato, ma in particolare sventolata da sempre da Magistratura Democratica, è la difesa ad oltranza della categoria, di cui si paventano sempre, e da sempre si denunciano, biechi tentativi di instaurare un «limite all'autonomia dei magistrati», che scorrono per li rami dei governi, che si impersonificano in ogni tentativo di riforma, ma financo e addirittura, nella drammatica imposizione di una diminuzione delle ferie. La teoria della divisione dei poteri ha una storia lunga, ma il suo massimo teorizzatore, da cui traggono origine i moderni assetti costituzionali, fu Montesquieu che la enunciò nel 1748, con una premessa fondamentale e, nell'attualità del tema di cui trattiamo, da tenere molto a mente: «Chiunque abbia potere è portato ad abusarne: egli arriva sin dove non trova limiti. ( ) Perché non si possa abusare del potere occorre ( ) che il potere arresti il potere.» In Italia questo principio ha trovato, in senso non metaforico, una sua concretezza quando il potere giudiziario ha letteralmente arrestato il potere esecutivo, ma, sempre in Italia, il potere giudiziario, nel nome dell'autogoverno, non ha limite e men che meno chi (metaforicamente, ma anche materialmente) lo arresti. Montesquieu non lo aveva pensato così, anzi, essendo i principali poteri fondamentali quello legislativo (formato dati i tempi, da una parte di nobili ed una parte di rappresentanti del popolo), e quello esecutivo (all'epoca il monarca), avevano comunque entrambi una possibilità di interdizione reciproca. Il potere giudiziario veniva definito un «potere nullo», che avrebbe dovuto essere affidato a giudici «tratti temporaneamente dal popolo», in pratica con una legittimazione elettiva (come avviene ad esempio negli Usa) e non sempiterna. In definitiva si potrebbe dire che l'amministrazione della giustizia era considerata come un «servizio» al popolo, sotto il controllo del popolo. Andando avanti di qualche secolo, in un sistema democratico non vi dovrebbe poter essere alcuna forma di «potere» senza un mandato del popolo (nel nome del quale, così si racconta, si amministra la Giustizia in Italia) e men che meno senza un suo «periodico» controllo esterno, comunque lo si voglia configurare, al pari di quel che sono le periodiche elezioni per potere legislativo ed esecutivo. In pratica andrebbe abolito il mito del (buon)autogoverno, e ancor più l'auspicio di una autoriforma, concetto irrealistico, che implica che la Magistratura è una specie di zona extraterritoriale dove tutto il bene e tutto il male si sviscerano (a piccole dosi per il male) solo al suo interno. Dopo aver reso il sempre dovuto omaggio al merito di «singoli magistrati che sacrificano le loro giornate [per questo son pagati n.d.a] e, a volte la loro vita [come molte altre categorie n.d.a.] per compiere al meglio un dovere esigentissimo [come quello di un medico o di un pompiere n.d.a.]», Luciano giustamente conclude che la magistratura deve cambiare e che in essa «i vizi del nostro pubblico impiego ( ) ricorrono tutti nella casta delle toghe: clientelismo, furbettismo, «demeritocrazia», pressapochismo». Luciano dimentica purtroppo un altro «vizio» alquanto diffuso: la corruzione, ché in nessun altro modo può essere definita la prassi di un concorso fasullo e truccato, ciascuno col suo segnale o scarabocchio identificativo, e che arriva peraltro anche all'onore delle cronache quando la «corporazione» si rende conto che non c'è difesa possibile, salvo, dopo, trascinare interminabili processi che comportano l'estinzione di un bel po' di reati (come abbiamo già scritto in passato su queste pagine). Sulla deriva della magistratura, politica, funzionale e disciplinare, Luciano ricorda il bel libro di Liviadotti, «L'ultracasta», ma anche altri varrebbe la pena di citare «Io non avevo l'avvocato», Mondadori, 2015, di Mario Rossetti, scritto tra l'altro proprio con Sergio Luciano, Mondadori, 2015, e, tra i tanti di magistrati (che in genere scrivono dopo essere o essersi pensionati e questo la dice lunga sulle correnti sindacali della categoria) Piero Tony, «Io non posso tacere», Einaudi 2015, che tra l'altro indica alcune indispensabili modifiche per la riforma del sistema giudiziario, a partire da quella separazione delle carriere tra accusatori e giudicanti, che, esecrata dalla categoria, sarebbe un cambiamento che darebbe un minimo di decenza al processo accusatorio con accusa e difesa simmetriche e veramente autonome, senza ibride e pregiudizievoli (per la Giustizia ancor prima che per il cittadino) contiguità. Le ricette non mancano, è il medico che non si vede e che certo non può essere il malato.
L’Italia della de-meritocrazia, scrive Giulia Cortese l'11 febbraio 2016. Futuro Europa Il concetto di “meritocrazia” è molto utilizzato nel dibattito pubblico, non solo dai giornalisti, ma anche da imprenditori, politici, insegnanti e qualche volta anche dai sindacalisti. Il termine è certamente sfuggente, controverso e si presta a numerose polemiche. Secondo la definizione sul vocabolario on line Treccani, si tratta di una “concezione della società in base alla quale le responsabilità direttive, in particolar modo le cariche pubbliche, dovrebbero essere affidate ai più meritevoli”. Almeno in linea di principio, tutti concordano che in Italia di “meritocrazia” ve ne sia ben poca. Qualche anno fa, quando Paolo Casicci e Alberto Fiorillo hanno iniziato a scrivere “Scurriculum. Viaggio nell’Italia della demeritocrazia”, hanno trovato un mucchio di storie esemplari. Storie che dimostrano in modo inequivocabile come l’attuale sistema mortifichi i più bravi costringendoli spesso a regalare la loro intelligenza e la loro preparazione alle università, alle aziende, ai Paesi stranieri e premi, al contrario, quanti hanno in tasca la tessera “giusta” o il numero del “deputato giusto”, mentre le aziende statali o comunali vengono utilizzate come sfogatoio per i trombati o premio per i fedelissimi; o ancora per agganciare vistose signorine dai curricula evanescenti. Un sistema distorto ed autolesionista che infetta la società italiana, rendendola sempre più debole e incapace di stare al passo di un mondo che cambia a velocità immensamente superiore alla nostra. Segnalazioni, suggerimenti, nomi e cognomi detti al momento giusto e alla persona giusta. L’Italia dei raccomandati funziona così. Ma quante sono nel nostro Paese le persone che devono il proprio posto alla cosiddetta spintarella? Per rispondere all’annosa questione arriva uno studio dell’Isfol (Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori), condotto nel 2015 su 40mila individui fra i 18 e i 64 anni. A detta degli intervistati, la raccomandazione in Italia è ancora il canale principale per entrare nel mondo del lavoro: il 30,7 per cento dice infatti di avere ottenuto l’impiego attuale grazie ad un amico o un parente che ha fatto da “intermediario”. E le cifre salgono se si considerano soltanto i lavoratori più giovani, fra i quali ci sarebbero addirittura quattro raccomandati su dieci. Si può misurare la meritocrazia? Si può cercare di farlo costruendo un indicatore che sintetizza le varie dimensioni in cui si articola un sistema sociale ed economico orientato, appunto, alla promozione del merito. Rispetto agli altri paesi europei, i risultati dell’Italia sono sconfortanti. L’associazione no-profit Forum della Meritocrazia, con la collaborazione di un pool di ricercatori ed esperti dell’Università Cattolica di Milano, ha provato a misurare lo “stato del merito – come si legge nel rapporto finale dell’indagine – in un Paese”, utilizzando dati forniti da Commissione Europea, Ocse, The Economist, World Justice Project e altri enti, rapportando il tutto a livello europeo e cercando di capire come siamo messi in Italia. E tutte le impressioni sembrano essere confermate: siamo messi male. L’Italia si colloca al non-sorprendente ultimo posto della classifica sui dodici Paesi europei presi in esame; in cima, le prime quattro posizioni sono occupate da Finlandia, Danimarca, Norvegia e Svezia. E fin qui, nulla di strano. Il dato più interessante, però, riguarda i risultati rilevati nei singoli indicatori: nonostante nessuno riesca a fare peggio di noi, dati particolarmente negativi sono stati riscontrati alle voci trasparenza, libertà e regole (il rapporto è disponibile on-line). Che vogliate essere esterofili o no, i dati parlano chiaro: in Europa siamo indietro anni luce alle spalle di Paesi – con i quali coesistiamo nella stessa Unione – che avranno sì i loro problemi, di ordine diverso rispetto ai nostri, ma rappresentano baluardi di civiltà su punti che dovrebbero costituire le fondamenta di una società contemporanea giusta e, appunto, meritocratica. Marco Pacetti, Rettore del Politecnico di Ancona, la mette così: “Negli Stati Uniti la rete di conoscenze è sì importante, ma bisogna soprattutto essere in gamba. In Italia invece, nessuno crede che coloro che si affidano alla raccomandazione abbiano anche competenza e merito”. “È questa la differenza fra una lettera di raccomandazione e una “raccomandazione”, aggiunge Pacetti con riso beffardo. In America, “chi scrive la lettera di referenze, si prende la responsabilità di segnalare una persona preparata, non un idiota.” Dal punto di vista economico, la carenza di merito si associa all’idea di un sistema poco efficiente, perché non consente un’allocazione ottimale delle risorse, cioè di far giungere nel posto giusto chi può svolgere meglio quel ruolo. Tutto ciò finisce per comprimere la mobilità sociale, come molti studi documentano, facendo dipendere gli esiti individuali più da luogo e famiglia di origine che dall’impegno personale, competenze e capacità. “All’estero la raccomandazione ha una connotazione positiva – afferma Alessandro Fusacchia presidente dell’associazione RENA – se qualcuno decide di sponsorizzarti lo fa perché sei bravo, perché crede in te, e ci mette la faccia insieme a te. In Italia è tutto l’opposto: ci si sente più forti se si riesce a piazzare uno che bravo non è”. Il “benefattore”, poi, lavora nell’ombra, contribuendo ad alimentare un sistema che è parte della cultura del Bel Paese. “Un problema che non è legato soltanto alla classe politica – conclude Fusacchia – perché in Italia alle raccomandazioni si ricorre per tutto, dal posto di lavoro al permesso per il parcheggio sotto casa”. C’è qualcosa che i politici, e in particolare il nuovo governo, dovrebbero fare? “Semplicemente cominciare a dare l’esempio, per avviare un cambiamento che dovrebbe coinvolgere gradualmente l’intera società civile”.
Meritocrazia e demeritocrazia di Eva Zenith. Una società non può essere meritocratica senza essere anche demeritocratica. Non possiamo mettere al centro di una cultura il merito, cioè il talento e l'impegno, se non mettiamo al centro anche il demerito, cioè l'incompetenza e i fallimenti. L'Italia è un Paese dove il merito viene soffocato dall'invidia, dalla svalutazione (chi studia molto è un secchione, chi lavora molto è uno stakanovista) e dalla cultura della clientela. Allo stesso tempo è un Paese dove il demerito viene premiato. Se le cose vanno bene, il merito non è di qualcuno, è di tutti. Se le cose vanno male, il demerito non è di nessuno, oppure di un bel capro espiatorio. Per essere responsabile di qualcosa, in Italia, devono trovarti mentre svuoti la cassa o uccidi qualcuno: e non è detto che anche allora tu non possa cavartela. Siamo un Paese per niente meritocratico ma molto comprensivo! In una società del merito e del demerito, i ricercatori che hanno sbagliato tutti i sondaggi delle ultime elezioni dovrebbero sparire dai mass media. Invece no. In una società del merito e del demerito, un amministratore pubblico che dopo un mandato lascia l'organizzazione in condizioni peggiori di come l'ha trovata, dovrebbe essere cancellato dalla lista degli amministratori pubblici. Invece no: noi lo confermiamo o lo promuoviamo. In una società del merito e del demerito, un politico che perde le elezioni dovrebbe essere cacciato: invece no. Vincitori e vinti si alternano restando abbarbicati alle loro sedie per vent'anni o più. In una società del merito e del demerito, un economista che sbaglia clamorosamente una previsione dovrebbe essere punito come un medico che sbaglia una diagnosi. In Italia no: i nostri economisti sostengono un'idea e il suo contrario, fanno previsioni regolarmente errate, propongono ricette fallimentari ma nessuno li priva mai di un posto da consulente ministeriale, da saggio o da Presidente del Consiglio. Unanimemente, tutti dichiarano che la legge elettorale in vigore è orribile. Ma quelli che hanno ideato e votato quella legge sono ancora sulla scena a blaterare delle future leggi elettorali. In un Paese meritocratico, i firmatari di quella legge sarebbero messi in una lista di allontanamento perenne dalla politica. Unanimemente, tutti attribuiscono la crisi dell'euro all'assenza di una Banca centrale che possa battere moneta. Lo dicono anche quelli che hanno voluto questo euro. Non sapevano allora che l'assenza di un'autorità monetaria avrebbe messo tutti nei guai? In un Paese meritocratico, i firmatari di quella legge sarebbero messi in una lista di allontanamento perenne dalla politica. Unanimemente, tutti odiano Equitalia e la considerano una sciagura. Il fatto è che Equitalia non è stata data alla luce e regolata da un folletto diabolico. La sua protervia, la sua crudeltà, i suoi interessi "usurari", i suoi modi da Kgb non sono (solo) il frutto di burocrati sadici: sono stabiliti da leggi, norme e regolamenti prodotti da ministri, governi e parlamentari con nomi e cognomi. In un Paese meritocratico, i firmatari di quelle leggi, norme e regolamenti sarebbero messi in una lista di allontanamento perenne dalla politica. Quando trova un finto invalido, un Paese che dà valore al merito, non solo punisce lui, ma anche il medico e i funzionari che hanno firmato la pratica, e magari il responsabile dell'INPS locale che non si è accorto di niente. Noi siamo così disinteressati al demerito che non divulghiamo nemmeno i nomi di tutti questi figuri. I mass media non si fanno nessun problema a mettere in piazza le vite private di donne stuprate e ammazzate, ma mai sentirete da loro il nome di un medico che ha creato 300 o 400 finti invalidi. Non è elegante. Quando trova dipendenti pubblici che fingono di stare al lavoro mentre vanno a fare la spesa, o a giocare con le slot machines, un Paese che dà valore al merito, non si limita a punire loro. Punisce anche i loro capi/reparto o capi/ufficio che non si accorgono di avere collaboratori presenti ma assenti. E punisce anche i dirigenti, strapagati per non dirigere alcunchè; e magari punisce anche gli amministratori, per manifesta incapacità. Invece no: non sarebbe rispettoso. Tutto finisce con un rimbrotto e una risata, alla faccia dei dipendenti pubblici che stanno sempre al loro posto, dei capi che li controllano davvero, dei dirigenti che dirigono sul serio, e degli amministratori capaci. D'altronde perchè i capi, i dirigenti e gli amministratori dovrebbero fare il loro mestiere sul serio visto che le loro carriere non dipendono dai meriti ma dalle affiliazioni? Quanti docenti universitari sono stati cacciati dalle loro cattedre per aver palesemente truccato un concorso? Quanti magistrati, avvocati e notai hanno pagato per i loro mostruosi errori giudiziari o legali? Quanti medici hanno dovuto cambiare lavoro dopo i 5/6 morti che non hanno salvato? Quanti segretari comunali sono stati puniti per gli appalti truccati? Quanti generali e capi della polizia hanno perso il posto per aver consentito il nonnismo fra le truppe o i pestaggi dei dimostranti? Quanti sindacalisti hanno pagato per aver taciuto sulle illegalità dell'impresa? I politici che si sono fatti derubare dai loro tesorieri, sono stati puniti per connivenza o manifesta stupidità? E ancora si presentano per chiedere di amministrare l'Italia? Insomma, è chiaro a tutti ormai che le prediche dei tromboni del regime sul necessario riconoscimento dei meriti (specie dei giovani) e delle responsabilità (specie della casta), sono un esercizio di manipolazione. L'Italia è un Paese fondato sul demerito e se ne vanta. Volete la meritocrazia? Emigrate, please!
Demeritocrazia. Perchè l’Italia merita tutti i problemi che ha, scrive il 17 gennaio 2012 "Libertiamo". Siamo così ricchi di autoironia, e probabilmente anche di scarso pudore, da aver intitolato “I raccomandati” un talent show, ovvero una gara che premia il talento, e quindi il merito. Nonostante questo, è impossibile fare a meno di notare certe facce e certi corpi deambulanti tra Montecitorio e i palazzi della Regione, i quali confermano che l’Italia è un paese fondato sulla spintarella. Come quella piuttosto evidente e vigorosa che ha sbalzato l’ormai leggendaria Nicole Minetti dalle scenette di Colorado Café ai piani alti del Pirellone. Viene in mente a proposito anche Renzo Bossi, il primogenito del leader del Carroccio Umberto Bossi, noto anche come “il Trota”. Questo perché, ci conferma suo padre, gli manca il fosforo per essere un delfino. Qualche sospetto, in effetti, verrebbe anche noi, ma non ci stupisce nemmeno che il cognome abbia favorito Renzo nel passaggio da ripetente di professione a Consigliere Regionale. Che dire, poi, degli svarioni grammaticali della deputata pidiellina Micaela Biancofiore? E’ l’ennesima conferma del fatto che nel cosiddetto “belpaese” contano ben poco la Conoscenza, anche dell’italiano, rispetto alle conoscenze, specie se berlusconiane. Arcore e Palazzo Grazioli, infatti, si sono rivelati ottimi uffici di collocamento: oltre al lavoro, in molti casi hanno garantito anche vitto e alloggio, in una strada di Milano divenuta ormai celebre: Via Olgettina. Una volta si usava spartirsi le poltrone dei Tg, e il refrain era: “assumiamo sette giornalisti: tre democristiani, due socialisti, un comunista e uno bravo”. Di questi tempi vengono lottizzate anche le fiction televisive. Abbiamo ogni buona ragione per dire che si è creata una sorta di Costituzione orale della Seconda Repubblica, che si è manifestata, ad esempio, nelle telefonate dell’ex premier Silvio Berlusconi all’ex dirigente Rai Agostino Saccà. Telefonate che avevano come obiettivo quello di sistemare in tv, ragazze di dubbia serietà come Elena Russo, Camilla Ferranti e Eleonora Giaggioli. E’ una novità di questi tempi, questo salto di qualità nella raccomandazione. La “spintarella”, di per sé, non è niente di nuovo sotto il sole, si potrebbe commentare. Il ricorso a questa arte tutta italica è uno sport nazionale, che come abbiamo visto viene festeggiato anche dalla stessa Tv e dai suoi programmi. Si tratta di una condotta, una delle tante, che ci distingue nettamente da tutti gli altri paesi europei. Certo, qualcuno potrebbe ribattere facilmente che è da moralisti indignarsi se l’Italia mantiene in vita un costume tradizionale, da furbetti è vero, ma tutto sommato utile a sopperire a delle grosse mancanze strutturali. Il fatto è che la furbizia italica e la logica che ha permesso e favorito il sistema del clientelismo, oltre a consolidare in noi italiani un’attitudine di scarso senso civico e di rigore morale, oltre a farci dimenticare principi quali giustizia e meritocrazia, sono in realtà strumenti obsoleti e inadeguati in uno scenario sociale e soprattutto economico che è mutato profondamente negli ultimi decenni. L’aspetto più drammatico dello scenario descritto finora è che la demeritocrazia non solo offende l’etica e la voglia di fare delle persone oneste e magari anche di talento, ma strozza anche l’economia. Quella italiana, non per niente, mostra di essere in frenata e di avere una grossa difficoltà di ripresa, mentre paesi dinamici e meritocratici come la Germania sono cresciuti al 5% l’anno anche in tempi di profonda crisi. A proposito di questo viene in mente una citazione dell’economista Tito Boeri: “Tutti battono sul tasto della morale, io vorrei concentrarmi su quanto ci costa ignorarla. I danni economici sono evidenti: la demeritocrazia inibisce la crescita, frustra la produttività, manda in fuga i cervelli”. Le statistiche, infatti, ce lo confermano: sono 6 mila i lavoratori italiani altamente qualificati che ogni anno scappano verso i civili Stati Uniti. Se 20 anni fa a emigrare erano soprattutto le persone con i gradi minori di istruzione, oggi l’emigrante tipo è il laureato con i voti migliori. La cosa peggiore è che, una volta espatriati, questi giovani preferiscono rimanere nel paese dove si sono trasferiti, perché lì viene maggiormente premiato il loro talento e si sentono maggiormente sostenuti, hanno maggiori chance di fare carriera e stipendi più alti. Vi è poi il problema della “stagnazione” delle università italiane, che sono notoriamente prigioniere dei baroni, nonché uno degli habitat naturali della demeritocrazia. A descrivere in modo efficace la situazione in cui riversano i nostri atenei è una frase di Indro Montanelli: “Più che sui generis, i concorsi universitari sono sui cognatis”. La competenza non conta nulla, il curriculum vitae ancora di meno, conta solo il sangue, nel senso di parentela. Qualche esempio? Alla Sapienza di Roma, il magnifico rettore è Luigi Frati, che qualcuno dava in odore di ministero (alla Sanità) nel governo Monti. Nella Facoltà di Medicina di cui è stato preside, tra l’altro, hanno ottenuto una cattedra la moglie Luciana, laureata in lettere, e il figlio Giacomo, ordinario a “soli” 36 anni (traguardo impossibile per i comuni mortali accademici italiani). A poca distanza, a Roma Due, è professore straordinario di Bioetica la figlia Paola, giurista. Viene difficile pensare che si tratti di pure coincidenze. Scendendo verso la parte bassa dello stivale, a Palermo, nel dipartimento di Economia dei sistemi agroforestali, 10 docenti su 19 sono imparentati tra loro. A Bari, poi, ci sono otto Massari, tutti consanguinei. Non si tratta della solita questione di arretratezza del meridione, e ne è prova il fatto che alla Statale di Milano i casi accertati di parentela sono 54, mentre alla facoltà di Medicina di Udine ci sono quattro Bresarola: il capostipite Fabrizio, due figli, di cui uno laureato in filosofia, e una nuora. “Parentopoli” non è nemmeno l’unica fonte di collocamento, perché a dare la “spintarella” ci pensa anche la massoneria e più in generale, le lobby (“bianche”, “rosse”, “nere” e Comunione e Liberazione). A questo punto, forse sarebbe anche il caso di abolire i concorsi, visto che in questo stato di cose non hanno alcuna credibilità. Costano 40 milioni di euro all’anno, tra l’altro, e l’esito è già prestabilito. Chi non sta alle regole, è fuori. Si tratta di un sistema tanto chiacchierato e oggetto di generale indignazione, ma che fino a oggi tutti hanno accettato. L’importante è cercare di fare meno nomi possibili, funziona così l’università italiana. Studenti, dottorandi e ricercatori, magari dopo una vita di studio, esperienze all’estero e pubblicazioni in riviste autorevoli, aspettano il loro turno, ma non è detto che ce la facciano. Per questo sono nati centinaia di blog e siti internet che danno voce alla loro frustrazione: per difendere l’università pubblica e la voglia di un futuro più onesto e più giusto. Vi è lo stesso identico andazzo anche negli ospedali, dove sono stati praticamente aboliti i concorsi per diventare primari, visto che a essere selezionati sono quasi sempre quelli con la tessera politica giusta, a scapito dei più meritevoli. Ne consegue che sono aumentate le denunce per mala sanità e gli ospedali sono a volte costretti a pagare dei risarcimenti ai pazienti-vittime. C’è solo da sperare che si smetta di promuovere gli incompetenti, visto che, oltretutto, è poco conveniente da un punto di vista economico. L’etica e la reputazione, si sa, non sono certo delle priorità. Di demeritocrazia si può anche morire professionalmente, almeno in Italia, anche nei casi di persone che, se fossero altrove, avrebbero un percorso decisamente più immediato, ma solo grazie alla loro preparazione e talento, e non certo per le conoscenze. Siamo arrivati a un punto, dunque, in cui le carriere si trasmettono per via ereditaria, come le monarchie o le malattie genetiche? Una risposta ce la dà una ricerca del think thank Italia Futura, secondo cui il 44% degli architetti è figlio di architetti, cifra che è leggermente inferiore per avvocati e notai (42%) e farmacisti (40%). Eppure, la meritocrazia è un tema che piace a un buon numero di italiani. Ne stanno parlando i blog, si fanno dibattiti in radio e in Tv, il tema è stato abbordato perfino dal Presidente della Repubblica Giorgio Napoletano. L’esigenza di meritocrazia in qualche modo è “rispecchiata” dal nuovo governo di professori, tutti esperti dai capelli grigi. Nel nuovo governo sono numerose le donne ad avere ruoli di prestigio, ma fortunatamente nessuna di esse è arrivata alla politica tramite concorsi di bellezza, o ha un passato da velina. Per fortuna c’è anche chi sceglie la via del rigore e del duro lavoro, del farsi strada con le proprie forze e senza scorciatoie. Vi è un gruppo di ragazzi che vuole cambiare in meglio l’Italia, a colpi di talento e di tenacia: sono i giovani che hanno aderito al think thank “Forum della meritocrazia”, presieduto dall’imprenditore Arturo Artom, che ha come obiettivo principale quello di iniettare entusiasmo tra i giovani e di essere per loro un punto di riferimento. Vuole essere il mezzo e il messaggio, come diceva Marshall Mc Luhan. L’Italia ha bisogno che si diffonda la cultura dell’esempio, contro le mele marce che rovinano il cesto e fanno sentire sconfitti. Anche per questo, alle prossime elezioni il “Forum della meritocrazia” farà una certificazione di tutti i candidati. La cosa sarà senz’altro divertente anche per noi. Per quanto riguarda la terza repubblica, l’Italia post spread e si spera anche post raccomandazioni, possiamo solo augurarci che si venga a creare, una volta per tutte, un mantra contro caste, raccomandazioni, listini bloccati in politica, nepotismo e tutte quelle opacità che trovano spazio negli ospedali, nelle università, nell’impresa e nel palazzi del governo, dove i principali criteri di assunzione sono stati finora decisamente poco nobili e per nulla meritocratici. Se si vuole cambiare veramente le cose nel nostro Paese, sarà importante che, a poco a poco, coloro che vogliono “giocare pulito” facciano rete, radicandosi a poco a poco su tutta la penisola. Perché, la cosa è certa, l’Italia ha bisogno soprattutto di persone come loro.
“Se perdo al referendum non mi vedrete più”. Tutte le promesse non mantenute di Renzi e Pd. Siccome le parole sono importanti è tempo di pubblicare la raccolta definitiva di tutte le volte in cui l'ex premier, Maria Elena Boschi e i colleghi democratici hanno promesso di abbandonare definitivamente governo e vita politica in caso di vittoria del No al referendum, scrive Wil Nonleggerlo il 14 dicembre 2016 su "L'Espresso". “Se vince il No finisce la mia storia politica”, “cambio mestiere e non mi vedrete più”, “con che faccia potrei restare?”, “il Pd si troverà un altro segretario”. E dai democratici, in coro: “non avremmo più autorevolezza, impossibile restare attaccati alla poltrona”, “lascerei pure io”, “e pure io!”. Oggi Matteo Renzi è saldamente ancorato alla guida del Partito Democratico, il #governofotocopia di Paolo Gentiloni ha ottenuto la fiducia e Maria Elena Boschi è rientrata immediatamente a Palazzo Chigi nonostante il fallimento referendario e la promessa di andarsene in caso di sconfitta. Il No ha stravinto, sul resto giudicate voi.
- MATTEO RENZI, DA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO
La fine dell'esperienza politica (Consiglio dei Ministri, 12 marzo 2014): "Lo dico qui, prendendomene la responsabilità, che se non riesco a superare il bicameralismo perfetto non considero chiusa l'esperienza del governo, considero chiusa la mia esperienza politica".
Fine (Tg2, 30 marzo 2014): "O facciamo le riforme, o non ha senso che io stia al governo. Se non passa la riforma del Senato, finisce la mia storia politica".
Del tutto evidente (Conferenza stampa di fine anno, 29 dicembre 2015): "È del tutto evidente che se perdo il referendum costituzionale, considero fallita la mia esperienza in politica".
Precise responsabilità (Repubblica.tv, 12 gennaio 2016): "Intendo assumermi precise responsabilità. È un gesto di coraggio e dignità. Se perdo il referendum io non solo vado a casa, ma smetto di far politica".
La dignità (Aula del Senato, 20 gennaio 2016): "Lo ripeto anche qui: se perdessi il referendum considererei conclusa la mia esperienza politica. Credo profondamente nel valore della dignità della cosa pubblica".
La borsettina (Quinta Colonna, 25 gennaio 2016): "Io non sono come gli altri, se gli italiani diranno No, prendo la borsettina e torno a casa".
E le vostre idee? (Scuola di formazione del Pd, 7 febbraio 2016): "Se vince il No prendo atto del fatto che ho perso. Dite che sto attaccato alla poltrona? Tirate fuori le vostre idee, ecco la mia poltrona".
The end (Scuola di formazione del Pd, 12 marzo 2016): "Se perdiamo il referendum è doveroso trarne conseguenze, è sacrosanto non solo che il governo vada a casa, ma che io consideri terminata la mia esperienza politica".
Non mi vedrete più (Congresso dei Giovani Democratici, 20 marzo 2016): "Io ho già la mia clessidra girata. Se mi va male, se perdo la sfida della credibilità o il referendum del 2016, vado via subito e non mi vedete più".
Se perdi una sfida epocale (Durante il #matteorisponde, Facebook, 28 aprile 2016): "Sto personalizzando? No, se perdi una sfida epocale che fai? Racconti che i cittadini hanno sbagliato? No, hai sbagliato tu".
A casa (Ansa, 2 maggio 2016): "La rottamazione non vale solo quando si voleva noi. Se non riesco vado a casa".
Vinavil (Rtl 102.5, 4 maggio 2016): "Non sono come i vecchi politici che si mettono il vinavil e che invece di lavorare restano attaccati alla poltrone".
Smetto proprio, con che faccia rimango? (Che tempo che fa, 8 maggio 2016): "Non è personalizzazione, ma serietà. Se io perdo, con che faccia rimango? Ma non è che vado a casa, smetto proprio di fare politica".
Fine carriera (Radio Capital, 11 maggio 2016): "Se non passa il referendum la mia carriera politica finisce qui. Vado a fare altro".
Destinazione paradiso (Ansa, 11 maggio 2016): "Non sto in paradiso a dispetto dei santi. Se perdo, non finisce solo il governo: finisce la mia carriera come politico e vado a fare altro".
Libero cittadino (Porta a Porta, Rai 1, 12 maggio 2016): "Se vince il No, mi dimetto il giorno dopo e torno a fare il libero cittadino".
Personalizzazione? (L’Eco di Bergamo, 21 maggio 2016): "Se perdiamo il referendum, vado a casa. Questa è personalizzazione? No. Questa è serietà".
Quel galantuomo di Napolitano (Comizio a Bergamo, 21 maggio 2016): "Non sono andato a palazzo Chigi dopo aver vinto un concorso, mi ci ha messo quel galantuomo di Napolitano con l'impegno di fare le riforme. Se non ottengo questo risultato, l'Italia continuerà a essere il Paese degli inciuci e del Parlamento più costoso del mondo. Se l'Italia vuole questo sistema, è giusto che lo faccia senza di me".
Tutti via in caso di sconfitta (In mezz'ora, Rai 3, 22 maggio 2016): "Se il referendum dovesse andare male non continueremmo il nostro progetto politico. Il nostro piano B è che verranno altri e noi andremo via". (Nel governo Gentiloni tutti confermati, tranne il ministro Giannini).
Via pure dalla segreteria Pd (Virus, Rai 2, 1 giugno 2016): "Se perdo il referendum troveranno un altro premier e un altro segretario".
Cambierò mestiere (Il Foglio, 2 giugno 2016): "Io sono fiducioso che vinceremo bene. Ma se il referendum andrà male continuerò a seguire la politica come cittadino libero e informato, ma cambierò mestiere. Vuole uno slogan semplice? O cambio l'Italia o cambio mestiere".
Pollo da batteria (eNews, 29 giugno 2016): "Secondo voi io posso diventare un pollo da batteria che perde e fa finta di nulla?".
È stato gli altri (La Repubblica, 31 luglio 2016): "Personalizzare questo referendum contro di me è il desiderio delle opposizioni, non il mio".
Governicchi mai (Ansa, 17 novembre 2016): "Io non posso essere quello che si mette d’accordo con gli altri partiti per fare un governo di scopo o un governicchio".
Curriculum (#matteorisponde, Facebook, 21 novembre 2016): "Non sto qui aggrappato al mantenimento di una carriera. Non ho niente da aggiungere al curriculum vitae".
Il boy scout (Matrix, Canale 5, 30 novembre 2016): "Io sono un boy scout, non voglio diventare come gli altri, il mio lavoro deve servire a cambiare il paese. Se vogliono un bell'inciucione, se lo facciano da soli...".
No agli accordicchi (Comizio ad Ancona, 30 novembre 2016): "Non sono quello che fa accordicchi alle spalle dei cittadini. Per questo possono chiamare qualcun altro".
I pop-corn (Repubblica.tv, 30 novembre 2016): "Se gli italiani dicono No, preparo i pop-corn per vedere in tv i dibattiti sulla casta".
- LE CONFERME DEL PD
L'allora ministro Maria Elena Boschi a Otto e Mezzo, La7, 27 aprile 2016: "Se un governo ha avuto il mandato da Napolitano a fare le riforme e queste poi non passano, è normale che ne prenda atto".
Il ministro Dario Franceschini a Repubblica, 29 maggio: "Il ritiro in caso di vittoria del No non è una minaccia, a me sembra una con-sta-ta-zio-ne. Questo governo nasce per fare le riforme. Se le riforme non si fanno chiude bottega il governo e chiude anche la legislatura, mi pare ovvio". (Franceschini è stato confermato al ministero dei Beni Culturali dal nuovo premier Gentiloni, e la legislatura prosegue).
Valeria Fedeli, da vicepresidente del Senato, a L'aria che tira, La7, 4 dicembre 2016: "Se vince il No il giorno dopo bisogna prenderne atto, non possiamo andare avanti perché non avremmo più l'autorevolezza. Sarebbe giusto rimettere il mandato da parte del premier ma anche da parte dei parlamentari: tolgo l'alibi a chi pensa 'tanto stiamo lì fino al 2018', perché pensano alla propria sedia. Io non penso alla mia sedia". (Valeria Fedeli è appena stata nominata Ministro dell'Istruzione del Governo Gentiloni).
Maria Elena Boschi a In mezz'ora, Rai 3, 22 maggio 2016: "Noi vinceremo, quindi questo problema non si porrà. Ma comunque sì, noi siamo molto serie e se Renzi perde anch'io lascio la politica, perché è un lavoro che abbiamo fatto insieme. Come potremmo restare e far finta di niente?". (Maria Elena Boschi è appena stata nominata sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, entrando così di fatto nel nuovo Governo Gentiloni).
Maurizio Crozza nel paese delle meraviglie, ultima puntata su La7 con il saluto finale di Maurizio, scrive Fabio Traversa venerdì 16 dicembre 2016. La Finocchiaro era relatrice della riforma istituzionale, poi bocciata al referendum, "e ora è ministro delle Riforme. Allora vale tutto!". E la Madia? "Aveva presentato la riforma della P.A., la Consulta gliel'ha stroncata, e ora lei è di nuovo ministro della P.A. In Italia vige la demeritocrazia!". Crozza ne ha anche per la neo-ministra dell'Istruzione che non sarebbe laureata: "E' solo diplomata, ma non ha il diploma di maturità bensì di tre anni di magistrali, l'hanno nominata ministro alla scuola per fargliela finire!". Crozza si è già affezionato al ministro degli Esteri Alfano: "Conosco più io la biologia molecolare che lui l'inglese". E viene mostrato il filmato mentre "parla" a Bruxelles in quella lingua con una rappresentante svedese. Crozza, ovviamente, non ha pietà...
Fedeli, un ministro all’istruzione senza laurea, scrive il 14/12/2016 La Nuova BQ. Si viene a scoprire che il neo-ministro all’istruzione Valeria Fedeli, dicastero che ricomprende anche l’Università, non è nemmeno laureata. Sul suo sito si legge che ha ottenuto un «diploma di laurea in Scienze sociali» conseguito presso la Scuola per assistenti sociali Unsas di Milano. Ma all’epoca non esisteva simile laurea. Il titolo da lei ottenuto è un semplice diploma post-maturità. Lei ribatte che oggi sarebbe considerata una laurea. Ma c’è una bella differenza tra un diploma che potrebbe essere omologato ad una laurea e l’effettiva equiparazione che nel caso della Fedeli non è avvenuta. Mario Adinolfi interviene sul caso: «Valeria Fedeli mente sul proprio titolo di studio, niente male per un neoministro dell’Istruzione. Dichiara di essere laureata in Scienze sociali, in realtà ha solo ottenuto il diploma alla Scuola per assistenti sociali Unsass. Complimenti Gentiloni: a dirigere scuola e università in Italia mettiamo non solo una che non è laureata, ma una che spaccia in Laurea in Scienze sociali un semplice diploma della scuola per assistenti sociali». E così conclude: “La spacciatrice di menzogne sul gender è abituata a dire bugie. Il problema non è neanche che non è laureata, ma che mente spudoratamente. Per un atto del genere in qualsiasi Paese del mondo dovrebbe dimettersi seduta stante o essere costretta a farlo”. E così salgono a quattro i ministri senza laurea nel presente governo: Valeria Fedeli, Beatrice Lorenzin, Andrea Orlando e Giuliano Poletti.
Fedeli: «Il diploma di laurea? Una leggerezza, ma troppa aggressività». La ministra all’Istruzione e il curriculum corretto: «Se volevo truffare non avrei mai messo diploma di laurea ma solo laurea». Dal premier Gentiloni «piena fiducia», scrive Fiorenza Sarzanini il 14 dicembre 2016 su "Il Corriere della sera". Al termine di un’altra giornata segnata dagli attacchi delle opposizioni e dall’ironia sui social network, Valeria Fedeli, neoministro all’Istruzione, si rifugia nel suo nuovo ufficio. E si sfoga. «Perché posso aver commesso una leggerezza, ma finire sotto accusa in questo modo davvero non me lo sarei mai aspettato». È affranta, ma a mollare non ha mai pensato. «Scherziamo? Io sono una persona seria. Se volevo mentire o truffare non avrei mai messo nel mio curriculum diploma di laurea, ma avrei scritto laurea e basta». Il caso è fin troppo noto. Denunciato con un messaggio inviato due giorni fa al sito Dagospia dall’ex deputato Pd Mario Adinolfi, diventato adesso uno dei leader del popolo del Family day. «La ministra — aveva evidenziato Adinolfi spalleggiato da Massimo Gandolfini, che del Family day è inventore e promotore — sostiene di avere un diploma di laurea in assistente sociale, ma mente. Quello è soltanto un diploma. Quindi deve dimettersi». Ieri la scheda ufficiale sul sito personale della ministra è stata modificata in modo, hanno spiegato i suoi collaboratori, «da evitare ogni ambiguità». Il confronto avuto con il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni l’ha rassicurata, perché le è stata espressa «piena fiducia». I messaggi di solidarietà sono stati moltissimi. Ma certo gli attacchi bruciano «soprattutto per una come me che ha sempre fatto la sindacalista e non ha mai sfruttato nulla. Lo voglio ripetere in maniera chiara: questo titolo non l’ho mai usato, non mi è mai servito. Nel 1987 c’è stata la possibilità di farlo equiparare, ma io già facevo la sindacalista, avevo preso una strada completamente diversa». Fedeli ha un temperamento forte, un carattere deciso. La sua chioma rosso fuoco è diventata famosa dentro e fuori il Parlamento. Convinta sostenitrice del Sì al referendum sulle riforme era intervenuta qualche giorno prima della consultazione a L’Aria che tira, programma di La7 condotto da Myrta Merlino, per assicurare che avrebbe lasciato la poltrona. E anche per questo adesso è finita al centro delle polemiche che infuriano contro tutti coloro — Renzi e Boschi in testa — che avevano preso l’impegno pubblico di «abbandonare la politica in caso di sconfitta». Fedeli è consapevole che la bufera non passerà in tempi rapidi, ma non si scoraggia. «Io vivevo a Milano e facevo la maestra d’asilo. Poi ho frequentato la Unsas, scuola laica per diventare assistente sociale, ma è un mestiere che non ho mai fatto. Sono andata a lavorare al Comune di Milano entrando al 7° livello e andando via allo stesso livello. Io sono sempre stata sindacalista. E non ho mai avuto alcun beneficio da quel pezzo di carta. Capisco e comprendo tutto, ma sono veramente sconcertata da tanta aggressività». Due giorni fa, appena la vicenda era diventata pubblica aveva espresso la convinzione che fosse «un caso montato ad arte». Perché, aveva argomentato «guarda caso sono stati quelli del Family day a tirare fuori questa storia. Loro mi detestano per essermi schierata contro, per aver difeso la teoria del gender ed evidentemente non possono accettare che mi occupi di scuola. Eppure per me parla la mia storia politica, io sono sempre stata seria e coerente nell’affrontare i problemi. E lo farò anche adesso, senza farmi intimidire». Una posizione ribadita ieri: «Spero di potermi occupare della scuola, dei problemi veri. Di questo voglio parlare, degli studenti, degli insegnanti, di quello che si deve fare per far funzionare la pubblica istruzione». In attesa che la bufera passi davvero.
Laurea falsa, la Fedeli si auto-assolve e accusa: "Contro di me troppa aggressività". La Fedeli non chiede scusa per aver mentito sul suo titolo di studi: "Ho commesso una leggerezza". E attacca: "Sono sconcertata da tanta aggressività", scrive Sergio Rame, Giovedì 15/12/2016, su "Il Giornale". "Posso aver commesso una leggerezza, ma finire sotto accusa in questo modo davvero non me lo sarei mai aspettato". Non solo si auto-assolve ma sale addirittura in cattedra per attaccare chi giustamente le ha fatto notare che non si era mai laureata. "Comprendo tutto - tuona il neo ministro dell'Istruzione, Valeria Fedeli, in una intervista al Corriere della Sera - ma sono veramente sconcertata da tanta aggressività". Più che di polemica, si potrebbe parlare di indignazione popolare. Perché la Valeri ha spacciato per laurea un semplice diploma. Nulla contro chi non ha conseguito un pezzo di carta all'università, ma il neo ministro è l'ennesimo personaggio che si sente in diritto di poter mentire sul proprio titolo di studio e farla franca. Come se niente fosse, infatti, si autoassolve parlando di un disguido verbale e tira dritto. Non una scusa agli italiani a cui ha provato a farla sotto il naso. Di lasciare l'incarico affidatole dal neo premier Paolo Gentiloni non le passa nemmeno per la testa. "Scherziamo? - reagisce Fedeli - io sono una persona seria. Se volevo mentire o truffare non avrei mai messo nel mio curriculum diploma di laurea, ma avrei scritto laurea e basta". Una tesi quantomeno discutibile. Ma tant'è. L'ex sindacalista resterà ancorata alla sua poltrona. Non importa se, prima del referendum sulle riforme costituzionali, ha detto che, in caso di vittoria del No, avrebbe fatto un passo indietro (guarda il video). L'ha fatto avanti. È restata e si è pure portata a casa una poltrona da ministro. Nell'intervista al Corriere della Sera, la Fedeli si lamenta degli gli attacchi ricevuti. "Bruciano soprattutto per una come me che ha sempre fatto la sindacalista e non ha mai sfruttato nulla. Lo voglio ripetere in maniera chiara: questo titolo non l'ho mai usato, non mi è mai servito". E racconta: "Nel 1987 c'è stata la possibilità di farlo equiparare, ma io già facevo la sindacalista, avevo preso una strada completamente diversa". La bugia resta ugualmente. A Palazzo Chigi, però, nessuno si è scomposto. La stessa Fedeli rivela che Gentiloni le ha espresso "piena fiducia". "Spero - conclude - di potermi occupare della scuola, dei problemi veri. Di questo voglio parlare, degli studenti, degli insegnanti, di quello che si deve fare per far funzionare la pubblica istruzione". Ma cosa insegnerà agli insegnanti e, soprattutto, agli studenti? Che si può mentire tranquillamente e, se pizzicati, si può fare spallucce e tirare dritto come se niente fosse?
Il ministro dell'Istruzione Valeria Fedeli non ha il diploma di maturità (ma ha quello magistrale triennale). Nuova bufera sui social, scrive su "L'Huffington Post" Claudio Paudice il 15/12/2016. Nuova bufera sulla neo ministra dell'Istruzione Valeria Fedeli. Dopo le polemiche scatenate per le false informazioni riportate sul suo curriculum, nel quale si dava conto di una laurea in Scienze Sociali mai conseguita, ora l'attenzione si concentra sul suo trascorso scolastico. Anche questa volta a sollevare per primo il caso è il direttore de La Croce Quotidiano Mario Adinolfi: "La Fedeli non ha fatto mai manco la maturità, ma solo i tre anni per fare la maestra. Poi diplomino da assistente sociale, privato. Questo è il nuovo ministro della Pubblica Istruzione che si dichiarava 'laureata in Scienze Sociali'. Spero che studenti e docenti a ogni incontro la sotterrino di pernacchie". Lo staff del ministro, contattato dall'Huffpost, ha confermato: "Lo avevamo già spiegato nei giorni scorsi, lei ha fatto una scuola per conseguire il diploma di maestra nelle scuole materne che dura tre anni" e poi l'oramai famosa scuola per assistenti sociali. "Niente di nuovo, Adinolfi esprime legittimamente la sua opinione su quali titoli debba avere o non avere" un ministro dell'Istruzione. Differentemente dal "diploma di laurea" inserito per "leggerezza" - come lei stessa si è giustificata in un colloquio con il Corriere della Sera - il diploma di maturità non è menzionato nel suo curriculum vitae. Fedeli si è detta "sconcertata" per gli attacchi subiti in questi giorni, difendendo il suo passato di "sindacalista: lo sono sempre stata". E, ha precisato, "non ho mai avuto alcun beneficio da quel pezzo di carta". Tuttavia il fatto che il ministro dell'Istruzione non abbia conseguito il diploma di maturità, pur non essendo un requisito necessario per legge per ricoprire quel ruolo, alimenta nuove polemiche. Non a caso: il settore della scuola ha subito negli anni diverse modifiche nella normativa per l'accesso all'insegnamento, causando non pochi disagi agli aspiranti docenti. L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha confermato ad aprile scorso l'orientamento adottato con diverse sentenze dalla VI sezione consentendo l'accesso alle Gae, le graduatorie ad esaurimento, a coloro che hanno conseguito il diploma magistrale ante 2001/2002. Ma è sempre il Consiglio di Stato ad aver scritto, nel dicembre 2013, che tale titolo non è equiparabile ai diplomi rilasciati a chiusura dei corsi di scuola secondaria di secondo grado di durata quinquennale: solo questi ultimi consentono "l’accesso ai corsi di laurea universitari e alle carriere di concetto presso le Pubbliche amministrazioni e valgono ogniqualvolta la legge richiede il possesso di un diploma come requisito professionale". Da qui nascono le (nuove) polemiche sull'opportunità che a Viale Trastevere ci sia un ministro dell'Istruzione senza "maturità".
Lo staff della Fedeli conferma: mai fatto l'esame di maturità. Dopo le accuse di Adinolfi al neo-ministro dell'Istruzione, Valeria Fedeli, arriva una conferma dal suo staff: il ministro non ha mai sostenuto l'esame di maturità, scrive Franco Grilli, Venerdì 16/12/2016, su "Il Giornale". Dopo le accuse di Adinolfi al neo-ministro dell'Istruzione, Valeria Fedeli, arriva una conferma dal suo staff: "Non ha mai sostenuto l'esame di maturità". Insomma la Fedeli non solo non ha nessun titolo accademico ma di fatto non si è mai seduta tra i banchi per sostenere l'esame di maturità. Tutto parte da un post su Facebook di Mario Adinolfi che dopo aver smascherato il ministro sulla tanto contestata laurea in Scienze Sociali, ha messo nel mirino il ministro sulla maturità: "Fedeli - assicura Adinolfi - non ha mai fatto neanche la maturità, ma solo i tre anni di magistrali necessari a prendere la qualifica di maestra d'asilo e poi il diplomino privato all'Unsas da assistente sociale, quello spacciato per diploma di laurea in Scienze Sociali. Abbiamo il record mondiale di un ministro della Pubblica Istruzione che non solo mente sui propri titoli di studio, non solo non è laureato, ma non ha mai neanche sostenuto quell'esame di maturità che ogni anno agita così tanto centinaia di migliaia di studenti". E così lo staff, contattato da Libero non ha potuto far altro che confermare le parole di Adinolfi. Il corso frequentato - sottolineano dallo staff - è quello triennale della Scuola magistrale. E alla fine del percorso di studio non è previsto l'esame di maturità. Inoltre affermano, sempre dallo staff, che in questo caso il ministro non ha mai inserito nel Cv informazioni imprecise su questo punto.
Ministra Fedeli, manca la laurea e anche la maturità, scrive Chiara Pizzimenti il 16.12.2016 su "Vanity Fair". Arrivano quasi tutti dal fronte del Family Day, ma arrivano forti gli attacchi alla nuova ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli. E il campo di battaglia è la scuola. L’ultimo colpo arriva da Mario Adinolfi, ex deputato Pd, ora presidente del Popolo della famiglia. Secondo quanto dice Adinolfi non avrebbe fatto l’esame di maturità, «ma solo i tre anni di magistrali necessari a prendere la qualifica di maestra d’asilo e poi il diplomino privato all’Unsas da assistente sociale, quello spacciato per diploma di laurea in Scienze sociali». Era stato lo stesso Adinolfi a portare alla ribalta la questione della laurea in scienze sociali, inesistente, ma segnalata nel curriculum vitae della Fedeli, poi corretto con la dicitura «diploma per assistenti sociali presso Unsas». Nessuna bugia sulla maturità, da nessuna parte è scritto che l’abbia fatta. Al tempo erano sufficienti i tre anni di magistrali per fare la maestra d’asilo. Ma ogni via è buona per la polemica e ad Adinolfi si aggiungono i Cinque stelle: «Certamente i titoli di studio non sono tutto nella vita ma qui siamo di fronte a un ministro, il titolare dell’Istruzione, che ha mentito sul titolo di studio. Il Miur e il comparto istruzione non meritano anche questa umiliazione». Una polemica che è sui titoli di studio, ma riguarda più in generali il percorso della Fedeli in particolare nella lotto contro le discriminazioni di genere. Il senatore Carlo Giovanardi l’ha ricordata come prima firmataria del ddl 1680 sull’introduzione dell’educazione di genere e della prospettiva di genere nelle scuole, che lui chiama un «tentativo di colonizzazione ideologica della scuola pubblica». In realtà la vita politica della Fedeli ha le sue basi soprattutto nel movimento sindacale e in particolare nel settore tessile. Si ritrova nel posto di Stefania Giannini (una delle poche tagliate rispetto al governo Renzi da Gentiloni) a fare i conti con una riforma che non piace alla maggior parte degli insegnanti.
Fedeli: "Ho lavorato una vita nel sindacato, posso fare la ministra anche senza laurea". La titolare dell’Istruzione replica alle polemiche sul suo titolo di studio: "Il mio metodo da quarant’anni è l’ascolto, mi aiuterà anche qui", scrive Corrado Zunino il 17 dicembre 2016 su "La Repubblica".
"Posso fare la ministra - ministra, ci tengo - dopo una vita così intensa nel sindacato. Sono stata apprezzata, promossa, chiamata a Roma, poi a Bruxelles a guidare il sindacato europeo dei tessili. Ho contribuito a salvare grandi aziende, ho portato nella Cgil le competenze dei ricercatori della moda, mi sono occupata di Wto e dei round per far entrare i cinesi nel commercio internazionale. Sono diventata vicepresidente del Senato e ora sono qui, al ministero dell'Istruzione, e fino a quando questo governo esisterà cercherò di migliorare la scuola, l'università e la ricerca italiana 24 ore al giorno".
Ministra, l'esordio è stato difficile. Nel suo curriculum online aveva scritto di aver conseguito un diploma di laurea, in un secondo curriculum era evidenziata una laurea in Scienze sociali. Lei non ha la laurea.
"Non l'ho mai sostenuto. Non ricordo il curriculum con la dicitura laurea, ma quello con su scritto diploma di laurea, rilasciato dopo tre anni dall'Unsas, è stato solo una leggerezza. La laurea è una cosa a cui non ho mai pensato. Ho 40 anni di vita rigorosa nel sindacato, non ho mai usato quel diploma, sono stato sempre una distaccata di settimo livello, maestra d'infanzia distaccata".
Ministra, il giorno dopo le polemiche lei ha cambiato il curriculum: solo diplomata, si legge adesso. Definirsi laureata è dipeso forse da un complesso psicologico? All'ex sottosegretario Faraone i docenti precari hanno sempre rinfacciato il fatto che non avesse il titolo, fino a quando lui non ha ripreso gli studi e dato la tesi.
"Io non mi sono laureata perché il sindacato mi ha preso e portata via, è diventata la mia vita. Non una carriera, la vita. Alla laurea non ho mai pensato. Nel 1987 avrei potuto equiparare quei tre anni come assistente sociale al titolo di laurea, ma non l'ho fatto perché era fuori dal mio mondo. Riunioni, incontri con gli operai, viaggi a Bruxelles, e chi l'aveva il tempo per la laurea?".
Lei, dopo i tre anni delle superiori, ha fatto la maestra d'infanzia?
"Sì, ero giovanissima. E il fatto che abbia voluto studiare per altri tre anni alla scuola per assistenti sociali senza averne bisogno, avevo già un'occupazione, dimostra che il gusto della conoscenza l'ho sempre avuto. Poi, ho trovato ostacoli nella mia vita e, dopo l'esplosione del '68, è arrivato il sindacato. In quegli anni ti assorbiva completamente".
Che tipo di ostacoli?
"Non vengo da una famiglia ricca e molto presto mi sono resa autonoma: da Treviglio sono andata a vivere a Milano. Mio fratello ha fatto Giurisprudenza, io ho abbracciato la Cgil".
Non si sentirà in difficoltà quando dovrà incontrare una docente ancora precaria con due lauree o parlare di Technopole con la scienziata Elena Cattaneo?
"Il mio metodo è l'ascolto e ascolterò con attenzione chi ha competenze straordinarie. Cresceranno le mie. Ascoltare, capire, conoscere. Quarant'anni di applicazione di questo metodo mi aiuteranno anche al ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca".
A La7 lei disse: "Il giorno dopo, se ha vinto il no, tu ne devi prendere atto, non puoi andare avanti perché non hai l'autorevolezza. Io non penso alla mia sedia". Lei, però, ora fa la ministra.
"L'aver detto che bisogna prendere atto della sconfitta è coerente con la nascita di un governo che deve affrontare le urgenze del Paese".
Ministra, quale sarà il suo primo atto per migliorare la scuola italiana?
"Le prime telefonate le ho fatte ai cinque sindacati rappresentativi, lunedì li incontrerò. Vorrei il loro punto di vista sulla Buona scuola, dopo il lungo conflitto che c'è stato".
Le piace la Legge 107?
"L'ho votata, al Senato. Ha dentro cose importanti, innovative, immaginate dalla ministra Carrozza e approdate con la Giannini. È legge vigente, la si deve far funzionare senza tradire il progetto".
I sindacati le chiederanno di fermare gli spostamenti dei docenti dal Sud al Nord.
"È una questione centrale e dovremo trovare nuove soluzioni, magari sperimentali. Con grande attenzione, tocchi una cosa e ne viene giù un'altra".
La chiamata del preside?
"Cercheremo criteri oggettivi con i quali, poi, il dirigente scolastico potrà scegliere i docenti".
Ereditate nove deleghe dal governo Renzi, una Buona scuola bis: il 15 gennaio scadono.
"Voglio portarle in fondo tutte, ma prima studiarle bene. Chiederemo al Parlamento di rivotare quelle in scadenza. La legge 0-6, che prevede la materna unica e l'assunzione di maestre d'infanzia, è pronta. Sono stata la seconda firmataria".
Viva la Fedeli, abbasso la laurea. La presunta bugia della neo ministra all’Istruzione non è che la conseguenza di un rapporto malato tra l’Italia e il “pezzo di carta”. Un Paese in cui tutti vogliono essere laureati, ma in cui la laurea non serve a nulla, scrive Francesco Cancellato il 14 Dicembre 2016 su “L’Inkiesta”. E ti pareva che non succedesse di nuovo. Che qualcuno - nella fattispecie Mario Adinolfi - non tirasse fuori una presunta millantata laurea di un’avversaria politica - nella fattispecie la neoministro alla pubblica istruzione Valeria Fedeli - per delegittimarla in partenza. Che, poi, alla fine, di inciampo lessicale pare proprio trattarsi, visto che il titolo di studio della Fedeli è effettivamente un diploma di laurea, antesignano dei diplomi universitari degli anni novanta e delle lauree triennali di oggi. Ma non è qui il problema. La Fedeli, pur non essendosi mai giovata di questa bugia per fare carriera, potrebbe pure aver mentito sul suo titolo di studio per una questione di vanità personale o per un malcelato complesso d’inferiorità. Ma la bugia - da stigmatizzare in quanto tale, nel caso - non sarebbe che il triste epifenomeno di un rapporto malato dell'Italia, più che col Sapere con la S maiuscola, con il “pezzo di carta” che, in teoria, dovrebbe certificarlo. Un Paese che ha il più basso numero di laureati in Europa, ma in cui anche il più umile analfabetizzato funzionale ha avuto il suo «Buongiorno Dotto’» di celebrità. Un Paese che spende una marea di soldi per far studiare i propri figli, che non ne accetta l’inadeguatezza allo studio, che accetta di buon grado che rimangano sui banchi di scuola fino alla crisi di mezza età, pur di invitare i parenti al pranzo di laurea. E che poi non sa che farsene dei laureati e li costringe, nei fatti, a fare la fila alle agenzie interinali per un posto da magazziniere, o a emigrare. Ancora: un Paese che in coda a tutte le classifiche per la spesa in istruzione e ricerca e assente in quelle delle università migliori al mondo, con decine di atenei sotto casa costruite «per l’indotto sul territorio», in cui la baronia e la trasmissione ereditaria della cattedra sono elevate a forma d’arte. Un Paese in cui la percentuale di antivaccinisti s’impenna tra laureati e dottorati, con buona pace di chi ha frequentato l’università della vita. Un Paese con uno dei più altimismatch del mondo Ocse tra domanda e offerta di lavoro, tra professionalità sul mercato e posti di lavoro disponibili. Un Paese, per dirla in meno di dieci parole, in cui poche cose servono meno di una laurea. La Fedeli potrebbe pure aver mentito sul suo titolo di studio per una questione di vanità personale o per un malcelato complesso d’inferiorità. Ma la bugia - da stigmatizzare in quanto tale, nel caso - non sarebbe che il triste epifenomeno di un rapporto malato dell’Italia, più che col Sapere con la S maiuscola, con il “pezzo di carta” che, in teoria, dovrebbe certificarlo. E allora abbasso un’istruzione - superiore e non solo - da rivoltare come un calzino e viva chi sta provando a farlo e chi ci vorrà provare. Abbasso il valore legale del titolo di studio, strumento classista e inadeguato a valutare il merito tanto quanto lo è una raccomandazione, perlomeno ora e qui. E, nel frattempo, viva la Fedeli, il suo diploma universitario, la sua gavetta politica, se le metterà al servizio - nel poco tempo a sua disposizione - per cambiare almeno un po' le cose. E ancora: viva Oscar Giannino, che si appunti al petto come una medaglia che un Presidente del Consiglio sia costretto, per averne ragione in un dibattito da ko tecnico, a ricordare il caso dei suoi millantati titoli di studio. Viva il Premio Oscar Roberto Benigni, i Premi Nobel Dario Fo ed Eugenio Montale, direttori di giornale e telegiornale come Enzo Biagi, Enrico Mentana e Giuliano Ferrara, moloch della divulgazione scientifica come Piero Angela e dell’intrattenimento televisivo come Maurizio Costanzo, viva la spregiudicatezza visionaria di Enrico Mattei e Michele Ferrero, il talento politico di Fausto Bertinotti e Walter Veltroni e i calli sulle mani di sarti e cuochi oggi diventati stilisti e chef come Giorgio Armani e Carlo Cracco. Viva tutte quelle persone che non si sentono in diritto di accampare alcuna pretesa per una riga in più nel curriculum vitae e che hanno costruito la loro fortuna e quella del Paese usando come mattoni le loro idee, la loro ambizione, la loro cultura del lavoro. Viva chi se ne fotte dei giudizi delle aristocrazie vuote del sapere col parrucchino. Viva la loro fame e la loro follia, come disse ai neolaureati di Stanford, nel suo discorso più famoso, Steve Jobs, che laureato non era, nemmeno lui, come del resto non lo è Bill Gates. Chissà che quante gliene avrebbe dette, il Dottor Mario Adinolfi.
Ridateci Croce e Gentile come Ministri dell’Istruzione! Scrive Francesco Boezi su “Il Giornale" il 16 dicembre 2016. Una nazione che ha avuto Benedetto Croce come Ministro della Pubblica Istruzione non può giudicare un governante dai titoli. Non è questo il punto. Ognuno di noi conosce moltissime persone prive della laurea, ma validissime nei settori in cui operano. Allo stesso modo, esistono plurititolati privi di qualunque capacità. Questo è un fatto rinomato. Certo è che il settore in questione, quello dell’istruzione, meriterebbe un trattamento di favore nella scelta di persone specificatamente formate per dettarne le linee guida. Un comandante, insomma, deve sapere com’è fatta la nave per evitare che affondi. Specie nel caso in cui, come questo, la nave sia parecchio importante e sembri imbarcare parecchia acqua. La Fedeli, prescindendo dalla mancanza della laurea e dalla questione riguardante il diploma privato, viene dal sindacalismo. Cosa c’entra con la cultura italiana? Servirebbe altro. Non un tecnico, ma una persona dotata di una visione, di una Weltanschauung in grado di tirare fuori la scuola dalle sacche sessantottine in cui è tragicamente finita. Il nostro è un modello che si allontana sempre di più dalle radici umanistiche ed identitarie, per inseguire una scimmiottatura americaneggiante fatta di convenzioni con i fast food, sperimentazioni educative ed un’infinità di progetti pomeridiani poco sensati, spesso costruiti addosso alle passioni private dei docenti. Il tutto senza alcuna visione di insieme, nel breve e nel lungo periodo. Così, mentre assistiamo al ritorno del fenomeno dell’analfabetismo, noi ci occupiamo di gender, di neutralizzare i pronomi in nome del politically correct e di introdurre legislativamente forme di rispetto per le differenze di genere, partendo quindi dal presupposto che gli insegnanti non siano capaci di educare gli studenti in modo autonomo ed abbiano bisogno di direttive verticistiche. Questo dirigismo valoriale, si sa, preoccupa molto il mondo cattolico. La petizione promossa su Citizengo.org, sponsorizzata, tra gli altri, dal Comitato “Difendiamo i Nostri Figli” e da “La Manif Italia”, segnala come la scelta della Fedeli possa essere stata mossa dallo spirito di vendetta che il Partito Democratico sembrerebbe nutrire verso le organizzazioni citate, in funzione del loro impegno per il No al referendum costituzionale. Se questo fosse il movente, non sarebbe positivo. La Fedeli, d’altro canto, è la pasionaria del disegno di legge sull’educazione di genere risalente al 2014. La scuola italiana rischia di finire in una guerra ideologica di cui non ha alcun bisogno. La missione del sistema educativo dovrebbe essere quello di formare gli italiani del domani in un contesto laico e privo di strutture e sovrastrutture dottrinali imposte dai desiderata antropologici di una parte politica. Dai recenti studi dell’ex Ministro De Mauro, esemplificativamente, viene fuori che solo un terzo degli italiani avrebbe livelli sufficienti di comprensione della scrittura e del calcolo per poter vivere all’interno della società contemporanea senza enormi disagi. Spicca, soprattutto, la questione della regressione in età adulta all’analfabetismo funzionale, fenomeno che finisce per interessare l’efficienza economica-produttiva della nostra nazione. Per quel che concerne chi da scuola è uscito. Per quelli che ancora sono dentro, parlano le annuali statistiche sulla crisi della lettura, sull’analfabetismo matematico e sul livello qualitativo complessivo dell’istruzione italiana. Tutti questi fenomeni non saranno forse legati al progressivo abbandono dei classici? Alla svalutazione del sapere umanistico, etichettato tanto frettolosamente quanto stupidamente come inutile? Non sarà stato il clichè della “riforma sempre e comunque” a destrutturare dalle fondamenta un modello culturale che aveva sfornato i migliori in ogni campo del sapere umano? Oppure nessuno si ricorda più di cosa fu capace la generazione cresciuta sui banchi della riforma Gentile? Non sarà, magari, che il sapere liquido, ideologico, nozionistico, economicistico e slegato dalla storia porti con sè l’enorme problema di essere solo un mezzo temporaneo e mai un bagaglio personale definitivo? Di questo sarebbe necessario preoccuparsi, non del gender. Altro che Fedeli! Ridateci Croce e Gentile!
Quanto veleno se la poltrona va a chi non è laureato. Uno su quattro degli incaricati da Renzi non ha il titolo di dottore, ma neanche Marconi ce l'aveva e ha cambiato il mondo. Conta solo il lavoro che sapranno fare, scrive Vittorio Feltri, Domenica 23/02/2014, su "Il Giornale". Tradizione rispettata. Anche questo governo, fortemente voluto da Matteo Renzi detto Fenomeno, pur non avendo ancora mosso un dito, è già stato subissato di fischi per vari motivi, uno soprattutto: è colpevole di essere nato. Succede così da sempre. Seguo da cronista la politica da mezzo secolo e non mi è mai capitato di udire elogi unanimi diretti a un neopremier o ai neoministri. Perfino Alcide De Gasperi fu salutato con sospetto. Con l'andare del tempo divenne antipatico addirittura agli amici del suo partito, la Dc, i quali brigarono per rispedirlo in Trentino affinché cedesse il posto a giovani (si fa per dire) rampanti. Missione compiuta. Una volta morto, lo statista fu elevato agli altari. Oggi chiunque loda le sue opere. Dubito che Renzi sia la reincarnazione di De Gasperi, però non me la sento di definirlo sciocco il primo giorno di scuola. C'è chi invece si è già scagliato contro di lui e la sua squadra. Lo biasimano perché dice una cosa e ne fa un'altra, tradendo il desiderio di entrare a Palazzo Chigi anche a costo di piegarsi alle pretese delle segreterie e agli ordini del Colle, come se fosse facile ignorare le prime e i secondi. Sui nomi dei prescelti dal presidente del Consiglio si è aperta una gara a chi li bastona di più. Un esercizio abbastanza semplice. È sufficiente consultare il dizionario dei sinonimi per trovare epiteti originali con cui deridere i fortunati vincitori delle cadreghe ministeriali: otto uomini e otto donne, in omaggio alla moda delle pari opportunità. Molti responsabili di dicastero sono volti nuovi, altri meno: in linea di massima, comunque, gente sconosciuta o semisconosciuta al grande pubblico. Pertanto chi fa il mio mestiere ha indagato in fretta e furia per rintracciare qualche dettaglio biografico degno di nota e idoneo a imbastire articoli pepati su questo o su quel personaggio. Cosicché alcune penne intinte nel veleno hanno raccontato che un quarto dei 16 componenti della compagine governativa è privo di laurea. Ecco l'elenco: Beatrice Lorenzin (Sanità), Maurizio Martina (Politiche agricole), Andrea Orlando (Giustizia) e Giuliano Poletti (Lavoro e welfare). In che cosa consista lo scandalo non è chiaro. Tuttavia il tono con cui si scrive sul conto di costoro è sfottitorio. Come dire: che aspettarsi da politici che non hanno neppure concluso gli studi universitari? E si sorvola sul fatto innegabile che è più importante aver imparato a stare al mondo che non aver conseguito un diploma al massimo livello accademico. Ma, quando si tratta di prendere in giro una persona assurta ad alte responsabilità, è comodo sbattergli in faccia la patente di ignorante: non comporta nemmeno lo sforzo di verificare se ciò corrisponda a realtà. Può darsi che un signore e una signora privi di laurea siano impreparati a gestire un ministero, ma può anche essere che un laureato non sia in grado di mandare avanti un negozio di frutta e verdura. La storia ci insegna che un alto numero di autodidatti è stato premiato con il Nobel non certo perché abbia conseguito brillantemente titoli di studio, bensì per meriti legati ad attività professionali egregiamente svolte. Lo abbiamo ricordato spesso, ma giova rammentarlo ancora: a parte Luigi Pirandello, tutti gli altri Nobel italiani per la letteratura - Grazia Deledda, Salvatore Quasimodo, Eugenio Montale - non erano laureati. Non citiamo Dario Fo per decenza. Segnaliamo inoltre che Benedetto Croce e Gabriele D'Annunzio l'università la videro col binocolo. E Guglielmo Marconi? Mai frequentato corsi scolastici superiori con regolarità. Ciononostante, egli è lo scienziato che ha segnato una svolta nella storia dell'umanità con un'invenzione da lasciar senza fiato. Con questo non stiamo sostenendo che i quattro rimorchiati da Renzi, benché sprovvisti di titoli, siano dei geni apparecchiati per risolvere i problemi del Paese, tutt'altro. Ma siamo convinti che il loro rendimento al tavolo dell'esecutivo non dipenderà dalle pergamene (che non hanno) ma dalle capacità che ci auguriamo abbiano. Nei casi della Lorenzin e di Orlando sarebbe lecito azzardare un giudizio, poiché entrambi non sono esordienti nel ruolo di ministri. Ma ci zittiamo per prudenza, essendo consapevoli che con un capo diverso da Enrico Letta, cioè Renzi, essi potrebbero fare meglio del peggio combinato nella precedente esperienza. È solo un auspicio. Intendiamo sottolineare che polemizzare sulle lauree in mancanza di argomenti più seri è una manifestazione di meschinità. Lo è tanto più in un momento, quale il presente, caratterizzato dalla crescente disoccupazione giovanile, particolarmente accentuata fra i laureati. Dal che si evince che conviene saper esercitare un mestiere ben retribuito che non farsi chiamare dottore gratis.
Al governo senza laurea: Poletti, Orlando e Lorenzin hanno solo la maturità, scrive il 9 giugno 2014 "Corriere Università". E’ la vecchia storia dei governanti e dei governati. Sì, perché la squadra messa insieme dal premier Matteo Renzi sarà pure la più giovane in base alla media d’età (47,8 anni) ma, di sicuro, non è il massimo in termini di istruzione. Giuliano Poletti, Beatrice Lorenzin, Andrea Orlando: tre dei ministri che reggono dicasteri fondamentali, infatti, non sono laureati. Nemmeno al primo livello. Orlando, ministro della Giustizia, si è fermato alla maturità scientifica. Beatrice Lorenzin, ministro della Sanità già presente nella legislatura di Letta, vanta una maturità classica. E Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, è perito agrario. Il grafico pubblicato da Linkiesta è lo specchio di un Paese che troppo spesso delega le funzioni importanti a chi per quei ruoli non ha nemmeno studiato. Il 23,5% di coloro che ci governano – scrive il magazine – non ha nemmeno la laurea. Pochissimi hanno un master, qualcuno un dottorato di ricerca. L’Italia, dunque, conquista un’altra maglia nera in Europa, dove invece la preparazione e la competenza contano. In Francia tutti i ministri hanno almeno la laurea, in Germania un solo non laureato viene compensato da tantissimi ricercatori. E se guardiamo agli Usa, la situazione peggiora (per noi): pochi laureati, molti con master e dottorato.
8 ministri italiani che non hanno mai preso la laurea, scrive il 14 dicembre 2016 Carmine Zaccaro su "Skuola.net". La polemica sulla laurea della neo ministra Valeria Fedeli ha scatenato il web. Nelle scorse ore infatti, il nuovo responsabile di Viale Trastevere si è dovuta difendere da attacchi e ironie, partite dopo il post di Mario Adinolfi, ex giornalista e leader del Popolo della Famiglia, che la accusava di non aver conseguito un titolo di studio equiparabile alla laurea. E mentre dal ministro sono arrivati i chiarimenti sulla vicenda - un presunto "problema lessicale" fatto in "buona fede" - quella della laurea non sembra rappresentare un elemento imprescindibile per fare carriera. Noi di Skuola.net siamo andati a spulciare nei curricula di 8 ministri ed ex ministri italiani, che ricoprono o hanno ricoperto posizioni rilevanti nella guida del paese, e di laurea non c'è nemmeno l'ombra.
8. Francesco Rutelli. Classe 54' di origine romano, Rutelli è stato co-presidente del Partito Democratico Europeo. Eletto sei volte in Parlamento. Sindaco di Roma nel 1993. E'stato Ministro dei beni e delle attività culturali. Ha ricevuto Lauree honoris causa dalla John Cabot University, dalla Temple University e dall’American University in Rome, ma non l'ha mai presa in gioventù: si è iscritto nuovamente all'università proprio qualche mese fa, con l'obiettivo di ottenere (stavolta) il titolo.
7. Altero Matteoli. Politico italiano di lungo corso. Classe 40' cresce sotto l'ala dell'On. Beppe Niccolai, esponente storico pisano del MSI. Dall'8 maggio 2008 al 16 novembre 2011 è stato Ministro delle Infrastrutture e dei trasporti nel Governo Berlusconi.
6. Massimo D'Alema. Romano di origine. Sposato, con due figlie. E' un giornalista professionista e vanta collaborazioni anche con l'Unità, di cui è stato direttore nel biennio 1988-1990. Ha studiato al liceo classico. Entra alla Camera dei deputati nel 1987. Dal 21 ottobre 1998 all'aprile del 2000 è stato Presidente del Consiglio dei Ministri. Il 17 maggio 2006 diventa Ministro degli Esteri nel Governo Prodi.
5. Walter Veltroni. Politico italiano classe 55' di Roma. Prima di intraprendere la carriera politica è stato giornalista professionista, ha anche diretto lo storico quotidiano l'Unità. La politica entra nella sua vita nel 1976, quando viene eletto consigliere al comune di Roma rimanendo in carica per cinque anni. Eletto in Parlamento nel 1987. Romano Prodi lo chiamò nel 1996 a condividere la leadership del partito "l'Ulivo" nell'anno della vittoria di quella coalizione, assumendo in seguito l'incarico di vicepresidente del Consiglio e Ministro dei Beni Culturali e Ambientali con l'incarico per lo spettacolo e lo sport. Nel 2003 riceve la laurea Honoris causa dalla John Cabot University di Roma. Oggi scrive libri e dirige film, ma la laurea non è mai stata una priorità per la sua carriera.
4. Umberto Bossi. L'energico Umberto Bossi, capo-popolo delle fila della Lega Nord non ha conseguito la laurea durante il suo percorso formativo. Si ferma alle superiori, dove consegue il diploma di perito tecnico. Si iscrive alla facoltà di Medicina di Pavia senza conseguire la laurea. Ma questo non gli ha impedito di diventare senatore della Repubblica ed europarlamentare. Ha fondato il partito che ad oggi raccoglie il sentimento di una vasta fetta di elettori italiani. E' stato Ministro per le Riforme Istituzionali durante il governo Berlusconi.
3. Giorgia Meloni. Rampante politica e giornalista di origine romana. Ha speso gli anni della gioventù alla carriera politica. A 15 anni ha fondato il coordinamento studentesco "Gli Antenati". Diventa responsabile nazionale di diventa responsabile nazionale di Azione Studentesca, il movimento studentesco di Alleanza Nazionale e rappresentante al Forum delle associazioni studentesche. Nel 2006 entra alla Camera dei Deputati con Alleanza Nazionale e fino al 2008 ricopre la carica di Vicepresidente. Il 21 aprile di questo anno è stata impegnata nella campagna elettorale per diventare sindaco di Roma. Anche per lei la laura non è stata la prima preoccupazione, ma neanche un ostacolo ai successi personali. E' stata Ministro per la gioventù con il governo Berlusconi.
2. Giuliano Poletti. Attuale Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali. Al centro di un putiferio che fece arrabbiare qualche studente, quando propose meno vacanze estive per fare qualche lavoretto costruttivo. Riconfermato come ministro nel Governo di Responsabilità che fa capo a Paolo Gentiloni, la carriera politica non è stata frenata dalla mancanza del titolo di laurea.
1. Beatrice Lorenzin. Tra le donne al vertice del Governo Renzi. Riconfermata con Poletti. Il ministro Beatrice Lorenzin a capo del dicastero della Sanità non ha una laurea, sebbene nel corso degli anni la sua vita sia stata segnata da vari successi personali e professionali.
Primo guardasigilli non laureato, nel 2010 gli è stata ritirata patente per guida in stato di ebbrezza, scrive il 27 Febbraio 2014 Federico Altea su "Elzeviro". Ministri discutibili. Il ministro della giustizia. Orlando, poca competenza in materia, parlò di abolizione di ergastolo e revisione del 41 bis. Il neoministro della Giustizia nel Governo Renzi è l'onorevole Andrea Orlando, già ministro dell'Ambiente del governo Letta. Una scelta piuttosto discutibile, considerato che a capo del dicastero dell'Ambiente è stato posto un signore senza particolari competenze e afferente alla formazione politica casiniana (7 deputati su 630). Andrea Orlando, signore che ha sempre mangiato a pane e politica, milita nei giovani comunisti fin dagli anni Ottanta. Dal Partito comunista fa la classica trafila nel PDS, nei Ds ed infine nel Pd. Avendo ricoperto incarichi di responsabilità negli enti locali sarebbe forse stata comprensibile una sua nomina nel dicastero degli Affari regionali. Un governo nominato (susseguente ad altri due sorti nella medesima maniera) non dovrebbe essere così spiccatamente politico, tanto più quando si parla di fare riforme (una al mese, addirittura) che siano massimamente condivise e non pronte per essere disgregate dal governo successivo. Nonostante non avesse competenze che trasparissero con evidenza dal suo curriculum in campo ambientale, Orlando si è occupato nel suo mandato annuale nel governo Letta di temi molto scottanti, come l'Ilva e la terribile emergenza ambientale che affligge la Terra dei fuochi, a proposito della quale è stato promotore di una legge. La legge in questione introduce il reato di combustione dei rifiuti abbandonati o depositati in aree non autorizzate (condanne da due a cinque anni che possono ulteriormente aumentare se ad appiccare i roghi è un'impresa). La sua applicazione, ad oggi, lascia tuttavia a desiderare: nelle periferie delle grandi città e nei parchi le prostitute, alle quali potrebbe facilmente essere applicata questa legge, seguitano a bruciare copertoni per riscaldarsi, inquinando così come non mai le aree urbane, mentre sull'operato delle aziende l'iniziativa dei magistrati si è forse rivelata troppo blanda. L'emergenza della Terra dei fuochi sarebbe stato un problema da non sbolognare all'ennesimo ministro eletto come tappabuchi (ci riferiamo al ministro Galletti). Quarantacinquenne, non ha mai toccato la giustizia in incarichi pubblici, ma è stato nominato responsabile in materia in seno alla direzione del partito di cui fa parte, nominato da Bersani di cui è fedele compagno nella corrente nei Giovani turchi. In un'intervista al Foglio si disse favorevole al carcere duro, ma anche ad una revisione del 41 bis, se così si può interpretare la frase: "Non ci sono ancora i tempi per superarlo (il 41 bis), ma è necessario fare il punto sulla sua funzionalità nella lotta alla mafia". Non è di un politico "esperto" né di un tecnico intrallazzato che il dicastero della giustizia ha bisogno, ma di un penalista serio che riformi completamente il sistema penale e restringa il più possibile la facoltà dei giudici di interpretare a loro piacimento il sistema delle attenuanti (incredibilmente quasi sempre concesse). Una persona che abbia le competenze per ricostruire il sistema penitenziario da rivedere dal primo all'ultimo articolo e nella sua applicazione, comprese le interessanti innovazioni apportate di recente all'istituto della detenzione domiciliare (braccialetto elettronico). Andrea Orlando, sempre parlando di competenze in ambito di Giustizia o giuridiche in senso lato, non solo non ha la laurea in giurisprudenza, ma non ha ottenuto un diploma di laurea di alcun genere. Nella storia della Repubblica italiana è la prima volta che il Ministero della Giustizia viene affidato ad un non laureato. Tutti i trentatré predecessori di Orlando, infatti, erano laureati e ben ventisette guardasigilli erano laureati giurisprudenza. Chissà se Orlando intende fare qualcosa sulla patente a punti andando così a meritarsi gli auspici dell'Unione delle camere penali che sperano che un politico così navigato possa essere anche in grado di "interpretare alla lettera lo spirito garantista della Costituzione": considerato che nel 2010 Orlando ha subito il ritiro della patente dopo essere stato scoperto al volante con un tasso alcolemico superiore al consentito, magari vorrà essere molto "garantista" al riguardo...
La laurea dei politici italiani: ecco la classifica dei più sfigati, scrive l'1 Febbraio 2012 “Libero Quotidiano”. Dopo l'uscita del viceministro Martone, il settimanale Oggi stila la graduatoria: dal razzo Napolitano fino alla lumaca Scajola. Il più sfigato di tutti è Claudio Scajola che si è laureato a 53 anni. Giorgio Napolitano, Mario Monti, Romano Prodi erano dottori già a 22 anni. Dopo la dichiarazione choc del viceministro del Lavoro Michel Martone che ha definito sfigato chi si laurea dopo i 28 anni, il settimanale Oggi ha stilato la classifica degli sfigati. Nelle ultime posizioni ci sono Stefania Prestigiacomo, dottoressa a quarant'anni, Gianni Alemanno che ha conquistato il titolo a 46 anni, ha dovuto aspettare altri sei anni Mario Baccini che ha discusso la sua tesi a 52 anni. Chi si è laureato tardi, fa notare il settimanale, ha avuto ottime scuse: da Antonio Di Pietro studente lavoratore: di giorno era impiegato civile dell'Aeronautica e di sera alle prese coi testi di diritto. Ma nonostante tutto si è laureato a 28 anni, esattamente come Nichi Vendola che ha discusso la sua tesi di Lettere su Pasolini lavorando come dirigente dei giovani comunisti e dell'Arcigay. L'ex ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini si è salvata per il rotto della cuffia visto che si è laureata a 27 anni, meglio Mara Carfagna e Daniela Santanché entrambe sono arrivate al traguardo a 26 anni. Molte ombre sono cadute sulla laurea di Alessandra Mussolini accusata con altri 180 studenti romani di aver comprato due esami nel 1982, un anno fa è stata bocciata all'esame di abilitazione ma alla fine ce l'ha fatta. La Prestigiacomo ha dovuto rinviare i suoi studi perché a 23 anni, quando le sue coetanee andavano all'Università, lei era presidente dei giovani industriali di Siracusa e quattro anni dopo divenne deputato. Claudio Scajola si è laureato a 53 anni, in Legge. Si era iscritto nel 1967 ma poi fu attratto dalla politica e, a 27 anni, dirigeva già un ospedale. Martone quando ha chiamato sfigato chi si laurea dopo i 28 anni, dimentica i suoi colleghi acquisiti (per carità, lui è un tecnico) che non sono neanche laureati. Da Francesco Rutelli a Massimo D'Alema...
La laurea di Angelino Alfano senza quid e gli analfabeti che sanno leggere, scrive Silvia Truzzi, Giornalista, l'11 maggio 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Il ministro dell’esterno Angelino Alfano – collezionista di gaffe e incidenti di varia natura, dalla rivelazione sull’arresto dell’assassino di Yara al ben più grave caso Shalabayeva – ha duramente attaccato il leader della Lega, con i consueti argomenti ineccepibili e ragionamenti di granitico rigore: “Basta ascoltare Salvini e si capisce perché è un fuori corso. Uno che non si è nemmeno laureato nonostante i notevoli sforzi”. Naturalmente Alfano è laureato e pure in un’università teoricamente d’eccellenza – la Cattolica di Milano – eppure, nonostante il titolo prestigioso, l’ex amico B. lo definì, con chirurgica spietatezza, un senza quid. E forse sfugge all’ex Guardasigilli che l’attuale ministro della Giustizia Andrea Orlando non dispone di laurea alcuna. Come Beatrice Lorenzin e Giuliano Poletti. Ma anche quando i ministri sono dottori, le cose non vanno meglio. Capita alla soave Maria Elena Boschi, “non sempre a suo agio con le materie costituzionali” come ha detto di lei Stefano Rodotà. La laurea (in legge a Brescia) e l’abilitazione da avvocato (a Reggio Calabria), non hanno salvato Mariastella Gelmini, ministro dell’Istruzione!; dallo scivolone sul tunnel tra Ginevra e il Gran Sasso nel 2011. E nemmeno, nel giugno dello stesso anno, da un clamoroso errore in una lettera ai maturandi nella quale ricordava il suo esame: “Ho scelto un tema su Fogazzaro, Palazzeschi e i crepuscolari. Argomenti che conoscevo bene”. Tanto bene da aver messo l’autore di Piccolo mondo antico tra i crepuscolari. E dire che nel 2010 aveva dato dello “studente ripetente” a Pier Luigi Bersani (il quale per tutta risposta aveva pubblicato su Internet il suo libretto, tutto 30 e 30 e lode) suscitando le curiosità dei cronisti sul suo curriculum accademico. Alessandra Arachi aveva fatto una chiacchierata sul Corriere della Sera con il relatore di tesi della dottoranda Mariastella, Antonio D’Andrea, docente di diritto costituzionale all’università di Brescia. Ecco come ricorda la sua studentessa: “Mariastella Gelmini si è laureata almeno tre anni fuori corso con un voto di 100 su 110. Aveva scelto una tesi con un titolo accattivante: ‘Referendum d’iniziativa regionale’. L’argomento era bello, ma lei lo ha trattato in maniera davvero sciatta. Per quella tesi non ho voluto dare neanche un punto in più alla media dei voti. Non soltanto per come era stata scritta, a tirar via, ma soprattutto per come la Gelmini venne a esporla in sede di discussione”. Per la famosa legge dell’orologio rotto, bisogna dar ragione a Salvini che ha risposto ad Alfano “meglio non avercele le lauree di Mario Monti ed Elsa Fornero”: visti i danni fatti dal governo dei professorini, non si può dargli torto. E comunque, (guarda cosa ci tocca dire), meglio Salvini di Oscar Giannino inciampato nella clamorosa balla su lauree e presunti master. Del resto Bossi, diplomato alla mitica scuola Radio Elettra, ha rifiutato una laurea honoris causa in Scienze delle Comunicazioni, liquidando l’iniziativa (sempre del ministro Gelmini, tout se tient) così: “Stupidaggini”. Tipo la memorabile uscita del brillante ex viceministro Michel Martone: “Se non sei ancora laureato a 28 anni sei uno sfigato”. Del resto Eugenio Montale, un ragioniere che non aveva fatto studi classici né si era laureato ma aveva vinto il Nobel per la Letteratura nel 1975, giustamente notava in una famosa battuta che “gli analfabeti al giorno d’oggi sanno leggere”. Potremmo dire, nel caso dei nostri dotti politici e delle loro querelle sugli studi, “asinus asinum fricat”.
Ministri senza laurea e società civile con e senza titoli, scrive Romolo Ricapito il 17 Dicembre 2016. Impazza da giorni ovunque la notizia che una nuova ministra del governo non è, non sarebbe, laureata. Secondo alcuni, non costei si sarebbe nemmeno diplomata! In un articolo di un giornale importante, ho letto che comunque altri tre ministri del governo non sono in possesso di lauree. Impazzano allora i sondaggi e le proposte. Qualcuno addirittura propone l'obbligo di avere la laurea per ministri, parlamentari. Per me si esagera: la laurea è una specializzazione in un campo specifico. Ma spesso assistiamo a un'ignoranza di ritorno: quella di chi, laureato (ma anche diplomato...) non legge libri né giornali, non va al cinema, al teatro, al museo. Questa categoria di persone è più numerosa di quanto si creda. Spesso mi è capitato di frequentare anche occasionalmente persone che ignorano anche le notizie dei i tg, quelle più importanti, o quelle delle quali più si discute. Il trend segna che costoro sono donne, spesso indifferenti a tutto per ragioni personali. Ma tornando al ministro col diploma di laurea (o senza laurea): quante persone che tutti conosciamo, o abbiamo frequentato, a livello appunto di conoscenza e amicizia, fingono titoli di studio inesistenti? E tutto per essere alla pari, o probabilmente al di sopra degli altri, secondo loro incomprensibili motivi. La colpa è anche di chi ha mitizzato questo titolo di studio, la laurea, appunto. Spesso imponendolo ai figli, magari ragazzi svogliati che non avevano nessuna voglia di proseguire con l'Università e che adesso si ritrovano fuori corso con lauree generiche, strappate con voti minimi e dalle quali non hanno attinto particolari conoscenze.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
IL CRACK DEL PIEMONTE: FALLIMENTO SABAUDO.
Piemonte, Lazio e Campania vicine al default: il fallimento delle Regioni, scrive il 21 ottobre 2015 “Il Secolo D’Italia”. Più che le scaramucce politiche, forse ha pesato la voce per sua natura imparziale della Corte dei conti, la quale – riferendosi al Piemonte, sommerso da un disavanzo di quasi 6 miliardi ha esplicitamente ammesso che sarebbe «auspicabile un decisivo intervento legislativo che preveda per la Regione un piano di rientro dal disavanzo che sia economicamente sostenibile e al tempo stesso non blocchi gli investimenti necessari per il rilancio dell’economia». Quell’intervento urgente promesso dal governo alle regioni e poi annegato nella legge di stabilità, quindi reso di fatto mutile: sarebbe entrato in vigore l’anno prossimo. Secondo “la stampa”, la Corte dei Conti ha fornito a Sergio Chiamparino l’assist perfetto per alzare la voce e ricordare a Palazzo Chigi le promesse mancate. L’analisi dei magistrati contabili e l’affondo del presidente del Piemonte – «questa norma, che avevamo concordato, così serve a nulla» – hanno indotto il governo a un brusco dietrofront: il decreto salva-regioni si farà, verrà firmato la settimana prossima e sarà un provvedimento a sé, non annegato nella legge di stabilità. Ballano circa venti miliardi. E balla non solo il Piemonte, ma anche Lazio, Campania e buona parte delle regioni italiane, gelate da una sentenza della Corte Costituzionale sul bilancio 2013 del Piemonte ma valida per tutti: l’ente aveva ricevuto dallo Stato tre miliardi per pagare i debiti con i fornitori ma – anziché considerarli una anticipazione di cassa – li aveva utilizzati come fossero un mutuo, aumentando le proprie capacità di spesa. E, quindi, gonfiando il deficit: non 2 miliardi, come era stato iscritto a bilancio, ma 5, da coprire ora in sette anni, versando circa 800 milioni l’anno, il doppio dei 400 milioni “liberi” del bilancio, ovvero non vincolati a stipendi e spese fisse. Impossibile: ecco perché Chiamparino – cui pure la Corte dei conti imputa di posticipare le contromosse per rendere sostenibili i conti «con l’inevitabile conseguenza di trasferire alle generazioni future il peso del debito» – si è scagliato all’attacco del governo. Come presidente della Conferenza delle regioni qualche settimana fa aveva concordato una soluzione con i vertici del ministero dell’Economia: un decreto ad hoc che neutralizzasse subito parte del disavanzo e consentisse alle regioni di chiudere il bilancio a fine anno evitando il commissariamento. Invece il governo ha inserito la norma nella legge di stabilità. Particolare non secondario: la legge si approverà a fine anno ed entrerà in vigore nel 2016, quindi le regioni non potrebbero sfruttarla per raddrizzare i conti entro fine dicembre.
Conti pubblici, Piemonte in rosso per 5,8 miliardi. Chiamparino: “Governo intervenga o non chiudiamo il bilancio”. Il disavanzo rilevato dalla Corte dei Conti nasce dall'uso illegittimo dei fondi girati dal governo all'ente perché pagasse i debiti ai fornitori. Ora per coprirlo la regione paga una rata di 800 milioni l'anno. Dopo lo stop del Colle al decreto con cui l'esecutivo voleva metterci una pezza, la norma è stata ora inserita nella Stabilità. Ma secondo il governatore non si può aspettare, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 20 ottobre 2015. Il disavanzo della regione Piemonte è salito l’anno scorso a oltre 5,8 miliardi di euro dai 5 del 2013. Lo ha certificato la Corte dei Conti, nel giudizio di parificazione del bilancio 2014 arrivato a venti giorni dallo stop del Quirinale al decreto “salva Regioni” messo a punto dal governo. Il governatore Sergio Chiamparino torna a sollecitare “un intervento legislativo urgente”, senza il quale, avverte, “non saremo in grado di fare un bilancio”. Ma un escamotage contabile come quello che era stato messo a punto da Tesoro e Palazzo Chigi non potrà comunque risolvere il problema di fondo: l’ente deve far fronte a una rata annuale di 800 milioni, che “su un bilancio di 400 milioni è praticamente impossibile”, come ha fatto presente l’esponente Pd che presiede anche la conferenza dei governatori. I magistrati della sezione regionale di controllo dal canto loro hanno avvertito che “la situazione finanziaria potrebbe ancora peggiorare” e per questo “appare auspicabile un decisivo intervento legislativo che preveda per la Regione Piemonte un piano di rientro che sia economicamente sostenibile e che al tempo stesso non blocchi gli investimenti necessari per il rilancio dell’economia piemontese”. A lasciare a Chiamparino la patata bollente, stando alla sentenza emessa lo scorso luglio dalla Corte costituzionale, è stata la giunta di Roberto Cota, in carica fino al giugno 2014: secondo la Consulta ha utilizzato in modo “improprio”, cioè per finanziare nuove spese, i fondi che lo Stato aveva girato all’ente per rimborsare i debiti arretrati nei confronti dei fornitori. Risultato: un “allargamento oltre i limiti di legge della spesa di competenza, l’alterazione del risultato di amministrazione e la mancata copertura del deficit”. Così a settembre la Corte dei conti ha certificato che nel 2013 il disavanzo si è attestato a quota 5 miliardi, contro i 360 milioni dichiarati. Nel frattempo, il servizio del debito ha fatto salire ulteriormente il conto. Per “salvare” Chiamparino ma anche gli altri governatori con problemi simili, il Tesoro e Palazzo Chigi intendevano consentire alle regioni di mettere a bilancio ogni anno i soldi ricevuti dallo Stato anche tra le entrate, indicando però come spesa effettiva solo la quota da rimborsare in quell’esercizio. Un trucco che avrebbe mascherato il problema senza risolverlo e che non è piaciuto a Sergio Mattarella: i dubbi del Colle, che ha chiesto “approfondimenti”, hanno impedito che il 29 settembre il Consiglio dei ministri varasse il provvedimento. Così il governo ha rinviato l’intervento alla legge di Stabilità, che però entrerà in vigore solo l’1 gennaio 2016. “Così al momento non ci serve a nulla”, hanno spiegato il governatore e l’assessore al Bilancio Aldo Reschigna davanti ai giudici contabili. Ora Chiamparino non solo chiede al governo di muoversi con urgenza, ma contesta anche i calcoli della Corte dei Conti. Sostenendo che circa 3,9 miliardi su 5,8 dipendono dalla “errata interpretazione” del decreto 35 del 2013, quello con le norme per il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione. Interpretazione dichiarata illegittima dalla Consulta. “Se si risolvesse questo problema – ha detto Reschigna – resterebbe un debito di 1,3 miliardi e con una rata annuale di 230 milioni: una cifra che ci fa ugualmente venire i brividi, ma è un impegno che dobbiamo assumerci come amministrazione regionale”.
“Il Piemonte è tecnicamente fallito”: parola dell’assessore alla Sanità della Giunta Cota. Dopo lo scandalo delle autocertificazioni, nuova tegola sul governatore leghista: il responsabile regionale alla salute Paolo Monferino ha dichiarato che Palazzo Lascaris è sull'orlo del default per un debito di 6,4 miliardi di euro. Il presidente sta cercando una via d'uscita, le opposizioni lo attaccano, scriveva Stefano Caselli il 19 ottobre 2012 su "Il Fatto Quotidiano". “La Regione Piemonte è tecnicamente fallita”. Non bastava lo scandalo delle autocertificazioni (migliaia di euro netti in busta paga rimborsati a decine di consiglieri per non meglio precisate ‘missioni sul territorio’), ora arrivano le secche parole dell’assessore alla Sanità Paolo Monferino che colpiscono come uno schiaffone i membri della Commissione Bilancio di Palazzo Lascaris. Il Piemonte, insomma è sull’orlo del default e a poco servono le precisazioni dell’entourage del presidente Roberto Cota, secondo cui le parole dell’assessore non sarebbero altro che “un’esortazione a non far più finta di niente”. Monferino è uomo misurato (a differenza di tutti i suoi colleghi non ha mai chiesto un euro di rimborso) e il suo ingresso nella Giunta Cota risale all’agosto 2011, quando subentrò a Caterina Ferrero del Pdl, arrestata e rinviata a giudizio per una locale ‘sanitopoli’ nonché nuora di Nevio Coral, ex sindaco di Leinì sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa (proprio ieri a Torino si è aperto il maxiprocesso per l’operazione ‘Minotauro‘). Se arriva a dichiarare default, dunque, c’è da credergli. La drammatica situazione dei conti della Regione (6,4 miliardi di euro, ma potrebbero essere di più) non è infatti una novità. Come non è una novità che altre amministrazioni nello stesso territorio siano sull’orlo o già oltre il collasso: il comune di Alessandria è stato dichiarato in dissesto finanziario dalla Corte dei Conti, il capoluogo Torino è alle prese con un debito miliardario che ne condiziona le possibilità di spesa. Il grosso del buco – i cui meriti vanno equamente suddivisi tra le amministrazioni Ghigo (centrodestra), Bresso (centrosinistra) e Cota – riguarda ovviamente la sanità, le cui voci di spesa coprono i tre quarti del bilancio regionale. In particolare è critica l’esposizione debitoria delle Asl (ci sono fornitori che attendono pagamenti da oltre un anno) per quanto spesso sia stata mascherata con il rodato maquillage delle voci di cassa e di competenza. Oggi è in programma una conferenza stampa di Cota e dell’assessore Monferino. Il presidente potrebbe chiedere al Consiglio e alla giunta una delega in bianco per scongiurare il commissariamento, ma dovrà affrontare la richiesta di dimissioni avanzata dal Pd: “Siamo arrivati a questo – dichiara il capogruppo Aldo Reschigna – perché questa amministrazione ha elaborato un bilancio 2012 non veritiero, se ne occuperà la Corte dei conti, ma nell’assestamento di bilancio sposta sul 2013 volumi importanti di spesa sostenuta nel 2012 per oltre 400 milioni. Non è un bilancio tecnicamente falso, ma poco ci manca. Il debito della Regione non è certo storia di questi ultimi due anni, arriva da Ghigo e, sia chiaro, anche da Bresso. Ma con questa Giunta non è diminuito, anzi. Questa è responsabilità politica”. Ma Cota dovrà affrontare soprattutto, i malumori interni alla già litigiosa maggioranza di centrodestra. L’assessore alla Sanità proporrà un piano di risanamento con “la costituzione di un fondo chiuso immobiliare sul patrimonio regionale disponibile”, in pratica saranno messi in vendita gli immobili di proprietà, sedi istituzionali e ospedali. Il Movimento 5 Stelle, l’unica forza politica di una certa consistenza che non abbia governato il Piemonte negli ultimi 12 anni, attacca: “Il default? – dichiara il capogruppo Davide Bono – noi lo diciamo da due anni”.
DECENNI DI 'NDRANGHETA. BRUNO CACCIA E LA TORINO CRIMINALE.
Delitto Bruno Caccia, l’avvocato Repici: “Depistaggio simile a quello di via D’Amelio. Cambiano solo le latitudini”, scrive Simone Bauducco il 16 novembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “Badate a quanto le latitudini cambino il senso delle cose: in Sicilia l’intervento del Sisde, nelle indagini di via d’Amelio, è sinonimo di depistaggio, mentre a Torino per l’omicidio Caccia, l’autorità giudiziaria ha rivendicato pubblicamente di aver incaricato il Sisde per svolgere le indagini, abusivamente”. A 35 anni dalla morte del procuratore Bruno Caccia, la famiglia del giudice, insieme al legale Fabio Repici, continua a chiedere che si faccia chiarezza sul delitto. Durante l’audizione in conferenza capogruppo al comune di Torino, il legale che segue anche la famiglia Borsellino nel processo Borsellino quater, ha evidenziato i punti ancora oscuri della vicenda: “L’omicidio di Bruno Caccia ha pagato pesanti depistaggi: si tratta dell’unico delitto nella storia della Repubblica dove le indagini sono state subappaltate dallo Stato a un mafioso detenuto, Francesco Miano, incaricato appositamente da un funzionario del Sisde”. Ad oggi, per il delitto Caccia sono stati condannati in via definitiva il boss Domenico Belfiore come mandante e in primo grado Rocco Schirripa come esecutore materiale. “C’è un’area di interessi e di concause che hanno portato all’omicidio Caccia che non si è voluto in nessun modo porre sotto la dovuta luce, si è voluto costruire una versione che è palesemente falsa derubricandola a vendetta privata di Domenico Belfiore e del suo gruppetto mafioso, ma nessuno ha voluto ne saputo accertare in sede giudiziaria la causale del delitto”.
Delitto Caccia, «Lacune nelle indagini». Il pg contro i pm: no all’archiviazione. La Procura Generale di Milano avoca l’inchiesta sul procuratore di Torino ucciso nel ‘83. «Mai sentiti i parenti», scrive Luigi Ferrarella il 23 novembre 2018 su "Il Corriere della Sera". L’avocazione a sorpresa dell’ultima indagine (con la Procura Generale di Milano che ieri la toglie alla Procura della Repubblica per l’asserita «non effettività» dell’investigazione) determina l’ennesimo colpo di scena giudiziario attorno all’omicidio, la sera del 26 giugno 1983, dell’allora procuratore della Repubblica di Torino, Bruno Caccia, unico magistrato ucciso al Nord Italia dalla criminalità organizzata. Appena nel luglio dell’anno scorso, a 34 anni di distanza, il pool antimafia milanese, diretto allora da Ilda Boccassini, aveva ottenuto la condanna all’ergastolo di un panettiere calabrese, Rocco Schirripa, 64 anni, individuato nel 2015 come uno dei due esecutori materiali del delitto per il quale nel 1989 come mandante era già stato condannato all’ergastolo il boss di ‘ndrangheta Domenico Belfiore. Ieri la gip Stefania Pepe avrebbe dovuto esprimersi sulla richiesta dei pm di archiviare l’indagine sollecitata dalla famiglia del magistrato nei confronti di un indagato nel processo torinese di ‘ndrangheta «Minotauro», lì condannato a 9 anni per associazione mafiosa: Francesco D’Onofrio, per il quale il 18 maggio 2018 il pm milanese Paola Biondolillo (del pool ora guidato da Alessandra Dolci) aveva appunto chiesto l’archiviazione del fascicolo iscritto l’11 novembre 2016 dopo che il collaboratore di giustizia Domenico Agresta, in un verbale reso ai pm torinesi nell’ottobre 2016, aveva detto di aver appreso in carcere dal padre Saverio e da Aldo Cosimo Crea che «a farsi il procuratore» Caccia fossero stati Schirripa e D’Onofrio. Ma, a sorpresa, in aula ieri a rappresentare l’accusa al proprio posto la pm Paola Biondolillo trova un collega della Procura Generale, Galileo Proietto: che revoca la richiesta di archiviazione in forza di un provvedimento di avocazione dell’indagine recante la data dell’altro ieri e il visto del procuratore generale Roberto Alfonso, depositato in udienza alla gip ma sino ad allora né notificato né anticipato informalmente al procuratore Francesco Greco o al suo vice Dolci o alla pm titolare. Per la Procura della Repubblica, infatti, «nessun elemento di riscontro» ad Agresta era emerso né dai testi del processo a Schirripa, né dalle intercettazioni della Squadra Mobile di Torino (d’intesa con Milano) nel dicembre 2017/gennaio 2018 su D’Onofrio e sulla sua compagna, né dall’interrogatorio milanese di D’Onofrio il 6 marzo 2017.Al contrario per la Procura Generale (alla seconda avocazione di peso dopo quella nel caso Expo sul sindaco Beppe Sala), a parte l’interrogatorio di D’Onofrio, «è mancata una reale attività di indagine nei suoi confronti». Per esempio i familiari di Caccia «non risultano essere mai stati sentiti» su due episodi, come più volte chiesto dal loro avvocato di parte civile Fabio Repici, convinto che l’omicidio del procuratore di Torino debba essere inquadrato all’interno delle indagini (e anche dei rapporti con altre toghe invece opache) che l’«inavvicinabile» magistrato stava svolgendo sui «colletti bianchi» coinvolti nel riciclaggio di denaro della mafia catanese di Nitto Santapaola al Casinò di Saint Vincent. Il primo episodio sarebbe una lettera anonima indicante il nome di un detenuto che potrebbe «dirvi tutto». Il secondo è riportato dal libro «Tutti i nemici del Procuratore» scritto dal viceprocuratore onorario torinese Paola Bellone: lo scatto di nervi di Caccia («voi non capite, io rischio la vita») un giorno che i familiari gli chiedevano di abbassare il volume della radio dalla quale stava ascoltando una notizia.
"Sparai all'uomo sbagliato, lo scoprii dal giornale". Torino, risolto dopo 30 anni l'omicidio Rizzi. Vincenzo Pavia, il killer della famiglia Belfiore, ha ammesso di aver colpito la persona sbagliata per uno scambio di persona, scrive Gioele Anni, Martedì 27/11/2018, su "Il Giornale". Scoprì di aver ucciso l'uomo sbagliato solo la mattina dopo, leggendo il giornale. Ma per più di trent'anni mantenne il segreto. È la terribile storia confessata da Vincenzo Pavia, ex collaboratore di giustizia che negli anni Ottanta agiva a Torino come killer per il gruppo criminale guidato da Salvatore Belfiore. La vittima, Roberto Rizzi, somigliava a un altro uomo rivale del clan dei Belfiore. Si risolve così un giallo mai chiarito: l'assassinio di Rizzi era avvolto nel mistero. I fatti risalgono al 20 maggio 1987. Vincenzo Pavia, accompagnato da Saverio Saffioti, un altro membro della banda, entra nel bar 'I Tre Moschettieri' di via Pollenzo 37 a Torino. È convinto di trovarci un rivale, Francesco Di Gennaro detto 'Franco il rosso'. Invece nel locale c'è Rizzi, che con Di Gennaro ha una certa somiglianza. Pavia va a colpo sicuro: spara un colpo alla testa dell'uomo, poi torna in auto e scappa con il complice. Solo l'indomani si accorgerà dello scambio di persona. Soltanto pochi mesi fa, a giugno, Pavia ha confessato alla Polizia anche questo omicidio. Negli anni '90 ne aveva già ammessi 8, compiuti per i Belfiore di cui era il killer. Dell'omicidio Rizzi risponderà solo lo stesso Pavia: il complice Saffioti, infatti, è stato ucciso nel 1992 proprio su ordine dell'ex alleato Salvatore Belfiore. Francesco Di Gennaro, invece, sarà comunque ucciso sempre nello stesso bar ad agosto del 1988. Tra i vari crimini in cui è coinvolta la famiglia Belfiore c'è anche l'l’omicidio del Procuratore della Repubblica Bruno Caccia, nel giugno 1983.
Bruno Caccia, un omicidio senza giustizia. La famiglia del magistrato ucciso nell’83 accusa: «L’indagine di Milano non ha trovato i veri colpevoli. E il caso va riaperto». La controinchiesta commissionata dai figli arriva a conclusioni precise: non è stato soltanto un delitto di ’ndrangheta, scrive Fabrizio Gatti il 03 aprile 2017 su "L'Espresso". I fantasmi di quei temibili anni Ottanta riaffiorano ovunque. Perfino negli oggetti di cui a Milano è disseminata l’aula della Corte d’assise: il televisore Philips a tubo catodico da cui gracchia la testimonianza del pentito Vincenzo Pavia, il pavimento di linoleum con le venature rosse finto marmo, la vernice delle sbarre consumata da tre decenni di tormenti all’altezza delle mani. Riportano a quell’epoca anche i quadretti rossi e bianchi che dentro la gabbia danno un tocco roseo alla camicia di Rocco Schirripa, 63 anni, l’unico imputato: il panettiere calabrese nato a Gioiosa Ionica è accusato di essere uno dei due killer che spararono al procuratore di Torino, Bruno Caccia, assassinato sotto casa la sera di domenica 26 giugno 1983, in uno dei periodi più sanguinosi della Guerra fredda italiana. Sul processo in corso in questi giorni a Milano si è diviso un pezzo di magistratura. Da una parte il procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia (Dda) Ilda Boccassini, il suo sostituto procuratore Marcello Tatangelo, ma anche il presidente della Corte d’assise, Ilio Mannucci Pacini e il giudice a latere, Ilaria Simi de Burgis, convinti che dietro l’agguato ci sia soltanto la ’ndrangheta. Dall’altra, i figli di Bruno Caccia e il loro consulente Mario Vaudano, magistrato legato alle indagini più delicate contro criminalità e corruzione, che con una dettagliata controinchiesta hanno evidenziato il coinvolgimento della mafia catanese di Nitto Santapaola e dei suoi presunti colletti bianchi, che allora tentavano di riciclare nel casinò di Saint-Vincent i guadagni della droga e dei sequestri di persona. Quella della famiglia Caccia è una denuncia circostanziata, che riporta la testimonianza di un altro storico sostituto procuratore milanese, Margherita Taddei: eppure per ben due volte la Dda l’ha invece iscritta tra gli atti non costituenti notizia di reato, tanto da provocare l’intervento severo del procuratore generale reggente, Laura Bertolè Viale, sull’ufficio di Ilda Boccassini. Proprio davanti ai giudici, sul banco della Corte d’assise, torreggia il faldone con le carte delle indagini. Lì in mezzo è depositato il foglio numero 507, verbale di istruzione sommaria che è già uno spartiacque: «Era accaduto», racconta il primo marzo 1984 Bruno Masi, amministratore delegato del casinò di Saint-Vincent, interrogato dall’allora sostituto procuratore Francesco Di Maggio, «che dovendo organizzare un convegno di magistrati sul tema magistratura e potere, insieme con il dottor Simi de Burgis, procuratore della Repubblica di Voghera, manifestai anche a costui le mie preoccupazioni circa l’opportunità di occuparmi io della organizzazione... Ricordo in una occasione, nel mese di settembre, che il dottor de Burgis, commentando con me la vicenda nella quale ero rimasto coinvolto, ipotizzò che mi si potesse attribuire (disse testualmente “quale novello Mefisto”) tutti i mali della Valle d’Aosta e comunque la responsabilità dell’attentato al dottor Selis e dell’assassinio del procuratore della Repubblica di Torino, dottor Caccia». L’allora procuratore di Voghera, Romeo Simi de Burgis, poi assolto in istruttoria con formula piena dalle accuse del boss catanese Angelo Epaminonda, è il papà del giudice a latere nel processo a Rocco Schirripa. È questo il terzo dibattimento sull’omicidio del procuratore Caccia. Il primo si è concluso con una sentenza passata in giudicato nel 1992: ergastolo come mandante per il capoclan della ’ndrangheta Domenico Belfiore, esecutori rimasti sconosciuti e il movente piuttosto generico secondo cui il magistrato è stato ucciso perché non si era piegato alle pressioni della criminalità. Il secondo processo, interrotto per un grave vizio procedurale nel 2016, è quello contro Schirripa: un cognome indicato trentadue anni dopo l’omicidio in una lettera anonima autorizzata dalla procura di Milano e spedita dalla squadra mobile di Torino al boss Belfiore. Il terzo processo, l’attuale, è il replay che deve rimediare al vizio procedurale. Indizi e prove, fantasmi e mostri di quegli anni Ottanta resteranno comunque fuori dalle nuove udienze. Lo ha deciso la Corte d’assise con un’ordinanza che addirittura circoscrive la futura testimonianza dei figli di Bruno Caccia «limitatamente al loro ruolo di danneggiati». Il pubblico ministero Tatangelo e gli stessi giudici condividono la premessa secondo cui nessuno può mettere in discussione la sentenza definitiva su mandante e movente. E nemmeno la stessa attività investigativa di Francesco Di Maggio, morto nel 1996, magistrato che molti famosi colleghi di oggi considerano il loro maestro. Così, ancora una volta, Guido Caccia molto probabilmente non potrà riferire in aula quello che il padre gli ha confidato poche ore prima di essere ucciso. La famiglia del procuratore assassinato, grazie a un’indagine difensiva affidata all’avvocato Fabio Repici e al magistrato in congedo Mario Vaudano, ha infatti scoperto che Belfiore e la ’ndrangheta sono soltanto una parte della trama. Sopra di loro e accanto a loro si muoveva la mafia catanese che a Milano, Torino e Saint-Vincent in quegli anni rispondeva a Nitto Santapaola, ora in carcere a vita per le stragi di Cosa nostra. Il consorzio tra ’ndrangheta e mafia aveva un interesse comune: riciclare attraverso l’ufficio cambi del casinò della Valle d’Aosta i miliardi di lire incassati con i riscatti dei sequestri di persona e il colossale traffico di droga verso la Francia. Un piano che, se scoperto, avrebbe portato alla chiusura della casa da gioco.
Non è una pista alternativa, ma integrativa della condanna contro Belfiore: perché è già tutto scritto negli atti del primo processo, anche se poi la sentenza si è accontentata di una diversa valutazione. Per questo i figli Guido, Cristina e Paola Caccia hanno chiesto nuove indagini sui due nomi già identificati nero su bianco nelle carte depositate. Il primo nome, come ipotetico mandante, è Rosario “Saro” Cattafi: 65 anni, ex estremista di destra, ex intermediario tra industrie e governi nella compravendita di armamenti, sempre sospettato di essere l’ambasciatore degli affari di Stato nel clan Santapaola o viceversa, attualmente è imputato a piede libero in un procedimento per associazione mafiosa. L’altro, denunciato come ipotetico killer, è Demetrio Latella, 63 anni, Luciano per amici ed ex complici: già fornitore di pezzi di ricambio alla marina militare e alla guardia di finanza, in quegli anni sicario calabrese al servizio dei catanesi a Milano e Torino, Latella è un ergastolano premiato con la libertà anche quando trent’anni dopo la polizia ha scoperto la sua partecipazione, mai confessata prima, al sequestro di Cristina Mazzotti. La ragazza di 18 anni, rapita nel 1975 in provincia di Como, uccisa nonostante i genitori avessero pagato il riscatto di un miliardo. Dopo anni di ricerche negli archivi giudiziari, la famiglia Caccia presenta la sua prima denuncia nell’estate 2013. E la Direzione distrettuale antimafia, diretta dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini, dimostra subito di non condividere la richiesta di nuove indagini, rese invece possibili dall’esistenza in vita di gran parte dei protagonisti. Pur trattandosi dell’omicidio di un magistrato, la denuncia è iscritta dalla Dda milanese a modello 45: «Atti non costituenti notizia di reato». Un trattamento di solito riservato a esposti palesemente inventati come l’eventuale furto del Colosseo, che permette l’archiviazione da parte della Procura senza sottoporre il caso all’esame di un giudice. Infatti la prima denuncia viene archiviata. Guido, Cristina e Paola Caccia non si arrendono. Raccolgono altre notizie e testimonianze. E nell’estate 2014 consegnano alla Procura di Milano la seconda denuncia aggiornata con i nuovi indizi contro Cattafi e Latella. Ma la Dda iscrive nuovamente il fascicolo come atto privo di notizie di reato. Passa quasi un altro anno senza risultati. Il consulente della famiglia, il magistrato Mario Vaudano, si rivolge alla Procura generale e ottiene l’intervento severo dell’allora procuratore reggente, Laura Bertolè Viale. Si scopre così che il pm Tatangelo ha eseguito le direttive del procuratore aggiunto Boccassini e la prassi della Procura di Torino, da dove Tatangelo proviene. Solo grazie al rimprovero della Procura generale, Cattafi e Latella vengono finalmente iscritti nel registro degli indagati. Da lì a qualche mese, però, a fine 2015 Ilda Boccassini annuncia a sorpresa l’arresto del panettiere Rocco Schirripa. Mentre a fine gennaio di quest’anno il pm Tatangelo chiede l’archiviazione per Cattafi e Latella. Richiesta contro cui la famiglia Caccia ha presentato opposizione.
Il convincimento di un magistrato è insindacabile al di fuori dei riti del giudizio. Ma le osservazioni dei figli del procuratore assassinato sulle scelte investigative dell’allora pubblico ministero, Francesco Di Maggio, trovano conferma nelle migliaia di pagine, che L’Espresso ha potuto esaminare: «Il pm aveva raccolto elementi indizianti ben significativi su soggetti diversi da quelli poi sottoposti a processo», spiega l’avvocato Repici: «La rilevante mole di fonti probatorie relative a Rosario Cattafi, a uno dei presunti killer e al possibile movente del delitto rimase però del tutto trascurata. Su di essa fu omessa ogni valutazione, anche solo finalizzata a destituirla di fondamento». Secondo gli atti depositati dallo stesso Di Maggio e dai colleghi di allora, la mafia comincia a colpire il 13 dicembre 1982. Giovanni Selis, 45 anni, pretore di Aosta, tira la levetta di accensione della sua 500 e l’auto esplode. Il magistrato resta incredibilmente illeso. La sera del 17 dicembre provano ad ammazzarlo sotto casa. Suonano al citofono per farlo uscire. Lui si insospettisce e si chiude dentro. In tutte e due le azioni, viene segnalata un’auto verde con targa francese. Anche l’esplosivo era di produzione francese. Da settembre Selis sta indagando sul casinò di Saint-Vincent: «Come possibile movente», mette a verbale il pretore davanti al sostituto procuratore di Milano, Corrado Carnevali, «richiamo le indagini che avevo in corso presso la casa da gioco... in particolare tra l’ufficio fidi della casa e taluni prestasoldi. Da tempo mi ero interessato all’attività di taluni personaggi. Mi riferisco in particolare a un certo avvocato Valentini di Milano... Aggiungo ancora che una specifica indagine demandata alla guardia di finanza aveva a oggetto l’individuazione della causale di un assegno emesso da un certo ingegner Mariani in favore di Masi, amministratore delegato della Sitav, società che ha la gestione del casinò». «Dopo l’attentato ai miei danni», aggiunge Selis, «mi telefonò il collega Marcello Maddalena, sostituto procuratore a Torino, chiedendomi un colloquio riservato. In esito a questo colloquio sono legato al segreto istruttorio. Posso però affermare che potrebbe sussistere un collegamento fra le mie indagini e quelle del collega Maddalena, aventi a oggetto riciclaggio di denaro proveniente da sequestri di persona». Nella primavera 1983 il genero del procuratore Caccia, Gianvi Fracastoro, oggi professore al Politecnico di Torino, viene contattato da un ex compagno di scuola conosciuto durante gli studi a Catania.
L’amico ritrovato, Ettore Impellizzeri, una sera lo invita al ristorante “Giudice”, fuori città. Si presenta su una Porsche. A cena Impellizzeri gli rivela di conoscere Nitto Santapaola. E dice che in caso di furto dell’auto, il boss gliel’avrebbe fatta restituire. Poi a bruciapelo l’ex compagno di scuola chiede se il dottor Caccia è avvicinabile: «È uno con cui si può parlare?». Il genero del procuratore non risponde. Lì per lì pensa a una smargiassata. Dopo l’omicidio, l’amico ritrovato non si farà più sentire. Dal 17 maggio al 13 giugno di quell’anno, Bruno Caccia affida al suo sostituto Maddalena le indagini e il sequestro della documentazione sui conti correnti del casinò di Saint-Vincent, dei suoi amministratori e di alcuni cambiavalute. La guardia di finanza passa al setaccio uffici, case e banche, tra cui le sedi di Novara, Aosta e Milano della Banca Popolare di Novara. I mandati di perquisizione sono inequivocabili. Quei verbali ancora oggi ci ricordano che indagando sul riscatto per il sequestro degli imprenditori Tullio Fattorusso e Lorenzo Crosetto «risulta come le operazioni di riciclaggio venissero effettuate presso il casinò di Saint-Vincent, attraverso un meccanismo che potrebbe coinvolgere responsabilità di persone che operano sia all’interno che all’esterno del casinò, in qualità di cambiavalute o addirittura come responsabili dell’ufficio fidi». In quegli stessi giorni ad Alessandria si incontrano per parlarne quattro persone: l’amministratore delegato del casinò Masi; Franco Mariani, l’ingegnere messo sotto inchiesta dal pretore Selis nonché commerciante di armamenti e produttore di motori per i mezzi delle forze armate; il suo collaboratore Rosario “Saro” Cattafi e il capitano Rossi, alias Enrico Mezzani, un informatore del Sisde, il servizio segreto interno, in contatto con la guardia di finanza. Secondo Cattafi, poi interrogato da Di Maggio, Masi era alla ricerca di qualcuno ben introdotto nelle istituzioni capace di bloccare l’iniziativa giudiziaria: «Era anche preoccupato per talune pressioni che, nel corso della cena, disse di avere ricevuto da ambienti siciliani che avevano di mira l’accaparramento dell’ufficio cambi del casinò», sostiene Cattafi. Senza però rivelare che quegli “ambienti siciliani” sono i suoi. Lo racconterà mesi dopo, sempre a Di Maggio, il primo boss pentito Angelo Epaminonda: «Saro, un siciliano, sui 35 anni: dopo i primi convenevoli, nel corso dei quali Saro mi spiegò di essere legato strettamente a Nitto Santapaola, mi feci indicare i termini del progetto. Saro disse che agiva in società con altra persona ben introdotta nel casinò di Saint-Vincent e che si poteva impiantare nel casinò il lavoro del cambio assegni». Il pomeriggio di domenica 26 giugno, poche ore prima dell’agguato, Bruno Caccia e la moglie Carla Ferrari vanno a casa del figlio Guido. Hanno ospitato i nipotini nel fine settimana e gli riportano i bambini: «Si parlava di malaffare», racconta oggi Guido Caccia, «e papà disse: vedrete cosa verrà fuori tra qualche giorno, qualcosa di davvero grosso, ci sarà una bella sorpresa. Ricordo perfettamente il senso della frase. E ricordo anche la mia di sorpresa, perché papà non parlava mai del suo lavoro. Quella frase e l’assenza dopo qualche giorno di quel qualcosa di grosso annunciato mi hanno sempre accompagnato da allora. Ma su questo non sono mai stato interrogato».
Quasi quattro mesi dopo l’omicidio del procuratore, il 13 ottobre, l’avvocato di Milano Giuseppe Valentini, lo stesso su cui stava indagando il pretore Selis, scrive all’amministratore del casinò, Bruno Masi: «Colgo l’occasione per comunicarle, unicamente per sua informativa, che ieri ho ricevuto inaspettatamente la visita del signor Saro Cattafi, il quale si è preoccupato di notiziarmi di aver avuto da Lei impegno preciso ed inderogabile di autorizzare suoi amici di essere ammessi all’interno delle sale da gioco del casinò de La Vallè, con la esclusiva funzione di prestare denaro ai giocatori e ciò in cambio di un non precisato favore da lei richiesto e dal signor Cattafi esaudito». Il 7 novembre, l’avvocato Valentini scrive a Masi una nuova lettera, ancor più allusiva: «Non ritengo che io Le abbia mai estorto denaro o richiestoLe in mio favore un ingiusto profitto minacciandoLa di svelare cose o fatti per Lei compromettenti, soprattutto perché non ritengo che Lei abbia delle “verità” o “dei fatti” compromettenti sui quali vuol mantenere il segreto e che siano a mia conoscenza». Qualche giorno prima, il 3 novembre, l’ingegner Mariani, il compare commerciale di Cattafi, attraverso l’informatore del Sisde Mezzani fa arrivare alla guardia di finanza un rapporto riservato sull’omicidio del procuratore. Non sono stati i calabresi a volerlo morto ma i catanesi di Nitto Santapaola, rivela Mariani, rappresentati a Torino e Milano da Luigi “Gimmi” Miano e da Angelo Epaminonda: «Sempre come sfondo vi è la questione (come giustamente il pretore Selis pensa) inerente Saint-Vincent, Sanremo e Campione. Caccia si era confidato con un avvocato dicendo che poteva tra poco procedere contro i tre casinò. Era certo che tutti i soldi sporchi erano cambiati nei tre casinò... Il numero uno dei killer è un calabrese di nome Luciano legato al clan Santapaola... Al momento c’era in gioco l’asta di Sanremo e qualche improvviso scandalo con conseguenti arresti poteva essere di enorme danno». Preso a verbale l’anno dopo da Di Maggio, Mariani conferma le informazioni. Dice di averle ricevute da Cattafi. E aggiunge che Luciano, l’assassino del procuratore Bruno Caccia, è proprio Demetrio Latella.
Cattafi e Mariani, comunque sempre usciti indenni dalle indagini, vengono nel frattempo intercettati per il sequestro di un altro imprenditore, Mario Airaghi. Il giudice istruttore Margherita Taddei, oggi magistrato alla Corte di cassazione, dispone la perizia sulle telefonate e la trascrizione delle conversazioni. Ma viene fermata dal pm Di Maggio. È il 23 maggio 1984. Rispondendo alle domande del difensore della famiglia Caccia, Margherita Taddei ammette di avere un netto ricordo di quell’iniziativa anomala. Sono parole sue. Mette anche a verbale di essere assolutamente certa che Di Maggio non fosse il pubblico ministero titolare del procedimento: «Ricevetti la visita nel mio ufficio da parte del dottor Di Maggio, che nell’occasione era accompagnato dal dottor Francesco Saverio Borrelli, allora procuratore aggiunto. Il dottor Di Maggio venne per chiedermi di soprassedere dalla trascrizione delle intercettazioni disposte nei confronti di Mariani e Cattafi. Io fui molto sorpresa dall’intervento del dottor Di Maggio... A dire il vero quella richiesta mi lasciò parecchio esterrefatta. Già su quelle intercettazioni, eseguite dai carabinieri del nucleo operativo, avevo rilevato qualche stranezza. Ma davanti alla richiesta del dottor Di Maggio, supportata anche con la sua sola presenza dal procuratore aggiunto Borrelli, per esigenze di indagine che mi vennero rappresentate come particolarmente importanti, non potei che revocare l’imminente perizia». L’intervento di Borrelli, il futuro procuratore di Mani pulite, è stato evidentemente richiesto da Di Maggio che, da quello che si legge nella sua nota riservata consegnata personalmente al giudice Taddei, sta indagando su un «fatto di eccezionale gravità»: non fa nomi, ma tutti i colleghi sanno che la sua indagine più delicata in quel periodo è proprio l’omicidio di Bruno Caccia. Nel 2009 ancora un colpo di scena. Il magistrato Olindo Canali, oggi giudice al Tribunale di Milano e negli anni Ottanta, come uditore, spesso accanto a Francesco Di Maggio nell’indagine sull’agguato al procuratore di Torino, riferisce una frase che potrebbe far riaprire il caso. Il giudice Canali la pronuncia in una telefonata intercettata e poi la conferma in tutti i procedimenti per mafia in cui è chiamato a testimoniare: «Quel Saro Cattafi in cui trovammo in casa la rivendicazione dell’omicidio del giudice Caccia fatta dalle Br, che in realtà poi sappiamo fu ucciso dai calabresi e dai catanesi», dice nel mezzo di un discorso. La fonte di Canali è sempre Di Maggio. Ma oggi si scopre che, diversamente dalla prassi, i carabinieri del nucleo operativo di allora non hanno fotocopiato i documenti sequestrati a Saro Cattafi: nemmeno le «agende personali» o gli «otto fogli manoscritti», elencati nel verbale e restituiti con tutto il resto al proprietario. Così non ne restano copie. Il 1983 italiano, cominciato con l’assassinio vicino a Trapani del magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto, si conclude con lo stop all’inchiesta del giudice istruttore di Trento, Carlo Palermo. Ciaccio Montalto, Caccia, Palermo hanno aggredito la piovra lungo i suoi tentacoli più pericolosi: quello economico e quello politico. Bisognerà aspettare altri dieci anni, la reazione alle stragi del 1992 e ’93, prima che quella sacra alleanza si spezzi. «Dai morti non ci difendiamo, non c’è niente da fare», dice il giudice Olindo Canali nella telefonata del 2009, «e neanche da ciò che i morti ci dicono con la bocca dei vivi, non ci possiamo difendere». L’importante, però, è saperli ascoltare.
Omicidio Caccia, un giallo senza finale. «Ignorate le indicazioni della famiglia». Mario Vaudano, ex collega del procuratore assassinato: respinte da Ilda Boccassini le richieste di indagini formulate dai figli. Inchiesta trasferita d'autorità alla Procura generale. I misteri sul ruolo del Sisde, scrive Fabrizio Gatti il 29 novembre 2018 su "L'Espresso". 1983. Funerali del Procuratore della Repubblica Bruno Caccia. L'omicidio del procuratore di Torino, Bruno Caccia, da trentacinque anni attende giustizia. L'ultimo colpo di scena è della scorsa settimana: la Procura generale ha avocato l'inchiesta togliendola alla Procura di Milano per presunte lacune nelle indagini. La versione ufficiale circolata nel Palazzo di giustizia sostiene che l'attuale capo della Direzione distrettuale antimafia (Dda), Alessandra Dolci, e il sostituto procuratore Paola Biondolillo abbiano chiesto l'archiviazione del fascicolo, senza approfondire il ruolo di Paolo D'Onofrio, indagato come esecutore dell'agguato. Un fascicolo aperto dal precedente capo della Dda, Ilda Boccassini, e affidato al pubblico ministero, Marcello Tatangelo. Ma non è andata esattamente così. La realtà dei fatti è stata ripristinata da Mario Vaudano, storico giudice istruttore di Torino, nonché amico e allora "discepolo" di Bruno Caccia. Alessandra Dolci ha infatti ereditato l'inchiesta da Ilda Boccassini quando il termine per le indagini era già scaduto: quindi non poteva fare altro che chiederne l'archiviazione. Vaudano è intervenuto sulla pagina Facebook dedicata ad Agnese Borsellino, moglie di Paolo Borsellino, il magistrato ucciso dalla mafia con la sua scorta nella strage di via D'Amelio a Palermo il 19 luglio 1992. «Per correttezza di informazione», scrive Vaudano, ora in congedo per limiti d'età, «devo indicare che si menziona il merito dei magistrati inquirenti Boccassini e Tatangelo. Tuttavia la responsabilità delle indagini lacunose a cui è dovuta l'avocazione (da parte della Procura generale, ndr) è stata di questi stessi e non dei loro successori. Purtroppo la precedente gestione della Direzione distrettuale antimafia aveva infatti respinto tutte le richieste di indagini formulate con precisione dalla parte civile, la famiglia Caccia e dall'avvocato Repici». Aggiunge l'ex giudice istruttore: «È sempre difficile e talora molto triste, ma deve essere detto per onestà intellettuale. Il ruolo dei veri amici è di dire anche quello che non si condivide. Anche da parte di uno come me che vanta una lunga amicizia con Ilda Boccassini...». Sull'omicidio del procuratore di Torino, assassinato a 65 anni il 26 giugno 1983, alla vigilia di una colossale indagine sul riciclaggio degli incassi della mafia catanese nei casinò italiani, si sono celebrati tre processi. L'ultimo si è concluso lo scorso anno con la condanna all'ergastolo del panettiere Rocco Schirripa, 64 anni, che l'inchiesta condotta dal pm Tatangelo indica come uno degli esecutori. Il secondo procedimento, sempre contro Schirripa, era stato interrotto per vizi procedurali. Il primo processo era invece terminato con una sentenza passata in giudicato nel 1992: condanna a vita come mandante per il capoclan della 'ndrangheta, Domenico Belfiore, e il movente piuttosto generico secondo cui Bruno Caccia è stato ucciso perché non si era piegato alle pressioni della criminalità. Sia Tatangelo, sia l'allora capo della Dda, Ilda Boccassini, non hanno invece trovato riscontri sul presunto coinvolgimento di Francesco D'Onofrio, ex militante dell'organizzazione terroristica “Comunisti organizzati per la liberazione proletaria” e oggi accusato di essere un affiliato alla 'ndrangheta torinese, tuttora in attesa del giudizio in Appello per il processo “Minotauro”. Di lui aveva parlato un collaboratore, Domenico Agresta, riferendo notizie apprese in carcere secondo le quali Schirripa e D'Onofrio sono gli assassini del procuratore. Bruno Caccia è l'unico magistrato ucciso dalla criminalità organizzata al Nord. I processi si sono svolti a Milano, poiché è il Tribunale competente per i reati che coinvolgono i pubblici ministeri e i giudici del distretto torinese. Ma esiste un ulteriore fascicolo per il quale il pm Tatangelo con il visto del capo Boccassini ha chiesto l'archiviazione, senza sentire i testimoni segnalati: è la denuncia circostanziata presentata dai figli del procuratore assassinato nei confronti di Rosario “Saro” Cattafi, 66 anni, indicato come presunto mandante, e Demetrio “Luciano” Latella, 64 anni, descritto come uno degli esecutori. Cattafi è un ex intermediario tra industrie e governi nella compravendita di armamenti, sospettato di essere l’ambasciatore degli affari di Stato nel clan catanese di Nitto Santapaola e viceversa: attualmente è libero sull'orlo della prescrizione, in attesa che la Corte d'Appello di Reggio Calabria ridetermini la pena, dopo che la Cassazione ha accolto il suo ricorso in merito a una condanna per associazione mafiosa, per fatti avvenuti prima del 2000. Latella è invece un ex fornitore di pezzi di ricambio alla Marina militare, ex sicario calabrese al servizio dei catanesi a Milano e Torino: un ergastolano premiato con la libertà anche quando trent'anni dopo la polizia ha scoperto la sua partecipazione, mai confessata prima, al sequestro di Cristina Mazzotti, rapita a 18 anni nel 1975 e uccisa, nonostante i genitori avessero pagato un miliardo di lire come riscatto.
I nomi di Cattafi e di Latella emergono dalla lunga indagine condotta sull'omicidio del procuratore dal magistrato di Milano, Francesco Di Maggio. I figli di Bruno Caccia, assistiti dall'avvocato Fabio Repici e come consulente gratuito da Mario Vaudano, per anni hanno cercato e studiato negli archivi giudiziari. E hanno scoperto che è già tutto scritto nella mole di documenti depositata da Di Maggio: Bruno Caccia stava per avviare un'indagine sul riciclaggio della mafia catanese nel casinò di Saint Vincent, dopo l'attentato al pretore di Aosta, Giovanni Melis, sopravvissuto all'esplosione della sua Fiat 500. Solo che tutte queste informazioni sono rimaste chiuse nei faldoni. E l'indagine di Francesco Di Maggio, storico nome dell'antimafia milanese scomparso nel 1996, ha portato a una ricostruzione molto più limitata nei fatti e alla condanna del boss della 'ndrangheta, Domenico Belfiore. Ricostruzione ufficiale che, ancora oggi, esclude il coinvolgimento della mafia catanese. La prima denuncia circostanziata dei figli del procuratore contro Cattafi e Latella viene presentata nell'estate 2013. Ma Ilda Boccassini dimostra subito di non condividere i risultati della controinchiesta suggerita dalla famiglia Caccia. Tanto che, pur trattandosi dell'omicidio di un magistrato, il fascicolo viene iscritto a modello 45: «Atti non costituenti notizia di reato». Ifigli Guido, Cristina e Paola Caccia non si arrendono e nell'estate 2014 consegnano alla Procura di Milano una seconda denuncia, con nuovi indizi contro Cattafi e Latella. Ma la Direzione distrettuale antimafia di allora iscrive nuovamente il fascicolo come atto privo di notizie di reato. Passa quasi un altro anno senza risultati. Il magistrato Mario Vaudano si rivolge alla Procura generale e ottiene l'intervento severo dell'allora procuratore reggente, Laura Bertolè Viale. La denuncia dei familiari viene finalmente iscritta come omicidio. Ma nel giro di qualche mese, a fine 2015, la Direzione distrettuale antimafia arresta Rocco Schirripa mentre per Cattafi e Latella viene chiesta l'archiviazione. «In conclusione», scrive il pm Tatangelo, «gli elementi acquisiti, per le ragioni esposte, paiono del tutto inidonei a sostenere adeguatamente l'accusa in giudizio, sia per Cattafi, sia per Latella». Arriviamo così a oggi. L'11 settembre scorso, durante l'udienza preliminare, i figli di Bruno Caccia si oppongono all'archiviazione della loro denuncia. Da quel giorno il giudice si è riservato la decisione e non si è ancora espresso. Secondo l'avvocato Repici, sarebbe stato doveroso sentire la testimonianza dei colleghi con cui il procuratore lavorava: Francesco Marzachì, Marcello Maddalena, Francesco Saluzzo, Armando Vitari e Ugo De Crescienzo. Perché potrebbero tuttora aiutare a capire cosa intendesse Bruno Caccia quando, poche ore prima di essere ucciso, si confidò con il figlio Guido: «Si parlava di malaffare», racconta oggi Guido Caccia, «e papà disse: vedrete cosa verrà fuori tra qualche giorno, qualcosa di davvero grosso, ci sarà una bella sorpresa. Ricordo perfettamente il senso della frase. E ricordo anche la mia sorpresa, perché papà non parlava mai del suo lavoro. Quella frase e l'assenza dopo qualche giorno di quel qualcosa di grosso annunciato mi hanno sempre accompagnato da allora». Ma né il figlio né i colleghi di Bruno Caccia sono mai stati sentiti in Procura. Il procuratore generale di Milano, Roberto Alfonso, e il suo sostituto procuratore generale, Galileo Proietto, hanno ora la possibilità di estendere l'inchiesta. A cominciare dal ruolo del Sisde, l'allora servizio segreto civile che, come ricorda il legale della famiglia Caccia, per la strage di via D'Amelio è oggi sinonimo di depistaggio: mentre a Torino fin dai primi mesi dopo l'agguato gli 007 del Sisde, con la loro partecipazione diretta e abusiva alle indagini, hanno potuto contribuire alla versione ufficiale della vendetta personale del boss Domenico Belfiore. Una versione che secondo i familiari è smentita dalle carte, dimenticate nei faldoni del primo processo. Basterebbe leggerle.
Omicidio Caccia, dopo trent'anni il presunto killer a processo. Il procuratore della Repubblica del capoluogo piemontese venne ucciso per le sue indagini sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Piemonte, i rapporti della criminalità organizzata con i servizi segreti e gli interessi di Cosa nostra nei casinò del nord Italia. E dalle carte della famiglia emergono depistaggi e inerzie sulle indagini, scrive Anna Dichiarante il 5 luglio 2016 su "L'Espresso". Si dice che la mafia non dimentichi e si vendichi degli sgarri subiti anche a distanza di anni. Ma questa volta è lo Stato a non aver abbandonato la presa e ad aver deciso di perseguire gli esecutori materiali di un delitto, di cui finora si conosceva solo il nome del mandante. Trentatré anni dopo l’omicidio di Bruno Caccia, avvenuto a Torino, in via Sommacampagna, la sera del 26 giugno 1983, si apre domani davanti alla Corte d’assise di Milano il processo al suo presunto killer. Lo scorso maggio, infatti, il giudice per le indagini preliminari Stefania Pepe ha emesso decreto di giudizio immediato nei confronti di Rocco Schirripa, il sessantaquattrenne di origini calabresi arrestato nel dicembre 2015 dalla Squadra mobile di Torino e accusato, appunto, di aver ucciso il procuratore della Repubblica del capoluogo piemontese. A chiedere il rito alternativo, convinti dell’evidenza delle prove a suo carico, erano stati i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Milano, il sostituto Marcello Tatangelo e l’aggiunto Ilda Boccassini, che hanno coordinato le indagini. Un’inchiesta ripartita grazie alla richiesta presentata dai figli del procuratore Caccia, attraverso il loro avvocato Fabio Repici: nell’esposto erano contenuti spunti investigativi che puntavano l’attenzione, oltre che sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Piemonte, anche sui rapporti della criminalità organizzata con i servizi segreti e sugli interessi di Cosa nostra nei casinò del nord Italia. Esattamente quelli su cui indagava Caccia e su cui aveva indagato anche l’allora pretore di Aosta Giovanni Selis, che per la sua attività d’inchiesta sul casino di Saint Vincent il 13 dicembre 1982 subì un attentato: la sua Cinquecento, imbottita di esplosivo, saltò in aria e lui si salvò per un soffio. Nelle carte della famiglia Caccia, poi, si denunciavano depistaggi e inerzie da parte di alcuni magistrati delle Procure di Torino e Milano, da cui sarebbe derivato lo stallo nella ricerca dei colpevoli. E pochi giorni fa, durante le cerimonie per l’anniversario dell’omicidio, anche il procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo è tornato sulla questione, definendo Caccia come “vittima di una controffensiva da parte di ambienti criminali, nella cui orbita gravitavano, fra l’altro, personaggi che prosperavano vicino alla Procura”. Se ancora resta parecchio da scoprire sui motivi che hanno determinato il suo assassinio, infatti, è certo che Caccia avesse dato fastidio a molti per la sua incorruttibilità.
Così le nuove indagini hanno portato sulle tracce di Schirripa, che in questi trent’anni aveva continuato a vivere a Torino e a lavorare come panettiere in borgata Parella. Per i pm milanesi, sarebbe proprio lui l’uomo alla guida dell’auto che avvicinò il procuratore mentre si trovava vicino casa, a passeggio con il suo cane. E proprio lui avrebbe ucciso Caccia, sparandogli il colpo di grazia alla testa. Secondo il giudice che ne aveva autorizzato l’arresto a pochi giorni dal Natale dell’anno scorso, però, Schirripa non sarebbe stato solo: insieme a lui ci sarebbe stato Domenico Belfiore, il boss calabrese già condannato all’ergastolo nel 1993 come mandante dell’omicidio. Scavando nel passato di Schirripa, gli inquirenti hanno scoperto legami di parentela con Belfiore e da lì sono partiti: hanno iniziato a intercettare il boss, nel frattempo uscito dal carcere a causa delle sue condizioni di salute, grazie a un virus che permette di attivare a distanza i microfoni degli smartphone e di trasformarli in registratori. Le conversazioni intrattenute al telefono, ma anche in luoghi all’aria aperta considerati immuni da microspie, sono state quindi immagazzinate. E per sollecitare gli intercettati a parlare ed eventualmente a tradirsi, gli investigatori hanno adottato anche un altro stratagemma. Hanno inviato ai sospettati una lettera anonima con un articolo di giornale relativo all’omicidio e con i loro nomi scritti dietro a mano: a quel punto, il panettiere ha capito che il rischio di essere scoperto era altissimo e ha iniziato a progettare la fuga. Ma è stato arrestato. Sul valore probatorio delle intercettazioni raccolte sono ora pronti a dare battaglia gli avvocati Basilio Foti e Mauro Anetrini, difensori di Schirripa: secondo loro, le parole del presunto omicida, pronunciate spesso in dialetto calabrese, sarebbero state fraintese o travisate nel corso delle operazioni di ascolto e di trascrizione da parte della polizia giudiziaria. In realtà, Schirripa era personaggio già noto ai magistrati antimafia. Le prime accuse mosse nei suoi confronti, proprio in riferimento al caso Caccia, risalgono agli anni Novanta. Vincenzo Pavia, cognato di Domenico Belfiore, decise allora di parlare del delitto con i pm Marcello Maddalena e Sandro Ausiello, confermando di aver partecipato ai sopralluoghi per l’organizzazione dell’agguato e indicando i nomi dei componenti del commando. A partecipare all’esecuzione, secondo lui, sarebbero stati Renato Angeli, Giuseppe Belfiore (fratello di Domenico), Tommaso De Pace e Rocco Schirripa. Le dichiarazioni di Pavia furono però ritenute inattendibili, perché al momento dell’omicidio Angeli era detenuto. L’indagine venne quindi archiviata. Il nome del panettiere, poi, è riemerso sia nel 2011, nella grande operazione contro la ‘ndrangheta in provincia di Torino denominata “Minotauro”, a seguito della quale è stato condannato come affiliato del locale di Moncalieri, sia poco tempo dopo, quando è stato accusato dalla Procura torinese di aver favorito la latitanza di Giorgio De Masi “u Mangianesi”, ritenuto il capo della cosca di Gioiosa Jonica.
Trentadue anni dopo l'omicidio preso il killer del giudice Caccia. Il mandante era già stato condannato. Era un capo della 'ndrangheta piemontese. L'inchiesta è proseguita e ha portato all'arresto del presunto esecutore del magistrato "incorruttibile", condannato a morte dai clan calabresi negli anni '80. Il primo e unico omicidio "istituzionale" deciso dai boss fuori dalla Calabria, scrive Giovanni Tizian il 22 dicembre 2015 su "L'Espresso". L'hanno incastrato con uno stratagemma degno della fiction Csi. Rocco Schirripa, uno dei presunti killer del giudice torinese Bruno Caccia, è stato arrestato trentadue anni dopo quell'esecuzione. Con il mandante, Domenico Belfiore, già condannato per l'omicidio. Il caso non è ancora chiuso. Gli investigatori sono arrivati a Schirripa dopo avere inviato una lettera anonima ai sospettati del delitto, in allegato c'era una fotocopia di un articolo che riportava la notizia dell'uccisione del procuratore di Torino con scritto a penna il nome del presunto killer, Rocco Schirripa appunto. Quella missiva a portato i sospettati a confidarsi l'uno con l'altro. Hanno inziaito, così, a fare supposizioni su chi di loro avesse parlato. Le intercettazioni hanno fatto il resto. Parola dopo parola, confidenza dopo confidenza hanno condotto gli inquirenti della procura antimafia di Milano, coordinata da Ilda Boccassini, con la squadra Mobile del capoluogo lombardo e di Torino sulle tracce di Schirripa, panettiere di 64 anni nella periferie torinese, imparentato tra l'altro proprio con Belfiore. Bruno Caccia è stato ucciso il 26 giugno 1983, con 14 colpi di pistola a pochi passi da casa, in via Sommacampagna. Il procuratore Caccia guidava la procura torinese. Secondo uno dei boss era «uno con cui non si poteva parlare». Assassinato mentre portava a passeggio il suo cane da almeno due sicari che lo finirono con un colpo alla testa. Caccia era impegnato in importanti indagini sul terrorismo perciò le prime ipotesi investigative puntavano a quell'ambito. Solo qualche tempo dopo grazie ad alcune inchieste sui clan catanesi a Torino, si è arrivati alla 'ndrangheta piemontese. Che già da tempo aveva messo radici nel territorio. I magistrati arrivarono così a Domenico Belfiore, punto di riferimento della 'ndrine del Nord. Secondo l'accusa era lui il mandante dell'omicidio Caccia. La prima e unica volta che la 'ndrangheta ha colpito un uomo delle istituzioni fuori dalla Calabria. Proprio negli anni in cui stava crescendo enormemente. Nel periodo in cui stava prendendo forma l'impero che conosciamo oggi. Un segnale ben preciso, di potenza, di forza, di organizzazione. Eppure, il sangue di Caccia, purtroppo, pian piano, negli anni è stato dimenticato. Così come il suo esempio. Rimuovendo la sua storia, è stata rimossa anche la presenza delle cosche in Piemonte. Dodici anni dopo l'uccisione del giudice incorruttibile, sempre la provincia di Torino emerge per questioni mafiose. Il comune di Bardonecchia verrà sciolto per 'ndrangheta, il primo del Nord Italia. Ventotto anni dopo, invece, centinaia di arresti porteranno alla sbarra le cosche calabresi trapiantate tra Torino e la Val di Susa. È l'operazione Minotauro: un'inchiesta e un processo storici. Davanti ai giudici hanno sfilato boss, imprenditori, politici, professionisti. Da quell'indagini partirono anche le ispezioni in alcuni Comuni della cintura torinese per valutarne lo scioglimento. «Come torinese e come magistrato che da Bruno Caccia ha imparato tutto, esprimo il ringraziamento e l'apprezzamento più convinto per l'ottimo lavoro della procura di Milano e della squadra mobile di Torino, che con pazienza e intelligenza sono riuscite ad aprire una nuova pista di indagine sull'omicidio dopo più di trent'anni», ha dichiarato Gian Carlo Caselli, ex procuratore capo di Torino, che era giudice istruttore ai tempi di Caccia. Entrambi, negli anni Settanta, si erano occupati dell'inchiesta sui capi storici delle Brigate Rosse. «L'arresto di oggi», ha commentato Cristina Caccia, figlia del magistrato assassinato «è un tassello importante per gli sviluppi futuri dell'inchiesta. Ci auguriamo che possa far luce su tutti i risvolti rimasti oscuri di questa vicenda, a partire dagli altri mandanti». Dall'omicidio Caccia, dunque, a Minotauro, c'è sempre lo stesso sfondo criminale che fa da cornice. Come un romanzo criminale, di cui ancora non si conosce la fine. Con molti capitoli ancora da scrivere. E i protagonisti già noti.
32 ANNI DOPO. Svolta nel delitto di Bruno Caccia, arrestato il presunto assassino. Il procuratore ucciso la sera del 26 giugno 1983 da un commando di almeno due persone. Il fermato è un 62enne di origini calabresi che faceva il panettiere in piazza Campanella a Torino. Caselli: «Ringrazio come magistrato e torinese», scrive Silvia Morosi il 22 dicembre 2015 su “Il Corriere della Sera”. Uno dei presunti assassini di Bruno Caccia, il procuratore capo di Torino ucciso nel 1983, è stato arrestato dalla polizia. Si tratta di Rocco Schirripa, un torinese di 62 anni, di origini calabresi, che attualmente fa il panettiere alla periferia di Torino, nel popolare quartiere Parella. Schirripa avrebbe dato il «colpo di grazia» al magistrato, vittima di un agguato. L’inchiesta è stata coordinata dai pm Ilda Boccassini e Marcello Tatangelo. Caccia fu ucciso la sera del 26 giugno 1983, 32 anni fa, con 14 colpi di pistola mentre portava a spasso il suo cane, un cocker, sotto casa, in via Sommacampagna, davanti al numero civico 15, sulla precollina di Torino. Oggi qui resta una targa sotto la fronda di un glicine: «Il 26 giugno 1983 qui è caduto, stroncato da mano assassina, nel pieno della sua lotta contro il crimine, Bruno Caccia. Procuratore della Repubblica, medaglia d’oro al valor civile, strenuo difensore del diritto, luminoso esempio di coraggio e fedeltà al dovere». Per l’accaduto fu arrestato, nel 1993, il mandante del delitto, Domenico Belfiore, esponente di spicco della ‘ndrangheta in Piemonte, poi condannato all’ergastolo e dallo scorso 15 giugno ai domiciliari per motivi di salute. Caccia stava indagando su numerosi fatti di ‘ndrangheta tra cui alcuni sequestri di persona. «Come torinese e come magistrato che da lui ha imparato tutto, esprimo il ringraziamento e l’apprezzamento più convinto per l’ottimo lavoro della procura di Milano e della squadra mobile di Torino, che con pazienza e intelligenza sono riuscite ad aprire una nuova pista di indagine sull’omicidio dopo più di trent’anni», ha detto Gian Carlo Caselli, ex procuratore capo a Torino — ora in pensione — in merito agli sviluppi dell’inchiesta.
Il delitto Caccia: il giorno in cui Torino conobbe la ‘ndrangheta. Erano gli anni di Piombo e per le strade del capoluogo piemontese scorreva il sangue del terrorismo e della criminalità organizzata. Alle undici di sera del 26 giugno 1983, il magistrato più importante di Torino, il procuratore capo Bruno Caccia, stava portando a passeggio il cane quando due killer su una Fiat 128 lo freddarono a colpi di pistola. Era domenica e aveva deciso di lasciare a riposo la scorta. Uno dei presunti componenti di quel commando è stato arrestato martedì 22 dicembre a Torino. Cinque gradi di giudizio, conclusi con la condanna del boss Domenico Belfiore, ritenuto il mandante, non sono bastati a far piena luce sul delitto di un «nitido esempio di dedizione allo stato, un uomo con la giustizia nel cuore», come i suoi colleghi, dal procuratore generale Marcello Maddalena al procuratore capo Giancarlo Caselli, lo hanno ricordato in questi anni. «Ci sono ancora troppi buchi», diceva l’avvocato Fabio Repici, il legale della famiglia Caccia, che in occasione del trentennale della morte avevano chiesto di riaprire il caso. L’arresto potrebbe far luce su una delle pagine più buie di Torino. E dare giustizia alla famiglia del magistrato. Trentadue anni dopo.
Le indagini sull’omicidio. Sui mandanti dell’omicidio, le indagini presero subito la via delle Brigate Rosse: erano gli anni di Piombo e per di più le indagini di Bruno Caccia riguardavano in presa diretta molti brigatisti. Il giorno seguente, le Br rivendicarono l’omicidio, ma presto si scoprì che la rivendicazione risultava essere falsa. Inoltre nessuno dei brigatisti in carcere rivelò che fosse mai stato pianificato l’omicidio del magistrato cuneese. Le indagini puntarono allora l’attenzione sui neofascisti del NAR, ma anche questa pista si rivelò ben presto infondata. L’imbeccata giusta arrivò da un mafioso in galera, Francesco Miano, boss della cosca catanese che si era insediata a Torino. Grazie all’intermediazione dei servizi segreti, Miano decise di collaborare per risolvere il caso e raccolse le confidenze del ‘ndranghetista Domenico Belfiore, uno dei capi della ‘ndrangheta a Torino e anch’egli in galera. Belfiore ammise che era stata la ‘ndrangheta ad uccidere Caccia e il motivo principale fu che «con il procuratore Caccia non ci si poteva parlare», come disse lo stesso Belfiore. Come mandante dell’omicidio, Domenico Belfiore venne condannato all’ergastolo nel 1993. Nella sentenza c’è il racconto di un omicidio deciso a freddo, studiato nei minimi particolari, eseguito con brutale ferocia, per «eliminare un ostacolo all’attività della banda». Il clan dei calabresi era infatti nel mirino della Procura della Repubblica da quando Bruno Caccia era arrivato al vertice dell’ufficio: la sua sola presenza costituiva una grave minaccia. Quando Belfiore esce dal carcere, è con un escamotage che gli uomini della Squadra mobile riescono a ricostruire il rapporto con Rocco Schirripa, mai entrato nell’inchiesta sul delitto di Caccia, e a scoprire che sarebbe stato proprio lui — quella sera di 32 anni fa — a scendere dalla macchina ed esplodere il colpo fatale contro il procuratore torinese.
Schirripa incastrato da lettere anonime della Questura. «Dopo che Domenico Belfiore, il mandante del crimine, è stato messo ai domiciliari per gravi ragioni di salute — ha spiegato emozionata il procuratore aggiunto in conferenza stampa — la Questura di Milano ha fatto girare una serie di lettere anonime dirette ad alcune persone della cerchia di Belfiore. Nelle missive c’era la fotocopia dell’articolo uscito sulla “Stampa” quando Caccia venne ucciso e dietro c’era scritto a penna il nome di Rocco Schirripa». Sapevamo, ha aggiunto, che Schirripa era uno degli uomini di Belfiore: «Dopo l’invio delle lettere anonime abbiamo captato, grazie a una tecnologia molto avanzata, delle intercettazioni fortemente indizianti a suo carico». Tanto è bastato perché all’interno del gruppo si scatenasse la paura su chi avesse potuto rivelare quel nome. Belfiore, non sapendo di essere intercettato, pur utilizzando diverse precauzioni ha parlato dell’episodio con suo cognato, Placido Barresi, che era stato assolto dall’accusa di omicidio. Barresi ne ha parlato a sua volta con Schirripa che, interrogandosi su chi avesse inviato la lettera anonima con il suo nome, aveva anche progettato la fuga.
Schirripa: «Non ne ho parlato più con nessuno». «L’arresto di oggi è un tassello importante per gli sviluppi futuri dell’inchiesta. Ci auguriamo che possa far luce su tutti i risvolti rimasti oscuri di questa vicenda, a partire dagli altri mandanti», ha detto la figlia Cristina, commentando l’arresto del presunto assassino del padre. Schirripa è stato ascoltato per sei ore dalla Sezione Criminalità organizzata della Squadra mobile di Torino, e nella giornata di mercoledì verrà interrogato a Milano, probabilmente nel carcere di San Vittore. «Ti sei fatto trent’anni tranquillo, fattene altri trenta tranquillo», gli avrebbe detto lo scorso 22 novembre un presunto boss della criminalità calabrese. Il dettaglio è contenuto nell’ordinanza di custodia cautelare del gip Stefania Pepe, del tribunale di Milano. «Io non ne ho parlato più con nessuno» sarebbe la frase, intercettata dagli investigatori, pronunciata da Schirripa preoccupato per le lettere anonime. «Ti dico la verità, sto dormendo male. Io vedo di cercare una sistemazione, almeno posso andare a dormire tranquillo». Nel motivare le ragioni della custodia cautelare a carico di Rocco Schirripa, il gip di Milano evidenzia l’«elevatisisma e attualissima probabilità di reiterazione del reato» da parte dell’indagato. «L’indagato — osserva il gip — manifesta chiaramente un analogo proposito criminoso, rispondendo a Barresi: “Ma tu vedi di individuarlo che poi...non ti preoccupare”».
La memoria nel tempo. A Bruno Caccia sono stati intitolati il Palazzo di Giustizia di Torino, il 26 giugno 2001, e un cascinale a San Sebastiano da Po, sequestrato proprio alla famiglia Belfiore, più precisamente a Salvatore Belfiore, fratello di Domenico, grazie alla legge 109/96 che dispone in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati per reati di stampo mafioso. Cascina Caccia viene tuttora gestita da Libera la rete di associazioni contro le mafie che ricorda ogni anno il 21 marzo, nella Giornata della Memoria e dell’Impegno anche Caccia, presente nel lungo elenco dei nomi delle vittime di mafia e fenomeni mafiosi. «È una ferita rimasta aperta per trent’anni, ci auguriamo che le indagini possano finalmente far luce sul caso e assicurare alla giustizia i responsabili», ha commentato il sindaco di Torino, Piero Fassino.
Arrestato uno dei presunti killer del giudice Caccia, 32 anni dopo il delitto. Fa il panettiere a Torino. Arrestato dalla polizia dopo le indagini coordinate dalla pm Boccassini. L'uomo incastrato grazie a una lettera anonima spedita dagli inquirenti. Per il delitto c'era già stata una condanna all'ergastolo. La figlia del magistrato: "Ora si cerchino gli altri mandanti", scrivono Ottavia Giustetti, Emilio Randacio e Carlotta Rocci il 22 dicembre 2015 su “La Repubblica”. E’ stato arrestato dalla polizia a Torino uno dei presunti assassini del procuratore Bruno Caccia, ucciso la sera del 26 giugno 1983 con 14 colpi di pistola a pochi passi da casa, in via Sommacampagna, nella precollina torinese. Gli agenti della squadra Mobile, coordinati dai pm di Milano Ilda Boccassini e Marcello Tatangelo, lo hanno fermato questa notte. Le indagini sono durate 32 anni.
L'arrestato. L’uomo, Rocco Schirripa, è un torinese di 64 anni di origini calabresi con numerosi precedenti penali. A Torino ora faceva il panettiere in borgata Parella, ma scavando nel suo passato gli investigatori hanno trovato collegamenti di parentela con la famiglia di Domenico Belfiore, considerato il mandante dell’omicidio che è maturato nell’ambiente della ‘ndrangheta. Belfiore infatti è ritenuto il numero uno delle cosche nel nord ovest negli anni ’90. Il boss, che avrebbe deciso l'eliminazione del procuratore per le sue indagini sul riciclaggio del denaro delle organizzazioni criminali, è stato condannato all'ergastolo (a incastrarlo furono le confidenze registrate di nascosto dal pentito Francesco Miano nell'infermeria del carcere), ma è uscito di prigione pochi mesi fa per motivi di salute. L’ identikit dell’arrestato corrisponde perfettamente a quello tracciato all’epoca da chi investigò sul caso subito dopo l’omicidio. Secondo gli inquirenti milanesi, Schirripa era alla guida dell'auto che avvicinó il procuratore sotto casa, poco prima dell'esecuzione. L'uomo, secondo le indagini, avrebbe poi inflitto a Caccia il colpo di grazia con un proiettile alla testa. L'altro componente del commando sarebbe stato proprio il boss della 'ndrangheta, Domenico Belfiore. Scrive infatti il gip milanese Stefania Pepe nell'ordinanza di custodia cautelare: "Emerge con assoluta certezza che Rocco Schirripa è stato uno dei due esecutori materiali dell'omicidio del dr Caccia". Dalle intercettazioni, scrive ancora il giudice, "emergono inoltre plurimi elementi che fanno ritenere verosimile che la seconda persona che sparò al procuratore sia stato lo stesso Domenico Belfiore". Quanto, infine, a Placido Barresi, cognato di Belfiore coinvolto nell'inchiesta sull'omicidio caccia ma alla fine assolto per insufficienza di prove, "dagli atti del processo emerge senza alcun dubbio che il predetto era a conoscenza non solo della decisione di uccidere il procuratore, ma anche (nonostante fosse detenuto il giorno dell'agguato) di ogni dettaglio sull'omicidio, inclusa l'identità degli esecutori materiali". L’operazione risolve uno dei casi più eclatanti degli anni ’80, che per oltre tre decenni era rimasto solo parzialmente risolto. Due anni fa, nel trentennale dell'omicidio, un appello dei figli del procuratore ucciso sollecitava gli inquirenti a riaprire il fascicolo dormiente nei cassetti della procura milanese, competente per legge sui reati riguardanti i magistrati torinesi. Le indagini, in effetti, erano state riaperte circa un anno fa.
Le indagini. Il procuratore Caccia, magistrato incorruttibile che guidava la procura torinese con grande rigore (secondo uno dei boss era "uno con cui non si poteva parlare") fu assassinato la sera di una domenica elettorale, mentre portava a passeggio il suo cane, da almeno due sicari che gli spararono sul marciapiede di casa. Essendosi occupato di importanti indagini sul terrorismo (l'ultimo delitto torinese delle Brigate Rosse risaliva a pochi mesi prima) e sulla criminalità organizzata (sequestri di persona, omicidi, le infiltrazioni mafiose nel casinò di Saint Vincent), le prime ipotesi investigative batterono proprio queste due piste. Inizialmente una telefonata che rivendicava il delitto alle Brigate Rosse orientò gli inquirenti verso la pista terroristica, ma si rivelò subito falsa. Poco tempo dopo, grazie anche alle inchieste sul clan dei Cursoti, emerse la verità: Caccia era stato eliminato su ordine dei boss della 'ndrangheta trapiantata in Piemonte.
Lo stratagemma. Le indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dal sostituto procuratore Marcello Tatangelo, sono ripartite dall'esposto presentato nei mesi scorsi dal legale della famiglia Caccia. "Anche se la pista indicata - ha sostenuto Ilda Boccassini -, portava ad altre piste e prendeva di mira anche il lavoro dei magistrati milanesi che 32 anni fa si occuparono dell'omicidio". Gli investigatori della Squadra Mobile, che già sospettavano un coinvolgimento di Schirripa, hanno inviato una lettera anonima ai sospettati del delitto con una fotocopia di un articolo che riportava la notizia dell'uccisione del procuratore di Torino con scritto a penna il nome del presunto killer, proprio Rocco Schirripa. I sospettati, intercettati, hanno iniziato a fare supposizioni su chi di loro avesse parlato e hanno rivelato il ruolo di Schirripa nell'intera vicenda. "La loro unica preoccupazione era quella di capire chi avesse parlato - ha spiegato il procuratore facente funzioni di Milano Piero Forno - e i sospetti si sono concentrati proprio su Rocco Schirripa, che poi ha detto di aver fatto alcune confidenze a qualcuno". La preoccupazione degli arrestati era tutta rivolta a capire "se Schirripa avesse rivelato anche dei dettagli compromettenti del delitto, come la disposizione degli uomini del gruppo di fuoco nella macchina" utilizzata per fare l'agguato al magistrato o altri dettagli che le indagini non avevano ancora portato alla luce.
La "scommessa investigativa". Decisive per arrivare alla svolta di questa mattina, sono state le intercettazioni ambientali nell'abitazione di Domenico Belfiore, da pochi mesi agli arresti domiciliari: Belfiore - che parlava solo sul balcone di casa - ha fornito una ricostruzione decisiva per la svolta di oggi, parlando con il cognato Placido Barresi. Non sapendo di essere intercettato, pur utilizzando diverse precauzioni ha alluso all'episodio e Barresi ne ha parlato a sua volta con Schirripa che, interrogandosi su chi avesse inviato la lettera anonima con il suo nome, aveva anche progettato la fuga. La lettera anonima, ha spiegato il procuratore di Milano facente funzione, Pietro Forno, è stata quindi una "scommessa investigativa" che ha consentito di raccogliere elementi a carico di Schirripa, scatenando una reazione 32 anni dopo il delitto.
Le intercettazioni. Nelle conversazioni intercettate dagli investigatori si sente Belfiore dire "Quelli di là sotto lo sapevano quasi tutti" alludendo - annota il gip Stefania Pepe, "agli esponenti di vertice della 'ndrangheta che (...) erano stati informati", nel 1983, della decisione di uccidere il procuratore. Lo stesso Schirripa, in una delle registrazioni, assicura all'interlocutore Placido Barresi: "Io non ne ho parlato più con nessuno"; e di fronte alla sua preoccupazione per le lettere anonime inviate dalla Squadra mobile, il cognato di Belfiore replica: "Ti sei fatto 30 anni tranquillo, fattene altri 30 tranquillo". Aggiungendo ancora: "Mi sono informato giuridicamente. Sono passati 34 anni. Un reato non si prescrive, ma con le generiche non ti possono dare l'ergastolo e quindi è prescritto". Sempre parlando con Barresi, Schirripa, che per il gip gode di solidi appoggi in Spagna, dice di essere intenzionato a cercare una via di fuga: "Ti dico la verità, sto dormendo male. Io vedo di cercare una sistemazione, almeno posso andare a dormire tranquillo".
Le reazioni. "Come torinese e come magistrato che da Bruno Caccia ha imparato tutto, esprimo il ringraziamento e l'apprezzamento più convinto per l'ottimo lavoro della procura di Milano e della squadra mobile di Torino, che con pazienza e intelligenza sono riuscite ad aprire una nuova pista di indagine sull'omicidio dopo più di trent'anni". Lo ha detto Gian Carlo Caselli, ex procuratore capo di Torino, che quando Caccia fu ucciso era giudice istruttore. Entrambi, negli anni Settanta, si erano occupati dell'inchiesta sui capi storici delle Brigate Rosse. "Quello di Schirripa è un nome che si inserisce nel solco delle indagini che non si sono mai fermate in tutti questi anni - ha detto il procuratore generale Marcello Maddalena, al momento del delitto sostituto di Caccia - E' un personaggio storicamente vicino alla famiglia Belfiore. La procura di Torino lo ha incontrato altre volte nelle indagini di 'ndrangheta". "Quell'omicidio - ha aggiunto - diede una grande spinta a tutto l'ufficio che da allora fu ancora più compatto e continuò con ancora maggiore convinzione". "L'arresto di oggi - ha commentato Cristina Caccia, figlia del magistrato assassinato - è un tassello importante per gli sviluppi futuri dell'inchiesta. Ci auguriamo che possa far luce su tutti i risvolti rimasti oscuri di questa vicenda, a partire dagli altri mandanti". "Siamo soddisfatti del lavoro svolto dagli investigatori, ma chiaramente in circostanze del genere non si può essere contenti - ha aggiunto - E' strano che questa persona sia rimasta indisturbata a Torino, per oltre trent'anni. Ringraziamo la polizia e aspettiamo che l'inchiesta vada avanti".
Procuratore Bruno Caccia, quella sera di 32 anni fa a Torino. Il procuratore capo ucciso a colpi di pistola mentre era a passeggio con il suo cane, scrive "L'Ansa il 22 dicembre 2015. Erano le undici di sera del 26 giugno 1983. Il magistrato più importante di Torino, il procuratore capo Bruno Caccia, stava portando a passeggio il cane quando in via Sommacampagna, ai piedi della collina, due killer su una 128 lo freddarono a colpi di pistola. Era domenica e aveva deciso di lasciare a riposo la scorta. Uno dei presunti componenti di quel commando è stato oggi a arrestato a Torino. Cinque gradi di giudizio, conclusi con la condanna del boss Domenico Belfiore, ritenuto il mandante, non sono bastati a far piena luce sul delitto di un "nitido esempio di dedizione allo stato, un uomo con la giustizia nel cuore", come i suoi colleghi, dal procuratore generale Marcello Maddalena al procuratore capo Giancarlo Caselli, lo hanno ricordato in questi anni. "Ci sono ancora troppi buchi", diceva l'avvocato Fabio Repici, il legale della famiglia Caccia, che in occasione del trentennale della morte avevano chiesto di riaprire il caso. Erano gli anni di Piombo e per le strade del capoluogo piemontese scorreva il sangue del terrorismo e della criminalità organizzata. Ai principali quotidiani nazionali arrivano le prime rivendicazioni: da principio le Brigate Rosse, poi Prima Linea e persino in Nar. La matrice, però, si rivelò falsa e si fece strada l'ipotesi del crimine organizzato. "Cercheremo di riportare a galla elementi di indagini trascurate negli anni, ma che potrebbero aggiungere elementi di verità", diceva l'avvocato Repici. Come il materiale sequestrato a casa di Rosario Cattafi, avvocato milanese vicino all'estrema destra e alla mafia in carcere all'Aquila in regime di 41 bis. Sospetti, ombre, dubbi, che si intrecciano alle indagini portate avanti in quegli anni da Caccia. "E' improbabile che Belfiore abbia agito da solo e senza movente", insisteva il legale, ipotizzando il "coinvolgimento in concorso di soggetti calabresi e catanesi". Quei dubbi, scritti nero su bianco nella richiesta che il legale ha presentato alla procura di Milano, hanno portato alla riapertura del caso. Le indagini, coordinata dal pm Ilda Boccassini, hanno portato oggi all'arresto di un 64enne di origini calabresi che lavorava come panettiere in piazza Campanella, a Torino, nel popolare quartiere Parella. L'arresto potrebbe far luce su una delle pagine più buie di Torino. E dare giustizia alla famiglia del magistrato. Trentadue anni dopo.
Bruno Caccia, il giudice che aveva capito tutto. Nella Torino criminale degli Anni 80 ’ndrangheta e clan dei catanesi in guerra. Caccia intuì dalle indagini sul riciclaggio che la mala stava facendo il salto di qualità. Dietro le sbarre Domenico Belfiore e Placido Barres durante il processo per l’assassinio del procuratore Bruno Caccia, celebrato a Milano nel 1989. Belfiore fu condannato all’ergastolo, Barresi assolto, scrive Marco Neirotti il 23 dicembre 2015 su "La Stampa". «Hai visto Caccia? L’abbiamo fatto noi. Dovreste dirci grazie». Ha la parlata orgogliosa Domenico Belfiore, boss della ’ndrangheta a Torino, quando, un anno e mezzo dopo l’assassinio del Procuratore, si confida in carcere con Francesco «Ciccio» Miano, il capo dei catanesi. Non sa che Ciccio è un pentito e gira per l’infermeria con un registratore nelle mutande. Catanesi e calabresi avevano trovato una convivenza nella spartizione degli affari, ma Belfiore guardava avanti e guardando avanti aveva intuito che non gli scontri fra mafie, bensì quel magistrato era la barriera inaggirabile tra loro e il futuro. Caccia aveva consapevolezza che il fenomeno cruento ma rozzo degli Anni 80 si stava affinando per entrare come olio in ogni tessuto della società attraverso il riciclaggio del denaro (allora assiduo nei casinò) per poi assimilarsi a commercio, impresa e di qui a politica e voti e appalti. «L’abbiamo fatto noi» era orgoglio d’un gesto feroce e orgoglio d’aver spianato la via. Da metà Anni 70 Torino viveva con inquietudine sui suoi marciapiedi le pagine noir di Giorgio Scerbanenco, ma a cavallo fra ’70 e ’80 era ancor più provata dalla cascata di sangue del terrorismo: dopo i primi omicidi (dall’avvocato Fulvio Croce a Carlo Casalegno e Carlo Ghiglieno) erano brucianti quelli dell’82 (le guardie Mondialpol Antonio Pedio e Sebastiano d’Alleo) e la lotta armata era priorità assoluta. E la mafia «liquida» si espandeva silenziosa. Torino nera aveva convissuto con una delinquenza arcaica che da casa e dai night club organizzava bische e prostituzione e cominciava a trovare appetitoso uno spaccio di droga ancora disordinato. Negli Anni 70 il capo indiscusso si chiamava Rosario Condorelli, catanese d’origine. Una sera, nel ’75, entrò alla pizzeria Marechiaro, per mangiare un boccone, il commissario di polizia Francesco Rosano. Gli sguardi s’incrociarono, i due si riconobbero e Condorelli gli sparò subito, uccidendolo tra gli avventori. Torino capì che il «finché i malviventi si ammazzano fra loro...» non era una grande verità. La guerra «fra loro» ricominciò presto, e dura. Dalla stessa Catania salirono i fratelli Miano, Francesco detto «Ciccio» era il capo. Condorelli arrestato e incarcerato, i Miano fecero piazza pulita dei suoi. Presero possesso della città, a colpi di pistola e scalando nuovi affari, droga soprattutto, che apriva un altro fuoco, quello con i calabresi, fino allora impegnati più sul fronte dell’edilizia, del racket delle braccia, delle estorsioni, dei sequestri di persona. Se già i calabresi si muovevano in silenzio, più «liquidi» appunto, i catanesi erano spavaldi. Dirà poi Ciccio Miano: «Ero il capo. Avevo il mondo ai piedi. Mia moglie era una regina, i negozianti le regalavano tutto». Abitavano in un grande cascinale sontuosamente ristrutturato fuori Torino, nel cortile Ferrari e Mercedes. Incontravi uomini del clan nei bar. Uno di loro (poi finito con una palla da cinghiale in fronte sul pianerottolo di casa) sfotteva i cronisti affannati intorno a un telefono a gettoni: «Pieni di fantasia, ma, poveretti, devono mangiare anche loro». Il 28 settembre 1984, in lungo Dora Voghera, un ometto piccolo e tozzo, davanti a un distributore di benzina, uccide un uomo a rivoltellate. Passa una volante e la sparatoria si allarga. Lui si butta nel fiume e gli agenti dietro, lo catturano. Si chiama Salvatore Parisi, è il killer di fiducia dei Miano (confesserà sedici omicidi). In questura siede davanti a funzionari d’eccezione - Piero Sassi, Aldo Faraoni, Salvatore Longo, oggi questore di Torino - e con loro e con i magistrati incomincia a parlare. Come prova di credibilità, offre un nome e un indirizzo: la Squadra Mobile di Torino cattura Angelo Epaminonda, boss della malavita a Milano. E’ la fine dei catanesi. Si pente Ciccio Miano (suo fratello sarà ucciso per vendetta) e si presta alle registrazioni in carcere. «Caccia l’abbiamo fatto noi», gli dice Belfiore. Ma non svela a fondo la vera ragione, che nel clima di quegli Anni 80 era inquinata anche da fasulle e subito poco credibili rivendicazioni delle Br. Tanto che al maxiprocesso di terrorismo si alzò Francesco Piccioni dell’ala militarista e dichiarò: «Noi non c’entriamo. Quello è un omicidio al quale purtroppo siamo estranei». La ’ndrangheta si ritrovò liberata in un colpo solo dall’ingombro dei catanesi e del magistrato che, partendo dal riciclaggio (proprio per questo filone d’indagine il 13 dicembre 1982 subì un attentato Giovanni Selis, magistrato ad Aosta), si muoveva in anticipo verso le future strategie affaristiche nel Nord. Quelle che troveremo nel 1995 con l’operazione Cartagine, nel 2012 con l’operazione Minotauro, nel 2010 con l’operazione Infinito. Il disegno per il quale andava eliminato l’uomo che trentadue anni fa costituiva la più potente barriera.
“Così arrivammo alla ’ndrangheta”. L’attuale questore di Torino ricorda l’omicidio di Bruno Caccia: subito avevamo pensato ai brigatisti, poi fu tutto chiaro, scrive Massimo Numa il 23 dicembre 2015 su "La Stampa". È la sera del 26 giugno 1983, poco dopo le 22. In questura, al secondo piano di via Grattoni, di turno negli uffici semideserti della squadra mobile, c’è un trentenne vicequestore, allora capo della Narcotici, Salvatore Longo. Oggi è il questore di Torino.
Che cosa ricorda di quel giorno terribile?
«Mi chiamarono dalla centrale operativa. Eravamo in uno dei periodi storici più tragici, in pieno terrorismo, quando le notizie di persone uccise erano purtroppo frequenti. Mi dissero che un uomo era stato ferito da armi da fuoco. Disposi le solite procedure. E partii per via Sommacampagna. Appresi subito che la vittima era il procuratore Bruno Caccia».
Le prime ipotesi?
«Il magistrato, che conoscevo personalmente, era già deceduto. Una scena atroce. Era stato riconosciuto subito, dai vicini, e poi dagli agenti intervenuti. Arrivarono, se ben ricordo, il capo della mobile Piero Sassi, il capo della Omicidi, Aldo Faraoni. E poi il pm Anna Maria Loreto, i colleghi Alberto Bernardi e De Crescenzo. Finiti in rilievi una prima riunione in questura, non a caso negli uffici della Digos. Oltre ai magistrati, anche gli ufficiali dei carabinieri, con cui condividemmo le informazioni. C’era collaborazione, ovviamente».
Pensavate a un’azione delle Br?
«Sì, perché l’indomani sarebbe iniziato un processo contro i brigatisti. Ma in realtà nessuna delle ipotesi fu scartata a priori. Analizzammo, ognuno con le proprie competenze, ogni possibilità: il ruolo della mafia catanese, allora in auge, quello del terrorismo nero, senza trascurare i boss delle cosche calabresi che già allora si erano radicati in Piemonte. C’era, quella notte, calma e un’estrema decisione. Nelle ore successive iniziarono le perquisizioni, oggi si direbbe a 360 gradi: nelle celle dei brigatisti, nelle case dei pregiudicati più noti. Non trovammo niente, in quella fase».
Quando i primi indizi sulla matrice e sul movente del delitto?
«Qualche tempo dopo ci rendemmo conto che la pista più credibile portava dritta al crimine organizzato. Iniziammo a monitorare, giorno dopo giorno, il quadro costituito da siciliani e calabresi. Le geometrie del racket cambiavano continuamente, tra alleanze, divisioni e rotture anche violente. Nonostante questo, non emergeva alcun indizio vero. Quindi le prime voci. Sino a quando i Servizi convinsero un pentito dei catanesi, Francesco Miano, in carcere con il boss dei calabresi Domenico Belfiore, a collaborare. Il resto è noto: emerse il movente, si ricostruì uno scenario, Belfiore prese l’ergastolo».
Perché Caccia fu ucciso?
«È un evento criminale isolato nella storia piemontese. Erano stati uccisi magistrati a Milano, Genova, in altre città. Mai a Torino, e non è più accaduto. Caccia venne ucciso perché era il simbolo di un’autorità giudiziaria incorruttibile, sotto il profilo anche morale. Non che i suoi colleghi fossero da meno, ma lui aveva un metodo di lavoro incalzante, organizzato, e soprattutto efficace. L’unico modo per fermarlo era togliergli la vita».
Lei lavorò al suo fianco?
«Si. Ho avuto la fortuna di partecipare alle riunioni operative con altri colleghi, dedicate alle varie inchieste in corso. La sua straordinaria preparazione giuridica per noi era la sicura garanzia di gestire le indagini in modo perfetto. Poteva sembrare burbero e severo, ma sapeva valorizzare, e premiare, il lavoro dei suoi collaboratori».
Una lettera anonima al sospettato. Così hanno incastrato il killer dell’omicidio Caccia. La Questura di Torino aveva inviato alla famiglia Belfiore una missiva «per smuovere le acque», scrivono Giuseppe Legato e Massimo Numa il 22 dicembre 2015 su "La Stampa". «Sai che c’è? C’è che non sto dormendo bene la notte. Per l’altra cosa sono tranquillissimo, ma c’è quest’altra storia che…la notte dormo male». Rocco Schirripa, uno dei componenti del commando che uccise il procuratore capo Bruno Caccia, ammazzato dalla ‘ndrangheta nel 1983, non si preoccupava minimamente della recente accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga che da un mese gli era arrivata tra capo e collo dopo un’indagine della squadra Mobile. Era tranquillo, per quella storia. Non dormiva per le lettere anonime – una pagina de La Stampa pubblicata il giorno dopo l’omicidio Caccia con scritti i nomi dei killer, tra cui il suo – che la Questura di Torino aveva inviato alla famiglia Belfiore «per smuovere le acque», per far riaffiorare discorsi sopiti dal tempo. Dove non sono arrivati 32 anni di indagini, decine di racconti di pentiti, altrettante informative e richieste di riaperture del caso, c’è arrivato un escamotage investigativo. Per decenni, i Belfiore non hanno mai parlato di quell’omicidio. Non lo ha fatto Mimmo, il capofamiglia che, in carcere, ha trascorso più di 30 anni in silenzio. Non ne aveva mai parlato Rocco Schirripa che a un vecchio boss della Torino nera destinatario di quella missiva rispondeva: «Assolutamente. Non ho mai parlato. Ma stiamo scherzando? Sono cose delicatissime queste». Ma quella lettera, quella pagina de La Stampa arrivata per posta a ottobre, li ha turbati molto: «Ormai mi sono fatto 20 anni e Mimmo ne ha passati 40 in carcere. Voglio capire perché è uscito fuori il nome di Rocco» dice uno dei Belfiore. Con un virus informatico inoculato nel tablet del vecchio capo malato Domenico e negli Iphone dei suoi parenti, la Mobile è riuscita a sentire tutto, trasformando quegli apparecchi in delle microspie ambientali. In 104 pagine di ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Stefania Pepe, Carte che svelano come non tutti i boss della malavita calabrese conoscano bene i meandri del diritto e del processo penale. Tutt’altro. In un’intercettazione Schirripa parla con gli uomini dei Belfiore: «Ma scusa – chiede – ma l’omicidio non va in prescrizione dopo 30 anni?». L’altro «Certo». E il killer: «Ma allora di cosa stiamo parlando?».
Rocco Schirripa, il panettiere che nel giardino aveva il manichino del Padrino. Il 62enne, detto «Barca», è un uomo d’azione della famiglia Ursini-Belfiore che governò negli anni Ottanta e Novanta l’universo della criminalità organizzata calabrese, scrive Giuseppe Legato il 22 dicembre 2015 su "La Stampa". Trafficante di cocaina, rapinatore di professione. Testa fredda e nervi saldi, Rocco, detto «Barca» è un uomo d’azione della famiglia Ursini-Belfiore che governò negli anni Ottanta e Novanta l’universo della criminalità organizzata calabrese nel difficile travaso di leadership dalla mafia siciliana alla ‘ndrangheta. Schirripa, 62 anni, da Gioiosa Jonica, residente a Torrazza Piemonte. Professione panettiere. Sei mesi fa, quando le forze dell’ordine bussarono alla sua porta per confiscargli una volta per tutte la villetta di viale Gramsci nel chivassese - dove nel giardino aveva un manichino vestito da Padrino -, scappò per pochi metri. Sapeva, Schirripa, di avere ancora conti aperti con la giustizia. Conti non saldati, mai emersi nelle indagini che su di lui, in trent’anni di carriera nera, non si erano mai fermate. Il suo nome tornava sempre nelle intercettazioni su picciotti ed evangelisti del Sud che si erano trapiantati al Nord. Scappò su un fiorino bianco ma tornò indietro subito dopo quando capì che gli uomini in divisa, quella mattina, dovevano solo notificargli lo sfratto e nulla più. Il resto è arrivato stanotte. Arrestato per droga nel 2001, condannato insieme ai nomi storici del narcotraffico torinese (Agresta in testa) fu arrestato di nuovo nella maxi operazione Minotauro. Patteggiò 1 anno e 8 mesi in continuazione con reati di droga. Di nuovo arrestato per la latitanza di Giorgio Demasi, detto «U Mungianisi», super boss di Gioiosa ricercato dopo l’operazione Crimine. Si nascondeva a Torino. L’uomo di punta di quella latitanza dorata era proprio lui Schirripa. Che anche allora patteggiò.
Delitto Caccia, parla Schirripa: "Sono innocente, mie parole fraintese". Si tratta di un torinese di 62 anni, di origini calabresi, scrive "L'Ansa" il 23 dicembre 2015. "Sono innocente, non c'entro nulla con l'omicidio: le mie frasi intercettate sono state fraintese". Sono le uniche dichiarazioni rilasciate nel corso dell'interrogatorio di garanzia da Rocco Schirripa, l'uomo arrestato ieri e ritenuto uno degli esecutori materiali dell'omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia, avvenuto nel 1983. Schirripa si è poi avvalso della facoltà di non rispondere e si è detto disponibile a farsi interrogare prossimamente dal pm di Milano Marcello Tatangelo. Uno dei presunti assassini di Bruno Caccia, il procuratore capo di Torino ucciso nel 1983, è stato arrestato dalla polizia. Si chiama Rocco Schirripa, torinese di 62 anni, di origini calabresi. Attualmente faceva il panettiere alla periferia della città. Nei suoi confronti "sono state raccolte numerose fonti di prova". Bruno Caccia fu ucciso la sera del 26 giugno 1983, 32 anni fa, con 14 colpi di pistola mentre portava a spasso il suo cane sotto casa, sulla precollina di Torino. Per l'accaduto fu arrestato, nel 1993, il mandante del delitto, Domenico Belfiore, esponente di spicco della 'ndrangheta in Piemonte, poi condannato all'ergastolo e dallo scorso 15 giugno ai domiciliari per motivi di salute. Caccia stava indagando su numerosi fatti di 'ndrangheta tra cui alcuni sequestri di persona. Schirripa avrebbe dato il "colpo di grazia" al magistrato, vittima di un agguato mentre portava a passeggio il suo cane il 26 giugno 1983. E' la ricostruzione degli inquirenti della Dda di Milano, che hanno coordinato le indagini sull'episodio, riaperte anche in seguito alle richieste dei legali della famiglia di Caccia. Domenico Belfiore, già condannato all'ergastolo per il delitto, e il suo "soldato", Rocco Schirripa, secondo quanto è emerso dalle indagini, avrebbero atteso il magistrato a bordo di un'auto, appostati vicino alla sua casa. Belfiore, esponente di spicco della 'ndrangheta in Piemonte, avrebbe sparato a Caccia dalla vettura, ferendolo. A quel punto, secondo le accuse, Schirripa sarebbe sceso dall'auto, per finire il procuratore con un colpo di pistola alla testa. Rocco Schirripa è stato incastrato grazie ad una lettera anonima inviata dagli inquirenti milanesi a Domenico Belfiore, già condannato all'ergastolo per l'episodio. In seguito alla lettera sono state intercettate le "reazioni" sul coinvolgimento di Schirripa. E' "emozionata" Ilda Boccassini, che ha coordinato l'inchiesta. "Le indagini hanno confermato che i calabresi sono stati mandanti ed esecutori materiali di un omicidio di mafia di questa portata", ha spiegato Ilda Boccassini durante una conferenza stampa in Procura a Milano. "Le indagini vanno avanti - ha proseguito - e stiamo verificando se l'omicidio sia stato voluto dalla famiglia Belfiore con il beneplacito dell'organizzazione in Calabria".
Chi era Bruno Caccia, il procuratore di Torino ucciso nel 1983. Dal terrorismo al traffico di droga: tutte le indagini del pm assassinato, scrive "La Stampa" il 22 dicembre 2015. Ripubblichiamo un articolo uscito il 27 giugno 1983 su La Stampa Sera. Sessantaquattro anni compiuti, il procuratore della Repubblica di Torino, Bruno Caccia, era alla vigilia della pensione. A novembre avrebbe probabilmente lasciato il servizio dopo avere scartato l’ipotesi di presiedere il tribunale di Bologna. Era un magistrato «intelligente, integerrimo, irreprensibile». A dirigere la procura della Repubblica di Torino era arrivato dopo essere stato alla procura generale e alla procura di Aosta. Erano gli «anni di piombo» quando il terrorismo sembrava invincibile. Gli uomini della rivoluzione sparavano e uccidevano: la città era sotto la cappa della paura. Ma in pochi mesi tutto è cambiato. Nel febbraio del 1980 è stato catturato Patrizio Peci, che ha cominciato a parlare e a raccontare i segreti delle bande armate. Poche settimane ancora ed è stato arrestato Roberto Sandalo. Anche lui ha deciso di vuotare il sacco mettendo in ginocchio «Prima linea». Lo Stato ha recuperato il terreno perduto. Un team di magistrati — sostituti procuratori della Repubblica e giudici istruttori — si è mosso con tempestività ed efficienza. Dietro loro, a coordinare il lavoro di indagine e di verifica, c’era Bruno Caccia. La procura della Repubblica di Torino aveva in questi ultimi anni promosso però anche una serie di inchieste clamorose che hanno portato in carcere industriali conosciuti e politici di prestigio. La magistratura di Torino non ha guardato in faccia a nessuno. Quando si affacciava un’ipotesi di reato veniva aperta l’inchiesta e se le accuse trovavano conferme c’erano le manette per i responsabili. Anche se erano imputati «eccellenti». Tre anni fa è stata avviata l’indagine per il contrabbando di petrolio. E’ venuta fuori una truffa di decine di miliardi organizzata da imprenditori, grossisti, funzionari dell’Utif che avrebbero dovuto sorvegliare sulla legalità del commercio. E sono finiti nei guai anche politici, amici di politici, sottufficiali, ufficiali e comandanti della Guardia di Finanza. Sono già stati istruiti sei processi, due sono in appello, ma l’inchiesta non è ancora finita. Si aprono nuovi capitoli: si accertano altre responsabilità. Sempre più in alto: verso personaggi sempre più influenti. Nel marzo è scattata l’operazione che ormai tutti chiamano della «tangenti-story». Dalla denuncia di un ingegnere di Milano, rappresentante della multinazionale «Intergrafp», Antonio Deleo, la procura della Repubblica ha ordinato una serie di accertamenti. Vicesindaco e assessori, dirigenti di partito, capigruppo sono stati interrogati e sono rimasti in carcere. Nell’amministrazione della cosa pubblica — è l’ipotesi di reato — hanno badato troppo agli interessi personali, del gruppo e delle correnti e troppo poco a quelli dei cittadini. In questi ultimi mesi i magistrati erano impegnati su altri due fronti: contro l’«ananonima sequestri» che ha ucciso l’impresario Lorenzo Crosetto (ritrovato sepolto in una buca alla periferia di Asti) e contro il racket della droga che vende morte e ottiene guadagni giganteschi. Quando era alla procura della Repubblica di Aosta, Bruno Caccia ha svolto l’indagine sull’assessore socialista Milanesio e su alcune speculazioni edilizie nella zona di Pila. A Torino, come sostituto alla procura generale, aveva sostenuto l’accusa al processo d’appello contro Franca Ballerini, Paolo e Tarcisio Pan. Paolo era stato condannato all’ergastolo, Tarcisio a pochi anni di carcere per occultamento di cadavere e la Ballerini è stata assolta con formula ampia. Caccia ha impugnato la sentenza ed ha presentato ricorso in Cassazione. La Suprema Corte gli ha dato ragione e ha ordinato che venisse celebrato un quarto processo contro la Ballerini (l’anno scorso è finito con un’altra assoluzione per «insufficienza di prove»). E’ stato lui ad occuparsi dell’indagine sul sequestro del sostituto procuratore di Genova Mario Sossi, tenuto prigioniero dalle Brigate rosse. Caccia aveva firmato la requisitoria d’accusa chiedendo il rinvio a giudizio contro gli imputati di «Controinformazione». Il procuratore di Torino sapeva dei rischi cui la sua posizione lo esponeva. Era prudentissimo. Si faceva scortare da un’auto di poliziotti anche quando andava a giocare a tennis. L’unico ritaglio «privatissimo» della sua vita era a tarda notte — tutte le notti — quando passeggiava con il cane, un coker, sotto casa. In via Sommacampagna abitava dal 1957. Quella di uscire solo era l’unica sua «leggerezza», e gli assassini l’hanno scoperto. Hanno studiato con cura le abitudini del magistrato e hanno colpito: con la brutalità di cui sono capaci i killer.
Un Uomo Per Bene. Il Ricordo Di Bruno Caccia. Articolo di: Mattia Maestri del 26 giugno 2013. Una morte silenziosa. E per troppo tempo dimenticata. Trent’anni fa come oggi veniva ucciso da killer tuttora ignoti il magistrato piemontese Bruno Caccia. Il 26 giugno 1983 era la prima domenica d’estate, a Torino, ed era sera. Pur avendo a disposizione la scorta e la macchina blindata, Bruno Caccia non rinunciava mai alla passeggiata serale con il suo cane, la sua unica libertà quotidiana. Quel giorno, però, fu l’ultima. Due uomini a bordo di un’automobile affiancarono il magistrato e gli spararono da distanza ravvicinata una decina di colpi di pistola, prima dei tre colpi di grazia finali. Ma chi era Bruno Caccia? E perché è stato così barbaramente assassinato? Era un uomo per bene. Nato a Cuneo il 16 novembre 1917, Bruno Caccia entrò a far parte della magistratura torinese nel 1941. Dopo un breve periodo di tre anni ad Aosta, rientrò nel 1967 nel capoluogo regionale e continuò la sua battaglia per la giustizia dapprima come sostituto procuratore, poi come procuratore della Repubblica di Torino dal 1980. Si occupò di temi difficili e spinosi in quegli anni, come le violenze e i pestaggi negli scioperi o lo scandalo delle tangenti alle giunte rosse di Torino. “Il suo rigore, la sua severità e durezza nel pretendere l’applicazione delle regole erano il tentativo di non sopraffare il più forte” spiega Gian Carlo Caselli alla Cascina Caccia (confiscata alla famiglia ‘ndranghetista Belfiore nel 1996 e intitolata al magistrato ucciso) a due passi da Chivasso, in occasione del ricordo del suo collega. I due avevano collaborato nel primo processo istruito contro le Brigate Rosse. Combatteva in prima linea Bruno Caccia. Terrorismo e Criminalità Organizzata furono le sue più grandi battaglie civili e legali, portate avanti grazie alla sua totale dedizione allo Stato e al suo costante impegno. In moltissime occasioni rimaneva in ufficio fino a tarda serata, a scrivere, a leggere, a cercare di capire. Si arrovellava soprattutto su un tema: l’infiltrazione mafiosa al nord, e in particolare quella della ‘ndrangheta calabrese che stava mettendo le proprie radici a Torino e in provincia. Bruno Caccia era convinto della massiccia presenza malavitosa nella sua regione e per dimostrare ciò iniziò una decisa lotta alla criminalità organizzata al nord. Fece pedinare i pusher siciliani che controllavano le piazze dello spaccio, inviò la polizia a perquisire le bische gestite da uomini calabresi e cominciò ad effettuare controlli bancari. Un lavoro prezioso, che fece tremare l’ascesa dei clan calabresi al dominio assoluto nella provincia torinese. Nessuno, nella parte settentrionale d’Italia, era arrivato ad osare così tanto. Del resto “La mafia al nord non esiste”, o almeno così abbiamo sentito dire fino a pochi anni fa da prefetti e uomini delle istituzioni. La ‘ndrangheta e la mafia, invece, al nord erano presenti e non tardarono a reagire. Uomini del boss ‘ndranghetista Domenico Belfiore pedinarono il magistrato per giorni, fino al momento in cui individuarono il punto debole, il pretesto per ammazzare Bruno Caccia. Quattordici colpi di pistola, e la vita dell’integerrimo magistrato finì, alle 23.30 del 26 giugno 1983. Le prime inchieste si concentrarono subito sulla pista del terrorismo rosso, in seguito ad una rivendicazione (rivelatasi poi falsa) delle Brigate Rosse. Solo successivamente le indagini investirono la criminalità organizzata e portarono, dieci anni dopo l’assassinio, alla condanna all’ergastolo di Domenico Belfiore, riconosciuto mandante dell’omicidio. Tuttavia, sono tuttora senza nome gli esecutori materiali del delitto. Anzi, nuove inquietanti scoperte sembrano ipotizzare il coinvolgimento di servizi segreti deviati e la collaborazione della mafia catanese alle indagini, finalizzata al controllo criminale della piazza torinese in quegli anni contesa, così come rivela ‘Il Fatto Quotidiano’ in questi giorni. “Lui mi ha insegnato il mestiere. Lui è il simbolo dell’uomo di giustizia. Questa cascina è la dimostrazione della possibilità di restituire il maltolto delle mafie. Ricordarlo qui è il modo migliore per ricordare l’impegno di un uomo morto perché credeva nella legalità e nel rispetto delle regole”, ricorda lo stesso Gian Carlo Caselli, ringraziando Libera Piemonte per la splendida gestione della cascina. A Caselli, attuale procuratore capo del palazzo di Giustizia di Torino (intitolato a Caccia dal 2001), spetterà in questi giorni l’incarico di tracciare «l’ingerenza della ’ndrangheta nella vita politica in Piemonte» nel processo Minotauro, considerato il più importante contro la ‘ndrangheta in Piemonte. La rilevanza penale della presenza criminale nel tessuto sociale regionale potrebbe essere il giusto riconoscimento al lavoro di Bruno Caccia. Una persona troppo spesso dimenticata, anche dal mondo dell’antimafia. Riappropriamoci della sua memoria e facciamola vivere sempre, tutti i giorni, con l’impegno, con il senso del dovere, con la giustizia nel cuore.
Bruno Caccia, trent’anni dalla morte. Quando il nord dimentica i suoi eroi, scrive Andrea Contratto l'1 luglio 2013. Il 26 giugno del 1983 erano circa le 23 quando una Fiat 128 su cui viaggiavano almeno due uomini apre il fuoco contro un passante che stava portando a spasso il suo cane. Così fu ucciso dall’ndrangheta il primo e unico magistrato al nord: Bruno Caccia. La verità processuale ha portato alla condanna di Domenico Belfiore all’ergastolo, ma per i 30 anni della sua morte una nuova pista si fa largo e potrebbe far riaprire le indagini. Sono passati 30 anni da quella sera in via Sommacampagna quando Bruno Caccia fu ucciso mentre portava a spasso il suo cane. A ritrovarlo, la figlia, scesa in strada per vedere cosa fossero quei colpi di pistola. Così morì il primo magistrato ucciso al Nord dall’Ndrangheta, in una calda serata estiva. Quest’anno per il suo trentesimo anniversario sono state molteplici le iniziative nel capoluogo piemontese tra cui la presentazione di un documentario sulla vicenda, “Bruno Caccia, una storia ancora da scrivere”, prodotto da Libera e ACMOS, il libro “Il giudice dimenticato”, la commemorazione in Sala Rossa e infine un evento nel Tribunale a lui dedicato con Saviano e il Procura Gian Carlo Caselli. Saviano durante il suo intervento ha sottolineato l’importanza di essere a Torino in questa data perchè si ricordi la figura di un magistrato definito incorruttibile puntando il dito contro le autorità nazionali, completamente latitanti da tutte le manifestazioni. Il percorso del processo dell’omicidio Caccia è stato fin da subito occultato da una nebbia di depistaggi. Pochi minuti dopo l’omicidio giunge la prima rivendicazione da parte delle Brigate Rosse. Nelle telefonate a varie testate nazionali si parli di vendetta contro il “servo dello stato”. La lotta alle Brigate Rosse è stato uno dei capisaldi del lavoro del Procuratore a Torino e per questo fu subito diramato l’ordine di perquisire tutte le celle del carcere dove risiedevano alcuni brigatisti per trovare conferme ai sospetti. I giorni successivi sono giorni di fuoco: i brigatisti prima trincerati in un assordante silenzio iniziano a dichiarare che non è stata la mano brigatista ma di altri. Le indagini si spostano su delinquenza comune e sulla pista delle organizzazioni criminali. Solo dopo un anno, nel 1984, alcuni Catanesi inizieranno a collaborare e fare il nome del boss Belfiore. In particolare sono le parole di Roberto Miano, affiliato al clan dei Catanesi, a fine 1984 parla di un contatto tra lui e Belfiore, che all’epoca era il capo del clan dei Calabresi in Piemonte. Il boss lo aveva contatto per fargli recuperare un fucile di precisione proprio per l’omicidio del giudice. Proprio il caso Caccia unì le due compagini e una terza, molto meno conosciuta. Infatti il contabile dei calabresi era un certo Franco Gonnella, conosciuto negli ambienti per essere amico di alcuni magistrati. Il Belfiore in un colloquio con Miano, capo del clan dei catanesi pentito e diventato collaboratore, assicurò che una volta ucciso il procuratore, sarebbe stato sostituito da un magistrato più malleabile. Il clan dei Calabresi, di cui Belfiore era a capo, puntava alla liberazione di alcuni suoi membri ma con Caccia a capo della procura non sarebbe stato possibile avere alcuna riuscita. Il procuratore infatti viene sempre descritto come una persona riservata e integerrima che in particolare non frequentava il bar del palazzo di giustizia, descritto da molti come il luogo in cui si incontravo diversi volti della medesima medaglia. Il punto di svolta lo troviamo proprio in queste vicende perchè secondo le fonti il caso potrebbe essere riaperto proprio seguendo il filone di indagini che porta non solo alla galassia ‘ndranghetista ma anche verso quella dei colletti bianchi. Caccia era supervisore di un processo decisamente imporante per l’epoca come lo scandalo dei petroli, che tra gli altri coinvolgeva due generali della Finanza e diversi membri di quella che poi passerà alla storia come la P2. Intrecci che non fanno altro che complicare il quadro dell’omicidio del giudice “impassibile” e che si spera abbiano nuovi risvolti anche alla luce di queste nuove scoperte. “Bruno Caccia è stato ucciso per il futuro” queste le parole enigmatiche dell’ex procuratore di Aosta Mauro Vaudano, che di Caccia fu collega, lasciano un ampio spazio a considerazioni. Parlare di Bruno Caccia non è semplice memoria. E’ futuro, e tante righe dovranno essere ancora scritte.
Bruno Caccia: Il magistrato del nord che la mafia volle morto, scrivono venerdì 28 giugno 2013 Mario Vaudano e Paola Bellone su “Altritaliani”. Ripercorrere la vita e la morte del Procuratore Bruno Caccia, significa ripercorrere un pezzo della storia d’Italia e di Torino, in quegli anni stretta dalla lotta al terrorismo e dai prodomi di una mafia che iniziava ad allargarsi prepotentemente nel nord Italia. Una testimonianza di chi c’era che aiuta a comprendere meglio gli scenari in cui si muovono mafia e politica, i pericolosi percorsi in cui la magistratura ieri come oggi combatte la sua battaglia nel nome della Legge. Alle ore 23,30 circa del 26 giugno 1983, il Procuratore capo della Repubblica di Torino, dottor Bruno Caccia, mentre passeggiava portando al guinzaglio il suo cagnolino lungo il marciapiede che fiancheggia gli stabili di Via Sommacampagna, in Torino, veniva raggiunto da un’autovettura Fiat 128 di colore verde, con due uomini a bordo. L’autista, arrestata bruscamente la marcia, esplodeva contro il magistrato, attraverso il finestrino, alcuni colpi di arma da fuoco che lo colpivano in varie parti del corpo, facendolo cadere a terra. Quasi contemporaneamente, l’altro individuo, discendeva dall’auto e, raggiunta la vittima, sparava altri colpi di pistola al capo della stessa. Il dottor Caccia, soccorso e trasportato all’ospedale a mezzo di autoambulanza, vi giungeva cadavere». Con queste frasi inizia la lunga motivazione della sentenza con cui la Corte d’assise di Milano, esattamente sei anni dopo, il 16 giugno 1989, condannerà all’ergastolo come mandante dell’omicidio, Domenico Belfiore, detto Mimmo, capo del clan dei Calabresi, che all’epoca dominava la malavita torinese in duopolio con il clan dei Catanesi, guidato da Francesco Miano, detto Ciccio. All’azione omicida assistevano quattro passanti. Due di loro riferivano che, mentre faceva stridere i pneumatici per fuggire, l’uomo al volante si sporgeva dal finestrino e puntava contro di loro l’indice della mano col pollice aperto, come a impugnare una pistola, gridando «Bang! Bang! Bang!», così ammonendoli a non muoversi ed ad non lanciare alcun allarme. Nonostante la chiara intimidazione, i due lo descrivevano, consentendo la ricostruzione del volto al photofit (a loro dire molto somigliante). Ciononostante i due sicari non furono mai identificati. Fu individuato solo, grazie ad una dichiarazione di un codetenuto, il presunto mandante, un uomo di peso della mafia calabrese (legato anche alla mafia siciliana già operante in Piemonte e Lombardia), Domenico Belfore che fu poi condannato all’ergastolo dalla Corte di Assise di Milano (all’epoca competente per i reati contro magistrati di Torino). La sentenza divenne definitiva, ma furono necessarie ben sei decisioni giudiziarie: dopo la sentenza di primo grado, una prima sentenza di appello, nel ’90, una sentenza di annullamento della Cassazione per vizio di motivazione, ed infine una seconda sentenza d’appello, nel ’92, e la decisione definitiva di conferma della Cassazione). Bruno Caccia è stato l’unico magistrato ucciso dalla mafia nel Nord Italia. Oltre a lui, solo un altro magistrato con funzione di Procuratore Capo è stato ucciso dalla mafia: Gaetano Costa, Procuratore Capo di Palermo, il 6 agosto 1980. Responsabile, in questo caso, fu Cosa Nostra. Oltre a lui, solo un altro magistrato è stato ucciso dalla ‘ndrangheta: Antonio Scopelliti, il 9 agosto 1991, su richiesta di Cosa Nostra, perché il Sostituto Procuratore Generale avrebbe dovuto sostenere l’accusa nel maxi processo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino davanti alla Corte di Cassazione (almeno secondo le dichiarazioni del pentito Giacomo Lauro, ma l’omicidio è rimasto senza responsabili). Perché ricordare oggi Bruno Caccia? Non è solo un atto di omaggio doveroso, ma deve essere un esercizio di memoria efficiente, per vivificare un modello per la società. Bruno Caccia viene spesso ricordato, per la sua intransigenza, che di per sé non è un valore, se non associato a tutte le qualità che facevano di lui un magistrato straordinario. Parlano di lui i pareri agli atti del suo fascicolo personale, che lo segnalavano già, a un anno dalla nomina, letteralmente, come «ottima promessa per il futuro». «Intelligentissimo, investigatore acutissimo, amante del lavoro, dotato di molto senso pratico, di retta intuizione». «Il dott. Caccia può considerarsi, per il suo equilibrio - concludeva il primo giudizio - addirittura eccezionale». Bruno Caccia, dunque, non era solo intransigente. E la sua intransigenza non era una comoda via per esercitare l’autorità. Era funzionale ai valori che lo guidavano nello svolgimento del suo lavoro. Parlano, in questo caso, i ricordi dei magistrati, allora “giudici ragazzini”, che facevano parte del suo ufficio. La prima circolare firmata da Bruno Caccia quando si insediò come Procuratore Capo di Torino, il 6 febbraio 1980, ordinava di segnalargli eventuali casi di richiesta di raccomandazione. Intransigente, ma autorevole, non autoritario. Aspro polemista, sapeva cambiare idea e rispettava le posizioni altrui se ben argomentate. I magistrati del suo ufficio ricordano di non avere mai subito pressioni da parte sua nell’esercizio dell’azione penale. Contraddirlo con intelligenza valeva guadagnarsi rispetto da parte sua. Anche se a contraddirlo era un sostituto procuratore od un giovane giudice istruttore e aveva meno di trent’anni (come la maggioranza dei magistrati in servizio sotto la sua direzione). Per dirla con Leonardo Sciascia, Bruno Caccia «considerava l’autorità di cui era investito come il chirurgo considera il bisturi: uno strumento da usare con precauzione, con precisione, con sicurezza; riteneva la legge scaturita dall’idea di giustizia e alla giustizia congiunto ogni atto che dalla legge muovesse». Per questo Bruno Caccia poteva dire: «Avere il potere e non esercitarlo è altrettanto grave che non averlo ed esercitarlo». Potere che esercitava con imparzialità, senza ombra di classismo («senza guardare in faccia nessuno», come ricorderanno all’indomani dell’omicidio i suoi colleghi). Bruno Caccia viene ricordato spesso, invece, perché era un conservatore. Non era solo conservatore. Nel lavoro era, anzi, un capo moderno ed aggiornato. La Procura di Torino, sotto la sua guida, era all’avanguardia grazie alla specializzazione dei gruppi d’indagine. I rapporti con i Giudici Istruttori, in passato difficili con chi l’aveva preceduto, divennero molto piu diretti ed efficaci. Con Bruno Caccia Procuratore Capo, nasca a Torino il primo pool antiterrorismo. Ma ricordare Bruno Caccia, significa anche ricostruire la storia di Torino in quegli anni; ed in parte di questo Paese, riferendosi alle inchieste aperte a Torino sotto la sua guida. Impegnato in prima linea contro il terrorismo è lui, nel 1975, a seguito di avocazione del processo, a redigere e firmare la richiesta di rinvio a giudizio contro il nucleo storico delle BR. Bruno Caccia, Sostituto Procuratore Generale e Giancarlo Caselli, giudice istruttore, avevano costruito l’intero processo ricorrendo per la prima volta alla fattispecie della banda armata. È anche noto che l’inizio della sconfitta delle Brigate Rosse iniziò il 19 febbraio 1980 (due settimane dopo l’insediamento di Bruno Caccia come Procuratore Capo), con l’arresto di Patrizio Peci, capo della colonna torinese, che con le sue dichiarazioni consentì l’arresto di altri settanta brigatisti. Ma è meno noto che a raccogliere per la prima volta a verbale le sue dichiarazioni formali come pubblico ministero c’era proprio Bruno Caccia. Così come non è molto noto il ruolo di Bruno Caccia nell’affaire Donat-Cattin. Il 29 aprile era stato arrestato il terrorista di Prima Linea Roberto Sandalo (tra le sue vittime il magistrato Emilio Alessandrini), che, sull’orma di Patrizio Peci iniziò a collaborare e, tra gli altri, denunciò Marco Donat-Cattin, figlio del vice segretario della DC Claudio, dichiarando che era riuscito ad evitare l’arresto grazie all’aiuto del padre, messo in allerta da Francesco Cossiga, allora Presidente del Consiglio. L’ipotesi era violazione del segreto per favorire la fuga del terrorista. Fu Bruno Caccia a ordinare la trasmissione degli atti al presidente della Camera Nilde Jotti (decisione condivisa con l’Ufficio dei giudici istruttori). Il Parlamento bocciò la proposta di messa in stato d’accusa di Cossiga davanti alla Corte Costituzionale, ma il Governo da lì a poco cadde. Estremamente importanti anche le altre due inchieste aperte nel periodo di da Bruno Caccia alla guida della Procura, in stretta collaborazione con l’ufficio Istruzione Penale. Con otto anni di anticipo rispetto a Mani Pulite, alla vigilia delle elezioni politiche del 1983 e in piena epoca Yalta, indagò sulle tangenti in favore di politici locali, provocando nel giro di pochi giorni le dimissioni della giunta regionale prima e di quella comunale poi (il Psi torinese sarà commissariato da Bettino Craxi). L’altra inchiesta toccava figure di rilievo nazionale, indagati eccellenti appartenenti ai vertici della Finanza, primo tra tutti il Generale Raffaele Giudice, Comandante Generale della Guardia di Finanza tra il 1974 ed il 1978 iscritto alla P2 di Licio Gelli. È l’inchiesta sui petroli, che in tutta Italia fece emergere un sistema di corruzione generalizzate dei vertici centrali e locali della Guardia di Finanza e delle Dogane e di evasione del pagamento delle accise per il 20 per cento del consumo di carburante per quasi 2000 miliardi di lire dell’epoca. Con importanti collusioni e protezioni politiche, principalmente nell’entourage dell’on. Moro e del suo segretario Freato, e dell’On. Andreotti, ministro di tutela dell’epoca. Bruno Caccia fu ucciso alla chiusura delle due indagini e mentre i processi in appello erano in corso o dovevano essere celebrati di li a poco. Ma non c’era provvedimento che uscisse dalla Procura senza il suo visto. Come quella richiesta di archiviazione di un sostituto che, senza svolgere indagini, aveva ritenuto priva di fondamento una lettera di denuncia nei confronti del direttore sanitario del Centro clinico ospedaliero delle carceri giudiziarie di Torino. Secondo la lettera il medico rilasciava certificati falsi, dietro compenso, per dichiarare l’incompatibilità dello stato di salute di carcerati mafiosi con lo stato di detenzione. Bruno Caccia non vistò il provvedimento e andò avanti, ascoltando personalmente l’autore della lettera. Inchiesta d’avanguardia se si considera che, negli stessi anni, camorristi del calibro di Cutolo, grazie a perizie psichiatriche false, si facevano rinchiudere nei manicomi giudiziari, da dove fuggivano come se fosse un gioco da bambini. Il direttore sanitario finì condannato in primo grado a cinque anni di reclusione proprio due giorni prima che venisse assassinato Bruno Caccia. Sotto la sua direzione, grazie all’organizzazione data all’ufficio, si intensificarono, infatti, anche le indagini di criminalità organizzata, governata a Torino e Milano dal Clan dei Calabresi e dal Clan dei Catanesi. Ricordare, infine, l’omicidio di Bruno Caccia, ci obbliga anche a ricostruire il contesto in cui maturo il suo omicidio, per ricercarne le motivazioni. Bruno Caccia fu ucciso nel 1983, l’anno in cui, come scrive Giancarlo Caselli ne Le due guerre, «l’Italia poté considerarsi fuori dall’emergenza terrorismo». Proprio in quei giorni si stava celebrando nel carcere torinese delle Vallette il processo d’appello contro il nucleo storico delle Brigate Rosse. Quando Bruno Caccia fu ucciso era domenica. Erano in corso le elezioni politiche. I seggi della prima giornata elettorale avevano chiuso da un’ora e mezza. Il sole e il grande caldo nel resto d’Italia spiegavano in parte la più bassa affluenza alle urne registrata dal 1948 («soltanto l’89 per cento», titolano i giornali). I risultati sancivano il crollo dalla DC. In leggero calo anche il PCI di Berlinguer, ma vicino al sorpasso della DC di De Mita. Crescevano repubblicani e liberali e i socialisti di Craxi, che diventerà Presidente del Consiglio, il primo socialista a ricoprire questa carica. L’Italia delle elezioni politiche del 1983, dunque, usciva dall’emergenza del terrorismo. Non da quella della mafia, che nelle terre di origine, proprio in quegli anni, faceva centinaia di morti. Tra il ’79 e l’83 818 persone assassinate in Campania, dove Luigi Giuliano aveva costituito una federazione di famiglie napoletane per combattere lo strapotere cutoliano. Mille morti ammazzati tra l’81 e l’83 in Sicilia, dove Totò Riina aveva dato inizio alla cosiddetta “seconda guerra di mafia”, per sterminare i mafiosi della vecchia guardia palermitana. La ‘ndrangheta era uscita rinnovata da qualche anno dalla prima guerra di mafia (iniziata nel ’75 con l’omicidio del capo dei capi della ‘ndrangheta, ‘Ntoni Macrì, padrino vecchia maniera). Da allora si chiamava “Santa”: inizialmente trentatré (numero tipico del rituale massonico), i “santisti”, erano autorizzati dal codice della nuova organizzazione a intrattenere rapporti con ambienti prima vietati (a cominciare da carabinieri e poliziotti), e ad affiliarsi alla massoneria deviata, in modo da gestire direttamente il potere politico ed economico e ad “aggiustare” le sentenze. Ma nell’83 queste trame erano per lo più ancora oscure. Il primo a squarciarle, è noto, fu Tommaso Buscetta. Per la ‘ndrangheta bisognerà aspettare fino al 1992, quando inizierà la collaborazione Giacomo Lauro, inizialmente coperto dagli inquirenti con il codice “Alfa”. Nel 1992 fu pronunciata la sentenza d’appello per l’omicidio di Bruno Caccia, che sarà confermata definitivamente in Cassazione, sancendo la responsabilità, come unico mandante, di Domenico Belfiore. Ma è proprio la trasformazione della ‘ndrangheta, rivelata nel 1992, a imporre un’analisi storica integrativa della verità giudiziaria. Lo impone alla luce delle stesse emergenze processuali di allora. “Relazioni pericolose” è il titolo del capitolo più doloroso della seconda sentenza d’appello per l’omicidio di Bruno Caccia, che descrive il proscenio delle indagini. Gli investigatori non avevano ancora orientato le indagini in una direzione precisa, ma a poco a poco scoprirono un rapporto di contiguità tra alcuni suoi colleghi e gli stessi malavitosi indagati dal suo ufficio, nell’ambito delle inchieste di criminalità organizzata. La sentenza per l’omicidio condannerà moralmente i primi, perché con la loro «disponibilità» verso i malavitosi, avrebbero rafforzato la loro motivazione ad uccidere Bruno Caccia, nell’aspettativa che, alla sua morte, subentrassero i loro magistrati amici. La lettura degli atti del processo per l’omicidio e di altri processi conferma il rapporto di contiguità non solo tra certi magistrati e i malavitosi indagati nell’ambito delle inchieste sulla criminalità organizzata, ma anche tra quegli stessi magistrati e gli indagati nelle inchieste sul c.d. scandalo dei petroli e sulle tangenti. Un intreccio di interessi politici con interessi economici e della malavita organizzata, che solleva il dubbio di un’alleanza nella pianificazione, urgente, di un omicidio altrimenti anomalo, in quanto vede, come unico mandante, un Domenico Belfiore di 30 anni, in un’epoca in cui la ‘ndrangheta era già gerarchizzata al suo interno, che, da solo, avrebbe deciso di uccidere la massima autorità della Procura di Torino (unico caso di omicidio di ‘ndrangheta nella storia giudiziaria italiana, che ha come vittima un magistrato, unico caso di omicidio di mafia nella storia giudiziaria italiana, che ha come vittima un magistrato nel Nord Italia). E’ un quadro che impone, anzitutto con un’analisi storica, di scandagliare i collegamenti tra il basso livello della malavita organizzata e gli alti livelli istituzionali dell’epoca, considerando, che, proprio adesso, si sta svolgendo là, a Torino, la discussione finale nel processo “Minotauro”, in cui, per la prima volta, proprio quei collegamenti affiorano a livello processuale. Un’analisi che potrebbe portare all’individuazione di una molteplicità di cause convergenti dell’omicidio di Bruno Caccia, e far emergere nuovi scenari di connivenza e complicità pubbliche. Paola Bellone, viceprocuratore onorario presso la Procura della Repubblica di Torino. Mario Vaudano, magistrato, all’epoca Giudice Istruttore a Torino.
Solo un passo in direzione della verità, scrive Cristina Caccia il 23 dicembre 2015 su "La Stampa". Ieri mattina, il mio risveglio è stato particolare: un collega al telefono mi diceva: «Hanno preso uno dei killer di tuo padre». Dopo la telefonata, mi interrogavo da sola su ciò che provavo, ed era difficile dare una risposta. Non sapevo come mi sentivo, l’unica parola che veniva fuori era «impressione». Fa impressione apprendere una notizia come questa, trentadue anni dopo l’omicidio di tuo padre sentire che - forse - hanno arrestato uno dei suoi assassini. Fa impressione poi che questa persona abbia vissuto nella tua stessa città per tutti questi anni. L’emozione è tanta, partono le telefonate ai fratelli, Guido che vive in Germania, Paola che fa l’insegnante ed è ancora a scuola. Quando riusciamo a sentirci riconosco anche nelle loro voci quella nota di incertezza che forse c’è nella mia. E’ un passo avanti, ci diciamo facendoci coraggio, un gradino in più verso la conoscenza. Questa, per noi, è la lettura razionale di quanto è accaduto. L’arresto di ieri è un passo avanti nella ricerca della verità che la mia famiglia persegue da anni, in ultimo chiedendo alla procura di Milano nuove indagini sul caso. In molti mi hanno chiesto se siamo soddisfatti. La risposta è sì, naturalmente. Ma la questione su cui porre l’accento è un’altra, il fatto cioè che questo è un punto di partenza e non di arrivo, una nuova pista da cui partire sperando che stavolta finalmente qualcuno parli, dopo il silenzio durato trent’anni del mandante riconosciuto dell’omicidio. In famiglia abbiamo sempre pensato che ciò che era uscito non bastasse. Non bastasse un mandante unico, non bastasse una manciata di ragioni dietro a un omicidio eccellente come quello di un Procuratore della Repubblica di una città importante come Torino, l’unico di un magistrato qui al Nord in tanta storia di delitti di mafia italiani. Così questo arresto rappresenta una nuova speranza, una spinta ad andare avanti, e questo è l’importante. C’è ancora molto da sapere. Con mia sorella, per due interviste televisive, abbiamo ripercorso il marciapiede dove nostro padre fu ucciso, ricordando quella terribile sera di giugno di tanti anni fa. Un marciapiede che, sebbene io abiti in questa zona anche adesso, non calpesto mai, se mi capita attraverso. Mi hanno anche chiesto della giustizia e del perdono. Il perdono va chiesto, ho risposto io, e non mi pare purtroppo che sia mai accaduto in trent’anni. E la giustizia - ieri, oggi e anche domani - è sempre una meta a cui tendere.
Bruno Caccia, questo è il tempo della verità. I figli del magistrato ucciso a Torino nel 1983 puntano a far riaprire il caso, scrive Matteo Viberti il 6 novembre 2014 su “La Gazzetta d’Alba”. Il primo delitto di mafia al Nord, negli anni del post-terrorismo, quando le indagini sul casino di Saint Vincent stavano per eruttare un verminaio indicibile. Per la morte di Bruno Caccia, procuratore capo della Repubblica di Torino, ucciso sotto casa con 17 colpi di pistola il 26 giugno del 1983, un boss della ’ndrangheta “settentrionale”, Domenico Belfiore, è stato condannato all’ergastolo come mandante, ma i sicari non si sono ancora trovati. A oltre trent’anni dall’omicidio, Guido, Paola e Cristina, i figli del magistrato sepolto a Ceresole, hanno depositato una denuncia al Tribunale di Milano, che chiama in causa, indicando piste e nomi precisi, le più sconcertanti connessioni italiane, da Cosa nostra ai servizi segreti. Ne parliamo con Paola Caccia.
Come ha vissuto la sua famiglia la tragedia dell’omicidio di suo padre, Paola?
«Siamo rimasti scioccati, chiusi a lungo nel nostro dolore. Abbiamo cercato di superare la tragedia, trasmettendo ai nostri figli i valori in cui credette mio padre. A lungo non ci siamo interessati alle indagini. Avevamo fiducia totale nella magistratura. Solo in seguito, dopo il processo che si è chiuso nel 1992, abbiamo iniziato a interrogarci, mia madre per prima, sui molti temi a cui la sentenza non aveva risposto, e a cercare di capirne le ragioni. Devo ammettere, dopo aver letto gli atti, molta sorpresa per il modo con cui è stato condotto il processo. Purtroppo, temo siano state nascoste alcune verità. Per questo, anche grazie al sostegno di Libera, l’associazione di don Luigi Ciotti, abbiamo preso coraggio e stiamo cercando di far riaprire il caso. Fin qui conosciamo solo il volto del mandante dell’omicidio di mio padre, il boss della ’ndrangheta Domenico Belfiore, ma non quello di chi lo ha ucciso».
Quali sono i nuovi elementi sui quali chiedete di indagare?
«L’avvocato Fabio Repici, esperto nei processi di mafia, con la consulenza del magistrato Mario Vaudano, ha depositato una denuncia presso la Procura di Milano in cui si indica la pista da seguire: l’indagine sul casino di Saint Vincent, che mio padre aveva fatto perquisire proprio nel mese precedente la sua morte, e che avrebbe svelato come al casino venissero riciclate ingenti somme di denaro proveniente da attività criminali. Rileggendo il fascicolo processuale ci si rende conto che molti elementi sono stati inspiegabilmente trascurati dal titolare dell’indagine, il pm Francesco Di Maggio».
Proprio intorno ai casino italiani ruotavano forti interessi criminali.
«Grazie al lavoro dell’avvocato Repici siamo arrivati a ipotesi sulle quali, a nostro avviso, occorre indagare, a partire, ad esempio, dalla falsa rivendicazione dell’omicidio operata dalle Brigate rosse, il cui testo è stato trovato in casa di un mafioso».
Belfiore non avrebbe quindi avuto il ruolo che gli è stato attribuito?
«È stato condannato un “pesce piccolo”, senza andare oltre. Ci sono dettagli importanti, lasciati cadere nel processo, e per questo confidiamo nella riapertura delle indagini, che ci è stata negata lo scorso anno. Lo sentiamo come un dovere in quanto familiari e cittadini. Forse è stata occultata la verità».
Ha ancora fiducia nella magistratura?
«Sì, ho ancora fiducia. Ma devo ammettere che mi aspettavo un altro tipo di impegno da parte della Procura di Milano e dei colleghi di Torino per il raggiungimento della verità. Un maggiore coraggio nel pretenderla, un dovere verso un uomo coraggioso come mio padre che, ai tempi del terrorismo, quando la paura era una costante per noi, ci raccomandava: “Se mi rapiscono non venite a patti”».
Come ricorda suo padre, Paola?
«Mio padre non parlava del suo lavoro in famiglia. Abbiamo conosciuto il magistrato dopo la sua morte, grazie ai suoi sostituti, che ci sono stati molto vicini. In casa era un uomo positivo, ottimista, allegro, sereno, anche se rigoroso sulle questioni importanti. Amava l’orto, lo sport, la natura. Gli piaceva mettersi in gioco, giocava a bridge ogni settimana con gli stessi amici. A noi figli ha sempre dato fiducia, esigendo sincerità, ma lasciandoci liberi di seguire le nostre inclinazioni».
La Commissione parlamentare antimafia sta riaprendo alcuni casi di omicidi irrisolti sui quali si staglia l’ombra della mafia. Il 28 ottobre, in audizione a Messina, la presidente Rosy Bindi ha assicurato, tra l’altro, parlando di Bruno Caccia: «Tra i nostri compiti c’è anche quello di far sentire la vicinanza alle vittime della mafia. Sosterremmo la famiglia Manca e sosterremo Sonia Alfano. E saremo vicini anche al percorso di ricerca della verità sull’omicidio del giudice Bruno Caccia». La Commissione ha infatti sentito l’avvocato Fabio Repici, legale della famiglia del procuratore capo di Torino ucciso nel 1983. Secondo Repici, che ha presentato un dettagliato dossier, chiedendo una seria riapertura delle indagini, il delitto del magistrato si lega con le vicende messinesi sulle quali il legale è impegnato. Tra gli informatori dei servizi segreti mobilitati subito dopo il delitto, ad esempio, ci sarebbe anche il barcellonese Rosario Pio Cattafi, ora al 41 bis.
Rocco Sciarrone: le mafie sono al Nord e pure Cuneo e Alba rischiano. “Parliamo con Rocco Sciarrone. Sociologo, docente all’Università degli studi di Torino e autore del libro Mafie al Nord (Donzelli editore, 2014), il 31 ottobre è stato a Cuneo, ospite dell’associazione Libera, per presentare il suo lavoro di ricerca.
La mafia al Nord: soltanto un timore oppure una presenza reale, professore?
«La mafia del Nord Italia è un fenomeno reale e di vecchia data. Riscontriamo tracce soprattutto in Lombardia, ma anche in Piemonte. Il Canavese è il luogo più “colpito”, con una forte presenza della ‘ndrangheta calabrese».
Quali forme può assumere il fenomeno?
«Sovente si tratta di movimenti che intaccano la sfera del legale, comunicano con essa, ne dissolvono i confini. Più che ruberie e palesi atti delinquenziali, la mafia al Nord scalfisce il tessuto imprenditoriale e politico, tentando di infiltrarsi e di controllarlo. Ad esempio, nel mondo dell’edilizia, delle amministrazioni comunali, delle società partecipate. La mafia s’innesta con maggiore facilità laddove preesistono pratiche illegali, oppure dove è presente una vulnerabilità economica e sociale a livello di contesto. Dobbiamo cambiare quindi la prospettiva tradizionale: la mafia non contagia un tessuto, non rappresenta un agente patogeno esterno che arriva da fuori e agisce. Si tratta di un processo complesso che s’installa laddove trova un ambiente “accogliente”».
Quindi anche una provincia come Cuneo e una città come Alba rischiano di veder sviluppare queste forme criminali?
«Cuneo e Alba sono luoghi storicamente considerati “protetti”, ovvero più resistenti all’installazione di fenomeni mafiosi. Vuoi per la solidità del tessuto di valori etici, vuoi per le eccellenze imprenditoriali e sociali. Ma proprio queste eccellenze possono essere punto di attrazione per organizzazioni criminali, come avviene in Brianza. Non dimentichiamo infine che la relativa tranquillità della Granda ha fatto sì che il territorio divenisse sovente rifugio di latitanti».
Come si può contrastare il fenomeno?
«Tenendo alta la guardia, monitorando costantemente i punti più sensibili dell’apparato economico e istituzionale. Sovente il mafioso, per agire come tale, deve rendersi riconoscibile. Ha dei punti di vulnerabilità, dobbiamo imparare a riconoscerli».
Bruno Caccia: dimenticare, confondere, ricordare, vivere, scrive il 29 gennaio 2013 Libera Piemonte. Bruno Caccia. Chi lo dimentica, chi lo confonde, chi lo ricorda, chi continua a vivere la sua vita. Tutto questo succede in una mattina d’inverno, a Torino. Il teatro è l’inaugurazione dell’anno giudiziario, sabato 26 gennaio. Tra gli attori, tutti i vertici della Corte d’Appello e della Procura Generale.
Chi lo dimentica. Quest’anno, ingenuamente, pensavamo che il trentennale dell’omicidio di Bruno Caccia sarebbe stato ricordato da tutti, anche stante l’importante processo Minotauro che vede ritornare molti cognomi di cosche già operative all’epoca dell’uccisione del Procuratore. Era il giugno 1983 e “con il procuratore Caccia non ci si poteva parlare”. Per questa ragione venne freddato sotto casa, mentre passeggiava col cane. Diciassette colpi. Ancora ignoti gli esecutori dell’omicidio, mentre come mandante è stato condannato all’ergastolo nel 1993 Domenico Belfiore, da Gioiosa Jonica. La mattinata passa e intervento dopo intervento (incluso quello del ministro Paola Severino) nessuno menziona Bruno Caccia. Tra di noi ci guardiamo un po’ sorpresi.
Chi lo confonde. Ci vogliono pazienza e tempo per leggere tutta la Relazione dell’inaugurazione dell’Anno Giudiziario. Ma se si arriva a pagina 173, al settimo capitolo (cioè l’ultimo prima degli allegati) si trova il suo nome. Ed è un passaggio in particolare del presidente Barbuto che vogliamo riportare: “Il palazzo entrò in funzione nel 2001, ed è dedicato a Bruno Caccia, Procuratore della Repubblica di Torino, assassinato dalle Brigate Rosse, sotto casa nel 1983, due anni prima che si deliberasse la costruzione del nuovo palazzo. Per il quale, l’evocazione della fortezza, pur se inconsapevolmente, non fu estranea alla percezione sociale di aggressione terroristica di quegli anni”. Avete letto bene. Brigate Rosse. Questo c’è scritto nella relazione che trovate sul sito giustizia.piemonte.it e che è stata distribuita in numerose copie stampate sabato mattina. E la ‘ndrangheta? Domenico Belfiore faceva forse parte delle BR?
Chi lo ricorda. Alla fine della mattinata, in un’aula ormai spoglia e stanca della lunga cerimonia, prende la parola il Procuratore capo Gian Carlo Caselli. Ricorda il collega Caccia, le ragioni della morte, le parole dei suoi figli. Riprendiamo qui uno stralcio del suo discorso: “Il 2013 è l’anno del trentesimo anniversario della morte di Bruno Caccia. I figli del Procuratore ucciso dalla ‘ndrangheta hanno indirizzato ai media (che l’anno pubblicata integralmente o per ampi stralci) la lettera che ora leggo: A trent’anni dalla morte di nostro padre, siamo profondamente grati a tutti coloro che vorranno ricordarlo con eventi e iniziative che ne onorano la memoria e che ci fanno un grande piace. In tutti questi anni nelle periodiche ricorrenze e non solo, abbiamo sentito sempre forte e presente il ricordo e l’affetto delle Istituzioni cittadine. Abbiamo apprezzato lo sforzo continuo dell’associazione Libera, che è riuscita a tener viva la scintilla dell’interesse e della partecipazione, anche e soprattutto tra i giovani. Non possiamo però nell’occasione tacere ciò che purtroppo ancora ci cruccia. A fronte degli esiti processuali che risalgono ormai a molti anni fa, sentiamo tuttora il disagio per qualcosa che non ci pare ancora del tutto chiarito. Le recenti cronache del processo Minotauro avallano in qualche modo i nostri dubbi, mettendo in luce un percorso della malavita organizzata che dai fatti di oggi si può far risalire fino ad allora. Proprio in quest’ottica, la sentenza definitiva ci pare a tutti gli effetti una verità parziale. Ci piacerebbe perciò che la ricorrenza di quest’anno diventasse occasione e stimolo per uno sforzo corale teso ad avvicinarsi maggiormente alla Verità, partendo dal presupposto che l’omicidio di nostro padre non fu certo un fatto isolato nella storia cittadina. Questa memoria “fattiva” sarebbe secondo noi un degno coronamento della commemorazione del suo sacrificio. Firmato: Guido, Paola e Cristina Caccia”. Una lettera franca. Essa comporta per tutti (politici, amministratori, società civile, giuristi e magistrati) l’obbligo di moltiplicare il proprio impegno. L’obbligo per tutti di respingere con forza, con sdegno, ogni tentazione di sottovalutazione (e qualcosa in questo senso va purtroppo serpeggiando) perché la penetrazione delle mafie al nord è un’emergenza in atto da lunghissimo tempo, mentre scarsissima è la consapevolezza al riguardo. Nessuna presa di posizione, quindi, nessuna decisione significativa è registrabile. Incredibile, nel nostro Piemonte, questa mancanza di consapevolezza:
1) in Piemonte viene ucciso nel 1983 Bruno Caccia (il più “eccellente” dei 44 omicidi di mafia registrati in provincia di Torino fra il 1970 ed il 1983, con 24 persone uccise di origini calabresi).
2) in Piemonte è il primo comune italiano sciolto per mafia: 1995 Bardonecchia.
3) numerose ed importanti sono state negli anni passati le inchieste della magistratura torinese sul versante ‘ndranghetista (Cartagine per tutte).
Perché questa mancanza (rifiuto?) di consapevolezza? Per ignoranza, impreparazione, ritardo culturale, miopia, sottovalutazione, distacco aristocratico (razzista) della gente del nord verso il pericolo mafioso? Anche per tutto questo…insieme al (soprattutto per il) fatto che la mafia nelle aree non tradizionali riesce ad ibridarsi, riesce a proteggersi con una forza relazionale che fa di tutto per non essere percepita, per non essere avvertita come pericolo presente. La mafia opera sistematicamente, programmaticamente, ontologicamente (è nel suo Dna) per mimetizzarsi. Questa mimetizzazione è anch’essa vecchia quanto le mafie, per cui è ben strano che funzioni ancora oggi, mietendo vittime anche illustri in alto loco. MENTRE proprio la strategia di mimetizzazione del crimine organizzato ne dimostra la pericolosità. Tutto ciò è scolpito nel 416 bis. Dimenticarlo o ignorarlo non si può. I figli di Caccia, con la loro lettera, ci chiedono di non farlo”.
Chi continua a vivere la sua vita. In quest’ultimo capoverso vanno ricompresi tutti coloro che fanno il proprio dovere fino in fondo, come faceva Bruno Caccia. A partire da chi abita un luogo a lui dedicato, un luogo confiscato alla famiglia Belfiore (capitali mafiosi e non brigatisti), la cascina in cima a San Sebastiano da Po, dove si cerca di costruire una comunità alternativa alle mafie, grazie all’incrocio dell’impegno di molti. Chiediamo scusa alla famiglia del Procuratore per tutti coloro che oggi, a trent’anni di distanza, lo dimenticano o lo confondono. Noi abbiamo scelto di ricordarlo e di continuare a vivere la sua vita.
Cinquant'anni di 'Ndrangheta in Piemonte. Storia del crimine all’ombra della Mole, scrive Luca Rinaldi il 16 Gennaio 2012 su “L’Inkiesta”. Quello dell’operazione Minotauro, datata giugno 2011, che ha portato all’arresto di 151 presunti affiliati alla ‘ndrangheta, è solo l’ultimo capitolo della lunga storia dell’infiltrazione della criminalità organizzata in Piemonte. Prima i confini degli anni Sessanta, poi il 13 giugno 1983, quando venne assassinato il procuratore della Repubblica Bruno Caccia fino ai presunti rapporti odierni fra ‘ndrangheta e politica. Il 26 giugno del 1983 a Torino veniva assassinato per mano della ‘ndrangheta il procuratore della Repubblica Bruno Caccia. Uno con cui, riferì Domenico Belfiore, condannato come mandante del delitto, «non si poteva trattare». Sibillina quella frase di Mimmo Belfiore da Gioiosa Ionica. Uomo di ‘ndrangheta in trasferta a Torino, dove gestiva un bar proprio sotto il tribunale del capoluogo piemontese, in affari con i Gonnella esponenti di Cosa Nostra. Sibillina al punto che i magistrati nella sentenza di condanna di colui che era diventato un referente di primo piano per le ‘ndrine calabresi in Piemonte, scriveranno «Egli [Bruno Caccia, nda], poté apparire ai suoi assassini eccessivamente intransigente soltanto a causa della benevola disposizione che il clan dei calabresi riconosceva a torto o a ragione in altri giudici. Perché questo clan aveva ottenuto in quegli anni la confidenza o addirittura l’amicizia di alcuni magistrati». Le famiglie mafiose da Torino e dal Piemonte non se ne sono mai andate, anzi, hanno spesso affari con la pubblicazione amministrazione e amicizia con la politica. A trent’anni di distanza, i figli del magistrato piemontese hanno chiesto di riaprire il processo sull’omicidio del padre. L’avvocato della famiglia, Fabio Repici, ha dichiarato l’ANSA che «ci sono ancora troppi buchi. Cercheremo di riportare a galla elementi di indagini trascurate negli anni, ma che potrebbero aggiungere elementi di verità». La figlia di Bruno Caccia, Paola, ha detto che la richiesta di riapertura delle indagini che verrà depositata alla Procura di Milano porterà a «riaprire ferite peraltro mai chiuse. Ma lo sentiamo come un dovere, come un bisogno di giustizia per il nostro Paese. Ed è anche un modo per sentirci ancora vicini a papà, che per tutta la sua vita ci ha insegnato i valori della coerenza e della verità». Così se nel 1963 arriva in Piemonte spedito al confino Rocco Lo Presti, soprannominato il padrino di Bardonecchia (che sarà poi il primo comune del Nord Italia sciolto per infiltrazioni mafiose), l’8 giugno 2011 va in porto l’operazione “Minotauro” con l’arresto di 151 presunti affiliati alla ‘ndrangheta in tutto il Piemonte, a Milano, Modena e Reggio Calabria. Le indagini sono partite dalle dichiarazioni del pentito Rocco Varacalli, e per il procuratore di Torino Giancarlo Caselli, come ebbe a dire durante la conferenza stampa lo stesso 8 giugno, dimostra «l’amorevole intreccio tra criminalità organizzata e politica». Un intreccio prosegue Caselli che «dà a quest'inchiesta un risvolto inquietante». Il risvolto inquietante sono i contatti con la politica e gli appalti delle aziende delle cosche nella Pubblica Amministrazione. Risvolti inquietanti che già Roccuzzo Lo Presti, organico al clan Mazzaferro aveva importato nel freddo Piemonte negli anni ’60. Lo Presti aprì proprio a Bardonecchia un negozio di abbigliamento, per poi prosperare in altri settori come ediliza, autotrasporti, bar, le immancabili sale da gioco e la ristorazione. Per i giudici è Lo Presti a «portare la mafia a Bardonecchia», e non a caso si era accasato con i Mazzaferro, già attenzionati nel 1976 dopo l’ottenimento di appalti per la costruzione del traforo del Frejus. Altre due inchieste, la prima nel 1984 e la seconda verso la fine del 1994, vedono i clan infiltrarsi negli appalti pubblici nell’alta Val di Susa, fino allo scioglimento del comune di Bardonecchia il 28 aprile del 1995. Dopo un’inchiesta molto approfondita della prefettura il Consiglio dei Ministri scioglie il Consilio comunale, ravvisando «l’esistenza di condizionamento degli amministratori da parte della criminalità organizzata». Già nella relazione della Commissione Parlamentare Antimafia del 1994, si censivano le presenza persistenti di ‘ndrangheta, cosa nostra e dei casalesi, mettendo poi in risalto quelle «situazioni sospette» nel settore finanziario. Già nel 1994 emergeva quella “zona grigia” fatta di professionisti, politici e funzionari pubblici su cui la mafia si appoggia per trasformare l’illecito in apparentemente lecito. Così gli anni ’90 e i primi anni 2000, viste anche le ghiotte occasioni degli appalti e in particolare dei subappalti per le Olimpiadi invernali di Torino 2006 e per il Tav, le cosche tra lavoro nero e gare al massimo ribasso tornano sulla scena pubblica. Una ‘ndrangheta quella insediata in Piemonte, che fa poco rumore, ma che ormai è una presenza storica. Presenza che porta all’insediamento delle nove locali scoperte dagli investigatori nel giugno scorso durante l’operazione “Minotauro”. L’indagine restituisce la fotografia di quei nuclei strutturati di famiglie che rispondono al vertice calabrese, ma che sul territorio negli anni si sono ricavate una propria autonomia, soprattutto per quanto riguarda i contatti con amministratori pubblici e politica locale. Non è un caso che l’indagine prenda le mosse dalle indicazioni del collaboratore di giustizia Rocco Varacalli, organico alle famiglie di Natile di Careri, che nel 2008 iniziò a ricostruire i traffici di stupefacenti delle ‘ndrine tra il Sud America, la Calabria e alcune città del nord Italia. Inoltre emergono sempre dalle deposizioni del collaboratore di giustizia le falle in cui le ‘ndrine vanno ad inserirsi nell’economia: subappalti, servizi, facchinaggio e piccole commesse pubbliche, che sommate all’amicizia con il politico o l’amministratore arrivano anche più facilmente dalle parti di quelle aziende apparentemente senza macchia a cui vengono affidati i piccoli subappalti senza gara pubblica. Nel racconto del pentito Varacalli, attendibile a fasi alterne, trovano posto poi anche nomi e cognomi non solo di mafia ma anche di politica. Nelle carte dell’operazione coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Torino emergerà su tutti, perché tra gli indagati, Nevio Coral, già sindaco di centrodestra di Leinì (Torino) per 30 anni e suocero dell'assessore regionale alla Sanità Caterina Ferrero, del Pdl, che poco tempo prima di questa operazione firmò le proprie dimissioni per un caso di tangenti. Nevio Coral avrebbe, secondo l’accusa, procacciato voti tra gli esponenti della ‘ndrangheta per l’elezione del figlio, poi diventato sindaco della stessa Leinì nel marzo 2010 e dimessosi lo scorso dicembre. Tra le pieghe dell’inchiesta emergeranno i rapporti poco convenienti tra il boss di Rivoli Salvatore De Masi e alcuni esponenti politici regionali. Dalle carte emergerebbe infatti che «Tra la fine di gennaio e il febbraio 2011 (De Masi, nda) si è incontrato direttamente o tramite intermediari con l'onorevole Gaetano Porcino dell'Idv (il suo nome emergerà anche in occasione dell’inchiesta sul clan Valle-Lampada sull’asse Milano-Reggio Calabria), con l'onorevole Domenico Lucà del Pd, con il consigliere regionale del Pd Antonino Boeti, con l'assessore all'Istruzione di Alpignanno Carmelo Tromby, sempre dell’Idv». Nessuno di questi è stato indagato dalla procura di Caselli, ma nell’ordinanza si legge appunto di incontri poco convenienti e addirittura in una occasione Lucà chiama il boss Demasi in cerca di voti per Fassino alle primarie del Partito Democratico per la candidature a sindaco di Torino. Allo stesso modo, inconsapevolmente, fa sapere la stessa, Claudia Porchietto, assessore al Lavoro della Regione Piemonte (all’epoca dei fatti, nel 2009, candidata alla presidenza della provincia di Torino per il Pdl), incontra al Bar Italia nel centro del capoluogo piemontese Franco D’Onofrio, considerato dai magistrati «responsabile provinciale della Cosca di Siderno». Il padrino del “Crimine torinese”. I magistrati non indagano la Porchietto considerandola estranea, anche perché l’incontro tra I due dura solo pochissimi minuti, ma è però preceduto da una chiacchierata tra lo stesso D’Onofrio, Giuseppe Catalano e il nipote Luca consigliere comunale del Pdl ad Orbassano. Riconosciuta l’estraneità della Porchietto il gip Silvia Salvadori, che firma l’ordinanza non può fare a meno di classificare l’episodio come «altamente rappresentativo dell’influenza che la ‘ndrangheta assume nella vita democratica». I boss in Piemonte, si interessano di tutta la regione, e in consiglio comunale ad Alessandria si sarebbe seduto addirittura seduto un “picciotto”: nell’ambito di un’altra operazione antimafia, denominata “Maglio” ed eseguita pochi giorni dopo “Minotauro”, gli inquirenti sono arrivati ad arrestare il consiglieri Giuseppe Caridi, del Pdl. Caridi, stando alle indagini dei Carabinieri, avrebbe ricevuto la dote di “picciotto” con cui era stato ammesso ufficialmente a partecipare alle attività della “locale” guidata da Bruno Francesco Pronestì. Quarant’anni di mafia in Piemonte che torneranno probabilmente a fare rumore alla conclusione del processo scaturito proprio dall’operazione “Minotauro”. Intanto, dall’emiciclo di coloro che di solito fanno strali contro chi viene pizzicato in scomoda compagnia, arriva il più solido garantismo e la convinzione che spesso, in campagna elettorale, può capitare di stringere le mani sbagliate. Certo, quando capita ai soliti, come notano gli inquirenti della direzione distrettuale antimafia di Milano nel caso di Gaetano Porcino dell’Idv «sarà uno sfortunato caso». Lo scorso 23 febbraio dopo otto ore di camera di consiglio, la seconda sezione della Corte di Cassazione ha rigettato i ricorsi dei 50 boss condannati in Appello e ha di fatto confermato le sentenze degli altri gradi di giudizio: 300 anni di carcere. La pronuncia ha respinto la richiesta di annullamento fatta dallo stesso procuratore generale per «difetto di motivazione». È la prima sentenza passata in giudicato sulla ‘ndrangheta nel Nord Ovest: «Questa pronuncia – commenta il procuratore capo, Armando Spataro a La Stampa – conferma l’eccellente lavoro della Dda di Torino e della polizia giudiziaria».
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa coscienza
che spesso ho sentito nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa significa.
Ho chiesto ad un professore dell'università
il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno rubare.
Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO
Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?
Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.
Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.
Perché Bruxelles?
Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.
La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare? ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino. E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.
Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.
Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti. Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.
GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.
Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.
Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.
Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”
Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.
Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato, mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?”
Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni, perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.
Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.
Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.
Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato. Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.
Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.
Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.
Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome. A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».
Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.
MAGISTRATI…STATE ZITTI!
Torino, giro di vite del procuratore Spataro: "Denuncerò i pm che gestiscono la notizia come cosa propria". Incontro con i giornalisti a Palazzo di Giustizia: "Giusto accedere agli atti ma solo da un certo momento in poi, deciderà il giudice cosa è rilevante e cosa no". E conferenze stampa "solo in casi eccezionali", scrive il 9 dicembre 2015 “La Repubblica”. "Se un magistrato decide di amministrare la notizia come fosse una cosa propria violando il codice disciplinare io lo denuncio al Csm". Il capo della Procura di Torino, Armando Spataro, stringe le redini al suo ufficio, che regge dal luglio dello scorso anno, nella gestione dei rapporti con la stampa. Serve una comunicazione più ufficiale e più coordinata, quando è possibile, mentre qualche volta negli ultimi mesi il procuratore è dovuto intervenire per reindirizzare le informazioni rese pubbliche su alcuni fascicoli appena aperti. Nel mirino eccessi di protagonismo o di enfasi, da parte di alcuni magistrati, sul proprio lavoro. Ma a lasciare perplesso il capo della Procura anche le conferenze stampa "che servono soltanto in casi eccezionali", mentre i comunicati stampa sono più utili nell'attività ordinaria e meno si prestano a fraintendimenti. In un incontro con i giornalisti a Palazzo di Giustizia - a cui hanno preso parte anche i procuratori aggiunti Alberto Perduca e Vittorio Nessi, Paolo Borgna e Andrea Beconi, il direttore de "La Stampa" e futuro direttore de "la Repubblica" Mario Calabresi, il presidente dell'Ordine dei giornalisti Alberto Sinigaglia e quelli degli avvocati torinesi Mario Napoli e dei penalisti Roberto Trinchero - Spataro si è però insistentemente detto favorevole a far accedere agli atti di un'inchiesta i giornalisti, "da un certo momento in poi - ha precisato - e dopo che il giudice abbia deciso che cosa è rilevante e che cosa no" a cominciare dalle intercettazioni telefoniche. "Nessun legislatore - ha affermato Spataro - può sostituirsi al giudice nella valutazione della rilevanza". Spataro in sostanza si è espresso per un rapporto con i mezzi di informazione "più centralizzato e meno spettacolarizzato ma anche collaborativo", con l'apertura a Palazzo di Giustizia, nei prossimi giorni, di una sala stampa per i giornalisti, spesso costretti a lavorare nel bar del tribunale o in altre condizioni precarie. Calabresi e altri giornalisti hanno replicato come la tensione tra magistrati e giornalisti sia un fenomeno naturale, che anzi in sua assenza "il giornalismo è finito". I giornalisti hanno il dovere di non autocensurarsi, ha aggiunto il futuro direttore di Repubblica, e spesso il lavoro di indagine dei cronisti stessi è di supporto a quello dell'autorità giudiziaria che proprio dalla stampa, grazie al suo lavoro autonomo di ricerca delle notizie, riceve informazioni utili alle inchieste.
E RAFFAELE GUARINIELLO SE NE VA...
Guariniello se ne va, dimissioni a sorpresa in anticipo sulla pensione. Il pm dei processi Thyssen e Eternit gioca d'anticipo: lascerà a Natale. Una decisione che lascia intravedere un intento polemico, scrive “La Repubblica” l'11 dicembre 2015. Il pm Raffaele Guariniello (ansa)Si è dimesso il sostituto procuratore Raffaele Guariniello. Con una mossa a sorpresa che anticipa il suo pensionamento,fissato per legge al 31 dicembre 2015, il pm dei processi Thyssen e Eternit ha presentato le proprie dimissioni a decorrere da Natale. Un gesto che il magistrato non ha (ancora) voluto motivare pubblicamente - salvo lasciar intendere che vuole con questo prepararsi a incarichi futuri - ma che palesemente intende rimarcare uno scarto, una differenza rispetto alla conclusione naturale del suo mandato, sia pure con un solo giorno di anticipo: il 30 dicembre anzichè il 31. A differenza di altri colleghi, che si sono rivolti al Capo dello Stato e per i quali il Consiglio di Stato ha sospeso il collocamento a riposo, lui ha preferito scartare: lavorerà fino al 25 dicembre, poi lascerà il suo ufficio al quinto piano del Palagiustizia di Torino. Ma per lui sarebbe già pronto un nuovo lavoro, al momento però ancora top secret. La decisione di Guariniello, di fatto priva di conseguenze concrete, lascia la sensazione che nasconda un intento polemico, anche se non chiaro. Di recente il pubblico ministero, noto non solo per le sue inchieste in materia di salute pubblica, sicurezza, infortuni e malattie professionali ma anche per una particolare esposizione mediatica derivante proprio dal clamore e dall'interesse che le sue iniziative erano solite suscitare, è stato in almeno un paio di circostanze "corretto" dal nuovo procuratore capo Armando Spataro che si è conintestato due inchieste aperte dal sostituto procuratore: quella sulla frode dell'olio extravergine di oliva e, prima, quella sulle emissioni delle auto Volkswagen. Depone così la toga un magistrato che, prima da pretore e poi da pubblico ministero, ha inciso profondamente nella vita, nel lavoro e nelle abitudini di moltissime persone. Sono innumerevoli le inchieste di rilievo cui Raffaele Guariniello ha legato il proprio nome. Oltre a quelle più clamorose e recenti, sulla strage all'acciaieria ThyssenKrupp di Torino e sulle duemila vittime dell'amianto della Eternit di Casale, fin dall'inizio degli anni 70 il magistrato ha condotto indagini di grande importanza come lo scandalo delle schedature Fiat, la campagna capillare sulle condizioni di sicurezza dei locali pubblici dopo il rogo del cinema Statuto, le inchieste sulla presenza di benzene e piombo nelle benzine, sulle origini della Sla, sul doping nello sport (clamorosi i casi del ciclista Pantani e dei farmaci usati dai calciatori della Juventus), sul metodo Stamina di Davide Vannoni. E' stata anche la sua iniziativa a creare una realtà unica come l'Osservatorio dei tumori professionali, capace di vagliare migliaia e migliaia di casi di malattia riconducibili con grande probabilità all'attività lavorativa. E si calcola che, da solo o con i magistrati del pool sulla sicurezza del lavoro della procura, abbia smaltito qualcosa come 30 mila fascicoli giudiziari.
Guariniello: “I processi non funzionano, servono controlli e ordine”. Lascia la magistratura in anticipo sulla pensione: «Non volevo proroghe, avrei solo creato un problema al governo», scrive il 12 dicembre 2015 “La Stampa”. Alla fine, sarà lui ad andarsene. Poche ore prima che sia il decreto di pensionamento a costringerlo. E lo annuncia proprio ora che aleggia la possibilità di una proroga, dopo il ricorso di pochi altri magistrati che come lui hanno raggiunto i limiti di età ma che, diversamente da lui, vorrebbero restare. Raffaele Guariniello, 74 anni, lascerà il suo ufficio a palazzo di giustizia di Torino pochi giorni prima del suo congedo previsto il 31 dicembre. A 48 anni dal suo primo incarico che, nel 1967 lo portò, giovane pretore, in un paese della provincia di Torino per un sopralluogo in un villaggio abusivo di roulotte che sembravano villette: una vita fa, prima delle inchieste sul doping, sull’Eternit, su Thyssen Krupp, su Stamina, sull’olio, che lo avrebbero consacrato agli occhi di molti come un paladino degli ultimi, e a quelli dei più critici come una specie di rockstar in toga. Ha rassegnato le dimissioni, la sua lettera è di qualche giorno fa.
Perché lasciare pochi giorni prima del previsto? Un gesto polemico?
«Non intendo fruire di proroghe. È una cosa che non condivido. Il governo ha già tante difficoltà, perché creargliene altre? E avrei anticipato molto di più, se non dovessi concludere alcune indagini delicate - amianto, colpe professionali, malattie sul luogo di lavoro - perché sento un bisogno di futuro».
E cosa c’è nel suo futuro?
«Per carattere, ho bisogno di operare in un mondo in cui ci sia entusiasmo. Spero di trovarlo in altri contesti».
Quali? Se lo chiedono tutti: cosa farà Guariniello dopo la pensione?
«Mi sono state proposte alcune cose: ci devo pensare, devo ancora decidere. Ma ho bisogno per il futuro di stimoli che siano pari a quelli che ho avuto in passato in magistratura».
Li ha persi?
«Sto notando una giustizia in crisi, con difficoltà che portano a sfiducia e disaffezione, tra carenze di personale e di risorse».
Sono problemi denunciati da molti anni: che cosa è cambiato adesso?
«Le faccio un esempio. Ieri ho fatto un rinvio a giudizio per una malattia professionale: il processo è stato fissato al 2017. Non è colpa del tribunale, è che proprio non ci sono date disponibili prima. Abbiamo lavorato tanto per fare le indagini, gli interrogatori, le consulenze. Che fine farà ora questo processo? Ed è solo il primo grado. La prescrizione galoppa. E se un processo come quello sulla Thyssen, con indagini chiuse in pochissimi mesi, non è ancora arrivato a una sentenza definitiva, figuriamoci quelli che non hanno lo stesso rilievo mediatico. In Cassazione trovo continuamente sentenze che dicono che il reato c’è, ma è prescritto, anche nei settori delicati di cui mi occupo, la tutela della salute e la sicurezza sul lavoro. Con dati impressionanti».
Si riferisce ai numeri sugli infortuni sul lavoro?
«Sì. Quest’anno, a fine ottobre, abbiamo avuto cento infortuni mortali in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, con un aumento del 14%. Eppure è un settore in cui abbiamo fatto tanto, siamo stati all’avanguardia, la procura di Torino è riconosciuta come una punta di diamante in quest’ambito».
Allora che cos’è che non funziona?
«Non è pensabile che un Paese in cui si fanno tutte queste leggi sulla sicurezza ci ritroviamo con questi numeri. Non funziona la pubblica amministrazione, che dovrebbe fare i controlli, e non funzionano nemmeno i processi penali. In questo modo si sviluppa l’idea che le regole ci sono, ma che si possono violare impunemente. In che modo aiutiamo i più deboli?».
Sembrano parole di un uomo rassegnato, eppure lei parla di futuro: come si cambia la situazione?
«É sulla prevenzione che bisogna lavorare, sulla vigilanza. Dobbiamo trovare questi strumenti ed estendere quelli che ci sono, come l’Osservatorio sui tumori professionali. E’ in questa direzione che bisogna andare. Serve più ordine e vitalità nei controlli. Servirebbe un’istituzione che operi su tutto il territorio nazionale. Guardi che non sto dicendo che sia questo il mio futuro…».
Dalla Fiat alla Juventus (e il doping) Guariniello, una vita di inchieste. Il pm dei processi Eternit, Thyssen e Stamina lascia in anticipo: addio alla toga dopo Natale. Dalle mozzarelle blu all’olio extravergine, le inchieste «celebri», scrive Elisa Sola su “Il Corriere della Sera” del’11 dicembre 2015.
1. Quarant’anni di carriera. Fin dall’inizio della sua carriera, durata quarant’anni, il nome del pm torinese è comparso sulle pagine dei giornali nazionali e spesso internazionali per avere dato vita a indagini innovative o considerate pilota in alcuni settori. Basti pensare all’amianto, al maxi processo Eternit e all’Osservatorio – nato nel 1995 - dei tumori professionali, che ha trattato circa 26mila casi, riscontrando 15mila esposizioni professionali dannose sotto il profilo sanitario.
2. Il processo alla Fiat. Già alla fine degli anni Sessanta, sulla scrivania del giovane sostituto procuratore compare un fascicolo che riporta il nome di un’azienda che fino ad allora nessuno aveva osato indagare: la Fiat. Dall’attività della polizia giudiziaria del pm emerge un fatto inquietante: l’impresa avrebbe etichettato le persone da assumere “schedandole” con note informative relative alle opinioni politiche delle stesse. Spunta anche l’ipotesi di somme di denaro date a esponenti delle forze dell’ordine e spie, in cambio di notizie riservate. Il processo si conclude con la prescrizione.
3. La Juventus e il doping del calcio. Dopo la Fiat, Guariniello affronta un altro capitolo quasi intoccabile: il doping nel calcio. Parte così il procedimento contro alcuni ex dirigenti della Juventus e di altre società calcistiche. Da allora, il pm torinese esce alla ribalta. E arriva ad aprire quasi trentamila fascicoli fino al 2015. Dal processo Fiat-Alfa, al procedimento sulle tangenti nella Sanità a Roma, dall’indagine di alcuni farmaci dell’Aifa alle verifiche sui collegamenti tra il calcio e la Sla. Dal caso sulla sperimentazione del metodo Di Bella, agli accertamenti sui cosidetti danni da “mucca pazza”. Ogni inchiesta diventa un caso nazionale.
4. Da ThyssenKrupp a Eternit. In procura a Torino Guariniello fonda e diventa capo di un pool che si specializza sulla sicurezza sul lavoro, sulle frodi alimentari e sulla salute. Una decina di giovani pm inizia a lavorare sotto la sua guida e la squadra, negli anni, porta all’apertura di alcune grandi inchieste che contribuiscono a scrivere la storia della giurisprudenza. Nascono così i processi ThyssenKrupp ed Eternit. Sul caso della morte dei sette operai uccisi nel rogo sulla linea cinque dell’acciaieria torinese nel dicembre 2007, il pm ottiene in primo grado una sentenza mai scritta: per la prima nella storia del diritto relativo agli incidenti sul lavoro, un imprenditore viene condannato – a 16 anni e sei mesi - per omicidio volontario. Si apre un dibattito nazionale, insorge la Confindustria. Guariniello va avanti. Porta a termine un’indagine colossale, con seimila parti lese tra morti e malati per amianto. E’ il caso Eternit. Si conclude con la prescrizione, ma Guariniello non si arrende. Prima di andare in pensione il magistrato affiderà a un pm un nuovo fascicolo sulla morte di altre 500 vittime, che comprende anche gli ex lavoratori dell’amiantifera di Balangero (Torino).
5. L’inchiesta Stamina. Seguono le inchieste sulla sicurezza nelle scuole, a partire dal caso Darwin, sulla morte di Vito Scafidi, morto a 17 anni nel 2008 colpito da un trave in aula, e sugli alimenti contraffatti o dannosi per la salute, come le mozzarelle blu. Tra i casi più recenti seguiti da magistrato, c’è il processo Stamina. Finiscono indagati Davide Vannoni, fondatore del metodo che usa le cellule staminali e un’altra decina di persone. L’accusa è pesante: associazione a delinquere. Anche in questo caso l’inchiesta apre un dibattito nazionale e spiana la strada ad alcune prese di posizione da parte della politica.
Dall’olio d’oliva alla Volkswagen. Pochi mesi prima del suo pensionamento, Guariniello si occupa di due nuovi fronti: l’indagine sugli olii di oliva prodotti da grandi fabbriche italiane, venduti come extra vergini mentre in realtà non sarebbero tali. E l’inchiesta sull’inquinamento prodotto dalla Volkswagen.
Guariniello: «Maradona dopo l’interrogatorio salutava i tifosi dalla mia finestra». Il pm in pensione dallo scorso 25 dicembre: dal processo alla Juve alla Thyssen, l’uomo da 30 mila inchieste. Che racconta di quando Maradona si affacciò per salutare i tifosi, urlando «Ti amo Italia». E svela l’amarezza per l’epilogo del processo Eternit, scrive Marco Imarisio su "Il Corriere della sera" del 31 dicembre 2015. «Da dove cominciamo?» Le segretarie sono andate via. Nell’ufficio pieno di fascicoli, cd di musica lirica e libri di poesia, risuona la Turandot. Quasi mezzo secolo. A farsi compiangere dai colleghi che si occupavano di «cose più serie», mentre lui passava il tempo a seguire chimere che si chiamavano salute pubblica, tutela dell’ambiente, dignità del lavoro. «Anche quest’ultima settimana ho ricevuto lettere da tutta Italia. Un prodotto tossico, un bambino che è stato male dopo avere ingerito una merendina. Ho sempre sentito il dovere di dare una mano. Le condanne non mi sono mai interessate, mi bastava risolvere il problema. Sono venuti a trovarmi molti avvocati: procuratore, abbiamo capito che a lei piace processare i reati e non gli imputati. È sempre stato così». Da oggi i verbi vanno coniugati al passato. Raffaele Guariniello, il pretore globale, il magistrato che ha aperto trentamila inchieste ma odiava l’idea di togliere la libertà a un altro essere umano, è in pensione. «Incontro molta gente che mi invita a godermi il riposo. E io penso che allora non mi hanno capito...».
La prima vera inchiesta?
«Facile. 1971, le schedature Fiat sui dipendenti e le loro tendenze politiche. Era un’altra Italia, e va detto anche un’altra Fiat. Quella vicenda risale ai tempi di Vittorio Valletta, dal dopoguerra fino alla fine degli anni Sessanta. Quando sento dire che prima si stava meglio, mi arrabbio. Non è vero. Sui diritti abbiamo fatto passi da gigante».
Cosa combinò quella volta?
«Approfittando delle mie ferie estive, il primo agosto feci una perquisizione a sorpresa, dimenticandomi di avvisare i miei superiori...»
Conseguenze?
«Trovammo lo schedario. E il procuratore capo di allora non la prese bene. Mi disse che ogni magistrato ha una specie di sacca nella quale si vanno a mettere le pietre bianche e quelle nere. Quando arriverà il momento, aggiunse, si conteranno quante sono le pietre di ciascun colore. Non era proprio un incoraggiamento a proseguire con certe iniziative. In quel momento decisi che avrei continuato a occuparmi di questi temi».
Le caraffe filtranti, la farina di castagna... qualche suo collega la accusò di voler processare il gomito della lavandaia.
«Forse mi sono occupato anche di quello. Non si è mai trattato delle mie fantasie, quanto delle risultanze di studi scientifici di valore internazionale. E delle critiche non me ne curavo. A me bastava che l’azienda in questione si mettesse in regola».
A proposito di critiche: l’inchiesta sul doping nel calcio?
«Anni durissimi. Minacce di morte, insulti. Ogni lunedì, mentre andava in onda un noto processo televisivo, mi chiamava mia madre. “Mi sembra che ce l’abbiano con te” diceva. Io la rassicuravo, spiegandole che si trattava di un momento destinato a finire presto. Mi sbagliavo. Durò almeno quattro anni».
Non le era chiaro che il mondo del calcio è particolare?
«Me ne resi conto con l’audizione di Diego Armando Maradona. Mancava dall’Italia da qualche tempo, per via dei suoi problemi con il fisco. Alla fine della nostra chiacchierata aprì la porta dell’ufficio e fece entrare sua moglie. Volle a tutti i costi che le dessi un bacio sulla guancia. Poi mi abbracciò, tenendomi stretto a sé. Ero in imbarazzo. Quando si sciolse da me, Maradona scattò verso la finestra, che avevamo tenuto chiusa per attutire il rumoreggiare della folla radunata sotto la piazza della vecchia procura di Torino. Aprì le imposte e si affacciò benedicendo la gente, come un Papa del pallone. Una scena incredibile. “Ti amo, Italia” si mise a urlare, e ogni volta che lo faceva si girava verso di me per avere la mia approvazione. Io non sapevo dove guardare».
Altri ricordi di quel tempo?
«Quando ci chiese di essere ascoltato, nell’estate del 1998, Nello Saltutti era già malato. Aveva giocato nella Fiorentina degli anni Settanta, che aveva un tasso di mortalità e di malattie inusuale. Era povero, non aveva neppure i soldi per curarsi. Ricordo che ci chiese i soldi per il biglietto di ritorno del treno. Morì d’infarto nel 2003».
La più grande delusione?
«Il recente annullamento per prescrizione delle condanne per Eternit. Data la recente giurisprudenza della Cassazione, non me l’aspettavo».
Non poteva procedere per omicidio, invece che per disastro ambientale?
«Avrebbe significato procedere su ogni singolo caso, perizie ed esami per ogni fascicolo. È quello che stiamo facendo con Eternit bis. Sono convinto che quel processo si farà. Non esserci è il mio più grande rimpianto. Sento un dovere, verso le vittime e anche verso me stesso».
Le soddisfazioni?
«Con il processo Stamina ho visto trionfare la scienza. Anche il processo Thyssen, che si concluderà in ultimo grado di giudizio a maggio, è stato un grande risultato, con il riconoscimento della responsabilità della società».
Come desidera essere ricordato?
«Con ironia e leggerezza, ci mancherebbe altro. Anni fa Lorenzo Necci, all’epoca amministratore delegato delle Ferrovie, dopo un interrogatorio si congedò così. “Dottor Guariniello, lei è davvero un rompic...”. Lo disse senza malanimo, scherzando. La sua definizione forse era riduttiva, incompleta. Però mi è sempre sembrata un gran complimento».
GRINZANE E LA MAFIA BIANCA.
Giuliano Soria, il papà del Premio Grinzane: "Soldi in nero, tartufi, cene, viaggi e sbronze. Così pagavo i moralisti di sinistra", scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano” l’11 novembre 2015. Giuliano Soria quando parla ama tenere le mani appoggiate dietro la testa. Quasi a stringere i ricordi. Buoni per molti, ma non per tutti. Langarolo doc, 64 anni, a marzo è stato condannato in Appello a 8 anni e tre mesi per la gestione del Premio Grinzane Cavour di cui è stato per quasi un trentennio il dominus assoluto. È accusato di aver sperperato 4 milioni di fondi pubblici. Soldi che lui sostiene di aver in gran parte utilizzato correttamente e in parte dovuto versare nella greppia che ingrassava il caravanserraglio degli habitué del castello. In particolare quella fetta di mondo progressista che camuffa l’ingordigia con pose pensose e sopraccigli corrucciati. E così il “conto” di Cavour ha rimpinzato politici, intellettuali, giornalisti, attori, per lo più girotondini del pensiero debole e della tasca robusta. Oggi Soria è ritornato in pista con mille progetti, dirigendo due collane di libri e riprendendo le sue lezioni di Letteratura spagnola all’Università di Roma Tre. Ma soprattutto ha pronti un romanzo e un pamphlet sulla sua vicenda giudiziaria che dovrebbe uscire dopo la sentenza della Cassazione. Ora con le mani a sorreggere la nuca affronta anche questa intervista.
Soria che cosa sta succedendo nel mondo della cultura torinese? Prima hanno condannato lei e adesso indagano pure sulla conduzione del Salone del libro da parte del presidente Rolando Picchioni, accusato di peculato.
«A Torino la pentola ha perso il coperchio. Non c’è solo il salone del libro in crisi, ma un sacco di altri enti, dal museo del cinema, alla film commission al teatro stabile. Chiuso il vivaio Fiat che aveva collocato i suoi in mille incarichi, la città è nuda in mano alla solita cricca comunista che blocca tutto, guardando al passato e non al futuro. Usa la cultura per piazzare personaggi scomodi o peggio. Per esempio Picchioni, lo hanno nominato al Salone perché in politica “rompeva”, “sapeva troppo”, “era un rompicoglioni”».
In appello ha ottenuto un’importante riduzione della condanna che le aveva inflitto il tribunale e ora è in attesa della Cassazione. Nel frattempo sta preparando un pepatissimo pamphlet su chi si è rimpinguato grazie al premio Grinzane.
«Sì, ma sarà anche un libro-denuncia sul linciaggio morale che ho subìto. Pensate che un giornale torinese ha dedicato una pagina intera a mia madre inventandosi che era stata in carcere. Sono stati querelati ed hanno pagato fior di quattrini! Per fortuna mia mamma non si è persa d’animo e anzi, a 90 anni suonati, ha inaugurato un blog di cucina e ha scritto il suo romanzo d’esordio, intitolato La littorina di Nosserio».
Alcuni suoi stretti collaboratori sostengono che il suo pamphlet contenga nomi eccellenti. Dicono che varie pagine siano dedicate a importanti magistrati…
«Dicono il vero, del resto basta andare a controllare i verbali di approvazione dei bilanci del Grinzane per trovare personaggi interessanti. Comunque su questi argomenti ho l’assoluto divieto da parte del mio difensore Luca Gastini a proferire anche una sola parola. Si aspetta un grande risultato dalla Cassazione e non vuole che qualche mia uscita possa interferire negativamente. Ma questo mi sento di dirlo comunque: pensate che avrei chiesto a un autorevolissimo magistrato torinese di far parte del consiglio del premio se avessi avuto qualcosa da nascondere nei conti? In ogni caso nel mio libro denuncia non parlerò solo di giudici».
Non ha paura delle querele?
«Se vuole saperlo io ho accusato decine di persone del mondo della politica e dello spettacolo, ma nessuno, dico nessuno, mi ha querelato. Come mai?».
Allora passiamo al piatto forte: gli scrocconi della politica, del mondo dell’arte, del giornalismo e del cinema. Da chi cominciamo?
«Dai giornalisti. Ho dovuto pagare in nero un’enormità di servizi direttamente a chi li realizzava. Nella vostra categoria Corrado Augias era ed è il più sfacciato di tutti. Lui lavora solo in nero. Lo sanno tutti. Fa il moralizzatore in pubblico e poi in privato è indecente. Sarà venuto 15-20 volte a presentare il premio e mi diceva se mi paghi in nero mi devi dare 5-7 mila euro, se no il doppio. Me li ha chiesti persino quando abbiamo presentato un suo libro al Grinzane Noir di Orta (Novara ndr)».
Sono accuse gravi. Mi vuole dire che neppure Augias l’ha denunciata?
«Assolutamente no. E su di lui non ho finito. Veniva spessissimo a Parigi a pranzo da me con la moglie e mi diceva sempre: “Bisogna che una volta ti inviti io”. Ebbene una sera lo ha fatto, nella sua casa in Montparnasse. L’appartamento era molto piccolo ed erano attesi otto invitati. Allora io gli chiesi: “Ma dove ci metti?”. Lui mi guardò e disse: “Hai ragione, allora andiamo al ristorante”. Scelse il prestigioso La Coupole, a tavola eravamo tre uomini e cinque donne. Alla fine sentenziò che il conto andava diviso tra i soli cavalieri. In pratica mi ha fatto offrire a due sue ospiti la cena che si sarebbe dovuta tenere a casa sua».
Veniamo alla politica. Lei ha raccontato di aver elargito all’attuale governatore del Piemonte Sergio Chiamparino un sostanzioso finanziamento in nero.
«Confermo di avergli consegnato un bel gruzzolo in contanti: 20.000 euro glieli ho dati in un bar in piazza Vittorio a Torino e ho i testimoni. Glieli ho messi in una busta nascosta dentro a un giornale. Lui era imbarazzato dalla presenza della scorta, ma ha preso la busta. Eccome se l’ha presa! Altri 5.000 glieli ho portati in casa dell’ex assessore alla Cultura Fiorenzo Alfieri, uno che mi scroccava spesso casa a Parigi e che faceva il “raccoglitore” dei fondi pro Chiamparino».
Si prende la responsabilità di quel che dice?
«Certo che sì».
Una delle ospiti più assidue della sua corte è stata Mercedes Bresso, l’ex governatrice del Piemonte. Lei nella sua memoria difensiva ha scritto che aveva imposto il marito Claude Raffestin in tutti i viaggi e persino dentro a una giuria. Ha pure detto che «Bresso esigeva che si invitassero i suoi amici a spese nostre».
«La Bresso ha avuto molto dal Grinzane, soprattutto in termini d’immagine. Poi sul piano personale anche una grandiosa festa per il suo compleanno nel teatro d’opera dell’ex ambasciata prussiana a San Pietroburgo, dove mi aveva chiesto di organizzare un’edizione del premio. Fu un ricevimento per duecento ospiti, da vera zarina! Anche il marito ci deve molto. In alcune occasioni hanno utilizzato gli eventi del Grinzane per ritagliarsi i loro personali vantaggi».
Lei asserisce di essere intervenuto per far pubblicare il noir della Bresso Il profilo del tartufo?
«Certo. Era una cosa che non stava in piedi da sola. Io me ne occupai pagando di tasca mia anche un pesante lavoro di editing. Quando uscì, la signora nelle prime pagine si sperticava in lodi nei miei confronti. Poi, dopo che mi indagarono, fece fare in fretta e furia una nuova edizione. È tutta da ridere!».
A proposito di tartufi, è vero che gli scrocconi del suo seguito ne andavano matti?
«Il più ghiotto era il “compagno” Gianni Oliva, ex assessore regionale del Pd, un gran mangiatore di trifola. Dovevo rifornirlo spesso, ovviamente gratis: pare che il tartufo sia un afrodisiaco e, parola di Oliva, con lui sortiva quell’effetto».
Nel suo libro nero ci sono altri politici?
«Sì, per esempio c’è un onorevole romano: era insistente ed insaziabile, in particolare ai tempi in cui era sottosegretario. Lui veniva a prendere i soldi qui nel mio ufficio torinese al primo piano e mi chiedeva di chiudere le tende perché non ci vedessero dal palazzo di fronte. Avrà ritirato 30-40 mila euro e gli amici della sua corrente, che conosco personalmente, sospettavano che non li avesse portati al partito, ma se li fosse tenuti per sé».
Non ha elargito solo buste, ma anche lussuosi soggiorni. Ci indichi qualche bon vivant a spese dei contribuenti…
«A parte i nomi che ho già fatto e che sono quindi noti c’è un famoso storico dell’arte, Salvatore Settis».
Settis? Ma è appena stato adottato dal blog del Movimento5stelle. Sarà un brutto colpo per gli attivisti…
«Su Settis posso dire che ha fatto modificare lo Statuto della Scuola Normale di Pisa pur di essere rieletto la terza volta direttore. Giudicate voi!».
Ha detto di aver ricompensato in nero star come Stefania Sandrelli, Isabella Ferrari, Charlotte Rampling, Michele Placido, Giancarlo Giannini, Franco Nero, Vincenzo Cerami. Chi era il più avido?
«Il più ingordo era Giannini. Finita la cerimonia voleva essere pagato subito, ovviamente cash. Mi ricordo che una volta mi chiese insistentemente i soldi in un corridoio, altrimenti non sarebbe entrato nella sala dove si teneva la cena di gala. L’ho dovuto saldare sull’unghia, credo nell’anticamera di un bagno. Cose da matti. In realtà pochi attori italiani e stranieri sono immuni dal sistema del nero. Pensi che ho dovuto retribuire in contanti Eleonora Giorgi persino per farla venire alla festa della Vendemmia nell’ottobre del 2008…».
Sono affermazioni gravi...
«Me ne assumo la responsabilità».
Ha scritto che il grande romanziere statunitense Philippe Roth è costato 30.000 euro in forma non ufficiale. Ci spieghi meglio.
«Quando premiavamo uno scrittore all’estero, lo facevamo cash e senza fattura. L’ho rimunerato personalmente all’Italian Academy della Columbia university. Ricordo che era irritato perché i giornalisti italiani non parlavano in inglese e nemmeno il direttore editoriale dell’Einaudi».
Chi altro è stato pagato sottobanco?
«Quasi tutti. Da José Saramago a Osvaldo Soriano, da Paulo Coelho, ad Adolfo Bioy Casares a Sepulveda. Non è andata diversamente con i cubani. Pensi che Tahar Ben Jelloun, da presidente della giuria, mi disse che non voleva la ricevuta, ma essere liquidato in contanti. Una cosa impossibile per i giurati, che venivano ricompensati in modo ufficiale. Ben Jelloun ha un rapporto particolare con il denaro. Ricordo che voleva divorziare dalla moglie e quando scoprì quanto gli sarebbe costato iniziò a sussurarle “j’e t’aime”. L’ho pure dovuto salvare da una grana giudiziaria, visto che per cupidigia aveva venduto i diritti di un suo libro a due diversi editori».
Col Grinzane lei ha anticipato diversi premi Nobel, come quello al nigeriano Wole Soyinka.
«Uno snob. Mi scrisse che non trovava giusto che dei ragazzi di liceo giudicassero uno scrittore del suo livello, visto che era un principe dell’antico popolo Yoruba. C’è da dire che dopo che lo abbiamo premiato alcuni protestarono facendoci notare che l’opera con cui aveva vinto era un rimaneggiamento di quella del leggendario Amos Tutuola, un nomade che trasmette i suoi racconti per via orale».
Tutuola chi?
«Amos Tutuola. Si presentò a un appuntamento con me in Africa con la sua tribù e i suoi cammelli, annunciato da una nuvola di polvere. Quando lo invitammo in Italia, si fermava per strada ad abbracciare i copertoni delle ruote».
Come sono questi premi Nobel visti da vicino?
«Umanissimi. Mi ricordo che il polacco Czeslaw Milosz, ormai ottantenne, venne al premio e si ubriacò di Barolo. Gli chiedemmo perché a fine serata si stesse scolando tutto il vino che era rimasto sulla tavola e lui ci spiegò che quello era l’unico modo “to fuck” la giovane e splendida moglie che lo attendeva in stanza. A| contrario, Soynka non aveva certo bisogno dell’alcol per soddisfare le donne, quel monumentale africano era un grande amatore. Almeno così mi assicurò una mia collaboratrice. Con Sepulveda, invece, ricordo tremende ciucche di grappa».
Ha conosciuto anche il grande Jorge Luis Borges.
«Parlavamo di tutto e sul conflitto delle Falkland mi regalò un aforisma fulminante: la definì la guerra tra due calvi per un pettine. Quando gli domandai quale fosse il più grande errore della sua vita mi mise una mano sulla spalla, quasi accarezzandomi, e disse: “Caro Soria, mi sono dimenticato di essere felice”».
Torniamo al suo j’accuse. Lei sembra particolarmente divertito dalla voracità di Alain Elkann, padre di John, il presidente della Fiat Chrysler Automobiles…
«È un flagello per le lettere italiane: vacuo e spendaccione con i soldi degli altri. Al grande evento del Grinzane a New York superò sé stesso: pretese la first class per sé e la moglie, allora era Rosi Greco, e l’alloggio all’Hotel Carslyle, un 5 stelle lusso. Mi ricordo quanto mi disse l’avvocato Gianni Agnelli di lui: “Possibile che mia figlia Margherita tra tutti gli ebrei geniali abbia finito per sposare l’unico c…”».
In questi mesi qualcuno l’ha chiamata per chiederle di essere cancellato dal suo mémoire?
«Moltissimi mi hanno contattato per essere risparmiati. Esponenti della politica e della Rai. Ma qui non vale il noto proverbio africano: “Dove c’è un desiderio si trova sempre un cammino”. Qui non ci sarà cammino».
Al Grinzane c'era pure Ezio Mauro. Poteva non sapere dei soldi in nero? Scrive di Adriano Scianca su “Libero Quotidiano” il 20 febbraio 2015. «Non poteva non sapere». Quante volte abbiamo letto sulle pagine diRepubblica questo sillogismo passepartout grazie al quale condannare - eticamente o, se è il caso, penalmente - avversari politici del giornalone di De Benedetti, a cominciare da Silvio Berlusconi? Il moralismo progressista ha in effetti abusato per anni della logica della complicità oggettiva. Ora, tuttavia, sembra che questo bizzarro meccanismo inquisitorio si sia inceppato. Guarda caso proprio nel momento in cui sarebbe tornato utile per andare dal direttore Ezio Mauro e chiedergli se lui, invece, poteva davvero non sapere del magna magna radical chic che girava attorno al Premio Grinzane. Ma sì, quel premio culturale che si è scoperto essere in realtà strumento «per compiacere il mondo politico e dello spettacolo» con regali, viaggi, feste e soldi in nero, secondo la deposizione spontanea rilasciata davanti alla Corte d’appello di Torino da Giuliano Soria, ex patron del Grinzane, condannato in primo grado a 14 anni e mezzo di reclusione. Alla mangiatoia del culturame si sarebbero rifocillati, secondo Soria, politici come Sergio Chiamparino e Mercedes Bresso, nonché scrittori come Corrado Augias, Alain Elkann e Philip Roth o attori come Michele Placido, Giancarlo Giannini, Stefania Sandrelli ed Isabella Ferrari. Sarà vero? Gli interessati hanno tutti smentito indignati, ovviamente, ma su come stiano le cose l’ultima parola la diranno i giudici. Intanto qualche cosa potrebbe forse dircela proprio Ezio Mauro, che nel castello di Grinzane Cavour è di casa. Dagospia ha infatti ricordato che il premio letterario italiano fondato nel 1982 da don Francesco Meotto e portato al successo proprio da Soria, ha visto il direttore di Repubblica presidente della giuria dal 1993 al 2000. Ma se davvero l’aspetto culturale era tutta una pantomima, se si trattava solo di pubbliche relazioni e clientele politiche, di ruote unte e rimborsi spese gonfiati, di fondi pubblici succhiati voracemente a fini occulti, come faceva il presidente della giuria a non sapere? Non parliamo dell’usciere o della donna delle pulizie, ma di una persona che su chi invitare, chi premiare e chi rimborsare doveva pur dire la sua. Possibile che negli otto anni passati seduto accanto a Soria neanche il più labile sospetto abbia attraversato la mente del più integerrimo dei giornalisti italiani? E se anche ora decidessimo di far valere a corrente alternata la logica del «poteva non sapere», resta comunque da chiedersi se la cosa non sia imbarazzante dal punto di vista professionale: ma come, un cronista si trova per anni in mezzo a un diabolico intreccio di potere, denaro e cultura, dentro a una macchina per ingrassare le tasche dei soliti noti, e non si accorge di nulla? Ma dai, è roba che come minimo fa sorgere qualche domanda. Magari dieci, secondo la tradizione di Repubblica. A Ezio Mauro basterebbe rivolgerne un paio: «Come ha fatto, direttore, a trovarsi per otto anni in mezzo a un meccanismo per sottrarre illecitamente fondi pubblici senza avvertire il minimo sentore del marcio che covava sotto la coltre della bella kermesse culturale?». E ancora: «Perché rispetto a uno scandalo che è tanto più grave in quanto riguarda il bel mondo della cultura e non i soliti rozzi imprenditori senza scrupoli, un giornale come Repubblica, che fa della battaglia per l’etica civile un cavallo di battaglia, tratta la questione con un profilo basso, bassissimo, quasi imbarazzato?». A voler pensar male potrebbe venire in mente che tanta cautela - la notizia sprofondata nelle pagine interne, gli articoli scritti con eccessi di garantismo che un’olgettina qualsiasi si può scordare, con il punto di vista degli accusati da Soria sempre preponderante sull’accusa stessa - non sia affatto casuale. Del resto se Mauro era il presidente della giuria, un’altra penna di rilievo di Repubblica non è forse accusata da Soria di essere stato «assillante nei pagamenti in nero sfiorando l’indecenza»? Parliamo di Corrado Augias, che ha ovviamente respinto al mittente sdegnosamente le accuse ma su cui l’ex patron del Grinzane sembra certo: «Chiedeva 8mila, 10mila euro a evento, e ne avrà fatti una quindicina con noi, li voleva in nero». Magari erano a sua insaputa.
Giuliano Soira, le accuse a Isabella Ferrari (star a teatro con Marco Travaglio), scrive “Libero Quotidiano” il 18 febbraio 2015. Sul sito di Repubblica si trova ancora traccia di un appello audio registrato da Isabella Ferrari qualche tempo fa. Basta cercare nella sezione «Lo speciale. Un milione di donne: via Berlusconi». Si sente l’attrice - nota per le bollenti scene di sesso di celluloide con Nanni Moretti - spiegare che ci troviamo di fronte a un «degrado culturale, morale, etico della società civile italiana», ovviamente causato dal berlusconismo. Era il 2011. E la Ferrari sosteneva che «in questo Paese c’è soltanto bisogno di essere furbi, belli, pronti a qualunque prezzo morale». Viene per lo meno da chiedersi, allora, quale fosse il prezzo - morale o materiale - per la partecipazione della Ferrari agli eventi organizzati da Giuliano Soria. Certo, può darsi che l’ex patron del premio Grinzane Cavour menta, quando elenca «la sfilza» di attori che venivano pagati in nero per presenziare al festival di Stresa e ad altre piacevoli attività. O può darsi che non dica la verità quando fra questi inserisce anche la Ferrari. Speriamo che sia così. Perché altrimenti l’ipocrisia sarebbe palese. La nostra voleva cacciare Silvio e si mostrava schifata per lo stato di una nazione in cui la donna è ridotta al ruolo di «geisha che dispensa i suoi favori all’uomo che le dà delle mance». Beh, stando a quanto sostiene Soria, le «mance» le prendevano anche gli uomini e le donne di spettacolo, elargite da lui, grazie a finanziamenti pubblici generosi e a un giro di fatturazioni che permetteva di gestire tutto al riparo di occhi indiscreti: quelli del Fisco prima di tutto. Dunque speriamo che non sia vero, che la Ferrari è stata pagata così. Perché altrimenti dovrebbe spiegarlo ai numerosi spettatori che affollano le platee dei teatri per vederla recitare assieme a Marco Travaglio in esempi di teatro civile come «Anestesia totale». Dove, ovviamente, si deplorano il malcostume e la corruttela dell’Italia. Di cui la vicenda del Grinzane è un fulgido esempio. (FRAN. BOR.)
Soria: “Pagavo politici, vip e giornalisti”. L’ex patron del Premio Grinzane Cavour accusa: “Viaggiavano a mie spese e chiedevano soldi”. E fa molti nomi: dalla Bresso a Leo, da Vernetti agli ex assessori Alfieri e Oliva. "Non sono certo l'unico responsabile, tanti ne hanno beneficiato", scrive "Lo Spiffero". Tanti ne hanno approfittato, qualcuno solo per farsi bello e guadagnare in prestigio, ma molti hanno beneficiato direttamente: viaggiando a scrocco, partecipando a iniziative in mezzo mondo, alcuni anche ottenendo compensi e fondi in nero. Vuota il sacco Giuliano Soria ed è un fiume in piena che rischia di travolgere il mondo politico e parte dell’establishment, piemontese e non solo. Il patron del Premio Grinzane Cavour, condannato in primo grado a 14 anni e mezzo, parla per la prima volta e al processo d’appello scaglia accuse durissime. Tra i nomi citati da Soria c’è l’ex presidente della Regione Mercedes Bresso, il suo assessore alla Cultura Gianni Oliva (“Ha viaggiato con la moglie a spese del Grinzane. È un appassionato di tartufi”, spesso ospite nel suo appartamento di Parigi o agli eventi di Addis Abeba), il predecessore del centrodestra Giampiero Leo ("Abbiamo aiutato economicamente in nero"), l’ex responsabile della Cultura del Comune di Torino Fiorenzo Alfieri, ma anche l’ex parlamentare Gianni Vernetti (“più volte”) e l'onorevole Gianluca Susta. Per ben due volte il "vorace" Alfieri ha battuto cassa per sostenere Sergio Chiamparino, cosa che lui avrebbe prontamente fatto. Persone che lo blandivano, lo riverivano, si vantavano della sua frequentazione, e poi al primo inciampo l'hanno scaricato. Nella sua lunga deposizione Soria ha anche rivelato l’escamotage attraverso il quale riusciva a “liberare” i soldi in nero da utilizzare per pagare politici e personalità: si tratta di una serie di fatture emesse a tal Carmelo Pezzino: false fatturazioni per lavori inesistenti. Ma è il milieu che ruotava attorno al Premio e alle sue manifestazioni a rivelarsi interessante. Alle cene e agli eventi la “zarina”, ora eurodeputata Pd, era sempre presente, spesso insieme al marito, destinatario di regali costosi. C’era il dirigente regionale Roberto Moisio, una sorta di cardinale Richelieu: “Era lui il vero attore”, ha detto. Con queste dichiarazioni Soria ha cercato di attenuare le responsabilità di suo fratello Angelo, ex dirigente della Regione, autore di alcune delibere con cui stanziava finanziamenti diretti alla galassia di associazioni che ruotavano intorno al premio: “Le decisioni venivano prese sopra la sua testa”. La “scellerata convenzione” tra la Regione Piemonte e il Grinzane Cavour era stata firmata sotto il regno della giunta di Enzo Ghigo (Forza Italia) e Leo (ora Ncd). Ha parlato poi del dirigente del Ministero dei beni culturali Gaetano Blandini e dell’ex direttore regionale dei Beni culturali in Piemonte Mario Turetta, ora diventato direttore della Reggia di Venaria: “Lo stesso Turetta è venuto più volte con i suoi amici”, ha affermato parlando dei numerosi convivi organizzati. Giornalisti di quasi tutte le testate erano ospiti a piè di lista delle decine di iniziative organizzate, così attori e testimonial d’eccezione in grado di dare lustro: da Michele Placido a Giancarlo Giannini, da Stefania Sandrelli a Isabella Ferrari. E ancora Alain Elkann (“che pretese per sé e la moglie di allora un viaggio a New York che ci costò 13mila euro”), Charlotte Rampling, Eleonora Giorgi, Corrado Augias (“addirittura assillante sui pagamenti in nero”).Tutti alla corte del Caudillo del Monferrato che ammette di “aver commesso molti errori”, di aver maltrattato i collaboratori (il castello ha iniziato a franare proprio dopo la denuncia per molestie sessuali del suo domestico), ma non ci sta a passare per unico responsabile di una “macchina di cui tanti hanno goduto benefici”. “Non regge il vestito che io sono l’unico responsabile di questa macchina. Non avrei potuto portare questo vestito”. Soria ha sottolineato più volte di considerare il Premio come un figlio: “Sento il problema di aver perso un figlio. Di aver dedicato 28 anni della mia vita a qualche cosa che è stato distrutto. Mi chiedo se questa non sia una colpa collettiva”.
Ampio eco poi ha avuto sulla stampa nazionale, di cui si da conto anche con le versioni di tutti gli interessati.
Processo Soria: “Fondi neri per politici, attori e giornalisti”, scrive Andrea Rossi su “La Stampa”. Il patron del Grinzane Cavour: “Sono pentito per Nitish e per i collaboratori su cui scaricavo il mio stress, ma c’è chi viaggiava a nome del premio e chiedeva soldi”. Il sostituto procuratore generale ha chiesto la conferma delle condanne in primo grado. «Sono pentito, ho commesso molti errori. E mi dispiace, soprattutto per i miei collaboratori su cui scaricavo il mio stress e per Nitish (il domestico che l’ha denunciato per molestie, ndr) cui ho provocato molte sofferenze». In aula al processo d’appello che si è aperto ieri Giuliano Soria parla per la prima volta. Il patron del Premio Grinzane Cavour, condannato in primo grado a 14 anni e mezzo, scaglia accuse durissime. E rivela che il fiume di fondi neri creato dal Grinzane serviva per compiacere politici, attori e scrittori. I primi - e Soria ne cita molti, da Bresso a Leo, da Vernetti (Pd) agli ex assessori Alfieri e Oliva - viaggiavano a spese del premio, si facevano ospitare e chiedevano soldi. Attori e scrittori invece - da Giancarlo Giannini a Stefania Sandrelli, da Isabella Ferrari a Michele Placido - pretendevano di essere pagati in nero per partecipare agli eventi del Grinzane. Soria difende il fratello Angelo, ex funzionario della Regione, anche lui condannato: «La politica ci usava per il suo prestigio. Non regge il vestito secondo cui avrei fatto tutto da solo. Tutti sapevano che funzionava così. Invece hanno scatenato contro di me una campagna di linciaggio morale». «Ho sostenuto l’allora sindaco Sergio Chiamparino in due occasioni», ha affermato, «e ho aiutato l’assessore Alfieri voracemente». Poi ha citato gli assessori Oliva e Giampiero Leo («In nero»), il parlamentare Gianni Vernetti («Più volte»). Fra i giornalisti che beneficiavano delle iniziative del premio «Corrado Augias era il più vorace, era addirittura assillante sui pagamenti in nero». Alain Elkann «pretese per sé e la moglie di allora un viaggio a New York che ci costò 13 mila euro». Poi Soria ha elencato «la sfilza di attori pagati in nero» in occasione del festival di Stresa. «È costume nel mondo dello spettacolo». Il primo è Giancarlo Giannini, «che volle essere pagato prima ancora di entrare». «Partivo per Stresa - ha raccontato - con 100 mila euro per gli attori». Il sostituto procuratore generale Corsi ha chiesto la conferma delle condanne in primo grado con l’eccezione dei reati caduti in prescrizione. E dunque: 11 anni, 9 mesi e 15 giorni per Soria, 6 anni e 8 mesi per il fratello Angelo, e 2 anni e 10 mesi per lo chef Bruno Libralon.
Soria a processo: "Con i fondi neri del Grinzane ho pagato politici, giornalisti e attori". L'ex patron: "I vip ci usavano per il loro prestigio". Poi fa i nomi: da Giancarlo Giannini a Michele Placido, da Alain Elkann a diversi assessori comunali e regionali. Attacco a Mercedes Bresso: "Il premio dipendeva da lei". Il presidente della Regione, Chiamparino: "Posso capire che getti fango nel ventilatore per difendersi". Il pm chiede 11 anni 9 mesi: "Le scuse non bastano", scrivono Federica Cravero e Sara Strippoli su “la Repubblica”. Soldi in nero a politici piemontesi, giornalisti e attori di primo piano: di questo ha parlato Giuliano Soria, ex patron del premio letterario Grinzane Cavour, interrogato oggi a Torino al processo d'appello in cui risponde di peculato. I vip, ha detto, "ci usavano per il loro prestigio". Soldi in nero a politici, giornalisti e personaggi dello spettacolo. Giuliano Soria, ex patron del Premio Grinzane, e' comparso questa mattina davanti alla Corte d'appello di Torino dove e' accusato di peculato e molestie ad un collaboratore, per le quali in primo grado e' stato condannato a 14 anni e mezzo di reclusione, per una deposizione spontanea nella quale ha sottolineato che il premio culturale da lui guidato era uno strumento "per compiacere il mondo politico e dello spettacolo che ci usavano per il loro prestigio". "Non regge il vestito che io sono l'unico responsabile di questa macchina. Non avrei potuto portare questo vestito". Soria ha sottolineato più volte di considerare il Premio come un figlio: "Sento il problema di aver perso un figlio. Di aver dedicato 28 anni della mia vita a qualche cosa che e' stato distrutto. Mi chiedo se questa non sia una colpa collettiva". Nella sua deposizione, Soria ha fatto un lungo elenco di nomi di persone che hanno utilizzato la macchina del Premio per viaggiare gratuitamente all'estero o ricevere denaro in nero oltre a quello consegnato con i premi. "Abbiamo dato soldi in nero a politici, attori e scrittori", è un fiume in piena Giuliano Soria, che in aula al processo d'appello ha reso spontanee dichiarazioni per difendersi dalle accuse - dalle molestie sessuali al peculato - per cui in primo grado è stato condannato a 14 anni e mezzo. "Ero stressato e sono dispiaciuto di ave provocato a Nitish tanto dolore", ha detto a proposito del maggiordomo mauriziano maltrattato dal patron del premio Grinzane Cavour. Ma è quando parla degli ospiti che la testimonianza fa tremare il jet set quando ha tirato in ballo diversi nomi noti che avevano girato il mondo a spese del Premio: "Mario Turetta (ora direttore di fresca nomina della Reggia di Venaria, n.d.r.) con i suoi amici, Alain Elkann, l'onorevole Susta, Gianni Oliva...". E poi: "Ho sostenuto in nero l'assessore Giampiero Leo, l'assessore Alfieri era vorace, chiedeva anche aiuti per il sindaco Chiamparino che ho sostenuto in due occasioni". In particolare il mondo dello spettacolo pretendeva di essere pagato in nero: "Giancarlo Giannini, Michele Placido, Charlotte Rampling, Eleonora Giorgi, Corrado Augias e i fondi neri li trovavamo attraverso le fatture di Carmelo Pezzino". "Il Grinzane Cavour dipendeva dai politici - ha spiegato in aula - e in particolare da Mercedes Bresso, presidente della Regione Piemonte, che lo usava per le sue attività di relazione. Molte manifestazioni sono state organizzate soltanto per compiacere lei e il marito". "Lui non mi ha mai pagato nulla e le sue sono affermazioni ridicole e pazzesche" è stata la replica di Bresso, oggi europarlamentare. Soria, in particolare, ha citato due iniziative del premio, una all'Hermitage di San Pietroburgo - in occasione del compleanno di Bresso - e l'altra a Vinadio. "Era - risponde l'ex presidente - una normale cena ufficiale del Premio Grinzane, certamente non organizzata in mio onore. Casualmente era il giorno del mio compleanno e alla fine c'è stata una torta. Io non conoscevo nessuno degli invitati, salvo chi aveva offerto la cena al Grinzane, cioè Ceretto, che era uno degli sponsor del Premio". "Mio marito - aggiunge Bresso - aveva fatto gratuitamente il giurato per il Premio e in alcune occasioni era stato invitato, sempre gratis, come relatore a dei convegni. L'unica volta che ha accettato qualcosa è stato proprio in una di queste occasioni quando, alla fine del convegno, gli hanno offerto un libro. E questo è tutto". Soria, durante il suo intervento, ha cercato di scagionare il fratello Angelo (all'epoca dirigente della Regione) dall'accusa di avergli fornito irregolarmente dei fondi pubblici. "Quelle decisioni - ha sostenuto - passavano sopra la sua testa. Le prendevano Mercedes Bresso e Roberto Moisio, direttore della comunicazione della Regione. Se Bresso era soprannominata la zarina, Moisio era 'Richelieu'". "Quando andavo in qualche posto in veste ufficiale - conclude l'ex presidente - ero sempre ben attenta a seguire le regole. Era la Regione a sostenere le spese. E sono tutte cose ufficiali e rendicontabili". Anche Moisio, ex responsabile della comunicazione della Regione, ha affidato all'Ansa, una smentita: "Valuteremo le azioni più opportune non appena avrò le trascrizioni dell'intervento del professor Soria. Le sue affermazioni sul mio conto non corrispondono al vero. Non ho mai preso parte a pranzi o cene". Alle dichiarazioni di Soria in aula replica anche, dopo pochi minuti, il presidente della Regione Sergio Chimparino, tirato in ballo in relazione al finanziamento della sua campagna elettorale per la poltrona di sindaco di Torino: "Non posso escludere che Soria abbia partecipato a qualche cena di finanziamento organizzata da Alfieri o da qualcun altro. Progressivamente da sindaco ho ridotto i finanziamenti alle tante attività del Grinzane. Mi ricordo solo una volta quando sono andato in Langa dove sono rimasto mezz'ora perché mi ero perso. Ero con mia moglie. E ricordo la partecipazione a Parigi per l' anno del Libro dell'Unesco. Dopo la cerimonia, mentre Soria girava in auto blu io ho preso un taxi con Cigliuti e sono andato a mangiare una bistecca in brasserie. Posso comprendere che per difendersi uno getti fango nel ventilatore". Il sostituto procuratore generale Vittorio Corsi ha chiesto in appello una condanna di 11 anni, 9 mesi e 15 giorni per effetto di alcune prescrizioni sopravvenute nei confronti di Soria, accusato di peculato e molestie sessuali a un collaboratore. In primo grado Soria era stato condannato a 14 anni e mezzo. L'accusa ha poi chiesto una condanna a 6 anni e 8 mesi per il fratello Angelo, ex direttore della Regione Piemonte (rispetto ai sette anni del primo grado) e la conferma della condanna a due anni e 10 mesi per il terzo imputato, lo chef Bruno Libralon. Il pg ha definito sostanzialmente insufficienti le scuse presentate oggi con la deposizione spontanea di Giuliano Soria che ha detto "con i soci era generosissimo, ma con i sottoposti molto meno", costretti a multe e a fare la spia per il capo del Grinzane. "Il suo non era un cattivo carattere ma maleducazione e non mi sento di chiedere le attenuanti generiche" ha detto Corsi ricordando che Soria non ha messo a disposizione dei rimborsi delle parti civili la gran parte del patrimonio immobiliare che tuttora detiene tra Parigi, Torino e Ospedaletti.
Grinzane Cavour, l’ex patron Soria accusa: «Soldi in nero ai politici». Tirati in ballo anche giornalisti e attori, citato Chiamparino. Ma il governatore: «Mai avuto alcun rapporto finanziario con Soria. Lui in auto blu, io in taxi», scrive Elisa Sola su “Il Corriere della Sera”. «Soldi in nero a politici piemontesi, giornalisti e attori di primo piano». Giuliano Soria, l’ex patron del Premio Grinzane Cavour, finito in manette per peculato e violenza sessuale e condannato a 14 anni e sei mesi in primo grado, ha deciso di rendere una lunga dichiarazione spontanea al processo d’appello in cui risponde di malversazione dei contributi pubblici e dei maltrattamenti a un giovane domestico. Soria ha fatto - per la prima volta da quando, nel 2009, è scoppiato lo scandalo - nomi e cognomi, lanciando accuse pesanti, di cui dovrà essere accertata la veridicità. In appello, il procuratore generale Vittorio Corsi ha chiesto per l’ex patron del Premio una pena di 11 anni e 9 mesi di reclusione (rispetto al processo di primo grado, alcuni capi d’accusa sono prescritti). «Il Grinzane dipendeva dai politici» ha dichiarato l’ex presidente dell’associazione culturale. «La Bresso, per esempio – ha proseguito Soria riferendosi alla ex presidente della Regione Piemonte - lo usava per le sue attività». «Il vero attore dei contributi regionali era Roberto Moisio (l’ex capo di gabinetto della giunta Bresso, ndr) e gli accordi venivano presi tra me, Bresso e Moisio. Se Bresso era chiamata “la zarina”, Moisio era il suo Richelieu». Soria ha sostenuto davanti alla Corte che il fatto che il Grinzane Cavour venisse finanziato con tranche da migliaia di euro dalla Regione, non dipendesse dalla generosità di suo fratello, Angelo Soria, anche lui imputato, ex funzionario regionale a capo della comunicazione istituzionale. Ma direttamente dalla ex governatrice, che, durante gli anni del proprio mandato regionale, era legata al presidente del Grinzane anche per avere scritto un libro che era stato presentato al pubblico proprio durante un evento culturale creato e sponsorizzato da Soria stesso. «Ho aiutato anche l’assessore Giampiero Leo» ha detto poi Soria, parlando del politico di centrodestra. «Tutti in nero» ha proseguito l’ex patron. E ancora. «Alfieri (ex assessore alla Cultura del Comune di Torino, ndr) per conto di Chiamparino (quando era sindaco di Torino) e direttamente due volte Chiamparino». Soria ha dichiarato di aver «sostenuto» anche Gianni Oliva, del Pd, ex assessore regionale alla Cultura. «Faceva viaggi con la moglie... a lui piaceva tanto il tartufo» ha specificato l’imputato. «Poi c’era Turetta», ha detto riferendosi all’esponente della Sovrintendenza dei Beni culturali. «E c’erano i giornalisti – ha concluso - potrei fare tanti nomi ma ne faccio uno solo: Corrado Augias, era assillante sui pagamenti in nero: era vorace. Per la Rai c’era Perera». «E il patetico Alain Elkann…» ha detto ancora Soria. «Tredicimila euro per lui, per la moglie e i figli, tutti a New York…». La reazione di Chiamparino non tarda ad arrivare. «Può darsi che Soria abbia partecipato a qualche cena di finanziamento organizzata dall’assessore Alfieri o da qualcun’altro, questo non posso escluderlo, ma io non ho mai avuto rapporti finanziari con lui» ha detto il presidente della Regione Piemonte, commentando le dichiarazioni rese in aula dall’ex patron del Premio Grinzane Cavour. «Da sindaco di Torino - ricorda Chiamparino - sono stato costretto sempre a ridurre i contributi alle tante attività del Grinzane. Ricordo ancora quando andammo a Parigi per l’Anno del Libro dell’Unesco. Lui girava in auto blu, mentre noi siamo andati a mangiare una bistecca in taxi nel quartiere latino. È una tattica comprensibile che Soria metta fango nel ventilatore per cercare di difendersi disperatamente». Mentre la capogruppo della Lega Nord in Consiglio regionale, Gianna Gancia, attacca il governatore: «Sentiamo quello che sta dicendo Soria, sono sicura che lei potrebbe arrivare, con la dignità che l’ha sempre caratterizzata, alle dimissioni. Cota è stato buttato giù per molto meno». Al processo, le accuse di Soria sono andate oltre. «Anche gli attori venivano pagati in nero – ha detto l’ex patron del Premio–. Mi dicevano “O ci paghi in nero o costiamo tre volte tanto”». Tra i nomi citati dall’ex patron del Grinzane, anche molti vip: Michele Placido, Giancarlo Giannini, Eleonora Giorgi, Charlotte Rampling. Il sistema, secondo Soria, era collaudato. Il Grinzane Cavour organizzava eventi culturali prestigiosi, non solo in Piemonte, ma in località italiane e anche all’estero. Tutti ricordano i vari premi Grinzane a Mosca, a San Pietroburgo, a New York. Soria contattava politici e personaggi famosi, offrendo loro la villeggiatura in hotel o resort di lusso, pranzi, cene e trasporti per loro e le loro famiglie. Inoltre, per alcuni, ha detto, pagava «le prestazioni», ovvero la loro presenza all’evento letterario, e forse anche altro. Se fosse vero quanto ha dichiarato l’ex patron in aula, se cioè queste persone avessero intascato dei soldi in nero, la situazione potrebbe diventare delicata perché il denaro che Soria usava per finanziare gli eventi dell’associazione culturale proveniva in gran parte da enti pubblici, in primis dalla Regione Piemonte. E il reato di peculato, l’avere usato soldi pubblici per scopi privati, è quello più grave contestato a Soria al processo. «Trattavo male le persone che mi aiutavano a fare grande il Grinzane – ha ammesso Soria alla fine della dichiarazione – lo facevo per compiacere i politici. Ma non sono io l’unico responsabile di questa macchina, non potevo indossare solo io questo vestito. Io ho sbagliato e chiedo scusa ma non sono stato l’unico». «Non ho un carattere facile – si è giustificato - e sono irruento e aggressivo, ma non era facile reggere una macchina complessa. Il Grinzane era presente in 22 Paesi. Anche per questo sono stato insensibile e aggressivo verso collaboratori, ma non ce l’avevo con loro. Mi spiace in particolare per la sofferenza creata in Nitish (il maggiordomo tuttofare che avrebbe subito la violenza sessuale, ndr). Non ho capito quanto soffrisse».
Grinzane, accuse dell’ex patron Soria Augias: sono sconvolto, una vendetta. Michele Placido: «Ha detto solo fesserie, sporgerò querela», scrive Luca Mastrantonio su “Il Corriere della Sera”. «Guardi, è una tale enormità, Madonna... sfiora l’indecenza!». Finisce così la conversazione telefonica con Corrado Augias, iniziata nella tarda mattinata di martedì, quando il giornalista e scrittore aveva appreso, filtrata nei toni, l’accusa di Giuliano Soria. L’ex patron del premio letterario Grinzane Cavour, condannato a 14 anni e sei mesi per peculato e violenza sessuale, all’apertura del processo di appello, martedì, ha indicato Augias nella lista di presunti destinatari di pagamenti in nero per il premio. «La cosa mi ha sorpreso - esordisce Augias -, stiamo parlando di alcune migliaia di euro ricevute per rimborso spese o come premio letterario, di cui ho dato conto all’Agenzia delle entrate. E poi sono passati, quanto? Dieci anni? Per dire: Soria mi chiese di presentare Orhan Pamuk, premiato nel 2002; autore che per altro non conoscevo. Ecco, il valore del Grinzane era la capacità d’intercettare anzitempo grandi autori mondiali». Come Pamuk, che riceverà il Nobel nel 2006, altri futuri Nobel sono stati premiati con il Grinzane internazionale: Gunther Grass, J. M. Coetzee, Doris Lessing, V. S. Naipaul e Mario Vargas Llosa. In trasferta a New York, il Grinzane premiò anche Philip Roth, del quale, al processo, martedì, Soria ha detto: «Per farlo venire non bastavano 30 mila dollari». Le cronache dell’epoca parlavano di un assegno da 25 mila euro. Ma più delle presunte cifre, colpiscono i giudizi di Soria. L’atteggiamento di Augias, infatti, cambia dopo aver appreso che in aula è stato descritto da Soria come «il più vorace, assillante sui pagamenti in nero. Sfiorava l’indecenza». A questo punto Augias sbotta: «Guardi, non è assolutamente vero, mi sgomento, cado dalle nuvole. Si tratta di un insulto personale. Non so, sembra una vendetta personale. Nella mia lunga vita nessuno mi aveva detto qualcosa del genere, siamo alla calunnia». Quale può essere il motivo di un tale attacco? «Non riesco a seguire nessun ragionamento, sono sconvolto, devo assorbire la cosa». In serata, Augias scrive una lettera in cui si riserva di «esaminare gli atti processuali per valutare un’azione di risarcimento danni». C’è spazio anche per un ricordo personale, ora amaro: «Anni fa, nella casa di Quai St. Michel a Parigi, alla presenza tra gli altri di sua madre, Soria ebbe parole di così grande apprezzamento e simpatia da spingersi a offrire a mia moglie Daniela Pasti di lavorare per lui». Chi non ha ricordi, né amarezza, è Giancarlo Giannini, anche lui indicato da Soria: «Chi? Sorìa, Sòria, Sorél non so chi sia. Un premio? Mi coprono di premi! Alla carriera, sperando che io muoia. Comunque se insiste - dice accelerando la voce - lo querelo, così mi prendo i suoi soldi... Neri!». L’ha presa molto sul serio Michele Placido: «Sporgerò querela. A Sorì, che vuol dire che nel mondo dello spettacolo si paga tutto in nero? Che vuol dire? Che il Piccolo di Milano che ospiterà la mia compagnia mi pagherà in nero? Che fesseria!». Certo, aggiunge, ci sono delle ambiguità: «Per Romanzo criminale ho ricevuto il Premio di Qualità del ministero della cultura: 20 mila euro. Esentasse, uno dice: lo Stato che fa, si tassa sui premi che dà? Sì! La Guardia di Finanza mi ha fatto un controllo e una multa da diecimila euro. Soria forse ha giocato su queste ambiguità per intascare meglio, ma a me non mi frega».
Soria: "Augias vorace e assillante sui pagamenti in nero". Ma lo scrittore si difende..., scrive “Libero Quotidiano”. Corrado Augias si difende dalle accuse mosse da Giuliano Soria: "Capisco l'amarezza di Giuliano Soria per la sua vita sconvolta e per quella del premio Grinzane da lui fondato [...] Non mi spiego perché Soria mi includa nel novero di coloro che lo 'sfruttavano' definendomi per di più 'vorace', 'indecente'. Ricordo che anni fa [...] ebbe parole di così grande apprezzamento e simpatia da spingersi a offrire a mia moglie Daniela Pasti di lavorare per lui. È vero che le tre o quattro prestazioni - richiestemi da Soria - sono state pagate come rimborso spese a forfait e, una volta, sotto forma di premio letterario. Di tutte le somme guadagnate, con lui e con qualsiasi altro datore di lavoro, ho sempre dato conto al fisco come dimostra la certificazione dell’Agenzia delle entrate".
Di seguito l'articolo di Francesco Borgonovo pubblicato su Libero di mercoledì 18 febbraio 2015 sulla vicenda di Augias. Dopo le dichiarazioni di Giuliano Soria, possiamo dire che Corrado Augias avrà un motivo in più per essere ricordato nella storia della cultura italiana. Perché la frase con cui Soria lo tira in ballo ha molto di romanzesco: «Corrado Augias era il più vorace, era addirittura assillante sui pagamenti in nero, sfiorando l’indecenza». Gli altri motivi per cui Augias va rammentato sono noti: non solo le sue trasmissioni, ma pure la sua attività di autore di bestseller. In particolare, va citato il volume - presto finito ai piani alti delle classifiche di vendita - firmato assieme al teologo Vito Mancuso e intitolato Disputa su Dio e dintorni. Un attento lettore si rese conto, sfogliando il volume, che qualcosa non tornava. Aveva, come dire, una sensazione di già sentito. Non si sbagliava. La pagina 246 del libro di Augias (a lui attribuibile) era praticamente identica alla pagina 14 del ponderoso volume La creazione (edito da Adelphi) del noto biologo di Harvard Edward Osborne Wilson. In pratica, Augias aveva fatto copia e incolla. Interpellato da Libero sul clamoroso plagio, si difese così: «Mi sono avvalso oltre che di convincimenti e riflessioni personali, di numerose testimonianze, citando la fonte ogni volta che è stato possibile». Cioè: Augias ha scritto un librone assieme a un teologo di fama e per sostenere le sue argomentazioni ha preso a casaccio da internet. Niente male, quanto a etica professionale. Tra l’altro, c’è da notare che quel libro era pubblicato da Mondadori. Cioè la casa editrice di Silvio Berlusconi. E Augias, come noto, non è un grande fan del leader di Forza Italia. La sua lunga attività giornalistica lo dimostra: basta leggere la rubrica delle lettere che tiene su Repubblica, dove si dà arie da gran moralizzatore. Resta celebre una sua intemerata contro Marina Berlusconi, a cui Augias rimproverava di aver preso le difese del padre sul caso Ruby. L’integerrimo Corrado sostenne che la «sdegnata Marina Berlusconi» avrebbe dovuto rendersi conto del «livello morale di suo padre». E, se proprio non poteva fare a meno di difenderlo in pubblico, avrebbe dovuto fare «qualcosa, in privato per salvarlo da una così penosa vecchiaia». Probabilmente, la famiglia Berlusconi non risultava così penosa ad Augias quando gli versava gli anticipi dei libri. Eppure sono numerose le interviste in cui il caro Corrado si è esibito in sermoni contro Silvio. Per esempio quella concessa a Daria Bignardi in cui disse che «in Italia non c’è spazio per un cavaliere condannato per frode fiscale. La revoca del titolo è sacrosanta». Però sorge un dubbio. Anche Augias si fregia del titolo di cavaliere. Dunque, se fossero confermate le accuse di Soria secondo cui avrebbe preteso «sfiorando l’indecenza» dei pagamenti in nero, che farà? Mollerà il prestigioso riconoscimento? Dopo tutto lo ha detto lui: qui non c’è posto per cavalieri che fanno i furbi col Fisco.
"Ho mantenuto politici, artisti e vip di sinistra". L'ex patron del premio Grinzane: "Tutti chiedevano presentazioni, favori, viaggi. Era un sistema", scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Il tono è dimesso, ma la precisione è quella di un cecchino. Giuliano Soria, patron indiscusso del Grinzane Cavour, ha una memoria infallibile. E racconta le pagine di quella che lui considera «la colpa collettiva» del Grinzane. Il peccato originale rimosso in gran fretta da un'intera classe dirigente. «Era un sistema, tutti volevano viaggi, chiedevano presentazioni, un favore, una busta in nero, un pagamento sottobanco». La giornata più lunga dell'ex presidente della manifestazione letteraria più acclamata d'Italia inizia con una deposizione a Palazzo di giustizia. Qui Soria, difeso dagli avvocati Luca Gastini, Aldo Mirate, Gianluca Vista e Giorgio Romagnolo, si sofferma sulle debolezze della sua corte. Un tema ripreso in questa intervista al Giornale.
Soria, fu arrestato nel marzo 2009. Sei anni dopo arriva la vendetta?
«Nessuna vendetta. Io voglio solo chiarire come era organizzato questo parterre scintillante. Mi difendo, visto che in primo grado mi hanno affibbiato tutte le colpe del mondo».
Con una condanna a 14 anni mezzo per aver gestito allegramente 4,5 milioni di soldi pubblici.
«Ecco, io mi prendo le mie responsabilità, sono dispiaciuto, sinceramente, sul piano umano per i danni che ho provocato, per esempio al mio maggiordomo Nitish, però un attimo, non esageriamo. Non ero un marziano fuori dal mondo».
Soria, da dove cominciamo?
«Dal più moralista dei moralisti. Corrado Augias».
Augias?
«Partecipava a una miriade di nostre manifestazioni.. Il Grinzane, il Grinzane Cinema, il Grinzane junior, il Grinzane noir. E ogni volta chiedeva, anzi pretendeva di essere pagato in nero».
Questa è la sua versione. Augias negherà, magari querelerà...
«Faccia pure. Lui era una star, esigeva cachet da 7-8 mila euro a botta, il problema è che li voleva assolutamente in nero. Come ho detto davanti ai giudici era assillante fino all'indecenza. E faceva un discorsetto di questo tenore: "Se vuoi pagarmi in chiaro, allora il compenso dev'essere quadruplicato"».
Lei?
«Accettavo. Io ad Augias ci tenevo. Ma non creda che fosse l'unico».
Chi altri?
«Ho pagato in nero star come Stefania Sandrelli, Charlotte Rampling, Isabella Ferrari, Michele Placido, Giancarlo Giannini».
Quereleranno pure loro.
«Facciano pure. Io voglio spiegare il contesto del Grinzane, mi interessa la verità. Adesso, dopo sei anni di attesa, è arrivato il momento di raccontare vizi e debolezze. Per esempio i viaggi a scrocco intorno al mondo».
Chi era della compagnia?
«Il più simpatico è senz'altro Alain Elkann. Organizzo una premiazione a New York per il grandissimo Philip Roth. Lui viene, con la moglie Rosy, e io a spese del contribuente devo sovvenzionargli il viaggio aereo in first, più l'hotel superstellato. Sa cosa vuol dire?».
Ci spieghi.
«Un conto da 13mila euro. Ma non è finita».
Che altro c'è?
«Lui organizza nella sua villa vicino a Moncalieri una festa per il Grinzane con 120 invitati. Provi a indovinare chi ha pagato il conto».
Sempre lei?
«Sempre a spese del contribuente».
Ma era un continuo.
«Con i politici in prima fila. Per la governatrice Mercedes Bresso ho promosso una festa da sogno nella vecchia ambasciata prussiana a San Pietroburgo in occasione del suo compleanno. Duecento invitati, un'orchestra invisibile laggiù, nel golfo mistico, le candele, una superba torta nuziale».
La spesa?
«Una spesuccia, credo di ricordare, da 30mila euro. Consideri anche la sistemazione della Bresso e del marito, dell'assessore alla Cultura Gianni Oliva e della moglie, di vari dirigenti della regione. A proposito Gianni Oliva, storico e autore di molti libri, era un mio cliente affezionato. Mosca, Parigi, San Pietroburgo: non mancava mai. Spesso con la gentile consorte al seguito. E a ottobre...».
A ottobre?
«Mi telefonava: "Sai do una cena, avresti dei tartufi?"».
Lei?
«Regalavo, a colpi di 800, mille, 1.500 euro alla volta. Sempre tartufi bianchi di Alba».
Il Giornale ieri ha anticipato il suo racconto e ha chiamato in causa per finanziamenti illeciti Sergio Chiamparino, allora sindaco e oggi governatore. Chiamparino replica parlando di «fango nel ventilatore».
«Ci siamo visti al caffè in piazza Vittorio. Era il 2006 e Chiamparino ha ricevuto contributi in nero per la sua campagna elettorale. Non una ma due volte, per un totale di 25mila euro. Ventimila euro la prima volta, 5mila la seconda. Altro che ventilatore. C'era un ottimo rapporto, come con la Bresso che deve ancora ringraziarmi perché fui io a far pubblicare il suo romanzo da Rizzoli, curandone anche l' editing».
«Grinzane Cavour», tremano i big Pd, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Un sistema ai confini dell'illegalità. Contributi in nero. Viaggi verso mete scintillanti a spese del contribuente. Pagamenti sottobanco. Favori in un reticolo di rapporti. C'era di tutto dietro la vetrina prestigiosa del Premio «Grinzane Cavour », uno dei marchi più robusti della cultura letteraria italiana. Un logo che produceva manifestazioni e premi a raffica, sotto la regia del presidente Giuliano Soria. A quasi sei anni di distanza dalla sua rovinosa caduta, Soria torna in aula, in corte d'appello, per alzare il sipario su quel sistema. E per proporre ai magistrati piemontesi una serie di nomi eccellenti che ebbero rapporti con quel mondo: l'ex governatrice e oggi europarlamentare del Pd Mercedes Bresso, l'ex assessore regionale alla Cultura Gianni Oliva, storico e autore di numerosi libri, l'attuale presidente della regione Sergio Chiamparino, fino a pochi giorni fa fra i candidati al Quirinale. Soria verrà ascoltato questa mattina e dovrebbe fare quei nomi, illustrare alcuni episodi, parlare del contesto dorato in cui si organizzavano trasferte lussuose all'estero, pranzi stellati, happening aperti agli amici degli amici. Il Grinzane calamitava scrittori di grido e premi Nobel, il Grinzane distribuiva doni e contributi ai pezzi da novanta della nomenklatura rossa, era generoso anche con gli amici del centrodestra, e poi con giornalisti, dirigenti del ministero dei Beni culturali, attori. Difficile, alla vigilia, pesare le dichiarazioni di Soria ma certo si annuncia un piccolo terremoto. «Il Grinzane - si è sempre sfogato lui in questi anni di solitudine e polvere - era una colpa collettiva, invece mi hanno addossato tutte le responsabilità». Non era così. E dunque Soria ha deciso di sfruttare l'opportunità dell'appello per mettere i puntini sulle i. Leggerà la memoria che ha preparato e per contestualizzare le proprie responsabilità inevitabilmente punterà il dito in numerose direzioni. Si soffermerà su alcune circostanze e darà la propria versione: un festa fiabesca organizzata a San Pietroburgo, al teatro tedesco, in occasione del compleanno della Bresso, con duecento invitati e un'orchestra a disposizione. E ancora un contributo a suo dire non regolarizzato, destinato a Chiamparino, per alcune migliaia di euro. A seguire un carosello di buste, spedizioni all'estero senza risparmio, e via elencando in un andirivieni di nomi, a cominciare dall'allora assessore alla cultura Gianni Oliva. In qualche modo l'intendimento di Soria, difeso da due principi del foro, Luca Gastini e Aldo Mirate, è quello di disegnare una sorta di affresco di quella realtà che allora tutti consideravano un vanto per il Piemonte. Chiudendo gli occhi davanti alle pagine oscure. Poi tutto precipitò. Soria viene arrestato il 21 marzo 2009 e condannato in primo grado alla pena pesantissima di 14 anni e 6 mesi per la gestione disinvolta di 4,5 milioni di finanziamenti pubblici. Ora proverà a descrivere le ramificazioni e le connessioni di quel piccolo impero culturale che il mondo invidiava. Molti fatti, ammesso che abbiano un profilo penale, potrebbero già essere prescritti. E dunque restare senza conseguenze. Si vedrà in aula. Soria si è preparato con puntiglio all'appuntamento, ma questo naturalmente non vuol dire che la sua testimonianza sia considerata credibile a scatola chiusa. La corte d'appello ha però tutto l'interesse a chiarire, nei limiti del possibile, il funzionamento di quei meccanismi e dunque valuterà con pazienza e prudenza le parole dell'ex presidente. Prima della requisitoria affidata al sostituto procuratore generale Vittorio Corsi.
Premio Grinzane, il patron Soria accusa: "Cene, regali e pagamenti in nero ai vip". Nella lista Augias, Chiamparino, Isabella Ferrari, scrive “Libero Quotidiano”. Il salotto radical-chic rischia di travolgere proprio gli intellettuali di sinistra. Lo scandalo del premio Grinzane è finito a processo con Giuliano Soria, ex patron del prestigioso riconoscimento letterario torinese, che rischia 11 anni di carcere per malversazione, peculato e violenza sessuale. Condannato in primo grado a 14 anni, oggi "il professore" potrebbe godere di uno sconto perché alcune accuse sono cadute in prescrizione. Comunque vada la vicenda processuale di Soria, resta però la "colpa collettiva" di politici, intellettuali e attori. Tutti coloro che, secondo il patron del premio Grinzane, partecipavano all'evento ricevendo in cambio regali, viaggi, cene e feste pagate e soprattutto denaro in nero, in una vicenda per molti versi parallela agli scandali di Regionopoli (anche in Piemonte) che quegli stessi intellettuali hanno spesso condannato. Tra i vip tirati in ballo, c'è la "zarina" Mercedes Bresso, ex presidente del Piemonte e ora eurodeputata Pd, che secondo le accuse di Soria avrebber ricevuto regali costosi insieme al marito. Il dirigente regionale Roberto Moisio sarebbe stato invece il regista delle operazioni, quello che teneva i contatti con i politici che dirigeva gli stanziamenti di finanziamenti pubblici al premio. "Abbiamo aiutato economicamente in nero l'assessore Giampiero Leo (Ncd) - ha detto Soria ai giudici -. Abbiamo aiutato l'assessore Alfieri (Fiorenzo, ex componente della giunta comunale di Sergio Chiamparino) anche per il signor Chiamparino, a cui ho dato personalmente sostegno in due occasioni". L'ex assessore alla cultura Gianni Oliva, ora consigliere regionale del Pd, avrebbe invece "viaggiato con la moglie a spese del Grinzane. E' un appassionato di tartufi". La "scellerata convenzione" tra la Regione Piemonte e il Grinzane Cavour coinvolgeva anche politici di centrodestra, diplomatici e attori, che avrebbero chiesto soldi per partecipare alle serate di gala. Nella lista di Soria sono presenti Isabella Ferrari, Giancarlo Giannini, Michele Placido, Charlotte Rampling, Eleonora Giorgi, Stefania Sandrelli: "I vip ci sfruttavano per il loro prestigio", sono le parole di Soria riportate dal Fatto quotidiano. Infine ci sono gli intellettuali e i giornalisti di sinistra: E potrebbe tremare anche viale Mazzini, perché "sulla Rai c’è un capitolo nero, era un andazzo a cui era difficile resistere. A tutti questi casi dovevamo far fronte con dei fondi in nero". Che con il rosso, per restare in ambito letterario, ci sta pure bene.
Attenti al ladro!!
Torino, beve una bibita da 1,20 euro senza pagare. Due mesi di carcere e 6 anni di calvario: prosciolto, scrive “Libero Quotidiano”. Nel 2008, un 38enne marocchino bevve una bibita, di nascosto, da 1,20euro all'interno di un supermercato di Mondovì. Sorpreso da un vigilante è stato denunciato per furto aggravato dallo violenza sulle cose e, nel 2009, condannato con decreto penale a due mesi di carcere e 100 euro di multa con la condizionale. Ci sono voluti sei anni per chiudere il caso e prosciogliere Youssef dalla Corte d'Appello del capoluogo piemontese. Non si tratta neanche di furto, ma di tentato furto, spiega il difensore. E l'inghippo sarebbe nella linguetta della lattina stessa, la quale non è un sigillo di protezione, ma solo un mezzo di chiusura. La sentenza è ora stata cancellata: i giudici hanno accolto la tesi della difesa e hanno sancito che il processo di primo grado non doveva neppure cominciare. Il suo avvocato, Fabrizio Bruno di Clarafond, uscendo da Palazzo di Giustizia ha commentato: “C’è di che avvilirsi. Non bastava fargli pagare il prezzo della lattina?”.
Mondovì, sei anni di processo per una Coca-Cola bevuta di nascosto. Youssef, marocchino, nel 2008 aveva commesso il piccolo furto in un supermercato. Valore della “refurtiva”: un euro e 20 centesimi, scrive Giuseppe Guastella su “Il Corriere della Sera”. Quanto tutto lasciava prevedere che si sarebbe arrivati all’ inesorabile prescrizione, l’avvocato ha convinto i giudici evitando che altro tempo si sommasse ai quasi 6 anni già consumati per processare un marocchino accusato di furto aggravato per essersi tracannato una bevanda del valore di ben un euro e 20 centesimi. La storia di uno dei tanti processi dalla dubbia rilevanza che intasano i tribunali e costano tempo e denaro parte il 12 agosto del 2008 quando, arso dal caldo, il 31enne Youssef prende una lattina dallo scaffale di un supermercato di Mondovì, spinge la linguetta e manda giù. Un vigilante lo vede e l’uomo viene denunciato per furto aggravato dalla «violenza sulle cose», cioè dalla apertura della lattina. Condannato con decreto penale, fa appello assistito dall’avvocato Fabrizio Bruno di Clarafort secondo il quale al più si può parlare di furto semplice dato che non c’è stata alcuna «violenza», perché per bere la lattina doveva pur essere aperta. Il gup non dà retta e il 22 aprile 2009 condanna il marocchino a 2 mesi di carcere e 100 euro di multa con la condizionale. Si va in Corte d’appello. Arenato per quasi 6 anni (un altro e si sarebbe prescritto) ieri il fascicolo riemerge in aula. I giudici danno ragione alla difesa e il furto diventa «semplice», e dato che il negozio non ha fatto querela, indispensabile per procedere, l’imputato viene prosciolto. Youssef non lo saprà mai, ammesso che ancora gliene importi: mentre la giustizia italiana procedeva inesorabile, lui è tornato in Marocco.
APPALTOPOLI, BRUNO TINTI E QUELLO CHE NON SI DICE.
L'inchiesta di appaltopoli a Torino. Torino, anno 2002: l'inchiesta di "appaltopoli" in mano al magistrato Bruno Tinti sconvolge la città. Viene scoperto un vero e proprio sistema per truccare le gare d'appalto che coinvolge imprenditori edili e dipendenti comunali. A 12 anni di distanza siamo andati a vedere cosa ne è stato di quell'inchiesta e dei suoi imputati. Quello che abbiamo scoperto mette i brividi e spiega molto del motivo per cui la corruzioni prosperi all'interno del paese.
Ladri e corrotti, niente paura, sarete prescritti, scrive Bruno Tinti su “Il Fatto Quotidiano”. «L’ultimo processo che ho fatto è stato “Appaltopoli”. Cordate di imprenditori che si spartivano gli appalti con offerte coordinate: oggi io, domani tu; ai più piccoli qualche subappalto. Il prezzo lo stabilivano loro e il Comune pagava. Sistema perfetto, non servivano corruzioni. Che però c’erano, per non essere disturbati nella fase di esecuzione dei lavori: regalie e stipendi ai dipendenti comunali. Arrestammo gli imprenditori e quasi tutto l’ufficio tecnico del Comune. 3 anni di indagini, dal 2002 al 2005, 140 persone e 20 società incriminate. Nel 2005 udienza preliminare: un centinaio di patteggiamenti (tra cui tutti i dipendenti comunali) e 43 rinviati a giudizio. Nel 2008 la sentenza: 2 assoluzioni, 10 prescrizioni e 31 condanne: 5 o 6 anni di prigione, in media. Nel 2009 l’Appello: tutto prescritto. Ricordo tre episodi. I dipendenti comunali riammessi in servizio dopo il patteggiamento. Un imprenditore intercettato che diceva ai colleghi, dubbiosi se continuare le gare truccate anche con indagini in corso (avevano una talpa, sospettai di un politico locale ma non ebbi mai prove sufficienti): “Ma sì, continuiamo, al massimo ce la caveremo con una multaccia!”. Un altro imprenditore che voleva patteggiare una pena ridicola, un anno circa che non avrebbe scontato per via della sospensione condizionale, e che, al mio scandalizzato rifiuto, disse sprezzante: “Faccia come vuole, sarò assolto per prescrizione”».
Interrogazione a risposta scritta Atto Camera Interrogazione a risposta scritta 4-07727 presentata da VINCENZO FRAGALA' giovedì 16 ottobre 2003 nella seduta n. 374.
FRAGALÀ. - Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che: dalla stampa quotidiana si apprende che la procura di Milano ha aperto un'inchiesta per violazione del segreto d'ufficio nei confronti del magistrato Bruno Tinti, attuale Procuratore aggiunto a Torino e titolare dell'inchiesta Telekom Serbia; il dottor Bruno Tinti, conosciuto per le sue posizioni giudiziarie proclamate sulla rivista «Micromega» è sospettato di aver violato il sistema informatico riservato della Procura torinese e di aver aperto con la sua password i dati relativi a una indagine affidata al pubblico ministero Andrea Padalino; durante alcune intercettazioni telefoniche un intermediario si sarebbe vantato di aver chiesto al pubblico ministero Bruno Tinti di controllare l'esistenza dell'inchiesta condotta da Padalino; ecco perchè la trasmissione degli atti dell'indagine nei confronti del dottor Tinti è stata trasmessa per competenza alla Procura di Milano; l'indagine del pubblico ministero Andrea Padalino ha comportato l'arresto per truffa aggravata del proprietario di sette concessionarie di auto di lusso, tra cui a Torino Agosti Tocci, vecchio amico di Bruno Tinti; per paradosso nell'estate del 2001 Bruno Tinti aveva trasmesso alla Procura di Milano gli atti di accusa contro il magistrato Francesco Saluzzo, sospettato di aver avvertito delle imminenti perquisizioni il suo amico Roberto Colaninno, in seguito completamente scagionato; adesso le parti sembrano essersi invertite, e a Milano sulla scrivania dell'aggiunto Carnevali, sostiene sempre la stampa quotidiana, c'è un fascicolo delicatissimo riguardante Bruno Tinti e di cui il Procuratore capo Marcello Maddalena non vuole assolutamente parlare; ancora un'ulteriore inchiesta giudiziaria sull'operato di un magistrato, prima indagato e poi prosciolto, ha scosso la Procura di Torino. Si tratta del pubblico ministero Paolo Storari, anch'egli titolare delle indagini su Telekom Serbia e sullo scandalo «Appaltopoli». Storari sarebbe stato indagato dai pubblici ministeri milanesi per violazione del segreto d'ufficio sulla base della vicenda della presunta fuga di notizie che lo scorso anno aveva portato all'indagine nei confronti del Procuratore aggiunto Francesco Saluzzo; indagine amplificata nell'ottobre dello scorso anno da un grande quotidiano che parlò apertamente di «spia in Procura» pubblicando i tabulati delle telefonate che Saluzzo avrebbe fatto a Colaninno per avvisarlo delle indagini su Telecom Italia svolte da Tinti, Storari e Furlan; richiesto il proscioglimento di Saluzzo, il gip Salvini ha ratificato l'archiviazione, rinviando gli atti alla Procura di Milano per individuare i responsabili della violazione di segreti d'ufficio verificatasi nell'ottobre del 2001 ai danni dello stesso Saluzzo; per questa accusa nei confronti del pubblico ministero Storaci, era stato richiesto il rinvio a giudizio, seguito dall'udienza preliminare in cui Paolo Storari è stato prosciolto; da queste intrecciate vicende emerge, ad avviso dell'interrogante, un filo rosso di collegamento tra alcune stanze segrete della procura di Torino e un grande quotidiano nazionale che ha recentemente e ripetutamente pubblicato verbali coperti dal segreto di indagine riguardanti l'inchiesta Telekom Serbia -: se il Ministro intenda assumere iniziative e provvedimenti nell'ambito delle proprie specifiche competenze ispettive per fare luce sui fatti sopra descritti e individuare conseguentemente eventuali profili disciplinari su cui esercitare i propri poteri. (4-07727)
TORINO NON AMA ALESSANDRO DEL PIERO.
Torino, negata a Del Piero la cittadinanza onoraria. Bocciata la proposta della Lega Nord. Sì a Papa Bergoglio e al cappellano del Torino, scrive “Il Corriere della Sera”. Alessandro Del Piero non sarà cittadino onorario di Torino: il Consiglio comunale ha detto no alla onorificenza chiesta dalla Lega Nord per l’ex bandiera della Juventus, «sconfitto» sui banchi della Sala Rossa da Papa Bergoglio e da don Aldo Rabino, storico cappellano del Torino, che l’hanno invece ottenuta. Uno «smacco» per l’ex numero 10 bianconero, che di derby in carriera ne ha persi davvero pochi. In realtà, i motivi del no a Pinturicchio sono più di natura politica che di fede calcistica, con il centrosinistra «tiepido» su una proposta dell’opposizione di centrodestra. Neppure i favori del sindaco Piero Fassino, tifoso juventino, sono serviti a convincere il Pd a dire sì in maniera compatta. E anche gli alleati non hanno gradito. «Il Comune ha concesso la cittadinanza onoraria a chiunque, anche a chi come Roberto Saviano non ha mai avuto nulla a che fare con Torino. Quando si tratta di conferirla a un personaggio che ha portato ovunque la torinesità, decide di negarla», protesta il capogruppo del Carroccio, Fabrizio Ricca. «La cittadinanza onoraria va usata con saggezza», replica il capogruppo Pd Michele Paolino, che nonostante sia tifoso del Torino non ne fa una questione di bandiera: «Forse sarebbe opportuno - è la sua proposta - introdurre riconoscimenti diversi, ad esempio un premio alla città». «La mia è stata una decisione super partes - dice invece il moderato Giovanni Maria Ferraris, assessore allo Sport della Regione Piemonte -. Senza nulla togliere a questo grandissimo campione, spettava alla Conferenza dei Capigruppo valutare se portare o meno la proposta in aula». Fatto sta che il derby della cittadinanza onoraria l’hanno vinto il Toro, a digiuno di successi nella stracittadina da vent’anni, e Papa Bergoglio. Lui sì super partes, nonostante la simpatia per il San Lorenzo.
A Roberto Saviano noi preferiamo Alessandro Del Piero, scrive by Giulia Zanotti su “Nuova Società”. Chi lo sa. Forse il Pd torinese la domenica preferisce passarla a messa anziché allo stadio. O forse l’unico colore calcistico che piace è quello granata e non bianconero. Di sicuro risulta difficile trovare una spiegazione a quanto successo ieri in Consiglio Comunale quando è stata respinta la mozione, proposta dalla Lega Nord, di dare la cittadinanza onoraria all’ex capitano della Juventus Alessandro Del Piero. Certo, qualcuno storcerà il naso dicendo che ci sono problemi più gravi da affrontare sotto la Mole che il conferimento di questo titolo a un calciatore. Eppure, basta dire che nella stessa seduta sono stati approvate altre due cittadinanze. La prima a Papa Francesco: giustissima se si considera che Bergoglio da quanto è Pontefice Torino non l’ha vista nemmeno in fotografia ma che con la sua visita già in programma il 21 giugno, in concomitanza con l’ostensione della Sindone, aiuterà non poco le finanze dissestate del Comune. Più difficilmente capiamo la scelta di fare cittadino onorario anche don Aldo Rabino, cappellano del Toro, se non che di sicuro piace alla Sala Rossa visto che già la sua nomina a presidente onorario della Fondazione Filadelfia era stata accolta con gran soddisfazione dall’assessore allo Sport Stefano Gallo che lo aveva definito “un padre spirituale del progetto”. Ma se abbiamo capito i motivi per cui da oggi ci sono due torinesi in più stentiamo a comprendere quelli del no a Del Piero. No per giunta imbarazzante visto che mentre la proposta aveva la “benedizione” del sindaco Piero Fassino il Pd si è diviso tra astenuti e contrari. Sarà che la mozione, che per giunta giaceva da un paio d’anni in un cassetto, è stata presentata dalla Lega Nord e quindi non poteva che essere rifiutata. Sarà che il nome dell’ex capitano bianconero tocca sfere troppo basse rispetto a quelle celestiali di Papa Francesco, ma anche quelle radical chic di Roberto Saviano. Già, anche lo scrittore di Gomorra è cittadino onorario della nostra città per quanto non si capisce cosa abbia fatto di così importante per i torinesi. Ma forse è più allettante ingraziarsi il mondo radical chic che quello degli stadi: chissà che qualche consigliere non abbia temuto di essere paragonato a Fantozzi in canottiera con frittata di cipolle e birra gelata piuttosto che ai fascinosi intellettuali da salotto. Poco conta, e non è questione di tifo, che nei 18 anni in cui Del Piero ha indossato la maglia della Juventus è stato un simbolo anche dalla città esportando il nome di Torino anche a quei tifosi che lo seguivano dall’estero. Ironia della sorte proprio oggi l’ex Pinturicchio sul suo Facebook ha postato una foto dalla sua nuova casa in Australia: “Happy to be back in Sidney”, “Felice di essere di nuovo a Sidney” scrive, forse anche per dimenticare una Torino che gli è stata troppo ingrata sia calcisticamente che non.
SE RUBARE PER COLPA NON COSTITUISCE REATO.
Spese pazze Piemonte, nove assolti nel processo bis: “Non ci fu dolo”. Tra gli imputati il segretario piemontese del Pd, Davide Gariglio, e l’attuale vicepresidente della giunta regionale, Aldo Reschigna. Il gup Daniela Rispoli ha accolto, nel processo con rito abbreviato, la tesi della stessa procura, secondo la quale gli episodi di peculato contestati non costituiscono reato, scrive Andrea Giambartolomei su “Il Fatto Quotidiano”. Il fatto non costituisce reato. Nove consiglieri regionali del Piemonte sono stati assolti dal gup di Torino Daniela Rispoli. Erano accusati di aver ottenuto rimborsi illeciti tra il 2010 e il 2012. Tra di loro ci sono anche due assessori della giunta di Sergio Chiamparino, il vicepresidente della Regione e assessore al Bilancio Aldo Reschigna (Pd) e l’assessora alle pari opportunità e al diritto allo studio Monica Cerutti (Sel). Stando alla sentenza letta in aula l’aver ottenuto rimborsi – esigui – per cene e trasferte non è stato peculato, così come avevano ribadito più volte i sostituti procuratori Giancarlo Avenati Bassi ed Enrica Gabetta. “Da questo momento in avanti abbiamo tutte la serenità necessaria per impegnarci ancora di più sull’importante lavoro di riordino e di rilancio della Regione”, ha detto il governatore. Proprio i due pm martedì, nella requisitoria di questo processo abbreviato, avevano spiegato che per loro “il fatto non costituisce reato” perché a questi nove politici mancava il “dolo”, l’intenzione di compiere il peculato. Dall’inizio di questa vicenda, cominciata nell’autunno del 2012, era la terza volta che ribadivano questa affermazione nei confronti di questi politici. Al termine della sterminata inchiesta della Guardia di finanza avevano chiesto l’archiviazione, ma il giudice per l’indagine preliminare Roberto Ruscello aveva voluto vederci chiaro e i due pm avevano ribadito le loro ragioni in un’udienza filtro. Ciò nonostante il gip ha aveva disposto l’archiviazione per sette di quelli rimasti in ballo (tra cui l’ex presidente Mercedes Bresso) e l’imputazione coatta per altri nove che hanno scelto invece il rito abbreviato: così, a porte chiuse, la posizione dei politici è stata chiarita “allo stato degli atti”. All’uscita dall’aula il segretario regionale del Pd Davide Gariglio (che era accusato di aver speso poco più di novemila euro) si è detto soddisfatto “sia sul piano personale, sia sul piano del partito”: “Abbiamo dimostrato di aver agito senza la volontà di raggirare le leggi”. Secondo lui se ci fosse stata una condanna “la giunta Chiamparino sarebbe andata avanti ugualmente. Adesso però sono state sgomberate alcune grosse pietre d’inciampo”. Il vicepresidente della Regione Reschigna (a cui erano contestati rimborsi per 5.500 euro circa) sostiene per lui è stato importante “riuscire a preservare un’immagine e mantenere fede a un impegno di trenta anni”, come ha più volte detto ricordando le sue attività a Verbania dopo la tangentopoli locale che nell’autunno del 1993 aveva spazzato via l’amministrazione cittadina. Nel caso di condanna sia lui sia la collega Cerutti erano pronti a dimettersi: “Legge Severino o no, non avrei potuto reggere l’incarico col pensiero di difendermi di più e ricorrere in appello”, ha detto l’assessora di Sel, che doveva giustificare circa 20mila euro di rimborsi. “Sono state assolte persone che ho sempre ritenuto essere persone oneste, dichiarandolo anche pubblicamente”, ha commentato Chiamparino. Nel centrosinistra sono stati assolti anche il senatore Stefano Lepri e la consigliera regionale Angela Motta (Pd) e Eleonora Artesio della Federazione di sinistra. Si sono salvati pure alcuni politici del centrodestra, come Fabrizio Comba, Gianluca Vignale e Giampiero Leo: “Spero che questa sentenza possa aiutare anche i colleghi che stanno facendo il dibattimento”, afferma quest’ultimo. Questa sentenza potrebbe infatti essere usata dalle difese nell’altro processo nel quale, tra gli imputati, compare anche l’ex governatore leghista Roberto Cota. La procura, però, con questa impostazione pensa di poter proseguire e chiedere le condanne di coloro che avrebbero ottenuto rimborsi esorbitanti e ingiustificabili. In estate 14 ex consiglieri avevano patteggiato e altri quattro erano stati condannati.
Via l'ostacolo all'eventuale corsa al Colle come nel 2013: la Rimborsopoli rossa non è reato, scrive Mariateresa Conti su “Il Giornale”. La giustizia a orologeria, per lui, funziona al contrario. Magicamente. Per gli altri politici, di solito, è una iattura. Per Sergio Chiamparino, invece, spazza via gli eventuali problemi. È accaduto giusto un anno fa, quando la scomoda inchiesta sulla mancata riscossione degli affitti dei Murazzi graziò con l'archiviazione soltanto lui, indagato a sua insaputa per abuso in atti d'ufficio, consentendogli di correre senza ombra alcuna per la poltrona di governatore del Piemonte, prontamente liberata dai giudici del Tar che diedero torto a Cota e altrettanto prontamente conquistata da lui. E in un certo senso accade anche oggi, che Chiamparino non è in pole position per la corsa al Quirinale e però forse qualche chance di salire al Colle ce l'avrebbe. Il gup di Torino, infatti, ha assolto i nove consiglieri regionali coinvolti nella seconda tranche della cosiddetta «Rimborsopoli» per le spese pazze dei gruppi in Regione Piemonte. Il «Chiampa» non era coinvolto. Ma dentro c'erano due suoi assessori, uno dei quali anche vicepresidente della sua giunta, il segretario regionale e capogruppo in Regione del Pd, un parlamentare democrat. Insomma, una bella fetta di partito piemontese. E il «liberi tutti» che arriva giusto adesso è un aiutino niente male. Elimina infatti ogni eventuale problema, nel caso in cui sul nome di Chiamparino si verificasse ancora una convergenza in direzione Colle. Non è fantapolitica. E nemmeno un'ipotesi peregrina, come insegna la storia recente. È aprile, anno di grazia 2013, l'inizio delle votazioni per eleggere il nuovo presidente della Repubblica che di flop in flop e di bruciatura in bruciatura - da Franco Marini a Romano Prodi - portarono alla fine all'incoronazione bis per Napolitano. Il nome di Chiamparino per il Colle viene fuori un po' a sorpresa nella prima giornata di votazioni. Anzi, proprio alla prima votazione, in chiave anti-Marini. A tributare a Chiamparino 41 voti sono i renziani, che si opponevano alla designazione del segretario della Cisl. Il vero trionfo per l'ex sindaco di Torino arriva però alla seconda votazione, quando nel gioco di sgambetti e veti incrociati per lui di voti ne arrivano 90, ben più di quelli a disposizione dei Matteo-boys. Come finì allora è ben noto. Liti, scontri e poi il Re Giorgio bis. Adesso, due anni dopo, quella strana congiuntura sul nome di Chiamparino potrebbe riproporsi. Ed eliminare uno scheletro giudiziario imbarazzante per il Pd piemontese non è comunque un male. Né per Chiamparino né per i democratici. La decisione del giudice di Torino, attesa perché già la procura aveva chiesto il proscioglimento dei nove indagati della seconda tranche - sei del centrosinistra e tre del centrodestra - è arrivata ieri. Interessante la motivazione, «perché il fatto non costituisce reato». Traduzione: il fatto c'è. Quelle cene contestate non erano rimborsabili con soldi pubblici. Solo che da parte dei nove consiglieri non c'è stato alcun dolo. Di conseguenza, tutti assolti. La rimborsopoli, se di sinistra, non è reato.
In Piemonte anche le spese pazze non sono tutte uguali, scrive Marcello Calvo su “Il Giornale d’Italia”. Rimborsopoli, nel processo bis la procura di Torino chiede l'assoluzione per tutti gli imputati. Per la pubblica accusa i consiglieri non avrebbero agito con dolo nell'utilizzo dei fondi pubblici. Spese pazze in Piemonte, richiesta di assoluzione per gli ex 9 consiglieri regionali imputati. Che fa da prologo a una sentenza praticamente scritta che rischia di creare un pericoloso precedente. E’ questo il colpo di scena svelato dalla procura di Torino nel processo bis ai “vecchi” onorevoli sotto la Mole nell’ambito dell’indagine sui rimborsi ai gruppi regionali della scorsa amministrazione (che avrebbero percepito rimborsi illeciti dal maggio 2010 al settembre 2012) che hanno scelto il rito abbreviato. Tra gli imputati pure il vicepresidente dell’attuale giunta Chiamparino, Aldo Reschigna. E la collega Monica Cerutti. Oltre al segretario Pd piemontese Davide Gariglio. E pensare che il 20 ottobre scorso, dopo la richiesta di archiviazione della procura, il gip Roberto Ruscello aveva ordinato l’imputazione coatta, ritenendo tutte le spese come illegittime (compresi pranzi e cene istituzionali). Con i pubblici ministeri “costretti” a chiedere il rinvio a giudizio degli interessati nel giro di 10 giorni. Ebbene, per la pubblica accusa non ci sarebbe stato “dolo” da parte degli ex consiglieri nel chiedere i rimborsi contestati. Non sarebbe emersa dunque la consapevolezza di un utilizzo illecito dei fondi pubblici. Per tutti questi motivi, “il fatto non costituisce reato”. Nell’inchiesta sono coinvolti pure Gianluca Vignale, Giampiero Leo e Fabrizio Comba (centrodestra). E ancora: Stefano Lepri, Angela Motta e Eleonora Artesio (centrosinistra). Imputato anche Luca Pedrale, già capogruppo di Forza Italia, ma la sua posizione è stata già stralciata. Nessuna sorpresa, a dir la verità. E una richiesta in linea con le archiviazioni sostenute nei mesi scorsi al termine della fase di indagine del ramo principale che ha visto finire sul banco degli imputati pure l’ex governatore Roberto Cota. Che viaggia certamente controcorrente rispetto alle decisioni prese da parte dei magistrati del tribunale di Torino. Ben 4 condanne e 14 patteggiamenti. Per consiglieri accusati di aver utilizzato fondi pubblici per acquisti di ogni tipo: dal giardinaggio all’estetista, dalle cravatte ai videogiochi passando per gratta e vinci e frullatori. Con i giudici di prime cure che hanno stabilito come non si potesse parlare di “pranzi e cene per finalità istituzionali”. Tant’è, c’è una procura che la pensa evidentemente diversamente. E il dispositivo che verrà emesso dal gup di Torino, in caso di sentenza con formula assolutoria, potrebbe legittimare molti “Batman” piemontesi a procedere sulla stessa falsa riga adottata dai più in questi anni di sprechi e presunte malefatte.
FIRME FALSE, ABITUDINI PIEMONTESI.
Ancora scandalo firme false in Piemonte: questa volta nel mirino è la sinistra, scrive Riccardo Ghezzi su “Quelsi”. Firme false in Piemonte. Un film già visto, ma questa volta accusatori e accusati si sono scambiati i ruoli. Non è più la maggioranza del centro-destra nel mirino dell’opposizione, ma il centro-sinistra a sostegno di Chiamparino che ha vinto le elezioni due mesi fa. Le irregolarità nella presentazione delle liste sono state un tormentone nell’arco dell’intera precedente legislatura, fino alla caduta anticipata della giunta Cota. Questa volta è il centro-destra, ritrovatosi all’opposizione a rendere pan per focaccia: la Procura della Repubblica di Torino ha infatti aperto una nuova indagine per accertare presunte irregolarità di Pd e altre liste di centro-sinistra nella raccolta firme. E’ il cosiddetto “fascicolo K”, ancora senza indagati. Tali irregolarità sono state denunciate dall’europarlamentare della Lega Nord Mario Borghezio, il quale dopo aver avuto accesso agli atti e verificato “palesi incongruenze” quali cognomi sbagliati, dati anagrafici ripetuti, firme ottenute a centinaia di chilometri dalla residenza, si è recato dal Procuratore Capo di Torino, Armando Spataro. L’esposto è sfociato nell’apertura dell’indagine e nella fissazione di un’udienza prevista per il prossimo 6 novembre. Il segretario regionale del Pd, Davide Gariglio ha bollato come “baggianate” le accuse della Lega Nord, ma il quotidiano La Stampa nei giorni scorsi ha minuziosamente analizzato tutti gli errori nella raccolta firme contenuti nell’esposto di Borghezio, alimentando dubbi e perplessità sull’effettiva regolarità della presentazione di alcune liste regionali, compreso il listino bloccato. Se i giudici dovessero dare ragione a Borghezio, per il Piemonte si aprono nuovi scenari di incertezza. Sperando di non dover aspettare quattro anni, come nella passata legislatura. E sperando pure che non siano usati i famosi “due pesi e due misure”.
Piemonte, torna l'incubo firme false: accuse alla lista Chiamparino e al Pd, indaga la Procura. E' stato il leghista Mario Borghezio a presentare l'esposto al procuratore capo Armando Spataro: nel mirino la lista per l'ex sindaco e quelle del Pd a Cuneo e a Torino. E' come se si ripetesse, a schemi rovesciati, la vicenda che alla fine portò all'annullamento delle elezioni 2010 e alla caduta della giunta Cota, scrive Ottavia Giustetti su “La Repubblica”. Firme false per presentare la lista del presidente Sergio Chiamparino alle elezioni regionali e il Pd: dopo che il Tar ha fissato l’udienza per la discussione del ricorso il 6 novembre, anche la procura ha aperto un fascicolo che contiene l’esposto presentato da Mario Borghezio direttamente al procuratore capo, Armando Spataro, qualche giorno fa. E sono trascorsi più di quattro anni ma in un certo senso sembra di assistere a una scena già vista: fascicolo ancora senza ipotesi di reato né indagati, ma già assegnato al pm Patrizia Caputo, la stessa che coordinò le indagini nella vicenda di ricorsi e denunce incrociate tra Mercedes Bresso e Roberto Cota nel 2010. Questa volta sotto la lente della procura finiranno le 2292 firme depositate a corredo della lista maggioritaria del candidato Chiamparino, e le proporzionali del Pd collegate, di Torino e Cuneo. I canali anche questa volta sono due: il primo amministrativo, dunque al Tar, per la richiesta di annullamento delle elezioni nei confronti del presidente e dei consiglieri Gilberto Pichetto, Giovanni Maria Ferraris e Giorgio Ferrero; il secondo penale, con un’inchiesta che, se andrà avanti, potrebbe portare ad avvisi di garanzia per falso e, in base alle accuse contenute nell’esposto, anche per abuso d’ufficio. Il leghista Borghezio, infatti, non ha denunciato solamente autenticazioni false ma anche il conflitto di interessi di un gruppo di autenticatori che erano anche loro tra i candidati alle elezioni, e che sono stati poi eletti: Marco Grimaldi, Valentina Caputo, Nadia Conticelli e Antonio Ferrentino, che ora si difendono: "Accuse strumentali, è tutto in regola". L’avvocatura della Regione che ha l’incarico di seguire la vicenda direttamente dal presidente sostiene che non vi sia alcun conflitto in questo caso, e che al contrario c’è ampia giurisprudenza che legittima la presenza degli stessi pubblici ufficiali sia tra i candidati che tra gli autenticatori delle firme. Infine, appunto, il falso. Il caso più eclatante sarebbe quello del consigliere provinciale Pasquale Valente che in un solo giorno ha verificato l’autenticità di 329 firme «considerando un arco temporale di 12 ore - è scritto nel ricorso della leghista Patrizia Borgarello - significherebbe una firma ogni due minuti senza previsione di alcuna interruzione». E, aggiunge, in due posti diversi sempre nello stesso giorno: Torino e Cossano Canavese. Poi: firme uguali, vergate con mano diversa - sempre secondo l’accusa -, elenchi di cittadini stranamente presentati in ordine alfabetico («Come se uno che raccoglie firme avesse la capacità di mettere tutti i sottoscrittori in fila in base all’ordine alfabetico del cognome » dice Mario Borghezio), infine firme in cui al posto del cognome è finito per errore il luogo di residenza, fatto che fa pensare non a una processione di cittadini che davanti a un pubblico ufficiale firmano e danno le proprie generalità quanto piuttosto a qualcuno che si sia messo lì a copiare in fretta e furia un lungo elenco di nomi e abbia confuso in qualche caso le varie caselle.
Elezioni Piemonte, aperta inchiesta dopo denuncia Lega: “Firme false”, scrive Andrea Giambartolomei su “Il Fatto Quotidiano”. L’indagine è stata assegnata a due sostituti procuratori, Patrizia Caputo e Stefano Demontis. Gli accertamenti non sono ancora iniziati, ma il primo passo da fare sarà l’acquisizione di tutti i documenti (le varie liste con le sottoscrizioni dei sostenitori) conservati negli uffici elettorali del Palazzo di giustizia. Sulle presunte firme false e le altre presunte irregolarità delle lista a sostegno di Sergio Chiamparino, presidente della Regione Piemonte, la procura di Torino ha aperto un fascicolo. L’indagine è stata assegnata a due sostituti procuratori, Patrizia Caputo e Stefano Demontis, del Dipartimento per i reati contro la Pubblica amministrazione guidato da Andrea Beconi. Gli accertamenti non sono ancora iniziati, ma il primo passo da fare sarà l’acquisizione di tutti i documenti (le varie liste con le sottoscrizioni dei sostenitori) conservati negli uffici elettorali del Palazzo di giustizia. Dopodiché le procedure saranno quelle utilizzate per altre indagini che in passato hanno portato alla condanna di alcuni politici locali come Michele Giovine, Renzo Rabellino e della democratica Caterina Romeo. Verranno sentite delle persone informate sui fatti, come gli autenticatori o i firmatari i quali dovranno riferire se hanno veramente sottoscritto i documenti e in quale contesto. Poi potrebbero essere disposte delle perizie calligrafiche fatte da consulenti tecnici. A indagare saranno due pm perché la Caputo, che ha coordinato le indagini sui casi passati, prossimamente dovrà cambiare pool e per questo sarà affiancata da Demontis. I due pm dovrebbero vedersi oggi o nei primi giorni della prossima settimana per decidere sul da farsi. Tutto nasce dall’esposto dell’europarlamentare leghista Mario Borghezio, alla ricerca di una vendetta per quello che la Lega Nord e Roberto Cota hanno dovuto subire negli anni della legislatura in Piemonte, con i ricorsi al Tar e gli esposti contro la lista “Pensionati per Cota”. Lo storico esponente del Carroccio dopo aver ottenuto una copia degli atti sulle liste provinciali di Torino (e anche di Cuneo) del Partito democratico e di “Chiamparino per il Piemonte”, più gli atti del “listino” regionale “Chiamparino presidente”, ha preparato un esposto di sette pagine corredato di fotografie coi dettagli delle firme, allegando anche copie dei documenti ottenuti. La denuncia è stata poi consegnata al procuratore capo di Torino Armando Spataro durante un incontro avvenuto una settimana fa. Nell’atto si legge che “anche solo da un esame superficiale emergono subito dubbi in merito alla regolarità nonché all’autenticità di molte sottoscrizioni relative alle tre liste” perché “le firme apposte dai sottoscrittori appaiono vergate da poche mani, ovvero si ritrovavano grafie che, a parere di coloro che hanno posto in essere i suddetti controlli, si ripetono con regolarità in più moduli”. Non è tutto. “In molti casi pare agli scriventi che chi ha scritto le generalità dei sottoscrittori avesse poi anche firmato, ripetutamente, nello stesso modulo”. In sostanza si sospetta che qualcuno abbia copiato i dati anagrafici e dei documenti da altre liste per poi firmare al posto dei sottoscrittori. Ciò emergerebbe osservando la grafia accanto ai nomi della lista regionale “Chiamparino Presidente” e quella della lista provinciale del Pd: “Si palesa anche ad un occhio inesperto una differenza (in alcuni casi addirittura macroscopica) di grafia”. Borghezio ha quindi chiesto di accertare “eventuali falsità ideologiche dei pubblici ufficiali autenticatori”. Dalla politica, per ora, non arrivano commenti, né l’opposizione sembra voler cavalcare la polemica. Il presidente Chiamparino preferisce non rilasciare dichiarazioni sulla vicenda nell’attesa del lavoro degli inquirenti. Il Pd aveva replicato che tutto era regolare: “Le autentiche sono lecite”. “L’autentica è assolutamente lecita”, aveva spiegato Nadia Conticelli, consigliere regionale Pd chiamata in causa da Borghezio per via delle due firme, apparentemente diverse tra di loro, poste su un documento in qualità di sottoscrittrice e anche di autenticatrice. “Le firme che ho raccolto le ho prese io, le hanno fatte davanti a me, le ho autenticate col timbro della circoscrizione. Penso che la Lega dovrebbe puntare a delle motivazioni politiche”.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…
DUBBI SULL’OMICIDIO MUSY.
Omicidio Musy, e se Furchì non fosse il vero colpevole? Conferma della condanna all'ergastolo al processo di appello per l'omicidio del consigliere comunale torinese, scrive Carmelo Abbate il 25 novembre 2015 su "Panorama". Il 21 marzo 2012, nel pieno centro di Torino, poco dopo le 8 il consigliere comunale Udc Alberto Musy viene colpito sotto casa con quattro colpi di pistola. Le telecamere inquadrano un uomo con impermeabile scuro e casco in testa. Francesco Furchì, ex collaboratore politico di Musi, viene arrestato con l'accusa di tentato omicidio. Il 22 ottobre 2013 Musy muore: il capo di imputazione cambia in omicidio premeditato, aggravato da futili motivi. Il 28 gennaio 2015 in primo grado, a Torino, Furchì viene condannato all'ergastolo. Sentenza confermata oggi dalla Corte d'Appello. I giudici che hanno condannato all’ergastolo Francesco Furchì per l’assassinio di Alberto Musy, nelle 70 pagine della sentenza non hanno risposto ad alcune domande imprescindibili: come può Furchì aver premeditato un omicidio se non conosceva le abitudini della vittima e se non poteva sapere che quella mattina Musy avrebbe portato i figli a scuola? Furchì non è mai stato visto aggirarsi vicino all’abitazione nei giorni precedenti, e la decisione su chi portare i figli a scuola tra Musy e la moglie viene presa di giorno in giorno sulla base degli impegni di ognuno. Chi è il complice dell’assassino di cui si parla nella descrizione della dinamica? Qual è il suo nome, quanto è alto, dov’è un riscontro oggettivo della sua esistenza? E soprattutto: se hai qualcuno che ti fa da palo e che ti segnala l’arrivo del tuo bersaglio, che fai più cinque minuti dentro l’androne con Musy che addirittura ti trova intento a trafficare nei pressi del cancelletto delle scale cantina? A questo proposito: prima di cadere in coma, la vittima racconta ai condomini che lo soccorrono di aver parlato con il suo aggressore. Ora, Musy conosce benissmo Furchì: come è possibile che, sentendo la sua voce e guardandolo in faccia, pur con il casco in testa, non lo abbia identificato? Infine la questione del mezzo di trasporto: i giudici dicono che Furchì uscendo dal suo ufficio utilizza un motorino. Dov’è questo motorino? Che colore ha? Il tragitto è pieno di telecamere, perché non esiste prova del suo passaggio? Anche sul movente poi ci sono diversi dubbi, ma prima facciamo un passo indietro e ripercorriamo i fatti. Alberto Musy, avvocato, professore universitario, consigliere comunale, ex candidato a sindaco di Torino, viene freddato con quattro colpi di pistola sotto casa in via Barbaroux alle 8,05 del 21 marzo 2012. Dopo pochi minuti entra in coma, ma prima di perdere i sensi parla con i condomini che lo soccorrono: «In che razza di mondo viviamo che arriva uno e ti spara senza motivo?» Musy racconta di un uomo robusto, sulla quarantina, con un impermeabile nero e un casco bianco, come risulterà dalle telecamere, con la bocca coperta da un nastro e un pacco in mano. Poco dopo, alla moglie Angelica dirà: «Mi hanno seguito, c’era un motorino». Alberto Musy muore venti mesi dopo, il 22 ottobre 2013. Nel frattempo, il 29 gennaio di quell’anno la polizia arresta Francesco Furchì. La procura non ha dubbi: è lui l’uomo che ha sparato. Gli indizi portati a supporto dell’accusa passano il vaglio dei giudici e vengono elencati numericamente nella sentenza. Si parte dalla compatibilità cronologica: quella mattina Furchì era in centro città, in via Garibaldi 13, nella sede dell’associazione Magna Grecia, di cui era presidente, come documenta una telecamera di sicurezza situata vicino, e le testimonianze di tre operai che incontra per un trasloco. Da qui, scrivono i magistrati, Furchì a un certo punto sarebbe uscito «alla chetichella», senza salutare nessuno. Francesco Furchì viene sentito la prima volta il 29 gennaio 2013. Gli viene chiesto dei suoi spostamenti precisi durante una mattinata di 10 mesi prima. Racconta di essere arrivato in centro a Torino con l’auto della moglie poi, ma quando secondo la procura si rende conto che verrà smentito, dice di aver viaggiato in autobus. In ogni caso, nulla riferisce su cosa abbia fatto dalle 7,26 alle 10,04. Proprio il suo silenzio rappresenta un altro elemento indiziario: l’imputato tace sui suoi movimenti e non offre elementi a sua discolpa, scrivono i giudici. Ma la prova maggiore contro di lui è la «compatibilità dei parametri fisici» con la figura dell’uomo con impermeabile e casco immortalata dalle telecamere. I consulenti del pubblico ministero fanno il match, come si dice in gergo, sulla base di questi elementi che a loro avviso presentano una «elevata percentuale di somiglianza»: comunanza di valgismo dei piedi, ulteriore comunanza di zoppia con difetto di appoggio del piede destro, comunanza di asimmetria delle spalle, con quella destra più bassa. Inoltre, coincidono anche il «naso di dimensioni notevoli» e le «mani piccole». In tutto questo, pesa il rifiuto dell’imputato di sottoporsi a misurazioni fisiche. Come se non bastasse, quella mattina Furchì avrebbe spento il telefono, certezza che si ricava dal fatto che il suo apparecchio, che non registra alcun movimento, secondo i periti sarebbe rimasto scollegato dalla rete tra le 7,24 e le 10,04, quando riceve una telefonata dalla moglie. Altra prova, le dichiarazioni di un compagno di cella, Pietro Altana, il quale riferisce una confidenza di Furchì: un amico gli aveva custodito una pistola in un capanno. Lo stesso Furchì, dopo un diverbio, gli avrebbe urlato: «Ti faccio fare la fine di Musy». Per i giudici, anche il comportamento di Furchì dopo il delitto costituisce grave indizio di colpevolezza: dicono che nonostante sfruttasse ogni occasione per portarsi agli onori della cronaca, in questo caso non ha adottato nessuna iniziativa pubblica per «cavalcare la notizia» e trarre il massimo vantaggio in termini di visibilità. Neppure un «misero comunicato stampa di solidarietà all’amico». Infine il movente: perché lo ha ucciso? Perché Francesco Furchì è un «millantatore», un «maneggione», un uomo dal «carattere violento e prevaricatore», in grado di covare «odio e propositi di vendetta». Musy avrebbe avuto la colpa di tradirlo in diverse occasioni: nella tentata scalata di una società in fallimento, la Arenaways, nel concorso universitario dove lui gli aveva caldeggiato invano il figlio dell’onorevole Salvo Andò, nella lite per la campagna elettorale del 2011 quando Musy gli avrebbe rifiutato il ruolo di capolista. Così Furchì si vendica dei torti subiti ammazzandolo. Omicidio premeditato aggravato da motivi futili. Il 28 gennaio di quest’anno la Corte D’assise di Torino lo ha condannato alla pena dell’ergastolo. Una misura che non soddisfa ancora la procura, la quale ha presentato appello perché venga applicato l’isolamento diurno di almeno sei mesi. Si vedrà a breve, durante il processo in secondo grado che inizierà l’11 novembre, nel quale gli avvocati Giancarlo Pittelli e Gaetano Pecorella, difensori di Furchì, promettono battaglia al grido di «grave condizionamento» del giudice di primo grado, «pregiudizio» contro il loro assistito, «travisamento» del fatto e della prova. Certo, i nuovi giudici dovranno sciogliere alcuni dubbi. A cominciare proprio da quella mattina. La decisione di portare i figli a scuola tra Musy e la moglie veniva presa giorno per giorno in base agli impegni di ognuno. Da nessuna parte emerge la consapevolezza di Furchì sulle abitudini di vita di Musy, come nessuna testimonianza o telecamera lo colloca nei pressi della sua abitazione nei giorni precedenti il delitto. Come faceva a sapere degli spostamenti di quella mattina? Secondo i giudici avrebbe avuto un complice, la cui conferma si trae da alcuni fotogrammi che riprendono l’attentatore mentre inserisce la mano sotto la mascherina che gli copre la bocca per ricevere una comunicazione via radio circa l’imminente arrivo della vittima. A parte il fatto che questa immagine viene collocata dal consulente del pm in un momento successivo all’attentato, per il resto l’accusa non porta una traccia qualsiasi che documenti l’esistenza del complice. C’è poi il problema dei tempi e degli spostamenti dell’assassino. Furchì esce dal suo ufficio e dalle telecamere risulta andare in direzione opposta rispetto a casa Musy. Il primo avvistamento dell’attentatore che cammina con casco in testa e pacco in mano è in via Palestro. Ma nessuna telecamera riprende Furchì tra i due punti. Per tenere gli spazi con i tempi, l’accusa sostiene che Furchì si sarebbe mosso in motorino. Del quale però non c’è traccia. La logica poi impone una riflessione: se hai il casco in testa, non desti minori sospetti muovendoti in sella a un motorino? Che senso ha lasciarlo e proseguire a piedi? Proprio il complice e il motorino rappresentano due pilastri fondamentali nella costruzione dell’accusa. Ma senza riscontri, si finisce per ritenerli immaginari. Anche sull’alibi poi c’è tanto da ridire, al punto che non si capisce come possa essere definito falso il racconto di fatti che si sono verificati in una fascia oraria ben precisa di dieci mesi prima. Come non si vede da dove possa ricavarsi la certezza che Furchì quella mattina abbia spento il suo telefono volontariamente per il solo fatto che sia rimasto scollegato dalla rete. Posto che nella stessa giornata, dalle 10,16 alle 12,22, dalle 12,56 alle 16,33, dalle 17,26 alle 21, la sua utenza ha registrato lo stesso distacco dalla rete. Secondo l’imputato, a causa di un cattivo funzionamento dell’apparecchio. Non si crede a lui, ma si crede al testimone Altana, pregiudicato per truffa, ricettazione e calunnia, ma le cui parole vengono prese per oro colato dalla corte nonostante i giudici stessi lo ritengano «un millantatore che vanta rapporti di collaborazione con i servizi segreti forse mai avvenuti». La farina con la quale è stata impastata la condanna in primo grado è incredibilmente esplicitata a pagina 13 della sentenza: «…emerge chiara e netta la grave portata indiziaria della personalità violente e vendicativa di Furchì, senza contare che è l’unico soggetto, tra tutti quelli che sono stati individuati nelle indagini come protagonisti di una qualche divergenza con la vittima, con caratteristiche così marcatamente dirette alla brutale aggressività». Violenza e aggressività che si ricava dalla denuncia dell’ex moglie, dalle quali è scaturito un processo nel quale Furchì è stato assolto perché il fatto non sussiste. Giudizio o pregiudizio? Ai nuovi giudici l’ardua sentenza.
ANDREA SOLDI E GLI ALTRI. MORIRE PER UN TSO.
Torino, morì durante il Tso. L’autopsia: «strangolamento atipico». Lo ha stabilito la consulenza del medico legale: indagati tre vigili e uno psichiatra, scrive Elisa Sola su “Il Corriere della Sera” del 12 novembre 2015. Andrea Soldi è morto strozzato. Soffocato dal braccio di un vigile che lo ha stretto al collo con troppa forza, tanto da provocare un «violenta asfissia da compressione». E’ l’esito della consulenza autoptica depositata dal medico legale Valter Declame al procuratore Raffaele Guariniello sulla morte del 45enne torinese malato di schizofrenia e soprannominato dai vicini di casa «il gigante buono». Era il 5 agosto e Andrea stava seduto in piazza Umbria sulla sua panchina preferita. Una panca di legno verde da cui si vedono le aiuole, i passanti che attraversano la piazza e l’ingresso dell’Ari’s bar, dove Andrea andava a comprare l’acqua naturale e dove a chi gli era più affezionato ogni tanto chiedeva una sigaretta. All’improvviso era arrivata un’ambulanza. Lo psichiatra di Soldi e tre vigili urbani si erano avvicinati a lui e lo avevano invitato a salirvi sopra. Destinazione, ospedale, per un Tso. Andrea, che pesava oltre cento chili, si era rifiutato. Si era aggrappato alla panca. Rifiutava quel trattamento forzato concordato dalla famiglia con il medico il giorno prima. Due vigili si erano piazzati di fianco a lui, uno per lato, immobilizzandolo e un terzo da dietro gli aveva messo un braccio contro il collo, stringendo. Secondo il medico legale dell’accusa, quella stretta fu fatale. «In considerazione dell’anamnesi e dai rilievi dell’esame autoptico», scrive il medico, la causa della morte «è una violenta asfissia da compressione», con una «ostruzione delle alte vie aeree e dissociazione elettromeccanica del miocardio». Lo «strozzamento atipico» avrebbe prodotto «una compressione delle strutture profonde vascolonervose del collo» e poi il mancato passaggio di ossigeno. Dopo la presa, Andrea aveva perso conoscenza e si era accasciato al suolo. Più di un testimone aveva assistito a questa scena. Privo di sensi, era stato ammanettato e caricato sull’ambulanza a pancia in giù. Una posizione che non consentiva la ripresa della respirazione né la possibilità di rianimarlo o anche solo di mettergli davanti alla bocca la mascherina dell’ossigeno. Andrea da allora non aveva mai ripreso conoscenza. Arrivato in ospedale, le manovre salva vita non avevano più avuto alcun effetto. Un dei volontari che guidava l’ambulanza del 118 che aveva assistito al tutto, sconvolto da quanto stava osservando, aveva chiamato la centrale confidando alla dottoressa che aveva risposto: «Lo hanno preso al collo... lo hanno fatto un po’ soffocare…Mi hanno detto di caricarlo, ma siccome aveva le manette ed era a pancia in giù non volevo farlo e ho detto di no. Ma loro me l’hanno ordinato e io l’ho lasciato così, a pancia in giù». Se Andrea fosse stato soccorso a dovere durante il viaggio, forse sarebbe ancora vivo. Per questo la procura contesta una «morte asfittica da strangolamento atipico aggravata dalla modalità di trasporto». In realtà c’è anche chi sostiene di avere visto morire Soldi già ai giardinetti. Un anziano frequentatore del bar aveva dichiarato al Corriere.it: «Appena lo hanno messo sulla barella ha tremato forte. Per due o tre volte le gambe, che non controllava più, hanno sbattuto contro il lettino. Tac, tac, tac. Poi è stato immobile. Di colpo. Sono sicuro, è morto in quel momento. Lo hanno ammazzato». Secondo il cugino nonché legale della famiglia, l’avvocato Giovanni Maria Soldi, «questa prima relazione autoptica conferma la brutalità dell’intervento e la manovra e il modo impropri in cui è stato trattato. Nonché la mancanza di un soccorso corretto e opportuno, quando, cosa ancora più grave, il soggetto era già in condizioni gravissime». La procura adesso lavora proprio su questo fronte: i vigili che hanno bloccato Andrea erano preparati per trattare con pazienti come Andrea? Chi e come li ha addestrati a praticare certe mosse? Che non si possa ammanettare un uomo quando è riverso a terra svenuto è un principio di buon senso universalmente conosciuto.
Andrea Soldi, cronaca di una morte psichiatrica. Dal 5 agosto. Quello che è emerso sulla morte di Andrea Soldi, 45 anni. Strappato dalla panchina, dove stava seduto, per essere ricoverato in ospedale. Contro la sua volontà. Come prevede ogni Trattamento sanitario obbligatorio. Solo che lui ne è morto, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”.
5 AGOSTO 2015 - la morte. Un nome. Andrea Soldi. Anni, 45. Peso: 115 chili. Ammazzato mentre era nelle mani dello Stato per un Tso, un Trattamento sanitario obbligatorio, previsto per i pazienti in escandescenza che stiano rischiando di diventare un pericolo per sé e per gli altri. Andrea, dicono i testimoni, era tranquillo in quel momento. Ma non prendeva le sue medicine da troppo tempo. «La procura di Torino ha aperto un'inchiesta sulla morte di Andrea Soldi deceduto all'ospedale Maria Vittoria dopo un Tso», scrive l'Ansa. Si inizia a spiegare che è stato il padre a chiedere l'intervento, preoccupato perché da mesi il figlio non seguiva le cure. L'Asl To2 precisa il giorno stesso in una nota «che il paziente è giunto già in arresto respiratorio presso il pronto soccorso, dove è stato immediatamente preso in carico dal rianimatore, che lo ha sottoposto a rianimazione cardiopolmonare prolungata, purtroppo invano. Per comprendere le cause, lo stesso ospedale ha richiesto l'autopsia, che verrà eseguita già domani».
6 AGOSTO - le testimonianze. Non è solo, in piazza, Andrea Soldi, quando gli agenti della polizia municipale cercano di portarlo via. Ci sono persone al bar di fronte a lui, che da subito rilasciano testimonianze. Portano in procura cellulari dentro cui sono conservato foto che mostrerebbero quello che è successo. Loro raccontano di Andrea stretto al collo da un vigile, col viso cianotico. Ma soprattutto parlano, ripetono di quel braccio intorno al collo che gli avrebbe messo un agente, facendolo soffocare. Spiegano l'accaduto ai giornalisti ma non solo. Fanno la coda, per portare la loro testimonianza in tribunale, al pm Raffaele Guariniello che ha preso in carico l'indagine. Dalla proprietaria cinese del bar all'angolo a un ex carabiniere in pensione, dai rumeni che lì passavano del tempo ai vicini, tutti vanno a raccontare quello che sanno del "gigante buono" ucciso da un Tso. Anche la polizia municipale manda una sua relazione in procura, dalla quale, dice l'amministrazione comunale: «Non emergono fatti di particolare rilevanza nel comportamento degli operatori». Iniziano così a farsi largo due versioni discordanti. Gli operatori coinvolti (gli agenti di polizia, e lo psichiatra arrivato sul posto) e alcuni testimoni presenti.
7 AGOSTO - Il dolore. «Mio fratello era malato. Soffriva di schizofrenia sin dal 1990. Ma era un buono, non aveva mai fatto del male a nessuno. Era già stato sottoposto a trattamenti sanitari e non aveva mai dato problemi. Non doveva essere ammanettato. Non doveva essere preso per il collo. Non doveva finire così». Parla la sorella di Andrea, Cristina Soldi: «Non accuso nessuno», dice: «Chiedo solo che venga fatta chiarezza. Che non venga insabbiato nulla». Sulla panchina dove Andrea stava seduto quel giorno si affollano cartoline, fiori, foto, messaggi di commozione. «Da quanto mi è parso di capire», interviene l'avvocato di famiglia, Giovanni Maria Soldi: «ci sono versioni discordanti. Ma io ho fiducia in Guariniello». Il sindaco di Torino, Piero Fassino, lo chiama per esprimere cordoglio e vicinanza a nome della città: «Sin da subito», scrive il municipio in una nota: «le autorità comunali, dopo aver segnalato per prime l'episodio alla magistratura, si sono messe a disposizione degli inquirenti fornendo la più completa e fattiva collaborazione». La polizia municipale avrebbe avviato un'indagine interna e i tre vigili sarebbero stati trasferiti "in via prudenziale" ad altri incarichi.
8 AGOSTO - Le indagini. I tre vigili urbani e lo psichiatra che ha eseguito il Tso vengono iscritti nel registro degli indagati. Vengono interrogati i testimoni. Molti parlano di «maniere troppo forti». Si aspetta l'autopsia.
9 AGOSTO - Lo psichiatra. «Sono addolorato, ma non ho nessuna colpa», dice lo psichiatra indagato attraverso il suo avvocato, Anna Ronfani, che specifica: «Dal punto di vista clinico, il mio assistito è convinto di avere fatto tutto quanto necessario e opportuno. Ha seguito il protocollo alla lettera e ha grandissima amarezza per un risultato totalmente fuori dalla sua previsione e dalla sua volontà, anche perché era un paziente che conosceva da tempo».
10 AGOSTO - L'autopsia. Se ci si aspettava risposte dall'autopsia, la risposta non c'è. Almeno, non è univoca. L'autopsia apre subito spazio a ulteriori interpretazioni. Secondo l'esame autoptico infatti Andrea non sarebbe stato strangolato. Niente braccio intorno al collo, come raccontano i testimoni? I medici sembrano escludere "l'asfissia meccanica". Ma. Ma evidenziano «segni di compressione toracica». Che secondo i consulenti della famiglia Soldi sarebbero legati alla morte dell'uomo. Mentre per l'avvocato dello psichiatra «è il momento di astenersi da qualsiasi giudizio». Andrea sarebbe comunque arrivato in ospedale in arresto cardiaco e sarebbe morto poco dopo.
11 AGOSTO - l'ambulanza. Emerge un altro pezzetto di verità. Una verità forse ancora più preoccupante di quanto si intuiva. Andrea sarebbe stato bloccato. Ammanettato. E caricato in ambulanza a faccia in giù. A faccia in giù. Così che agli operatori sanitari finisse per essere impossibile rianimarlo. Lasciarlo respirare. Con quel collo stretto troppo a lungo in precedenza che avrebbe ridotto la circolazione del sangue, il respiro, la coscienza. Il medico legale, Valter Declame, parla infatti di «choc da compressione latero-laterale al collo». Un tipo di presa che secondo Declame non può durare più di 15 secondi, altrimenti causa quanto sopra. I consulenti dello psichiatra ovviamente contestano "aspramente" questa versione: «La causa del decesso non può essere quella», dicono: «Se strangoli qualcuno, la morte è immediata. Altro che venti o trenta minuti». L'11 agosto è anche il giorno della camera ardente. Della sorella Maria Cristina che chiede che le «cose cambino. Il Tso va eseguito solo quando non c'è altro da fare. Le persone devono essere preparate. E le famiglie dei malati non possono essere lasciate sole. Andrea doveva fare un'iniezione ogni mese, ma era da sette mesi che non le faceva». Lei è posata. Seria. Cerca già di dare a quel lutto così doloroso - la perdita del fratello - un significato e un orizzonte per gli altri. Ma non tutti hanno la stessa sensibilità. Il giorno stesso infatti arriva la polemica del sindacato di polizia Coisp: «Prima ci chiamano, poi ci lapidano», è quel che riesce a scrivere: «Gli operatori eseguono gli ordini e poi vengono criminalizzati».
12 AGOSTO - Il funerale. «Nel nostro cuore c'è tantissimo dolore, ma non c'è rancore», dice don Primo Soldi, zio della vittima, al suo funerale nella chiesa delle Stimmate di San Francesco d'Assisi. Fra i presenti il vicesindaco e il comandante della polizia municipale. Ci sono anche i dirigenti di una squadra di calcio cittadina, il Victoria Ivest, dove Andrea, prima della malattia, allenava nelle giovanili.
13 AGOSTO - la telefonata. Emerge un altro pezzo di verità. Una telefonata fra l'equipaggio dell'ambulanza e la centrale del 118. Uno degli elementi raccolti dai carabinieri del Nas che indagano sulla morte di Andrea Soldi. In cui il soccorritore avrebbe detto che Andrea «è stato preso al collo» e «un po' soffocato». Parlerebbe poi di un «intervento un po’ invasivo» e dell’ordine ricevuto di caricare Andrea ammanettato dietro la schiena e «a faccia in giù».
Morto per un Tso, il dialogo tra il volontario e la centrale del 118: "Urca, speravo ce la facesse". Nelle cinque telefonate tra il barelliere e la sede esce una versione nitida di quel che è accaduto quel pomeriggio in piazza Umbria. E poi nel pronto soccorso del Maria Vittoria, quando i vigili si impossessano del verbale, scrive Emilio Vettori su “La Repubblica”. Andrea Soldi, aveva 45 anni. L'audio rimane blindato dentro tre scrivanie. Ma a spizzichi e bocconi è ormai possibile ricostruire il dialogo tra il barelliere della Croce Rossa di Beinasco e la centrale operativa del 118 mentre si consumava il dramma di Andrea Soldi, 45 anni, affetto da vent'anni da schizofrenia, morto durante un Tso, trattamento sanitario obbligatorio. Teatro: piazza Umbria, dove nel pomeriggio di mercoledì 5 agosto, i tre agenti della pattuglia "Pegaso 6" dei vigili urbani di Torino, chiamati dallo psichiatra Pier Carlo Della Porta dell'Asl2 che da tre anni segue l'uomo, scelgono la forza per indurre Soldi a salire sull'ambulanza per raggiungere l'ospedale Maria Vittoria. Qualcosa va storto ("è stato trattenuto per il collo troppo a lungo" sentenzia nel suo verbale il perito scelto dalla procura per l'autopsia), Soldi cade a terra svenuto. Viene caricato in ambulanza, con le manette, prono, cioè a testa in giù. Cinque telefonate tra il barelliere e la centrale, dove un medico donna invita il ragazzo - ha ventidue anni - a stare tranquillo e a non farsi intimidire ricostruiscono uno spezzone di quel mercoledì tragico.
Il volontario: "Sono per l'intervento di piazza Umbria. Lo hanno caricato in ambulanza contro il regolamento, ammanettato e a pancia in giù..."
La centrale: "Portatelo al Maria Vittoria".
Il volontario: "Non è questo il problema. Volevo dire che non ho mai visto una cosa così...Hanno preso il paziente per il collo. Lo hanno fatto, come dire, un po' soffocare. Non respira bene. Non si poteva metterlo in lettiga in questo modo. E poi le manette".
La centrale. "Devi dirlo al medico, parla con il medico".
Il volontario: "Lo abbiamo detto al medico, sia io sia le mie colleghe. Ma lo psichiatra mi ha detto di lasciarlo a testa in giù. Mi ha ordinato di lasciarlo così".
Sette minuti dopo la partenza da piazza Umbria, Andrea Soldi arriva al pronto soccorso del Maria Vittoria: "In arresto respiratorio" terrà a sottolineare poche ore dopo un comunicato ufficiale. Sull'ambulanza le condizioni dell'uomo peggiorano ulteriormente. Il vigile che è con lui tenta di allentare le manette, l'infermiere prova a dargli l'ossigeno, ma la posizione prona non aiuta. Mentre i medici tentano un'inutile rianimazione, il barelliere chiama ancora una volta la centrale.
Il volontario: "Qui ci sono i vigili che vogliono il mio verbale. Che cosa devo fare?".
La centrale: "Tu non glielo devi consegnare. Se ne hanno bisogno, ne chiederanno una copia in via ufficiale alla centrale, come sempre si fa in questi casi. Conoscono la procedura".
Passano pochi minuti e il barelliere torna a collegarsi con la centrale.
Il volontario: "Dottoressa, mi hanno strappato il verbale di mano e fotografato con il cellulare".
La centrale: "Ho capito. Che cosa vuoi farci. Il mondo è dei furbi e dei prepotenti".
Mentre l'ambulanza rientra a Beinasco, i medici del Maria Vittoria si arrendono: un'ora di tentativi sono stati vani, Andrea Soldi viene ufficialmente dichiarato morto. Il volontario chiama per l'ultima volta la centrale.
Il volontario: "Dottoressa, come sta quel ragazzo?"
La centrale: "Purtroppo è morto".
Il volontario: "Urca. Speravo proprio ce la facesse".
“La libertà sospesa. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio e le morti invisibili". "Potrebbe succedere a chiunque nel nostro Paese: attraversi in macchina l'isola pedonale, contravvenendo al codice della strada, e invece di essere multato vieni inseguito e arrestato da vigili urbani, carabinieri e guardia costiera sulla spiaggia. Poi, con il TSO, sei rinchiuso nel reparto di psichiatria dell'ospedale della tua zona, sedato, legato, non ti viene dato né da bere, né da mangiare, ai familiari è impedito di visitarti"... Così scrive Giuseppe Galzerano nel suo intervento in questo libro. Galzerano descrive l'esperienza di un suo amico, Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare, morto dopo più di quattro giorni di letto di contenzione cui era stato costretto per un TSO. Il processo contro i responsabili della "reclusione" è in corso.
La libertà sospesa. TSO, psicologia, psichiatria, diritti è il nuovo titolo di Fefè Editore dedicato al Trattamento Sanitario Obbligatorio psichiatrico, a cura di Renato Foschi (Università Sapienza di Roma). Un argomento di estrema attualità: è recente la condanna in primo grado di alcuni medici giudicati responsabili della morte del maestro Francesco Mastrogiovanni, deceduto in regime di TSO dopo cinque giorni di letto di contenzione, senza acqua né cibo. Il TSO rappresenta una “eccezione” al diritto costituzionale per cui, poste certe condizioni (urgenza, mancanza di presidi extra-ospedalieri e rifiuto delle cure), al cittadino – con un provvedimento del sindaco – sono sospesi, per sette fino a quindici giorni, alcuni diritti elementari. Secondo i dati ISTAT, in Italia, nell’ultimo decennio si sono effettuati ogni anno oltre 10.000 trattamenti psichiatrici “obbligatori”. Sono, inoltre, in discussione progetti di legge finalizzati ad estendere le possibilità di applicazione del TSO. Parlare del TSO vuol dire aprire scenari drammatici, a volte veri e propri orrori umani e familiari, che rimangono sotterranei e riescono a raggiungere l’opinione pubblica solo in casi estremi come quello di Mastrogiovanni. Scenari che meriterebbero l’attenzione quotidiana dei cittadini più accorti e sensibili, e delle “pubbliche autorità” (giudici, medici, sindaci, ecc.) da cui l’applicazione del TSO dipende. In questo libro a più voci di Fefè Editore, curato da Renato Foschi, ne scrivono oltre allo stesso Foschi, psicologi, psichiatri, giuristi e giornalisti: Giuseppe Allegri, Giorgio Antonucci, Ines Ciolli, Gioacchino Di Palma, Giuseppe Galzerano, Nicola Viceconte, Philip G. Zimbardo. Con la chiusura di Ascanio Celestini.
La Libertà Sospesa. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio. Psicologia, Psichiatria, Diritti. Fefè editore ha, da poco, pubblicato un volume da me curato sul Trattamento Sanitario Obbligatorio in psichiatria. Pochi conoscono l’argomento. Il progetto è partito dalla conoscenza della morte di Francesco Mastrogiovanni, che ha scoperchiato un Vaso di Pandora fatto di coercizioni e morti durante un trattamento sanitario che vorrebbe essere invece aiutare il paziente (i morti durante i TSO non sono un numero irrilevante). Il TSO è un dispositivo contenuto nella L. 180/78 (cosiddetta Legge Basaglia) e poi nella 833/78 (Legge di istituzione del SSN) che consente la sospensione della libertà individuale e il ricovero coatto sulla base di una ordinanza del sindaco e due certificati medici che sanciscano l’urgenza del caso. Le condizioni per attuare un TSO sono, quindi, (1) l’urgenza, (2) la mancanza di possibilità di cura extra-ospedaliera, e (3) il rifiuto di cure da parte del paziente. Il TSO dura sette giorni ed è ripetibile una volta in sequenza e più volte nel corso della vita. Il libro fa luce su alcuni aspetti giuridici, psicologici e psichiatrici legati al TSO su cui ritengo sia bene riflettano sia gli operatori (medici, infermieri, psicologi), sia i pazienti. A mio parere, il problema principale della epistemologia della medicina è la difficoltà a fare i conti con la ragionevolezza di certe “malattie”, continuando a “ristrutturarle” sulla base di nuove cure e terapie…le malattie psichiatriche, sotto questo aspetto, sono prototipiche. Certo se poi qualcun altro che non sia il malato, ci guadagna, sarà difficile andare oltre la retorica. Ad. es. quanto costa un TSO al giorno? Quanto costa la somministrazione di un nuovo farmaco antipsicotico? Una giornata di ricovero in Italia varia dai 600 ai 900 euro e ci sono neurolettici che possono arrivare a costare molto. I reparti psichiatrici italiani sulla base di circa 10000 TSO all’anno (dati ISTAT) riescono ad avere quindi dei rimborsi milionari. Inoltre a prescindere dalla bontà dei sistemi di cura e di diagnosi psichiatrica – che sono costantemente messi sotto accusa da un numero crescente di studiosi ed expazienti-, le cure coercitive partono dall’idea che ci siano casi in cui sia necessario sospendere la libertà individuale come se il paziente potesse sempre essere potenzialmente un pericoloso criminale. Come generalmente si temono i criminali, così si si può temere il malato di mente; si crea, quindi, un sistema di controllo valido per entrambi. La preoccupazione dei fautori del TSO per il malato (e ci sono alcuni progetti di legge che vogliono che diventi una pratica più lunga) potrebbe, dunque, in primo luogo mascherare preoccupazioni di altro genere. Sul versante positivo, dobbiamo affermare anche che negli ultimi 150 anni non c’è stata solo una psicopatologia psichiatrica controllante e coercitiva, ma c’è stata anche una storia diversa creata da persone che si sono autonomizzate dal proprio contesto e che sono state in grado di vedere le cose dall’alto…Freud, Janet, Montessori, Basaglia, Foucault…e con queste ci sono state moltissime altre personalità, meno note, forse più discrete, che però hanno grandemente contribuito alla lunga e mitologica saga che contrappone le persone libere da quelle che vivono nella preoccupazione. Sono lieto soprattutto perché alcune di queste persone libere (e qualcuno degli autori ha già lasciato dei tagli nella storia della psicologia e della psichiatria) hanno contribuito alla scrittura del volume da me curato.
Andrea Soldi: 25 anni, ucciso su una panchina a Torino. Bloccato e ammanettato da due vigili urbani per un Trattamento sanitario obbligatorio, il ricovero coatto nei reparti di Psichiatria previsto in casi eccezionali di pericolo. È l'ultima di una serie di vittime. C'è Mauro Guerra, 33 anni, che fuggiva da un arresto per Tso solo pochi giorni fa, nei campi della bassa padovana. È stato ucciso da un colpo di pistola sparato da un carabiniere. Ci sono poi i casi di Franco Mastrogiovanni e Giuseppe Casu, morti invece mentre erano nelle mani dei medici dentro gli ospedali. Ecco le loro storie. Per non dimenticare, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”.
Morto durante il Tso, trasferiti i tre vigili della pattuglia. La sorella della vittima: "Non insabbiate nulla". Cordoglio del sindaco per la tragedia di piazzale Umbria, polizia municipale sotto accusa: i tre agenti sono stati "assegnati a servizi non operativi". Fassino: "Massima severità se emergeranno responsabilità personali". I parenti della vittima in procura dal pm Guariniello che ha aperto un'inchiesta, scrive Gabriele Guccione su “La Repubblica”. Il sindaco Piero Fassino ha telefonato questa mattina ai familiari di Andrea Soldi, l’uomo di 45 anni morto mercoledì pomeriggio del 5 agosto 2015 durante un ricovero forzato eseguito da una pattuglia dei vigili urbani, dal Centro di salute mentale dell’Asl 2 e dagli infermieri del 118 ai giardinetti di piazzale Umbria. Un intervento che, è l'accusa dei testimoni e degli amici della vittima, sarebbe stato messo in atto con violenza immotivata: "Andrea era tranquillo, i vigili in borghese lo hanno preso per il collo, alle spalle. Mentre lo stringevano aveva la lingua fuori e non respirava più. Lo hanno caricato in ambulanza a faccia in giù, ammanettato". I tre vigili si sono difesi dicendo che l'uomo aveva dato in escandescenze ma questa circostanza non ha per ora trovato conferma tra i testimoni. L'ospedale Maria Vittoria ha riferito che Soldi, all'arrivo al pronto soccorso, era "già in arresto respiratorio" e che le manovre rianimatorie "non hanno purtroppo avuto successo". tre vigili della pattuglia, annuncia il Comune, sono stati intanto trasferiti: "Il comandante della Polizia municipale, Alberto Gregnanini - dice una nota - allo scopo di raccogliere ogni elemento di verità utile ai primi atti disposti dalla Procura, ha promosso un approfondimento sulle modalità dettagliate dell'intervento di mercoledì e ha disposto, in via prudenziale, l'assegnazione dei tre agenti coinvolti a servizi non operativi". Il sindaco Piero Fassino ha aggiunto che "se verranno rilevate delle responsabilità personali, queste dovranno essere perseguite con rigore e con la massima severità". “Intendo manifestarvi il cordoglio della città intera per questo grave lutto che vi ha colpito”, si sono sentiti dire, da Fassino, il padre Renato (che dopo aver parlato con i testimoni in piazza ha dichiarato "Mio figlio è stato ammazzato con cattiveria"), la sorella Cristina e il cugino avvocato Giovanni Maria Soldi, che si sta occupando del caso. “Da parte nostra – ha aggiunto il primo cittadino – assumeremo tutte le misure e svolgeremo tutti gli accertamenti del caso per fare luce su questo tragico episodio”. "Chiedo che venga fatta luce sulla morte di mio fratello. E che non venga insabbiato nulla". Lo ha detto la sorella della vittima, che stamattina ha accompagnato in procura il cugino avvocato Giovanni Maria Soldi per un incontro con il pm Raffaele Guariniello che sta indagando sull'episodio. "Mio fratello - ha raccontato Cristina - era malato. Soffriva di schizofrenia dal 1990. Ma era già stato soggetto a trattamenti sanitari e non c'era stato alcun problema. Era un buono e non aveva mai fatto del male a nessuno. Mezz'ora prima rideva e scherzava: non doveva essere ammanettato, non doveva essere trattato in quel modo. Non doveva finire così". L'avvocato Soldi ha detto di essere stato chiamato dal sindaco, Piero Fassino: " Ha espresso la sua vicinanza e il cordoglio della Città, e ha affermato che, per quanto possibile, stanno acquisendo ogni informazione utile. Quanto all'inchiesta, per quello che mi pare di capire ci sono versioni discordanti. Bisognerà trovare la quadra. Ma ho fiducia in Guariniello". La famiglia Soldi, questa mattina, prima di andare dal pm, ha fatto un sopralluogo in piazzale Umbria alla ricerca di testimoni. In mattinate è andato in procura anche il comandante dei vigili urbani Alberto Gregnanini.
In nove foto la verità sulla morte di Andrea. L’inchiesta della procura torinese sulla tragedia del Tso. Raffica di interrogatori in piazza Umbria: i militari del Nas sequestrano un telefonino, scrive Massimiliano Peggio su “La Stampa”. «Sono due giorni che non dormo. Una cosa del genere non mia era mai capitata. La vicenda ha avuto una dinamica complessa. Mi sento vicino ai familiari e rispetto il loro dolore». Così diceva ieri pomeriggio l’infermiere dell’Asl To 2 uscendo provato dopo un lungo interrogatorio in Procura, di fronte alla polizia giudiziaria del pm Raffaele Guariniello. L’infermiere è stato il primo dei sanitari interrogati, collaboratore del dottor Pier Carlo Della Porta, lo psichiatra del servizio territoriale che da tempo seguiva Andrea Soldi, l’uomo di 45 anni morto durante un Tso, malgrado il ricovero al Maria Vittoria. Lui e il medico, con altro personale di un’ambulanza, erano presenti in piazzale Umbria per eseguire il ricovero forzato concordato con i familiari di Andrea, per il quale era stato chiesto l’intervento della pattuglia dei vigili urbani. Sempre ieri sono stati sentiti la sorella della vittima, Cristina e il papà Renato, accompagnati dal loro legale, Giovanni Maria Soldi. Per ora non ci sono iscrizioni formali nei confronti dei vigili urbani o di altro personale. Si attende il risultato dell’autopsia che sarà eseguita dal responsabile della medicina legale dell’ospedale di Alessandria, Valter Declame. Ma di fatto gli investigatori stanno raccogliendo gli elementi d’indagine ipotizzando profili di reato di omicidio colposo o lesioni colpose gravi, che hanno portato alla morte. Stando infatti ai primi accertamenti sul corpo di Andrea, le tracce riscontrate dai sanitari sarebbero compatibili con quelle di un’asfissia. E su questo solco hanno lavorato ieri i carabinieri del Nas di Torino, cui il pm ha affidato l’incarico di raccogliere le testimonianze delle persone che hanno assistito al Tso, mercoledì scorso, in piazzale Umbria. Il primo passo è stato sequestrare il telefonino del pensionato, ex carabiniere in pensione, che dalla sua finestra di casa ha fotografato l’ultima fase dell’intervento dei vigili, ritraendo Andrea a terra, con le mani ammanettate dietro la schiena, immobile, a faccia in giù. Il suo telefonino contiene 9 foto che saranno raccolte in un cd e inviate già in giornata al pm con una prima informativa, con i verbali delle testimonianze. Una decina in tutto. Quella dello stesso pensionato che ha assistito a tutta la scena e quella di Maria Ifrim, romena, che si trovava con il figlioletto nei pressi del bar Ari’s, con altri connazionali. Preziosa, inoltre, la testimonianza di un impiegato delle poste che era seduto sulla panchina accanto a quella occupata da Andrea. Ha visto il suo volto scurirsi e diventare cianotico, fino agli spasmi. Lo ha visto caricare sull’ambulanza ammanettato, a pancia in giù, proprio lui che era un omone di 150 chili. Anche la direzione sanitaria dell’Asl To 2 ha avviato «accertamenti interni», richiedendo una relazione sull’accaduto al servizio psichiatrico. Anche Giuseppe Uva venne ricoverato per un trattamento sanitario obbligatorio. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il TSO".
Padova. Rifiuta il Tso, aggredisce i carabinieri che gli sparano: ucciso. Mauro Guerra, 30 anni, aggredisce un carabiniere e scappa: freddato dal collega. La tragedia nei campi di Carmignano di Sant'Urbano. E la famiglia chiede chiarezza. Il carabiniere che ha sparato iscritto nel registro degli indagati per omicidio colposo, scrive “Il Mattino di Padova" il 30 luglio 2015. E' stato iscritto nel registro degli indagati per omicidio colposo il carabiniere che ha sparato e ucciso Mauro Guerra, il giovane che era scappato dopo aver rifiutato il trattamento sanitario obbligatorio. Un gesto dovuto da parte della procura di Rovigo (competente nel territorio della Bassa) anche per permettere al militare di nominare un difensore che potrà essere presente alle prove balistiche e alle ricostruzioni dell'accaduto. Intanto è stato dimesso il carabiniere che era stato aggredito da Guerra. Fatto che ha portato il collega militare a sparare e uccidere il giovane. Il carabinieri ferito è stato dimesso con una prognosi di 30 giorni per le 6 costole fratturate e i colpi alla testa ricevuti da Guerra. Hanno ucciso un uomo nudo e disarmato. L’hanno freddato i carabinieri in mezzo alla campagna. Mauro Guerra, 33 anni, laureato in Economia aziendale, dipendente di uno studio di commercialista di Monselice, buttafuori per arrotondare in un locale di lap dance, pittore e designer per passione, è morto dissanguato dopo che un colpo di pistola gli ha oltrepassato il fianco destro. È successo ieri a Carmignano di Sant’Urbano, un paese dove tutti conoscono i carabinieri per nome. Lì la gente li conosce uno per uno perché loro sono la Legge. Solo che quella stessa Legge, ieri, ha tolto la vita a un uomo disarmato. Violento ma disarmato. Gli ha sparato il comandante di stazione, il maresciallo Marco Pegoraro, insediato appena tre mesi fa nel comando che copre una vasta zona rurale tra l’estremo lembo della provincia di Padova e l’inizio di quella di Rovigo. Due colpi in aria e uno al fianco (anche se alcuni testimoni dicono di aver sentito quattro botti) con la sua Beretta calibro 9 di ordinanza. Voleva salvare un collega. Voleva fermare il trentatreenne per togliergli dalle grinfie Stefano Sarto, 47 anni, brigadiere del nucleo Radiomobile di Este, l’unico a rincorrere Mauro Guerra mentre questo, scalzo e in mutande, provava a fuggire attraverso i campi. Il militare l’ha raggiunto dopo una corsa sfiancante sotto il sole cocente. Seppur stremato è riuscito a stringergli una manetta al polso. Sembrava tutto finito. La trattativa estenuante iniziata poco prima delle 13 per un trattamento sanitario obbligatorio pareva essere giunta a conclusione. Ma dopo un accenno di remissione Guerra ha reagito in modo brutale. È riuscito a liberarsi dalla stretta e ha iniziato a colpire il brigadiere alla testa con le manette. Il militare è finito a terra e lui, cento chili per un metro e ottanta, ha continuato a infierire. Il comandante di stazione ha visto la scena da lontano. Ha intimato l’alt. Ha sparato due colpi in aria ma la brutale aggressione continuava. Così ha mirato e ha fatto fuoco ancora, stavolta puntando la canna dell’arma sul corpo nudo che copriva il collega a terra. Il colpo ha trafitto il giovane al fianco, gli ha tolto in un attimo forze e respiro. La rabbia della sorella Elena, che ha cercato inutilmente di avvicinarsi alla salma. I familiari: «Ci nascondono qualcosa». E c’è chi ha pensato al caso Aldrovandi. Medici e infermieri presenti per ultimare il trattamento sanitario obbligatorio sono accorsi per tamponare la ferita. Cinquanta minuti di massaggio sul posto. L’elisoccorso che parte da Treviso. Le pattuglie dei carabinieri che si moltiplicano. Operai che escono dalle fabbriche. Residenti che accorrono in strada. Sembrava potesse farcela ma alla fine il suo cuore si è fermato. Mauro Guerra è morto poco prima delle 16. «Nemmeno un cane si uccide in questo modo», gridava la sorella Elena trovando la solidarietà di tutti i compaesani. Una personalità complessa quella di questo ragazzo cresciuto con i genitori nell’abitazione di via Roma 36. Costituzione robusta e animo sensibile. Passione per la cultura fisica ma propensione per l’arte. Ci metteva poco a venire alle mani, Mauro Guerra. Con la stessa facilità, poi, ti poteva parlare dell’amore e della fede in Dio. Aveva fatto il militare in uno dei reparti più duri: i carabinieri paracadutisti. Poi la sorte l’aveva allontanato dalle forze armate e aveva scelto di proseguire con gli studi. Il suo era un caso noto. In questi ultimi anni aveva perso i punti cardinali e, a volte, esagerava con le reazioni. Lo sapevano i medici del paese, lo sapeva il sindaco e lo sapevano anche i carabinieri. Il suo atteggiamento era facilmente fraintendibile. A tratti molesto. In genere mandava messaggi via Facebook ma qualche giorno fa si è spinto oltre. Ha inviato un mazzo di fiori a casa di una ragazza del posto, una ventenne che evidentemente gli piaceva. Lei che lo conosceva è corsa dai carabinieri a raccontare tutto e in quel momento si è attivato tutto l’apparato previsto per legge quando si annusano casi di possibile stalking commessi da persone potenzialmente border line. Probabilmente, in quel momento, le autorità hanno deciso di agire. Ieri verso mezzogiorno sono stati i familiari a segnalare il precario equilibrio umorale di Mauro Guerra. Quando la pattuglia del nucleo Radiomobile si è presentata davanti a casa, il trentatreenne è uscito in cortile nudo. Indossava solo le mutande. Sudava e parlava a sproposito. Sosteneva di voler parlare con un certo “Vito”, militare in forze alla stazione di Carmignano che evidentemente lui conosceva bene. Ma i protocolli previsti in questi casi sono rigidi e chi deve essere preso in consegna dall’autorità sanitaria non può scegliersi questo o quel carabiniere. Così gli animi si sono scaldati in un attimo. Mauro entrava e usciva di casa. I militari gli parlavano e lui non li ascoltava. Si innervosiva sempre di più e non dava retta a nessuno, nemmeno ai genitori. Medici e infermieri dell’ambulanza, partiti dal pronto soccorso dell’ospedale di Schiavonia per un “codice verde”, sono stati avvisati strada facendo che la situazione si stava complicando. E dalla prospettiva di un semplice ricovero in Psichiatria, si sono trovati a dover praticare la tracheotomia a un giovane dissanguato. Ora i compaesani piangono per Mauro Guerra. Piangono per la morte di un ragazzo che hanno visto nascere. Piangono perché stavolta a sparare è stata la Legge.
Legato, sedato ed infine ucciso. L'assurda morte di Giuseppe Casu per Trattamento Sanitario Obbligatorio. Un uomo è morto dopo sette giorni di ricovero nel reparto di psichiatria dell'ospedale di Cagliari. Ora i giudici d'appello hanno confermato l'assoluzione dei medici. Scrivendo però che si tratta di un "macroscopico caso di malasanità". E la figlia chiede: "Diventi un esempio". Perché non si ripetano vicende come questa, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Si chiamava Giuseppe Casu. Faceva l'ambulante. Ed è morto dopo essere rimasto per sette giorni legato a un letto d'ospedale. I medici che lo hanno tenuto in queste condizioni sono stati assolti, anche in secondo grado. Ora però i giudici della corte d'appello di Cagliari hanno chiarito le motivazioni della sentenza. Di una assoluzione che, dicono, ha molti “ma”. Perché si tratta, scrivono i magistrati, di un «macroscopico caso di malasanità». Di una vicenda «dall'evoluzione incredibile» che deve essere conosciuta. Anche perché non è poi così “anormale” come sembra. La morte di Giuseppe Casu inizia il 15 giugno del 2006, quando viene ricoverato contro la sua volontà nel reparto di psichiatria dell'ospedale Santissima Trinità di Cagliari: un Tso (trattamento sanitario obbligatorio) attivato d'ufficio di fronte alla sua agitazione contro le forze dell'ordine a causa dell'ennesima multa per abusivismo. Arrivato in corsia viene sedato, legato al petto, alle mani e ai piedi, e portato in una stanza. Quel giorno può vederlo solo la moglie. «Io l'ho visto dopo», racconta la figlia, Natascia: «Era addormentato, faceva fatica a parlare». Le “cure” (il virgolettato è dei giudici) continuano: psicofarmaci, controlli, visite. Nessun elettrocardiogramma. Nessun colloquio verbale: il 20 giugno il primario vorrebbe parlare con lui ma non riesce, è troppo sedato. Nonostante questo stabilisce una diagnosi: disturbo bipolare maniacale. L'unica patologia riconosciuta negli anni al venditore ambulante era stata un disturbo di personalità non meglio identificato e una leggera epilessia giovanile tenuta sotto controllo dai farmaci. Ma nelle mani dei medici arriva col fiato che puzza d'alcol (i parenti e il medico di famiglia informano il giorno stesso del fatto che non era mai stato un alcolizzato - quella mattina sì, aveva una bottiglia di moscato), e in stato di “evidente agitazione”. Fra i fratelli poi ci sono persone con disturbi mentali. Così per il dottor Gianpaolo Turri, la dottoressa Maria Rosaria Cantone e la loro équipe la diagnosi è fatta. E nonostante i dubbi, senza altri esami clinici, inseriscono fra i farmaci una sostanza indicata per gli alcolisti a rischio crisi d'astinenza. «Mi hanno preso per pazzo, chiamate i carabinieri», dice un giorno Giuseppe ai parenti in visita. «Non ero mai stata di fronte a uno psichiatra, non sapevo nemmeno cosa fosse un Tso», racconta Natascia: «Non avevo pregiudizi, motivi di temere. Mi son fidata dei medici e basta». Sui farmaci, le costrizioni, i lamenti, lei e i fratelli non sanno cosa dire. Chiedendo quando sarebbe stato slegato, accettano. Aspettano. Fino a che il 22 giugno non arriva la notizia: è morto. La prima autopsia parla di una tromboembolia all'arteria polmonare. Da questo partono gli avvocati ingaggiati da Natascia, accompagnata da Francesca Ziccheddu, fondatrice del comitato "Verità e giustizia per Giuseppe Casu ", e Gisella Trincas, portavoce di molte associazioni di familiari, per sostenere l'accusa di omicidio contro i responsabili di reparto: la costrizione fisica sarebbe stata, per loro, all'origine di quell'embolia. Ma qui inizia “l'incredibile evoluzione della vicenda” di cui scrivono i giudici della corte d'appello di Cagliari. Perché parallelamente al processo che si avvia contro i camici bianchi del servizio di psichiatria, iniziano le udienze per il primario di anatomopatologia dello stesso ospedale, Antonio Maccioni, e di un suo tecnico. L'accusa è di aver occultato parti del cadavere di Giuseppe Casu e di averle sostituite con quelle di un altro paziente deceduto. I giudici di primo e di secondo grado confermano: colpevoli, e condannano il primario a tre anni di carcere. Ma poiché la sentenza non è ancora definitiva, non ha ancora superato l'ultimo grado della corte di Cassazione, il processo sulla morte di Casu non può tenere conto degli esiti. Il dibattimento su cosa (e chi) ha ucciso quindi Giuseppe Casu continua, tralasciando il fatto che i reperti dell'autopsia siano tutti potenzialmente scorretti. La tromboembolia diventa difficile da dimostrare, e i tecnici della difesa convincono i togati che si tratti di "morte improvvisa", una crisi cardiaca di cui è impossibile tracciare sicure fasi e origini certe. In mancanza di prove e di un nesso fra cause ed effetti, i medici responsabili del servizio di psichiatria vengono assolti, anche in appello. Così termina la parte che riguarda condanne e assoluzioni. Ma comincia il resto, inizia «quella morte che sembra non finire mai», come cerca di spiegare Natascia, che continua a vivere e lavorare a Cagliari, e mentre aspetta la Cassazione si dice pronta a fare ricorso anche alla Corte Europea. Perché intorno alla sentenza, e lo si capisce dalle motivazioni dei giudici, dalle testimonianze, dal racconto della figlia, emerge come sia stata tolta la dignità, oltre che la vita, a una persona che era stata ricoverata «per proteggere gli altri e sé stessa dal male» ed è morta nelle mani di chi la doveva curare. Perché, scrive il tribunale cagliaritano, una cosa è certa: «se detto ricovero non fosse mai avvenuto, il Casu sarebbe ancora vivo». «Il primo addebito di colpa è rappresentato dallo stato di contenzione fisica adottato per tutto l'arco di tempo», scrive la corte d'appello: «in contrasto con le più elementari regole di esperienza, che consigliano di mantenere la contenzione il minor tempo possibile e non certamente per giorni». «Mentre nel caso di specie», continuano le motivazioni: «a parte la necessità di applicare la contenzione nel primo periodo, nel rispetto del trattamento sanitario obbligatorio, essendo certo lo stato di agitazione psicomotoria, la fascia pettorale fu rimossa il secondo giorno, mentre quelle impiegate per immobilizzare polsi e caviglie non furono mai rimosse». È normale? Esser legati così, senza poter parlare, spiegare, senza poter intervenire? Quasi. Nella sua testimonianza, resa durante le udienze del processo di primo grado, Maria Rosaria Cantone, il medico di guardia il giorno del ricovero: «dichiarò che la pratica della “contenzione fisica” anche oltre le 48 ore era frequente in quel reparto che presentava dei problemi legati al sovraffollamento», scrivono i giudici: «atteso che il numero dei pazienti ricoverati era di gran lunga eccedente quello massimo stabilito dai regolamenti mentre quello del personale infermieristico era inferiore a quello necessario». «Eravamo costantemente sotto organico dal punto di vista del personale infermieristico», dichiara la dottoressa: «la mancanza di personale per noi è una costante». Oltre i lacci, ci sono i farmaci. In dosi normali ma sufficenti ad addormentare il paziente per giorni: «il Casu non fu mai in condizioni di potersi esprimere a riguardo», scrivono i giudici discutendo la scelta di somministrare un farmaco indicato particolarmente per gli alcolisti in crisi d'astinenza: «perché perennemente sedato o semi sedato». «Io mi son sentita ignorante. Mi sono fidata. Non potevo temere. Non potevo immaginare cosa sarebbe successo», conclude Natascia: «Ora so, però. E voglio fare di tutto, col comitato per la verità su mio padre, le associazioni e un documentario che stiamo per chiudere, per rendere quello ci è successo un esempio. Per informare le persone. Perché la gente sappia». Che, se anche «Non ci sono gli addebiti di colpa, il necessario nesso causale, idoneo ad integrare il reato di omicidio colposo», come scrivono i giudici, nei reparti di psichiatria degli ospedali, ancora oggi, a 36 anni dalla legge Basaglia, può succedere tutto questo. Per "mancanza di personale".
Così hanno ucciso Mastrogiovanni. Fermato e legato a un letto per più di 90 ore. Senza acqua né cure. Finché muore. Il video integrale sul nostro sito. Un'iniziativa dei parenti della vittima e della onlus "A Buon Diritto" di Luigi Manconi, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Ucciso per futili motivi. Si chiamava Francesco Mastrogiovanni, aveva 58 anni e faceva il maestro elementare. Mastrogiovanni non è morto in una rissa casuale con qualche teppista. In una mattina di fine luglio del 2009, un vasto spiegamento di forze dell'ordine è andato a pescarlo, letteralmente, nelle acque della costiera del Cilento (Salerno) e lo ha portato al centro di salute mentale dell'ospedale San Luca, a Vallo della Lucania, per un trattamento sanitario obbligatorio. Tso, in sigla. Novantaquattro ore dopo, la mattina del 4 agosto 2009, Mastrogiovanni è stato dichiarato morto. Durante il ricovero è stato legato mani e piedi a un letto senza un attimo di libertà, mangiando una sola volta all'atto del ricovero e assorbendo poco più di un litro di liquidi da una flebo. La sua dieta per tre giorni e mezzo sono stati i medicinali (En, Valium, Farganesse, Triniton, Entumin) che dovevano sedarlo. Sedarlo rispetto a che cosa non è chiaro, visto che il maestro non aveva manifestato alcuna forma di aggressività prima del ricovero. Aveva sì cantato, a detta dei carabinieri, canzoni di contenuto antigovernativo, come si addice a un "noto anarchico", sempre secondo la definizione dei tutori della legge locali. E poi, sì, aveva mostrato disappunto al ritrovarsi imprigionato. Aveva urlato, addirittura, e sanguinato in abbondanza dai tagli profondi che i legacci in cuoio e plastica gli avevano provocato sui polsi. Aveva chiesto da bere, tentato di liberarsi, pianto di disperazione e, alla fine, rantolato nella fame d'aria dell'agonia. Il personale del San Luca non si è lasciato turbare da questo baccano, come testimoniano le telecamere a circuito chiuso che hanno seguito il martirio del maestro di Castelnuovo Cilento. Queste riprese sono la più schiacciante prova d'accusa di un processo che si avvicina alla sentenza. Martedì 2 ottobre 2012, nel tribunale di Vallo della Lucania, il pubblico ministero Renato Martuscelli pronuncerà la requisitoria contro sei medici e 12 infermieri del San Luca in servizio durante il ricovero di Mastrogiovanni. I 18 imputati saranno giudicati per sequestro, falso in atto pubblico (la contenzione non è stata registrata) e morte in conseguenza di altro reato. Da venerdì 28 settembre il sito de "l'Espresso", in collaborazione con l'associazione "A buon diritto" di Luigi Manconi e con l'accordo dei familiari di Mastrogiovanni, mostra in esclusiva il filmato integrale registrato all'ospedale San Luca. Una sintesi di queste immagini era stata mandata in onda da "Mi manda RaiTre" quando il processo era appena iniziato. Quasi tre anni di udienze hanno confermato che un cittadino italiano, entrato in ospedale in buone condizioni fisiche e senza avere commesso reati, ne è uscito morto dopo pochi giorni senza che ai parenti fosse consentito di visitarlo. «Dopo tre anni», dice Manconi, «la famiglia di Mastrogiovanni ha deciso, con grandezza civile, che il suo dolore intimo diventi pubblico affinché la crocifissione del loro congiunto non si ripeta». Vediamo i fatti. La notte precedente il ricovero, il 30 luglio 2009, Franco Mastrogiovanni si trova a Pollica, comune gioiello del Cilento amministrato da un sindaco popolarissimo, Angelo Vassallo. Mastrogiovanni percorre in macchina l'isola pedonale. I vigili urbani lo segnalano al sindaco dicendo che il maestro guida ad alta velocità e ha provocato incidenti. Non è vero ma Vassallo ordina il Tso. Il provvedimento dovrebbe seguire, e non precedere, i pareri di due medici diversi. Ma tanto basta per aprire la caccia. La mattina dopo, Mastrogiovanni viene avvistato di nuovo in auto e inseguito da vigili e carabinieri. L'uomo arriva al campeggio dove sta trascorrendo le vacanze. Lì rifiuta di consegnarsi e si getta in mare. Per due ore resterà in acqua accerchiato dalla capitaneria di porto, dalle forze dell'ordine e da una decina di addetti dell'Asl. I medici che lo visitano da riva lo giudicano bisognoso di Tso e confermano il provvedimento del sindaco di Pollica benché il maestro in quel momento si trovi in un altro Comune (San Mauro Cilento). Mastrogiovanni ha già subito il Tso nel 2002 e nel 2005. Tra i suoi precedenti figurano anche due periodi in carcere. Uno nel 1999, quando Mastrogiovanni contesta una multa, viene arrestato e condannato in primo grado dalla requisitoria dello stesso Martuscelli che è pm nel processo per la sua morte. Il maestro sarà assolto in secondo grado e risarcito per ingiusta detenzione. Altrettanto ingiusta la prima incarcerazione, nove mesi tra Salerno e Napoli nel 1972-1973. Il ventenne Mastrogiovanni, vicino al movimento anarchico, finisce dentro per essersi beccato una coltellata nello scontro che si concluderà con la morte di Carlo Falvella, segretario locale del Fuan, l'associazione degli studenti missini. Nonostante il suo terrore delle divise e i periodi di depressione, Mastrogiovanni ha una vita normale. A metà degli anni Ottanta emigra e va a insegnare a Sarnico, in provincia di Bergamo. Poi torna in Campania, dove le informative di polizia lo marchiano ancora come sovversivo. In realtà, senza rinnegare la militanza passata, Mastrogiovanni non svolge attività politica. Si dedica al suo lavoro e alla passione per i libri. Ma i periodi di carcerazione ingiusta lo hanno segnato. Quando il 31 luglio 2009 si consegna per il suo ultimo Tso gli sentono dire: «Se mi portano a Vallo della Lucania, mi ammazzano». La previsione è azzeccata. Per tre giorni e mezzo, Mastrogiovanni viene trattato con durezza inaudita dal personale che sembra ignorare la presenza delle telecamere. «Il video», prosegue Manconi, «è l'illustrazione attimo per attimo dell'abbandono terapeutico e del mancato soccorso. Mastrogiovanni è stato crocefisso al suo letto di contenzione». Le immagini sono dure, a volte insopportabili. Ma proprio grazie al filmato, il processo è stato rapido, considerati i tempi della giustizia italiana. La presidente Elisabetta Garzo ha imposto alle udienze un ritmo serrato e ha sfoltito la lista dei 120 testimoni, concedendone solo due per ognuno degli accusati. Nelle testimonianze della difesa il Centro di salute mentale del San Luca funzionava secondo le regole e la contenzione dei pazienti non era praticata. Il video è una smentita solare di questa tesi. Anche la giustificazione del direttore del Centro, il dottor Michele Di Genio che ha sostenuto di essere in ferie e di avere lasciato la guida del reparto al suo vice, Rocco Barone, è stata smentita dal filmato. A volte gli stessi consulenti chiamati dalla difesa hanno aggravato la posizione degli accusati. Francesco Fiore, ordinario di psichiatria alla Federico II di Napoli, ha dichiarato che Mastrogiovanni era un non violento e soffriva di sindrome bipolare affettiva su base organica, un disturbo del tutto compatibile con una vita normale e con l'assunzione di responsabilità. Come esempio di personalità affetta da questa sindrome, Fiore ha portato Francesco Cossiga, ministro e presidente del Consiglio, del Senato e della Repubblica. «Non condivido la contenzione», ha concluso il professore in aula. Alcuni pazienti del San Luca hanno parlato di maltrattamenti e della contenzione praticata come terapia abituale. Un'altra ex ricoverata che vive una vita del tutto normale, Carmela Durleo, ha riferito di molestie sessuali da parte degli infermieri. Invano i legali della difesa hanno tentato di screditarla e di escluderla dalle testimonianze in quanto psicopatica. E la nipote di Mastrogiovanni, Grazia Serra, in visita dallo zio, è stata tenuta fuori per non turbare il paziente. Micidiale per gli accusati è stato il contributo del professor Luigi Palmieri, sentito nell'udienza del 29 novembre 2011. Ordinario di medicina legale alla Seconda Università di Napoli e convocato in aula come perito dell'Asl Salerno 3, Palmieri ha sostenuto che fin dalla mattina del 3 agosto, il giorno precedente la morte, Mastrogiovanni mostrava segni di essere colpito da infarto, che l'elettrocardiogramma è stato eseguito solo post mortem, che i valori dei suoi enzimi erano gravemente alterati, che non aveva bevuto a sufficienza, che non doveva essere imprigionato e che tutte le linee guida sulla contenzione in vigore in Italia o all'estero sono state ignorate dal personale dell'ospedale San Luca. Eppure, i tecnicismi della giustizia rendono incerto l'esito del processo. Il reato più grave contestato è il sequestro di persona: fino a dieci anni di reclusione se commesso da un pubblico ufficiale che abusa dei suoi poteri. È questo il cardine dell'accusa, secondo l'impostazione del primo pubblico ministero Francesco Rotondo, poi trasferito di sede. Ma il primo passo del sequestro di Mastrogiovanni sta nel Tso firmato dal sindaco Vassallo, mai indagato per la morte di Mastrogiovanni e a sua volta ucciso il 5 settembre 2010 in un attentato rimasto senza colpevoli. È vero che, codice alla mano, sequestro significa privazione della libertà personale. Ma nella contenzione i margini delle responsabilità sono più incerti e rischiano di cadere interamente sugli esecutori materiali, gli infermieri. Né la Procura ha tentato di giocare altre carte come l'omicidio colposo o preterintenzionale. Assenti dalle imputazioni anche le lesioni aggravate, evidenti dai risultati dell'autopsia e da uno dei momenti più terribili del filmato, quando una larga pozza di sangue uscito dai polsi martoriati di Mastrogiovanni viene asciugata con uno straccio da un'addetta alle pulizie. L'avvocato di parte civile Michele Capano, rappresentante dell'Unasam (Unione associazioni per la sanità mentale), ha ricordato la battaglia dei Radicali per introdurre nel codice penale il reato di tortura in risposta ai tanti casi (Mastrogiovanni, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva) elencati nel libro di Manconi e Valentina Calderone "Quando hanno aperto la cella". Manconi stesso, da senatore, ha presentato un disegno di legge sulla tortura. Per rendere giustizia a Mastrogiovanni dovrà bastare il codice attuale, anche se nessun codice prevede l'omicidio per caso. Il meccanismo di questo delitto lo ha spiegato in udienza l'imbianchino Giuseppe Mancoletti, compagno di stanza del maestro. Prima fase: «La sera del 3 agosto Mastrogiovanni gridava moltissimo». Seconda fase, il silenzio della morte. Terza fase, dopo che la salma è finita all'obitorio, improvvisi e notevoli miglioramenti nel reparto. Se Mastrogiovanni non avesse avuto compagni e parenti combattivi, la fase finale sarebbe stata: non è successo niente. Troppe volte, negli ospedali e nelle carceri, non è successo niente.
Muore in ambulanza durante un Tso, la procura apre un’inchiesta. Penna San Giovanni, Amedeo Testarmata, 49 anni aveva impedito ai sanitari chiamati dalla sorella di entrare nella stanza, poi ha accusato il malore fatale: domani l’autopsia, scrive “Il Resto del Carlino” il 12 luglio 2015. La Procura della Repubblica di Macerata ha aperto un fascicolo per la morte dell’imprenditore di Penna San Giovanni, Amedeo Testarmata, di 49 anni, deceduto in ambulanza mentre veniva sottoposto a Tso (trattamento sanitario obbligatorio). L’uomo, disoccupato, viveva con i genitori e la sorella e da tempo aveva manifestato problemi psichici e depressione. Sabato sera, la sorella si è accorta che non stava bene e ha chiamato il medico curante al quale però il quarantanovenne avrebbe vietato di entrare in camera. Il sanitario ha allora chiesto l’intervento dei carabinieri e del 118 per sottoporre il suo paziente al Tso. Ma Testarmata ha cercato di impedire anche l’ingresso del personale medico. Ha accusato un malore, si è cercato di rianimarlo ed è stato trasferito nell’autoambulanza, dove è deceduto forse per collasso cardiocircolatorio. Per chiarire la vicenda e le cause esatte della morte il pm Luigi Ortenzi ha avviato le indagini contro ignoti per omicidio colposo. Domani sarà effettuata l’autopsia.
Malzone, un cilentano di Agnone, morto a Polla dopo un tso, scrive “Unico Settimanale” il 26 giugno 2015. È morto in circostanze da chiarire, durante un Trattamento sanitario obbligatorio, un uomo di 39 anni. I familiari hanno molti dubbi sulle cause del decesso e lamentano che durante i 12 giorni di ricovero non hanno mai potuto vederlo. Si chiamava Massimiliano Malzone, viveva in un piccolo paese del Cilento, Agnone. Il 28 maggio era stato ricoverato nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale Sant’Arsenio di Polla, in provincia di Salerno. Il ragazzo, in passato, aveva subito altri due Trattamenti sanitari obbligatori, nel 2010 e nel 2013. «Durante il suo penultimo ricovero mio fratello chiamava due, ma, anche tre volte al giorno. Quest’ultima volta no. I medici, quando chiamavo in reparto – racconta Adele, sorella di Massimiliano – mi dicevano che mio fratello stava benino, ma che aveva un atteggiamento aggressivo». Questa, secondo la signora Adele, è stata la motivazione utilizzata dai sanitari per vietare ai familiari di entrare in reparto. «Io ho chiamato sempre in ospedale per sapere come stava Massimiliano, aspettando che me lo facessero vedere. Ci vogliono due ore di macchina per arrivare a Polla e aspettavamo che ci dicessero che potevamo entrare in reparto», aggiunge Adele. Massimiliano, durante il suo ultimo ricovero, ha contattato la famiglia una sola volta. Poche ore prima del decesso. Lo ha fatto, intorno alle 12.45 di lunedì 8 giugno, utilizzando un cellulare che gli avrebbe prestato forse una paziente. Il ragazzo voleva contattare un legale. «Deve dargli il numero dell’avvocato, vogliono farci passare per pazzi qua dentro», avrebbe detto la compagna di stanza di Massimiliano alla sorella del ragazzo. Adele ricorda che la telefonata fu interrotta bruscamente. Alle 17, secondo quanto affermato dai medici in reparto, il ragazzo stava bene. Dopo meno di 3 ore la notizia del decesso. «Com’è possibile? – si chiede Adele — Com’è successo?». Massimiliano, secondo i medici, sarebbe morto per arresto cardiaco. La procura di Lagonegro ha avviato un’indagine per accertare le cause del decesso. Bisognerà attendere 60 giorni per i risultati dell’autopsia. La storia di Massimiliano richiama alla memoria quella di Francesco Mastrogiovanni, maestro di Castelnuovo Cilento deceduto nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura di Vallo della Lucania il 4 agosto 2009. Due storie diverse, ma con tratti comuni. Entrambi cilentani, entrambi morti durante un Trattamento sanitario obbligatorio. Entrambi, durante il ricovero, tenuti lontani dai propri cari. In comune anche un medico. Il medico che avvisa Adele della morte del fratello è lo stesso già condannato a 4 anni in primo grado per il decesso di Mastrogiovanni con l’accusa di sequestro di persona, morte come conseguenza di altro reato e falso ideologico, per non aver annotato la contenzione meccanica nella cartella clinica. Francesco Mastrogiovanni era stato legato mani e piedi al letto dell’ospedale, per oltre 80 ore. Il 26 e il 30 giugno si svolgeranno le ultime udienze del processo d’appello per il caso Mastrogiovanni, la sentenza è prevista per il mese di settembre. Nel caso del maestro di Castelnuovo Cilento, la verità è emersa grazie alla presenza, nel reparto, di un sistema di videosorveglianza, sequestrato dalla polizia giudiziaria durante le indagini della magistratura. Il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura di Vallo della Lucania è attualmente chiuso e una parte dei medici e degli infermieri sono stati trasferiti nell’ospedale di Polla. Nel reparto psichiatrico di Polla non ci sono le telecamere. Le immagini di Mastrogiovanni sono ancora impresse nella mente di chi le ha viste. Immagini mute che urlano giustizia, e ora giustizia dev’essere fatta anche per Massimo. È necessario sciogliere ogni dubbio. È doveroso nei confronti della famiglia e della giovane vittima.
Morte di Riccardo Magherini, tutte le indagini di quella notte. Tutte svolte dai carabinieri (e dagli indagati), scrive Matteo Cali su “Il Sito di Firenze”. Riccardo Magherini viene dichiarato morto alle 3.00 del 3 marzo 2014, giunto ormai cadavere da Borgo San Frediano al pronto soccorso di Santa Maria Nuova dopo aver chiesto "inginocchiato a mani giunte, aiuto". Apparentemente per i carabinieri quell'uomo a “d'orso nudo” (errore grammaticale presente nel verbale, ndr), “quell'energumeno”, “in un elevato stato di agitazione psicomotoria”, aveva “prima procurato dei danneggiamenti al vetro di una pizzeria, aveva rapinato un passante di un cellulare e aveva rotto il vetro di un auto” e “dopo che un medico gli aveva somministrato un medicinale che lo portava alla calma” proprio mentre i carabinieri, come scrivono loro stessi nei loro verbali, appuravano queste informazioni “il soggetto andava in arresto cardio respiratorio quindi i sanitari presenti sul posto iniziavano le manovre di rianimazione” e poi Magherini “decedeva durante il trasporto in ospedale”. Questa è l'informativa, che si conclude con una nota, per segnalare agli ufficiali in servizio i fatti. La ricostruzione è incredibilmente falsa. Non lo dice chi scrive, lo dicono i fatti e le testimonianze che la smentiscono con facilità. Ma per i carabinieri, quella sera, in fin dei conti Riccardo Magherini è un uomo che è morto per un arresto cardiaco. Come può succedere. Non c'entrebbero niente i calci ricevuti da Magherini e tutte le azioni di compressione che ha subito da quei quattro carabinieri il 40enne fiorentino e riferite da decine di testimoni. Solo un infarto. E allora perchè quel giorno il Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Firenze svolge ventidue attività d'indagine di cui almeno diciassette nella notte? Perchè c'è l'esigenza di far dire alla volontaria della Croce Rossa, interrogata accanto al cadavere di Riccardo Magherini, che all'arrivo della prima ambulanza il 40enne fiorentino respirava ancora ed era vivo? Perchè quella notte maggiori e capitani dell'Arma passano ore ad interrogare persone e a cercare prove contro il morto Riccardo Magherini? Perchè di questo si tratta, in quelle ore i carabinieri cercano le prove contro un morto. Lo fanno per alleggerire le loro responsabilità nonostante sia soltanto morto d'infarto. Eppure qualcuno al comando di Borgognissanti sa che non è andata in questo modo. Lo sa esattamente dal minuto in cui gli appuntati Corni e Dalla Porta chiamano il maresciallo Castellano e riferiscono la morte di Magherini. Probabilmente c'è panico nei comandi del nucleo investigativo dei Carabinieri. Perchè quell'infarto sanno tutti perfettamente che non può reggere. Troppi calci da spiegare. Troppi testimoni di quello che è successo. E allora inizierà una serrata attività d'indagine svolta soltanto dai carabinieri, dagli stessi colleghi di chi intervenne in Borgo San Frediano ed è stato protagonista della morte di Magherini. Indagini finalizzate a far emergere l'aspetto peggiore della vita dell'ex promessa della Fiorentina. Per “metterlo” male. Per far passare quell' “energumeno” per un tossicodipendente, violento, che quella sera sarebbe stato anche un delinquente. Riccardo Magherini, incensurato, verrà denunciato da morto per furto e danneggiamenti. Su quel foglio trasmesso alla Procura di Firenze accanto al suo nome c'è una croce nera. Rimarrà unico indagato per la sua stessa morte fino al giorno della denuncia della famiglia contro tutti gli intervenuti sul luogo. I quattro carabinieri si faranno refertare al pronto soccorso con prognosi da due a dieci giorni. Lo faranno dopo aver svolto attività di indagine e soltanto dopo la morte di Magherini. L'appuntato Della Porta rimarrà all'interno del pronto soccorso per soli 8 minuti. Il maresciallo Castellano per 7. L'appuntato Corni sulla sua diagnosi vedrà anche scritta la descrizione di "un soggetto violento e agitato". Ma quell'uomo anche chi referta i carabinieri lo vedrà soltanto cadavere. E allora perchè scrivere in una diagnosi queste cose? Riccardo Magherini, come già detto, viene dichiarato morto alle 3.00 al pronto soccorso di Santa Maria Nuova dove arriverà in asistolia. Una morte sopraggiunta in Borgo San Frediano. A nulla sono servite le manovre rianimatorie eseguite all'arrivo della seconda ambulanza. Con le manette ai polsi, per “almeno un minuto perchè i militari non trovavano le chiavi”. Magherini era morto lì ed invece è stato trasportato in ospedale. Giusto per essere chiari, se Riccardo Magherini fosse stato dichiarato morto sulla strada sarebbe dovuto arrivare sul posto il pm di turno per disporre la rimozione della salma e sarebbe iniziata una procedura diversa da quella attuata in questo caso.
Appena comunicato il decesso iniziano le indagini.
Alle 3.05 gli appuntati Corni e Della Porta, per cui la procura ha chiesto il rinvio a giudizio per omicidio colposo (a Corni vengono contestate anche le percosse) visti i fatti di Borgo San Frediano, interrogano una delle volontarie della Croce Rossa intervenute sul posto. Anche a lei verrà contestato l'omicidio colposo. Questo interrogatorio si svolge accanto al corpo di Riccardo Magherini appena morto. “Le verrà fatto dire – sostiene l'avvocato Massimiliano Manzo, legale dei volontari della Croce Rossa – che con la mano avrebbe sentito il respiro di Magherini”. Esattamente questo. Quella volontaria avrebbe messo la mano, con il guanto di lattice, alla bocca del 40enne e avrebbe sentito il suo respiro. Purtroppo non sarà così, e quelle affermazioni verbalizzate accanto al cadavere di Magherini sono totalmente cambiate in sede di Polizia Giudiziaria tanto da fare dire al legale della donna che quell'interrogatorio " si è svolto in condizioni allucinanti”. “I carabinieri hanno negato ai miei assistiti la possibilità di assistere quell'uomo” dirà con forza il legale. E questa testimonianza sarà fondamentale per mantenere Magherini in vita all'arrivo della prima ambulanza. Influirà su tutta la condotta dei soccorsi da parte dei volontari. Non collegherebbe infatti l'infarto, motivo della morte di Magherini secondo i carabinieri, ai calci sferrati e alla pressione esercitata dai militari sul corpo a terra dell'uomo durante e dopo le fasi di fermo.
Contemporaneamente alle 3.10 appresa la notizia della morte, il maresciallo Castellano (anche lui a giudizio per omicidio colposo), interroga nella caserma di Borgo Ognissanti, insieme ad uno dei due ufficiali (un capitano, ndr) che vengono informati dalla nota di cui sopra, il pizzaiolo della prima pizzeria visitata da Magherini ed a cui il 40enne fiorentino avrebbe rubato il cellulare, comunque immediatamente restituito e causa poi dell'esigenza dell'arresto in flagranza che i carabinieri stavano operando su Riccardo. Anche in quel verbale c'è un sottile elogio all'operato dei militari “che tentavano di bloccarlo cercando di vincere la resistenza opposta dallo stesso che sbracciava e urlava le solite frasi senza senso. Posso dire, per quanto da me osservato direttamente, che i militari presenti sul posto, componenti di due pattuglie, non hanno assolutamente usato violenza nei confronti del soggetto da loro fermato, cioè non l'hanno picchiato ma cercavano solo di bloccarlo fisicamente, nè tantomeno hanno fatto uso di armi, limitandosi al suo contenimento. Ho tuttavia visto un carabiniere che sanguinava vistosamente dalla testa”. Questo dice quell'uomo. E l'opera di contenimento così limitata descritta da questo testimone è ampiamente smentita da altre decine di testimonianze.
Alle 3.30 poi è il maggiore Carmine Rosciano, comandante del Nucleo investigativo dell'Arma, ad incaricare due marescialli in servizio al reparto scientifico di andare a Borgo San Frediano sui “luoghi di interesse alle indagini”. Lì quegli stessi fotograferanno i danni alle due vetrine delle pizzerie, quelli all'auto (che da quelle foto non riporta vetri rotti), e l'iPhone con il vetro infranto che avrebbe rubato Magherini. C'è tutto tranne il luogo dove il 40enne verrà immobilizzato e morirà. Magari poteva esserci una macchia di sangue. Un segno. No, niente.
Alle 4.00 viene ricevuta la denuncia querela per danneggiamenti del proprietario della seconda pizzeria visitata da Riccardo Magherini. Al comando di Borgo Ognissanti, l'uomo dirà “di essere informato da un passante che Magherini aveva aggredito un carabiniere” e che durante tutte le lunghe operazioni di arresto e dei soccorsi rimarrà sempre all'interno della sua pizzeria, a circa dieci metri dal luogo della morte di Riccardo Magherini.
Alle 5.20, al comando di Borgo Ognissanti, veniva interrogato da un sottoufficiale dell'Arma (un maresciallo, ndr) uno dei due testimoni che avrebbero seguito tutto l'esito delle azioni di Magherini in San Frediano.
Il giovane riferiva che mentre camminava per Borgo San Frediano veniva avvisato dal pizzaiolo, di cui sopra, del furto del suo cellulare quasi contemporaneamente all'arrivo della prima macchina dei carabinieri. Magherini viene individuato. E' a terra in ginocchio e chiede aiuto. Poi però dopo aver consegnato il cellulare “spontaneamente”, “l'uomo cercava di scappare, ma veniva immediatamente bloccato da tutti e quattro i carabinieri presenti, che nonostante numericamente superiori facevano fatica a tenerlo fermo. Tant'è che nel tentativo di immobilizzarlo, l'uomo riusciva a strappare dalle mani di un carabiniere le manette, con le quali lo colpiva in fronte, mentre un altro carabiniere veniva raggiunto da diversi schiaffi. Dopo un’ azione piuttosto concitata, l'uomo viene finalmente ammanettato sulla schiena ed appoggiato a terra. Ma anche così non dava segno di calmarsi, infatti alcuni dei carabinieri presenti dovevano ancora comunque tenerlo fermo con le mani. Solo dopo circa cinque minuti, l'uomo finalmente accennava a calmarsi”. L'accenno era probabilmente il sopraggiungere dell'arresto cardiaco. Queste scene, così descritte, appartengono soltanto a questa testimonianza. Le manette “strappate” e i “diversi schiaffi” non compaiono in nessuna delle altre decine di testimonianze. Simili soltanto a quelle dell'amico che con lui assiste alla scena insieme però alle stesse altre decine di persone. Proprio in quegli stessi minuti all'ospedale di Santa Maria Nuova, gli appuntati Corni e Della Porta relazionavano sugli oggetti personali ritrovati negli abiti di Magherini. La carta d'identità, che solo in ospedale i carabinieri visioneranno, un mazzo di chiavi, due bustine di miele, una di nimesulide, dei soldi in contanti, un accendino, la carta della Conad. Non c'è droga. Non ci sono armi.
Sono frangenti importanti e frenetici, alle 5.30 un ufficiale dell'Arma (un capitano, ndr), accompagnato da due sottoufficiali, fa visita alla moglie di Riccardo Magherini. In quel momento è nella sua abitazione con il figlio Brando. Viene svegliata nel cuore della notte e le viene immediatamente chiesto se il marito si drogava. Se usava medicinali. Non le viene subito comunicato che Riccardo è morto in quella tragica circostanza. Le verrà detto quando i militari lasceranno la casa. Non prima che la donna firmi un verbale in cui dice proprio che il marito faceva uso di droghe. Ma quella frase sarà smentita (con una sottolinenautura in neretto, ndr) nelle dichiarazioni rese alla Pg con la specifica di “non aver mai pronunciato quelle frasi”. In quei minuti Guido Magherini, padre di Riccardo, telefona commosso e frastornato alla Polizia. “Mi hanno detto che è successa una disgrazia a mio figlio”. La Polizia passerà all'uomo i carabinieri, ma della prosecuzione di quella chiamata al centralino non c'è più traccia dal momento in cui l'uomo parla con i carabinieri. Stesso discorso per un amico che chiama pochi istanti dopo. “Fine registrazione” si legge sulle trascrizioni dei Ctu.
Alle 5.45 viene sentito, da un sotto ufficiale al comando dei Cc di Borgo Ognissanti, il secondo dei due testimoni che vedrebbe gli ultimi frangenti di Riccardo Magherini a San Frediano. Dichiara di “offrirsi di rincorrere l'uomo” appena saputo che aveva rubato un cellulare. E così fa. “Rincorrevo l'uomo” si legge nella sua testimonianza. Poi l'arrivo dell'auto dei carabinieri. La prima. E poi il racconto, molto simile a quello dell'amico. Saranno solo loro due a vedere queste scene. In certi casi però ritrattate in altre deposizioni. “A quel punto i quattro Carabinieri intervenuti intimavano all'individuo di stare fermo ma lo stesso tentava di allontanarsi; e quindi dopo numerosi inviti i carabinieri tentavano di bloccarlo ma l'individuo si divincolava dalla loro presa, infatti ha tolto le manette ad uno dei Carabinieri e sferrava con le stesse dei colpi al viso di uno dei carabinieri, ha dato tre-quattro schiaffi ad un altro Carabiniere. I carabinieri tentavano di bloccalo per renderlo inoffensivo ma lo sconosciuto ha opposto resistenza e profferiva ricordo ad alta voce frasi del tipo ""... aiuto,... chiamate la polizia, mi stanno sparando... ". "Finalmente i Carabinieri riuscivano ad ammanettarlo e sebbene immobilizzato lo sconosciuto ha sferrato dei calci ad uno dei Carabinieri e ha tentato sempre di opporsi ai carabinieri. Dopo alcuni minuti lo sconosciuto si calmava. Ho deciso di ritornare alla pizzeria per restituire il cellulare al pizzaiolo e dopo sono ritornato dove i trovava lo sconosciuto e in quel momento era sopraggiunta un'ambulanza”. Quindi sulla scena di Magherini appare anche questa figura che fa le veci dei carabinieri restituendo corpi di reato e offrendosi in una caccia all'uomo.
Sono circa le 5,40 (il verbale inizierà alle 6.00) quando un'altra testimone, la proprietaria del Fiat Doblò, viene chiamata a casa da un maresciallo dell'Arma che la inviterà a recarsi al comando di Borgo Ognissanti “per deporre una testimonianza in vista del processo per direttissima” per i danneggiamenti fatti in Borgo San Frediano qualche ora prima da un uomo a lei sconosciuto. Lei chiede di poter andare la mattina dopo aver accompagnato i figli a scuola. Ma quella testimonianza, le dicono i carabinieri, è urgente e serve al processo della mattina seguente. Ma quale processo? Le fanno anche intendere che Magherini ha ricevuto un TSO (trattamento sanitario obbligatorio). Quella donna testimonierà i fatti di fronte ad un capitano dell'Arma. Ma sarà costretta a dover scrivere all'avvocato Fabio Anselmo, difensore della famiglia Magherini, per dire che quei carabinieri non scrivevano sul verbale quando lei parlava dei calci a Riccardo. E racconterà le ragioni della chiamata. Ma soprattutto quella donna saprà della morte di Magherini soltanto il giorno dopo leggendo un quotidiano online. Perchè inventarsi la storia del processo per direttissima? Riccardo Magherini è morto da ore ormai. Perchè raccontare queste falsità? In quegli stessi minuti, al comando di Borgo Ognissanti, il maresciallo Stefano Castellano con gli appuntati Vincenzo Corni, Davide Ascenzi e Agostino Della Porta, su cui tutti pende una richiesta di rinvio a giudizio per omicidio colposo, redigevano l'annotazione di servizio. Hanno scritto che la forza esercitata per i quattro militari è stata assolutamente contenuta e misurata alla violenza esercitata da Magherini. Annotazione di servizio che chiama in causa quei due testimoni di prima. Escludendo invece i molti altri che hanno assistito alla scena. E' sempre delle ore 6.00 la relazione degli agenti della terza 'gazzella' intervenuta in Borgo San Frediano. Non vedono praticamente niente di quello che accade, anche perchè arrivano dopo l'ammanettamento di Magherini. Vedono solo il loro collega ferito, che accompagnano in ospedale, e dopo qualche minuto dall'arrivo della seconda ambulanza si rendono conto che l'uomo ormai non “rispondeva alle sollecitazioni mediche”.
Alle 6,10 sarà interrogato al comando di Borgo Ognissanti il medico giunto a San Frediano sulla seconda ambulanza. Dirà di essere arrivato aver rilevato l'arresto cardiaco per poi aver iniziato a praticare le manovre rianimatorie. Non dirà di averle iniziate con le manette inserite. Non dirà, come farà poi, che dai volontari è stato riferito che l'intervento della prima ambulanza è stato negato dai Cc. E purtroppo si renderà anche protagonista di una telefonata al 118, agli atti, e tutta da approfondire. Rispondendo alla domanda ma ha preso roba?, diceva “Ora ti dico di sì, poi ti spiego..”. Una chiamata che appare strana. Molto.
In quei minuti, alle 6,25 un capitano dell'Arma interroga un volontario della Croce Rossa intervenuto sulla prima ambulanza. L'uomo dirà di arrivare e “trovare una persona a terra. Faccia a terra, ammanettato dietro la schiena. Tenuto bloccato da un agente. Mi si è fatto incontro un altro agente che mi chiedeva se a bordo c'era un medico per poter sedare la persona immobilizzata”. La risposta che conseguirà, cioè il “no, non c'è il medico”, non consentirà ai volontari della Croce Rossa di poter effettuare alcuna operazione di assistenza sanitaria a Magherini proprio perchè i militari avrebbero consentito solo ad un medico di assistere Riccardo. Perchè andava sedato. Ma non c'è scritto su quel verbale. Anche per questo volontario la procura chiederà il rinvio a giudizio per omicidio colposo.
Toccherà poi alle 6,50, al comando di Borgo Ognissanti, all'infermiere giunto in San Frediano sulla seconda ambulanza. Ad interrogarlo è il comandante del Nucleo investigativo in persona. Descriverà le operazioni di rianimazione. Non verrà però citata la scena delle manette, poi ricordata in successivi verbali.
Alle 7.00 a Borgo Ognissanti tocca ad un'altra volontaria della Croce Rossa arrivata sulla prima ambulanza, anche per lei la procura ha chiesto il rinvio a giudizio per omicidio colposo. Riferirà che i carabinieri hanno rappresentato “l'uomo come una persona aggressiva” e che quindi “non potevano intervenire”. Ricorda la scena della collega che mette la mano alla bocca per verificare la respirazione già citata nel verbale delle 3,05 ma firmerà successivamente una dichiarazione in cui spiegava le condizioni in cui si sono svolti gli interrogatori smentendo proprio le affermazioni dei verbali svolti nelle prime ore.
Le indagini proseguono frenetiche e alle 8.10 Guido Magherini viene sentito circa le abitudini del figlio dal comandande della caserma dei carabinieri di Piazza Pitti. Nel frattempo il maggiore Rosciano ha disposto la trascrizione dei colloqui tra 'gazzelle' e 112. Poi una macchina parte da Borgo Ognissanti pe ritirare la cartella di intervento del 118 e intorno alle 9 arriva la comunicazione del Pm Bocciolini che incarica le aliquote di Polizia giudiziaria di Polizia e Carabinieri di effettuare indagini, al momento contro ignoti, e sentire testimoni per fare chiarezza sulla morte di Riccardo Magherini in vista anche dell'autopsia. E nel giorno della morte di Riccardo Magherini saranno solo i carabinieri a svolgere le indagini. Per poi trasmettere il fascicolo alla pg che comincerà dal 5 marzo le proprie indagini, sempre affiancata da polizia e carabinieri.
Infatti dopo la comunicazione del pm alle 12.30 un ufficiale, (un capitano, ndr) e due sotto ufficiali dell'Arma, svolgono la perquisizione nella stanza dove aveva alloggiato Magherini all'hotel St. Regis. Esito 'negativo'. Non viene trovata droga. Questo è quello che cercano in quei momenti i carabinieri. Non la troveranno neanche in una macchina descritta comunque con oggettivo disgusto per il disordine.
Dopo l'auto, alle 14.00 i carabinieri visitano casa di Riccardo Magherini in via delle Campore. Trovano un “elevato quantitativo di medicinali”. E tra i farmaci descritti fotografano anche il Fluifort aperto, la Tachipirina ed il Malox. Tratteggiando nel verbale il ritratto di un abituale consumatore di farmaci. Un ipocondriaco. Se poi ai farmaci si associa la cocaina si crea mix perfetto per una morte come quella sopraggiunta quella notte. In quegli stessi minuti, al comando di Borgo Ognissanti, viene ascoltato il medico personale di Riccardo con domande specifiche su abusi di droga o disturbi di salute che potevano affliggere Magherini. Ma le risposte del medico non daranno spunti in tal senso. Nemmeno quelle del cameriere del ristorante Neromo, le cui immagini delle telecamere sono state prese alle 5 la mattina, e che riferisce di un Riccardo Magherini “tranquillo e sereno”. Ne descrive la cena la sera prima. Una serata tranquilla. Niente di utile per quelle indagini. E questo è quello che accade nelle 12 ore successive alla morte di Riccardo Magherini. Indagini serrate dei carabinieri. Per la morte di un uomo che loro stessi attribuiscono fin da subito ad un infarto. Un normale infarto. Normalità che durerà poco. In quelle ore i carabinieri non possono sapere che a Riccardo Magherini verranno riscontrate lesioni su tutto il corpo e che la droga a cui volevano attribuire la morte invece non la causerà. Al contrario dei calci e dela compressione toracica, non compresi nel protocollo di arresto violato dai quattro militari, e a cui è stato sottoposto l'uomo.
Questo è realmente accaduto. Queste indagini sono realmente avvenute. Sembra incredibile che sui carabinieri abbiano indagato i carabinieri. Ma è vero. Sembra incredibile che in quei minuti nessun ufficiale dell'Arma abbia sentito il bisogno morale, il dovere civile ed il solo semplice buon senso, che appartiene alle persone comuni, di passare le indagini alla Polizia. Di astenersi almeno dal svolgerle. Anche solo per il rispetto verso un uomo morto sotto la loro divisa sporcata dal sangue di Riccardo Magherini. Ma il rispetto, ad oggi, non c'è mai Stato. In attesa dell'udienza preliminare prevista per l'8 gennaio 2015.
Quando la Legge e l’Ordine Pubblico diventano violenza gratuita e reato impunito del Potere.
Così scrive il dr Antonio Giangrande, sociologo storico e scrittore che sul tema ha scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it.
C’è violenza e violenza. C’è la violenza agevolata, come quella degli stalkers, fenomeno che sui media si fa un gran parlare. Stalkers che sono lasciati liberi di uccidere, in quanto, pur in presenza di denunce specifiche, non vengono arrestati, se non dopo aver ucciso coniuge e figli. C’è la violenza fisica che ti lede il corpo. C’è quella psicologica che ti devasta la mente, come per esempio l’essere vittima di concorsi pubblici od esami di abilitazione truccati o il considerare le tasse come “pizzo” o tangente allo Stato.
O come per esempio c’è la violenza su Silvio Berlusconi: un vero e proprio ricatto…. anzi è un’estorsione “mafiosa” a detta di Berlusconi. Libero di fare la campagna elettorale, ma fino a un certo punto: se nei suoi interventi pubblici Berlusconi tornerà a prendersela con i magistrati (come fa con regolarità da vent'anni a questa parte) potrà venirgli revocato l'affido ai servizi sociali e scatterebbero gli arresti domiciliari. Antonio Lamanna, come racconta la stampa, nell'udienza di giovedì 10 marzo 2014, ha sottolineato che se il Cavaliere dovesse diffamare i singoli giudici l'affidamento potrebbe essere revocato. Un bavaglio a Berlusconi: se dovesse parlare male della magistratura, verrà sbattuto agli arresti domiciliari. Lamanna, nel corso dell'udienza, ha portato in aula un articolo del Corriere della Sera dello scorso 7 marzo 2014, in cui veniva riportato che Berlusconi avrebbe detto, in vista delle decisione del Tribunale di Sorveglianza: "Sono qui a dipendere da una mafia di giudici". Dunque Lamanna ha commentato: "Noi non siamo né angeli vendicatori né angeli custodi, ma siamo qui per far applicare la legge", e successivamente ha ribadito al Cavaliere la minaccia (abbassare i toni, oppure addio ai servizi).
O come per esempio c’è la violenza su Anna Maria Franzoni. Quattordici anni dopo l'omicidio del figlio Samuele Lorenzi in Annamaria Franzoni ci sono ancora condizioni di pericolosità sociale e la donna ha bisogno di una psicoterapia di supporto. Sapete perché: perché si dichiara innocente. E se lo fosse davvero? In questa Italia, se condannati da innocenti, bisogna subire e tacere. Questo è il sunto della perizia psichiatrica redatta dal professor Augusto Balloni, esperto incaricato dal tribunale di Sorveglianza di Bologna di valutare ancora una volta la personalità della donna per decidere sulla richiesta di detenzione domiciliare. La perizia ha circa 80 pagine ed è il frutto di una decina di incontri in oltre due mesi con le conclusioni, depositate prima di Pasqua 2014. Secondo quanto rivelato dalla trasmissione “Quarto grado”, la perizia sostiene che Franzoni, che sta scontando una condanna a 16 anni (e non a 30 anni, così come previsto per un omicidio efferato), è socialmente pericolosa: soffre di un "disturbo di adattamento" per "preoccupazione, facilità al pianto, problemi di interazione con il sistema carcerario" perché continua a proclamarsi innocente.
Poi c’è la violenza fisica. Tutti a lavarsi la bocca con il termine legalità. Mai nessuno ad indicare i responsabili delle malefatte se trattasi dei poteri forti. Così si muore nelle “celle zero” italiane. Dai pestaggi ai suicidi sospetti. Le foto incredibili. Di questo parla Antonio Crispino nel suo articolo su “Il Corriere della Sera” del 5 febbraio 2014.
Per quando questa inchiesta sarà tolta dal sito del Corriere (più o meno 48 ore), in carcere sarà morta un’altra persona. Sono 2230 decessi in poco più di un decennio. Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere, di detenuti malati e non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il personale carcerario. Sono le ombre del sistema. La versione ufficiale è che il carcere è “trasparente”, sono tutte fantasie, storie metropolitane. «I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze». Parola di Donato Capece, leader del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Per essere credibili bisogna portare le prove, le testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a parte, un sistema chiuso dove si viene a sapere quello che io voglio che si sappia e dove le carte si possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a proteggere se stesso» sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario di Asti. Lo avevamo incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua denuncia (caso più unico che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio organizzato all’interno del carcere dove prestava servizio. In primo grado non si trovò nessun responsabile. In secondo grado sono arrivate le condanne. E’ una lotta impari, una fatica di Sisifo. «Anche lì dove riusciamo faticosamente a reperire delle prove finisce quasi sempre con una prescrizione» spiega l’avvocato Simona Filippi. È uno gli avvocati di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Carte alla mano, ci mostra come i reati per cui si procede sono attinenti alle sole lesioni. I tempi di prescrizione sono facilmente raggiungibili rispetto a un reato di tortura. Se fosse introdotto nel nostro ordinamento. Ad oggi, infatti, questo reato non esiste. Come praticamente non esistono condanne passate in giudicato. Esistono, invece, foto e documenti agghiaccianti che pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte del detenuto. Ma tutto è interpretabile e la scriminante è sempre dietro l’angolo. Lo avevamo testato anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta da parte del comandante degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò: «Se non spegni questa telecamera te la spacco in testa... I detenuti li trattiamo anche peggio, lo puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo di presunti casi di violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta - cortese - di non denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni disciplinari da parte del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia penitenziaria il comandante viene descritto come un ‘martire della battaglia’, in puro stile corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna prova». Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che chiedono giustizia: sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma ha venduto tutto quello che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente ha messo in vendita il proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da 10 anni) o Federico Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel Eliantonio, Carlo Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti, Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo e troppi altri. Raccogliamo tutto quello che si può documentare. Lo mostriamo, in una miscellanea di orrore e terrore, al garante dei detenuti della Lombardia Donato Giordano, la regione con il più alto numero di carcerati. «E’ una follia, se è vero come è vero quello che ho visto siamo messi peggio del nazismo». Eppure casi di pestaggio sulla sua scrivania non sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece da mesi ci arrivano via posta segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce sulla cella 24», ci scrivono. Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante altre dove mettono drogati e alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto che è vuota per evitare che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il garante Giordano. In tutta Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a seconda della provenienza geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso è quello: cella 0, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella estiva/invernale… Ogni termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di Poggioreale per chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira inevitabilmente sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero portati i detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità con la quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario di tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti, sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti che c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le parti e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come lo schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si aspetta sulla scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova all’interno del carcere e convive con altri detenuti che non vogliono problemi. La stessa denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani del sistema carcerario. Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a convivere con i suoi presunti carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal presupposto che un detenuto, per definizione, ha una credibilità pari allo zero e una possibilità di documentare quello che dice praticamene nulla. «Anche se viene trasferito dopo la denuncia, il detenuto sa che le prende lo stesso. Tra di noi arrivava la voce di chi aveva fatto l’infame e si trovava ugualmente il modo di punirlo. Chi sa sta zitto, anche i medici. Ad Asti dicevamo noi al medico cosa scrivere sulla cartella clinica dopo un pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo portavamo da un medico. Ci sono tanti bravi agenti che fanno solo il loro dovere ma seppure assistessero ai pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero mandati in missione in chissà quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero le licenze, i permessi, farebbero problemi con le ferie, verrebbero discriminati... Insomma il carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce così la sua esperienza, Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare le violenze subite nel carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice con Francesco Morelli del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti Orizzonti. E’ stato sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una settimana prima dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso per mancanza di prove.
Katiuscia Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due infermieri dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La avrebbero violentata ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata impiccata a un albero in un recinto accessibile solo al personale medico-infermieristico. Sfortunata anche lei. Perché spariscono anche le perizie ginecologiche effettuate dopo la denuncia». Caso chiuso. Nel 2008 verranno assolti sia il medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove. Cristian De Cupis diceva che alcuni agenti della Polfer di Roma lo avevano picchiato durante l’arresto. Denuncia tutto al Pronto soccorso. Muore prima ancora che gli convalidino l’arresto. Aveva 36 anni. Manuel Eliantonio viene fermato all’uscita di una discoteca. Aveva fumato, usato droghe. Gliene trovano alcune in tasca e lui scappa. L’agente lo rincorre e lo porta nella caserma della Polizia stradale di Carcare, provincia di Savona poi in carcere. Ufficialmente muore per «arresto cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto alla mamma: «Mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo, se non li prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova. Nessuna prova e nessuna testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno spacciatore tunisino morto per «arresto cardiocircolatorio». La perizia disposta dal procuratore di Sanremo precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da inibizione dell’espansione della gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così il procuratore Roberto Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che procedettero all’arresto. Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano deve farsi carico. Chi ha visto si faccia avanti e i tre militari raccontino come è andata». Non si saprà mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi. Trovato morto in cella per “suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito con il trasferimento nel penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano all’obitorio notano ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono: «Nonostante la richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata eseguita. Perché?».
Qui si parla di morti che hanno commesso il reato di farsa. Ossia: colpevoli di essere innocenti. Di chi è stato arrestato è poi in caserma picchiato fine a morirne, se ne parla come eccezione. Ma nessuno parla di chi subisce violenza o muore durante le fasi dell’arresto.
Foto e filmati, raccolti e rilanciati sul web, compongono una moviola con pochi margini d’interpretazione: colpi di manganello contro persone a terra, calci, quel terribile gesto di salire con gli scarponi sull’addome di una ragazza rannicchiata sull’asfalto con il suo ragazzo che le sta sopra per proteggerla.
E poi loro. “Quello che è successo a Magherini ripropone tragedie che sembrano richiamare situazioni simili e comportamenti analoghi a quelli già visti come nel caso di Aldrovandi e di Ferulli. Si teme l’abuso di Stato. Una persona che grida aiuto e una persona in divisa sopra di lui che effettua la cosiddetta azione di contenimento, un termine pudico e ipocrita.” Questo ha detto duramente il senatore Manconi, che parla di evidenze documentate (un video ripreso dall’alto) dei comportamenti illegali da parte delle forze dell’ordine.
PRESADIRETTA ha raccontato nell’ignavia generale le storie dei meno conosciuti: Michele Ferrulli, morto a Milano durante un fermo di polizia mentre ballava per strada con gli amici, Riccardo Rasman, rimasto ucciso durante un’irruzione della polizia nel suo appartamento dopo essere stato legato e incaprettato col fil di ferro, Stefano Brunetti, morto il giorno dopo essere stato arrestato col corpo devastato dai lividi. A PRESADIRETTA hanno fatto ascoltare i racconti scioccanti dei “sopravvissuti” come Paolo Scaroni, in coma per due mesi dopo le percosse subite durante le cariche della polizia contro gli ultras del Brescia, Luigi Morneghini, sfigurato dai calci in faccia di due agenti fuori servizio e delle altre vittime che ad oggi aspettano ancora giustizia. Ma quante sono invece le storie di chi non ha avuto il coraggio di denunciare e si è tenuto le botte, le umiliazioni pur di non mettersi contro le forze dell’ordine e dello Stato? Noi pensiamo di vivere in un Paese democratico dove i diritti della persona sono inviolabili, è veramente così? “Morti di Stato” è un racconto di Riccardo Iacona e Giulia Bosetti. Morti di Stato”, l’inchiesta giornalistica che non fa sconti.
Ottima la prima per la nuova serie di “Presadiretta” di Riccardo Iacona, scrive Filippo Vendemmiati su Articolo 21 del 7 gennaio 2014. “Morti di Stato” una puntata dura e senza sconti a cui si vorrebbe ne seguisse subito un’altra, fatta anche di risposte, smentite, precisazioni. Ma difficilmente sarà. Chi scrive conosce bene il lungo travaglio che ha preceduto e ha partorito questa trasmissione. Come spesso fino ad ora è accaduto, “i coinvolti” preferiranno tacere, eludere, rispondere non con le parole, ma semmai con “gli avvertimenti giudiziari” dei loro avvocati. Perché qui sta la prima e paradossale differenza: l’inchiesta giornalistica, quella vera, quella che nonostante tutto dunque non è morta, ha un nome e un cognome, un responsabile che si firma e si assume ogni responsabilità; il reato penale commesso dallo Stato è coperto dall’anonimato, da una divisa e da un casco, da omissioni complicità.. Per questo tanto tenace e insuperabile è il muro che si oppone all’introduzione del codice identificativo sulle divise e del reato di tortura, da 25 anni inadempienti nonostante il protocollo firmato davanti alla Convenzione dell’Onu. Ma c’è un duplice reato di tortura: il primo è quello delle vittime non di incidenti o di colluttazioni avvenute sulla strada, bensì di violenze gratuite avvenute durante un fermo, un controllo, in manette o nel chiuso delle caserme o delle carceri; il secondo è quello dei familiari delle vittime, costrette ad un terribile e doloroso percorso per ottenere scampoli di una giustizia che non ce la fa ad essere normale. Anche chi condannato in via definitiva per reati compiuti con modalità gravissime, sancite da motivazioni trancianti contenute in tre sentenze, come nel caso dell’omicidio di Federico Aldrovandi, ha diritto ad indossare ancora la divisa, quasi che un quarto silenzioso grado di giudizio garantisse chi di quella stessa divisa abusa e con quella divisa infanga il giuramento fatto davanti alla Costituzione.. Non solo e tanto di “mele marce” si è occupata questa puntata di Presadiretta, ma di un sistema malato che queste mele alleva , copre e difende., secondo il principio non nuovo che dalla polizia non si decade, ma semmai si viene promossi. Grazie a Presadiretta e a Raitre di avercelo raccontato con tanta efficacia, nel nome delle vittime note e ignote, per una volta non ignorate.
Le Forze dell’Ordine usano delle tecniche apposite di bloccaggio delle persone esagitate che li si vuol portare alla calma o all’esser arrestate. Di questo parla la Relazione della 360 SYSTEM della Polizia di Stato.
Primo contatto. La pressione come strumento per apprestare la difesa, l’armonia del movimento e la elasticità, non irrigidirsi in situazioni di stress, aumento del carattere e dell’aggressività quando sottoposti ad attacchi.
Ammanettare l’avversario. Come eseguire una corretta e veloce procedura di bloccaggio a terra e successivo ammanettamento in situazione di uno contro uno, tecniche per portare a terra l’avversario in sicurezza e controllo dell’avversario a terra.
Probabilmente, come tutte le cose italiane, il corso non è frequentato e quindi ogni agente adopera una sua propria tecnica personale, spesso, letale e che per forza di cose passa per buona ed efficace.
La versione ufficiale pareva chiara. Riccardo Magherini, 40 anni, figlio dell’ex stella del Palermo Guido Magherini, è morto due mesi fa a Firenze, qualche istante dopo essere stato arrestato a causa di un arresto cardiaco, scrive nel suo articolo Alessandro Bisconti su “Sicilia Informazioni” del 27 aprile 2014. Vagava seminudo e in stato di shock in Borgo San Frediano a Firenze. Aveva appena sfondato la porta di una pizzeria, portando via il cellulare a un pizzaiolo. Chiedeva aiuto, diceva di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo. Poi è entrato nell’auto di una ragazza mentre lei scappava. Quindi sono arrivati i carabinieri che dopo averlo immobilizzato, hanno chiamato il 118, visto lo stato di agitazione di Magherini. Dieci minuti dopo è arrivato il medico che ha trovato l’uomo in arresto cardiaco. Un’ora più tardi Magherini è morto in ospedale. Adesso il fratello di Riccardo Magherini accompagnato dal suo legale e dal senatore del PD Luigi Manconi hanno presentato in Senato le immagini inedite del corpo dell’uomo, sulla morte del quale chiedono che sia fatta chiarezza, sospettando un abuso di polizia simile ad altri che hanno funestato le cronache recenti. Ci sono però numerose testimonianze (e un video) che raccontano di un uomo preso a calci a lungo, in particolare calci al fianco e all’addome, mentre era sdraiato a terra e di soccorsi chiamati quando ormai non reagiva più. “Per una quarantina di minuti Riccardo è stato steso a terra immobilizzato dai carabinieri con un ginocchio sulla schiena. Era ammanettato ed è stato percosso e intanto Riccardo urlava: ‘Sto morendo, sto morendo’” ha raccontato un testimone alla trasmissione Chi l’ha visto, ma in tanti sostengono questa ricostruzione. I video e le foto sono appena stati presentati in Senato. Il papà Guido, 62 anni, ha disputato tre stagioni con la maglia del Palermo, nella seconda metà degli anni Settanta, diventando presto un semi-idolo (18 gol). Lui, Riccardo, ha provato a seguire le orme del padre. Inizio promettente, con la vittoria del torneo di Viareggio in maglia viola, da protagonista. Era considerato una promessa del calcio fiorentino. Poi si è perso per strada. Tante delusioni, anche nella vita. Fino alla separazione, recente, con la moglie e all’ultima, folle, serata.
Morì d’infarto durante l’ arresto il cinquantunenne milanese Michele Ferulli, deceduto la sera del 30 giugno 2011, dopo esser stato percosso da alcuni agenti di polizia che lo stavano ammanettando. E’ quanto emerge dalla perizia redatta dal tecnico incaricato dai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano, Fabio Carlo Marangoni, che ha potuto visionare ben 4 filmati di quei tragici momenti. Gli uomini delle forze dell’ordine, intervenuti dopo una segnalazione per schiamazzi notturni in via Varsavia, nel capoluogo lombardo, stavano procedendo al fermo della vittima, e secondo la relazione peritale uno di loro “percuoteva ripetutamente sulla spalla e sulla scapola destra” l’individuo in procinto di essere arrestato. Ferulli venne colto, forse per la concitazione, da un arresto cardiaco che gli sarebbe risultato fatale. Nel procedimento giudiziario in corso risultano imputati i quattro poliziotti intervenuti sul posto durante quella serata maledetta. Per loro l’accusa è di omicidio preterintenzionale. Stando a quanto risulta dal lavoro depositato da Marangoni, per ben 2 volte Ferulli invocò esplicitamente aiuto.
L’abominevole morte di Luigi Marinelli è l’articolo di Alessandro Litta Modignani su “Notizie Radicali” del 15 ottobre 2012. Sempre più spesso sentiamo nominare Cucchi, Aldrovandi, Bianzino, Uva.... Nomi diventati tristemente familiari, evocatori di arbitrio, brutalità, violenza, morte, denegata giustizia. Il muro dell’omertà e del silenzio poco alla volta si rompe, le famiglie coraggiose non si rassegnano al dolore della perdita, facebook e internet fanno il resto, obbligando la carta stampata ad adeguarsi e a rispettare il dovere di cronaca. Così, uno dopo l’altro, altri nomi e altre vicende emergono dall’oscurità e assurgono alla dignità di “casi”. La lista si allunga, nuovi nomi si aggiungono, con le loro storie di ordinaria follia. Alla presentazione del libro-denuncia di Luca Pietrafesa “Chi ha ucciso Stefano Cucchi?” (Reality Book, 180 pagine) tenuta nei giorni scorsi nella sede del Partito radicale a Roma, ha finalmente trovato la forza interiore di parlare l’avv. Vittorio Marinelli, che con voce rotta dall’emozione ha raccontato la morte abominevole, letteralmente “assurda” di suo fratello Luigi. Luigi Marinelli era schizofrenico, con invalidità riconosciuta al 100%. Si sottoponeva di buon grado alle terapie che lo tenevano sotto controllo, dopo un passato burrascoso che lo aveva portato in un paio di ospedali psichiatrico-giudiziari. Spendaccione, disturbato, invadente fino alle soglie della molestia, divideva la sua vita fra gli amici, la sua band e qualche spinello. Era completamente incapace di amministrarsi. Ricevuta in eredità dal padre una certa somma, la madre e i fratelli gliela passavano a rate, per evitare che la sperperasse tutta e subito. Rimasto senza soldi, la mattina del 5 settembre 2011 Luigi va dalla madre, esige il denaro rimanente; si altera, dà in escandescenze, minaccia, le strappa la cornetta dalle mani – ma non ha mai messo le mani addosso a sua madre, mai, neppure una sola volta nel corso della sua infelice esistenza. Messa alle strette, la madre chiama Luisa (la fidanzata di Luigi, anch’ella schizofrenica) chiama l’altro figlio Vittorio, chiama la polizia e quest’ultima decisione si rivelerà fatale. Arrivano due volanti - poi diventeranno addirittura tre o quattro - trovano Luigi che straparla come suo solito semi-sdraiato sulla poltrona, esausto ma in fin dei conti calmo. Gli agenti chiamano il 118 per richiedere un ricovero coatto. Arriva Vittorio, mette pace in famiglia, madre e figlio si riconciliano, Luigi riceve in assegno il denaro che gli appartiene e fa per andarsene. Ma la polizia ha bloccato la porta e non lo lascia uscire, dapprima con le buone poi, di fronte alle crescenti rimostranze, con l’uso della forza. Luigi è massiccio, obeso, tre poliziotti non bastano, ne arriva un quarto enorme e forzuto. Costui blocca lo sventurato contro il muro, lo piega a terra, lo schiaccia con un ginocchio sul dorso, gli torce le braccia dietro la schiena e lo ammanetta, mentre Vittorio invita invano gli agenti a calmarsi e a desistere. “Non fate così, lo ammazzate...!” dice lui, “Si allontani!” sbraitano quelli. Vittorio vede il fratello diventare cianotico, si accorge che non riesce a respirare, lo guarda mentre viene a mancare. Allontanato a forza, telefona per chiedere aiuto al 118 ma dopo due o tre minuti sono i poliziotti a richiamarlo. Luigi ormai non respira più ma ha le braccia sempre bloccate dietro alla schiena: le chiavi delle manette.... non si trovano! La porta di casa è bloccata, non si sa da dove passare, un agente riesce finalmente a trovare la porta di servizio, scende alle auto ma le chiavi ancora non saltano fuori. “Gli faccia la respirazione bocca a bocca!” gridano gli agenti in preda nel panico (Luigi è bavoso e sdentato, a loro fa schifo, poverini). Liberano infine le braccia ma ormai non c’è più niente da fare. Il volto di Luigi è nero. E’ morto. Arriva l’ambulanza, gli infermieri si trovano davanti a un cadavere ma, presi da parte e adeguatamente istruiti, vengono convinti dagli agenti a portare via il corpo per tentare (o meglio: per fingere) la rianimazione. Il resto di questa storia presenta il solito squallido corollario di omertà, ipocrisia, menzogne, mistificazioni. Gli agenti si inventano di avere ricevuto calci e pugni per giustificare l’ammanettamento, il magistrato di turno avalla la tesi della “collutazione”. L’autopsia riscontra la frattura di ben 12 costole e la presenza di sangue nell’addome, la Tac rivela di distacco del bacino, evidenti conseguenze dello schiacciamento del corpo. Le analisi tossicologiche indicano una presenza di sostanze stupefacenti del tutto insignificante. A marzo il pm chiede l’archiviazione sostenendo che la causa della morte è stata una crisi cardiaca. La famiglia presenta opposizione. Qual è stata la causa della crisi cardiaca? Perché è stato immobilizzato? Era forse in stato d’arresto? In questo caso, per quale reato? Le varie versioni degli agenti, mutate a più riprese, sono in patente contraddizione. “Gli venivano subito tolte le manette” è scritto spudoratamente nel verbale, mentre in verità gli sono state tenute per almeno 10 minuti, forse un quarto d’ora. L’ultima volante dei Carabinieri, sopraggiunta sul posto, descrive nel verbale “un uomo riverso a terra ancora ammanettato”. Ma quando Vittorio Marinelli fa notare al magistrato che questa è evidentemente la “causa prima efficiente” dell’arresto cardiaco, si sente rispondere dal leguleio che “la sua è un’inferenza”. Resta il fatto che prima di essere ammanettato Luigi Marinelli era vivo, dopo è morto. Queste sono le cosiddette forze del cosiddetto ordine, questa è la magistratura dell’Italia di oggi. Tornano alla mente le parole pronunciate da Marco Pannella in una conferenza stampa di un paio di anni fa: “Presidente Napolitano, tu sei il Capo di uno Stato di merda”.
Ferrara, via dell’Ippodromo. All’alba del 25 settembre 2005 muore a seguito di un controllo di polizia Federico Aldrovandi, 18 anni, scrive “Zic” il 15 febbario 2014. Dopo due anni di coperture e reticenze, durante i quali le versioni ufficiali sposavano la tesi della morte per overdose e dell’innocenza dei tutori dell’ordine, il 20 ottobre 2007 è iniziato il processo a quattro agenti, a novembre 2008 il “colpo di scena”, agli atti del processo una foto che mostrerebbe inequivocabilmente come causa di morte sia un ematoma cardiaco causato da una pressione sul torace, escludendo ogni altra ipotesi. Su questa immagine è acceso il dibattito, nelle ultime udienze della fase istruttoria, tra i periti chiamati a deporre dai legali dalla famiglia e quelli della difesa. Infine, il 6 luglio 2009, la condanna degli agenti. Il giudice: «Ucciso senza una ragione», imputati condannati a 3 anni e mezzo per eccesso colposo in omicidio colposo. Nel nostro speciale i resoconti di tutte le udienze. Altri agenti condannati nell’ambito del processo-bis, per i depistaggi dei primi giorni di indagine; una poliziotto condannato anche nel processo-ter. Il 9 ottobre 2010 il Viminale risarcisce alla famiglia due milioni di euro, una cifra che nel 2014 la Corte dei conti chiederà che venga pagata dai poliziotti. L’10 giugno 2011 si chiude il processo d’appello con la conferma delle condanne. Durissima la requisitoria della pg: “In quattro contro un’inerme, una situazione abnorme”. Gli agenti fanno ricorso in Cassazione che il 21 giugno 2012 rigetta, le condanne sono definitive (ma c’è l’indulto). Pg: “Schegge impazzite in preda al delirio”. A marzo 2013 provocazione del Coisp, un sindacatino di polizia che strappa il proprio quarto d’ora di notorietà manifestando sotto le finestre dell’ufficio di Patrizia Moretti. La città in piazza: “Lo scatto d’orgoglio”, A inizio 2013 poliziotti in carcere per scontare i 6 mesi di pena residua, Lino Aldrovandi a Zeroincondotta: “Non voglio nemmeno pensare che non li licenzino”, ma un anno dopo stanno per tornare in servizio. Il 15 febbraio 2014 manifestano in cinquemila: “Via la divisa”.
Applausi e abuso di potere: #ViaLaDivisa!, scrive “Un altro genere di comunicazione”, riportato da altre fonti, tra cui “Agora Vox”.
Federico Aldrovandi è uno studente diciottenne ferrarese, frequenta il 4° anno dell’ I.T.I.S. ed è un ragazzo brillante: ha svariati interessi, fa karate e ama suonare, ha tanti amici e a scuola è anche impegnato in un progetto contro le tossicodipendenze. La sera del 24 settembre 2005, Federico la trascorre con i suoi amici in un locale di musica dal vivo di Bologna. Quando il concerto si conclude, i ragazzi si dirigono in auto verso Ferrara. Arrivati in città, Federico si fa lasciare a circa 1 km da casa per tornare a piedi. Federico “era tranquillo, non barcollava e non era agitato", dichiareranno successivamente i suoi amici. In quel momento, però, passa una volante della polizia che decide di effettuare un controllo. Dopo poco viene chiamata una seconda pattuglia. Comincia una colluttazione che porta Federico alla morte. La famiglia, avvisata ben 5 ore dopo l’avvenuto decesso, ritiene inverosimile l’ipotesi di un sopraggiunto malore, così come comunicato dagli agenti all’ambulanza del 118, poiché il corpo di Federico presenta moltissime lesioni ed ecchimosi. Secondo i risultati dalla perizia del medico legale disposta dal Pubblico Ministero, la causa ultima della morte sarebbe spiegata da un’insufficienza cardiaca conseguente ad un mix di alcol e droga. Di segno totalmente opposto, invece, l’indagine effettuata dai periti della famiglia, che rintracciano la causa del decesso nella mancanza di ossigeno nei polmoni, dovuta alla compressione del torace da parte di uno degli agenti, e dichiarano che la dose di droga assunta è assolutamente irrilevante e incompatibile con la morte del ragazzo e l’alcol persino al di sotto dei limiti imposti dal codice della strada. Inoltre il corpo rileva i segni delle violenze subite. Si apre l’inchiesta, che vede indagati quattro agenti per omicidio colposo. Durante il primo incidente probatorio, in cui una testimone oculare racconta di aver visto due agenti comprimere Federico sull’asfalto, picchiarlo e manganellarlo mentre chiedeva aiuto tra i conati di vomito, emergono segni di trascinamento sull’asfalto e schiacciamento dei testicoli. Dalle indagini vengono alla luce, inoltre, svariate incoerenze che fanno aprire una seconda inchiesta per falso, omissione e mancata trasmissione di atti. Nel tempo vengono effettuate ulteriori perizie. Infine, i quattro agenti vengono condannati in Primo Grado a 3 anni e sei mesi per “eccesso colposo in omicidio colposo”, pena confermata in Appello e resa definitiva in Cassazione. La pena verrà poi ridotta a sei mesi per via dell’indulto. Nel 2010, altri tre poliziotti vengono condannati per omissione di atti d’ufficio e favoreggiamento, confermando l’ipotesi del depistaggio e l’intralcio alle indagini. I genitori di Federico si sono sempre battuti affinché fosse fatta chiarezza sulla morte del figlio, aprendo prima un blog e poi una pagina facebook dedicata alla vicenda. Hanno dovuto scontrarsi con l’omertà, il silenzio della politica e il “corporativismo” della polizia. È bene precisare che è proprio l’appello della mamma di Federico ad evitare che il caso venga archiviato per decesso da overdose letale. Nel 2012, sulla pagina facebook «Prima difesa», gestita dall’associazione omonima e da un gruppo aperto a cui partecipano tanti rappresentanti delle forze dell’ordine, tra cui uno dei quattro poliziotti condannati in via definitiva, compaiono queste parole: «La “madre” se avesse saputo fare la madre, non avrebbe allevato un “cucciolo di maiale”, ma un uomo!» E sulla pagina «Prima difesa due» i commenti si sprecano, tra cui quelli dell’agente in questione, che fa riferimento a Ferrara quale “città rossa come la bandiera sovietica” e invita tutti i “comunisti di m…” a vergognarsi. Nel marzo del 2013 gli agenti del Coisp (coordinamento per l’indipendenza sindacale delle forza di polizia), per manifestare solidarietà ai quattro poliziotti condannati, partecipano ad un sit-in a Ferrara, che si tiene provocatoriamente sotto la finestra dell’ufficio di Patrizia Moretti, madre di Federico. La donna decide allora di srotolare la ormai nota foto di Federico, nelle condizioni in cui è stato ridotto la notte della sua morte, davanti ai manifestanti che voltano le spalle per poi recarsi verso il circolo dei negozianti e partecipare al dibattito “Poliziotti in carcere, criminali fuori, la legge è uguale per tutti?”, poiché evidentemente le due cose non possono sovrapporsi. Se sei poliziotto non puoi essere contemporaneamente criminale. È di questi giorni, invece, la notizia riguardante i cinque minuti di applausi e la standing ovation riservata a tre dei quattro agenti condannati, alla sessione pomeridiana del Congresso nazionale del Sap, il sindacato autonomo di polizia. Queste le parole di Gianni Tonelli, segretario del Sap, in una nota: “L’onorabilità della Polizia di Stato è stata irrimediabilmente vilipesa e solo una operazione di verità sarà in grado di riscattare il danno patito. Alla stessa stregua i nostri colleghi, ingiustamente condannati, hanno patito un danno infinito.” E questa una delle reazioni politiche comparse in rete: Perché evidentemente “chi porta la divisa non può essere insultato come se niente fosse”. Celere la reazione di Patrizia Moretti, le cui parole vengono divulgate tramite la pagina dedicata al figlio, rivolte ai politici che le hanno invece dimostrato vicinanza: “Ho ricevuto tanta solidarietà da alte cariche, ma se il tutto si esaurisce in una telefonata, rimane una parola vuota. Io mi sottraggo da questo dialogo malato con chi applaude gli assassini di mio figlio, lascio la parola alla politica".
Il sorprendente episodio degli applausi capita, tra l’altro, in un momento in cui si sta cercando di fare luce su di un’altra morte sospetta, avvenuta nel marzo di quest’anno, quella di Riccardo Magherini, 39 anni. Un uomo che perde la vita a Firenze in circostanze poco chiare, mentre si trova nelle mani dei carabinieri. In un primo momento, infatti, la versione data risulta essere quella di un arresto cardiaco dovuto anche all’utilizzo di sostanze stupefacenti. Il padre, però, non convinto di questa versione decide di approfondire e di portare avanti gli accertamenti. I testimoni cominciano a raccontare di calci e percosse, compare un video in cui l’uomo chiede disperatamente aiuto, gridando “non ammazzatemi, ho un bambino” e iniziano a circolare le eloquenti foto del cadavere. Alla fine del mese scorso, i familiari di Riccardo, sostenendo che l’uomo, tra le altre cose, sia stato immobilizzato troppo a lungo attraverso una forte pressione toracica, sporgono denuncia: i carabinieri responsabili dell’arresto vengono, così, accusati di omicidio preterintenzionale e i primi sanitari intervenuti di omicidio colposo.
Ilaria Cucchi, sorella di Stefano Cucchi, morto nel 2009 a 31 anni durante la custodia cautelare per possesso di sostanze stupefacenti, anch’esso in circostanze poco chiare, ha pubblicato una lettera aperta tramite il suo profilo Facebook, in seguito agli elementi venuti alla luce sulla morte di Riccardo: Dava in escandescenze… E si liquida così. Troppo facile. In una frase, fredda, spietata, si liquida una VITA, un’affettività, un mondo fatto dei tanti piccoli o grandi momenti unici che caratterizzano ogni esistenza. Ogni VITA. In due parole si tenta di mettere una pietra tombale sulla verità. E si sta dicendo che quella VITA non contava nulla, o poco di più. Troppo facile… Ma non si può. La VITA è il bene più prezioso, da difendere, tutelare, proteggere. Così come la dignità. Dei vivi… E dei morti. I morti. Quelli scomodi. Quelli che nell’immaginario collettivo se la sono cercata. Quelli, tanti troppi, che sono morti per colpa loro. E così ci si mette a posto la coscienza e si va a dormire tranquilli… Che tanto a noi non succederà mai. Povero disgraziato per riprendere le parole di uno dei tanti personaggi illustri che voleva contribuire a liquidare un omicidio di Stato tra i più terribili come quello di Federico, come morte per droga. Troppo facile. Il tentativo di cancellare una realtà scomoda, di cancellare con un solo gesto la verità. In nome di interessi superiori che faccio sempre più fatica a comprendere. Riccardo Magherini, come mio fratello Stefano, non è morto perché drogato. Non è morto perché dava in escandescenze. La realtà è molto più semplice, e molto più terribile. La sua VITA è terminata mentre chiedeva aiuto a chi avrebbe dovuto tutelarlo. Mentre era inginocchiato davanti a loro e gridava disperatamente aiutatemi sto morendo. Ed è morto. Tutto terribilmente semplice e chiaro. E sul suo povero corpo i segni indelebili di quella notte, di quell’incontro. Credo non ci sia altro da aggiungere…Se non che mi ha emozionata, in questi giorni, poter essere vicina alla famiglia di Riccardo, conoscere i suoi amici… E capire, per loro tramite, chi era Riccardo. E quanto ha lasciato in ogni persona che ha fatto parte della sua VITA. E il vuoto, incolmabile. E la disperazione per quella morte assurda. Tutto il resto solo ipocrisie. Anche nel caso di Stefano Cucchi, il personale carcerario imputa la morte a un supposto abuso di droga o pregresse condizioni fisiche, attribuendogli la responsabilità di aver rinunciato alle cure. Ma già durante il processo, il ragazzo mostra difficoltà a camminare e dopo l’udienza le sue condizioni peggiorarono ulteriormente: presenta lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso, all’addome e al torace, fratture alla mascella e alla colonna vertebrale e un’emorragia alla vescica. Muore all’ospedale Sandro Pertini nell’ottobre 2009, senza che i familiari abbiano mai potuto verificarne lo stato di salute. Dodici persone – sei medici, tre infermieri e tre guardie carcerarie – vengono accusate dell’omicidio con diversi capi d’imputazione, tra cui: abbandono d’incapace, abuso d’ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni e abuso di potere. I sei medici dell’ospedale vengono condannati per omicidio colposo ma gli agenti, accusati di aver picchiato il ragazzo, vengono assolti per insufficienza di prove, insieme agli infermieri, accusati di non aver prestato assistenza a Cucchi mentre era ricoverato.
E poi c’è il caso Giuseppe Uva, 43 anni, morto il 14 giugno del 2008, fermato in stato di ubriachezza con un suo amico e portato in caserma con lo stesso. Qui Giuseppe Uva rimane in balia di decine di poliziotti. Il suo amico dalla stanza accanto sente urla disumane per più di due ore, così si decide a chiamare un’ambulanza, sussurrando per non farsi ascoltare: “Venite nella caserma in Via Saffi stanno massacrando un ragazzo". Gli operatori del 118 chiamano immediatamente in caserma per capire cosa stia accadendo ma uno dei militari risponde “No guardi, sono due ubriachi che abbiamo qui ora gli togliamo i cellulari. Se abbiamo bisogno vi chiamiamo noi". Alle 5 del mattino, dalla caserma parte la richiesta del tso per Uva. Trasportato al pronto soccorso, viene poi trasferito al reparto psichiatrico dell'ospedale di Circolo, mentre il suo amico viene lasciato andare. Sono le 8.30. Poco dopo due medici - gli unici indagati dell'intera storia poi prosciolti nel 2013 - gli somministrano sedativi e psicofarmaci che ne provocano il decesso, perché sarebbero incompatibili con l'alcol bevuto durante la notte". Da quella notte, l’ultima di Giuseppe, sono trascorsi sei anni e la sua famiglia combatte affinché venga fuori la verità. L’11 marzo scorso il Gip di Varese ha ordinato l’imputazione coatta per omicidio preterintenzionale, arresto illegale, abuso d’autorità su arrestato e abbandono d’incapace degli otto agenti – due carabinieri e sei agenti di polizia – responsabili del fermo e dell’interrogatorio. Il 24 marzo al programma “Chi l’ha visto?” spunta un’altra testimone, una donna che quella notte si trova proprio lì, in ospedale, quando Giuseppe Uva entra scortato dagli agenti: «C’erano guardie e carabinieri. Sono rimasti in quattro – cinque, o sei. E lui continuava a urlare: “bastardi!”. Allora uno di quelli, carabiniere o poliziotto, questo non so, ha detto: «Basta adesso, finamola!”. Poi si è rivolto a dei colleghi così: “Portiamolo di là e gli facciamo una menata di botte”. Loro hanno aperto una porta e poi hanno chiuso. All’uscita ho notato che lo sorreggevano bene. Io in quel momento ho guardato lui, e al naso aveva questa escoriazione. Ho sentito dire: “prendete la barella, che lo mettiamo sulla barella”. Infatti l’hanno messo sulla barella e poi hanno chiamato il dottore, che gli ha messo la flebo». Un copione che si ripete, dunque, quello di queste morti avvenute in “circostanze sospette”: le vittime dipinte come tossici disadattati, descrizione che dovrebbe risultare sempre e comunque una giustificazione per le forze dell’ordine. Per gli agenti Aldrovandi non è altro che un “invasato violento in evidente stato di agitazione", Riccardo una specie di folle tossico che girovaga “senza meta” per il centro di Firenze, intento a sfondare vetrine “per rabbia” e “a furia di pugni”, a rubare cellulari e a “entrare nella macchina” di una ragazza. Per quanto riguarda Stefano, il sottosegretario di Stato Carlo Giovanardi arrivò ad asserire che fosse semplicemente un tossicodipendente anoressico e sieropositivo, dovendosi scusare in seguito per queste false affermazioni, mentre Giuseppe Uva non è nulla di più che “un ubriaco” da imbottire di sedativi e psicofarmaci. Il senatore Manconi ha descritto questo meccanismo post-mortem di stravolgimento della biografia come una “doppia morte“, che avviene“enfatizzando o inventando elementi che possano compiere l’opera di degradazione della vittime”: "Alla vittima rimasta sul terreno, a quella morta in cella o dentro un Cie si applica un processo di stigmatizzazione, di deformazione della sua identità. Così e successo con Aldrovandi, come con Cucchi, Uva e tanti altri. La morte fisica viene seguita da un processo di degradazione dell’identità della vittima, un linciaggio della sua biografia". Ma fortunatamente ci sono altre voci. Quelle dei familiari, ad esempio. Patrizia Moretti lo scorso febbraio, alla fine della manifestazione per chiedere l‘allontanamento dall’incarico di polizia per quegli stessi agenti che ora vengono applauditi pubblicamente dai colleghi, ha voluto ribadirlo con queste parole: “Sappiate che ci saranno sempre le famiglie. Ci saranno sorelle, figli, madri, mogli… E io, come mamma, lo grido forte: non staremo zitte, non lasceremo correre.” Perché sì, ci sono quegli applausi che ci fanno capire come le famiglie di questi ragazzi, che sono morti non perché “folli”, “invasati”, “drogati” ma perché abbandonati dallo Stato, che hanno perso la vita mentre chiedevano aiuto a chi avrebbe dovuto prendersi cura di loro e tutelarli, siano in realtà sole a combattere una battaglia per salvaguardare quello che resta del ricordo dei loro familiari. Quegli applausi ci fanno intendere che pararsi dietro alla scusa delle “mele marce” all’interno delle forze dell’ordine risulta alquanto anacronistico. Rileggere le dichiarazioni secondo cui “i manifestanti del Coisp non rappresentano la polizia”, come avvenne per bocca della ministra Cancellieri successivamente al sit-in organizzato contro la mamma di Federico Aldrovandi, è oggi ancora più amaro, dopo la solidarietà dimostrata nei confronti degli agenti che uccisero Federico. Solidarietà che è proseguita anche dopo lo scoppio dell’indignazione. Perché in tutta questa storia non vi è solo mancanza di rispetto nei confronti di una famiglia, di due genitori, di un ragazzo di diciotto anni e della sua morte. Quegli applausi ci dicono molto di più. Ci raccontano di una complicità “da camerata”, di un approccio rivendicativo e settoriale, in cui “il gruppo” diventa intoccabile. E intoccabili appaiono, dunque, le divise nell’immaginario collettivo. Le divise di coloro che rappresentano lo Stato, che “rischiano la vita per difendere i cittadini”. E a cui, forse, per molti può essere concesso “di più". Questo “di più” spesso rappresenta però l’abuso di potere e vorremmo davvero capire se l’appoggio, o comunque l’omertà, dimostrata nei confronti di tali atteggiamenti sia “l’eccezione”, come continuano a ripeterci, o non piuttosto “la regola”. Una cosa è certa: il silenzio può anche uccidere. E per gli agenti condannati non possiamo che urlare: #vialadivisa! Insieme a Federico, Riccardo, Stefano e Giuseppe, chiediamo giustizia per:
Carlo Giuliani, 2001. Sono le 17.27 del 20 luglio del 2001, Carlo Giuliani, un ragazzo di 23anni, viene raggiunto da un proiettile durante le manifestazioni del G8. A sparare è un carabiniere da una vettura blindata, un defender, Mario Placanica. Carlo è un ragazzo molto esile, si trova lì in mezzo all’assalto nel giorno peggiore del g8. Viene lasciato lì per terra e il defender, mentre tentava di allontanarsi, sale per due volte sull’esilissimo corpo di Carlo. Sin da subito i carabinieri che si trovarono in quel momento sul posto tentano di dare la colpa ad altri manifestanti, affermando che qualcuno di loro lo avrebbe colpito con un sasso. Il carabiniere che sferra i due colpi viene indagato per omicidio e poi prosciolto per legittima difesa dalla giustizia italiana. La Corte europea dei diritti dell’uomo, alla quale la famiglia Giuliani aveva fatto ricorso accoglie la ricostruzione italiana. Qualche anno dopo, nel 2009, lo stesso carabiniere viene accusato e denunciato per violenza sessuale su minore e maltrattamenti nei confronti di una bambina, figlia della sua compagna, che all’epoca dei fatti avvenuti ha 11 anni. Gli abusi sulla bambina sarebbero durati circa un anno. Il processo per scoprire la verità è ancora in corso: il 3 luglio del 2012 il giudice dell’udienza preliminare di Catanzaro lo rinvia a giudizio. Il 28 giugno 2013 il tribunale rigetta la richiesta della difesa di improcessabilità per disturbi mentali.
Marcello Lonzi, 2003. Marcello Lonzi muore in carcere all’età di 29 anni. Le cause del decesso vengono attribuite a un infarto, nonostante il referto dell’autopsia e le foto del corpo rivelerebbero tutt’altro. Infatti, dopo anni di lotte, nel 2006 viene riesumata la salma e si scopre che il corpo presenta ben 8 costole rotte, 2 buchi in testa e un polso fratturato.
Riccardo Rasman, 2006. Riccardo Rasman muore nella propria casa di Trieste dopo l’intervento di due pattuglie della polizia, semplicemente perché ha sparato dei petardi per festeggiare il nuovo lavoro. Ha 34 anni e muore per “asfissia da posizione”, dopo aver subito lesioni e violenze da quattro poliziotti. E’ affetto da “sindrome schizofrenica paranoide” dalla leva militare, durante la quale subisce numerosi episodi di “nonnismo”. Da lì inizierà a vivere con la paura delle divise.
Gabriele Sandri, 2007. L’11 novembre del 2007 Gabriele Sandri, un ragazzo di 28 anni che si trova in macchina con alcuni amici per andare a vedere una partita di calcio, viene raggiunto dal proiettile sparato da un poliziotto che si trova dall’altra parte della carreggiata, in una stazione di servizio. Gabriele viene colpito al collo e muore. Il poliziotto accusato di omicidio volontario viene condannato il 14 luglio 2009 in primo grado per omicidio colposo a una pena di 6 anni di reclusione. In appello la condanna viene aggravata ad omicidio volontario con una pena di 9 anni e 4 mesi, successivamente confermata anche in Cassazione.
Michele Ferrulli, 2011. Michele Ferrulli muore il 30 giugno del 2011 durante un controllo di polizia. La polizia viene chiamata da un abitante del quartiere dove è accaduto il fatto, forse perché infastidito dalla musica che Michele Ferrulli stava ascoltando con due amici mentre bevevano qualche birra. L’intervento della polizia degenera all’improvviso per motivi poco chiari e Michele Ferrulli si ritrova a terra con i 4 agenti sopra. A riprendere questi momenti c’è un video, un po’ sgranato, girato con un telefonino da alcune decine di metri, ma è evidente che l’uomo sia a terra e i 4 agenti attorno: uno di questi che lo mantiene, un altro che lo colpisce con dei pugni all’altezza del collo, e lui che continua ad invocare aiuto. Nessuno lo aiuterà, morirà poco dopo all’ospedale per arresto cardiaco.
Rosa, 2012. Rosa studentessa universitaria di 21 anni, viene ritrovata fuori da una discoteca a Pizzoli (Aq) seminuda e coperta di sangue. Viene portata in ospedale in stato di incoscienza e con un grave shock emorragico, il medico che la opera dichiara : “In trent’anni di attività non avevo mai visto nulla del genere”. Le lacerazioni interessano oltre che l’apparato genitale anche altri organi che sono stati completamente ricostruiti. Rosa è stata stuprata e abbandonata in fin di vita in mezzo alla neve. Vengono indagati tre caporali del 33/o reggimento Acqui, ma rientrano in servizio dopo un breve congedo nel giorno in cui lo stesso reggimento prende il posto degli Alpini nei servizi di pattugliamento del centro storico nell’ambito dell’operazione “Strade Sicure”. Serve la pressione del comitato 3e32 de L’ Aquila perché questa notizia venga fuori e perchè sia chiesto a gran voce l’allontanamento degli indagati per stupro dal ruolo di tutori dell’ordine nell’ambito di un’operazione chiamata tra l’altro proprio “Strade Sicure”. Qualche giorno dopo, a febbraio 2012, viene arrestato Francesco Tuccia, il 21enne militare della provincia di Avellino, principale sospettato della vicenda. Al giovane militare, volontario del 33/o reggimento Artiglieria Acqui, vengono contestati i reati di tentato omicidio e violenza sessuale. Secondo il pm David Mancini, non c’è stato rapporto sessuale ma una violenza sessuale anche con l’utilizzo di un corpo estraneo. Il processo si svolge con rito immediato, si prova da subito a non lasciare sola Rosa e la sua voglia di giustizia. Sit in di donne, femministe, accompagnano il lungo percorso fino alla condanna a 8 anni di carcere per il militare. Il Tribunale condanna Tuccia anche alla pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e a quella dell’interdizione legale per la durata della pena principale inflitta. I giudici, inoltre, condannano l’imputato al risarcimento dei danni cagionati alle parti civili, da liquidarsi in separato giudizio. Tuccia viene condannato anche al pagamento di una provvisionale di 50mila euro in favore della parte civile (la studentessa universitaria di Tivoli) e altri 2mila in favore del Centro Antiviolenza per le Donne dell’Aquila. Quando il collegio fa ingresso in aula, Tuccia e la famiglia abbandonano subito l’aula, uscendo da una porta laterale.
Magherini come Aldovrandi? Si chiede Silvia Mari su “Altre notizie”. “Freddo non gli prende perché ha due carabinieri sopra”. E’ la notte in cui Magherini muore a Borgo San Frediano. “Ragazzo immobilizzato dai carabinieri. Trenta anni. Stanno rianimando. Per ora metti droga, poi vediamo”. Questa la sequenza delle telefonate del soccorso medico e i carabinieri, tra tutte quelle dei cittadini del posto che svegliati dalle urla di Riccardo chiamano le forze dell’ordine per segnalare che qualcosa di grave sta accadendo sotto le loro finestre. I fatti di quella notte, 3 marzo scorso, sono affidati alla ricostruzione degli amici di Riccardo che lo vedono per ultimi, del taxi, dell’amico del bar che lo accoglie spaventato, quasi terrorizzato ma inoffensivo fino all’arrivo dei carabinieri che lo immobilizzano brutalmente e che dichiarano che il ragazzo è ubriaco, nudo e spacca macchine. Ma il video amatoriale rubato da un testimone alla finestra con il telefonino che ha già fatto il giro del web non mostra un uomo pericoloso e minaccioso, non documenta alcun atto vandalico, ma un ragazzo accerchiato da tanti uomini, che lo comprimono a terra, gli danno un bel calcio per farlo tacere con qualche sarcastica battutina d’accompagnamento, mentre il giovane Riccardo non fa che gridare “aiuto” e dire che “sta morendo”. Queste le sue ultime parole. L’autopsia ha certificato che la morte di Magherini, ex calciatore del Prato di 40 anni, in realtà è sopraggiunta dopo lunga e dolorosa agonia. La causa principale della consulenza medica viene addebitata ad uno stupefacente assunto da Riccardo, ma c’è una parte residuale (su cui si farà battaglia) dovuta a complicanze asfittiche e cardiologiche. Per ora si escludono traumi di tipo lesivo dovuti a percosse, ma ancora una volta le foto del corpo dopo il decesso mostrano segni e lividi che vanno ben oltre la morte per soffocamento. Non è difficile ipotizzare che il balletto di telefonate con i soccorsi e l’accerchiamento brutale e la compressione sul corpo di Riccardo non abbiano aiutato il giovane a superare la crisi, ma lo abbiano definitivamente condannato a morte. Sono quattro i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, cinque operatori e due centralinisti del 118 per omicidio colposo. Viene in mente, per analogia di cronaca, il caso del diciottenne Aldovrandi. La famiglia chiede di far luce sulle responsabilità. Non è chiaro e non è legalmente tollerabile che un uomo che grida, fosse pure in preda ad una crisi per droga, che non ha colpito o danneggiato niente e nessuno, invece di essere tempestivamente soccorso, sia accerchiato, sbattuto a terra anzi schiacciato quando già gridava di soffocare, preso a calci, come sentono i cittadini in quella notte, anche con un sarcasmo orribile da branco e con tanta sottovalutazione da parte degli uomini del soccorso, che arrivano per “sedare” un uomo che è a faccia in giù sull’asfalto, ammanettato e senza respiro. Un controsenso, un’errata valutazione delle sue condizioni fisiche, un’overdose di violenza di gruppo su un uomo terrorizzato, visibilmente fuori di sé e in preda al panico, ma non aggressivo come tutti coloro che incontrano e sentono Riccardo quella notte sono pronti a testimoniare. Ancora una volta c’è, aldilà degli esiti giudiziari anche facili da immaginare, una sproporzione evidente tra l’azione delle forze dell’ordine - in questo caso carabinieri - e la persona per la quale sono chiamati ad intervenire. Nel caso di Riccardo un uomo destabilizzato da qualche stupefacente che teme di essere accusato di rapina per non aver pagato il taxi, che scappa e chiama aiuto, che non “spacca macchine”, che non aggredisce alcuno. Nel caso di Aldovrandi un ragazzetto che tornava a casa, pestato a morire e soffocato, per cui tutte le istituzioni sono scese in campo a processo concluso e dopo l’orrore degli applausi agli agenti assassini. E ancora Stefano Cucchi, anche lui tumefatto di calci e lasciato morire dentro un ospedale dello Stato. La giustizia che come al solito salva gli uomini in divisa a priori e nonostante i fatti, quelli che proprio per onore di ciò che rappresentano – giustizia, legalità e sicurezza - dovrebbero pagare più degli altri quando ledono la legge e i diritti umani fondamentali, lasciano soprattutto un altro interrogativo sui corpi di queste vittime. Non si sa se sia stato per incompetenza, impreparazione o per un’odiosa esaltazione accompagnata da rivalsa ideologica contro chi ha il peccato di essere più fragile, magari di essere o esser stato un tossicodipendente, di chi vive nella marginalità o nel disagio. Un debole contro cui è facile e barbaro essere forti e scatenare campagne di odio sociale. Lo stesso che vediamo quando vengono affrontati i cortei degli studenti. Mentre indisturbati i delinquenti, drappelli di barbari a piede libero, riempiono gli stadi ogni domenica con la scusa del tifo calcistico e assediano città per ore e ore, lasciando i cittadini perbene in balia e in ostaggio degli incappucciati delle tifoserie. Qui non c’è uso sproporzionato della forza, qui tutto avviene al cospetto di divise imbarazzate, prudenti e obbedienti ad ordini che, evidentemente, considerano la vita di un delinquente allo stadio di maggior valore di quella di un uomo isolato e spaventato che grida di essere aiutato.
Caso Magherini, "omicidio colposo in concorso: indagati anche gli operatori del 118. Altri due sanitari nei guai. e ora le persone coinvolte sono undici, scrive di Gigi Paoli su “La Nazione”. E siamo ad undici. Tante sono le persone che il sostituto procuratore Luigi Bocciolini ha iscritto nel registro degli indagati per l’ancora misteriosa morte di Riccardo Magherini, il quarantenne colpito da un malore fatale dopo aver avuto una colluttazione con i carabinieri che lo stavano arrestando nella notte fra il 2 e il 3 marzo scorso in San Frediano. E’ infatti notizia di ieri che gli inquirenti hanno deciso di procedere anche nei confronti dei due centralinisti della centrale operativa del 118 che materialmente ricevettero le telefonate di richiesta di intervento: uno è colui che parlò con i carabinieri, l’altro è colui che smistò le ambulanze per dirigerle, prima una con tre volontari e poi l’altra con medico e infermiere, in borgo San Frediano. Per entrambi l’accusa è omicidio colposo in concorso ed è la stessa che viene avanzata nei confronti dei cinque sanitari intervenuti sul posto. Una ben più grave contestazione di omicidio preterintenzionale colpisce invece i quattro carabinieri che fisicamente bloccarono Magherini, in evidente stato di alterazione psico-fisica, fino a spingerlo a terra ammanettato pancia a terra. In questa posizione rimase bloccato fino a quando non ci si accorse che l’uomo non respirava più. Al centro dell’inchiesta c’è sia il presunto eccesso di violenza dei militari al momento del fermo sia il modo in cui lo stesso Magherini venne immobilizzato: secondo l’esposto presentato dai familiari dell’uomo, il quarantenne «risulta essere stato immobilizzato con un uso della forza non previsto e contemplato nelle tecniche di immobilizzazione delle forze dell’ordine, fra cui: presa e stretta del collo con le mani; calci quantomeno ai fianchi-addome anche nel momento in cui era già steso prono a terra; prolungata pressione di più agenti sul suo corpo, compreso il tronco, in posizione prona sull’asfalto». E ancora: «Nel lungo arco temporale iniziato ‘qualche minuto prima’ che arrivasse la prima ambulanza fino a quando è arrivata la seconda ambulanza con l’avvio delle manovre di soccorso (almeno 15 minuti), Riccardo era già divenuto totalmente silenzioso e immobile». Nonostante questo «i quattro militari intervenuti hanno invece deciso di continuare a tenere Riccardo immobilizzato nella medesima posizione, continuando a esercitare pressione sul dorso».
Magherini, le chiamate di quella notte, scrive “La Nazione”. Le telefonate dei testimoni e quelle tra polizia, 118 e carabinieri nella notte del 2 marzo quando in Borgo San Frediano, a Firenze, è morto Riccardo Magherini, l'ex calciatore della Fiorentina durante un concitato arresto da parte dei carabinieri. Sono le una del mattino, quando alla centrale del 112 arriva la prima richiesta di intervento: “ci siamo svegliati, si sentiva urlare delle persone che chiedevano aiuto”, racconta un residente. Nel giro di pochi minuti da Borgo San Frediano partono altre chiamate dello stesso tenore. Poco dopo l'arresto, la centrale dei carabinieri avverte i colleghi della questura: “l'abbiamo trovato, è uno ubriaco, a petto nudo, che spaccava macchine”. Un particolare poi smentito da tutti i testimoni, secondo i quali Magherini quella notte non appariva né violento o pericoloso, ma solo terrorizzato. La prima chiamata al 118 parte alle 1,21. Arrivati sul posto, gli operatori della prima ambulanza chiedono l'intervento di un medico. “dicono che ha tirato le manette in testa a un carabiniere adesso ne ha due sopra per tenerlo fermo e fino a quando non arriva il medico non lo lasciano più”. All'inizio gli operatori della centrale non capiscono la gravita della situazione e ci scherzano su: “Freddo non gli prende perché ha due carabinieri sopra”. E' il medico intervenuto con la seconda ambulanza che fa partire l'allarme, annunciando il trasferimento di urgenza all'ospedale di Santa Maria Nuova: “paziente trovato immobilizzato in asistolia, sto massaggiando”. Quando l'operatore del 118 chiede se il ragazzo ha preso droga, il medico risponde con la voce spezzata dalla tensione: “Per ora digli così, poi ne riparliamo”.
Le telefonate tra carabinieri e 118 con tono tranquillo: "C'è uno a petto nudo in mezzo alla strada", poi la situazione che precipita, fino alla telefonata del medico del 118 che comunica alla centrale che "il ragazzo è in acr (arresto cardio respiratorio, ndr)". E' tutta in una decina di telefonate la vicenda di Riccardo Magherini, il quarantenne morto dopo essere stato bloccato dai carabinieri in Borgo San Frediano a Firenze in seguito a una crisi di panico che lo aveva portato alla perdita del controllo. Telefonate tra il 118 e i carabinieri e tra il 118 e l'equipaggio dell'ambulanza chiamata a soccorrere l'uomo. Una vicenda che ha fatto dibattere l'opinione pubblica e che ora rivive in quelle telefonate. La prima, intorno alle 1.20, è proprio dei carabinieri, che segnalano al 118 che "c'è un uomo completamente di fuori, a petto nudo. Ci sono già due mie autoradio che stanno cercando di calmarlo". I carabinieri dunque si rivolgono direttamente al 118 e chiedono di intervenire. Le telefonate continuano. L'ambulanza inviata sul posto all'inizio sembra, da quello che si capisce dalle telefonate, non riuscire a trovare il luogo dove i carabinieri hanno immobilizzato Magherini. "La mia pattuglia - dice un carabiniere - riferisce che l'ambulanza gli passa vicino ma non si ferma". Il disguido viene risolto e l'ambulanza arriva. In altre telefonate il 118 chiede all'equipaggio dell'ambulanza "quanti maschietti ci sono?", sottolineando che la persona da soccorrere, Magherini appunto, è in forte stato di agitazione. "E' mezzo nudo e ha tirato le manette in faccia a un carabiniere". I colloqui sono quasi scherzosi in alcuni punti. Sono tutte telefonate che avvengono tra le 1.20 e le 2. E la situazione sembra comune a tante altre che riguardano ubriachi o persone fuori controllo nel centro storico. Il tono delle telefonate cambia completamente dopo le due. Quando il medico del 118 inviato sul posto avverte la centrale. "Sto massaggiando, il ragazzo è in acr, sono per la strada", dice il medico con voce molto preoccupata. "Io direi che lo metto sopra (ovvero nell'ambulanza, ndr) e avvisi Santa Maria Nuova (l'ospedale) che sto arrivando massaggiando". La centrale del 118 avvisa a quel punto l'ospedale. Riccardo Magherini non riaprirà mai più gli occhi.
Le ultime grida di Magherini arrestato: ''Aiuto, sto morendo''. "Aiuto aiuto, sto morendo". Sono le ultime, strazianti parole di Riccardo Magherini, 40 anni, l’ex giocatore delle giovanili viola morto la notte tra il 2 e il 3 marzo in Borgo San Frediano, a Firenze, durante l'arresto dei carabinieri. La richiesta di aiuto è stata registrata con un telefonino da un residente affacciato alla finestra. Pochi minuti prima Magherini era stato bloccato mentre vagava in stato confusionale: "Aiuto, vogliono uccidermi", gridava. Arrivati sul posto i carabinieri lo immobilizzano al termine di un parapiglia, davanti a decine di persone affacciate alle finestre e a un gruppo di passanti. Sono le 1,25: un residente si affaccia alla finestra e gira il video, mentre Riccardo si trova ammanettato a terra in posizione prona, con quattro carabinieri che lo tengono fermo sull'asfalto. Nelle immagini non si vede niente, ma si sentono le invocazioni di aiuto: "Mi sparano","ho un figlio", "sto morendo". Poi, all’improvviso, Riccardo smette di urlare e di dimenarsi. Per chiarire le cause della tragedia la magistratura ha aperto un’inchiesta, al momento senza indagati. L'autopsia ha escluso che la morte sia stata provocata da percosse. Sono in corso gli esami istologici e tossicologici che dovrebbero indicare la causa della morte e chiarire se un intervento tempestivo avrebbe potuto salvarlo. Chi l'ha visto ricostruisce la cronologia delle telefonate tra residenti e soccorsi. Chiamate di soccorso ancora sotto accusa, quella dell'opinione pubblica. Così potrebbero essere riassunte le telefonate di quella tragica notte fiorentina che ha visto Riccardo Magherini in San Frediano scappare da una presunta minaccia di morte, entrare e uscire dai locali, rompere alcune vetrine e finire la sua corsa tra le braccia dei carabinieri. La trasmissione di Rai 3 ha riproposto le conversazioni tra residenti allarmati e forze dell'ordine. Ma anche le chiamate avvenute tra gli stessi addetti ai lavori e proprio queste hanno suscitato imbarazzo e polemiche anche e soprattutto a Firenze. Al centralino qualcuno prende le notizie con leggerezza, altri se la ridono. "Un uomo a torso nudo.. rompe delle auto in sosta" non è una bella immagine quella che arriva attraverso l'etere a chi deve intervenire e non ha modo di valutare personalmente la scena. I cittadini sono preoccupati per le urla che provengono dalla strada, sollecitano l'intervento dei soccorsi. Quando l'ambulanza non trova le pattuglie dei carabinieri accade l'incredibile: "I carabinieri dicono che state passando ma non vi vedono" è la segnalazione del centralino alle ambulanze. Tra gli indagati ci sono i carabinieri, a causa del modus operandi sul fermo, ma anche alcuni dei soccorritori per presunte irregolarità commesse nel corso dell'intervento. Il quadro che ne esce non mette in buona luce gli operatori, rischia anzi di compromettere il rapporto di fiducia tra soccorso pubblico e cittadinanza.
Magherini, la difesa dei volontari:"Le manette ostacolarono l'intervento". "Quel video, quelle urla: quanto dolore...": parla il padre di Riccardo Magherini. Guido Magherini, padre di Riccardo, racconta la sua battaglia cominciata il 3 marzo dopo il fermo e la morte del figlio: "Ricky chiedeva aiuto, non aveva aggredito nessuno, scrive Selene Cilluffo su “Today”. Riccardo Magherini era un ex calciatore della primavera della Fiorentina. Nella notte tra 2 e il 3 marzo subisce un fermo da parte di alcuni carabinieri. Poco dopo è morto. Sul caso ancora tante le ombre. Ma ciò che è sicuro è l'impegno della sua famiglia per chiedere verità e giustizia. Per questo abbiamo parlato con suo padre, Guido Magherini.
Lei e Andrea, fratello di Riccardo, avete spesso sottolineato che il nonno della famiglia faceva parte dell'Arma dei carabinieri. Ha mai ricevuto solidarietà da parte di qualcuno dell'Arma dei carabinieri? Personale o pubblica?
"No, assolutamente, mai. A parte il primo giorno dove ci hanno mostrato vicinanza perché sono amico di alcuni di loro. Ma da quella volta lì, basta, nulla più".
Pochi giorni fa centinaia di persone hanno partecipato al Flash Mob per Ricky. Quanto è importante per Lei sentire la vicinanza di questa gente che vuole come la sua famiglia verità e giustizia?
"Un affetto così non pensavamo neppure di averlo. Abbiamo avuto la conferma che Riccardo era amato da tutti in un modo davvero bello, pulito. Le porto un esempio: siamo stati a "Chi l'ha visto" e Andrea ha detto che volevamo rispetto anche dall'avvocato che difende i carabinieri, che è pagato con soldi pubblici, come i suoi assisti. Poco dopo sulla pagina facebook gli amici del Maghero è arrivato un messaggio di una ragazza che lanciava l'idea di raccogliere fondi per le nostre spese legali. Noi l'abbiamo ringraziata, ma non vogliamo niente. Quello che abbiamo capito però è quello che stava dietro a questa proposta: un affetto davvero immenso".
Avete reso pubbliche immagini, video e molto materiale sul caso. Perché è importante che la storia della morte di Riccardo si conosca?
"E' importantissimo: la gente deve capire che la Ricky ha subito un'ingiustizia. Io all'inizio neppure volevo sentirle le urla di Riccardo e non volevo vedere il video. Sono stati l'avvocato Fabio Anselmo e il senatore Luigi Manconi a convincermi. Quando ho sentito quella voce mi si è aperto e sanguinato il cuore. Continua a chiedere aiuto ma lo fa in maniera educata e lo ha fatto fino all'ultimo respiro. Se fosse successo a me gli avrei detto di tutto ai carabinieri e lui mentre veniva torturato non lo ha fatto. Noi non ce l'abbiamo con l'arma anzi vorremmo che chi fa bene il proprio lavoro prendesse le distanze da chi quella divisa non la merita".
Quindi anche Lei come Patrizia Moretti, Lucia Uva e Ilaria Cucchi pensa che chi porta una divisa e sbaglia deve togliersela?
"Quella divisa ha un senso di onore e chi si comporta male non deve indossarla. Ricky chiedeva aiuto, in più non aveva aggredito nessuno. I testimoni lo hanno smentito. Pensi che pure io all'inizio credevo a quello che mi era stato detto nonostante sia stato io a chiamare il brigadiere dei carabinieri per sapere cosa era successo a Riccardo. Lui mi rispose che era morto per infarto, che aveva fatto il pazzo, che aveva aggredito una donna. Poi c'è stato un momento in cui ho capito che qualcosa non andava. Fino a che noi non abbiamo denunciato i militari e i paramedici l'unico indagato era Riccardo, mentre lui era una brava persona, onesta, leale ed educata. Adesso sappiamo la verità e andremo fino in fondo".
Patrizia Moretti è ancora impegnata dopo più di otto anni nella battaglia per chiedere verità e giustizia per Federico. La sua battaglia è appena cominciata. Fino a quando durerà?
"Ho 63 anni, sono in buona salute e posso andare avanti fino a che non vivo. Quando morirò io c'è Andrea, suo fratello. Poi ci sono i nostri nipoti Duccio e Brando. Fino a quando non avremo giustizia non ci fermeremo. Riccardo era una brava persona, hanno voluto farlo sembrare un delinquente. Noi siamo dalla parte della ragione, siamo noi la verità".
I legali dei soccorritori della Croce Rossa indagati: "Massaggio cardiaco mentre era ancora ammanettato", scrive Luca Serrano su “La Repubblica”. “Riferendo i militari di una situazione altamente pericolosa, non è stato possibile prestare soccorso. Le reiterate richieste di togliere le manette o cambiare posizione al paziente, provenienti dai volontari della Croce Rossa, sono rimaste tutte vane. Il giovane è stato liberato dalle manette solo a massaggio cardiaco già iniziato”. E' la difesa dei legali dei tre volontari della Croce Rossa indagati per il caso Riccardo Magherini, morto la notte del 2 marzo in Borgo San Frediano durante un fermo dei carabinieri. I volontari sono indagati per omicidio colposo insieme a due operatori del 118 che coordinarono le operazioni di soccorso e al medico e all'infermiere che tentarono di rianimare Riccardo. Sul registro degli indagati anche i 4 militari intervenuti sul posto accusati di omicidio preterintenzionale. Sono le 1,32 quando l'ambulanza con i tre volontari arriva in Borgo San Frediano. “Mentre i volontari cercavano di avvicinarsi alla persona immobilizzata- dicono gli avvocati Massimiliano Manzo e Andrea Marsili Libelli- un carabiniere è andato loro incontro chiedendo in maniera vistosamente agitata, quasi aggressiva, se fra di loro vi fosse un medico, in quanto la persona era pericolosa, violenta e necessitava di essere sedata. Diversi militari si alternavano nel tenere le mani ammanettate e dietro al schiena del soggetto: chi a cavalcioni, chi con un ginocchio, chi con le mani. Una delle volontarie chiedeva al caposquadra di informare la centrale operativa del 118 circa il fatto che i carabinieri impedivano qualsivoglia valutazione del paziente”. Tempo pochi minuti e sul posto arriva anche il medico chiamato per sedare Riccardo. “Il medico chiedeva di togliere immediatamente le manette, giacché, diversamente, qualsiasi manovra di soccorsa sarebbe stata del tutto inefficace, se non impossibile- spiegano ancora. Tuttavia i militari riferivano di non trovare le chiavi delle manette, per cui i primi soccorsi (finalmente autorizzati dai militari) sono stati posti in essere con Magherini ancora ammanettato”. Chiusura, infine, sulle dichiarazioni dei tre volontari rese poche ore la tragedia davanti agli stessi carabinieri. Una testimonianza che sarebbe stata viziata da un pesante condizionamento psicologico: “Alle tre di notte due militari già presenti in Borgo San Frediano hanno sentito a sommarie informazioni uno dei volontari, nella stessa stanza con il corpo di Magherini, con comprensibile sgomento della stessa. Ed in un simile contesto, la volontaria, ancora tremante per la morte del giovane avrebbe potuto dichiarare qualunque cosa, decidendo lo stesso militare come e cosa inserire nel verbale. Tali accertamenti - concludono gli avvocati - sono viziati da assoluta nullità, del tutto inutilizzabili”. La Replica. "Leggo, oserei dire, con stupore il comunicato stampa dei difensori dei volontari della Croce Rossa che contiene la segnalazione di svariati profili di indagini tuttora in corso di accertamento". Lo dice in una nota l'avvocato Francesco Maresca, difensore dei quattro carabinieri indagati con l'accusa di omicidio preterintenzionale. "Nello stigmatizzare ancora una volta la scelta di utilizzare i giornali per presentare le proprie valutazioni processuali - continua Maresca - sono costretto a ricordare che i carabinieri intervenuti, come risulta agli atti, hanno reiteratamente richiesto e sollecitato l'intervento del 118, e quindi che gli stessi abbiano poi ostacolato gli accertamenti dei sanitari appare oggettivamente incomprensibile". E questo "sia in riferimento al caso specifico ma, ancor più, in riferimento in generale a tutti gli interventi svolti dagli operatori dell'Arma dei carabinieri" aggiunge. "Peraltro, le sommarie informazioni assunte da una dei volontari della Cri risultavano, evidentemente, prassi di indagine nell'immediatezza del decesso di una persona, così come sempre vengono svolte dagli operatori di polizia giudiziaria in seguito a un episodio del genere" prosegue la nota dell'avvocato. "Dichiarazioni poi confermate nel loro tenore dalla stessa operatrice successivamente davanti alla polizia giudiziaria delegata dal pubblico ministero e riscontrate nel contenuto circa lo svolgimento dei fatti anche da quelle degli altri volontari anch'essi sentiti nell'immediatezza e successivamente. Quale difensore dei carabinieri indagati, resto in attesa della conclusione delle indagini preliminari, ritenendo che l'intervento degli stessi è stato realizzato secondo protocollo". "Aumentano le persone da querelare per il collega Francesco Maresca". Lo dice l'avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia di Riccardo Magherini, il 40enne fiorentino morto in strada nella notte tra il 2 e il 3 marzo, dopo l'arresto, commentando il comunicato stampa dei difensori dei tre volontari della Cri, indagati insieme ai carabinieri, a 2 sanitari e a 2 operatori del 118 nell'inchiesta sulla morte dell'uomo. "Prendo atto di quanto accadde durante l'intervento - conclude l'avvocato Anselmo riferendosi alla ricostruzione dei legali dei volontari dell'ambulanza intervenuti sul posto -: presto decideremo cosa fare con la famiglia Magherini".
RICCARDO MAGHERINI, DOV’E’ LA VERITA’ TRA LE TANTE VERITA'? NUOVA VITTIMA DI MALAPOLIZIA?
Morte di Magherini, la Procura: «Processate militari e soccorritori». Si tratta di quattro carabinieri e tre volontari accusati di omicidio colposo. Il fratello della vittima: «Non finirà come il caso Cucchi, qui ci sono stati testimoni», scrive Antonella Mollica su “Il Corriere della Sera”. La Procura di Firenze ha chiesto il rinvio a giudizio per sette persone per la morte di Riccardo Magherini, l’ex calciatore di 39 anni morto durante l’arresto la notte tra il 2 e il 3 marzo scorso mentre era in preda a una crisi di panico scatenata dalla cocaina. Nella richiesta inviata al gip il pm Luigi Bocciolini e il procuratore capo Giuseppe Creazzo contestano in reato di omicidio colposo per quattro carabinieri e tre volontari che quella notte intervennero in Borgo San Frediano con l’ambulanza del 118 dopo che Magherini era stato fermato. A uno dei militari viene anche contestato il reato di percosse per alcuni calci che sarebbero stati sferrati mentre Magherini era a terra, già immobilizzato e ammanettato. Magherini, secondo la ricostruzione dei consulenti medico legali della Procura, morì per la excited delirium syndrome causata dalla cocaina e dall’asfissia determinata dalla posizione in cui venne tenuto quella notte: per oltre 20 minuti in posizione prona, con le braccia ammanettate dietro la schiena. La famiglia: nostro avversario è la prescrizione. «Le richieste di rinvio a giudizio sono una bella notizia. E ciò che differenzia la vicenda di Riccardo dalle altre, penso a quella di Cucchi, è che è successo tutto in una strada, con testimoni alle finestre», commenta Andrea, fratello di Riccardo Magherini. «Il nostro avversario è la prescrizione - ha aggiunto il padre Guido - Siamo contenti di andare a processo, è già un ottimo risultato, visto anche come vanno a finire altre vicende, come quella di Stefano Cucchi».
Secondo quanto dichiarato dall'Asl di Firenze alle 1.23 del 4 marzo 2014 il 118 di Firenze riceveva la chiamata dei carabinieri per un uomo in forte stato di agitazione. Alle 1.33 il personale paramedico è intervenuto sul posto trovando però l'uomo in un fortissimo stato di agitazione e hanno chiesto l'intervento di un medico per la sedazione arrivato alle 1.44. Secondo quanto comunicato dall'azienda all'arrivo del medico l'uomo si sarebbe già trovato in arresto cardiaco. Dopo vari tentativi di rianimazione è stato deciso il trasporto alle 2.12 verso l'ospedale di Santa Maria Nuova dove l'ambulanza è giunta alle 2.25. Alle 2.45 è stato dichiarato il decesso.
Riccardo Magherini, nuova vittima della malapolizia? Si chiede “Articolo 3”. Lo conoscevano, nel capoluogo toscano. Era stato una giovane promessa del calcio fiorentino e, proprio con la Primavera viola, vinse il torneo di Viareggio del '92, vetrina per giovani campioni. Il suo nome tra i "big" sembrava già scritto, se non che, proprio in quell'occasione, un infortunio gli costò la rottura dei legamenti e la distruzione di un sogno. Riccardo Magherini: si chiamava così, quel giovane campione che vide le sue ambizioni spazzate via, 22 anni fa. Tentò ancora fortuna nel calcio australiano, ma inutilmente. Tornato in Italia poco tempo dopo, disse semplicemente addio al mondo nel pallone, per ricominciare una vita nuova, lasciando che la sua passione restasse un ricordo, il suo nome ricordato dai più fedeli appassionati. Certo non poteva immaginare che il suo stesso nome sarebbe finito sulle pagine dei giornali, nella cronaca nera, per una morte tanto controversa quanto misteriosa. Perché Magherini è deceduto così: inspiegabilmente, nella notte tra il 3 e il 4 marzo, mentre i carabinieri tentavano di arrestarlo. Il suo cuore ha smesso di battere, probabilmente per infarto, e le ricostruzioni di quei momenti sono contrastanti, poco chiare. Magherini si trovava a Firenze, in pizzeria, ieri sera. Era con un gruppo di amici, una serata in compagnia forse organizzata per sollevargli il morale: da pochi giorni si era separato dalla moglie, con la quale aveva avuto anche una figlia, ora di due anni, ed era tornato a vivere con la madre, a quarant'anni. Una pausa, quella cena, anche dal suo lavoro, che alcuni hanno definito stressante: curava i rapporti economici della famiglia di uno Sceicco degli Emirati Arabi in Toscana. Durante la cena era parso iperattivo, ma non aveva dato alcun segno di una crisi imminente. Quella che, invece, lo ha colpito nel momento in cui i suoi amici l'hanno lasciato solo. "Qualcosa di imprevedibile è scattato nella sua testa", riferiscono fonti del comando provinciale dei carabinieri, riportate da Repubblica. Ha iniziato ad agitarsi: ha tentato di sfondare alcune vetrine e ha sottratto un cellulare ad un cameriere del locale "Borgo la pizza". "Mi vogliono sparare", aveva denunciato, "fammi chiamare la polizia". E poi la frenesia: in strada si è messo a correre e urlare, svegliando tutti. Ha rincorso addirittura un'automobile, per poi introdursi nell'abitacolo. "Ho frenato e gli ho chiesto di scendere, lui l’ha fatto subito senza dire una parola", ha spiegato la proprietaria, interpellata sempre da Repubblica. A quel punto sono giunti i carabinieri, allertati dalla cittadinanza. In due. Con le mani alzate, si sono avvicinati all'ex campione che, però, ha reagito con violenza: spintoni e pugni. Immediatamente, sono giunti i rinforzi: altri due uomini in divisa hanno raggiunto Magherini e l'hanno bloccato. Immobilizzato in terra dai quattro militari, sull'asfalto di Borgo San Frediano, l'uomo è morto. Era da poco passata l'1 di notte, la chiamata al 118 è partita infatti all'1.23. Alle 2.45, Magherini è stato dichiarato deceduto, stroncato dall'arresto cardiaco. Ma i dubbi sono tanti. Chi era in strada, ieri sera, offre versioni discordanti. C'è chi parla di un intervento legittimo e regolare, chi, invece, getta ombre pesanti sul modo di operare dei 4 militari. Magherini "era su un fianco, ho visto chiaramente tre di loro che lo colpivano con alcuni calci in pancia", ha raccontato una giovane al quotidiano di De Benedetti. "Non credo sia morto per questo, ma sono cose che non devono succedere." Il pm Luigi Bocciolini ha disposto l'autopsia: si vuole chiarire se le denunce di violenza possano essere attendibili. "Ci diranno perché il suo cuore ha ceduto", ha chiosato il padre, Guido, a sua volta ex calciatore di Milan e Palermo, intervistato da La Nazione. "Per me, è morto dalla paura. L’ho visto, Riccardo: ha il viso pieno di ematomi." A dimostrarlo, ci sarebbero delle fotografie, scattate dal fratello della vittima. Il volto, in effetti, presenta alcune escoriazioni, che potrebbero, però, essere state causate dall'attrito con l'asfalto. Resta da chiarire anche cosa possa aver scatenato la crisi. Secondo le prime ricostruzioni, si sarebbe trattato di un violento attacco di panico, dovuto all'assunzione di farmaci antidepressivi e alcool.
Riccardo Magherini: la strana morte durante l’arresto dei carabinieri, scrive Alberto Sofia su “Giornalettismo”. Correva per strada urlando, forse vittima di un attacco di panico: «Vogliono spararmi», aveva gridato. Ha perso la vita, stroncato da un infarto sull'asfalto di San Frediano, a Firenze, immobilizzato per terra mentre cercavano di arrestarlo. Contrastanti le ricostruzioni: alcuni testimoni hanno denunciato presunte violenze. Correva per strada urlando, forse vittima di un attacco di panico: «Vogliono spararmi», aveva denunciato Riccardo Magherini, ex giovane promessa della Fiorentina. Poi, dopo aver sfondato delle vetrine e rubato un cellulare, ha perso la vita. Stroncato da un infarto, mentre veniva immobilizzato per terra da quattro carabinieri che cercavano di arrestarlo. Non mancano le perplessità sulla controversa morte dell’ex calciatore, oggi 40enne, deceduto sull’asfalto di una strada di Borgo San Frediano, a Firenze. Tra i testimoni c’è chi ha denunciato di aver visto gli agenti colpire l’uomo con calci all’addome. E chi, al contrario, ha spiegato come tutto sia avvenuto in modo regolare. Attesi per oggi i risultati dell’autopsia, che potranno svelare maggiori dettagli sulla vicenda. Nonostante le discordanze, in base al racconto di alcuni testimoni si è tentato di ricostruire il caso. Repubblica ha riportato la versione del comando provinciale dei carabinieri: «L’uomo aveva passato la serata insieme con un gruppo di amici in un ristorante della zona, senza mostrare i segni di un’imminente crisi ma apparendo “iperattivo”. Una volta rimasto da solo, qualcosa di imprevedibile è scattato nella sua testa e gli ha fatto perdere il controllo. Forse un attacco di panico, forse una crisi dovuta all’assunzione di farmaci antidepressivi. Correva per strada, Riccardo Magherini. Chiedendo aiuto, urlando, in forte stato confusionale. «Mi vogliono sparare», gridava, denunciando di essere inseguito e di voler chiamare la polizia. Forse vittima di un violento attacco di panico, aveva sfondato alcune vetrine e rubato un telefonino a un lavoratore del locale «Borgo la Pizza». Per poi cominciare a rincorrere un’automobile, riuscendo a entrare nella vettura. «Ho frenato e gli ho chiesto di scendere, lui l’ha fatto subito senza dire una parola», ha raccontato a Repubblica la proprietaria. All’arrivo degli agenti, avrebbe reagito con urla e spintoni. In quattro l’hanno immobilizzato. L’uomo ha cercato di resistere, poi ha smesso di dimenarsi, vittima di un infarto. Inutili sono stati i tentativi di rianimarlo. Ma sulla strana fine non mancano i dubbi: non sono ancora emerse responsabilità dei carabinieri intervenuti, ma è stato il pm Luigi Bocciolini a disporre per oggi l’autopsia, nel tentativo di verificare se le denunce di presunte violenze siano attendibili. Sposato e padre di una bambina di 2 anni, era andato a vivere dalla madre, dopo la separazione dalla moglie, soltanto pochi giorni fa. Il padre Guido, a sua volta ex calciatore di Milan e Palermo, ha spiegato alla Nazione di voler aspettare l’autopsia per capire come comportarsi: «Ci diranno perché il suo cuore ha ceduto. Per me, è morto dalla paura. L’ho visto Riccardo: ha il viso pieno di ematomi», ha denunciato. Il fratello di Riccardo ha fotografato il corpo. Secondo un primo esame esterno, il volto presenta alcune escoriazioni. Come spiega il quotidiano del gruppo QN, il familiare ha tentato di ripercorrere le ultime ore del figlio. «Ricky non era un bandito, e non aveva nemmeno bisogno di rapinare nessuno. Si è sentito male, aveva bisogno di qualcuno e purtroppo, a quell’ora, non ha trovato nessuno dei suoi tanti amici», ha spiegato. Giovane promessa del calcio fiorentino, Riccardo Magherini aveva anche vinto con la Primavera viola allenata da Mimmo Caso il torneo di Viareggio del 1992. Ma un grave infortunio – nella semifinale di quel torneo – gli costò la rottura dei legamenti, contribuendo a spezzare le sue ambizioni. Aveva tentato anche fortuna nel calcio australiano, per poi tornare in Italia e abbandonare il mondo del calcio. Per il 40enne il calcio era ormai il passato: dopo aver passato diversi anni a Palermo, era tornato a Firenze, dove curava i rapporti economici della famiglia di uno Sceicco degli Emirati Arabi, così come ha riportato il Corriere fiorentino. Forse è stato proprio il nuovo lavoro a procurargli dello stress. Avrebbe preso una tachipirina, dopo aver bevuto, secondo il racconto di alcuni amici. Un mix che potrebbe avergli causato un violento attacco di panico. Poi, la fuga per strada, le urla, la vetrina sfondata. E, dopo l’arrivo degli agenti e la colluttazione, l’infarto e la morte sull’asfalto di San Frediano. Tutto in attesa dell’autopsia attesa dai familiari.
La scomparsa di Riccardo Magherini, il padre Guido: "E' morto dalla paura...". "È morto d'infarto in circostanze da chiarire", ha concluso il padre, che non sa trovare una spiegazione a quanto accaduto. "Abbiamo già preso contatto con un medico legale che prenderà parte all'autopsia. Solo dopo decideremo se presentare una denuncia", scrive Stefano Brogioni su La Nazione.
La Nazione (Stefano Brogioni) ha raccolto il dolore di Guido Magherini, padre di Riccardo, scomparso prematuramente l'altra notte sui cui le dinamiche devono ancora essere chiarite... Alla Famiglia Magherini le più sentite condoglianze dalla redazione di Fiorentina.it e dai tifosi viola per la scomparsa di Riccardo. «Ricky non era un bandito, e non aveva nemmeno bisogno di rapinare nessuno. Si è sentito male, aveva bisogno di qualcuno e purtroppo, a quell’ora, non ha trovato nessuno dei suoi tanti amici». Ma Guido Magherini, ex calciatore di Rondinella, Milan, Lazio e Palermo, vuole vederci chiaro sulle cause dell’infarto che avrebbe stroncato la vita, ad appena quarant’anni, di suo figlio Riccardo. All’autopsia, disposta oggi dal pm Luigi Bocciolini, parteciperà anche un perito nominato dalla famiglia. «Ci diranno perché il suo cuore ha ceduto. Per me, è morto dalla paura. L’ho visto Riccardo: ha il viso pieno di ematomi». Assieme a Massimiliano Papucci, l’attuale allenatore della Rondinella e amico di vecchia data della famiglia, Guido ha ripercorso le tappe dell’ultima sera di Riccardo. Ha parlato con chi l’ha visto arrivare, delirante, confuso, e con chi ha tentato di aiutarlo prima che fosse troppo tardi. Ma gli interrogativi sono tanti. Troppi, davanti alla morte di uno sportivo amato e benvoluto. Il calcio, però, era ormai il passato di Magherini. Adesso, era concentrato — forse persino in ansia — per il suo nuovo lavoro: era diventato l’art designer di un ricchissimo arabo. In questo periodo, questa persona era venuta ad affrontare un’operazione chirurgica a Firenze. Riccardo stava curando questa sua trasferta nei minimi dettagli. «Questo gli aveva procurato dello stress», ammettono gli amici. Domenica sera, Magherini ha cenato in borgo San Frediano con il fratello dell’arabo, poi è rientrato in un hotel di Borgognissanti, dove aveva alloggiato anche lui per stare vicino al gruppo. «Riccardo non si era sentito bene, aveva preso una tachipirina. Ma ha anche bevuto», hanno ricostruito. Un mix che gli avrebbe scatenato una crisi. Quando si è ritrovato da solo, prima di andare a letto, avrebbe avuto un attacco di panico, forse addirittura delle allucinazioni. Smarrito, anzichè salire in camera, ha cominciato a vagare, senza il telefono che i carabinieri stanno ancora cercando. Ha attraversato il ponte, è arrivato in San Frediano. Casa sua. «Urlava ’aiuto, aiuto, mi vogliono ammazzare’», riferisce il padre, dopo aver parlato con i titolari dei locali visitati da Riccardo nel delirio. Infine, la colluttazione con i carabinieri. «Ne ha ferito uno quando aveva già il bracciale delle manette a un polso, colpendolo in fronte». E poi? «Quando è arrivata l’ambulanza, mio figlio era già morto». Per le risposte, quelle ufficiali, parola dunque all’indagine della procura. Riccardo, sanfredianino doc, dopo il calcio aveva gestito un negozio di abbigliamento nel suo rione. Non aveva problemi economici, nemmeno di droga, e, dice chi gli è stato vicino, anche la separazione dalla moglie «era una pausa di riflessione». Su Facebook, la bacheca dell’ex calciatore è intasata dagli addii di chi gli voleva bene. «Era un trascinatore, un leader, nel calcio e nella vita», dice Massimiliano Papucci. E scende una lacrima. Quella che hanno versato i tanti amici del Maghero.
E’ morto in circostanze strane l’ex biancazzurro Riccardo Magherini. Un pensiero di commozione affidato a Facebook dall’amministratore delegato dell’Ac Prato, Paolo Toccafondi che lo ricorda come un “imperdonabile splendido diverso”, scrive Pasquale Petrella su “Il Tirreno”. «Ciao Riky.....ti voglio ricordare così....un imperdonabile splendido diverso....!!!» Sono queste le parole di commiato affidate a Facebook da Paolo Toccafondi, amministratore delegato dell’Ac Prato - società di calcio che milita in Prima Divisione - per Riccardo Magherini, giocatore biancazzurro nella stagione 1998/99, morto in circostanze alquanto strane il 3 marzo a Firenze all’età di 40 anni. "Era un bravissimo ragazzo, estroso, un pò naif - così Paolo Toccafondi - L'ultima volta che l'ho visto è stato circa un anno fa. So che faceva l'arredatore e che aveva fra i suoi clienti soprattutto dei facoltosi arabi. Ma il mio ricordo di Riccardo è legato soprattutto al periodo in cui abbiamo giocato insieme nel Prato nel 1998-99. Era la prima stagione da allenatore di Ciccio Esposito e abbiamo raggiunto anche la finale playoff. E ancora prima, quando sono stato una stagione a Foggia, abbiamo condiviso una parte del ritiro". "Sono estremamente dispiaciuto per lui e per la sua famiglia. Il Maghero, come lo chiamavamo, era un buono, fuori dagli schemi del calciatore tradizionale. Era di una grande semplicità. Era capace di dormire in una cantina come in un Grand Hotel con la stessa disinvoltura".
È morto dopo essere stato arrestato. Riccardo Magherini, vagava seminudo e in stato confusionale in Borgo San Frediano a Firenze. Dopo aver creato non pochi problemi in un paio di pizzerie e ad un’automobilista costretta a scappare dalla propria auto, i carabinieri lo hanno immobilizzato e chiamato il 118. I volontari della croce rossa, arrivati su una prima ambulanza, visto lo stato di agitazione del quarantenne, hanno chiesto l'intervento di un medico che, dieci minuti dopo, ha trovato l'uomo in arresto cardiaco. Un'ora più tardi Magherini è morto in ospedale, dopo ripetuti tentativi di rianimazione.
4 marzo 2014, muore Riccardo Magherini: ecco le versioni date dai giornalisti.
Magherini jr, tragica fine, scrive “Sportal". Nel 1992, neanche diciottenne, era una promessa della Fiorentina di Mimmo Caso, tanto da vincere un Torneo di Viareggio. Nel 2014, a quarant'anni, ha trovato la morte dopo essere stato arrestato. E' tragica la storia di Riccardo Magherini, figlio dell'ex attaccante di Milan e Lazio Guido Magherini. Secondo quanto riferito da 'Il Tirreno', il 40enne era stato fermato in località Borgo San Frediano in stato confusionale mentre vagava seminudo. Dopo averlo immobilizzato, i carabinieri hanno chiamato il 118. I volontari della Croce Rossa hanno trovato l'uomo in stato di agitazione, tanto da richiedere l'intervento di un nuovo medico che però, accorso sul luogo dieci minuti dopo, ha trovato Magherini già in arresto cardiaco. Inutili i tentativi di rianimazione, l'ex promessa si è spenta in ospedale un'ora dopo. Secondo la ricostruzione de 'Il Tirreno', Magherini prima dell'intervento dei militari aveva sfondato la porta di una pizzeria con una spallata e portato via il cellulare al pizzaiolo, al quale aveva chiesto aiuto dicendo di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo. In seguito era salito sul sedile posteriore di un'auto, spaventando la donna che si trovava al volante, che ha abbandonato la vettura. La scena si è ripetuta in seguito in un'altra pizzeria. All'arrivo dei carabinieri Magherini si era scagliato contro di loro, costringendoli a chiamare un'altra pattuglia.
Muore in strada mentre lo arrestano. La Procura di Firenze apre un’inchiesta. Al momento del fermo il 40enne vagava in evidente stato confusionale. Si pensa a un attacco cardiaco. Pochi giorni fa la separazione dalla moglie, scrive “La Stampa”. È morto dopo essere stato arrestato. Riccardo Magherini, 40 anni, fiorentino, ieri vagava seminudo e in stato confusionale in Borgo San Frediano a Firenze. Dopo averlo immobilizzato, i militari hanno chiamato il 118. I volontari della croce rossa, arrivati su una prima ambulanza, visto lo stato di agitazione del quarantenne, hanno chiesto l’intervento di un medico che, dieci minuti dopo, ha trovato l’uomo in arresto cardiaco. Un’ora più tardi Magherini è morto in ospedale, dopo ripetuti tentativi di rianimazione. Il pm Luigi Bocciolini ha aperto un’inchiesta, affidando gli accertamenti a un pool di carabinieri e poliziotti e disponendo l’autopsia, che sarà eseguita domani. Non ci sono indagati. Stamani i familiari del quarantenne sono stati all’istituto di medicina legale per vedere la salma. Sposato, fino a poco tempo fa titolare di un negozio nel centro di Firenze, da alcuni giorni Magherini si era separato dalla moglie ed era andato a vivere con la madre. Il padre, Guido Magherini, è stato un calciatore di serie A. La scorsa notte, prima dell’arrivo dei militari, Magherini aveva sfondato la porta di una pizzeria con una spallata, portando via il cellulare al pizzaiolo, al quale aveva chiesto aiuto, dicendo di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo. Poi era salito sul sedile posteriore di un’auto: al volante c’era una donna, che era fuggita impaurita dalla vettura. Uscito dall’auto, era entrato in un’altra pizzeria, sempre gridando aiuto. All’arrivo della pattuglia dei carabinieri, si era scagliato contro di loro, costringendoli a chiedere l’intervento di un secondo equipaggio. I quattro militari erano riusciti a immobilizzarlo a terra e ad ammanettarlo.
Muore in strada mentre i carabinieri lo arrestano. Testimonianze contrastanti: “Preso a calci”, “Lo tenevano solo a terra”, scrive Luca Serrano su “La Repubblica”. E’ morto sull’asfalto di Borgo San Frediano, circondato dai carabinieri e dai volontari del 118 che avevano invano cercato di rianimarlo. Riccardo Magherini aveva 40 anni, una moglie e un figlio piccolo di due anni. Nella notte tra domenica e lunedì ha perso la vita dopo essere stato arrestato: completamente fuori di sé, forse per un violento attacco di panico, ha sfondato la vetrina di una pizzeria e strappato il cellulare ad un dipendente: «Mi vogliono sparare, devo chiamare la polizia», ha detto. I carabinieri l’hanno bloccato in strada dopo un lungo parapiglia (4 militari sono stati curati con ferite guaribili tra i 2 e i 10 giorni), sotto gli occhi di decine di persone affacciate alle finestre e di alcuni passanti. Poi, mentre si trovava bloccato a terra, ha smesso di dimenarsi e di urlare. Stroncato da un infarto. La vicenda ha fatto scattare gli accertamenti da parte della procura, con il pm Luigi Bocciolini che ha disposto l’autopsia per chiarire con esattezza le cause della morte. Al momento non sono emerse responsabilità da parte dei carabinieri intervenuti, tanto che l’esame autoptico è stato fissato senza alcuna iscrizione nel registro degli indagati. Sei persone hanno dichiarato che l’intervento è stato regolare, ma altri testimoni parlano di violenze. Secondo la ricostruzione del comando provinciale dei carabinieri, l’uomo aveva passato la serata insieme con un gruppo di amici in un ristorante della zona, senza mostrare i segni di un’imminente crisi ma apparendo “iperattivo”. Una volta rimasto da solo, qualcosa di imprevedibile è scattato nella sua testa e gli ha fatto perdere il controllo. Forse un attacco di panico, forse una crisi dovuta all’assunzione di farmaci antidepressivi. Fatto sta che ha cominciato a vagare nel quartiere di San Frediano in stato confusionale, con urla così forti da essere sentite a centinaia di metri di distanza: «Si è presentato con l’aria sconvolta — racconta un lavoratore della pizzeria Borgo la Pizza — diceva che qualcuno voleva sparargli. Gli ho detto di calmarsi e che avrei chiamato la polizia, ma lui ha tirato una spallata alla vetrina, mi ha strappato il cellulare di mano ed è corso fuori». Pochi secondi e poi ha cominciato a rincorrere un’auto: «Ho visto che cercava di affiancarsi, ho accelerato ma è riuscito ad aprire la portiera e a salire in corsa — racconta la donna al volante — lo conoscevo di vista, non sembrava pericoloso ma era fuori di sé. Ho frenato e gli ho chiesto di scendere, lui l’ha fatto subito senza dire una parola». L’arrivo delle gazzelle pochi istanti più tardi, dopo che l’uomo era entrato e uscito da un’altra pizzeria della zona (da Gherardo). I primi due carabinieri si sarebbero fatti avanti con le mani alzate nel tentativo di tranquillizzarlo, ma Riccardo avrebbe reagito con urla e spintoni. Sono arrivati i rinforzi e in quattro l’hanno immobilizzato dopo un lungo parapiglia. I primi soccorsi sono stati quelli dei volontari della Croce Rossa (la chiamata al 118 è delle 1.23), che hanno trovato l’uomo in gravi condizioni tanto da richiedere l’intervento di un medico. Poi le disperate operazioni di rianimazione, terminate alle 2.45 a Santa Maria Nuova con la constatazione di morte. Bianca Ruta, una studentessa di 26 anni che ha assistito alla scena dalla finestra, chiama in causa l’operato dei militari: «La prima pattuglia non è riuscita a fermarlo, così sono arrivati altri due carabinieri e alla fine ci sono riusciti. Era su un fianco, ho visto chiaramente tre di loro che lo colpivano con alcuni calci in pancia. Non credo sia morto per questo, ma sono cose che non devono succedere. Andrò alla polizia a denunciare i fatti». Un altro testimone dà una versione opposta: «Hanno fatto quello che dovevano, l’uomo era completamente fuori controllo e loro si sono limitati a tenerlo a terra. Nessuno ha alzato le mani».
Riccardo Magherini è morto la notte tra 3 e 4 marzo 2014 per una crisi cardiaca che lo ha colpito durante l’arresto a Firenze, scrive “Blitz Quotidiano”. Magherini, 40 anni, era in forte stato confusionale e di agitazione dopo aver rubato un cellulare e distrutto alcune vetrine. “Mi vogliono uccidere, aiutatemi”, gridava ai negozianti e alle auto di passaggio. All’arrivo dei carabinieri di Borgo San Frediano l’uomo li ha aggrediti: è stato immobilizzato a terra e ammanettato, poi ha accusato il malore. Secondo alcuni testimoni però gli agenti non si sarebbero limitati ad immobilizzarlo, ma lo avrebbero picchiato mentre era giàò a terra. Per determinare le cause della morte il pm Luigi Bocciolini ha disposto l’autopsia sul corpo dell’uomo. Secondo una prima ricostruzione, all’1 di notte del 4 marzo Magherini si aggirava a torso nudo in borgo San Frediano gridando in evidente stato di agitazione, dicendo che volevano ucciderlo e chiedendo aiuto. Prima dell’arrivo dei militari, in base alle testimonianze raccolte dagli investigatori, avrebbe sfondato la porta di una pizzeria facendo saltare la serratura con una spallata e ha chiesto aiuto al pizzaiolo, il solo rimasto all’interno, dicendo che era inseguito e che qualcuno voleva ucciderlo, quindi è uscito portandogli via il cellulare. Poi è salito sul sedile posteriore di un’auto in transito: la conducente, una ragazza, è scesa impaurita dalla vettura. Uscito dall’auto, è entrato in un’altra pizzeria, sempre gridando aiuto, e ne uscito subito dopo urtando violentemente contro una porta a vetri e danneggiandola. All’arrivo della pattuglia dei carabinieri si è scagliato contro di loro, costringendoli a chiedere l’intervento di un secondo equipaggio. I quattro militari intervenuti sono riusciti a immobilizzarlo a terra e poi ad ammanettarlo. A chiamare il 118 proprio i carabinieri, ma all’arrivo dei sanitari circa 10 minuti dopo la chiamata hanno trovato Magherini in arresto cardiaco e dopo 40 minuti di tentativi di rianimazione l’uomo è stato dichiarato morto. Non escluso, sempre secondo quanto spiegato dai carabinieri, che l’uomo avesse fatto uso di sostanze stupefacenti. Sposato, padre di una bimba di 2 anni, da alcuni giorni si era separato dalla moglie e era andato a vivere con la madre. In base a quanto accertato dai carabinieri, fino a poco tempo fa era titolare di un negozio nel centro di Firenze. Ora il pm ha disposto l’autopsia sul corpo di Magherini, soprattutto dopo la dichiarazione di Bianca Ruta, studentessa di 26 anni, ha dichiarato a Repubblica di aver visto i militari picchiare l’uomo già a terra: “«La prima pattuglia non è riuscita a fermarlo, così sono arrivati altri due carabinieri e alla fine ci sono riusciti. Era su un fianco, ho visto chiaramente tre di loro che lo colpivano con alcuni calci in pancia. Non credo sia morto per questo, ma sono cose che non devono succedere. Andrò alla polizia a denunciare i fatti. Hanno fatto quello che dovevano, l’uomo era completamente fuori controllo e loro si sono limitati a tenerlo a terra. Nessuno ha alzato le mani»”.
Polizia violenta?
Buffon accusa "Picchiato dalla polizia". Il portiere della Nazionale: "Sono stato aggredito da agenti in divisa dopo la partita di Firenze. Mi hanno tirato giù dall'auto. Poi le botte. Nessuno mi ha dato una spiegazione". A sentirlo raccontare, viene quasi da non crederci, ma Gigi Buffon non ha l'aria di chi ha voglia di scherzare, scrive il 14 giugno 2001 “La Repubblica”. Il portiere del Parma e della Nazionale spiega quello che gli è accaduto mercoledì sera dopo la finale di Coppa Italia e sembra incredulo pure lui: "Dopo la sconfitta con la Fiorentina mi è stato consigliato di incolonnarmi con la mia auto dietro i pullman che riportavano in Emilia i tifosi gialloblu. Giunti al piazzale del casello di Firenze Sud li ho superati ma sono stato fermato da una decina di poliziotti. Dopo essere stato tirato giù dalla macchina ho passato quindici secondi veramente infernali, nei quali ho preso anche dei calci e degli schiaffi. Non mi spiego il motivo per il quale sia successo tutto ciò e, d'altro canto, nessuno dei militari mi ha dato una spiegazione". Parla tutto d'un fiato, poi aggiunge: "Ho cercato di difendermi, poi ho sentito uno di loro che gridava, ma questo è Buffon, altri hanno però continuato a picchiarmi". Il portiere ripete che non riesce a spiegarsi cosa possa essere successo: "Mi hanno scambiato per un ultras all'inseguimento del pullman del Parma? Un ultras in Porsche? Davvero non capisco". Sin qui lo sfogo, poi Buffon però si ferma. Controlla gli aggettivi e dal suo vocabolario tira fuori il termine che gli sembra più appropriato: "E' stata una vaccata, anche loro se ne sono accorti. Fondamentalmente credo sia stato un po' eccessivo, anche se nulla di grave. Però credo che se avessi parlato subito dopo, i miei toni sarebbero stati diversi". Farà denunce? "No, dopo tanti casini che ho avuto, ho voglia di stare tranquillo". Il riferimento è alle polemiche sulla scritta "Boia chi molla" stampigliata sulla sua maglia, sulla scelta del numero 88, poi sostituito dal 77 dopo le proteste di esponenti della comunità ebraica (in entrambi i casi il portiere ha detto di essere stato all'oscuro dei significati politici delle due questioni) e al diploma di maturità falso che lo hanno portato al centro della cronaca non sportiva: "Ho avuto tanti casini che poi, addirittura quando non c' entro, mi buttano dentro. Questa volta credo di no". La chiusura è con battuta per sdrammatizzare: "Tutti tifosi giallorossi? Ma se erano quindici...mica potevano essere tutti della Roma....".
Il caso di Magherini mi ricorda tanto altri casi analoghi.
La morte di Luigi Marinelli. Da notare l’atteggiamento della stampa che parla subito di ordinaria violenza familiare e di tossicodipendenza e sottace le colpe degli operatori di pubblica sicurezza e di pronto soccorso sanitario. L’avv. Vittorio Marinelli, noto presidente dell’associazione “Europeanconsumers”, mai presentato come tale, denuncia le anomalie del caso su “La Repubblica”.
IL CASO. Eur, picchia la madre e poi muore "Da autopsia varie costole rotte". A riferire un primo riassunto del verbale è uno dei due avvocati del 49enne morto dopo aver aggredito la donna mentre la polizia lo bloccava: "Fratture forse provocate da pressione. Analogie con caso Aldrovandi". Pesanti le accuse del fratello.
"Varie costole rotte'': queste le prime informazioni che arrivano dall'autopsia di Luigi Marinelli, il 49enne morto lunedì 5 settembre in seguito a un malore dopo una lite con la madre mentre la polizia tentava di bloccarlo. A riferire un primo riassunto del verbale di autopsia è uno dei due avvocati della famiglia, Giuseppe Iannotta.
''Le piccole fratture - puntualizza il legale - potrebbero essere dovute a una pressione o a un massaggio cardiaco effettuato male. Dal verbale emerge anche una piccola emorragia al fegato, che però non è correlata all'episodio di lunedì. Per un quadro clinico completo - conclude Iannotta, che segue il caso insieme con l'avvocato Antonio Paparo - Per comprendere le cause della morte di Luigi, comunque, dovremo attendere il deposito della consulenza medica". E' infatti di quaranta giorni il termine assegnato dal pm Luca Tescaroli, titolare dell'inchiesta, agli esperti dell'istituito di medicina legale dell'università La Sapienza chiamati a far luce sulla morte di Marinelli. L'uomo è morto mentre lo stavano trasportando in ospedale. Il malore era sopraggiunto a seguito di una lite per motivi economici con la madre che aveva poi chiamato le forze dell'ordine. Arrivati sul posto gli agenti lo avevano immobilizzato in attesa del Tso perché l'uomo dava in escandescenza.
''Ci sono molte analogie con il caso di Federico Aldrovandi''. A sostenerlo è Antonio Paparo, l'altro legale che sta seguendo il caso di Luigi Marinelli che fa riferimento allo studente ferrarese che morì nel 2005 dopo una colluttazione con gli agenti di polizia, condannati in primo grado a tre anni e sei mesi. ''Il quadro clinico che emerge dai primi risultati dell'autopsia non è compatibile con la ricostruzione di quanto avvenuto lunedì scorso'', osserva Paparo. ''Le costole fratturate sono 12 - precisa il legale - ed inoltre dagli esami emerge una lesione alla milza con una piccola emorragia interna''. L'avvocato non nasconde che qualcosa sia andato storto nell'appartamento dell'Eur. ''C'è il rischio che gli agenti abbiano sbagliato molte cose - sottolinea - sicuramente sono andati sopra le righe nelle procedure di arresto''.
Pesanti le accuse di Vittorio Marinelli, fratello di Luigi: ''L'hanno ammazzato i poliziotti, lo dimostra anche l'autopsia: Luigi aveva alcune costole rotte''. La famiglia ha annunciato che procederà legalmente contro gli agenti. ''Vogliamo giustizia, le cose non sono andate come abbiamo letto sui giornali'', afferma Marinelli precisando più volte che il fratello Luigi ''era uscito dal giro della droga ormai da 20 anni - da quando era in cura al Sert - e che faceva uso di hashish o cocaina solo sporadicamente. Era schizofrenico ma non tossicodipendente'', afferma. ''Lunedì scorso, dopo la chiamata di mia madre, si sono presentati tre agenti di polizia - dice Marinelli, di professione avvocato - che erano riusciti a calmare Luigi conquistandosi la sua fiducia. Ma quando mio fratello voleva uscire di casa per raggiungere la fidanzata lo hanno bloccato, e direi giustamente dato che era ancora su di giri''. Proprio quel gesto ha scatenato l'ira di Luigi che ha provato a divincolarsi. ''I tre agenti non riuscivano a tenerlo così hanno chiamato rinforzi - ricorda il fratello - Poco dopo è arrivato un quarto agente, un vero energumeno, che è saltato addosso a mio fratello ammanettandolo e bloccandolo violentemente contro la porta spingendo con il ginocchio contro la sua schiena''. ''Mi sono subito accorto che qualcosa non andava e ho gridato immediatamente di togliergli le manette, ma non avevano le chiavi'', continua. ''Solo con l'arrivo di altri agenti con le chiavi, i poliziotti sono riusciti a liberare mio fratello che però era ormai esanime a terra. Inutile l'arrivo del 118. Ormai era morto - sottolinea Vittorio Marinelli - gli operatori dell'ambulanza, arrivati in ritardo di un'ora, non dovevano portare via il corpo. E pensare che gli agenti non sono stati capaci neanche di fare la respirazione bocca a bocca, l'ho dovuta fare io - conclude - Poi loro hanno provato inutilmente a fare un massaggio cardiaco''. Per il momento non c'è alcuna notizia di reato, né alcuna denuncia nei confronti degli agenti. Per avere un quadro più completo di quanto accaduto lunedì e per capire anche le cause del decesso bisognerà attendere la conclusione dell'autopsia, in particolare dell'esame del cuore, affidato ad un'equipe di esperti.
Sul Corriere della Sera, il 10 settembre 2011, è uscito questo articolo: "Picchia la madre e muore. La famiglia accusa la polizia. La denuncia. Il fratello: gli sono state rotte 12 costole, lo ha dimostrato l'autopsia. Aveva lesioni al fegato.
"Una lite tra madre e figlio esce dalle mura domestiche per concludersi con un morto. Era lunedì scorso ma solo ora, con i risultati dell' autopsia in mano, i familiari denunciano. Sostengono che Luigi Marinelli, 49 anni, malato di schizofrenia, invalido civile (con pensione d' infermità), un passato da tossicodipendente, è stato pestato «dalla polizia come Cucchi e Aldrovandi». Dice il fratello Vittorio: «Quel giorno Luigi era su di giri. Per la prima volta ha alzato le mani su nostra madre, è vero. Ma dico che contro di lui gli agenti hanno usato metodi violenti». Chiamati a spegnere la lite fra una madre di ottant' anni e un figlio di quasi cinquanta (litigio per soldi: lui aveva speso diecimila euro in tre settimane e ne chiedeva altrettanti, lei rifiutava), quattro poliziotti del commissariato di zona rischiano ora una denuncia per omicidio colposo. Vittorio Marinelli, avvocato civilista, uno dei fratelli della vittima, quel lunedì c' era. Arrivato a discussione già iniziata. Quando sua madre aveva telefonato al 113 per evitare il peggio e gli agenti erano in salotto. «Due volanti. In casa c' erano tre poliziotti parlavano con mio fratello tranquillamente. Cercavano di farlo ragionare. Ho apprezzato. Gli dicevano: "Ma come, noi guadagniamo 1.300 euro al mese e tu ne butti via diecimila in pochi giorni?" Ma poi, quando Luigi ha detto di voler uscire di casa, con in mano l' assegno che a quel punto mia madre gli aveva firmato, loro lo hanno bloccato. Sono arrivati i rinforzi. È subentrato un quarto agente dai modi bruschi. Lo hanno ammanettato con la forza spingendogli il viso contro la porta. Lui era cianotico: "Toglietegli le manette", gli abbiamo detto, ma non si trovavano le chiavi e il tempo passava. Mio fratello stava soffocando». La procura ha aperto un fascicolo, ma sarà la consulenza medica a stabilire le eventuali responsabilità. Intanto l' esito dell' autopsia, secondo il legale di famiglia, Antonio Paparo, parla di dodici costole toraciche rotte. Grossolano tentativo di rianimazione? Possibile, filtra dalla procura. «Chiedevano: "Come si fa?, come facciamo?"», racconta Marinelli. In attesa dei risultati della perizia madre e fratello dell' uomo sono stati già ascoltati dal pm Luca Tescaroli. Ma il legale Paparo dice che il verbale dell' autopsia è già di per se sufficiente: «È stato picchiato e qui c' è il referto. Lesioni al fegato e un' emorragia interna. Marinelli è stato pestato»."
Vittorio Marinelli rettifica l’articolo sul gruppo facebook “Verità per Luigi Marinelli”: «Ci sono delle imprecisioni, in questo articolo, ma, rispetto ai primi articoli, che parlavano di un tossico che aveva aggredito la madre per poche decine di euro e di una morte in ospedale, è già un passo avanti.
LUIGI FEDERICO, INFATTI, E’ DECEDUTO DURANTE LE OPERAZIONI DI IMMOBILIZZAZIONE E L’APPOSIZIONE DELLE MANETTE EFFETTUATO DAGLI AGENTI DELLA PUBBLICA SICUREZZA INTERVENUTI SUL POSTO e non MENTRE UN’AMBULANZA LO STAVA TRASPORTANDO AL SANT’EUGENIO.
Gli agenti si sono comportati in modo umano e amicale con il povero Luigi per l’intero periodo durante il quale si sono trovati all’interno della sua abitazione IN ATTESA CHE ARRIVASSE LA GUARDIA MEDICA PER UN EVENTUALE TSO.
Luigi Federico Marinelli, invero, era schizofrenico, e non tossicodipendente, pur essendolo stato in passato, in quanto assumeva stupefacenti, in particolare hascisc, e cocaina non in modo tale da essere dipendente. Non era neanche pericoloso.
NON E', INFATTI, VERO, CHE ABBIA PICCHIATO LA MADRE. E', invece, vero, che l'ha spintonata.
Allo stesso tempo, occorre precisare che Luigi aveva ottenuto un risarcimento danni da un'assicurazione per 20.000 euro e che, in 20 giorni, offrendo a destra e manca, in quanto affetto da prodigalità, aveva sperperato 10.000 euro.
Per questo, aveva chiesto alla madre, salvo poi cambiare idea, di custodirgli i 10.000 euro rimasti salvo poi cambiare idea.
Una volta ottenuto l'assegno, è andato alla porta di casa e ha preteso di uscire per recarsi a un appuntamento con la fidanza senonché, giustamente, stante lo stato comunque di ipercitazione, gli agenti gli hanno impedito di uscire, dapprima con le buone e solo dopo che Luigi si è inalberato, immobilizzandolo in tre, trattenendolo al suolo, in modo energico e con delle tecniche di immobilizzazione che sono sembrate subito essere eccessive.
A questo punto, un quarto poliziotto ha apposto le manette alla schiena di Luigi il quale si è subito arrestato, forse proprio perché è morto in quel momento divenendo subito nero in volto.
A nulla è servita l'implorazione agli agenti di chi ha assistito all'evento: “levategli le manette, non lo vedete che sta male?” ricevendo, questi, per tutta risposta, l’affermazione che sapevano come si fa o cose del genere.
Dopo pochi minuti, che in quel caso sono un'eternità, mentre, gli agenti si sono resi conto della gravità della situazione e hanno tentato di levargli le manette, inutilmente perché non trovavano le chiavi dimodoché sono stati costretti a chiedere di intervenire ai colleghi di sotto, che aspettavano davanti al citofono.
Saliti al terzo piano, non riuscivano a entrare in quanto la porta era bloccata da chiavistelli.
Solo una volta entrati, un agente aveva la chiave delle manette appesa con un laccio al collo ed è riuscito ad aprire le manette.
A quel punto, la respirazione bocca a bocca è stata praticata dal fratello mentre un agente tentava il massaggio cardiaco ma inutilmente in quanto, come detto, il povero Luigi è morto, forse proprio al momento dell’immobilizzazione, speriamo per un infarto.
SOLO ALLORA, DOPO OLTRE UN’ORA, E’ ARRIVATA LA GUARDIA MEDICA.
Forse, quella tecnica di immobilizzazione non andava fatta e, soprattutto, non andavano apposte le manette. Luigi era schiacciato addosso alla porta e non disteso a terra. Non aveva i denti, dato che portava la dentiera, e la lingua potrebbe averlo soffocato, con il che si spiegherebbe il colore nero al volto subito percepito. Le contrazioni non si sono percepite perché era immobilizzato.
Luigi era una persona simpatica, attorniata perennemente da una corte di miracoli, formata da ragazzi con analoghi problemi mentali, che, però, non avevano mai fatto male a nessuno, tranne a noi parenti che dovevamo sopportarli.
Erano conosciuti da tutto il quartiere, dove passavano il tempo a bere birre peroni e a fumare MS.
Chiediamo di conoscere la verità su quali sono le cause della morte.»
LUIGIA PADALINO. MESSA A TACERE PERCHE’ CERCAVA LA VERITA’.
Questa è la storia di Luigia Padalino. Radiata dal Consiglio dell'Ordine degli assistenti sociali perchè voleva fare bene il suo lavoro.
«ALLA DIREZIONE GENERALE GIUSTIZIA CIVILE, UFFICIO III - REPARTO II - VIGILANZA ORDINI PROFESSIONALI E LIBERE PROFESSIONI.
OGGETTO: UN ATTO DELIBERATIVO DI RIGETTO DEL MIO RICORSO CONTRO LA RADIAZIONE DALL'ALBO (RADIAZIONE DISPOSTA DALL'ORDINE DEGLI ASSISTENTI SOCIALI DEL PIEMONTE) CHE LA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO NAZIONALE SI RIFIUTA DI FORNIRE.
PREMESSA.
Egregio Sig. Ministro, nel mese di novembre 2013 lei ha firmato il decreto qui allegato con il quale veniva nominato il commissario straordinario per l'Ordine degli Assistenti sociali del Piemonte, in seguito allo scioglimento del Consiglio dell'Ordine uscito dalle elezioni del luglio 2013. Elezioni viziate da irregolarità gravi. Lo scioglimento era stato disposto dal Consiglio Nazionale dell'ordine assistenti sociali che è presieduto dalla Signora Edda Samory.
DI SEGUITO ESPONGO.
In data 17/10/2012, con un ritardo di un anno e mezzo e in violazione delle norme sulle sanzioni disciplinari contenute nel codice deontologico, la scrivente Luigia Padalino riceveva notizia del rigetto del suo ricorso contro la radiazione, ricorso che era stato presentato, per il tramite dell'Ordine del Piemonte, agli inizi di maggio del 2011. Nell'atto di rigetto qui allegato ed inviato alla scrivente con raccomandata cartacea, (visto che sia il Consiglio nazionale che l'Ordine del Piemonte, non conoscono l'uso della posta certificata) la signora EDDA SAMORY riusciva a sbagliare persino il mio ordine di appartenenza : ABRUZZO E NON PIEMONTE. Non forniva nel "pezzo di carta" inviato nè motivazioni del provvedimento di rigetto nè qualsivoglia spiegazione (e ci aveva messo un anno e mezzo!!!) ma assicurava che: "E' facoltà degli interessati in indirizzo di richiedere copia dell'atto deliberativo".
In data 07/11/2012 inviavo al Consiglio Nazionale con POSTA CERTIFICATA la richiesta del suddetto atto deliberativo.
NESSUNA RISPOSTA.
Nel mese di luglio 2013 vado a trovare nel suo studio di ...........L'AVV. ................docente di diritto amministrativo che è anche PRESIDENTE di.......................................Gli racconto i ritardi e gli abusi del Consiglio Nazionale, della mia intenzione nel mese di novembre 2012 di presentare ricorso al TAR contro il rigetto del mio ricorso e di come il suddetto Consiglio non avesse mai risposto fornendomi l'atto necessario per presentare quel ricorso SABOTANDO IN QUESTA MANIERA IL MIO DIRITTO ALLA DIFESA. L'avvocato ....................invia un fax al Consiglio nazionale per chiedere l'atto deliberativo. Siamo a metà luglio 2013. Il 04 agosto 2013 è l'ultimo giorno dell'apertura dello studio legale e, da me sollecitato, l'avvocato .............mi comunica che nessuna risposta è pervenuta dal Consiglio Nazionale.
Il 19 settembre del 2013, di fronte al silenzio prepotente del CONSIGLIO NAZIONALE ORDINE ASSISTENTI SOCIALI, l'avv. ....................mi suggerisce l'unica strada percorribile: UN RICORSO AL TAR DEL LAZIO PER L'ACCESSO AGLI ATTI.
UN RICORSO PERO' CHE HA DEI COSTI NOTEVOLI E CHE MAI ENTRERA' NEL MERITO DEI FATTI. SERVIRA' SOLO PER AVERE QUELLA DELIBERA CHE A ME SPETTEREBBE DI DIRITTO.
Io mi sono rifiutata di assecondare gli abusi del CONSIGLIO NAZIONALE E NON HO PRESENTATO QUESTO RICORSO AL TAR DEL LAZIO.»
Da quanto risulta l'esposto per omissione di atti di ufficio presentato al Ministero, come usualmente avviene (detto per cognizione di causa), rimane LETTERA MORTA.
E' da capire, però, l'antefatto.
E' il giorno della memoria anche per Romana Borgna. Questa è la lettera inviata da Luigia Padalino e pubblicata su Tribuna Novarese, oltre che su “SosPsiche”. «La signora Romana Borgna oggi non esiste più, nel senso che non esiste più la sua voce e la sua versione dei fatti, visto che è stata interdetta con sentenza del Tribunale di Torino (giugno 2008) e sulla sua persona impera un tutore, un'avvocatessa torinese. Una breve presentazione di chi vi sta scrivendo. Sono una cittadina di Novara che lavora in un ente pubblico milanese che niente ha a che fare col servizio sociale. Però spendo la mia laurea in Servizio Sociale e il mio tempo libero a beneficio delle vittime di malagiustizia, nei casi in cui sia implicato un uso distorto della psichiatria. Il codice deontologico degli assistenti sociali consente a questi di lavorare gratuitamente. La mia attività si è sempre svolta sul territorio milanese o in altre regioni. Mai in Piemonte. E fino ad ora è stata un'attività che non è mai finita sui giornali. Ecco come è iniziato il mio coinvolgimento in questa vicenda che grazie all'ordine degli assistenti sociali del Piemonte e all'ex presidente del Consiglio Nazionale (Franca Dente) si è trasformata in un autentico incubo. La sera dell'11 gennaio 2009 leggo sul sito internet del giornale "Cronaca qui" di Torino un articolo a firma di Marco Bardesono, che qui si allega. Si racconta di un'anziana professoressa che è stata portata via da casa sua e confinata in un ospizio, il cui indirizzo viene tenuto segreto, non solo all'imputata di circonvenzione di incapace cioè la sua badante, ma anche agli stessi amici. Amici che però difendono quella badante e si dicono disposti ad aiutarla per le spese legali. Nell'articolo si racconta che la signora Borgna è stata interdetta e questo mi meraviglia molto visto che dal 2004 esiste la legge n. 6, meglio nota come legge istitutiva dell'amministrazione di sostegno. Decido di mandare una mail alla procura di Torino, senza sperare peraltro, che la stessa venga letta. Invece il giorno dopo vengo contattata da un'assistente sociale del Pool soggetti deboli che mi impone di presentarmi a Torino. A nulla valgono le mie proteste. Il 16 gennaio 2009 vengo ricevuta dal pm Marcello Maresca che non mi dà nessuna spiegazione, riempie una pagina di verbale di cui non ricevo copia e vengo rimandata a casa. Da quel momento nessun segno di vita dagli uffici giudiziari. Però ogni tanto ripensavo a quell'anziana professoressa. Avevo l'impressione che la vicenda fosse molto opaca e alcuni mesi dopo, (maggio 2009), grazie ad una giornalista che in quel momento stava svolgendo un'inchiesta sul mondo della salute mentale in Italia (PORTE GIREVOLI - REPORT - MAGGIO 2009), riesco a mettermi in contatto con la badante inquisita, la signora Adriana Campanino. La incontro a Torino e mi mostra il fascicolo del suo procedimento penale che ha chiesto in prestito al suo avvocato. E' lì che rinvengo copia del verbale del mio interrogatorio e degli altri che erano seguiti dopo la mia segnalazione. Ma dentro quel fascicolo c'è anche la documentazione del procedimento di interdizione della prof.ssa Borgna. Una documentazione agghiacciante. Rinvengo le lettere di protesta della prof.ssa Borgna inviate all'allora suo giudice tutelare, Marisa Gallo. Lettere contro il suo primo tutore, la sorella del suo defunto marito, e contro il secondo tutore, l'avvocatessa torinese. Decido di offrire la mia consulenza gratuita come assistente sociale, iscritta all'ordine del Piemonte, alla signora Campanino che mi firma un regolare incarico. L'incarico di svolgere un'indagine sociale che poi è il mestiere che dovrebbero fare, se fosse loro consentito di farlo, gli assistenti sociali. Nascono tre relazioni che vengono inviate a tre soggetti: il pm che mi aveva interrogato il 16/01/2009, l'allora avvocato difensore della Campanino e, per conoscenza, il procuratore capo dott. Caselli. Una relazione porta la data del 18 maggio 2009, le altre due vengono invate nel mese di giugno 2009. Il quadro che fornisco della vicenda Borgna - Campanino è completamente diverso da quello che è stato fornito dai servizi sociali che si sono interessati del caso nel corso degli anni (non solo il servizio di via Bogetto 3 a Torino). Confesso di aver scritto quelle relazioni con un tono decisamente indignato, ma a corredo di esse c'era una monumentale documentazione giacchè non è mai stato mio costume affrontare le storie delle persone con superficialità. Ero molto indignata dopo che la Campanino mi aveva fatto vedere alcuni documenti che la Borgna le aveva affidato, relativamente alla strage della Valcasotto. Una persona come la Signora Borgna meritava maggiore rispetto dai Servizi sociali e dagli uffici giudiziari. Ma dopo l'invio delle relazioni, tutto continua a tacere. Il 6 ottobre 2009 si tiene a Torino l'udienza preliminare del processo contro la Campanino e l'avvocatessa Tutrice trova nel fascicolo le mie relazioni. Estrae copia delle relazioni senza gli allegati. Piccata dal contenuto delle stesse scrive una lettera al giudice tutelare Daniela Giannone (subentrato al giudice Marisa Gallo) che qui si allega Ritiene che le mie accuse di abusare del suo ruolo ai danni della Borgna siano destituite di ogni fondamento, ma poi soprattutto si arroga il diritto di giudicare la figura del dottor Mauro Uberti che lei non ha mai conosciuto. Si permette di giudicare la tonalità dei rapporti tra il dottor Uberti e la professoressa Borgna che duravano da decenni. Il giudice tutelare Daniela Giannone non sente il bisogno di verificare quello che ha scritto l'avvocatessa tutrice, non sente il bisogno di interpellare il dottor Uberti, e spedisce la lettera e le mie relazioni direttamente all'Ordine degli assistenti sociali del Piemonte che il 28/11/2009 mi notifica l'apertura di un procedimento disciplinare. Un procedimento che si trascina per mesi senza che l'ordine mi convochi per ascoltarmi. Lo farà solo e con modalità abnormi, il 29/04/2010. Dimenticavo di dire che, contemporaneamente al giudice Giannone, aveva presentato all'ordine le sue doglianze anche l'assistente sociale del servizio sociale di via Bogetto 3 a Torino. Dopo aver letto la lettera dell'avvocatessa tutrice (tramite accesso agli atti presso l'ordine a Torino il 23/12/2009), grazie alla rete, rintraccio il dottor Uberti che ha un sito internet e mi racconta un altro pezzo della vicenda Borgna. Era lui che si era presentato un giorno di marzo 2009 nella clinica dove la Borgna era stata "reclusa" e gli era stato impedito di vederla. L'1 luglio 2009 aveva scritto una lettera al giudice tutelare di Torino facendola depositare da uno studio legale e lamentando la situazione di isolamento della professoressa. La lettera è qui allegata. Non aveva avuto nessuna risposta. Il 21 gennaio 2010 deposita un'altra lettera all'ufficio del giudice tutelare, sulla condizione di isolamento della prof.ssa , raccontando quanto questa condizione abbia recato danno anche alla pubblicazione del libro del prof. Amedeo, visto che servivano foto migliori dei familiari ammazzati, che la stessa Borgna non aveva potuto fornire. Neanche a questa lettera lui ha avuto risposta. Frattanto l'ordine degli assistenti sociali proseguiva nel suo silenzio, ma mi faceva pervenire la lettera della dott.ssa Marchello, dirigente dei servizi sociali di via Bogetto a Torino, in cui la stessa autocertificava la bontà dell'intervento del Servizio. E l'ordine del Piemonte non riteneva di richiedere copia della cartella sociale sul caso Borgna. Non riteneva di chiedere copia di documenti di nessun genere. Lo metteva per iscritto nel mese di aprile 2010 la presidentessa della commissione per l'accesso, Graziella Povero, che, per chi non lo sapesse, è anche la presidentessa dell'associazione nazionale assistenti sociali (ASSNAS), con sede a Torino. A dimostrazione del fatto che la professione di assistente sociale ha il suo "cuore" in Piemonte. In cosa sia consistita l'istruttoria del procedimento disciplinare a mio carico, nessuno lo può sapere, nemmeno io. Il mio delitto è consistito nella violazione di 5 articoli del codice deontologico che hanno a che fare con il rapporto del professionista con i colleghi e l'astensione dal giudizio. In pratica un professionista quando è iscritto ad un ordine si deve preoccupare di più del rapporto col collega piuttosto che del suo cliente. Se vede un collega incompetente o pavido, lo deve soccorrere, non si deve preoccupare dell'utente o del cliente. Se poi si accorge che con la scusa del segreto professionale e della legge sulla privacy sono stati commessi reati gravissimi ai danni di un utente, non si deve permettere di dare giudizi sulla qualità dei servizi sociali e giudiziari. L'ordine degli assistenti sociali del Piemonte ha ricevuto le copie integrali delle mie relazioni alla procura di Torino, ma ha ricevuto anche moltissimi altri documenti che non sono agli atti del procedimento penale contro la Campanino. Li ha trasmessi alla Procura? In una delle tre relazione del 2009 si parlava delle intimidazioni messe in atto, dall'avvocatessa tutrice, nei confronti di un bancario ex allievo della prof.ssa Borgna. Si parlava di rendiconti completamente falsi inviati dall'ex tutore della Borgna al Giudice Marisa Gallo, dove si certificava il pagamento di contributi previdenziali in favore della Campanino mai versati. La Campanino lavorava "in nero". E non faceva le pulizie, veniva definita "infermiera", nei rendiconti, nonostante abbia come titolo di studio la terza elementare. Non è un reato l'omesso versamento di contributi? E il falso ideologico esiste ancora? Ma l'ordine del Piemonte non si è accontentato di sospendermi con il provvedimento notificatomi il 15/06/2010. Una settimana dopo la notifica della sospensione dalla professione per un anno mi arriva la notifica di un secondo procedimento disciplinare, sempre per lo stesso caso, la cui "udienza" a Torino era fissata per l'11/01/2011. Naturalmente non mi sono nemmeno presentata, ma ho sempre inviato comunicazioni scritte. Bene fanno i Radicali a porre come pressante il problema della violazione dei diritti umani in Italia. Solo in uno Stato profondamente infettato dalla corruzione, dalla burocrazia asfissiante e dal nazismo può succedere una vicenda come questa. Ma questa lettera è solo l'inizio perché attraverso la rete renderò pubbliche tutte le intimidazioni che ho subito dall'ordine del Piemonte durante e prima del procedimento disciplinare, compresa quella "convocazione" del 2007 in cui la signora Barbara Solvetti, allora come oggi presidentessa, mi "consigliò" di svolgere le mie funzioni contro la malagiustizia fuori dall'ordine. Grazie per l'attenzione. Luigia Padalino».
PIEMONTE…VERGOGNA. SI FA MA NON SI DICE.
Piemonte: la vendemmia della vergogna. Centinaia di immigrati dall'Est. Impiegati nella raccolta dell'uva. Anche al Nord, come a Rosarno: vivono in baraccopoli alle periferie dei paesi, in condizioni igieniche precarie, senza tutele. Per produrre a basso costo anche i vini prestigiosi. I controlli stanno aumentando. Ma non abbastanza per fermare la richiesta di schiavi, scrive Antonello Mangano su “L’Espresso”. La vendemmia in Piemonte era la festa della comunità. Un momento tradizionale in cui erano coinvolti interi paesi. Oggi invece l’eccellenza del made in Italy si produce in baraccopoli dove i cartoni sono usati come letti e gli unici bagni a disposizione sono quelli chimici. Ogni anno aumentano i bulgari accampati per la raccolta dell'uva. Da tempo i macedoni hanno sostituito gli italiani per i lavori di fatica nella produzione di vini di prestigio: un «esercito di riserva» composto da braccianti dell’Est che vivono in condizioni disumane. Le stesse delle campagne del Sud più volte denunciate da "l'Espresso". «Sicuramente c’è dietro il caporalato», denuncia Marco Gabusi, sindaco di Canelli, comune in provincia di Asti: «Arrivano almeno 500 persone, una parte si accampa a cielo aperto. Non sono ospitati da nessuno, e vengono pagati 4 euro l’ora. Con le forze dell’ordine abbiamo scoperto una decina di aziende che usano lavoratori in nero. Li prendono la mattina e li riportano la sera. Chi fa le cose in regola deve pagare anche le visite mediche, spende almeno 200 euro più subito e 10 euro l’ora lordi poi. Alcune piccole aziende vogliono invece risparmiare. Ma il fenomeno è ancora limitato». «Nei paesi della vendemmia sta diventando una consuetudine», spiega Alberto Mossino dell’associazione "Piam", uno tra i primi attivisti astigiani a denunciare la situazione: «Solo che erano piccolissimi numeri, poche persone che dormivano in piazza, in macchina o al massimo su una panchina. Le novità di quest'anno sono due: la presenza di una struttura stabile, ovvero una baraccopoli per un centinaio di persone. E il fatto che il piccolo paese di Canelli sia diventato un hub per i braccianti di tutto il circondario. Il sindaco ha deciso così di toglierli dalla piazza e spostarli nell’area industriale. L’intervento di accoglienza si è concretizzato in 24 posti alla Caritas, subito riempiti. Il Comune ha offerto una doccia con l’acqua fredda e due bagni chimici. Il punto è che chi incassa diecimila euro all'ettaro grazie al moscato può anche spendere qualcosa di più per ospitare i vendemmiatori». In queste zone si producono infatti vini dai nomi prestigiosi: Asti Spumante, Moscato, Barbera, Dolcetto. «Da Nord a Sud si sta uniformando la richiesta di lavoro non specializzato e sottopagato», spiega Giancarlo Gariglio, curatore della guida Slow Wine: «Si chiede manodopera straniera per un tempo molto limitato, che andrebbe gestita in maniera intelligente. Nei vigneti piemontesi, però, i controlli sono molto forti, addirittura con gli elicotteri». Il sindaco ha una soluzione originale. Italianizzare il lavoro. «Per ogni cittadino di Canelli assunto da una cooperativa o da un’azienda agricola, abbiamo riconosciuto 160 euro di contributo per almeno 10 giorni di lavoro», spiega Gabusi: «Venticinque disoccupati del posto hanno fatto la vendemmia. La gente non ha aderito in massa perché i tassi di disoccupazione sono ancora bassi. Vorremmo un’emigrazione da 30 chilometri anziché da mille. Con l’ordine pubblico e con gli incentivi metteremo fine a questo fenomeno». La vicenda della baraccopoli di Canelli ha richiamato l’attenzione internazionale. La Confederation Paysanne , importante organizzazione dei piccoli produttori francesi, ha avviato una ricerca sullo sfruttamento agricolo in Piemonte. I risultati, di quest'anno, sono sconcertanti: la vendemmia è in mano a cooperative di macedoni che svolgono intermediazione di manodopera, un tempo strettamente regolamentata ma fortemente facilitata dal 2003. Lo strumento dei “soci lavoratori” garantisce un’ampia flessibilità nel lavoro a giornata. Formalmente non è caporalato, ma i risultati sono gli stessi: salari reali sempre più bassi. I braccianti bulgari sono l’ultimo anello della catena, veri riservisti della vendemmia. È nato persino un giro di passaporti, perché i bulgari sono comunitari e l’ingaggio è più semplice. Spesso è tutto legale. La Bulgaria riconosce la cittadinanza ai macedoni che dimostrano le loro radici bulgare. Così molte persone ottengono un passaporto dell’Unione. «Ho fatto la raccolta delle castagne a Bari, le patate a Creta e la vendemmia in Piemonte», racconta Marko, bulgaro di 55 anni. «In Grecia si guadagnano 35 euro al giorno, in Piemonte anche 60. Ma la maggior parte dei giorni sono pagati in nero». «La cooperativa che lavora a regola d’arte costa un po’ di più del singolo bracciante, 13 euro l’ora», dice il sindaco Gabusi: «Ma elimina le pastoie burocratiche, ti manda gente che lavora e in due giorni hai fatto la vendemmia». «A Canelli il 10 per cento della popolazione è macedone», ci spiega Julie Rouan, ricercatrice per la Confederation: «E ci sono circa quindici cooperative di questo tipo, quasi tutte gestite da macedoni, tre delle quali sono conosciute e permanenti. Altre, più dubbie, aprono e chiudono d’un anno all’altro. Nessuno è capace di ricordare il loro nome. Alcune sono gusci vuoti creati per fatturare al più basso il prezzo del lavoro. Non risultano quasi mai d’iniziativa collettiva, ma solo della volontà di un imprenditore». L’agricoltore non è più il datore di lavoro, ma il cliente della cooperativa. Chiede una prestazione e riceve una fattura. «In teoria», spiega ancora Rouan: «per non essere colpevoli del reato di intermediazione illecita di manodopera, le cooperative devono fornire tutti i mezzi di produzione ed essere presenti sul terreno. Difficile quando una cooperativa di 120 soci fornisce più di 30 clienti diversi. A volte con un solo lavoratore sul posto per ogni cliente». Come un virus lo sfruttamento nelle campagne italiane si estende da Sud a Nord. Da anni a Saluzzo, nel distretto agricolo di Cuneo, si crea una baraccopoli nello spiazzo del Foro Boario, la fiera del bestiame che a settembre mette in passerella le migliori vacche frisone della zona. A pochi metri di distanza centinaia di braccianti africani dormono in casupole di cartone, in fredde tende del Ministero dell’Interno o – i più fortunati – in pochi container pagati dalla locale Coldiretti. Il tema del lavoro schiavile in agricoltura è del tutto assente nel nostro dibattito pubblico. Non così in Europa. Un’inchiesta in prima serata di France 2, “Il raccolto della vergogna” , ha suscitato un ampio dibattito tra i consumatori transalpini. I giornalisti hanno ripercorso la filiera di una confezione di broccoli dal bancone di un supermercato parigino all’azienda pugliese che faceva ricorso al caporalato. Der Spiegel e The Ecologist propongono all’opinione pubblica tedesca e inglese servizi periodici sulle drammatiche condizioni dei lavoratori impegnati stranieri nelle nostre campagne. Il rischio di compromettere l’immagine dell’agroalimentare Made in Italy è serio. Tutti discutono dell’agricoltura italiana. Tranne gli italiani.
Piemonte, scandalo fondi regionali: 4 condannati, 24 a processo, 14 patteggiano. Tra le altre decisioni del gup la pena di un anno e 8 mesi per l'ex presidente del consiglio regionale Cattaneo che aveva chiesto il rito abbreviato. Il dibattimento per gli altri inizierà il 21 ottobre: a giudizio ci sarà anche l'ex governatore Cota, scrive Andrea Giambartolomei su “Il Fatto Quotidiano”. Quattro condanne, 14 patteggiamenti e 24 rinvii a giudizio nel processo per la “Rimborsopoli” in Piemonte. Il gup di Torino Roberto Ruscello ha accolto le richieste dei pm Giancarlo Avenati Bassi ed Enrica Gabetta e ha condannato tre ex consiglieri regionali e un imprenditore-politico che avevano scelto il rito abbreviato. Sono l’ex presidente del Consiglio regionale Valerio Cattaneo (un anno e otto mesi), Carla Spagnolo (un anno, otto mesi e venti giorni), Roberto Boniperti (due anni e sei mesi) e Gabriele Moretti, ex consigliere comunale di Torino della lista dei Moderati a capo della società Contacta (tre anni di pena), tutti interdetti per la durata della pena. Cattaneo nel 2012, intervistato da ilfattoquotidiano.it, aveva escluso che ci fosse un “caso Piemonte”. Il gup ha pure accolto le richieste di patteggiamento formulate dai difensori di 14 consiglieri in accordo con la procura. Un anno per Michele Marinello, Francesco Toselli, Giovanna Quaglia ed Elena Maccanti; un anno e un mese per Marco Botta e Cristiano Bussola; un anno e tre mesi per Gianfranco Novero e Tullio Ponso; un anno e quattro mesi per Maurizio Lupi dei Verdi Verdi (lui sarà processato pure per una truffa in concorso con la figlia), Franco Maria Botta, Antonello Angeleri e Andrea Buquicchio; un anno e sei mesi per Luca Pedrale e Mario Carossa. Tutti gli altri invece sono stati rinviati a giudizio e per loro il processo comincerà il 21 ottobre, quando tra i banchi ritroveranno l’ex governatore leghista Roberto Cota, accusato di peculato per aver ottenuto pure i rimborsi illeciti, tra cui quello per le “mutande verdi” (dei bermuda color kiwi acquistati durante un viaggio negli Stati Uniti). A processo erano finite 41 persone accusate di peculato e, in alcuni casi, truffa. Tutti avrebbero percepito rimborsi illeciti dal maggio 2010 al settembre 2012, momento in cui sono cominciate le indagini della procura e della guardia di finanza dopo la segnalazione del consigliere M5S Davide Bono e dopo le dichiarazioni dell’ex vicepresidente della giunta Roberto Rosso(Pdl) a un tv privata lombarda. A giudizio sono finiti Angiolino Mastrullo, Augusta Montaruli, Lorenzo Leardi, Rosanna Valle, Massimiliano Motta, Roberto Tentoni, Angelo Burzi, Michele Formagnana, Girolamo La Rocca, Daniele Cantore, Alberto Cortopassi e Rosa Anna Costa (tutti del Pdl, poi confluiti nei gruppi di Fi, Ncd, Fdi, Progett’Azione); Massimo Giordano, Roberto De Magistris, Federico Gregorio, Riccardo Molinari e Paolo Tiramani (Lega Nord); Michele Giovine (Pensionati per Cota), Michele Dell’Utri (Moderati); Luigi Cursio (Idv); Giovanni Negro (Udc); Andrea Stara (Insieme per Bresso); Maurizio Lupi (Verdi Verdi, che ha patteggiato la pena per peculato ma è stato rinviato a giudizio per truffa). Rinviata a giudizio anche la figlia del consigliere Maurizio Lupi, Sara, collaboratrice del gruppo dei Verdi Verdi. I finanzieri acquisirono la documentazione negli uffici dei gruppi consiliari e dopo una verifica basata sugli scontrini raccolti, sulle testimonianze e sui tabulati telefonici che registravano gli spostamenti dei politici, hanno definito un quadro. Inizialmente gli indagati erano 52, ma per alcuni di loro i pm Avenati Bassi e Gabetta hanno chiesto l’archiviazione, che deve ancora essere valutata dal gup. La procura nel frattempo aveva pure aperto un’indagine sui rimborsi ricevuti dai consiglieri della legislatura del periodo 2005-2010, un’indagine che ora è ferma: al termine della prima inchiesta il finanziere che più di tutti aveva coordinato le attività e gli accertamenti, il capitano Francesco Maria Mangano, è stato promosso al gruppo Grandi verifiche fiscali. La decisione dei vertici delle Fiamme gialle non è piaciuta alla procura torinese, privata della figura che ha seguito fin dall’inizio i risvolti delle indagini. Fermi i controlli pure dal punto di vista contabile. Le sezioni unite della Corte dei conti e la Cassazione hanno bloccato la sezione regionale di controllo dalle verifiche sui rimborsi del 2012 e degli anni precedenti: “Il sindacato della stessa Corte dei Conti non ha potere discrezionale e non può entrare nelle scelte discrezionali dei gruppi”, scrivono i magistrati precisando che le valutazioni possono essere basate solamente sui documenti.
PIEMONTE. GIUNTA REGIONALE ABUSIVA.
Piemonte: l'accusatrice di Cota indagata per firme false. Luigina Staunovo Polacco, la "paladina della legalità" sotto accusa per firme false per la sua lista a favore della Bresso, scrive Claudia Daconto su “Panorama”. Da anni si presenta come il simbolo della legalità, la paladina della giustizia. Per questo non ha esitato ad attaccare ed accusare il Governatore del Piemonte Roberto Cota per le presunte irregolarità nella presentazione delle liste. Peccato che anche lei avrebbe barato. Luigina Staunovo Polacco, presidente della lista Invalidi e Pensionati per Bresso, andrà a processo il 19 giugno 2014 con l'accusa di aver presentato “scientemente e consapevolmente, le candidature per le elezioni regionali del 2010 avvalendosi di firme false”. Si tratta della stessa persona che all'epoca dell'elezione del governatore del Piemonte Roberto Cota, aveva fatto ricorso al Tar contro la lista di Michele Giovine, “Pensionati per Cota”, accusandola del medesimo reato. Qualche giorno fa, quattro anni dopo le votazioni, Il Tar ha accolto il ricorso e annullato le elezioni regionali del 2010. Una decisione contro la quale il leghista Cota, indagato per le spese pazze in Regione, ha già presentato appello al Consiglio di Stato. "Ci mancava poco che si impiccasse il Presidente in carica in Piazza Castello - commenta con Panorama.it l'avvocato di Roberto Cota, Domenico Aiello - e invece, a sorpresa, colei che sino a ieri si é stracciata le vesti rappresentandosi come vittima di ingiustizie e nefandezze si scopre esser sempre stata ideatrice e beneficiaria di condotte illecite al pari se non peggiori di quelle attribuite alla controparte politica. Eppure gli Zar non sono mai stati farisei! Mi chiedo se sia chiaro con quanta disinvoltura, capacità criminale e mancanza di pudore sia stata violentata l'opinione pubblica. Il noto sistema delle due velocità di giudizio, pregiudica certamente e irrimediabilmente la parte politica che lo subisce, ma alla fine rafforza il senso di sconforto e di sfiducia del cittadino nei confronti della Giustizia Italiana. Ma sono certo che di questo fallimento oramai conclamato, silente dagli effetti disastrosi per la democrazia, non vi sarà traccia in alcuna delle prossime relazioni di inaugurazione dell'anno giudiziario". Quando si dice, insomma, che “chi di ricorso ferisce di ricorso perisce”. La signora, che sul sito del suo partito, aggiornato l'ultima volta nel 2008 per mettere in guardia dagli “inganni” del concorrente Carlo Fatuzzo del Partito Pensionati e che non risulta raggiungibile al numero di telefono in quanto inesistente, si mostra in una foto in bianco e nero di almeno 50 anni fa, attacca: “E' chiaramente una vendetta. Non ho mai fatto uso di firme false – e allontana da sé ogni responsabilità - Soprattutto, non sono stata io a presentarle ma Andrea Buquicchio, dell’Italia dei valori, tramite i suoi delegati. Non era mai successo che finisse in giudizio il presidente di un partito per autenticazioni fatte da altri”. Eppure già in passato un altro esponente del suo partito, Marco Di Silvestro, era stato imputato per violazione delle leggi vigenti in materia elettorale e nel novembre del 2012 aveva patteggiato l'accusa riconoscendo, di fatto, di aver falsamente autenticato l'accettazione della candidatura di 13 esponenti delle liste Pensionati e invalidi per Bresso alle regionali del Piemonte e alle comunali di Moncalieri nel 2010. "La cosa drammatica - aggiunge l'avvocato Aiello - è che fino all'ultimo l' accusa "amica" ha perseverato nel tentare di rinunciare all'esercizio dell'azione penale ed è solo grazie ad un Giudice terzo che la Procura di Torino dovrà sostenere l'accusa nei confronti della vera grande truffa perpetrata contro il voto dei cittadini piemontesi espropriati di ogni certezza". Prima che il gup decidesse per il suo rinvio a giudizio, per Luigina Staunovo Polacco la pm Patrizia Caputo aveva infatti chiesto aveva chiesto il proscioglimento. Adesso Contro di lei si è costituito parte civile Michele Giovine, dei Pensionati per Cota, e tutti i gruppi della maggioranza di centrodestra. Tra questi Fratelli d'Italia il cui capogruppo in Regione, Franco Maria Botta, attacca: "La sua lista patacca a sostegno di Bresso è l'unico vero scandalo delle elezioni 2010 perchè chi ha puntato il dito contro il centrodestra era l'artefice di un inganno senza precedenti"; il collega Agostino Ghiglia invita Mercedes Bresso a non fare "la moralista a targhe alterne" e a dimettersi da consigliera mentre il responsabile Enti Locali del Piemonte di Forza Italia, Osvaldo Napoli, esorta ad accendere "i riflettori sulla figura straordinaria di quella Giovanna d'Arco del moralismo piemontese che è l'ex presidente Bresso".
10 gennaio 2014. Tutti a casa. La profezia impressa su uno striscione appeso da mesi sul muro di fronte al Consiglio regionale piemontese si sta per avverare, scrive Marco Imarisio su “Il Corriere della Sera”. La decisione con la quale il Tar accoglie il ricorso presentato dall’ex governatore Mercedes Bresso «per il suo effetto annulla la proclamazione degli eletti», così si legge nel provvedimento. Le elezioni regionali della primavera del 2010, con il trionfo a sorpresa di Roberto Cota su Bresso, la zarina del Pd, è come se non ci fossero mai state. Fine di una controversia che si trascina dai mesi seguenti il risultato di quella consultazione, una specie di spada di Damocle che di fatto in questi anni ha paralizzato vita e attività del Consiglio regionale. Bresso era stata sconfitta con soli 9.372 voti di scarto. Tra quelli raccolti dallo schieramento di Cota c’erano le 27.797 preferenze ottenute dai “Pensionati per Cota” di Michele Giovine. Una lista che si rivelò costituita con firme false, addirittura candidando persone a loro insaputa, come stabilito da una inchiesta della magistratura. Nell’estate del 2010 il Tar aveva rimandato tutto all’esito definitivo della giustizia penale. Il 14 novembre 2013 la Cassazione ha confermato la condanna di Giovine a due anni e 8 mesi. La sentenza di oggi del Tar non è definitiva, per il centrodestra è ancora possibile un appello al Consiglio di Stato. Ma nel corso della estenuante querelle giudiziaria è stato proprio quest’ultimo organo a stabilire la titolarità a decidere del Tar dopo gli esiti del processo penale. Molto probabile, quindi, il voto a primavera, con scioglimento anticipato di un consiglio regionale e di una maggioranza già fiaccata dall’inchiesta sui rimborsi elettorali, che vede indagati tutti e 43 i consiglieri regionali del centrodestra, compreso Cota. Nel centrosinistra il candidato c’è già, seppur manchi ancora la conferma ufficiale. E’ Sergio Chiamparino, considerato da tutti, renziani e non, come una carta sicura. Nel centrodestra piemontese, dopo questa ennesima mazzata, sta per cominciare la resa dei conti.
Tutto da rifare. Il Tar del Piemonte ha accolto «il ricorso principale» promosso da Mercedes Bresso contro il risultato delle elezioni regionali del 2010, scrivono Marco Letizia ed Elisa Sola su “Il Corriere della Sera”. Ricorso che era dovuto allo scandalo legato alla scoperta di firme false per la presentazione della Lista dei Pensionati per Cota di Michele Giovine, poi condannato in via definitiva a 2 anni e 8 mesi di carcere. Secondo quanto si ricava da una prima lettura del dispositivo è necessario tornare al voto. L’annullamento della proclamazione degli eletti porta infatti alla decadenza della Giunta regionale e, quindi, alla sospensione di tutta l’attività in corso. È quanto trapela da esponenti della stessa Giunta regionale . Contro la sentenza è in ogni caso possibile fare ricorso al Consiglio di Stato e Cota ha dichiarato che è pronto a presentarlo. «Con la pronuncia del Tar di oggi ha dimostrato che le elezioni del Tar del 2010 erano truccate - è stato il primo commento di Mercedes Bresso,ex presidente della giunta regionale e battuta per poche migliaia di voti dal leghista Roberto Cota - . Per me è una vittoria. Ora la giunta Cota non esiste più Ora si rivada al voto, credo che sia possibile votare tra poche settimane, nel famoso election day fissato per le europee». Come detto, la sentenza arriva al termina di una lunga procedura giudiziaria che ha visto annullare i voti (circa 27.000) verso un lista pensionati legata all’attuale governatore, il leghista Roberto Cota. La Lista dei Pensionati per Cota aveva infatti falsificato le firme per presentare la lista oltre a candidare persone inesistenti. Avendo la candidata del centrosinistra Mercedes Bresso perso le elezioni per circa 9000 voti, la sentenza del Tar porta quindi all’annullamento delle elezioni del 2010. Si potrebbe ritornare al voto già in primavera. «Seppure in ritardo è stata fatta giustizia - ha detto ancora Mercedes Bresso . La sentenza è immediatamente esecutiva, anche se ci sarà il ricorso, riusciremo a andare al voto insieme alle amministrative e alle europee. Sono contenta soprattutto per il Piemonte, perché gira pagina. Non ho tuttavia intenzione in questo clima politico di ricandidarmi alle prossime regionali ,in questo senso ho già dato. La mia ambizione è di ritornare al Parlamento europeo- In ogni caso deciderà il Pd». Con ogni probabilità, in caso di nuove elezioni in primavera, il centrosinistra presenterà come candidato, l’ex sindaco di Torino e attuale presidente della compagnia di san Paolo Sergio Chiamparino, molto vicino al l’attuale segretario del Pd, Matteo Renzi. «Se nei prossimi mesi si andrà al voto anticipato per la Regione Piemonte vi sarà la mia disponibilità a una eventuale candidatura alla Presidenza della medesima che, naturalmente, non dipenderà solo da me». ha subito dichiarato Chiamparino. Del resto se Sergio Chiamparino vorrà candidarsi a presidente della regione, potrà farlo da uomo libero da procedimenti penali in corso. L’attuale presidente della Compagnia di San Paolo era stato indagato dalla procura di Torino con altri dirigenti del Comune, che ha guidato fino al 2011, per la mala gestione dei locali dei Murazzi del Po, centro della movida torinese. Oggi il sostituto procuratore Andrea Padalino ha chiuso l’indagine, notificando la chiusura ad alcune persone ma non a Chiamparino. L’ex sindaco di Torino non figura quindi più tra gli indagati.
COTA - «La sentenza è una vergogna» ha dichiarato Cota, già scosso da altri avvenimenti giudiziari. La sentenza arriva infatti dopo il suo coinvolgimento come indagato, nell’inchiesta sui rimborsi alla regione Piemonte. Cota ha poi dichiarato che in attesa della risposta del Consiglio di Stato andrà avanti come prima. Un atteggiamento bollato dalla Bresso come «irresponsabile».
SALVINI - Non fa una piega invece il neosegretario della Lega Matteo Salvini che su Facebook scrive: «Giudici e sinistra, anche quando perdono, riescono a vincere. Un attacco alla democrazia, ecco di cosa si tratta. Altro che mutande! Forse a qualcuno hanno dato fastidio i 30 milioni di risparmio secco, all’anno, dei costi della politica in Regione. Forza Piemont, forza Lega, continuiamo a lavorare».
RADICALI - Particolarmente soddisfatti della sentenza i Radicali, che però precisano: «In questo momento di gioia non possiamo, però, tacere di una grave inadempienza del Consiglio Regionale del Piemonte: a un mese dalla sentenza di Cassazione (14 dicembre 2013) che ha condannato in via definitiva Michele Giovine, - aggiungono i Radicali piemontesi - questi non è ancora stato dichiarato decaduto da consigliere regionale; dal dicembre 2012, da oltre un anno, Giovine è stato sospeso e percepisce metà indennità di consigliere e la sua compagna di partito Sara Franchino, divenuta consigliere al suo posto, percepisce l’indennità intera».
LETTA - Sulla questione è intervenuto anche il premier Enrico Letta: «Non commento mai le sentenze, ci saranno le conseguenze del caso, si andrà al voto. Certo, tre anni e mezzo sono un tempo assolutamente incredibile e penso che tutti si debba riflettere su questo. Forse bisogna riguardare alcune di quelle norme».
La vicenda giudiziaria dei ricorsi elettorali in Piemonte è iniziata nel 2010, dopo il voto regionale che ha portato il leghista Roberto Cota ad occupare la poltrona di governatore, scrive Elisa Sola su “Il Corriere della Sera”. La differenza dei voti tra i due candidati presidenti – Cota e la presidente allora uscente Mercedes Bresso, del Pd - era di 9.157 voti, pari a uno scarto dello 0,4%. Bresso e altre liste di centrosinistra, i Verdi, i Radicali e i Pensionati per Bresso, avevano depositato ricorso contro la vittoria del leghista per «irregolarità amministrative». Il primo livello giudiziario della querelle si è svolto quindi al Tribunale amministrativo regionale. La prima sentenza espressa è del luglio 2010: il giudice aveva rinviato alla giustizia ordinaria civile la questione più rilevante di tutta la complessa questione amministrativa, almeno dal punto di vista dei voti raccolti, quella della Lista dei Pensionati per Cota di Michele Giovine. Giovine aveva raccolto alle scorse regionali ben 27mila voti, determinanti per la vittoria di Cota. Secondo Bresso i suoi voti erano stati raccolti con firme false, inficiando la regolarità dell’esito delle regionali. Contemporaneamente il Tar aveva disposto un’operazione di verifica delle schede elettorali, alla luce degli atti «demolitori», cioè quelli in grado di produrre effetti sull’esito del voto individuati dalla sentenza. Nel corso del secondo grado di giudizio amministrativo, presso il Consiglio di Stato, i magistrati avevano bloccato le operazioni di verifica sulle schede elettorali e in via incidentale avevano sollevato il dubbio di costituzionalità sulla sentenza espressa precedentemente dal Tar, perché nel rinviare alla giustizia ordinaria civile la verifica dei falsi commessi dalla Lista Pensionati per Cota non verrebbe rispettato il principio della Costituzione italiana della «ragionevole durata del processo». Il 4 ottobre 2011 la Corte Costituzionale ha respinto il rilievo sollevato dal Consiglio di Stato lasciando quindi il processo sulla Lista Pensionati per Cota alla giustizia civile ordinaria. Parallelamente è iniziato anche un processo penale contro Michele Giovine che si è concluso in Cassazione con la sua condanna a due anni e otto mesi. Dopo quest’ultima sentenza i legali di Bresso hanno presentato al Tar del Piemonte un’istanza di riapertura del processo, fino ad allora sospeso in attesa della sentenza della Cassazione.
Cota a casa, ma quattro anni per scoprirlo sono troppi, scrive Davide Ricca su huffingtonpost.it. Solo quattro anni. Ci sono voluti solo quattro anni per sapere che in Piemonte le elezioni del 2010 sono state irregolari, che il Presidente non doveva essere Roberto Cota, che le elezioni vanno rifatte. In questi quattro anni l'Italia ed il Piemonte in particolare, la mia Regione, hanno subito la crisi economica ed industriale più pesante che si sia mai vista. Siamo piombati nel baratro e stiamo provando a venirne fuori. Il numero più alto di ore di cassa integrazione ordinaria e straordinaria di tutto il Paese, la crisi nazionale eppure molto "torinese" del settore automotive e del suo indotto, la crisi del tessile, la crisi del settore orafo, la ricerca di nuove vocazioni tra cui il turismo, le difficoltà dei Comuni e delle amministrazioni locali, (basti pensare ai semi-default del Comune di Alessandria e della Provincia di Biella), la partenza dei lavori della TAV. Insomma è successo di tutto. Sarebbe semplice oggi attaccare il centrodestra, invece sono semplicemente allibito e basito. Come facciamo a dare certezze a chi vuole investire in Italia, ai nostri figli, a chi prova a fidarsi del nostro Paese se ci mettiamo quattro anni per dire che è tutto da rifare. Quale legittimità e autorevolezza ha il nostro intero sistema istituzionale? Quale certezza del diritto? Le scelte fatte dalla Regione: la riprogrammazione dei Piani Operativi dell'ultimo sestennio, la contrattazione sulla nuova Programmazione Comunitaria, il nuovo Piano Sanitario, il nuovo Piano dei Trasporti. Mamma mia. Si riparte da capo? Si deve lavorare in continuità? Chi ha un'azienda, e io tra essi, chi vive in Piemonte, non può che sentirsi disorientato e, a dirla tutta, abbandonato. Mi spiace, ma questa volta le mutande di Cota, i rimborsi dei Consiglieri Regionali (tra l'altro pare che adesso si torni indietro a verificare anche quelli della scorsa legislatura), non c'entrano nulla. Questa volta c'entra solo la lentezza pachidermica dello Stato. Quella denunciata da chi sta provando a cambiare verso all'Italia da un po' di tempo a questa parte. E' illegittima la Giunta Regionale? E' illegittimo il Consiglio Regionale, come sono illegittimi i parlamentari eletti con il porcellum (quanto abbiamo dovuto aspettare anche in questo caso il pronunciamento della Corte Costituzionale e ancora non abbiamo le motivazioni)? No! Credo sia non legittimo sopportare ancora questo "stato dello Stato".
I tempi di un paese poco normale, scrive Luigi La Spina su “La Stampa”. C’è un Paese, nel civile e democratico occidente, in cui l’organo dello Stato più importante, quello che rappresenta la volontà popolare, il Parlamento, è composto, da quasi un anno, da senatori e deputati eletti con una legge contraria alla Costituzione. Nello stesso Paese, una delle più grandi regioni del nord, il Piemonte, è governata, da quasi quattro anni, da un presidente e da una giunta eletti illegittimamente. Questo Paese è l’Italia. La decisione con la quale il tribunale amministrativo piemontese, ieri, ha dichiarato nulle le elezioni che, nella primavera 2010, avevano deciso, per poche migliaia di voti, la vittoria dello sfidante leghista, Roberto Cota, sull’ex presidente Mercedes Bresso, ricandidata dal centrosinistra, non è certo sorprendente nel merito della questione. Dopo l’accertamento della falsità di alcune firme su una lista d’appoggio al candidato di centrodestra, la sentenza era prevedibile. Ma il verdetto è sconvolgente perché arriva quasi alla fine di una legislatura regionale e, per di più, non è ancora definitivo, dal momento che il ricorso dei perdenti al Consiglio di Stato sicuramente allungherà ancora questi tempi infiniti, con il rischio pure di un annullamento del giudizio del Tar. Si può ancora definire «normale» un Paese nel quale ci vogliono quattro anni per verificare la regolarità di una elezione importante, come quella per una Regione? Si può ammettere che per quasi un’intera legislatura il presidente del Piemonte e la sua giunta abbiano esercitato un potere illegittimo, abbiano emanato leggi illegittime, abbiano deciso nomine illegittime? L’Italia ha dimostrato di sopravvivere, con il sacrificio dei suoi cittadini, a una crisi economica devastante per molte famiglie. Come può sopravvivere l’immagine di questo Paese quando le sue istituzioni sono esposte al rischio peggiore, quello del ridicolo? Come si può pretendere di esigere il rispetto che l’Italia dovrebbe riscuotere all’estero, quando una disputa elettorale non viene decisa nel giro di un mese, come avviene in tutti i Paesi del mondo, ma si trascina fino a quando la soluzione diventa sostanzialmente inutile. Perché la politica, come la vita degli uomini, non si può «resettare» come si dice nei linguaggi informatici. La gravità del caso Piemonte è proprio quella dell’assoluta osservanza di leggi e procedure. Non si possono imputare speciali pigrizie ai giudici amministrativi, né particolari atteggiamenti ostruzionistici agli avvocati delle parti. Tutti hanno compiuto, con scrupolo e competenza professionale, i doveri imposti dal loro ruolo. L’inaccettabile ritardo del verdetto (quasi) definitivo dimostra, in maniera simbolicamente molto efficace, la paralisi in cui l’Italia è sprofondata da almeno vent’anni. Vent’anni perduti in dispute inconcludenti, in cui alla vicende giudiziarie di Berlusconi sono state sacrificate riforme della giustizia indispensabili, quelle che interessano davvero i cittadini. Quelli che aspettano da decenni che si concluda una causa civile, quelli che sono costretti a rinviare o a cancellare investimenti che darebbero preziosa occupazione perché ad ogni passo s’imbattono in ricorsi ostativi dalle parti più disparate, con le pretese più improbabili. Quelli che, in attesa di giudizio e magari innocenti, affollano per anni le carceri, le cui condizioni vergognose ci espongono alle condanne delle corti internazionali. Una classe politica del tutto inadeguata come quella che ci ha governato nella cosiddetta seconda Repubblica ha condannato il nostro Paese all’immobilismo più assoluto. Una nazione in cui le decisioni, anche le più importanti, vengono delegate ai ritmi lenti e tortuosi della giustizia italiana. Così, del tutto regolarmente per carità, la Corte Costituzionale scopre, solo dopo quasi dieci anni, che la legge con la quale si elegge il Parlamento ha portato alla Camera e al Senato illegittimi rappresentanti del cosiddetto popolo sovrano. Così, dopo quattro anni, (forse) si stabilirà che Cota e la sua giunta hanno esercitato in Piemonte un potere abusivo, occupando abusivamente poltrone che sarebbero spettate ad altri. Non servono agli italiani facili e demagogiche proteste, né ricette miracolistiche e dall’applicazione impossibile, ma una riflessione seria e severa sulle responsabilità collettive in questi anni di sciagurata dilapidazione del patrimonio nazionale non solo economico, ma soprattutto morale e civile. La battaglia di tutti contro tutti, corporazione contro corporazione a colpi di veti reciproci, ha impedito nel nostro Paese il varo di tutte quelle riforme, radicali e urgenti, indispensabili perché l’Italia torni a essere una normale democrazia dell’Occidente. A cominciare da quella sui tempi della giustizia.
Non solo Cota, i ricorsi sulle firme false fioccano da Nord a Sud di Michela Finizio su “Il Sole 24ore”. I ricorsi per contestare i risultati elettorali non hanno colore o partito politico. Dal Pdl al Pd, passando per la Lega, sono numerosi le inchieste avviate negli ultimi anni sul territorio italiano che mettono – o hanno messo in crisi – i risultati delle urne. Anti-politica o reale corruzione del sistema elettorale, fatto sta che i ricorsi fioccano. E non sono solo i Radicali, che da tempo rappresentano queste battaglie legali, a presentare gli esposti che danno avvio alle indagini. Per ultima, a fine ottobre, è stata assolta perché il fatto non sussiste Monica Perugini, ex segretario di Sinistra Popolare, finita a processo per falso ideologico e falso materiale in relazione al giallo delle firme raccolte per le elezioni amministrative di Mantova nel 2010. In sostanza, secondo il capo d'accusa, la Perugini avrebbe raccolto all'Arci Salardi 25 firme per la candidatura a primo cittadino di Fiorenza Brioni, ex sindaco di Mantova, e di averle poi utilizzate per se stessa a sostegno della propria candidatura. Il processo, trascinatosi per tre anni, era stato avviato in seguito ai primi sospetti del referente della lista antagonista, per la Sinistra Unita a Mantova, Claudio Balestrieri, che aveva trasmesso tutto il materiale in Procura. A Milano, a partire della decisive denunce di Radicali italiani, è ancora in corso il processo per le 700 firme false per le liste Formigoni alle regionali lombarde, nel quale tra gli imputati figura anche Guido Podestà, il presidente Pdl della giunta della Provincia di cui fa parte Silvia Garnero. Anche quest'ultima, la più giovane assessore provinciale d'Italia, 25 anni, è stata indagata a Milano per falso in atto pubblico nell'autenticazione delle firme per i referendum radicali sulla giustizia: nipote della parlamentare Daniela Santanchè, è finita nel mirino per aver autenticato 14 firme (per ciascuno dei 6 referendum) di persone che invece le hanno disconosciute (13 su 14, perché uno sarebbe un morto). Anche se la vicenda Formigoni è stata superata dalla storia, con le elezioni dell'attuale presidente della Lombardia, il governatore Roberto Maroni, i ricorsi però non si sono fermati. Il consigliere provinciale monzese della Lega Nord Giuliano Beretta è stato indagato per falso dalla procura di Monza, con l'accusa di aver falsamente autenticato circa 900 firme raccolte nella circoscrizione Monza e Brianza a sostegno della lista Maroni Presidente alla Regione Lombardia. L'inchiesta era stata avviata dal Pm Franca Macchia in seguito alla denuncia presentata qualche settimana fa dai Radicali. A marzo 2013, inoltre, è stata condannata a un anno e tre mesi, pena sospesa, Erika Faienza, consigliera provinciale Pd di Torino ritenuta responsabile di falso in violazione della legge elettorale. Per l'accusa, sostenuta dal pm Patrizia Caputo, la stessa del più famoso caso Giovine, avrebbe autenticato delle firme per la lista Piemonte Europa Ecologia a sostegno di Piero Fassino, in occasione delle ultime elezioni comunali, senza però essere presente. Assistita dall'avvocato Giampaolo Zancan, Faienza ha sempre negato la circostanza. A ottobre 2013, infine, due ordinanze di custodia cautelare agli arresti domiciliari sono state emesse a Lodi dal gip Alessandra Del Corvo a seguito dell'inchiesta avviata nel gennaio 2012 da Polizia e Carabinieri lodigiani sulla presentazione di false firme di sostegno per la lista La Destra, che faceva capo a Francesco Storace, in vista delle elezioni politiche. Tutto è cominciato quando alcuni rappresentanti de La Destra, veri o falsi ancora non è chiaro, hanno chiesto all'ufficio elettorale del Comune di Lodi il rilascio dei certificati di iscrizione alle liste elettorali di più di 500 cittadini. Gli elenchi dei sottoscrittori della lista guidata da Storace sono però risultati irregolari e perciò l'ufficio elettorale ha inviato una segnalazione alla procura. Nel 2010 ad una firma era rimasto appeso anche il listino collegato alla candidata del centrodestra Renata Polverini, che a pochi giorni dalla consultazione elettorale per le regionali del Lazio la Corte d'Appello aveva fatto saltare per «impedimento burocratico»: al listino, poi riammesso, mancava la firma di uno dei rappresentanti di lista. Dal Lazio alla Lombardia il caos sulle consultazioni elettorali non è mai arrivato all'annullamento dei risultati, come è accaduto per le regionali del Piemonte. In corso, archiviate oppure concluse con condanne ad esponenti non rilievo o esterni alla politica, spesso le battaglie legali sono state avviate tramite i ricorsi dei Radicali. Fatto sta che ora l'esito dell'inchiesta sulle elezioni regionali in Piemonte oggi fanno riflettere sul sistema di raccolta delle firme per i listini elettorali: in un clima che sempre più spesso cavalca l'antipolitica e la sfiducia nelle istituzioni, le tante inchieste avviate sul territorio mettono in crisi l'intero assetto istituzionale.
Benvenuti in Piemonte, provincia de Il Cairo, scrive Lanfranco Palazzolo su “Tempi”. L'annullamento da parte del Tar delle elezioni regionali del 2010 non ha sorpreso nessuno. Per la semplice ragione che in passato si è arrivati ad epiloghi del genere ricorrendo alla magistratura. E non solo in Italia. Per trovare un precedente internazionale non è necessario andare troppo lontano. Il 6 marzo scorso il Tribunale amministrativo de Il Cairo aveva annullato le elezioni politiche prima del loro svolgimento previsto per il successivo 22 aprile con questa motivazione: la Corte costituzionale deve valutare la compatibilità della nuova legge elettorale prima che gli elettori si rechino alle urne. Da noi succede esattamente il contrario. Questo annullamento «piemontese» è l'esordio delle cancellazioni delle consultazioni elettorali al Nord. Prima di questa circostanza erano rimasti coinvolti nella black-list la Regione Molise, il Comune di Messina e la Regione Abruzzo. Il primo precedente in questo genere di pronunciamenti è stato quello del Tar del Molise che il primo marzo del 2001 annuncia la cancellazione delle elezioni dell'anno prima, vinte dal centrosinistra per poche decine di voti, a causa delle numerose irregolarità presentare da Rifondazione comunista e dai Verdi sulle liste. La decisione manda in tilt tutto l'apparato amministrativo della Regione perché nessuno è in grado di dire chi avrebbe dovuto sostituire la giunta di centrosinistra guidata da Giovanni Di Stasi. Il Presidente della Regione chiama Palazzo Chigi e riceve l'assicurazione che la Giunta può restare in carica per il disbrigo degli affari correnti. Il 18 giugno 2001 il Consiglio di Stato conferma l'annullamento delle elezioni. L'anno dopo, il 9 gennaio del 2002, entra in scena il Tar dell'Abruzzo che annulla le elezioni regionali del 2000 perché si scopre che l'assessore alla Sanità Rocco Salini è stato eletto con una condanna passata in giudicato. Salini viene eletto con 12 mila preferenze, mentre il centrodestra vince la partita delle regionali per appena 3000 voti. Ma il Consiglio di Stato annulla il precedente pronunciamento il 19 febbraio 2002. Il Consiglio regionale di Pescara viene reintegrato fino al giudizio di merito che dà ragione alla Giunta in carica. Il centrodestra abruzzese si salva in calcio d'angolo. Ma non è finita qui. Il 3 ottobre 2007 ci pensa il Consiglio di giustizia amministrativa siciliano ad annullare il voto per il Comune di Messina. Stavolta la sventura tocca alla Giunta di sinistra guidata da Francantonio Genovese. A far cadere la giunta comunale è il Nuovo Psi di Gianni De Michelis. È Bobo Craxi a presentare il ricorso per far riammettere la sua lista alla competizione elettorale dopo l'esclusione delle elezioni comunali del 2005, quando il Tar della Regione Sicilia aveva respinto la sua richiesta. La sequenza degli annullamenti torna a colpire nuovamente il Molise nel 2012. Stavolta è prima il Tar della regione, il 17 maggio 2012, e poi il Consiglio di Stato, il 29 ottobre dello stesso anno, ad annullare il voto delle elezioni regionali del 2011, vinte dal candidato del centrodestra Michele Iorio. Ma il caso più incredibile è accaduto a Catanzaro tra il 2012 e il 2013. In questa circostanza, il 22 novembre 2012, il Tar della Calabria annulla il risultato di 8 sezioni per le elezioni amministrative svoltesi nel giugno 2012. Il pronunciamento rimette in discussione la Giunta di centrodestra guidata da Sergio Abramo. Anche in questo caso lo scarto tra il vincitore e lo sconfitto, il candidato del centrosinistra Salvatore Scalzo, è di appena 130 voti. Si torna a votare il 21 gennaio 2013. Alle elezioni comunali vengono chiamati a presiedere queste 8 sezioni altrettanti magistrati. Al termine delle operazioni di scrutinio, computando i voti validi delle elezioni del precedente giugno, Sergio Abramo risulta il vincitore al primo turno ottenendo in totale 28.833 voti pari al 50.6% contro i 24.219 pari al 42,5% dello sfidante di centrosinistra. Adesso, con l'annullamento delle elezioni al Nord, in Piemonte, l'Italia è unita davvero.
RIMBORSOPOLI. POLITICI PIEMONTESI: ABUSIVI E DANNOSI?
Rimborsopoli, indagine chiusa. Cota e 43 consiglieri “avvisati”. Peculato, truffa, rimborso illecito ai partiti sono le accuse, ma con responsabilità e coinvolgimenti diversi, scrivono Marco Accossato, Paola Italiano; Massimiliano Peggio ed Andrea Rissi su “La Stampa”. Peculato, truffa, rimborso illecito ai partiti: sono le accuse - con responsabilità e coinvolgimenti diversi - mosse per «Rimborsopoli» ai consiglieri della Regione Piemonte. Indagate 43 persone, che hanno ricevuto oggi pomeriggio gli «avvisi» di chiusura indagini, direttamente o tramite i loro legali. Tra gli indagati c’è il governatore del Piemonte, Roberto Cota e gran parte dell’ex Pdl: 19 sono infatti esponenti del vecchio Popolo della Libertà, 12 della Lega, 3 dell’Italia dei Valori, 2 dell’Udc. Un indagato c’è anche fra i Moderati, nel Gruppo Misto, in Insieme per Bresso, in Uniti per Bresso, tra i Verdi Verdi e tra i Pensionati per Cota. La stessa Mercedes Bresso, ex presidente della Regione, è indagata, tranne che per peculato. «Avviso» anche a Valerio Cattaneo, presidente del Consiglio regionale. A tutti viene chiesto conto delle spese pazze a carico del contribuente: cibi (tartufi compresi), abbigliamento, oggetti per animali, profumi, fiori. Tra i conti finiti nel mirino della procura anche un tosaerba, corsi di lingue straniere, carburante, fino ad assorbenti igienici comprati da un uomo. Spese che non potevano passare inosservate, dal 2010 al 2o12. Nel fascicolo in mano alla procura adesso si conosce nel dettaglio chi comprava cosa. Franco Maria Botta - ad esempio - si è fatto rimborsare acquisti da Olympic per 12 mila euro, in profumerie per 2.174, ben 2.319 di fiori, e una somma molto vicina per l’acquisto di valigie. Marco Botta è, fra gli indagati, quello che più amava il cibo, stando alle sue spese: 36 mila euro fra macelleria e panetteria. Daniele Cantore, invece, ha invece una passione per le cravatte di Marinella. Mentre Roberto Boniperti ha - tra le spese a carico del cittadino - una lavatrice. Il Centrodestra è coinvolto quasi nel suo complesso: Luca Pedrale, C ristiano Bussola, Daniele Cantore, Alberto Cortopassi, Rosa Anna Costa, Girolamo La Rocca, Lorenzo Leardi, Angiolino Mastrullo, Carla Spagnuolo, Pier Francesco Toselli, Michele Formagnana (tutti Pdl). Poi Franco Maria Botta, Marco Botta, Augusta Montaruli, Massimiliano Motta (Fratelli d’Italia), e Angelo Burzi, Roberto Tentoni, Rosanna Valle (Progett’Azione). Mastrullo ha, tra le attività «a carico», spese in un centro benessere, la Spagnuolo ha pagato carburante, manutenzione della propria auto e oggetti per la casa. Montaruli ha pagato circa 5 mila euro per imparare l’uso dei social network.
Inchiesta spese pazze. La Procura pronta alle richieste di rinvio, scrive Maurizio Tropeano su “La Stampa”. L’interrogatorio del consigliere regionale Daniele Cantore ha segnato lo spartiacque tra la chiusura del primo atto dell’inchiesta Rimborsopoli e l’apertura della seconda fase, quella che analizzerà come sono stati utilizzati i fondi pubblici in dotazione ai gruppi regionali nel periodo 2008/2009. La mossa della procura della Corte dei Conti di Torino che ha chiesto a 55 consiglieri dell’ottava legislatura, quella a guida del centrosinistra, il risarcimento per un presunto danno erariale e peculato ai danni della regione Piemonte, infatti è stata concordata con la procura della Repubblica di Torino. I titolari dell’inchiesta sulle spese pazze che finora hanno indagato sui fondi 2010-2012, infatti, hanno annunciato ai magistrati contabili l’intenzione di approfondire le indagini svolte fino a questo punto. Indagini, però, che secondo il sostituto procuratore generale della Corte dei Conti, Corrado Croci, hanno fatto emergere «una serie di gravi irregolarità e violazione di legge nella gestione e nella spesa dei fondi assegnati ai gruppi consiliari per lo svolgimento dei loro compiti istituzionali». Questo è il futuro prossimo. Il presente è legato alla chiusura degli interrogatori dei 43 consiglieri regionali. Si tratta in maggioranza di consiglieri del centrodestra, tra di loro il governatore Roberto Cota, e il presidente del Consiglio regionale, Valerio Cattaneo. Ma ci sono anche due consiglieri del Pd, tra cui l’ex presidente Mercedes Bresso, e gli eletti di Sel, Udc e Italia dei Valori. Cantore che era già si era fatto interrogare lo scorso aprile quando erano arrivati gli inviti a comparire e poi aveva presentato una memoria supplementare adesso si dice convinto, «dopo aver fatto una serie di nuovi approfondimenti, di essere in grado di aggiungere chiarimenti su alcuni degli aspetti contestati». E comunque «ho sempre agito in buonafede sulla base di prassi e regole seguite in passato». La chiusura della prima fase dell’inchiesta spese pazze si porterà dietro, inevitabilmente, l’aumento delle tensioni politiche. Oggi il segretario regionale del Pd, Gianfranco Morgando, e il capogruppo Aldo Reschigna, incontreranno il capo della segreteria di Matteo Renzi, Luca Lotti, e il portavoce nazionale, Lorenzo Guerini, per cercare di convincere il sindaco di Firenze a partecipare ad una manifestazione a Torino per dare la «spallata» a Cota. Ma il governatore fa spallucce.
Rimborsopoli atto II. La Corte dei Conti avvisa 55 consiglieri. I giudici: risarcite i fondi spesi illecitamente nel 2009, scrive Maurizio Tropeano su “La Stampa”. La procura della Corte dei Conti di Torino ha inviato a 55 consiglieri regionali su 60 della passata legislatura, quella che ha visto Mercedes Bresso e il centrosinistra alla guida della Regione, la richiesta di risarcimento per un presunto danno erariale e per peculato per «l’indebita percezioni delle somme spettanti ai gruppi consiliari». La richiesta del sostituto procuratore Corrado Croci è stata firmata il 23 dicembre in tempo utile per evitare che l’inchiesta sull’utilizzo dei fondi del 2009 potesse cadere in prescrizione almeno per quanto riguarda gli accertamenti di natura amministrativa e, soprattutto, il credito risarcitorio. La mossa della procura della Corte dei Conti - con conseguente costituzione in mora - ha congelato la prescrizione e permetterà ai magistrati contabili di proseguire i loro accertamenti nell’attesa che la procura della Repubblica di Torino apra l’inchiesta sull’utilizzo dei fondi da parte dei gruppi regionali nel periodo compreso tra il 2008 e l’inizio del 2010. Accertamenti che partiranno dopo la conclusione dell’inchiesta che vede tra i 43 consiglieri indagati anche il governatore del Piemonte, Roberto Cota, e il presidente dell’assemblea regionale, Valerio Cattaneo. Questioni di giorni, insomma. Per quanto riguarda la Corte dei Conti l’indagine è stata avviata nelle scorse settimane e dai primi riscontri «sono emerse gravi irregolarità e violazioni di legge nella gestione e nella spesa dei fondi assegnati ai gruppi consiliari per lo svolgimento dei loro compiti istituzionali». E in particolare, per quanto riguarda il 2009 risulta «allo stato delle indagini - scrive il sostituto procuratore Croci - che parte di questi stanziamenti pubblici siano stati distratti o comunque impiegati per fini estranei alla loro destinazione legale di assicurare lo svolgimento dei compiti istituzionali dei gruppi regionali». Ad oggi, però, non è stato ancora possibile quantificare l’entità del danno erariale dalla regione. La richiesta di risarcimento è arrivata o sta arrivando a 55 dei sessanta consiglieri regionali di tutti gli schieramenti politici. Tra di loro anche l’ex governatrice Bresso e l’ex presidente dell’assemblea regionale, Davide Gariglio. I cinque che non hanno ricevuto la comunicazione dalla Corte dei Conti sono i leghisti Gianfranco Novero e Giuseppe Filiberti, da poco scomparso, e poi gli azzurri Lorenzo Leardi, Pier Francesco Toselli e Luca Caramella. Tutti consiglieri subentrati nel corso dell’ottava legislatura. La raccomandata della Corte dei Conti è stata recapitata agli indirizzi privati dei consiglieri durante le vacanze di Natale. E ieri, alla ripresa dell’attività istituzionale con la riunione della conferenza dei capigruppo, l’argomento è stato affrontato in diversi capannelli. Le reazioni? Non certo di sorpresa. Nelle scorse settimane, nel pieno della bagarre politica con la richiesta del Pd di dimissioni dell’attuale governatore il capogruppo di Forza Italia, Luca Pedrale, aveva chiesto l’accesso agli atti e alla relativa documentazione delle spese dei gruppi regionali tra il 2005 e il 2010. Richiesta condivisa anche da capogruppo di Fratelli d’Italia, Franco Maria Botta. Pedrale adesso commenta: «La nostra buonafede è dimostrata dal fatto che abbiamo conservato tutta la documentazione e seguito le regole vigenti. È chiaro che il problema è di carattere nazionale e come tale deve essere risolto». Non la pensa così Roberto Placido (Pd) che non è mai entrato nell’inchiesta Rimborsopoli e che adesso, dopo aver consultato il suo legale, ha deciso di scrivere alla Corte dei Conti: «Prendo atto dell’inchiesta ma constato l’irrilevanza nei miei riguardi: sono assolutamente estraneo ai comportamenti che hanno cagionato il presunto danno erariale».
GIANCARLO CASELLI: LUCI ED OMBRE.
La sbroccata, per quanto stagionata - anzi stagionatissima - costa cara a Vittorio Sgarbi, professionista dello scontro televisivo, scrive “Libero Quotidiano”. E proprio per un attacco in tv avvenuto nel 1995, ora il critico d'arte è stato condannato. L'accusa: "danni morali" nei confronti dell'ex procuratore di Palermo, Gian Carlo Caselli. Il risarcimento: la bellezza di 100mila euro, da pagare in solido con Rti, la società del gruppo Mediaset che gestisce Canale 5. Già, perché a distanza di 18 anni, la condanna arriva per quanto affermato da Sgarbi nel corso di una puntata della sua rubrica Sgarbi Quotidiani, andata in onda per la precisione il 7 aprile 1995. In quell'occasione, il critico lesse una lettera di un anonimo che sosteneva di aver raccolto una confidenza di don Pino Puglisi, il prete ucciso dalla mafia nel 1993. Il sacerdote gli avrebbe detto di essere turbato per le pressioni di Caselli affinché si "pentisse", denunciando i fatti di mafia di cui era a conoscenza, violando anche il vincolo del segreto confessionale. "Caselli - avrebbe aggiunto don Puglisi - ha fatto di me consapevolmente un sicuro bersaglio". Caselli aveva poi negato le pressioni che gli erano state attribuite dall'anonimo, e aveva querelato Sgarbi per diffamazione a mezzo stampa ma il procedimento si è prescritto. Ma tramite l'avvocato Antonio Coppola, citò sgarbi in giudizio anche per danni morali, che gli sono stati riconosciuti ora, contestualmente all'assegno da 100mila euro.
Gian Carlo Caselli: “Io, giudice che ho fatto la Resistenza”. A Torino contro le Br. A Palermo contro la mafia. Per salvare la democrazia applicando la legge. Caselli fa il bilancio di 46 anni da magistrato, scrivono Lirio Abbate e Paolo Biondani su “L’Espresso”. Il corteo di tre auto blindate percorre le vie di Torino, a un incrocio tra i portici è costretto a fermarsi, ma la sosta dura troppo e la macchina di testa scatta in avanti, mentre un agente mostra la paletta dal finestrino. Il procuratore simbolo della lotta alla mafia e al terrorismo, Gian Carlo Caselli, è da molti anni, troppi anni, un magistrato ad altissimo rischio. Quella scorta non è la sua, ma fa parte del corteo che lo accompagna. In strada nessuno contesta la manovra delle auto blindate. L’unico a dispiacersene è proprio Caselli: «No, no, via quella paletta, noi non l’abbiamo mai usata!». Una reazione spontanea, da cittadino che rifiuta ogni privilegio, per quanto giustificato. Caselli, 74 anni, è fatto così. Dopo 46 anni di magistratura, da fine dicembre l’ex procuratore di Torino e Palermo è in pensione, con qualche mese di anticipo su consiglio di medici amici. Testimone, anzi protagonista della storia d’Italia, in questo 2014 gli resta solo la carica di coordinatore dell’osservatorio contro le agromafie di Eurispes e della Coldiretti, a cui tiene molto. Perché Cosa nostra era nata come braccio armato dei latifondisti siciliani, perché ancor oggi le cosche spadroneggiano sui mercati alimentari, certo, ma anche perché la buona terra, il cibo sano, la rinascita dell’agricoltura sono un valore concreto su cui fondare un futuro migliore. Alla sua Torino il cittadino Caselli è molto affezionato. Mentre attraversa il centro, indica una per una le bellezze della città, ne enumera musei e palazzi, descrive le piazze ricordandone gli eventi tragici e gloriosi. Ai cronisti che lo accompagnano è orgoglioso di mostrare «come è diventata bella Torino in questi anni». E il suo racconto di 46 anni di indagini, dalle Brigate rosse alla “resistenza” contro la mafia, prende corpo come le immagini di un film. C’era una volta il terrorismo. «Il periodo più buio della nostra storia l’abbiamo vissuto negli anni Settanta. Ed è qui a Torino che le cose sono cambiate. Per caso, per un discorso di connessione con un sequestro di persona, ci era toccato il primo processo ai capi storici delle Brigate Rosse. In città c’era un clima di paura, di terrore. Ricordo l’immagine dei brigatisti che rivendicano in aula l’omicidio di Francesco Coco, il magistrato ucciso a Genova perché si era rifiutato di piegarsi ai ricatti dei sequestratori del giudice Mario Sossi. Tra le prime vittime c’è anche l’avvocato Fulvio Croce, un gentiluomo che cercava di organizzare le difese d’ufficio. Lo sbandamento nella società civile è tale che non si riesce a formare una giuria: sulla scrivania del presidente della corte si accumula una catasta di certificati di malattia, nessun cittadino accetta il rischio di fare il giudice popolare. Il processo resta sospeso per un anno, in quel momento sembra che i terroristi abbiano vinto. La città antifascista, capitale delle lotte operaie, è piegata. Ma poi, nonostante gli omicidi, le gambizzazioni, le minacce quotidiane, il processo si celebra e si chiude nel rispetto delle regole, dei diritti, perfino dell’identità politica degli imputati. Sfidando le critiche, il giudice Guido Barbaro lascia ai brigatisti la libertà di contro-interrogare i testimoni d’accusa, perfino Sossi che ne era stato ostaggio. È allora che cade l’impalcatura ideologica dei terroristi: salta la logica per cui la risposta dello Stato deve essere fascista e reazionaria. Le Br nascevano dalla strage di piazza Fontana e come Feltrinelli avevano l’incubo del golpe. Con il processo di Torino la lotta armata perde ogni alibi». Caselli rivendica il ruolo storico della magistratura italiana, ma avverte che non può esistere una soluzione solo giudiziaria. «Nella prima fase del terrorismo di sinistra ci fu sottovalutazione, ambiguità, contiguità da parte di fette consistenti del mondo intellettuale, politico e sindacale. Si parlava di “compagni che sbagliano”, slogan come “né con lo Stato né con le Br” venivano accreditati da scrittori del valore di Sciascia, di cui però ho tutte le opere... Per la sinistra in Italia la vera svolta si avrà solo con l’omicidio di Guido Rossa. Ma qui a Torino le cose cominciano a cambiare già con la stagione delle assemblee. Il sindaco Novelli, con Sanlorenzo e Viglione, esponenti della Regione, organizza incontri pubblici sul terrorismo, riuscendo a coinvolgere partiti, sindacati, parrocchie, movimenti. Alle prime assemblee partecipano solo gli organizzatori, i poliziotti del nascente Siulp, noi “magistrati di guerra”... I cittadini impauriti mandano messaggi anonimi, che vengono letti dai relatori. Ma per la prima volta si discute, si usano gli strumenti della democrazia contro il terrorismo. A poco a poco la partecipazione cresce, si organizzano assemblee affollatissime nei reparti della Fiat, dove sono gli operai a spiegare che il terrorismo sembra colpire pochi ma è nemico di tutti e non risolve nulla, anzi ritarda e aggrava i problemi. I terroristi capiscono che quello è l’inizio del loro isolamento politico, infatti vengono a spiare queste assemblee, trascrivendole in dossier che ritroveremo nei loro covi. È allora che per la prima volta entrano in crisi. Per scaricare un mitra contro una persona disarmata, bisogna avere la convinzione di essere nel giusto. Solo così può darsi quel “coraggio della viltà” che occorre per fare i terroristi in una democrazia». Con le indagini sull’ala dura dei No Tav, oggi si torna a respirare aria viziata. “Caselli farai la fine di Moro”, gli è capitato di leggere sui muri di Torino e altre città, mentre qualche imbecille firmava su Internet attacchi anonimi al procuratore “fascista” o “mafioso”. Con la sua famosa chioma bianca, il passo ormai stanco, Caselli ha la saggezza di non cadere nella provocazione: «Nessuna equiparazione è possibile tra il terrorismo del passato e ciò che succede oggi. La protesta in Val Susa è composta in grandissima parte da cittadini perbene. Discutere i costi, l’impatto ambientale, l’utilità di un’opera pubblica è un diritto. Ma commettere reati è qualcosa di più. Certo, le Br erano un altro mondo, ma è innegabile che in valle c’è qualcuno che sta provando a ricreare un laboratorio dove si sperimentano azioni violente. Per il momento è limitato, ma sarebbe velleitario escludere che possa avere potenzialità espansiva. Quello che temo di più è la sottovalutazione, la strizzatina d’occhio. Certe forme di contiguità sono benzina sul fuoco». E quegli attacchi anonimi, “Caselli morirai”, le hanno fatto male? «Il problema è che non c’è stata dissociazione sostanziale da quelle scritte. Se un commando di venti persone, organizzate e travisate, assalta un cantiere e ricaccia gli operai in un cunicolo invaso dal fumo, come è successo pochi mesi fa, l’aggravante della finalità di terrorismo è sacrosanta. Si parla di diritti negati, però qui c’è una lesione del diritto fondamentale di lavorare in sicurezza. Ma visto che non c’è il morto, allora si dice che ogni sabotaggio è legittimo e la violenza non si processa». Un bell’attacco lo ha firmato lo scrittore Erri De Luca sulla rivista di Magistratura democratica. Caselli sorride e non vuole aggravare la polemica con la sua corrente, da cui si è dimesso: «Probabilmente i dirigenti di Md credevano che De Luca, pur con il suo passato nel servizio d’ordine di Lotta continua, avrebbe avuto il pudore di non scrivere di terrorismo, invece si sono ritrovati quell’articolo e l’hanno pubblicato per non sembrare censori... Dentro Md abbiamo sempre avuto dibattiti infuocati, ma leali. La spaccatura più grave, per quanto mi riguarda, resta la decisione di non sostenere Falcone al Csm come successore di Caponnetto. Comunque stavo per dimettermi già negli anni del terrorismo, quando mi fu rinfacciato un arresto, da me ordinato d’accordo con il procuratore Caccia, di un intellettuale di sinistra. Già allora ero sospetto di eresia un po’ per tutti: per alcuni ero un fascista, per altri un giudice ragazzino, oltretutto di Md, che indagava sulle Br...». Ma quanto è forte oggi il rischio che torni il terrorismo? Caselli unisce i palmi delle mani e porta gli indici sotto il mento: «La premessa, obbligatoria, è che il magistrato è solo un notaio del passato: possiamo registrare quel che è già successo, non abbiamo strumenti per azzardare previsioni. Detto questo, posso fare due osservazioni. La prima è che i gruppi che hanno praticato la violenza in quegli anni hanno approfittato di una situazione di crisi e disagio sociale che è molto simile all’attuale. Ma le Brigate rosse si sono strutturate con un’organizzazione pesante, monolitica, mentre oggi sembra mancare un centro di riferimento. Il mondo anarchico, per definizione, rifiuta forme di organizzazione troppo centralizzata. La speranza è che il nostro Paese sia ormai vaccinato a considerare il terrorismo come un virus da isolare. Ma la situazione è fluida e non mancano comportamenti preoccupanti». Con la sua cultura da magistrato, Caselli è lontanissimo da certe ricostruzioni complottistiche degli anni di piombo. «Sono abituato a ragionare di fatti che vanno provati al di là di ogni ragionevole dubbio». Ma oggi non le sembra sospetta la decisione politica di smantellare la storica squadra investigativa del generale Dalla Chiesa? «Col senno di poi ci siamo accorti che in effetti nel 1976, con le indagini dei corpi speciali creati da Dalla Chiesa per i carabinieri e da Santillo per la polizia, le Brigate rosse erano state praticamente azzerate. Lo smantellamento fu un errore sciagurato. Il recupero è iniziato dopo l’omicidio Moro, a partire dal 1979. Ma contro i corpi speciali, che potevano indagare in tutta Italia scavalcando i comandi territoriali, c’erano invidie e ostilità anche all’interno delle forze di polizia». Quindi nella storia delle Br non ci sono misteri? «Beh, qualcosa di poco chiaro c’è. Sicuramente c’è il memoriale di Moro: perché non renderlo pubblico, se è vero che il sequestro mirava proprio a disvelare i segreti inconfessabili del potere? Che senso aveva tenere nascosto un documento in cui il leader della Dc rivelava, senza troppi giri di parole, l’esistenza di Gladio e altri segreti? Dai capi brigatisti, a cominciare da Moretti, non è mai arrivata una risposta credibile. Detto questo, del terrorismo di sinistra conosciamo quasi tutto. È dello stragismo di destra che sappiamo ancora poco o nulla». Nella biografia di Caselli ci sono continui rimandi a tre uomini eccezionali, che sono diventati eroi per tutti solo quando sono morti: Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. «Con il generale abbiamo lavorato per anni gomito a gomito, all’inizio non fu facile ma ne nacque un rapporto straordinario. Le Br erano molto compartimentate, a un livello alto di conoscenze poteva portarci solo un dirigente come Patrizio Peci, capo della colonna di Torino». I terroristi reagirono come i mafiosi, ammazzandogli il fratello. «Prima Linea era organizzata diversamente, anche un “soldato” semplice come Sandalo poteva conoscere tutto, persino il ruolo del figlio di Donat Cattin, e chiamare in causa Cossiga per la sua fuga in Francia. Voglio solo ricordare che Peci e gli altri ex terroristi iniziarono a collaborare quando ancora non esisteva una legge sui pentiti: segno che erano già in crisi». Dalla Chiesa nel 1982 morì assassinato proprio a Palermo. Lo Stato lo aveva lasciato solo a sfidare la mafia. Come è successo a Falcone e Borsellino. «Tutto cominciò al Csm, quando dal 1986 al 1990 ci fu un continuo caso Palermo. Falcone fu umiliato ed il pool smantellato perché non si voleva accettare il suo metodo vincente. Il momento più basso fu la calunnia dopo l’attentato all’Addaura... Ma oggi il metodo Falcone, che significa specializzazione e centralizzazione delle indagini, è diventato legge, come le norme sui pentiti, il 41 bis o la lotta al riciclaggio. Ora le convenzioni internazionali sono modellate sul modello italiano: gli stranieri sanno che il nostro Paese ha un grandissimo problema di mafie, ma hanno anche una grandissima ammirazione per le nostre tecniche d’indagine, per la capacità italiana di contrapporre alla mafia un’antimafia sociale, l’antimafia dei diritti». Caselli diventa procuratore di Palermo nel gennaio 1993 e guida per sette anni l’ufficio giudiziario più esposto d’Italia. Per i poliziotti dei Nocs che lo scortavano, era “penna bianca”. In città echeggiavano ancora le amare parole del giudice Caponnetto («Tutto è finito») dopo gli attentati di Capaci e via D’Amelio. «Sembrava che la democrazia italiana stesse soccombendo sotto i colpi dello stragismo corleonese», ricorda Caselli. «La nostra reazione è stata forte: in nome del popolo italiano ci siamo occupati prima della mafia che sparava, della frangia militare di Cosa nostra, e poi delle complicità degli imputati eccellenti». Politici e colletti bianchi vengono per la prima volta rinviati a giudizio, dimostrando che «c’era materiale sufficiente per affrontare il processo». Quando la Procura di Caselli tocca gli intoccabili, però, è l’antimafia a finire sotto attacco. «Prima di Palermo nessuna procura era mai riuscita a dimostrare, con prove sicure che hanno retto fino in Cassazione, la responsabilità e la collusione con il potere criminale mafioso di due personaggi centralissimi nella nostra storia come Giulio Andreotti e Marcello Dell’Utri. Nel caso di Andreotti, c’è una sentenza di prescrizione del reato commesso, che perciò lo giudica colpevole fino al 1980. Per Dell’Utri, oltre alla recente condanna in appello, c’è un verdetto della Cassazione che lo dichiara colluso con la mafia almeno fino al 1978. E Dell’Utri è stato definito dai giudici l’intermediario di Silvio Berlusconi». Qui il tono di Caselli si fa deciso: « Andreotti e Dell’Utri hanno avuto rapporti cordiali, proficui, non sporadici con la criminalità mafiosa. Questa realtà torbida, sconvolgente, è la base per qualunque riflessione riguardante i rapporti fra mafia, politica e imprenditoria, fino alla cosiddetta trattativa. Ma di tutto questo non si parla. O lo si fa per negare e stravolgere la verità processuale. La nostra democrazia sarà sempre debole se non faremo chiarezza su quegli anni». «Mi chiedo con quale faccia si possa parlare di fallimento della nostra stagione palermitana o di processi celebrati solo per mettere alla gogna qualche politico. Si è arrivati al punto di varare una legge contra personam per cancellare il mio diritto di concorrere alla carica di procuratore nazionale antimafia, sostenendo pubblicamente che bisognava farmela pagare per il processo Andreotti. Una legge poi dichiarata incostituzionale». Eppure la stagione di Caselli era iniziata con un successo storico, l’arresto di Totò Riina. «Si, è stato un bel segnale. Incontrai Riina, nel giorno del suo arresto, in una caserma dei carabinieri: era in piedi sotto la foto del generale Dalla Chiesa. Gli feci qualche domanda, ma disse che non voleva parlarmi. Poi c’è stata la brutta pagina della mancata sorveglianza da parte del Ros e della mancata perquisizione del suo covo. Un fatto grave, una vicenda che purtroppo è andata stortissima». Nonostante troppi veleni, Caselli resta orgoglioso dell’esperienza di Palermo: «Abbiamo fatto la resistenza contro lo strapotere mafioso. Sì, credo che a Palermo in quegli anni abbiamo contribuito a salvare la democrazia italiana. Per questo lo rifarei senza pensarci un attimo». E cosa pensa dei magistrati che scelgono la strada della politica, come Antonio Ingroia che le era stato accanto nelle indagini più delicate? «Sono tanti i magistrati prestati alla politica. Di solito si sale sul carro di questo o quel partito. Ingroia invece ne ha fondato uno suo, dimostrando anche così la sua indipendenza e coerenza. Poi non gli è andata bene, e mi dispiace». E se proponessero a lei di candidarsi? «La politica attiva non è il mio mestiere». Vent’anni fa molti giovani sognavano un futuro da magistrato in città simbolo come Palermo o Milano. Oggi pochi chiedono di lavorare in queste procure, per non parlare di Napoli o Reggio Calabria. E in molti palazzi di giustizia si scontrano fazioni e cordate. Anche la magistratura è un potere in crisi? «Parlo di ciò che conosco, e su procure diverse da Torino, dove le cose van bene, non so nulla. Certo è che in questi vent’anni la magistratura ha subito un vero e proprio assalto. La politica ha scaricato sui giudici una massa di problemi che non ha saputo o voluto risolvere: terrorismo, mafia, corruzione, e poi ambiente, salute, opere pubbliche... Prima si affida alla magistratura una delega eccessiva, con una giustizia che non si vuole far funzionare; poi si dice che sono i magistrati a voler straripare e si arriva a definirli pazzi, terroristi, golpisti, eversori... In questa situazione, mi stupisco che la magistratura sia ancora, nonostante tutto, così popolare». «Nel complesso la macchina della giustizia tiene, spero, ma per molti magistrati è forte la tentazione di scegliere la soluzione meno rischiosa: una gestione formale e burocratica della giustizia. È chiaro che la vera posta in gioco è il principio di indipendenza, che è la premessa dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Una magistratura indipendente continua a dare fastidio. E non so dire come andrà a finire». Caselli esce dal suo ufficio di procuratore, forse per l’ultima volta. Fuori dalla porta c’è una fila di lavoratori della giustizia e comuni cittadini che vogliono salutarlo. “Penna bianca” stringe la mano a tutti. L’ultima è una signora torinese che gli dice solo una parola: «Grazie».
Ma non è tutto oro quello che luccica. Sulla rete c’è un lettera inviata da Pietro Melis a Giancarlo Caselli. La pubblichiamo per amore di onestà come contraltare alle ossequiose interviste fatte all’Ex Procuratore generale di Torino. Al Procuratore capo di Torino, Giancarlo Caselli, commesso viaggiator per tutta l'Italia per pubblicizzare un suo libro da autopanegirico. «Ho notato che lei ha fatto il giro d'Italia per presentare in varie città il suo libro Le due guerre. Un magistrato fuori legge dove lei fa il suo autopanegirico. In questo libro lei difende anche il suo operato riguardo l'interrogatorio del mio amico Luigi Lombardini, che si suicidò nel 1999 nella sua stanza del palazzo di "giustizia" per sottrarsi ad una persecuzione giudiziaria da lei promossa. Avrei voluto che vi fosse un incontro pubblico tra lei e Grauso per spiegare come mai Grauso sia stato assolto per i fatti addebitatigli nel contesto dell'episodio del sequestro di Silvia Melis. Se non vi fu estorsione nei confronti del padre Tito e se risulta vera la versione di Grauso secondo cui fu lui a pagare per la liberazione di Silvia Melis (non escluso un versamento non riconosciuto apertamente anche da parte dello Stato), come mai Lombardini poteva essere accusato dello stesso reato per cui è stato assolto Grauso? E' da escludere che Lombardini, ben conoscendo la sua dirittura morale, abbia sconfinato in un reato. Al massimo si è impicciato in una questione che non poteva riguardarlo come capo della Pretura, ufficio a cui era stato confinato dall'invidia rancorosa dei colleghi di Cagliari. E vi è una questione importante da chiarire. Grauso in una intervista (leggibile su Internet) ha dichiarato dopo l'assoluzione che il gip di Palermo non aveva dato a lei alcuna autorizzazione all'interrogatorio di Lombardini e che lei pertanto avrebbe agito oltre i limiti del mandato. Se la cosa fosse vera lei avrebbe commesso una grave irregolarità (se non un reato attribuendosi un potere che non aveva). Nella sua vita lei ha predicato bene ma ha razzolato male. Un magistrato serio non fa il commesso viaggiatore girando per l'Italia al fine di pubblicizzare il proprio libro. A lei piace il palcoscenico, come ormai piace a molti magistrati penali, che, non sopportando di vivere nell'oscurità, approfittano della loro veste per esibirsi in pubblico anche come personaggi televisivi. Lei si vanta di aprire i suoi discorsi agli studenti dicendo: "non fidatevi di ciò che dico". Dunque non debbo fidarmi nemmeno di ciò che lei scrive a sua difesa. Nemmeno della sua versione dei fatti che portarono Lombardini al suicidio, di cui le dovrebbe rimordere la coscienza. Ai magistrati deve essere tolta la boria che essi hanno nel sentirsi padroni, e non umili servitori, della giustizia. Io ho smesso di votare dal 1994 perché nella baraonda politica che sta perdurando non mi sento rappresentato da alcun partito, e tanto meno da Berlusconi, che in tanti anni di governo non ha rivoluzionato (non basta riformarlo) l'ordinamento giudiziario. Non aggiungo altro perché ciò che dovrei aggiungere l'ho già scritto nel mio ultimo libro, come risulta da quanto ho scritto nel sito sotto citato. Legga bene perché si renda conto che anche in campo civile si possono commettere degli ORRORI giudiziari che gridano vendetta. Il mio esposto del 2009 al ministro Alfano e al P.G. presso la Cassazione perché venisse aperta un'inchiesta sulla mia allucinante vicenda civile ha avuto una risposta del CSM ma non se ne farà nulla. Non so nemmeno se il P.G. presso la Cassazione abbia avuto voglia di occuparsi della mia vicenda e se il CSM abbia trasmesso gli atti alla sezione disciplinare. Vi sono dei giudici che dovrebbero pagarla cara per certe sentenze aberranti. E' inutile che lei si proponga in pubblico come maestro se non riconoscerà che un giudice deve rispondere personalmente dei gravi errori che commette sottraendosi al principio costituzionale che dice che tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge. Non è vero. Vi è una categoria di arroganti, a cui lei appartiene, che si sentono al di sopra della legge perché sono resi esenti da qualsiasi responsabilità. I pubblici ministeri in teoria non dovrebbero avere alcuna responsabilità perché indagano ma non giudicano. In pratica non è così perché essi sono vicini di stanza dei giudici, che spesso firmano senza nemmeno darsi la pena di studiare bene il fascicolo presentato dai pubblici ministeri. Questi dovrebbero vivere in diversi palazzi e non avere alcuna confidenza con i giudici. Dovrebbero darsi del lei. In pratica, invece, sono i pubblici ministeri che comandano. Lei certamente sarebbe uno dei più fieri oppositori della costituzione di un'Alta Corte di giustizia non formata da giudici togati (ma da una giuria popolare di esperti, come negli Stati Uniti) a cui un cittadino possa rivolgersi direttamente per porre sotto processo un giudice quando faccia sentenze palesemente aberranti , dettate da "ignoranza o negligenza inescusabile" (art. 1 Provvedimenti disciplinari) senza più passare attraverso le pastoie di altri magistrati. Se non è d'accordo sulla responsabilità civile dei giudici (senza che sia lo Stato, con le tasse pagate dai cittadini, a pagare in loro vece il risarcimento dei danni alle vittime della "giustizia") lei è un venditore di fumo, un imbroglione che predica solo da cattivo maestro. (tra l'altro domandandomi come mai non sia andato oltre una casetta editrice come Melampo). Ho letto interamente su Internet la sua storia. Non ha sopportato di essere stato escluso dalla direzione antimafia con una legge ad hoc contro di lei.»
Lombardini, il giallo del documento che spinse il magistrato al suicidio. La data dell’atto di perquisizione è precedente all’interrogatorio del pm sardo, scrive Lino Jannuzzi – su “Il Giornale”. La sera dell’11 agosto del 1998, quando il procuratore di Cagliari Luigi Lombardini si suicidò, il procuratore generale Francesco Pintus disse: «Sono avvilito, disgustato. Sono indignato, senza fiato. Ora bisogna che la verità venga fuori. Bisogna che si sappia che Lombardini è stato oggetto di un’aggressione senza precedenti. Il dottor Lombardini era un buon magistrato e in cambio è stato massacrato. Bisogna che si sappia che da anni la procura di Palermo ha aperto la caccia nei nostri uffici giudiziari, che questi sono i metodi, sono venuti in cinque. Lo hanno sentito per sei ore, capite? Sei ore. Bisogna finirla, finirla...». Per queste parole Francesco Pintus fu querelato dall’allora procuratore di Palermo Giancarlo Caselli e dai suoi sostituti. Dopo sette anni, quattro querele, quattro processi di primo grado e tre processi d’appello, tutti vinti, ora Francesco Pintus, e il Giornale che aveva riportato il suo sfogo, hanno avuto definitivamente ragione anche dalla Cassazione, che ha scritto: «Pintus intendeva tutelare la figura morale di Lombardini, che essendo deceduto non si poteva difendere». Se ne dovrebbe dedurre nell’ordine: che Luigi Lombardini era un buon magistrato e ha fatto bene Pintus ha tutelarne la figura morale; che Lombardini è stato accusato e massacrato ingiustamente e con un’aggressione senza precedenti dalla procura di Palermo, che da anni dava la caccia agli uffici giudiziari di Cagliari; che questi erano i metodi dei magistrati di Palermo e che con questi metodi bisognava finirla... E ci si deve domandare: a Palermo è veramente finita con questi metodi? E soprattutto: dopo sette anni e le assoluzioni di Pintus dalla querele di Caselli e compagni è venuta fuori la verità, tutta la verità? Come e perché Luigi Lombardini si è ucciso? Sotto la montagna di carte che si sono trascinate e sono cresciute da processo a processo e sono arrivate fino alla Cassazione c’è un foglio imbrattato di sangue. È l’ultima pagina di un decreto di perquisizione: Luigi Lombardini reggeva questo decreto nella mano sinistra mentre con la destra si è infilato in bocca il revolver. Il fiotto di sangue è schizzato sull’ultima pagina e ha coperto i timbri e la firma di Caselli. Ma ha lasciato intatta e ben visibile la data apposta sotto il documento: Palermo, 5 agosto 1998. È dietro questa data che si cela l’ultimo mistero del suicidio di Lombardini. Lombardini era stato accusato di essersi intromesso abusivamente e per tornaconto personale nelle trattative per il sequestro di Silvia Melis, la ragazza rapita nel febbraio del ‘97 e liberata nove mesi dopo. Caselli e quattro dei suoi sostituti, competenti per le indagini, erano volati da Palermo a Cagliari quell’11 agosto del '98, avevano occupato militarmente con le loro scorte il palazzo di Giustizia e avevano proceduto a interrogare per sei ore Lombardini, tutti e cinque gli inquirenti, alternandosi nelle domande, e uscendo e entrando dalla stanza, come si vede in quegli uffici di polizia dei film americani sui gangster. Dagli interrogatori non era venuto fuori niente, come risulta dalle bobine delle registrazioni e niente di serio e di concreto, del resto, il procuratore e i pm avevano avuto da contestare a Lombardini, che risponde a tutte le domande, esasperatamente e inutilmente ripetitive, con chiarezza e precisione e non appare mai in difficoltà. A questo punto Lombardini è invitato a uscire e ad attendere fuori, e tutto sembra finito (e infatti l’avvocato di Lombardini lascia anche il palazzo di Giustizia), ma Caselli e i suoi sostituti si riuniscono per un breve conciliabolo (pomposamente definito «camera di consiglio») e quando ne escono, consegnano a Lombardini il decreto di perquisizione. Lombardini lo legge, ha il presentimento che dopo la perquisizione lo arresteranno, si chiude nel suo ufficio e si spara. Il punto è questo: a giudicare dalla data del documento, «Palermo 5 agosto 1998», che il sangue di Lombardini schizzato sul foglio non è riuscito a coprire e a cancellare e che continua a galleggiare su quel sangue, il decreto di perquisizione sarebbe stato emesso a Palermo cinque giorni prima dell'interrogatorio e Caselli e i suoi sostituti sarebbero volati a Cagliari con il decreto già in tasca. Ma ciò contrastava con il fatto che il decreto del gip di Palermo che autorizzava Caselli e i suoi sostituti alla spedizione di Cagliari mentre li autorizzava a procedere all’interrogatorio dell’indagato, dichiarava «inammissibile» la loro richiesta di ottenere l’autorizzazione al «compimento di altri atti che si rendessero indispensabili per il proseguimento delle indagini (come la perquisizione e magari l’arresto). Alle contestazioni che gli sono state fatte nel corso dei processi per le querele per diffamazione, i magistrati di Palermo hanno risposto sostenendo che si sarebbe trattato di un equivoco, che il gip li aveva autorizzati a decidere degli atti ulteriori, la perquisizione e eventualmente l’arresto dopo l’interrogatorio, e che sul decreto di perquisizione consegnato a Lombardini era rimasta la data di «Palermo 5 agosto» soltanto per errore e per la confusione del momento, e perché non fecero in tempo a modificarla con quella dell’11 agosto. In ogni caso, la sequenza è impressionante e dimostra, ancora meglio, che tutto era stato deciso. L’autorizzazione del gip di Palermo all’interrogatorio risulta depositata alle ore 13 e 30 del 5 agosto; l’avviso per l’interrogatorio risulta spedito a Lombardini il 4 agosto, prima ancora del deposito dell’autorizzazione del gip; il decreto di perquisizione con la data (eventualmente) sbagliata viene mostrato a Lombardini dopo l’interrogatorio, e quando il suo avvocato, confortato dall’esito dello stesso interrogatorio e ignaro della (eventuale) ulteriore autorizzazione del gip di Palermo a procedere oltre, lascia il palazzo di Giustizia; Lombardini legge il decreto con la data di «Palermo 5 agosto», e capisce che hanno già deciso tutto, la perquisizione e l'arresto, a Palermo, e prima ancora dell’interrogatorio e a prescindere dall’esito dell’interrogatorio. È proprio quando vede la data che ci vomita su il suo sangue.«Sono pervaso da emozione, turbamento, dolore - scriverà Francesco Pintus nel suo diario - i cinque procuratori venuti da Palermo sono tutti lì, e si apprestano a mettere in atto, presente il cadavere, quella perquisizione al cui annuncio Lombardini era corso avanti, si era chiuso nel suo ufficio e si era sparato. Mi allontano e mi segue il dottor Caselli, mi mette una mano sulla spalla e mi dice: mi dispiace».
La versione di Giancarlo Caselli scritta da: Pasquale Motta. Nel 2005, Giancarlo Caselli ritorna sulla vicenda del Giudice Lombardini dedicandogli un passo del suo libro Giudici sotto attacco edito dalla Melampo Ecco come racconta la vicenda del Giudice Lombardini: “Un caso esemplare è quello del suicidio di Luigi Lombardini, capo della Procura presso la Pretura di Cagliari, l’11 agosto 1998. I fatti sono questi. Nel corso delle indagini sul sequestro di Silvia Melis, la procura di Cagliari si imbatte in fatti penalmente rilevanti a carico del dottor Lombardini. Ci trasmette subito gli atti, perchè per legge le indagini che coinvolgono magistrati di Cagliari spettano alla procura di Palermo. Assegno il fascicolo al procuratore aggiunto Vittorio Aliquò, che coordina i sostituti Antonio Ingroia, Giovanni Di leo e Lia Sava. Gli elementi emersi a carico di Lombardini sono seri. Durante il sequestro, Tito Melis, il padre della ragazza, viene invitato a recarsi a un appuntamento segreto, di notte, nei pressi di Elmas, l’aeroporto di Cagliari. Gli viene chiesto addirittura di viaggiare nel baule di un’auto (ma lui non riesce a entrarci). Al luogo convenuto si presenta un uomo in parte travisato. Si accerterà in modo inoppugnabile che si tratta proprio di Luigi Lombardini. L’uomo usa modi bruschi, prospetta gravi pericoli per Silvia e fa alcune richieste: il versamento di un secondo miliardo di lire (uno era già stato versato) all’avvocato Antonio Piras; una lettera “liberatoria” per lo stesso Piras dove Melis avrebbe dovuto affermare –falsamente – che la Procura di Cagliari aveva autorizzato le trattative e il pagamento. Le ipotesi di reato a carico di Lombardini sono quindi tentata estorsione (per il nuovo versamento, poi non effettuato), estorsione (richiesta della lettera, effettivamente redatta e poi acquisita agli atti del processo), falso e calunnia (per il contenuto della lettera). Quando i colleghi partono per Cagliari per interrogare Lombardini, penso che sia opportuno unirmi a loro. Mi hanno insegnato che i rapporti fra magistrati, nei casi delicati, devono intercorrere tra “pari grado”. Lui è un capo ufficio, come me. Essere presente è, da parte mia, un atto dovuto di cortesia istituzionale, anche perchè avevo avuto modo di conoscerlo in passato. D’accordo con i colleghi di Cagliari, ci preoccupiamo di incontrarlo nel palazzo di giustizia, ma lontano da giornalisti e telecamere. L’interrogatorio di Lombardini si svolge in un clima di normalità assoluta, con le “rituali” pause per un caffè e con una interruzione perché Lombardini possa fare il punto della situazione con il suo difensore. Ce ne dà atto a verbale proprio il suo avvocato, Luigi Concas. Per fortuna (viste le disgustose strumentalizzazioni che si scateneranno) di tutto ciò resta traccia documentale, perchè l’intero interrogatorio viene fonoregistrato. Alla fine decidiamo di chiedere a Lombardini di esibire alcuni documenti. In caso contrario avremmo dovuto procedere a una perquisizione del suo ufficio. La tragedia si compie a questo punto. Lombardini cammina verso il suo ufficio con Ingroia e gli altri (tra cui un suo legale). A un certo punto fa uno scatto in avanti, raggiunge la sua stanza, si chiude dentro e si uccide con un colpo di pistola prima che chiunque possa intervenire. La perquisizione permette di trovare materiale rilevante che porterà all’incriminazione di un’altra persona. Nonostante il Consiglio superiore della Magistratura e il ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick, riconoscano subito l’assoluta correttezza del nostro operato, anche in base all’ascolto della registrazione integrale dell’interrogatorio, si scatena immediatamente la canea.”
CHI HA PAURA DEI GIUDICI, scrive Delia Parrinello e Luciano Scalettari su “Famiglia Cristiana”La ricostruzione dell’interrogatorio del giudice Luigi Lombardini, culminato nel suo tragico gesto. L’indagine del pool di Palermo permette di gettare un primo sguardo sui retroscena, le ombre e i sospetti in cui si muovono i protagonisti del più squallido tra i crimini, tra minacce, intercettazioni, fondi neri e ambigue mediazioni. Arrivano in cinque, seguiti da un nugolo di poliziotti. Sono magistrati in missione da Palermo a Cagliari per interrogare un altro magistrato che alla fine di quell’interrogatorio si sparerà un colpo di pistola. Giancarlo Caselli, il procuratore che guida la missione, non sa che quel suicidio diventerà «l’accusa più ingiusta» della carriera. Antonio Ingroia, uno dei "ragazzi" di Paolo Borsellino e pm di Andreotti, non sa che sta per arrivare «il momento più drammatico della carriera». Per Lia Sava e Giovanni Di Leo, giovani sostituti, sarà il battesimo con i veleni di Palermo. Il procuratore aggiunto Vittorio Aliquò arriva a Cagliari per il dovere d’ufficio di due interrogatori contestuali: quello del procuratore della Repubblica presso la pretura, Luigi Lombardini, indagato per avere, «sotto mentite spoglie di avvocato civilista, trattato e minacciato» fra i rapitori di Silvia Melis e suo padre Tito. E l’interrogatorio dell’avvocato della famiglia Melis, Antonio Garau. Cosa non sa Luigi Lombardini? Tutto ciò che i magistrati di Palermo gli chiederanno di spiegare in quattro ore e mezzo di interrogatorio registrato: il pool di Caselli arriva con relazioni di servizio, intercettazioni telefoniche, diari e dichiarazioni dello stesso Melis che indica in Lombardini l’avvocato civilista intermediario fra la famiglia e i banditi. Procura di Cagliari, martedì 11 agosto, ore 10. Entrano i magistrati di Palermo e li accoglie il procuratore Carlo Piana. Lombardini è pronto ma c’è un imprevisto: il suo difensore Luigi Concas difende anche Garau, «c’è un problema di incompatibilità», dice Caselli a Concas. L’avvocato obietta, chiede una sospensione, si apparta con Lombardini, poi torna e comunica: «Rinuncio a difendere Garau». L’avvocato dei Melis viene sentito in un’altra stanza dai sostituti Sava e Di Leo (si avvarrà della facoltà di non rispondere). Caselli, Aliquò e Ingroia chiamano Lombardini nell’ufficio del sostituto Mura. Rispondeva di no a tutte le domande. Entra «impenetrabile e distaccato», si siede davanti ad Aliquò e Ingroia che stanno alla scrivania. Caselli cammina avanti e indietro. Parla Aliquò, legge le dichiarazioni di Melis che racconta di aver incontrato Lombardini nei pressi dell’aeroporto, il suo invito a pagare i rapitori, il suo volto coperto, il tono minaccioso. Lombardini nega. «Ma c’è la testimonianza dell’avvocato Antonio Piras: anche lui, il custode del miliardo, giura di averla incontrata la sera dell’8 ottobre». «Non conosco Piras». «Dottor Lombardini, c’è la relazione di servizio del maresciallo dei carabinieri Francesco Testoni che conferma le dichiarazioni di Melis: vi siete incontrati all’aeroporto». «Il maresciallo Testoni è una persona inaffidabile». I giudici tornano alla carica, leggono dall’agenda dell’avvocato Garau: «C’è scritto che un sedicente avvocato civilista si è incontrato con Melis all’aeroporto, era lei? C’era anche una ragazza?». «Tito Melis non dice la verità e avvocati civilisti a Cagliari ce ne sono tanti. Non mi sono mai incontrato con Melis e quindi non c’era nessuna ragazza». E l’agenda di Garau? «Non l’ho scritta io, e dunque chiedete a Garau chi era quella persona». Ma come giustifica tutto questo, che spiegazione ci offre, come si difende? «Qualcosa è stato costruito contro di me per i miei contrasti interni al mondo giudiziario sardo». Un complotto ordito dai colleghi della Procura di Cagliari. Lombardini non perde la calma, resta freddo e distaccato, sempre di poche parole. L’80 per cento di quanto detto in 4 ore e mezzo di interrogatorio è stato pronunciato dai magistrati di Palermo. Rivolgendosi al più giovane di loro, Lombardini è paterno, «so bene che è la prassi, faccia pure». Gli chiedono se vuole pranzare. «Preferisco andare al bar con l’avvocato Concas». L’interrogatorio riprende alle 15, va avanti ancora per un’ora, alle 16 parla Caselli: «Dottor Lombardini, le abbiamo esposto tutto ciò che è in nostro possesso e che la riguarda, se ha qualcosa da aggiungere la dica». Silenzio per qualche secondo, Lombardini sembra incerto, chiede un’altra sospensione per parlare con l’avvocato Concas. Restano nella stessa stanza, si appartano in un angolo, poi Lombardini torna al suo posto: «Non ho altro da dire, ma mi riservo di presentare una memoria». «Dottor Lombardini, lei usa agende, o prende appunti al computer?». «No, non uso agende e non uso il computer per questo tipo di argomenti». «Ma qualunque magistrato ha un’agenda, anche per tenere gli appuntamenti». «Non io». L’interrogatorio si conclude e Ingroia stacca il registratore, sono le 16.40. Una lunga verbalizzazione, Caselli al computer. Lombardini chiede di andare in bagno e si allontana per dieci minuti. Non c’è anima viva nei corridoi, il silenzio è totale, fuori cronisti e fotografi. C’è il rito della lettura e firma del verbale, poi i magistrati di Palermo, che hanno già deciso di perquisire lo studio di Lombardini per ottenere «non spontaneamente» agende e appunti, chiedono al procuratore e al suo avvocato: «Potete attendere ancora un quarto d’ora?». Luigi Lombardini aspetta in corridoio e si abbandona su una poltrona, la testa sullo schienale. In questa posizione un teleobiettivo lo fotografa per l’ultima volta. Lo richiamano, «si può accomodare», e gli consegnano il provvedimento di perquisizione. Non gli tremano le mani, fino all’ultimo è impassibile, dice: «D’accordo» e cerca l’avvocato. Concas non c’è. Chiede di telefonare, cerca qualcuno allo studio dell’avvocato. «Stanno arrivando», dice. Il dramma del procuratore si decide qui, in questi ultimi minuti, pensieri tumultuosi e silenzio, facciata gelida e disperazione. Un gioco delle parti senza parole e senza capire. Quando arriva il figlio dell’avvocato Concas, c’è l’ultima richiesta a Lombardini: «Ci accompagni nel suo studio», e l’ultima sua parola: «D’accordo». Apre l’ufficio, «con un balzo va verso una seconda porta, si chiude dentro e si spara». «Interrogatorio regolare», dichiara il ministro della Giustizia Flick. E manda gli ispettori a Cagliari, «all’interno della Procura dove qualcosa», diceva Lombardini, «è stato costruito contro di me».
GIUSEPPE MARABOTTO NON HA INSEGNATO NIENTE. IL CASO DI VINCENZO TOSCANO E DI GIUSEPPE SALERNO.
Impostare la giustizia come un’azienda privata, scrive Cesare Alfieri su “L’Opinione”. In Italia i magistrati avanzano in carriera per il passare del tempo e senza alcun merito, alcuni addirittura per demerito come insegnano i casi dei giudici Vincenzo Toscano, Alfredo Robledo e Ferdinando Esposito. Questi sono noti solo da ultimo, per fatti recenti di cronaca, ma sono migliaia i giudici, intere generazioni a dir la verità, che hanno navigato il mare del demerito a proprio vantaggio, non scoperti. Si guardi il caso di Vincenzo Toscano che è stato di fatto “promosso” perché trasferito da Torino a Milano dopo avere dato per lungo tempo lavoro alla propria amante garantendole consulenze strapagate e per le quali si prodigava lui stesso presso i collegi giudicanti perché ottenessero decisione favorevole. La “sanzione” inferta al giudice è stato il solo trasferimento, per di più migliorativo, e la perdita di un unico anno di anzianità, capirai, decisamente troppo poco a fronte dell’interesse generale contrapposto e per il quale la pubblica amministrazione lo ha assunto e mantiene sul nostro groppone cioè con i nostri soldi, che è l’interesse di noi tutti, del Paese al servizio imparziale della giustizia. E cosa dire della annosa lite pubblica dei ridicoli Robledo e Bruti Liberati? Di fatto li abbiamo pagati finora, li paghiamo tuttora e continueremo pure a pagarli profumatamente per regolare le loro beghe più o meno diffamatorie verso loro stessi, e ciò che più interessa verso noi tutti, spettatori fruitori del servizio giustizia, che dovrebbe essere equilibrato e imparziale. Robledo è stato spedito “in punizione” a Torino e al posto del pubblico ministero è stato mandato a fare il giudice, cioè di fatto elevato a un gradino più alto, “ promosso” nella scala della carriera togata. Bruti Liberati è rimasto invece piantato a fare danno a Milano. E Ferdinando Esposito? Parente di quell’Esposito che si pronunciò contro Berlusconi, il per niente povero giovanotto, collocato come è noto in magistratura, si è fatto pagare la casa da altri, probabilmente pure la cena in compagnia della Minetti assessora fuori posto, e intercettato e pedinato dalla ringhiante Ilda Bocassini è tuttora oggetto di un fascicolo tenuto ben chiuso nel cassetto dei procedimenti disciplinari insabbiati. Il consiglio superiore della magistratura gli ha dato un buffetto suggerendogli di non fare più il pm a Milano ma di andare a fare casini in qualità di giudice per le indagini preliminari a Torino, dove la carriera comunque prosegue in attesa di danni ai malcapitati. E Woodcock? Giudice eternamente in cerca di popolarità e di celebrità da gossip, ci ha provato finora con i disastri Vip Gate e il Savoia Gate “grazie” a cui lo Stato italiano, cioè noi, dovremo risarcire Savoia con oltre cinquantamila euro. E De Magistris? Dopo le disfatte giudiziarie Why not e Toghe lucane, “cacciato” da pm a fare il giudice, anche lui di fatto “promosso”, usata poi bene la pelle degli altri, approda in politica a fare, disastrosamente, il sindaco, come sanno tutti i napoletani. Utile riferire poi che i giudicanti quando non sono quasi tutti parenti, si conoscono comunque molto bene tra loro con estensioni, affiliazioni e apparentamenti in giro tra le corti tutte, quella dei conti, al consiglio superire della magistratura, in cassazione, alla corte costituzionale, nei tribunali civili, penali di ogni genere e grado, amministrativi, al consiglio di Stato, tra giudici di pace, in avvocatura generale dello Stato e con agganci a intreccio e incastro con le nostre università pubbliche e con la pubblica amministrazione e i suoi organi, si pensi ai ministeri, in politica. Questo ammasso amministrativo burocratico giudiziale sociale ha il proprio minimo denominatore comune consistente nel fatto di essere strenuamente quanto ingiustificatamente convinto di essere non solo nel “giusto” elevandosi a una sorta di Tribunale dell’Inquisizione generale d’Italia ma anche di essere, allo stesso modo di ciò che sostiene in questi giorni di sé Gino Paoli, persone “serie” mentre, come si è visto, così non è. Pensano, vorrebbero esserlo, ma non lo sono. La verità è che approfittano, da generazioni, del sistema sbagliato che si è data o cui è giunta scelleratamente l’Italia, per cui viene dato loro da mangiare mensilmente semi gratuitamente senza che rispondano nei fatti di ciò che fanno dalla mattina alla sera, e si ricordi che all’ora di pranzo chiudono baracca, mentre un qualsiasi altro lavoratore privato, tutti gli altri lavoratori, lavorano senza soluzione di continuità perchè non assistiti nè garantiti a spese della collettività. La giustizia pubblica, cioè retribuita a fine mese da noi cittadini italiani, dallo Stato, si muove tra autoassoluzioni e assoluzioni, sparuti ammonimenti, miracolata per lo più, tra sanzioni minime e inoffensive, mai nessuna cacciata dalla magistratura, pochissimi i casi di responsabilità civile, penale niente. I giudici fanno danni in Italia impunemente. Non sono responsabili di niente, spostano il culetto d’oro fino alla sedia giudicante e s’accomodano tutta la vita, i guai restano quelli che infliggono agli altri. In un’azienda privata ciò non può succedere perchè, per quanto si possa fare, ogni nodo viene al pettine in men che non si dica e non ci si consente di insistere più di tanto in comportamenti contrari al benessere e alla utilità dell’azienda stessa perché se ne paga immantinente il prezzo salato. La giustizia in Italia è impostata e segue “regole” essenzialmente contrarie all’interesse fondamentale del nostro Paese e di noi cittadini. Accusa e difesa in Italia non sono affatto sullo stesso piano in Italia, perché l’avvocato risponde di ciò che fa mentre il giudice no. I giudici, privi di qualsivoglia responsabilità, si allontanano prontamente dalla realtà vera e pretendono, abusano, fanno danni. Ad esempio pretendendo di fare le leggi in vece del legislatore che è unicamente quello eletto dal popolo italiano. Né si può solo sperare nel buon gusto di un comportamento corretto da parte di soggetti cui il sistema dà potere di decisione. Oggi è necessario “immergere” i giudici nella loro responsabilità, renderli responsabili, “colpevoli” di ciò che fanno, farli convergere per intero nella responsabilità di ciò che combinano, che non significa richiamarli di tanto in tanto, come ha fatto da ultimo inutilmente Sergio Mattarella alla imparzialità e alla serietà, ma trascinare l’intero corpo giudicante nel mercato privato e farlo funzionare, in maniera indipendente economicamente, da solo, lontano dallo Stato. Stato minimo e servizi, pochi, pagati con la tassazione di tutti. Il servizio giustizia deve pagarsi da solo come già succede negli arbitrati degli arbitri, nelle conciliazioni dei conciliatori, nelle negoziazioni dei negoziatori, nelle mediazioni dei mediatori. Il governo non eletto Renzi, con gli altri due governi di sinistra parimenti non eletti Monti e Letta, hanno al contrario appesantito la nostra struttura immettendo centinaia di altri giudicanti a tempo indeterminato, che significa che li si dovrebbe mantenere a vita a nostre spese, qualsiasi cosa combinino e facciano. Ecco il perché gli affari e l’economia tutta, il mercato fuggono lontano a più non posso dall’Italia giustizialista, pubblica, impiegatizia, statale, arbitraria, inaffidabile, inefficiente.
Affidava ricche consulenze all'amica, giudice torinese trasferito a Milano. E' Vincenzo Toscano, della prima sezione civile, la sentenza della Cassazione ha confermato quella del Csm, scrivono “La Repubblica” e “Il Messaggero”. Confermato dalla Cassazione, il trasferimento da Torino a Milano e la perdita di un anno di anzianità, per Vincenzo Toscano, giudice del Tribunale del capoluogo piemontese ritenuto colpevole di aver violato il dovere di imparzialità e correttezza per aver affidato "incarichi remunerati" ad una consulente, Maurizia M., "cui era legato da vincoli sentimentali, nonché a persone da questa segnalate, liquidando compensi di molto superiori alla media di quelli liquidati agli altri consulenti". Inoltre, il giudice Toscano, come presidente di collegio - spiega la Cassazione nella sentenza 3020 depositata oggi - non si era astenuto dal trattare una causa "pur essendovi obbligato per aver dato consigli sulla controversia attraverso contatti diretti con una delle parti, e per aver in tal modo compiuto atti diretti ad arrecare a costei un indebito vantaggio, anche attraverso la rassicurazione, data alla medesima ed alla Maurizia M., che egli avrebbe operato in seno al collegio da lui presieduto per ottenere una decisione favorevole, e che anche la composizione del collegio sarebbe stata realizzata a tal fine". Con questa decisione depositata oggi, le Sezioni Unite civili della Suprema Corte hanno convalidato quanto deciso dal Csm con pronuncia del 18 settembre 2013. Tutte le obiezioni difensive sono state giudicate "non fondate". Contro il togato sono state usate anche intercettazioni disposte in un procedimento penale.
Per i poveri cristi questa sarebbe stata condanna penale certa per abuso in atti di ufficio: ma così va in Italia.
Il suocero è consulente, bufera sul gip Salerno. Il giudice dell'inchiesta Gec: "Non ne sapevo niente, lascio il caso" Le indagini dei carabinieri sulla Gec sfociano nel blitz del 29 novembre 2012. Nel febbraio 2013 Salerno firma il decreto di giudizio immediato. Il 20 maggio il giudice chiede l'astensione dal procedimento, scrive “Meo Ponte”. L'inchiesta, come prevede la prassi, è stata affidata alla Procura della Repubblica di Milano ma tutti negli uffici giudiziari di Torino sperano si concluda con un lieto fine. Nell'occhio del ciclone è infatti finito un magistrato torinese, il giudice per l'indagine preliminare Giuseppe Salerno, noto per essersi occupato negli ultimi tempi di indagini scottanti sulle infiltrazioni mafiose in Piemonte e di altre nate da scandali nella pubblica amministrazione. Ed è proprio da una queste inchieste che sono nati, a sorpresa, i suoi guai. Nel novembre 2012 i carabinieri del Nucleo Investigativo, coordinati dal pm Giancarlo Avenati bassi, avevano scoperto che funzionari regionali di Piemonte, Veneto e Campania avevano ricevuto soldi o regali per compilare bandi "ad hoc" per affidare la riscossione delle tasse automobilistiche alla Gec spa, società formata per metà da privati e per il resto da nove banche del Cuneese. In manette erano finite in quei giorni 15 persone con accuse che spaziavano dalla turbativa d'asta, all'associazione per delinquere, alla corruzione e alla concussione. A firmare l'ordinanza di custodia cautelare era stato proprio il gip Giuseppe Salerno che nel febbraio 2013, dopo la chiusura dell'indagine, aveva firmato il decreto di giudizio immediato, fissando la prima udienza per il 4 giugno. Il pm aveva chiesto anche il commissariamento della Gec e il gip aveva nominato per quel ruolo un giovane commercialista, Andrea Giordana. Mentre l'inchiesta seguiva il suo iter (con i primi patteggiamenti), qualcuno dei soci cominciava a nutrire forti perplessità su un personaggio scelto come collaboratore dal commissario Giordana. "Un tipo onnipresente - ricorda qualcuno dei soci della Gec - tanto da sembrare lui il commissario". Anche efficiente però, al punto che qualche settimana fa erano iniziate a circolare voci sulla conclusione del commissariamento dato il buon andamento della società. Nel frattempo però si erano diffuse altre voci. Ben più preoccupanti. In particolare che il collaboratore del commissario Giordana, l'ingegnere Carlo Di Giacomo, non solo avesse avuto qualche noia con la giustizia in passato ma fosse anche legato da qualche vincolo di parentela con il giudice Salerno. Una breve "indagine" aveva permesso di appurare che le indiscrezioni erano fondate e che l'ingegnere altro non era che il padre dell'avvocato Luisa Di Giacomo, legale specializzato in cause di lavoro, ma soprattutto moglie del gip Giuseppe Salerno. Gli avvocati di diversi soci Gec avevano così messo il presidente dei gip Francesco Gianfrotta al corrente della loro scoperta e il pm Annamaria Loreto li aveva successivamente interrogati. Nel frattempo il giudice, appreso della presenza del suocero come collaboratore del commissario, aveva detto di non saperne nulla, giustificando la sua ignoranza con il fatto che stava separandosi dalla moglie. Nel maggio 2013 però aveva scritto al presidente del Tribunale Luciano Panzani e al presidente dei gip Gianfrotta poche righe: "Il sottoscritto dottor Giuseppe Salerno dichiara di astenersi dal procedimento penale a carico della società Gec per gravi ragioni di convenienza essendo emerso un coinvolgimento nella procedura commissariale della Gec di soggetto legato da vincolo di affinità con il giudice sottoscritto". La sua astensione era stata autorizzata, ma nel frattempo i colleghi di Milano hanno aperto un'indagine.
Commissariamento Gec, affare di famiglia, scrive “La Repubblica” . Non solo il suocero ma anche la moglie. O meglio, stando alle sue dichiarazioni, la ex moglie. Assume la fisionomia di un vero e proprio affare di famiglia la vicenda del commissariamento della Gec spa per il giudice per le indagini preliminari Giuseppe Salerno, ora sotto inchiesta a Milano. Dalla documentazione emerge infatti che il commissario Andrea Giordana non solo si avvaleva della collaborazione dell'ingegnere Carlo Di Giacomo. suocero (o ex suocero) del magistrato ma anche di quella della consorte di Salerno, l'avvocato Luisa Di Giacomo, specializzata in cause di lavoro. Ed è infatti proprio in un causa di lavoro intentata da un dipendente della Gec per impugnare il licenziamento deciso dalla società che fa capolino il nome di Luisa Di Giacomo. La mattina del 21 aprile scorso infatti davanti alla Commissione provinciale di conciliazione si ritrovano da una parte il dipendente a cui è arrivata la lettera di licenziamento e il suo legale e dall'altra la Gec spa, rappresentata dal procuratore Riccardo Travers assistito dall'avvocato Luisa Di Giacomo. La parti che si erano incontrate, come recita il verbale d'udienza, «al fine di individuare soluzioni alternative alla risoluzione del rapporto di lavoro» chiedono un rinvio che viene concesso dalla Commissione fissando un nuovo per il 10 maggio. La presenza della moglie (o ex moglie) come legale della Gec spa nella causa di lavoro aggrava la posizione del giudice Salerno. Portava infatti la sua firma l'ordinanza di custodia cautelare che nel novembre 2012 aveva fatto finire in carcere 15 persone dopo che il pm Giancarlo Avenati Bassi e i carabinieri del Nucleo Investigativo avevano scoperto il giro di soldi e favoti ricevuti dai funzionari regionali di Piemonte, Veneto e Campania per orchestrare bandi per la riscossione delle tasse automobilistiche appositamente per la Gec spa. E soprattutto era stato lui, dopo la richiesta di commissariamento del pm, a nominare come commissario Andrea Giordana, un giovane commercialista. Commissario che si era avvalso della stretta collaborazione dell'ingegner Di Giacomo, suocero (o ex suocero) dello stesso gip. Con qualche sorpresa per gli interessati. Dato che dopo qualche tempo era stato lo stesso commissario a chiedere la fine del commissariamento mentre, secondo voci ricorrenti, l'ingegner Di Giacomo che aveva comunque ben gestito la società nonostante un precedente penale «per spendita di dinari falsi», si dichiarava disposto a ricoprire l'incarico di amministratore delegato. La scoperta dei parenti del gip Salerno nella gestione commissariato della Gec aveva suscitato un piccolo scandalo. Salerno si era giustificato di non saperne nulla perché in fase di separazione dalla moglie. Nel maggio 2013 aveva però dovuto scrivere al presidente del tribunale Luciano Panzani e al presidente dei Gip Gianfrotta chiedendo di potersi astenere dal procedimento penale riguardante la Gec spa «essendo emerso un coinvolgimento nella procedura commissariale della società di un soggetto legato da affinità» con lui. Si scopre però ora che «legati da affinità» nella storia della Gec spa non c'era soltanto «un soggetto» ma almeno due perché oltre al suocero (o ex suocero) compariva anche la moglie (o ex moglie). Sulla vicenda sta indagando la procura della Repubblica di Milano che deve accertare se questo sorprendente saga familiare sia frutto del caso o di qualcosa di ben più grave.
LA LEGA DA LEGARE. RIMBORSOPOLI REGIONALE.
Roberto Cota nei guai: ha mentito ai magistrati come altri dieci consiglieri regionali durante gli interrogatori di Spesopoli, scrive “Il Quotidiano Piemontese”. Roberto Cota sembra essere stato scoperto a mentire alla Procura della Repubblica negli interrogatori subiti per i rimborsi delle spese in Regione Piemonte. Cota è stato messo in difficoltà, come altri 10 consiglieri regionali su 43, dall’incrocio fra le sue dichiarazioni e i tabulati telefonici. Cota aveva sostenuto di non aver potuto fare determinate spese perchè quel giorno non era nei luoghi citati, ma poi dai tabulati dei suoi telefoni si è scoperto che in quei posti c’era eccome, proprio mentre venivano battuti gli scontrini che gli rinfaccia la Procura. Cota ha annunciato la presentazione di un esposto per la continua fuga di notizie sull’inchiesta sui rimborsi dei gruppi del consiglio regionale del Piemonte da parte del suo avvocato Domenico Ajello che ha dichiarato: “Alcune testate giornalistiche, nel peggior solco di un’informazione parziale ed affastellata che confonde piuttosto che informare hanno pubblicato notizie false e ricostruzioni bizantine su risultanze insignificanti e parziali dell’indagine”. Racconta i fatti Repubblica. Per lui, come per numerosi altri consiglieri che avevano adottato in interrogatorio la stessa tecnica. Dieci politici su 43, è stato accertato, hanno detto il falso: le celle dei loro telefoni li hanno collocati esattamente nel posto in cui veniva emesso lo scontrino incriminato. E rinnegato. Cota, in particolare, si trovava proprio alla cassa di quell’autogrill quando la dipendente scannerizzava i prodotti. Lo testimoniano i segnali che inviava il suo telefonino alle celle telefoniche poi consultate dagli inquirenti. Eppure si è presentato davanti ai pm con un lungo e dettagliato calendario di trasferte istituzionali per dire che lui lì non c’era mai stato. Ed è così finito nell’elenco di consiglieri che hanno fornito versioni false per giustificare le spese pazze che la Procura di Torino gli contestava. Forse nella speranza che le celle telefoniche non li avessero mai “agganciati”. O che nessuno facesse un lavoro tanto certosino. Se un indagato mente non commette reato. Questo bisogna dirlo. Negare una colpa è una delle linee di difesa che si possono concordare con l’avvocato. Stupisce che il presidente Cota proprio all’indomani della notifica della chiusura indagini, nella quale spiccano questi e altri dettagli imbarazzanti, rilasci pubbliche dichiarazioni di questo tenore: “Quello che mi preme maggiormente scrive in una lettera aperta come uomo prima che come politico, è far sapere a tutti i piemontesi che il loro presidente è una persona onesta, dedita al lavoro, che non esclude la possibilità dell’errore, ma è sempre stato rispettoso delle leggi”. Sempre Repubblica ricorda che che Cota aveva aveva pronunciato a suo tempo queste parole: “Non posso restare Presidente anche solo con l’ombra di un avviso di garanzia”. Pronunciava queste parole, lapidarie, il governatore del Piemonte, Roberto Cota, ai magistrati della procura di Torino che lo ascoltavano in merito all’inchiesta sulle spese pazze della Regione. Era l’11 gennaio 2013. Da allora sono passati più di 11 mesi. E nonostante sia stata raggiunto da ben due provvedimenti, avviso di garanzia e chiusura indagini, è ancora oggi alla guida del governo piemontese.
Cota nella bufera, ecco la lista di tutte le spese anomale, scrive Massimo Numa su “La Stampa”. Le deposizioni del presidente davanti ai pm sono smentite dai tabulati telefonici. L’avvocato: era il cellulare errato. Più che i soldi, 32 mila euro in tre anni, sono le contraddizioni e i non ricordo - oggi - a mettere in difficoltà il governatore del Piemonte Roberto Cota, investito con la sua maggioranza dall’indagine di Rimborsopoli chiusa nei giorni scorsi dalla Procura di Torino. Cota ha scritto una lettera ai cittadini per ribadire la sua onestà, ma i tabulati telefonici sembrano smentire la ricostruzione dei suoi spostamenti e dunque delle spese sostenute. «Un problema dovuto ai cellulari - dice il suo avvocato, Domenico Ajello - hanno tracciato solo quello personale, ma il governatore spesso usa quello d’ufficio. Useremo i prossimi 20 giorni per chiarire». Chiarimento che il governatore sperava di avere già fornito presentandosi due volte dai pm. La prima, l’11 gennaio 2013, come persona informata dei fatti; la seconda, il 16 aprile, come indagato per peculato. Nel primo confronto, Cota, esordì spiegando le politiche economiche della Regione che ha «tagliato le spese da 44 milioni di euro a 11». Poi, entrando nel merito dell’inchiesta: «Non ho mai usato i fondi nella disponibilità del presidente ma solo il budget di consigliere regionale». Cioè 1500 euro al mese, più 5 mila annuali. Commentando, nel corso del confronto, l’ammontare delle spese, il governatore ha detto ai pm: «Per fortuna mia moglie lavora, sennò saremmo in bancarotta!». Cota s’è autoridotto lo stipendio e guadagna 144 mila euro lordi all’anno. Poco più di 6 mila 900 euro netti al mese. La Procura domanda, Cota risponde, anche se non sempre ricorda con esattezza tutti i dettagli. Il secondo confronto è più serrato, si analizzano spese al ristorante, nei negozi, al bar. Sintesi: «Su un totale di rimborsi di 32 mila euro me ne contestate 25 mila, ma non avrei mai potuto sostenere queste spese con le mie risorse». I pm gli presentano gli scontrini di un negozio di abbigliamento: tre foulard. «Regali di compleanno di collaboratrici». Due penne pagate 160 euro, una destinata al prefetto di Novara. Definita una «spesa di rappresentanza», così come i regali per il matrimonio di Michele Coppola, suo assessore alla Cultura, e per Silvio Magliano, esponente del Pdl. Quindi libri per l’ex ministro Giulio Tremonti e l’ex governatore Enzo Ghigo. Tre le cravatte destinate agli autisti. Spuntano ricevute di soggiorni ad Alassio e San Lorenzo al Mare. Cota ricorda che riguardavano una sua collaboratrice, Michela Carossa. È la figlia di Mario, capogruppo della Lega, anche lui indagato per uso anomalo dei rimborsi. Tra le spese spunta anche un dvd del film «Fair Game». Traduzione: denaro restituito.
«Non ho mai fatto cene e festini in maschera, come è avvenuto altrove – spiega Cota al “Secolo XIX”. Non ne avrei avuto il tempo e non è assolutamente nella mia indole di uomo e padre di famiglia». Lo scrive il presidente della Regione Piemonte, Roberto Cota, in una lettera inviata ai giornali di tutta la regione. Il governatore interviene sulla vicenda dei cosiddetti rimborsi facili rivolgendosi direttamente ai piemontesi: «Avete un presidente onesto e leale, che si dedica anima e cuore al governo della Regione». Il governatore del Piemonte figura tra i 43 politici per i quali la Procura di Torino ha chiesto la non archiviazione. «Mi si contesta di aver utilizzato dei fondi a titolo personale - scrive Cota - niente di più lontano dalla verità, dalla mia indole e dalla mia storia». Per sgombrare il campo da «ogni possibile equivoco», nella lettera il presidente della giunta piemontese ricostruisce le accuse nei suoi confronti. «Mi contestano spese per complessivi 25 mila euro, in un periodo di quasi tre anni. Circa 800 euro al mese, di cui l’importo più consistente pari a 21 mila euro per pranzi, cene e viaggi connessi alla mia attività politica e istituzionale, su tutto il territorio nazionale, per impegni pressochè quotidiani. Non vedo e non riesco a immaginare - sottolinea - come avrei potuto fare simili cene o trasferte per interessi personali. Quello che mi preme maggiormente, come uomo prima che come politico - conclude la lettera di Cota - è far sapere a tutti i Piemontesi che il loro presidente è una persona onesta, dedita al lavoro, che non esclude la possibilità dell’errore, ma è sempre stato rispettoso delle leggi». «Vado avanti a testa alta, con immutato impegno» ha poi sottolineato Cota ai microfoni del Tg3. «In un momento di crisi come quello attuale - aggiunge il governatore - sento tutto il peso della responsabilità che ho assunto e che intendo portare avanti».
Cota ha mentito ai magistrati: dieci consiglieri "bugiardi". Il presidente piemontese inchiodato dai tabulati telefonici: era nell'autogrill dove aveva negato di aver fatto acquisti, scrive Ottavio Giustetti su “La Repubblica”. Due interrogatori frettolosi, il primo nella speranza di dribblare l'avviso di garanzia, il secondo per contestare le spese oggetto d'inchiesta, sono serviti solo a consacrare che Roberto Cota ha mentito. Lo inchiodano le sue dichiarazioni ai pubblici ministeri e il confronto con i tabulati telefonici disposti dalla Guardia di Finanza. "Quei soldi non li ho spesi io aveva detto il governatore ai magistrati confutando diverse voci non è possibile perché non mi trovavo lì quel giorno". Così sono partiti i controlli. Per lui, come per numerosi altri consiglieri che avevano adottato in interrogatorio la stessa tecnica. Dieci politici su 43, è stato accertato, hanno detto il falso: le celle dei loro telefoni li hanno collocati esattamente nel posto in cui veniva emesso lo scontrino incriminato. E rinnegato. Cota, in particolare, si trovava proprio alla cassa di quell'autogrill quando la dipendente scannerizzava i prodotti. Lo testimoniano i segnali che inviava il suo telefonino alle celle telefoniche poi consultate dagli inquirenti. Eppure si è presentato davanti ai pm con un lungo e dettagliato calendario di trasferte istituzionali per dire che lui lì non c'era mai stato. Ed è così finito nell'elenco di consiglieri che hanno fornito versioni false per giustificare le spese pazze che la Procura di Torino gli contestava. Forse nella speranza che le celle telefoniche non li avessero mai "agganciati". O che nessuno facesse un lavoro tanto certosino. Se un indagato mente non commette reato. Questo bisogna dirlo. Negare una colpa è una delle linee di difesa che si possono concordare con l'avvocato. Stupisce che il presidente Cota proprio all'indomani della notifica della chiusura indagini, nella quale spiccano questi e altri dettagli imbarazzanti, rilasci pubbliche dichiarazioni di questo tenore: "Quello che mi preme maggiormente scrive in una lettera aperta come uomo prima che come politico, è far sapere a tutti i piemontesi che il loro presidente è una persona onesta, dedita al lavoro, che non esclude la possibilità dell'errore, ma è sempre stato rispettoso delle leggi". E poi affila le armi per contrattaccare la Procura di Torino, attraverso il suo avvocato milanese (avvocato anche di Roberto Maroni) Domenico Aiello, che la butta in polemica sulla scelta dei magistrati torinesi che coordinano le indagini Andrea Beconi, procuratore aggiunto, Enrica Gabetta e Giancarlo Avenati Bassi, sostituti procuratori di aver aderito al nuovo protocollo elettronico che prevede la consegna degli atti attraverso la posta elettronica certificata. Un metodo poco sicuro, del quale l'avvocato è rimasto sorpreso. "Vista l'importanza della questione ha detto Aiello non mi aspettavo un clicday". E poi ha aggiunto, entrando nel merito della linea d'accusa: "Non c'è stata nessuna valutazione giuridica dei controversi temi di diritto, proposti da più difese, da parte dei magistrati della Procura, che si sono limitati a ripercorrere pedissequamente le relazioni della polizia giudiziaria. Mi sarei aspettato, da loro, un maggior senso di responsabilità".
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Indagato per corruzione Franco Bianchi, presidente della terza sezione Tar Lazio. Il giudice amministrativo si occupa di tutti i ricorsi che riguardano l'economia italiana: tra questi anche quella degli ex vertici del Mps contro le sanzioni per oltre 5 milioni inflitte loro da Bankitalia, scrive “La Repubblica”. Il gup di Torino ordina alla procura di indagare per corruzione Franco Bianchi, l'attuale presidente della terza sezione Tar Lazio. È la sezione che si pronuncia su tutti i ricorsi che riguardano l'Economia italiana. Il 3 luglio 2013, ad esempio, deciderà anche dei ricorsi presentati dagli ex vertici del Monte dei Paschi di Siena contro le sanzioni per oltre 5 milioni di euro inflitte loro da Bankitalia. Ma la sezione di Bianchi è balzata agli onori delle cronache di recente per aver accolto - in controtendenza rispetto ad altre sezioni del Tar - un ricorso che in sostanza ha demolito la spending review del governo sulla Sanità, annullando il listino prezzi di acquisto delle Asl e mandando così in fumo un miliardo di risparmi. La vicenda giudiziaria torinese chiama in causa Bianchi quando era presidente del Tar Piemonte: secondo l'accusa, avrebbe sottoscritto un patto corruttivo con uno dei ricorrenti, Adolfo Repice, in cambio di una raccomandazione presso l'ex dg della Rai, Agostino Saccà, affinchè trovasse un posto di lavoro al figlio. Il procedimento disciplinare. Per questo episodio Bianchi è anche sottoposto ad un processo disciplinare presso il "Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa", il Csm dei magistrati del Tar. Mentre il procedimento penale era in corso di definizione, e quello disciplinare in fase di avviamento, Bianchi veniva trasferito dalla presidenza del Tar Piemonte e "promosso" a quella della Terza sezione Lazio. La storia. Il Tar subalpino nel 2010 deve pronunciarsi su un delicato contenzioso sanitario. Due holding della sanità privata - Villa Maria Pia Hospital srl e Casa di cura san Luca - si contendono la gestione di una Rsa comunale da 300 posti letto, l'Opera Pia Lotteri gestita da un commissario, Adolfo Repice, ex segretario del Comune. Repice aveva affidato la Rsa a Villa Maria Pia, la San Luca aveva fatto ricorso al Tar. Qualcosa, però, nel contenzioso non fila liscio, tanto che uno dei tre componenti del collegio del Tar presieduto da Bianchi, Paola Malanetto, si insospettisce. E invia un esposto in procura. "In questo processo - denuncia il consigliere Malanetto - sussistono possibili irregolarità". Non dice nulla al presidente "per fondati dubbi sulla sua riservatezza". Le intercettazioni telefoniche disposte dai pm Cesare Parodi e Francesco Pelosi traducono in realtà i sospetti della Malanetto. Repice e Bianchi hanno effettivamente fatto un accordo: favorire Villa Maria Pia in cambio di una raccomandazione da Saccà per il figlio di Bianchi. Ma i pm interpretano quei fatti come una tentata corruzione e chiedono l'archiviazione per il magistrato. Il colpo di scena. All'udienza preliminare, avvenuta nei giorni scorsi, il gup Silvia Salvadori riformula il reato in corruzione, condanna Repice (corruttore), e ordina ai pm di procedere contro Bianchi (corrotto). I pubblici ministeri stanno in queste ore preparando la richiesta di riapertura indagini nei confronti dell'attuale presidente della Terza sezione Tar Lazio. La nuova contestazione. Secondo il giudice Salvadori, la promessa (o dazione dell'utilità), s'è consumata con l'intervento da parte di Repice nei confronti di Saccà. "Le intercettazioni telefoniche e altri risultanze - si legge nell'ordinanza del gup - dimostrano l'accordo corruttivo in funzione del quale Bianchi si è dimostrato adesivo all'interesse della parte processuale rappresentata da Repice rispetto all'esito del ricorso, e in vista del perseguimento di un proprio interesse personale, ossia l'intercessione nei confronti di Saccà a favore del figlio". Secondo il gup, la presenza, all'interno di un organo giurisdizionale collegiale "di un componente privo del requisito dell'imparzialità, perché partecipe di un accordo corruttivo, inficia, nonostante l'estraneità degli altri membri, la validità dell'intero iter decisionale perché il giudice corrotto è del tutto privo di legittimazione. Le intercettazioni. Bianchi, due giorni prima dello svolgimento della Camera di consiglio da lui presieduta (13 gennaio 2011), telefona all'amico Repice e gli parla male della memoria della ricorrente San Luca, depositata da un luminare del foro torinese, l'avvocato Vittorio Barosio, professore di diritto amministrativo università di Torino. "L'offerta di Barosio - dice Bianchi - era tutta malandata una ricostruzione diciamo tutta sua, un po' fantasiosa". Dice poi "speriamo di confermare", anticipando così, osserva il gup, "univocamente la propria posizione discrezionale rispetto al thema decidendum del ricorso" a favore dell'amico Repice. Il giorno successivo della camera di consiglio, Bianchi rassicura Repice dell'esito del processo: "Abbiano definito in quel senso". Quindi lo informa di avere avuto qualche difficoltà. La memoria del docente amministrativista Barosio, evidentemente, non era poi così fantasiosa e malandata. "Barosio ci stava mettendo tutti nel sacco", spiega Bianchi con preoccupazione. "Con la frase "Barosio ci mette nel sacco" - osserva, però, la Salvadori - Bianchi rivendica una propria opinione già formata rispetto a una decisione già condivisa". Il presidente del Tar Piemonte, conclude l'ordinanza del gup, s'era messo a disposizione anche per altri ricorsi che Repice aveva pendenti in Calabria, in particolare a Catanzaro. "Là - gli promette Bianchi - ho degli amici da sentire".
L’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE.
Qui si vi presenta Don Ciotti, che agli occhi della gente, mediaticamente strabica, è il simbolo dell’antimafia militante e partigiana. Per tutti non è Leonardo Sciascia l’icona dell’antimafia, ma è un prete venuto dal nord. Si presenta con una sua intervista resa a Fabrizio Ravelli pubblicata su “La Repubblica”. Per fare corretta informazione bisogna che all’auto biografia si presenti il contraltare della biografia non autorizzata, ossia quello che su di lui dice chi ne conosce le più nascoste virtù o i più sordidi vizi. E’ importante conoscere colui il quale, di fatto, con la sua rete di associazioni e comitati che fanno capo a “Libera” e tutti vicini alla CGIL, ha il monopolio delle assegnazioni dei beni confiscati ai cosiddetti mafiosi, quindi un bene comune da condividere anche con chi non è di sinistra e non santifica i magistrati. Tra i tanti non appartenenti all’antimafia di regime troviamo il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente, che proprio sul tema dell’antimafia truccata ha scritto un libro “Mafiopoli. La mafia vien dall’alto. L’Italia delle mafie che non ti aspetti”. Libro inserito nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. Va giù pesante Antonio Margheriti “Mastino” con un suo articolo pubblicato su “Papalepapale”. Si prendono le distanze dal tono dissacrante e satirico, a volte sprezzante, ma non diffamatorio, ma si condivide il contenuto di fondo, per questo, per diritto di critica e di cronaca, è indubbio che non si può tacere quello che altri non dicono, specialmente se lo scritto è il contraltare ad una intervista che racconta una verità personale.
Don Ciotti, prete di lotta e di governo: "Ho cominciato sui treni dei disperati". Incontro di Frabrizio Ravelli con il fondatore di Libera: "Il vescovo mi disse: affido a Luigi una parrocchia, e gli do come parrocchia la strada. Don Luigi Ciotti è uno di quei preti lottatori che non mollano mai, che trovi per strada e non in sacrestia, che dà del tu a tutti (anche nel primo incontro con l'avvocato Agnelli, che non fece una piega). Il Gruppo Abele lo conoscono tutti. La sua vita, un po' meno. Si incontrano una maestra nervosa, un medico disperato, un vescovo coraggioso, e tanti altri. Conta molto che Ciotti sia un montanaro.
Montanaro veneto, no?
«Sì sono nato a Pieve di Cadore nel '45, ed emigrato in Piemonte con mio padre, mia madre e le mie sorelle per la ragione che nel dopoguerra spinse migliaia e migliaia di persone ad andare a cercare altrove la dignità di lavoro, la speranza».
E te ne sei andato a cinque anni.
«Mi ricordo l'impatto traumatico con la città di Torino, perché mio padre aveva trovato lavoro ma non aveva trovato casa. E quindi la nostra casa è stata la baracca del cantiere del Politecnico di Torino. Mio padre lavorava nell'impresa che ha costruito la parte più vecchia. Quegli anni hanno segnato la mia vita insieme con la baracca, il cantiere, le facili etichette che la gente ti mette perché tu vivi dietro uno steccato. Un pensiero sempre sbrigativo, che generalizza, e che tuttora resta una delle ferite aperte. Mio padre era muratore, poi è diventato il capocantiere, il capomastro».
A Torino da immigrato che viveva in una baracca.
«Sì, la baracca del cantiere. Dignitosa. Una delle cose che mi ricorderò sempre come un avvenimento è di quando una volta all'anno andavamo a comprare la carta da zucchero, quella blu, poi con le asticelle di legno che papà tagliava dalle assi attaccarla al soffitto. Era festa, festa in famiglia. Certo, il gabinetto era una baracca all'esterno. Però ho alcuni dei ricordi belli della mia infanzia. Il padrino della cresima che ho fatto nella parrocchia lì vicino era il gruista, Paolo il gruista. Eri un po' coccolato dagli operai. Poi venne la drammatica sera, credo fosse proprio un tornado che buttò giù i 42 metri della Mole Antonelliana, fece saltare tutti i tetti della Grandi Motori, e ci portò via gran parte della baracca. Ricordo la mia mamma che ci teneva stretti, un po' disperata. Volò via un pezzo di tetto, e il gabinetto lì vicino, che era fatto di assi».
E com'eri tu, bambino della baracca?
«L'altro ricordo è quello legato alla mia esperienza scolastica in prima elementare. Io dovevo andare a scuola in quel territorio, nella zona ricca di Torino. E avvenne un fatto che mi ha segnato molto. Questa scuola, la Michele Coppino, aveva un regolamento: tutti con il grembiule. Mia madre andò dalla maestra a dire che non era in grado di comprare il grembiule e il fiocco per me, perché aveva dovuto comprarlo alle mie sorelle, e non c'erano soldi. Quindi disse: per un mese manderò mio figlio a scuola senza il grembiule. Sai, tu puoi essere povero ma dignitoso, la dignità di andare a dire: guardi, non ce la faccio. Quindi io mi son trovato a essere diverso, dentro una scuola dove tutti avevano questo benedetto grembiule e questo fiocco interminabile, e tutti che ti chiedevano come mai tu non avevi il grembiule. Tu ti senti diverso, ti senti etichettato, ti senti giudicato. Al punto che quando qualcuno mi chiedeva dove abitavo, io non dicevo che abitavo dietro quello steccato, ma in un palazzo».
Finisce che il diverso si ribella.
«Dopo venti giorni di prima elementare, e io che già mi sentivo diverso e in difficoltà, la maestra è arrivata a scuola quel giorno nervosa, magari aveva litigato col marito. E mentre in fondo alla classe i miei compagni ridevano e scherzavano, lei non se l'è presa con loro, ma se l'è presa con me, che ero il più vulnerabile, il più visibile, mi aveva anche messo al primo banco. E io devo averle detto: ma che cosa vuoi, non c'entro niente. Lei chissà cosa ha capito, e le è scappata un'espressione che per me è stata una ferita: ma cosa vuoi tu, montanaro? Detto quasi con disprezzo. I miei compagni tutti a ridere, e quindi mi sentivo ancora più umiliato da quella affermazione. Allora io ho tirato fuori il calamaio dal banco, uno di quei vecchi banchi di scuola, e gliel'ho tirato. L'ho colpita in pieno. Espulso subito dalla scuola, dopo venti giorni. Portato a casa da un bidello. Io non l'ho mai più incontrato, ma mi ricordo quella mano che mi portava a casa, e io piangevo perché sapevo di avere sbagliato e perché sapevo che mi aspettava una punizione, e mia madre me la diede sonora. Anche se anni dopo mia madre mi disse: Luigi, io lo sapevo che tu avevi difeso la nostra dignità, però non si fa a questo modo. Il vero problema venne quando i miei compagni uscirono di scuola alle 12,30 - io ero già espulso - e avevano qualcosa di nuovo da raccontare ai genitori o alla cameriera. Lo sai mamma cosa è successo oggi a scuola? Dimmi, cicci. Un nostro compagno ha tirato il calamaio alla maestra. Ah, povera maestra. E come si chiama quel compagno? Ciotti. Guai se ti vedo con quel compagno. Sono diventato il compagno cattivo».
Montanaro, e ribelle.
«Meno male che frequentavo la parrocchia. Andavo lì, eravamo un gruppetto, nella parrocchia di questo quartiere molto ricco di Torino. E' stato per me un momento importante, quando la tua vita viene segnata da quelle etichette. L'altro episodio che mi ha segnato è successivo, io dopo le medie andrò a scuola per prendere il diploma di radiotecnico, e lì avviene l'incontro con un signore su una panchina. Un disperato, che mi aveva colpito, perché io passando col tram lo vedevo sempre lì a leggere libri, sottolineando con una matita rossa e blu. Io avevo 17 anni, con gli entusiasmi e le fantasie di quell'età. Un giorno sono sceso dal tram, sono andato lì e gli ho detto: vuole che vada a prenderle un caffé? E lui niente. Torno alla carica: vuole un té? Lui zitto. Penso, sarà sordo, ma mi accorgo che non lo è. Era un medico, amato e stimato dalla gente, ed era successa una vicenda drammatica nella sua vita, che l'aveva portato su quella panchina. Era andato ubriaco in sala operatoria, e aveva provocato la morte di una donna, la moglie di un amico. Poi era uscito di testa, stava male. Però studiava ed era curioso. Dalla panchina lui vedeva dei ragazzi al bar di fronte, che entravano e uscivano - allora non c'era l'eroina - prendevano delle amfetamine, ci bevevano dei superalcolici e sballavano, facevano la bomba. Un giorno, quando alla fine nasce un rapporto fra me e lui, anche se stentato, mi dice: vedi, dovresti fare qualcosa per quei ragazzi. Lui era un uomo disperato e sofferente, morirà pochi mesi dopo. E io mi sono detto: questo incontro non sarà un incontro qualsiasi. Mi ha indicato una strada. Anche questo episodio ha lasciato un graffio nella mia vita».
E poi?
«Poi sono andato a vivere da solo. Ho fatto un gruppetto. Poi nasce il Gruppo Abele, che a Natale ha compiuto 45 anni. Io in seminario andrò dopo, avevo già il Gruppo Abele, avevo una storia dietro. Avevamo cominciato ad andare sui treni, dove i disperati senza casa dormivano: i treni arrivavano caldi. Ho pensato, caspita io incontro questa gente fuori, facciamo delle cose insieme, non li lascio soli. A volte la mattina eravamo così stanchi che il treno partiva, e ci trovavamo a Chivasso. Passavano i controllori, te la davi a gambe. Perché sai, se parli a tavolino non capisci questi mondi. E lì nasce la storia del Gruppo Abele, nasce sulla strada, poi le prime comunità, il lavoro al Ferrante Aporti, la casa di rieducazione del Buon Pastore. Le prime comunità in alternativa a quelle strutture. Una storia che è cresciuta, e che non è un Luigi Ciotti, è un noi: ho fatto questo perché l'ho fatto con altri. Io difendo questo noi, vuol dire che non è opera di navigatori solitari. E quando verrò ordinato sacerdote dal cardinale Michele Pellegrino, grande vescovo che si faceva chiamare padre, in una chiesa zeppa di mondo di strada, alla fine di quella celebrazione non volava una mosca, lui guardò tutti questi ragazzi e disse: Luigi è nato con voi, è cresciuto con voi, e io ve lo lascio. Però affido anche a lui una parrocchia, e gli do come parrocchia la strada».
Michele Pellegrino, insigne grecista, vescovo coraggioso e innovatore.
«Lui veniva da noi. Ai nostri campi in montagna. Venne una volta e c'erano tutte le ragazze del mondo della prostituzione. Lui ascoltò e poi mi disse: quando hai una sera libera vieni a cena da me, tu mi hai aperto una finestra e io voglio capire di più questo mondo. Non giudicava, non semplificava, voleva capire. Un anno dopo andrà a celebrare il Natale con le prostitute del centro storico di Torino. Uno che non si è mai tirato indietro. E sarà lui quello che prenderà posizione quando il quotidiano La Stampa farà la grande campagna per ripulire la città dalle prostitute. La redazione si spaccò in due, per quella iniziativa di legge popolare. E lui fece quell'omelia nella notte di Natale, nel duomo di Torino, partendo dal Vangelo di Giovanni, e pose delle domande sulle cause, non solo sulle donne costrette a prostituirsi ma anche sui clienti, sulla prevenzione. Tu immagina un cardinale che fa questa omelia nel duomo, e si mette contro il quotidiano della città che raccoglieva firme. Pensa che venne Gina Lollobrigida con l'aereo per mettere la firma, e Claudio Villa il reuccio della canzone italiana. E poi la tenda di Porta Nuova, era il 1973, ti faccio vedere le foto con lui: disadattati e delinquenti non si nasce ma si diventa. Quando abbiamo preso posizione contro le carceri per minorenni, perché fossero solo l'extrema ratio, e si cercassero soluzioni diverse. Il Gruppo Abele cominciò un lavoro dentro le carceri, siamo andati dentro a vivere».
Dentro le carceri?
«Sì, a Roma al ministero c'era un direttore dell'Ufficio quarto, Umberto Radaelli, che ebbe l'intuizione e ci portò dentro. E dodici di noi hanno vissuto in carcere: fu la prima esperienza grande in Italia, di condivisione e di progetto dentro il carcere dei minorenni, qui al Ferrante Aporti. Poi a Roma qualcuno si agitò, fu costruita ad arte tutta una cosa per bloccare questa sperimentazione. Noi uscimmo facendo una denuncia, e Pellegrino verrà a quella denuncia del sistema, e con accuse false fummo messi sotto inchiesta col direttore, che fu sospeso. Noi uscimmo, ma dieci anni dopo quello diventò il grande progetto Ferrante Aporti. E una volta dimostrata la falsità delle accuse il direttore Antonio Salvatore fu promosso andò al Beccaria di Milano, e ne divenne il grande direttore. Ma la sua storia cominciò qui, con quell'atto di coraggio che abbiamo condiviso, con lui e con Umberto Radaelli».
Un momento indietro. Quando già c'era il Gruppo Abele sei andato in seminario.
«Sì, sono andato in seminario qui a Rivoli, uscivo ed entravo. Il cardinale Pellegrino capì che era un servizio per i poveri, per gli ultimi, per quelle fasce dimenticate. Il Gruppo Abele fu il primo in Italia ad aprire un centro droga sulla strada, trovando un gruppo di magistrati che avevano capito che la legge era un mostro giuridico. Noi ci siamo autodenunciati per aprire il centro droga. La legge stabiliva che tu dovevi denunciare, e le strade erano due: o il carcere o l'ospedale psichiatrico. Noi abbiamo aperto in via Giuseppe Verdi a Torino, giorno e notte, dove arrivava un sacco di gente anche per essere accudita, per mangiare e per dormire. Davamo i primi supporti in una città che negava l'esistenza di quel problema, che diceva fosse poca cosa. In due anni quattromila persone arrivarono, perché non c'era nulla, quindi si andavano ad aggrappare dove trovavano dei riferimenti. La città comincia a prendere coscienza, noi cominciamo a fare la battaglia politica per avere una legge diversa, che sfocerà nello sciopero della fame del '75 in piazza Solferino, che porterà il Parlamento italiano a far la legge con cui nascono i Sert, nascono i servizi. Pellegrino sarà presente in tutti questi momenti».
Poi quando succedono cose come la spedizione punitiva contro un campo rom ti cadono le braccia.
«Sì, io l'ho detto, sono stato lì. Mi sono stancato di sentir parlare di emergenze in questo Paese. Queste non sono emergenze, sono percorsi che si sono consolidati nel tempo. E se c'è uno sgombero da fare nel nostro Paese è lo sgombero dei pregiudizi, dell'ignoranza, della non conoscenza. Questo dei rom è un popolo che ha voglia di vivere, un popolo gioioso, un popolo poetico. Che dev'essere aiutato a poter vivere delle condizioni di legalità. Questi vivono la terra di nessuno. Non si può parlare di emergenza. Io mi arrabbio quando si scopre con un misto di sorpresa e di vergogna che la miseria, la segregazione, la discriminazione, la violenza sono un problema anche nostro. Qui a Torino è avvenuta un'aggressione razzista, spiace doverlo dire, una vendetta. Ci sono belle esperienze concrete che dimostrano come l'accoglienza e le regole possono mettersi insieme. Qui a Settimo, come a Reggio Calabria per la raccolta dei rifiuti. Noi ne abbiamo assunti alcuni: vai a rubare il rame, e allora vieni qui a lavorare il rame. Si guadagnano la pagnotta in maniera onesta».
A un certo punto hai cominciato a occuparti di terroristi che stavano in galera.
«Da me venne una figura stupenda, padre David Turoldo. E mi disse: dobbiamo fare qualche cosa per dare una mano a sbrogliare questa situazione, nel rispetto della legalità. Così ho accolto diversi di loro, alcuni sono ancora qui, a una condizione: che si mettessero in gioco, che lavorassero. Che ci fosse, nel rispetto dei percorsi della giustizia, un cambiamento dentro le persone. Il paradosso, se così si può dire, è che in questo settore lavorava come volontario il procuratore della Repubblica Gian Carlo Caselli. Coordinava un gruppo, e si trovava a lavorare con quelli che aveva mandato in galera. Cose che sono successe in questo Gruppo Abele. Come il fatto che oggi accompagniamo in grande silenzio storie di testimoni di giustizia, nella lotta alla criminalità e alle mafie».
E poi nella tua vita entra la mafia.
«E' stata una serie di tappe. A Torino è nato il coordinamento delle comunità di accoglienza. Poi quando scoppia il problema Aids nasce la Lila, la lega per la lotta all'Aids, e io sono stato il primo presidente. Dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio, mi sono chiesto: noi continuiamo a dare una mano ai giovani vittime delle dipendenze, alle ragazze sfruttate dalla prostituzione, ma chi guadagna dietro a questi? E ti dici: continuiamo a stare sulla strada, a lavorare all'accoglienza, però il problema della mafia attraversa tutto il nostro Paese. E quindi nasce Libera, per mettere insieme tante esperienze, per creare un fermento sociale. Ci chiediamo: cos'è che bisogna portare via a questi signori, i mafiosi? Il denaro, i beni, era il sogno di Pio La Torre, ma lo ammazzeranno quattro mesi prima che si facesse la legge. Però quella confisca dei beni mafiosi, che non parlava ancora di uso sociale, non funzionava, così raccogliamo un milione di firme per una legge ad hoc. E oggi ci sono più di quattrocento associazioni in Italia che gestiscono questi beni e li utilizzano. Cooperative che sono partite autofinanziandosi, tirando la cinghia, andandosi a cercare i soldi da sole. Una storia meravigliosa nata dal basso, dalla gente stufa di essere mortificata. La vendita dei beni mafiosi può esistere, ma dev'essere l'eccezione, non un dogma. Così come ho sentito che ci sono delle proposte: vendiamoli tutti e diamo il ricavato allo Stato. No, perché è uno schiaffo per il mafioso vedere i giovani che arrivano sulla tua terra, quella terra con cui hai gestito il tuo potere, la tua forza. E che sia uno schiaffo si vede dagli attentati. Quest'estate ci hanno fatto fuori trentacinque ettari di grano. Hanno bruciato olivi secolari in terra di Calabria. Distrutto impianti in provincia di Latina. Tagliate le pompe dell'acqua in un altro territorio. Eppure si è andati avanti, non s'è mai fatto un passo indietro, s'è dato lavoro a tanti giovani. Oggi qualcuno vorrebbe impossessarsene, tutti i giorni leggiamo di confische di denaro che non si sa dove finisca. Secondo me quel denaro liquido deve servire per i testimoni di giustizia, e per il risarcimento alla vittime di mafia».
Che vita fai, ti tocca correre di qua e di là come una trottola?
«Abbastanza. Ma vivo qua nel gruppo, in questa ex-fabbrica. Poi c'è il gruppo che dà lavoro a seicento persone. La mia vita è qui: stare con la gente è per me la cosa più importante e fondamentale. Poi s'è creata una rete di comunità, il lavoro di strada, il drop-in, il settore culturale, la casa editrice, la rivista Narcomafie, un centro di documentazione e ricerca, la sede dell'università della strada per la formazione degli operatori. Qui c'è tutto il lavoro per le vie di fuga che facciamo per la tratta e la prostituzione, le ragazze vengono nascoste e reinserite, in luoghi protetti perché questi le cercano. Per me l'accoglienza è fondamentale, se viene meno il faccia a faccia con le persone perdi la vita. Poi c'è Libera».
Un'ultima cosa. In questo Paese si parla del volontariato, straordinario e meritevole, come di un alibi per chi non fa niente. Non ti manda in bestia?
«Lo dico da sempre, mi auguro che ci sia meno solidarietà e più giustizia. Non verrà mai meno l'attenzione agli altri, l'accoglienza, la relazione. Però noi non possiamo diventare i delegati a occuparsi dei poveri e degli ultimi. Noi continueremo a occuparcene, perché non abbiamo mai chiuso la porta in faccia a nessuno. Ma in questo Paese, oggi, il sociale è mortificato: chiudono cooperative, chiudono associazioni. E si dimentica che la solidarietà è indivisibile dalla giustizia, non si deve dare per carità quello che spetta alla gente per giustizia. Guai se diventiamo il tappabuchi. Abbiamo anche il dovere della denuncia seria e documentata, il dovere di chiedere conto alla politica. E se è lontana dalla strada, dai problemi della gente, dalla sua fatica, allora la politica è lontana dalla politica. C'è un problema di democrazia nel nostro Paese, è una democrazia pallida che non ha senso di responsabilità».
Posizione antitetica ed aspramente critica sul personaggio pubblico è quella di Antonio Margheriti “Mastino” che, nel suo articolo, definisce Don Ciotti come il prete da marciapiede: don Ciotti. Dolce&(volta)Gabbana e antimafia delle chiacchiere. Sottotitolo: riflessioni cattoliche a partire dall’attentato di Brindisi.
L’articolo è diviso in Paragrafi:
Siamo tutti “addolorati” col culo degli altri;
Il figlioccio di Michele Pellegrino, il cardinale rosso;
Ladri benefattori e derubati ladri. Una storiella su don Ciotti;
Il Dolce&(volta)Gabbana della Chiesa: Ciotti, il cappellaio… ops… cappellano delle mode;
Il radical-ciottismo porta infine laddove dall’inizio era stabilito dovesse portare: alla religione civile;
Diffidate dei preti pieni di patacche;
La mosca sarcofaga;
Il silenzio se non ti “uccide”, ti evita molte figure di merda;
Ciotti grida “è mafia!”. Ma i giudici chiedono aiuto proprio alla mafia;
Se per l’inchiesta Jacini al Sud “tutto è Africa” per Ciotti “tutto è mafia”;
Ciotti si scusa: gli è scappata una parolaccia: ha citato Gesù;
Dio, il Grande Sconosciuto d’Occidente;
“Ho visto pezzetti di carne sparsi”. Ma l’ha colpito solo “un quaderno di educazione civica”;
Sostituire il Decalogo con la costituzione, il confessore col magistrato;
“Non importa chi è Dio, ma da che parte sta”. Il mancato leader socialista;
Quegli studenti che marciano per marinare la scuola lecitamente: senza fantasia, senza sincerità;
E’ politicamente scorretto dire “la mafia non esiste”, anche se è vero che non esiste;
La vera mafia che pretende omertà è quella del professionismo dell’antimafia delle chiacchiere;
Dio è lui, don Ciotti. E “Libera” è il suo corpo mistico, la sua chiesa.
SIAMO TUTTI “ADDOLORATI” COL CULO DEGLI ALTRI. I fatti di Brindisi, dunque. Ognuno dice la sua, stante il fatto che gli strascichi mediatici caricaturali di stragi e delitti sono una passionaccia arcitaliana: non chiedono di meglio i teledipendenti che fare tifoseria colpevolisti-innocentisti, scoprire alla fine chi è l’assassino come in un giallo della Christie. Tanto siamo tutti “addolorati” col culo degli altri. Solo che invece di sfogliare libri gialli, fanno zapping da talk-show in talk-show nella tv delle lacrime, dei sentimentalismi, del macabro, e, subito dopo, delle sganasciate di risate mignottesche con la caccia al chi ha scopato chi, chi s’è lasciato con chi, chi ha incornato chi.
Brindisi, dunque. Napolitano e Bersani dicono: “E’ terrorismo”. Don Ciotti: “E’ mafia”. Criminologo: “Forse squilibrato”. Complottisti professionisti: “Strage di Stato” (anche se tecnicamente neppure strage c’è stata). Procura: “Non sappiamo”. Tutti insieme in comune hanno una cosa: parlano senza sapere di che parlano… e come potrebbe essere diversamente dal momento che 5 minuti dopo avevano già tutti il loro teorema buono per ogni evenienza?! Ognuno cerca di trascinare cadaveri entro la propria specializzazione e contingenze immediate, se politiche tanto meglio. Non mi meraviglierò se presto interverrà Radio Radicale a dire: “Preti pedofili”. Dopo tanti castelli costruiti sul fango di lussuose teorie politico-criminologiche, si scoprirà (come si scoprirà!) che si tratta d’un semplice sfigato di mentecatto, certamente qualche disoccupato nevrotizzato dalla mancata assunzione al bidellaggio, qualche altro che ce l’ha in modo parossistico con l’agenzia delle entrate, qualcuno che ce l’ha col prospiciente tribunale che gli ha fatto perdere o non ha mai discusso la causa che gli stava a cuore; qualche “inventore” pazzo. La banalità del male! Ma certo non è di questo che voglio parlare, non si occupa di cronaca questo sito. È un pretesto per dire d’altro.
IL FIGLIOCCIO DI MICHELE PELLEGRINO, IL CARDINALE ROSSO. Don Ciotti ha fatto tutti i suoi studi da prete, se così posso chiamarli, nel lustro peggiore della storia della Chiesa: fra il ’68 e il ’72, anni di autodemolizione, autopersecuzione, autocontestazione della Chiesa. Anni pazzi. Soprattutto anni rivoluzionari: i seminari erano diventati, in quel lustro, covi di pazzissimi sediziosi dottrinali, bordelli teologici, fucina di rivoluzionari spompati, evirati e inutili persino ai rivoluzionari al caviale laici. Ininfluenti sul mondo, ma funestissimi dentro la Chiesa. Ecco, quei cinque anni maledetti, sono tutta la formazione di Ciotti: psicologicamente, retoricamente tuttora là è fermo, non s’è mai mosso; e spesso proprio questo suo modaiolo anacronismo è travisato, in un qui pro quo ridicolo, scambiandolo per avvenirismo, futurismo. In realtà, da quaranta anni, è uno spacciatore abusivo di ricette (“salvavita”, buone parimenti per la Chiesa e per la “società”) scadute. A complicare le cose per l’allora seminarista Ciottino intervenne il fatto che il suo seminario si trovava nella Torino operaista e laicista, e per giunta il suo cardinale era il vescovo più rosso della storia d’Italia: Michele Pellegrino. Tutte le fortune, poveraccio! E allora ti spieghi tante cose. Il cardinale rosso della Torino di quel tempo infame che vide nascere proprio nelle sue fabbriche i teorici e la manovalanza del terrorismo comunista, Michele Pellegrino, definì bonariamente il suo comiziante pretino, il giovane Luigi Ciotti, “prete da strada”, e aggiunse: “la strada sarà il tuo altare”. Una permuta a tutto vantaggio non si sa bene di chi, della Chiesa dubito. Se è vero come è vero che il programma ciottesco è questo: “Non si va per la strada ad insegnare ma ad apprendere”: affascinante come slogan, bellissimo, non v’è dubbio, ideologico anche; l’apice del buonismo delle “anime belle”, di quelle che s’innamorano dell’idea già bella impacchettata e infiocchettata a prescindere da quello che c’è dentro il pacco (in questo caso: il vuoto), ignorando trasognati e poeticanti la realtà, quel sano realismo che deve essere sempre il compagno di viaggio del cattolico. Sostituito in questo caso con un tanto al chilo di sociologismo vittimistico, piagnone e melodrammatico. Che suona sempre la stessa sinfonia dagli anni ’70: “Le colpe della società!”, qualsiasi cosa uno abbia fatto, “è colpa della società”. Anche se oggi ha mutato un po’ registro: qualsiasi cosa succeda, foss’anche il crollo di Wall Street, il Nostro dice che è “colpa della mafia”. Almanacco del “clima sociale mafioso” e, va da sé, “omertoso”.
Ciotti, l’uomo che “apprendeva dalla strada”, dunque, invece che insegnare la Strada, che poi sarebbe Cristo. Senza contare che Cristo non è andato per le strade del suo tempo ad “apprendere” ma a insegnare, appunto. La stessa cosa che avrebbe dovuto fare Ciotti, insegnare le cose del Maestro, che aveva infatti detto “non chiamate nessuno maestro”, neppure una strada, “perché uno solo è il Maestro”, cioè Lui; e poi aggiunse che siccome Lui “era la via, la verità, la vita…” ai suoi toccava andare “per le strade” ad annunciarlo, a “insegnare le cose del Padre mio”. Ma siccome Ciotti è capitato in epoca materialista (infatti ripropone il “Gesù rivoluzionario” tipico degli anni ’60 e dell’agnosticismo), le cose si sono ribaltate: strada e asfalto son diventati “maestri”, Cristo un semplice passante. E uno sconosciuto. Mentre invece era Lui la Strada. E la vita. La sola salvezza possibile. Non l’antropocentrismo ideologico del Nostro. Se c’è una cosa che dalla bocca di Ciotti non s’è mai sentita è questa: “E’ peccato”. Proprio non manda giù l’idea che il singolo possa avere dei peccati, delle colpe agli occhi di Dio e che possa pagare per queste; che ci sia un Giudice Supremo diverso dal pubblico ministero. È proprio l’idea di peccato individuale che gli è estranea. Il libero arbitrio gli va bene per tutto, lo applica a tutto, ne fa uso abbondante egli stesso, è tutto un arbitrio Ciotti; però nel peccato no, l’uomo-individuo non pecca secondo “libero arbitrio”: “è la società che pecca”… anzi no (ha abolito pure la parola “peccato”) commette “ingiustizie”; è la società “che è sbagliata”, in ogni caso “è colpa della società” (quella che non vota comunista, almeno). Mai si dica che l’individuo “ha sbagliato”, peggio di peggio poi “ha peccato”, “ha scelto” liberamente di peccare.
LADRI BENEFATTORI E DERUBATI LADRI. VI RACCONTO UNA STORIELLA (PARADOSSALE E SATIRICA) SU DON CIOTTI. Se ti entra un ladro in casa, ti svuota casa, ti bastona il nonno: è colpa tua, pezzo di merda!, merdaccia che bivacchi e ti abbeveri in questo cesso di società!, sei tu che hai ridotto quel “poveraccio”, quella “vittima della società” a entrarti in casa, derubarti di tutto, bastonarti il nonnetto magari pure reduce della RSI (e un po’, quindi, se lo meritava!) e andarsi poi a ubriacare con gli amici gaglioffi, ossia le “altre vittime”. Sai che c’è di nuovo? Te lo dice un don Ciotti, uno che impara dalla strada invece che insegnare la retta via a quelli che per strada, quella sbagliata, ci stanno: sei tu il ladro, sei tu il bastonatore di tuo nonno; dovresti vergognarti e chiedere scusa al ladro bastonatore di tuo nonno, e se proprio vuoi essere perfetto, purgarti del tuo “peccato sociale” (tale perché nella società ci vivi), dovresti rendere al ladro pure quello che non ti ha ancora rubato, perché il possederlo da parte tua è un “furto”, verso tutte le altre “vittime della società”. Ossia tutti gli altri ladri. Ovvero, sei tu, in fondo, che hai rubato in casa dei ladri… perdon… delle “vittime della società”. Non è manco più il tuo un “peccato sociale”. È proprio mafia! Sei un mafioso. Cornuto e mazziato, dunque. La domanda curiosa che ti fai su questa de-forma mentis clericale ferma a sociologismi radical anni ’70, è una: perché tali principi di “vittimismo” sociale validi per qualsiasi criminale (o detta alla cattolica: peccatore), non possono valere, a sentire Ciotti, anche per la criminalità organizzata, per i mafiosi, appunto? Non sono criminali e dunque “vittime” l’uno e gli altri, il ladro e il mafioso? Perché no? Del resto, secondo dottrina cattolica entrambi violano lo stesso Decalogo, entrambi altro non sono che peccatori… e in questo il cattolicesimo è molto “democratico”. Perché no, Ciottino-ino-ino? Io un sospetto lo avrei, me che sono di natura maligna (realista): la mafia ha fama di essere anticomunista; un tempo persino d’essere “democristiana”; poi – dicono gli ex sputtanatori di Falcone vivo, ossia la sinistra al caviale che da morto ne ha fatto bandiera – divenne “berlusconiana”. Ha fama, cioè, di farsela coi “potenti”. Tutte cose che il Ciotti dovrebbe avere in gran dispitto. Dovrebbe. Ma pure lui, Ciotti, a suo modo è un “potente”: la potenza oggi non è data più solo dai soldi e dalle poltrone, ma dalla visibilità mediatica e dal servilismo plaudente (e ipocrita) dell’establishment televisivo nei tuoi confronti. È o non è il Ciotti un nuovo potente, “intoccabile” da qualsiasi schermo o palco appaia, qualunque cosa dica (ché poi: dice sempre le stesse cose)? È vero o no che per diventare un “intoccabile televisivo” del genere devi essere messo a contratto dalla sinistra radical-chic che di quella fanghiglia è padrona gelosa? È o non è sempre sotto telecamera? È o non è sempre in compagnia di potenti, purché comunisti o almeno catto-comunisti? Non sono i suoi commensali abituali ormai?
IL DOLCE & (VOLTA)GABBANA DELLA CHIESA: DON CIOTTI. IL CAPPELLAIO… OPS… IL CAPPELLANO DELLE MODE.
Fine anni ’60. Per via dell’anarchismo “antiautoritario” e “antirepressivo” del ’68, in quegli anni era di gran moda la questione “abolizione del carcere”, da sostituire (diceva l’ideologo radical-chic) con “pene alternative”. Subito Ciotti se ne appassiona e fonda gruppi alternativi al carcere minorile per il “recupero dei piccoli carcerati” che spesso avevano un curriculum criminale poco sotto quello di Riina. Erano “vittime della società”. E fu la prima moda che condivise il suo talamo: tanto di applausi mondani e dell’intellighenzia radical ne derivarono. Poi la moda “abolizionista” decadde e Ciotti passò ad altro.
Primi anni ’70. Anni di piombo. L’ultima moda erano l’operaismo (in genere aizzato dalla ricca, balorda, annoiata borghesia radical, come eccentricità d’alta società) e le più assurde “rivendicazioni sindacali”. Torino ne era il sanguinoso epicentro. Il Ciottino si beccò la passione degli “operai”. Fondò associazioni e s’incoronò presidente. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Poi passarono di moda pure questi, e lui li abbandonò al loro destino, che era diventato terrorismo, nel frattempo.
Sul finire degli anni ’70. Dopo la sbornia anarcoide e marxista immaginaria del ’68, se ne ebbero i primi frutti fra quei giovincelli generosi “contestatori”: oltre al terrorismo portarono in Italia anche la “moda” e le abitudini “culinarie” dei figli dei fiori (oppiacei) d’oltreoceano: droga a colazione, pranzo e cena. Comparvero i primi tossici italiani, ex contestatori del sistema. L’ultimo Maritain, quello considerato “pessimista”, “e perciò rimosso”, scrive Messori, all’apparire di questo fenomeno fra la satolla (di pane e ideologie arruffone) gioventù d’Occidente, disse una cosa profonda e atroce, atroce perché vera, “profetica” direbbero i progressisti se non fosse null’altro che una constatazione: “Quel buco è il sacramento di Satana. E’ la cresima, è l’effusione dello spirito di una cultura che ha preso congedo dal Cristo per volgersi all’Ingannatore”. Tutte queste cose non disse e tantomeno pensò il Ciotti. Troppo affaccendato in chiacchiere, affari e presidenze pluripremiate, per pensare all’essenziale delle cose. L’affare era grosso, guadagnava ormai le prime pagine dei giornali, si facevano inchieste di grido, faceva notizia, insomma. Ciotti non se lo fece ripetere due volte: ci si buttò a capofitto, fondò associazioni, se ne incoronò presidente. I risultati sono dubbi, e più che altro contraddittori. Ossia al fondo c’era sempre e solo l’ideologia radical di Ciotti, il vero motore del suo chiacchierificio itinerante buonista e indignato speciale di professione; mentre tutto il resto era carrozzeria, pretesto e contorno, foglia di fico sulle vergogne. Illustrazioni di copertina del suo personale Capitale all’amatriciana. Leggo da una biografia del Nostro: “In quegli stessi anni, all’accoglienza delle persone in difficoltà l’Associazione comincia ad affiancare l’impegno culturale (con un centro studi, una casa editrice e l’“Università della strada”) e, in senso lato, politico, per costruire diritti e giustizia sociale, con mobilitazioni come quella che nel 1975 porta alla prima legge italiana non repressiva sull’uso di droghe, la 685”. Paraponziponzipò! Per aiutare i drogati, la prima cosa che questa anima bella propose, fu una “legge non repressiva” sull’uso di droghe. Pannella non avrebbe saputo fare di meglio. Come dire? Ci sono troppi malati di cancro ai polmoni in giro? Bene, abbassiamo il prezzo delle sigarette. I primi risultati di questo buonismo vittimista si videro un quinquennio dopo, quando in Italia scoppiò una vera pandemia di tossicodipendenza. Naturaliter: l’intellighenzia mondana e radical-chic, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Ciotti era ormai una star. Sulla pelle di chi lo divenne non sappiamo.
Con il primo lustro degli anni ’80 venne dopo la sbornia di “comunismo” al sangue, la sbornia di consumismo alla puttanesca. Con questo dilagarono sì i vizi tipici dei nuovi sazi e indifferenti, alcol, gioco e droghe (come risultato ultimo delle prediche “libertarie” radical post-68) e ottenevano i galloni della cronaca i “drogati” e i loro “recuperatori”. Venne pure dell’altro, però: il clima euforico e orgiastico, il culto del sesso sfrenato e promiscuo, nel quale il massimo della gloria effimera, della sbornia e quindi dell’indecente capovolgimento del mondo la raggiunsero gli omosessuali, nuova rumorosa e attivissima setta pagana. Che nel cuore di Ciotti dovevano immediatamente avere il sopravvento sui drogati. Infatti, manco fece in tempo a scoppiare, facendo un boato immane su tutti i media del mondo, la peste del XX secolo, l’Aids, che subito Ciotti ne divenne un “appassionato”, un santo patrono, la ennesima “voce dei senza voce” (con tutte le categorie sociali alle quali crede di aver dato “voce”, potrebbe doppiare l’intero cast di un film colossal del cinema muto). Qui pure, come aveva dato “voce” a tutti gli altri: con le chiacchiere e i tour di chiacchiere in giro per l’Italia. A confermare i “senza voce” nel loro errore, e, se battevano la strada, a “prendere lezioni da loro invece che insegnare”, senza mai affrontare la scaturigine di quell’epidemia mortifera. Ossia il peccato, quello contronatura in questo caso, la sessuomania di massa, che proprio i modaioli maitre a penser radical-chic avevano predicato e propiziato dal ’68. I risultati ultimi ora erano sotto gli occhi di tutti: ma Ciotti vedeva solo questi, ignorando come sempre le cause prime: un gatto che si morde la coda. E al solito fondò associazioni e se ne incoronò presidente. L’intellighenzia mondana, radical-chic, la stessa responsabile ideologica di questa strage, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte.
Poi viene il 1988. E diventa abortista. Se andaste a scovare le ciottate di quegli anni ne provereste brividi: posa il suo bacio bavoso su tutte le più infami mode ideologiche del tempo, indossa tutte le più spettrali, e melense al contempo, svergognate maschere dell’epoca, e diventa femminista, abortista, contraccettivista, divorzista. Ma sempre per “solidarietà umana”, è chiaro. Come i peggiori radicali, approfittando del dramma dell’Aids, fa sciacallaggio pro contraccezione, pro aborto, pro aborto selettivo: tutto questo, al solito, per “solidarietà”, per la “bella idea” dell’ideologo, per “buonismo”. Quella solidarietà, quella bella idea, quel buonismo che senza rimorso alcuno ora gli fanno sostenere il diritto di scelta per una donna di abortire un figlio malato; “per rispetto umano” verso i sieropositivi si mette a propugnare le più “umanitarie” teorie sull’aborto selettivo, che poi erano le stesse teorizzate e applicate dai nazisti (ché però quelli almeno ad un certo punto ebbero scrupoli, e si sottrassero: don Ciotti e gli abortisti no). Così così così arriva, con l’ambiguità tipica del Maligno che mescola la verità alla menzogna, ad ammettere che “abortire i bambini che potrebbero nascere sieropositivi è una possibilità che deve essere riconosciuta a una donna”. E poi naturalmente per “eliminare alla radice” il problema, cioè uccidere bambino e sieropositività, buttare bambino e acqua sporca. Ma non si rende conto che proprio la “radice”, proprio quella è il problema, non le fronde, la sieropositività: quella “radice” che questo prete vorrebbe “recidere” è la vita umana stessa, la maestà di Dio su di essa. Ma che prete è questo? Per chi lavora? Come fa a parlare così? Ah, non è affar suo dice lui, lui riconosce che v’è “una pluralità di vedute” e per non offenderne alcuna, non intende affermare quella della Chiesa. Che poi non è manco quella di Ciotti. Lui, intanto, “riconoscendo la pluralità di vedute” se ne sta in ogni organizzazione “umanitaria” fuori e radicale e abortista dentro: per dare “speranza”, pur nella “pluralità di vedute”. “Speranza” basata su cosa non è dato sapere. Il Nostro, racconta Luigi, un testimone di allora, “fece molte interviste pro contraccettivi e surrettiziamente pro aborto. Allora io scrissi ad Avvenire protestando: il direttore in persona mi onorò con una sua risposta in cui mi disse che ero inutilmente severo…”. Guardate, il discorso, giunti a questo punto, mi fa tanto schifo che lascio a voi la facoltà di approfondirlo cliccando sui ritagli di giornale del 1988 che l’amico Guido mi ha gentilmente mandato, sapendo che stavo affrontando questo articolo. Ma se proprio volete saperne di più sulle schifose prese di posizione su questi temi del Ciotti, nel fragore degli applausi delle sue platee di post-cristiani, post-comunisti, vetero-radicali, leggete online questo resoconto agghiacciante di Vittorio Agnoletto.
E siamo già a cavallo fra anni ’80 e ’90. Cominciò a scemare sui media l’interesse per drogati e sieropositivi, ed entrambi cominciavano a subire un “calo fisiologico”, che li rendeva ormai poco numerosi e perciò ancor meno appetibili. Dai media. Don Ciotti cercava altri stimoli mondani. Che infatti vennero sicuri come la morte. Iniziarono i primi flussi migratori, sino al botto scuro della nave che rovesciò miriadi di albanesi sulle coste di Brindisi. Che scappavano dai rottami di quel comunismo “nuovo” ossia “maoista” del quale proprio quelli come Ciotti & compagni radical-chic, qualche anno prima s’erano fatti cantori e sponsor, come “non plus ultra di civiltà” (era passata di moda la loro vecchia passione per l’Urss come paradiso terrestre e modello da imitare, anche per la Chiesa). Che ve lo dico a fa’? Ciotti subito andò in prima linea col suo solito armamentario chiacchierone: tour di convegni in giro a spiegarci quanto erano belli buoni e bravi i clandestini, e più ce n’erano meglio era; i soliti numeri verdi e telefoni amici, le solite leghe, associazioni e l’auto-incoronazione napoleonica del Ciotti a loro presidente-imperatore. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Ma dopo un po’, pure questa “moda” buonista con relativa retorica dell’accoglienza a prescindere, che aveva saturato tutti i media, i pulpiti e la bocca dei Ciotti e dei Tonino Bello, cominciò a scemare. Specie quando si vide che questa stessa retorica altro non aveva prodotto che un’infornata pazzesca di criminalità organizzata che invase tutte le città e che ancora scuote e insanguina la pacifica penisola e la sicurezza dei troppo generosi italiani. Generosità che nel frattempo, giustamente, s’era trasformata in risentimento.
Sentendo puzza di bruciato, mancando ormai di stimoli e di visibilità, don Ciotti stava col dito umido per aria per captare che altra corrente modaiola spirasse. Uomo fortunato, e contraddittorio, la trovò subito bella e pronta.
Contraddittorio, sì. Se è vero che alle sue spalle ora si lasciava la moltiplicazione di pani e pesci dell’immigrazione clandestina indiscriminata e persino aizzata; ossia un dilagare di manovalanza criminale anche al servizio delle mafie. E proprio adesso il Don, proprio lui, sta per buttarsi anema e core nell’oceano mediatico della “lotta”, a forza di mitragliate di logorrea, “alle mafie e alla criminalità” organizzate. Contraddittorio… Ma tant’è! Lo dico con un sorriso: sembra che prima di imbracciare una nuova moda solidaristica, si premuri, negli anni che la precedono, di coltivarne la potenziale clientela con cui “solidarizzare”. Fateci caso: per un tot di anni, come ogni radical, predica per una presunta “buona” cosa, poi quella cosa accade davvero e puntualmente è un disastro, dunque da predicatore diventa infermiere dello stesso male che ha coltivato (in buona fede, spero). Un ideologo consumato!
E infatti siamo nel 1992. Salta in aria il giudice Falcone e poi Borsellino: ne deriva un immane e giusto clamore, non sempre sincero (e mai da dove te l’aspetti) da parte di troppi . È l’argomento di fine secolo. E qui Ciotti darà il meglio e dunque, alla fine, il peggio di sé. Fonda Libera, e inizia allora un chiacchiericcio che dura da vent’anni. Ma siccome spesso manca di pretesti per gridare “al lupo al lupo”, alla fine è diventato una specie di don Villa dell’antimafia delle chiacchiere: come don Villa vede massoneria dappertutto foss’anche in un circo equestre, alla stessa maniera il Nostro grida “è mafia è mafia”, anche dinanzi a un petardo natalizio. Purché se ne parli. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaude e molteplici volte lo premia. Ormai è un abbonato speciale.
IL RADICAL-CIOTTISMO PORTA INFINE LADDOVE DALL’INIZIO ERA STABILITO DOVESSE PORTARE: ALLA RELIGIONE CIVILE. Tuttavia nel nuovo millennio pure la mafiologia e la mafiopolite acuta da talk-show, l’antimafia delle chiacchiere, ha cominciato a scricchiolare, almeno nell’interesse dei media. Vuoi perché i successori di Falcone e Borsellino erano palesemente indegni e marchiati a sangue di ideologia radical-comunista, e la lotta alla mafia è rimasta tale solo sulla carta diventando invece nei fatti un gioco sporco al massacro di lobby togate estremiste ai danni di Berlusconi; vuoi anche perché il fenomeno mafioso, almeno in Sicilia, per così come lo abbiamo conosciuto sta mostrando un fisiologico calo di peso, un ridimensionamento e una trasformazione, essendo prossimo a diventare qualcosa d’altro, per ragioni che non sto qui a spiegare. E allora, stante tutte queste magre vacche mediatiche, Ciotti ha rimesso il dito per aria per capire dove tirava il vento giornalistico. E in men che non si dica… l’ha indovinato.
Porta laddove sin dalle origini era stabilito dovesse portare, perché era inscritto nel suo Dna, l’ideologia radical-ciottista, fatta passare per clericato “impegnato”. Alla religione civile. Al culto del dio Stato; al feticcio della Costituzione; all’estremismo legalista; alle liturgie politiche; alla sociologia come nuova teologia. All’ideologia che è alla base della fine della civiltà cristiana: quella sorta dalla Rivoluzione Francese. Con tutto il corollario trombone ma pericoloso che ne deriva: mondialismo, ecologismo, monetarismo, pacifismo da paci-finti, umanitarismo ateo e peloso, filantropismo rapace ed esibizionista. È scritto ne Il Nome della Rosa: “Il Diavolo sa dove va, e andando va sempre da dove è venuto”. Perciò le mode del mondo, ossia le ideologie, anche clericali, sono la Sua strada e il Suo arco trionfale. E il trionfo di chi ne viene a patti. Quei “falsi trionfi” dettati dalle mode, che sono lo spirito del mondo e lo spirito del mondo è Lucifero, e che hanno la forza di far perdere la testa ai saggi ai potenti ai preti. “Trionfi” contro i quali Gesù stesso ci metteva in guardia. Lo stesso Gesù che ripetutamente nei vangeli ci ammonisce a guardarci dalla “gloria del mondo”, perché è un inganno. Soprattutto perché non è questo il destino del cristiano; poiché, ha predetto il Signore, il suo destino vero sarà sempre, fino alla fine dei tempi, la persecuzione e il martirio, l’infamia e non gli onori del mondo. “Hanno perseguitato me: perseguiteranno anche voi. Ma io vi dico: beati voi quando a causa mia diranno di voi, mentendo, ogni sorta di male”. Da questo si può discernere fra il vero e il finto cristiano, fra il vero servo di Dio e il servo del Mondo, fra l’agnello e il lupo travestito da agnello.
DIFFIDATE DEI PRETI PIENI DI PATACCHE . Io l’ho per regola. Diffido sempre di quei (rari, va detto) cattolici che sono ospiti “d’onore” ovunque, travolti da applausi, specie da parte di chi più è lontano dalla Chiesa, dai suoi nemici più spietati talora; diffido dei preti invitati a tutte le trasmissioni e a tutti i convegni, premiati con ogni patacca e in ogni circostanza pacchiana. Lì qualcuno sta barando: la gloria del mondo ha per compagna la menzogna. E poi la “tristezza”, dice l’Ecclesiaste. Mi fido dei martiri e dei perseguitati, dei preti umiliati a causa della loro fede, di coloro che parlando delle cose sante suscitano scalpore, sdegno, rifiuto, oltraggio dal mondo. Non dei pavoni che fanno sempre la ruota nel giardino zoologico dei preti da baraccone per la gioia del documentarista e per arruffianarsi la sazia apostasia di questo mondo che prima si è fatto nemico e poi estraneo a Dio. Lo spirito del mondo, le mode ideologiche, sono un’attrazione irresistibile per Ciotti. Questo intendo dire quando ribatto al suo definirsi “prete di strada” con un “prete da marciapiede”. Badate, non sono così cretino da mendicare in giro querele che a questo punto sarei io stesso a consigliare alla parte “offesa”: non intendo dire che don Ciotti è una puttana o una persona di costumi equivoci (e anzi, da quel punto di vista lì – spero di non sbagliarmi – credo sia stato sempre pulito). Niente di tutto questo. Intendo dire proprio che sta sul marciapiede ad aspettare che passino le carrozze con a bordo le nuove mode ideologiche: andrà con quella che offre di più. “La gloria del mondo ha per compagna la tristezza”, dice l’Ecclesiaste, dunque. Al momento, però, il Nostro ci pare abbastanza su di giri. Lo è da 40 anni.
LA MOSCA SARCOFAGA . Stavo vedendo uno dei brutti film horror anni ’70 di Dario Argento. In uno, un tale, una specie di sbirro, alleva delle grosse mosche sarcofaghe, o meglio: la mosca sarcophaga carnaria. Ora, chi come me s’intende di medicina legale e fenomeni cadaverici, sa che questa strana mosca è affamata di cadaveri, ne è la principale cliente e devastatrice: ci depone sopra le sue larve. Ma soprattutto ha un fiuto infallibile nello scovarli. Ecco perché lo strano sbirro le allevava: liberandole e inseguendole, riusciva a ritrovare nei boschi i corpi degli assassinati. M’è saltato in mente don Ciotti: pure lui appena succede qualche plateale e misterioso fatto di sangue, da Roma in giù, non si sa come questo qui mezz’ora dopo è già sul posto. Naturalmente, subito dopo i fotografi. Più fulmineo delle mosche sarcofaghe. E, in tutto questo macello di Brindisi, non poteva che piombare come mosca sarcofaga sul luogo della tragedia, don Ciotti, con la sua “Carovana” carioca, di post-cattolici, post-comunisti, post-femministi, post-brigatisti, post-figli dei fiori, post-conciliaristi, post-preti, post-italiani, post-tutto. Il carro variopinto degli hobbisti dell’antimafia delle chiacchiere, con i loro slogan a misura unica, unisex e buoni per tutte le stagioni: per protestare indistintamente e con la stessa disinvoltura, a suon di chiacchiere, contro la mafia immaginaria, contro i terroristi, la guerra, la pena di morte, il carcere, il capitalismo, Berlusconi, il fascismo, l’antisemitismo, per la “pace” (da quando non c’è più l’Urss a invadere paesi inermi, almeno… da quei paci-finti che sono), l’acqua, il vino, la pagnotta, la patonza… per tutti, meno pene ai carcerati, più pene ai mafiosi, più pene e basta, più marce e meno messe (e forse, visto il senso della liturgia del Nostro, è pure meglio), più “strada” e meno altare. Ma la cosa che fa più ridere di questi professionisti del carnevale permanente e di questo post-prete, don Ciotti e i suoi fratelli e fratelle, è una in particolare. Che sinistramente schiamazzanti come avvoltoi piombano in tempo reale laddove sentono odor di carne bruciata, non importa se umana o da kebab o da arrosto di fiera della porchetta. È ininfluente. Loro imperterriti ci piombano addosso, la impugnano con gli artigli, la sollevano in aria sventolandola e qualunque cosa sia, foss’anche un gatto morto, a prescindere, si mettono isterici a gracchiare “è mafia!”; e via con gli stessi slogan, le stesse sentenze apocalittiche, le stesse soluzioni ideologiche, le stesse frasi ad effetto (lassativo), gli stessi cartelli appesi al collo usati per qualsiasi altro evento negli anni passati, magari contro Berlusconi: “E adesso uccideteci tutti!”, “La mafia uccide, il silenzio anche”, per tacer dei barattolini Manzoni-style con su scritto “La mafia è merda”.
IL SILENZIO SE NON TI “UCCIDE”, TI EVITA MOLTE FIGURE DI MERDA. Tuttavia, molte volte, il silenzio se non ti “uccide” ti evita molte figure di… merda, giacché siamo in tema. E non è un caso che appena il Ciotti ha saputo che c’era “carne sul fuoco” a Brindisi, non si sa come, in pochi minuti ci è atterrato su, gridando ai quattro venti: “Mafia! È mafia! La mafia uccide! Il silenzio pure! Venite allo scoperto mafiosi!”. Ancora si dovevano spegnere le fiamme, che lui già denunciava a tutti i microfoni “l’omertà” della popolazione brindisina che, appena sveglia e stordita com’era per il botto, non riusciva a capire manco cosa fosse successo. Anche quando già da subito a tutti era evidente che la Sacra Corona non c’entrava una mazza perché non erano cose che rientrassero nel suo stile quelle, né aveva la forza politica ed economica per osare tanto, il Nostro non ha desistito: non avendo da trent’anni altri slogan, passando solo questo il convento, essendo solo quello il suo repertorio circense, lo usa indiscriminatamente ad ogni replica e in ogni situazione: “Mafia purchessia!”. Però siccome il senso del ridicolo, infine, lo ha pure lui, ha annacquato dopo 24 ore il “sola Mafia” (variante del “Sola Scriptura” di Lutero) con “e anche la massoneria”. A quel punto non restava che ridere! Se non altro perché la prassi politicamente corretta e la filantropia pelosa di Ciotti, nel quale ogni residuo di Dio cristiano scompare nel solo umano, anzi, nel solo sociale, disciolto nell’acido della “società civile” insomma, altro non è che la quintessenza, la realizzazione pratica manu sacerdotali delle più viete teorie della più classica massoneria.
CIOTTI GRIDA “E’ MAFIA!”. MA I GIUDICI CHIEDONO AIUTO PROPRIO ALLA MAFIA. La situazione diventa ancora più paradossale se si pensa che la stessa (non sai se più stravagante o imprudente) magistratura pugliese, attraverso il procuratore Cataldo Motta, che – almeno dicono – essere il “massimo esperto di questo fenomeno criminale” (la Sacra Corona Unita), cioè ha (papale papale) chiesto alla mafietta pugliese di “collaborare” in qualche modo con la giustizia per scovare gli attentatori. Non basta. Mentre il prete con la “carovana” ancora sbraita a destra e manca, “mafia… omertà… c’è la mafia e pure un poco di massoneria”, mentre avviene tutta questa pretesca ridicola sceneggiata, avviene pure un’altra cosa. Vi leggo dal giornale: “Raffaele Brandi, ritenuto uno dei capi più rappresentativi della frangia brindisina della Sacra Corona Unita, ha avvicinato il caposcorta del pm Milto de Nozza e gli ha comunicato non solo che la SCU non c’entra ma che si muove in parallelo alla giustizia. ‘Dite al procuratore che se li prendiamo noi gli attentatori, ce li mangiamo vivi, è questo il messaggio’”. E mò? Che dire? Mentre don Ciotti straparla di “mafie”, pure il capo della Sacra Corona Unita “cerca il colpevole”. E lo va a dire direttamente al capo della scorta del procuratore di Brindisi De Nozza. Oltre a notare che dinanzi ai teledrammi (che non sono mai il dramma vero) tutte le istituzioni dello Stato italiano, mafie comprese, sono unite; oltre a capire che tutti hanno capito che il colpevole deve essere un pazzo isolato che non conta una mazza; oltre tutto questo, viene da domandare una cosa, al caro Milto de Nozza in primis: a Brindisi esiste ancora il reato di associazione mafiosa? Siamo o non siamo qui in presenza di un capomafia reo-confesso? Non è per arrestare questi qui che gli paghiamo la scorta? E allora: perché è a piede libero il capomafia di Brindisi? Dunque, dinanzi a tutto questo, a questi professionisti, a questi acchiappafantasmi dell’antimafia delle chiacchiere, che precipitano ogni tragedia in farsa e in carnevale… ma come fai a no ride’?
SE PER L’INCHIESTA JACINI AL SUD “TUTTO È AFRICA” PER CIOTTI “TUTTO È MAFIA”. Ma don Ciotti non ride. Insiste. Celebra la messa – se così posso chiamarla – a Mesagne, presente il povero padre della vittima. Dal pulpito urla, sbraiti, tempeste di slogan antimafia; sussultano ammutoliti i tabernacoli e le incolpevoli sacre statue, al gracchiare del prete “da strada”, del cappellano degli acchiappafantasmi contro l’immaginaria “omertà” (a indagini in corso) del popolo brindisino. Anche ora che è chiaro non c’entri nulla la mafia, che anzi è oltremodo, oltre la legalità persino, collaborazionista; ora che tutti cominciano a vedere chiaro che di qualche psicopatico deve essersi trattato.
Mentre accade tutto questo ti chiedi cosa centri questo post-prete con Mesagne? E quell’omelia, se così posso chiamarla, col solito bollito misto riscaldato, che c’entra con Mesagne, Brindisi, Melissa? “La malattia da sconfiggere è l’indifferenza” dice il presidente di Libera, nella piazza di Mesagne dove ha fatto tappa la Carovana contro tutte le mafie, Berlusconi compreso, è chiaro. “La forza sta in chi si rialza, e noi ci rialzeremo”. “Il problema della criminalità, della mafia, della massoneria è un problema di tutti ed ecco perché la Carovana continuerà a ‘sgrattare’ le coscienze”. Poi ha invitato tutti a “non avere paura”: “Bisogna evitare che tutto diventi terrore, paura, è necessario reagire”. Mafia? Massoneria? Omertà? Ma cosa crede questo acchiappafantasmi che Mesagne sia El Salvador? Giacché è un torinese, come tutti i torinesi dabbene per quanto “da strada”, crede che da Roma in giù, tutto quello che si incontra, fosse anche un vigile urbano, tutto è mafia. Da vero epigono dell’altro nordico, Stefano Jacini, quello dell’Inchiesta meridionale famigerata e insolente, che andando al Sud era convinto di trovarci l’Africa, e tanto ne era convinto che standoci altro non vedeva che “Africa” davvero, e dopo esserci stato, tornando a Torino, scrisse nell’Inchiesta parlamentare: “E’ Africa! Anzi, no: l’Africa al confronto è fior di civiltà”. Sono invasati da strisciante razzismo tutto torinese e dai più vieti e spocchiosi pregiudizi sebbene spacciati per compassionevoli, e non se ne rendono conto. “Omertà” poi… Se c’è mai luogo dove si fa più chiasso intorno a ‘sta roba è proprio la Puglia! Basti pensare ai casi di Avetrana, dei fratellini di Gravina, della piccola Maria Geusa, solo per citare i più noti. “Omertà”, “indifferenza”, dice: se i brindisini davvero sapessero chi è il colpevole dell’attentato, lo andrebbero a prelevare e lo squarterebbero vivo. Persino la mafietta locale ha garantito farebbe lo stesso. Tutto ‘sto solito casino parolaio, tutte queste carovanate, per una tragedia provocata da nient’altro (a quanto pare) che un matto! Se vai da don Ciotti e gli dici, “sai chi è stato? Uno psicopatico”. Sapete cosa dirà don Ciotti, appena individua una telecamera? “E’ il clima mafioso che genera questa follia!”. È un po’ come i medici ciarlatani degli anni ’30, che per qualsiasi malattia, dalla febbre alla varicella al cancro maligno, prescrivevano sempre e solo una cura: una purghetta di olio di ricino. Così come pure, qualsiasi fossero i sintomi psicosomatici, la malattia che diagnosticavano aveva un solo nome: “esaurimento nervoso”. Così Don Ciotti, qualsiasi cosa accada, ovunque accada, in qualsiasi forma accada, anche un incidente stradale, ha una sola diagnosi: “mafia!”; e una sola cura: “antimafia!”… della chiacchiere. Che permettono di fare pubblicità in ogni caso alla sua florida e ricca creatura: l’associazione Libera.
CIOTTI SI SCUSA: GLI È SCAPPATA UNA PAROLACCIA: HA CITATO GESÙ. Mi raccontava un mio amico veneto, Federico: “E’ venuto a parlare da noi don Ciotti. Sono andato a sentirlo per curiosità. Ha fatto un sacco di chiacchiere, ha detto un sacco di parole a getto continuo e a ruota libera, cose che poteva dire qualsiasi laico, laicista persino. Ad un certo punto si è bloccato, è sembrato vacillare, incerto e ha detto timidamente: ‘Vi chiedo scusa se mi permetto di citare per una volta una frase di Gesù’”. Lui, prete, si è scusato per essersi fatto scappare una frase di Gesù invece che di Gaetano Salvemini! Sì è scusato per l’eventuale equivoco e confusione che avrebbe potuto ingenerare nella folla di comunisti trinariciuti, arcobalenisti, pacifinti, cattolici adult(erat)i e post-cattolici adult(erin)i, dicendo qualcosa di cristiano, invece che, magari, di sociologia fatta in canonica; se ha citato Cristo, invece che, chessò, il Dalai Lama. La verità è che è un uomo e un prete nato vecchio, è il seminarista sessantottino di sempre, progressista ma non aggiornato: è fermo ad arrugginiti luoghi comuni e sulfurei schematismi ideologici degli anni ’70. Quella poltiglia di “buoni sentimenti” e “sensibilità sociali”, umori viscerali e sociologismi, classisti e al contempo umanitaristi, che, proprio in quegli anni, nella Chiesa si trasmutarono in apostasia, con i preti contestatori; nella politica, in proiettili, con i terroristi: i primi volevano “liberare” la Chiesa e la “coscienza individuale”, i secondi il “popolo” e la “coscienza operaia”. Gli uni demolirono mezza Chiesa, gli altri mezzo Stato. Nel sangue molto spesso. E infatti vedi che in alcune nazioni, i primi si unirono ai secondi: ne nacquero i preti guerriglieri. E chiamarono tutto questo “teologia della liberazione”. Oggi abbiamo Libera. Dice l’amico Francesco da Bari: “Mafioso e omertoso. Per Libera questi termini equivalgono ad eretico e scomunicato, laddove invece legalitario ha preso il posto di santo, e sull’ambone invece che le Scritture trovi il codice penale. Il Padre eterno non è il Giudice, è un semplice presidente di corte d’Assise”. Sì, è vero. Come è vero che nella sua logorrea incontenibile, in questi 40 anni, c’è una sola parola che Ciotti non ha mai usato: “Cristo”. Abbiamo visto: gli è scappata una sola volta e se n’è scusato. Ma è un’altra la parola che non gli è mai “scappata”, che proprio non riesce a pronunciare, gli si blocca in gola: “peccato”! E tutto quello che ne deriva: pentimento, penitenza, conversione. E pur di non pronunciarla mai ha sostituito la parola “peccato” con quella di “reato”, “peccatori” con “mafiosi”, “colpa” con “imputato”, “confessore” con “magistrato”, “penitenza” con “pena”, “comandamenti” con “codice penale”, “legge divina” con “costituzione”, “convertito” con “pentito o collaboratore di giustizia”. Per lui, fermo com’è agli schemi arrugginiti degli anni ’70, non esiste il peccato individuale, ma solo la “colpa sociale”. Per questo, per non dover usare la parola “peccato” si è messo a marciare, ha sostituito le messe con le marce, la Chiesa con Libera, la coscienza cristiana con la coscienza civile (ridotta a farsa pure questa). Ed è così che gli sfugge la vera madre di tutti gli eccessi, l’origine d’ogni male: il Peccato. Che egli ha abolito motu proprio. Come mi scrive un mio amico, Vincenzo, riferendosi sardonico al Nostro: “Ma che confessione… non c’è bisogno: basta una chiacchierata mentre sei in un corteo!”.
DIO, IL GRANDE SCONOSCIUTO D’OCCIDENTE. Proprio adesso ascoltavo le parole del Papa, su Cristo che in Occidente è diventato il “Grande Sconosciuto”. E ho pensato al Ciotti che chiede scusa perché gli è scappato di citare Gesù. Dice Benedetto XVI: “Tanti battezzati hanno smarrito identità e appartenenza: non conoscono i contenuti essenziali della fede (…). E mentre molti guardano dubbiosi alle verità insegnate dalla Chiesa, altri riducono il Regno di Dio ad alcuni grandi valori, che hanno certamente a che vedere con il Vangelo, ma che non riguardano ancora il nucleo centrale della fede cristiana. (…) Purtroppo, è proprio Dio a restare escluso dall’orizzonte di tante persone; e quando non incontra indifferenza, chiusura o rifiuto, il discorso su Dio lo si vuole comunque relegato nell’ambito soggettivo, ridotto a un fatto intimo e privato, marginalizzato dalla coscienza pubblica. Passa da questo abbandono, da questa mancata apertura al Trascendente, il cuore della crisi che ferisce l’Europa, che è crisi spirituale e morale: l’uomo pretende di avere un’identità compiuta semplicemente in se stesso. In questo contesto, come possiamo corrispondere alla responsabilità che ci è stata affidata dal Signore? (…) In un tempo nel quale Dio è diventato per molti il grande Sconosciuto e Gesù semplicemente un grande personaggio del passato, non ci sarà rilancio dell’azione missionaria senza il rinnovamento della qualità della nostra fede e della nostra preghiera; non saremo in grado di offrire risposte adeguate senza una nuova accoglienza del dono della Grazia; non sapremo conquistare gli uomini al Vangelo se non tornando noi stessi per primi a una profonda esperienza di Dio”.
“HO VISTO PEZZETTI DI CARNE SPARSI”. MA LO HA COLPITO SOLO “UN QUADERNO DI EDUCAZIONE CIVICA”. Due giorni dopo don Ciotti è a Cecina: essendo prete “da strada” batte tutti i marciapiedi della nazione. A parlare di se stesso. Dei suoi “secondo me”. Di fantasmi. Di carovane e associazioni acchiappafantasmi. Di Costituzione. Di tutto, meno che della sola cosa della quale dovrebbe parlare: di Cristo, del peccato, della conversione. Ho spesso informatori volontari, che mi si fanno vivi con notizie fresche che non ho richiesto ma che poi mi tornano sempre utili. Un amico di Cecina, infatti – dove il Ciotti è andato dopo Mesagne a “predicare” le meraviglie del costituzionalismo – mi manda un essenziale ed espressionista quadretto della situazione. Lascio a lui la parola. “Se ti interessa ieri il Ciotti ha raccontato un aneddoto sulla sua visita a Mesagne: ‘Ho chiesto alla scientifica di sorpassare l’area che avevano recintato, mi hanno fatto passare, sono rimasto impressionato dai pezzi di carne sparsi su tutto il piazzale, ma mi sono soffermato su un particolare: un quaderno scritto da una delle ragazze coinvolte nell’attentato, ho sfogliato le pagine ho trovato che avevano fatto una lezione sulla nostra Costituzione (aria commossa), sì, avete capito bene, avevano fatto lezione di educazione civica a scuola. È proprio da qui che il nostro paese deve ripartire‘. Standing ovation.” Chi ha ucciso, non ha violato l’apposito comandamento divino, no: ha violato la Costituzione; chi uccide non è un peccatore, ma un reo; non la dottrina, ma l’educazione civica. L’uomo si salva da sé attraverso le sue leggi e i suoi organigrammi, le sole cose che possano giudicare e salvare gli uomini. Dio è un attore impotente, e anzi, è giudicabile persino attraverso quelle stesse leggi. Se quelle leggi sono contro Dio, non sono sbagliate le leggi, è “sbagliato” o è stato “malinterpretato” Dio stesso. Cosa sta strisciando nelle vene di Ciotti, oltre al peccato di orgoglio, l’archetipo dei peccati, il primordiale, il primo che fu commesso e che ha lambito persino l’arcangelo Lucifero, precipitandolo dai cieli, e Adamo ed Eva, precipitandoli dal paradiso terrestre? Che cos’è a strisciare sibilante nelle sue vene se non il riemergere di antiche eresie, soprattutto gnostiche e pelagiane?
SOSTITUIRE IL DECALOGO CON LA COSTITUZIONE, IL CONFESSORE COL MAGISTRATO. Come avrete notato da voi stessi, non sembra particolarmente interessato ai “pezzetti di carne”: sono un dettaglio secondario ai suoi fini ideologici. Ciò che gli interessa è la Costituzione, il culto di quella carta giuridica che è il totem, il sancta sanctorum, il vitello d’oro dei nuovi pagani di oggi, i laicisti con corollario di post-preti “adulti” sino al punto di essere ormai anche post-cristiani. E qui viene fuori anche tutto il cinismo inconsapevole dell’ideologo. Erano un’occasione quei “pezzetti di carne” per riflettere e far riflettere sul Decalogo, sul peccato, la morte, gli assoluti. Ma no, gl’interessava impugnare il feticcio dell’ideologo, la “Carta”, la nuova Rivelazione: la Costituzione. Ossia una banalissima lezione scolastica di educazione civica in un istituto professionale, fatta alla meno peggio nell’ora prevista, immaginiamo nella totale catalessi degli studenti col pensiero rivolto alla campanella. Ma siccome il Nostro è un ideologo fermo agli anni ’70, non gli interessa la banale e demitizzante realtà dei fatti, il tran-tran quotidiano, le cose viste nella loro reale giusta misura, no: gli interessa la “bella idea”. E così nella sua testa dal capello sempre unto, quel quaderno di svogliati appunti della lezione di educazione civica, diventa una gran cosa, immagina studenti dall’acuto senso civico, novizi ardenti del neo-costituzionalismo pendenti dalle labbra dell’insegnante precario che gli annuncia le verità rivelate e le secrete cose che da quella Carta secernono. Immagina un popolo di giovani eroi, che, Costituzione alla mano, commossi e coraggiosi marciano invitti per tutta la nazione incontro alla Città del Sole, la nuova Gerusalemme della religione civile.
“NON IMPORTA CHI È DIO, MA DA CHE PARTE STA”. IL MANCATO LEADER SOCIALISTA. L’amico di Cecina, infatti, aggiunge: “Riassunto della serata: Culto della Costituzione, dello Stato, della democrazia, della legalità (tranne che per la Bossi-Fini) e soprattutto della Scuola (statale, ca va sans dire); dice cose condivisibili (no alla mafia, all’illegalità) e mi parla male di Eminenze e sottolinea che senza lavoro non si è liberi. Parla con un certo carisma e ha ottime doti di recitazione e buona oratoria: sarebbe stato un ottimo leader del Partito Socialista Italiano. Slogan della serata: Non importa sapere chi è Dio ma da che parte sta, cantato da un menestrello napoletano con voce solista di un sacerdote toscano di Libera”. Non importa chi è Dio, ma da che parte sta. Naturalmente, non avendo più nessun connotato, essendo Uno Nessuno Centomila, amorfo e sfigurato come l’hanno fatto diventare questi qui, non può che stare da qualunque parte lo si voglia portare, “trascinato da tutte le parti secondo ogni nuovo vento di dottrina”, dirà il cardinale Ratzinger alle esequie di Wojtyla. Per questo don Ciotti lo sente sempre dalla sua. Il suo dio minore non è altri che il “secondo me”, la cui rivelazione è contenuta nella carta costituzionale, nuovo libro sacro. Egli ne è il cappellano. Non è un caso che l’ultima volta che l’ho incontrato, è stato davanti alla bara del sommo pontefice della religione fatta di carta… costituzionale: Oscar Luigi Scalfaro.
QUEGLI STUDENTI CHE MARCIANO PER MARINARE LA SCUOLA LECITAMENTE: SENZA FANTASIA, SENZA SINCERITÀ. Vedo il tg e leggo l’Ansa a una settimana dalla tragedia di Brindisi. E noto con fastidio alcune cose. La prima è la canonicissima ennesima “marcia” all’italiana: la liturgia madre, la messa cantata del politicamente corretto di piazza, negli ultimi tempi. Che naturalmente si tiene nella città che ha dato i natali a me e a Melissa: Mesagne. Chi marcia sono gli studenti. E la prima cosa che ti domandi è se non sia (siamo realisti!) più un marinare la scuola e una scampagnata, per giunta illuminata da flash e telecamere. Basta fare un calcolo: una marcia che non significava niente e che pestava acqua nel mortaio, la si tiene un mattino di un giorno scolastico. Eppure potevano farla in un giorno festivo, o meglio ancora nel pomeriggio, quando le scuole son chiuse. E invece no. Quella marcia in cui dei brufoloni berciavano e blateravano di “mafia” senza una logica, un fondamento, e anzi con già pesanti indizi che la discolpavano del tutto, quella marcia lì priva di senso, un senso lo avrebbe avuto se il marciare avesse comportato anche un sacrificio: la mattina andare a scuola, il pomeriggio invece che andare in giro a cazzeggiare, impegnarlo per marciare. Così non è stato: dunque era, a mio avviso – ché studente brufolone pure io son stato, e ben le conosco queste babbiate – , un marinare la scuola. Con l’aggravante dell’ipocrisia. E del cinismo. Ma poi. Bastava guardare i loro slogan per capire che non erano sinceri: la solita roba usata da vent’anni in tutte le salse: “Io non ho paura”, “E adesso uccideteci tutti”, “La mafia è una montagna di merda”, “La mafia uccide, il silenzio pure” e bla bla bla. Slogan senza fantasia, solita frittata parolaia, solita minestra a merenda, pranzo e cena. Da qui t’accorgi che non erano sinceri: dalla mancanza di fantasia (oltre che dall’aver marinato la scuola). E’ quando le cose ti coinvolgono, le senti veramente, che la fantasia si scatena. Ma in questa stanca parata delle vanità? Questo usare a casaccio il solito repertorio ciottesco senza fare uno sforzo d’immaginazione, metterci del proprio, adattarlo al contesto, indica che non sapevano di che stessero parlando, che avvertivano l’artificiosità della situazione. Perché non erano sinceri. Sapevano bene che era tempesta in bicchier d’acqua, simulazione a uso e consumo dei media. Che di altro non si trattava che sindrome da marcite cronica, nella variante mediterranea di chiacchierite da antimafiosite mitomane.
È POLITICAMENTE SCORRETTO DIRE “LA MAFIA NON ESISTE”, ANCHE SE È VERO CHE NON ESISTE. Naturalmente, in questa marcia, c’era pure tutto il resto dell’armamentario giornalistico standard per i casi falsi o presunti di “mafia”. C’era pure in questa occasione un’altra volta don Ciotti a sbraitare nella Mesagne che mi ha visto nascere “contro la mafia”, “l’omertà”, “la gente che ha paura della mafia” e “tace”… e tace soprattutto perché di tutte quelle porcherie sopra elencate non ce n’è manco l’ombra, e quindi che deve dire? C’era pure l’immancabile altro classico della tv italiana, il solito giornalista imbecille e, direbbe Sgarbi, “raccomandato e rottinculo”, che accosta col microfono un povero vecchio che ignaro prende il sole davanti al BarSport a domandagli d’improvviso: “La mafia a Mesagne esiste?”. E quello cade dalle nuvole, ma avvertendo subliminalmente, dinanzi alla tirannia nazista del microfono sciacallo, che è politicamente scorretto dire che la mafia non c’è anche se è vero che non c’è, nell’imbarazzo tace, tanto se dicesse la verità, che la mafia a Mesagne non c’è non solo non sarebbe creduto, ma passerebbe pure per “omertoso”, forse “colluso” e certamente un poco “fascista”. E dalla sera alla mattina un contadino ottantenne che ha lavorato onestamente la terra per una vita, si troverebbe “uomo d’onore”; e infatti, l’altro vecchio, più spigliato, dice giustamente “io non l’ho mai vista”. Risultato: giornalista Rai grida ai quattro venti: “Aveva ragione don Ciotti, ecco la città mafiosa, la gente ha paura della mafia, l’omertà dilaga”. Retorica da antimafia delle chiacchiere. E che, chiacchierando chiacchierando, calunnia. Mesagne non è la prima vittima dei professionisti dell’antimafia delle chiacchiere: le sue vittime, più numerose ormai di quelle della mafia stessa, contano nomi sempre più eccellenti: da Andreotti a Berlusconi. Tutti, naturalmente, assolti con formula piena da tribunali non certo di destra. Mentre quelli che davvero torturarono in vita giudici come Falcone, per poi farselo “amico” appena saltato in aria, quelli non li processa nessuno, anzi, sono fra i massimi notabili dell’antimafia della chiacchiere: parlo per esempio di Leoluca Orlando, o anche del giornale la Repubblica. E infatti scopri che chi ha tentato di aiutare Falcone, con leggi durissime che la mafia l’hanno messa in crisi sino a spingerla a sparargli addosso e a passare allo stragismo terrorista pur di farsele abolire; che chi ha tentato di salvare per amicizia Falcone dall’orda infame, calunniatrice e vigliacca dei suoi colleghi magistrati rossi siciliani, sino a prospettarne la candidatura al Senato per la DC, per strapparlo a quell’ambiente avvelenato di futuri professionisti dell’antimafia delle chiacchiere e dei comizi, furono proprio due personaggi a loro volta perseguitati dai persecutori di Falcone: Andreotti e Calogero Mannino. Guardacaso gli stessi che poi i professionisti dell’antimafia dichiararono “mafiosi” e trascinarono, naturalmente senza una prova, in tribunale. Per sfregio, per odio ideologico. Guardacaso i soli (insieme a Martelli) su cui Falcone potè contare.
LA VERA MAFIA CHE PRETENDE OMERTÀ È QUELLA DEL PROFESSIONISMO DELL’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE. Da oggi, quindi, per bolla pontificia di don Ciotti, sommo pontefice dell’antimafia delle chiacchiere, l’attentato di Brindisi è opera della mafia, e la Mesagne che diede i natali al Mastino, ossia a me, è città di mafia. E non lo sapevo. Per riflesso condizionato, quindi, occhio e croce dovrei essere mafioso pure io. Potrebbe essere. Ma voi ve lo immaginate un Mastino “omertoso”?! E proprio perché non sono né mafioso né omertoso, la dico tutta: l’unica mafia, l’unico atteggiamento mafioso e che pretende omertà qualunque cosa dica o faccia, è proprio il professionismo dell’antimafia delle chiacchiere, con tutte le su “Carovane” donciottesche. Dulcis in fundo, leggo l’Ansa del 29 maggio, attenti alle sottolineature: Marcia della legalità a Mesagne (Brindisi), il paese di Melissa Bassi. ”Melissa – ha detto Don Luigi Ciotti, presidente di Libera – è viva, anche se fisicamente non c’é più. Stamani al cimitero ho visto che qualcuno ha attaccato due pezzi di carta. C’era scritto: Melissa vive dentro di noi. Noi ci sentiamo un po’ tutti Melissa”. No, non è vero: i morti sono morti, morti per davvero per il mondo, fisicamente e prestissimo anche “dentro” tutti: solo i genitori si porteranno dentro un dolore che appartiene solitario allo scrigno del loro cuore. Tutto il resto sono chiacchiere. Se non sei una grande mistica, una grande leader, una maitre a penser, che ha segnato la storia, le cose stanno così: sei morta davvero. Mi fa schifo l’ipocrisia che dice le cose “che si devono dire” in determinate circostanze anche se non sono vere: l’ipocrisia sui morti, la menzogna invece della preghiera sparsa sui loro resti, sono sacrilegio e blasfemia.
DIO È LUI, DON CIOTTI. E “LIBERA” NE È IL SUO CORPO MISTICO, LA SUA CHIESA. Come vedete, Ciotti è capace di dire di tutto, persino cose tra il pagano e lo gnostico, purché abbastanza sentimentalistico e formato La Vita in Diretta; tutto, compreso che è “viva” e magari “dentro di noi”, anziché ammettere l’unica cosa che, da prete, avrebbe dovuto dire, la più semplice: “E’ morta, è risorta in Cristo, finalmente ha visto il Suo Santo Volto”. Non lo dice perché è fuori moda, perché in fondo non ci crede, perché se ne vergogna, perché in definitiva gli sembra irrilevante ai suoi fini. Soprattutto perché gli interessa il consenso dell’intellighenzia, delle platee, i galloni della cronaca. Gli applausi del mondo. E per ottenerli è necessaria l’apostasia silenziosa: che non consiste più (solo) nella negazione plateale delle verità cattoliche, quanto piuttosto nella rimozione discreta di Dio. Da ogni contesto. Dalla propria lingua, anzitutto. Perché Dio è lui, don Ciotti. E Libera ne è il suo corpo mistico, la sua chiesa. Costruita sulle sabbie mobili delle mode del mondo. Dello spirito del mondo, cioè. Che poi, come detto, è sempre Lucifero. Tra donchisciottismo e donciottismo non vedo la differenza: Don Chisciotte combatte contro tutti i mulini a vento, scambiati per mostri dalle braccia rotanti; don Ciotti pure, credendo però di combattere la mafia. Ho qui davanti a me Il Mercante di Venezia di Shakespeare. Lo sfoglio a caso e leggo, pensando immediatamente a Ciotti e a quelli come lui: “Le forme esteriori possono ingannare, sempre l’ornamento inganna il mondo. Nei processi, quale causa disonesta e corrotta che, sostenuta da una voce graziosa, non maschera il volto del male? Nella religione, quale colpa tanto maledetta che una fronte grave non la benedica e approvi usando un testo sacro, con una bella frase celando l’ignominia? Non c’è vizio elementare che non assuma qualche segno di virtù sulle sue parti esterne. Quanti codardi hanno cuori ingannevoli come gradini di sabbia, eppure portano sul mento la barba di Marte corrucciato e di Ercole, loro che, frugati dentro, hanno fegati bianchi come il latte. L’ornamento così, non è che l’insidiosa riva d’un mare periglioso, il velo sfarzoso che nasconde una bellezza barbarica: in una parola, la falsa verità che i tempi astuti indossano per intrappolare i più saggi”. Non a caso ho sotto gli occhi una frase rivelatrice di don Ciotti, a proposito della causa di beatificazione di Tonino Bello, suo omologo pugliese, con un curriculum simile: “Occorrono due miracoli per la beatificazione di don Tonino? Ci sono! Il primo è stato l’elezione di Vendola a governatore della Puglia; il secondo, la sua rielezione”. Non c’è niente da aggiungere.
PARLIAMO DI MAFIA
Mafia in Piemonte, le tappe di un cammino iniziato con il sangue. L'evoluzione dall'omicidio dell'imprenditore Ceretto nel 1975 a oggi, scrive Lodovico Poletto su “La Stampa”. All’inizio fu il rapimento di Mario Ceretto, l’industriale di Cuorgnè, sequestrato e trovato ucciso cinque giorni dopo. Era il 1975. Mafia e ’ndrangheta, allora, erano poco più che parole che connotavano luoghi lontani, sullo stivale. Erano poco più che battute da bar, sfottò. Trentasette anni dopo è tutto cambiato. La ’ndrangheta è qualcosa di reale, palpabile, che fa paura. A Cuorgnè come nel resto del Torinese. Da Orbassano a Settimo, passando per Leini, Bardonecchia (entrambi Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose) e Rivarolo. ’ndrangheta e mafia. E nomi che si inseguono, famiglie, contatti, affari. Per capire come è cambiata la mafia nel torinese bisogna partire da qui, da Cuorgnè, terra di immigrazione calabrese, di muratori, gente che fatica, venuta dal Sud a cercare fortuna. Bisogna partire da Giovanni Iaria, arrivato giovanissimo da Condufuri e diventato in breve personaggio discusso e ammirato. Passione politica e affari guidano tutta la sua vita. È assessore comunale, poi vicesegretario provinciale del Psi quando ancora i socialisti non erano stati travolti dallo scandalo tangenti. E poi gli affari. Iaria finisce travolto da un’inchiesta. Condannato: associazione mafiosa. Ma la sentenza viene cassata e lui è libero. Torna ad essere il brillante affabulatore di sempre ben lontano dagli schemi del mafioso. Più un uomo a cui hanno appiccicato un’etichetta che uno che fa affari sporchi. In quegli anni ciò che spaventa di più sono gli affari criminali. Il racket e lo spaccio, per capirci. Gli omicidi. Le vendette. I Comuni di Volpiano, Settimo Torinese, in parte Chivasso finiscono nelle relazioni dell’antimafia. I nomi delle famiglie Marando, Agresta, Trimboli vengono associati alle cosche che operano in Calabria, in particolare a quella di Barbaro «U castanu» di Platì, con a capo Francesco Barbaro. E ancora Calabria e Torinese che si incrociano. Ma è tutto molto lontano, soffuso. Poi nel 1995 la Commissione antimafia manda a casa tutto il Consiglio comunale di Bardonecchia. Infiltrazioni. I nome di Rocco Lo Presti, arrivato quassù giovanissimo da Marina di Gioiosa Ionica identifica per la prima volta in modo chiaro e inequivocabile che cos’è la ’ndrangheta. È affari. Appalti ed estorsioni. Minacce e conquista del territorio. Spuntano nomi di famiglie fino a ieri sconosciute ai più. Tutto questo lo scopre la gente normale, quelli che non riuscivano a capire tutti quei titoloni sui giornali. Magistratura e inquirenti invece già sapevano e lavoravano da tempo. Un dato per tutti: tra il 1970 ed il 1983, la Procura della Repubblica di Torino registra 44 omicidi di mafia. Ma la gente ancora non comprende: guarda, scrolla le spalle e se ne va. In mezzo a tutta questa indifferenza la geografia criminale nel torinese cambia pelle. Il Clan dei Cursoti, i catanesi che per dieci anni sono stati padroni incontrastati della Torino nera, viene decimato da pentiti e blitz. E lo scettro del comando passa in mano ai calabresi. Che gestiscono i traffici. La famiglia Ilacqua, ad esempio, colonizza Chivasso. Quattro fratelli approdati in Piemonte da Seminara Calabra, e che godono della protezione di Rocco Gioffrè, uno dei padrini allora più potenti, maschera il traffico di droga dentro un’autofficina. Le ’ndrine locali, intanto, si spartiscono il territorio, rispettano confini decisi nelle riunioni che si fanno al sud. E nel torinese ormai semi conquistato, vengono a svernare personaggi troppo pericolosi in Calabria. Come Rosario Zappavigna o come Rocco Occhiuto, che fece parte del commando dei tagliatori di teste di Platì, arrestato dai carabinieri nel Canavese. Viveva a Rivarolo. Da solo, in un alloggio in periferia. Tutto questo accadeva vent’anni fa, o giù di lì. Da allora la ’ndrangheta ha sparato, e tanto, conquistato territori nuovi, fatto soldi. Ha allungato le mani sugli appalti. S’è infilata nella politica. Bisogna arrivare all’operazione «Crimine» a Milano, due anni fa per avere ben chiare le dimensioni del fenomeno. In carcere, allora, finisce tra gli altri Giuseppe Catalano, il boss dei boss della ’ndrangheta nel Torinese. È di Orbassano. Ha un nipote Consigliere comunale che cade dalle nuvole quando arrestano lo zio e il padre. Poi arriva l’operazione «Minotauro». Politica e affari, adesso è chiaro sono legati in modo potente. ’ndrangheta e voti. È la pagina più recente della storia della criminalità calabrese. Ma non è l’ultima.
E il Piemonte riscopre la mafia, scrive Andrea Dotti su “Narco Mafie”. ‘Ndrangheta e famiglie siciliane, ma anche criminalità straniera: romena, cinese, nigeriana e marocchina. È quanto emerge dalla relazione redatta dalla commissione consiliare antimafia della Città di Torino. Il documento è una mappatura della criminalità organizzata presente sul territorio piemontese e si tratta del primo lavoro realizzato dalla commissione torinese, costituitasi dopo l’operazione Minotauro. Il gruppo criminale più presente e radicato sul territorio risulterebbe essere quello di origine calabrese. Nel corso degli anni la ‘ndrangheta si è inserita nel tessuto sociale. agendo in numerose attività illecite, ma inquinando soprattutto i cosiddetti mercati legali. A destare maggiore allarme, in questo senso, è la loro presenza nelle gare d’appalto e la loro infiltrazione all’interno del mondo della politica, come dimostrano gli scioglimenti dei comuni di Rivarolo e Leinì. Preoccupa anche la presenza di gruppi criminali romeni. A loro viene attribuita la responsabilità per furti, e reati relativi alla clonazione di carte di credito. Quello dei nigeriani, invece, risulterebbe essere il gruppo criminale più attivo nello spaccio di sostanze, nella tratta di esseri umani e nello sfruttamento della prostituzione. Un’attività, lo sfruttamento della prostituzione, che ha visto crescere la presenza sul territorio di bande organizzate di origine cinese. In questo caso è in espansione il coinvolgimento di cittadini cinesi verso lo sfruttamento della prostituzione esercitata in case d’appuntamento, spesso mascherate da centri estetici e di massaggi. I gruppi cinesi sono coinvolti, inoltre, nella contraffazione e nei reati contro la persona: spesso rivolti all’interno della loro stessa comunità. Lo spaccio di hashish, invece, è appannaggio dei gruppi di origine marocchina. Le piazze più attive, in questo senso, sarebbero le zone di zone di Porta Palazzo, San Salvario, Piazza Vittorio e Murazzi. Della presenza della mafia in Piemonte ne abbiamo parlato con Rocco Sciarrone, docente di sociologia dell’Università di Torino.
Il Piemonte riscopre la mafia: dopo Minotauro sono iniziati i lavori della commissione consiliare antimafia.
Non solo tra Sila e Aspromonte, la ‘ndrangheta alloggia anche ai piedi delle Alpi. Ci sono volute le operazioni Minoatauro e Albachiara per risvegliare il Piemonte dal torpore e scoprire la criminalità organizzata sull’uscio di casa. Le inchieste hanno portato a centinaia di arresti e allo scioglimento di due comuni del torinese, scoperchiando l’intreccio tra mafie, imprenditoria e mondo della politica. Dopo le inchieste giudiziarie la società civile ha chiesto alla città di reagire, partendo dal presupposto che la mafia non si combatte solamente a colpi di magistratura, ma è necessaria una risposta politica. In questo contesto a Torino è nata la commissione consiliare antimafia, cui primo lavoro è stata la redazione di un report: una mappatura dei gruppi criminali in Piemonte. La ‘ndrangheta risulta essere il gruppo più pervasivo e radicato sul territorio, seguita dalle famiglie siciliane. Ma il report ha evidenziato anche la presenza di numerose comunità criminali di origine straniera, sebbene la loro attività sembrerebbe essere confinata all’interno della delinquenza comune. Mafie vecchie e mafie nuove si incontrano, ma per il Piemonte non è un fenomeno nuovo. Basta pensare all’omicidio del procuratore Bruno Caccia, l’operazione Cartagine e il commissariamento del Comune di Bardonecchia. E lo sa bene Rocco Sciarrone, docente di sociologia, che rappresenta l’Università di Torino all’interno della commissione e che da oltre 15 anni svolge attività di ricerca sul tema.
Il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa in Piemonte non è una novità. Come mai è passato così tanto tempo prima di vedere una reazione?
È uno dei nodi cruciali che toccano la questione delle mafie al Nord. Sull’argomento ci sono sempre state resistenze, sottovalutazioni e negazioni, provocando un ritardo nel prendere consapevolezza. Ogni reazione, inoltre, è sempre stata ispirata dell’emergenza e in questo Torino non fa eccezione. Bisogna sottolineare, però, che la creazione di una commissione consiliare sul fenomeno mafioso in una città come Torino, se pure in ritardo, è un atto considerevole. Significa che l’amministrazione pubblica di una delle città più importanti d’Italia ha deciso di riconoscere il problema. Potrebbe sembrare una cosa da poco, ma a livello politico è molto importante. Uno degli obiettivi che deve avere la commissione è proprio superare l’ottica dell’emergenza. Il contrasto alle mafie deve essere costante e strutturale. Insomma, andare al cuore della questione: intervenire nella testa delle persone, sul territorio e nel tessuto economico della società. E poi c’è l’aspetto della regolamentazione, che è il campo di lavoro proprio della politica. Il contrasto alla mafia non deve essere orientato solamente al fenomeno criminale, ma deve colpire anche i fattori che possono favorirne la riproduzione. In sostanza, è necessario contrastare i fenomeni culturali, sociali ed economici dell’attività mafiosa. Bisogna scardinare il modello vincente che la mafia rappresenta.
Il ritardo delle istituzioni nelle reazioni, però, è uno dei maggiori punti di forza della criminalità organizzata
Certamente. Ed è anche uno dei punti di debolezza dell’antimafia. Mafia e antimafia vanno osservati insieme. Per capire la forza di una, bisogna guardare le debolezze dell’atra. Sono due facce della stessa medaglia: si configurano a vicenda. Gran parte dell’azione antimafia nel nostro Paese è stata sempre fatta in ritardo e confinata al piano repressivo. Il lavoro delle magistrature è fondamentale, ma ha anche tutti i limiti di qualsiasi azione di tipo giudiziario e penale. Manca, in questo senso, un’azione preventiva che può avere effetti strutturali di lunga durata e mancano dei meccanismi di controllo extrapenali. È da qui che deve partire la commissione.
Qual è la differenza tra le mafie tradizionali e quelle di nuovo insediamento?
Molti studiosi parlano di clonazione. Io sarei più cauto: preferisco il termine riproduzione. Le cosche che si insediano al Nord hanno forti elementi di somiglianza con quelle tradizionali, ma hanno anche delle specificità. Sono capaci di operare in modo autonomo, pur mantenendo stretti legami con le cosche nelle regioni d’origine. Per quanto riguarda il Piemonte, ad esempio, la mafia più pervasiva è la ‘ndrangheta, la quale ha forti connessioni con le famiglie di riferimento in Calabria. Esistono, però, anche dei forti elementi di discontinuità. Le differenze maggiori si trovano nelle attività di questi gruppi, diverse rispetto agli anni passati. Si riscontra, in questo senso, un cambiamento dovuto al mutamento del contesto in cui operano. Oggi sembra meno rilevante la presenza mafiosa nei traffici illeciti, ma più significativa nell’economia pulita. Sono cambiati i mercati illegali, i quali hanno subìto gli effetti della globalizzazione: sono molto più strutturati e rischiosi, l’azione repressiva è più efficace ed è aumentata la concorrenza. Oggi è importante concentrare l’attenzione sull’infiltrazione nei mercati legali.
Stiamo parlando soprattutto di appalti?
Stiamo parlando di edilizia in generale. Edilizia pubblica e grandi appalti, ma anche edilizia privata. Sembra un campo meno visibile, ma non deve essere sottovalutato. Non significa che gli uomini di mafia abbiano spiccate qualità imprenditoriali. Il loro punto di forza è riuscire a infiltrarsi all’interno dei contesti economici grazie ad altre competenze. Sono specialisti nell’uso della violenza e nell’uso di capitale sociale. Sono in grado di tessere fitte reti di relazioni e riescono ad adattarsi molto bene al contesto in cui vivono. Combinando questi fattori, le cosche possono trarre vantaggi dal mondo pulito dell’imprenditoria e della politica: vantaggi che possono essere reciproci. Una delle grandi novità delle mafie di nuovo insediamento, infatti, è la formazione di zone grigie di collusione e complicità: mafia, politica e imprenditoria attuano uno scambio reciprocamente vantaggioso. La metafora della mafia come virus che contagia la società è superata. La presenza mafiosa è diventata molto più affaristica e può trovare una sponda favorevole in alcuni comitati d’affari che non sono di per sé criminali, ma che prolificano sulla base di scambi occulti e dinamiche di corruzione. I confini sono molto labili: gli affaristi si muovono al limite delle regole di mercato e la ricerca del consenso politico è al limite della legalità. La difficoltà è tutta qui: distinguere l’impresa buona da quella cattiva e il politico buono da quello cattivo.
Parlando di appalti ed edilizia in una città come Torino non si può fare a meno di pensare alle Olimpiadi del 2006. Le mafie hanno messo le mani anche nelle grandi opere olimpiche?
È difficile dare una risposta. A livello giudiziario non sono ancora emersi casi di appalti controllati in modo sistematico da gruppi criminali. Sono però emerse situazioni di confine. Una zona grigia in cui legalità e illegalità sono difficili da mettere a fuoco. Sebbene non si possa parlare di un controllo a monte degli appalti, si può affermare che ci sono state infiltrazioni a valle. Si tratta di interventi nei segmenti più bassi: movimento terra, trasporti, contratti e subappalti. Non dobbiamo immaginare che la mafia controlli tutto. La sua presenza è più sottile e pervasiva, come ha dimostrato la Minotauro. Questo non vuol dire che è meno pericolosa. Significa semplicemente che si vede meno. I gruppi criminali mettono in atto una strategia di sommersione, in cui anche l’uso della violenza è ridotto ai minimi termini.
Il rapporto ha evidenziato la presenza sul territorio di una rete criminale di origine straniera. L’attività di questi gruppi sembra concentrata prevalentemente sulla criminalità diffusa, come lo spaccio e lo sfruttamento della prostituzione. Che tipo di rapporto c’è con la mafia tradizionale?
Sebbene ci siano forme di criminalità straniere che possono costituire un pericolo, non sono minimente paragonabili alle mafie tradizionali. I gruppi stranieri sono inseriti in alcuni traffici illeciti anche in forme strutturate, ma non raggiungono forme forti di radicamento territoriale. Anche l’azione di contrasto è molto diversa, in quanto sembra essere molto più complicato combattere le mafie tradizionali. Siamo di fronte a una divisione del lavoro criminale di tipo complementare, senza conflittualità. A differenza di quanto si pensa, le mafie hanno sempre tollerato la delinquenza comune. Questo avviene perché c’è una reciproca convenienza. E i mafiosi massimizzano i loro vantaggi collocandosi all’interno delle reti criminali in posizioni che offrono maggiori profitti e bassi rischi. Per quanto riguarda il mercato della droga, ad esempio, oggi i gruppi mafiosi tradizionali preferiscono porsi nel ruolo di finanziatori. Non sentono più la necessità di gestire direttamente il traffico. In un mercato rischioso ed esposto ad azioni di contrasto, come il narcotraffico, le mafie tradizionali sono presenti in modo diverso rispetto al passato. È finito il tempo del monopolio.
Si è tornato a parlare anche di gioco d’azzardo. Il controllo di questo mercato sembrava ormai un appannaggio del passato. Quale ruolo giocano le mafie?
C’è una continuità con il passato. Torino è sempre stato un territorio privilegiato in questo settore. Già negli anni ’80 i clan dei catanesi e dei calabresi controllavano le bische clandestine e il gioco illegale. Si può quindi dire che a Torino esiste una tradizione criminale del gioco. Il settore ha avuto una nuova espansione con la crescita del gioco legalizzato. Si sono venute a creare delle convenienze e delle commistioni tra legale e illegale. Il gioco legalizzato offre alle mafie nuove opportunità di investimento. Le scommesse e i videopoker offrono grandi guadagni con minimi sforzi tecnici, organizzativi e finanziari. E poi c’è l’usura. Le mafie si inseriscono nel mercato del gioco, non solo investendo, ma intervenendo anche in un secondo momento, con il prestito a strozzo. Ancora una volta, dunque, le cosche mafiose riescono ad approfittare del contesto sociale. La loro capacità di adattamento è facilmente osservabile in una condizione di crisi come quello attuale. In un periodo in cui diventa difficile accedere al credito legale, è quasi normale che gruppi criminali che si specializzano in questo servizio trovino nuovi spazi.
'Ndrangheta in Piemonte. IL sindaco del comune sciolto: “Qui la mafia non c’è”. Nevio Coral, storico primo cittadino di Leinì, depone al processo "Minotauro", dove è imputato per concorso esterno. "Nessuna infiltrazione", assicura. E sulla cena con esponenti della criminalità calabrese spiega: "Un imprenditore non chiude mai la porta". Ma secondo l’accusa faceva affari con i boss, scrive Elena Ciccarello su “Il Fatto Quotidiano”. “Se c’è un paese che non ha infiltrazioni mafiose né mafiosi è Leinì”. Lo ha dichiarato oggi ai magistrati di Torino Nevio Coral, ex sindaco di Leinì, durante il maxiprocesso “Minotauro” contro la ‘ndrangheta che lo vede imputato per concorso esterno in associazione mafiosa. Il Comune alle porte del capoluogo piemontese di cui è stato dominus incontrastato per più di un decennio, prima come sindaco poi passando lo scettro al figlio Ivano, è stato sciolto per mafia dal governo Monti nel marzo 2012. Secondo la procura Coral, arrestato nel giugno 2011 e oggi ai domiciliari, è stato una macchina da soldi per la ‘ndrangheta, che ha potuto così spartirsi appalti e subappalti nel Canavese e nei cantieri del suo gruppo industriale in cambio di pacchetti di voti. Un “biglietto da visita” da usare in banca per ricevere credito. Nell’aula bunker delle Vallette, l’imprenditore e politico di successo, noto anche come suocero e sponsor elettorale di Caterina Ferrero, ex assessore alla Sanità della giunta di Roberto Cota coinvolta in un’inchiesta su favori, mazzette e appalti, ha ripercorso con voce rotta la sua storia di self-made man, arrivato in Piemonte dal Veneto. “Ho la terza media, ho iniziato giovanissimo, ho vissuto in una baracca di legno”. Per lui, uomo di destra con una “particolarissima simpatia per Craxi”, l’avventura politica è iniziata quasi per caso, nel 1994, quando Forza Italia lo ha presentato come uomo nuovo dopo due anni di commissariamento del Comune, sciolto una prima volta nel 1992 per una mini tangentopoli che aveva portato in carcere alcuni assessori e il vice sindaco. “Ero il Grillo di tanto tempo fa, ma con i piedi per terra” racconta lui. È orgoglioso, Coral, di quanto è riuscito a costruire a Leinì, che nei 10 anni della sua amministrazione è passato da 11mila a 15mila abitanti, con una crescita di circa 2-3 mila unità abitative. Ed è riuscito a fondare un’Università su cui la Presidente della corte Paola Trovati gli ha chiesto chiarimenti: “Vede che lei non sa che c’è l’università? Vede che quando noi di destra facciamo qualcosa, voi magistrati..”, le ha risposto Coral. Gran parte dei lavori fatti a Leinì sono passati dalla Provana Spa, il “capolavoro” di Coral, una società “in house” che secondo la relazione d’accesso prefettizia ha rappresentato “il mezzo di cui quest’ultimo si è servito per concludere gli affari illeciti con i boss” e grazie al quale “è riuscito a pilotare (e sperperare) una mole impressionante di denaro pubblico derivante sia dalle casse del municipio che da sovvenzionamenti europei aggiudicati tramite l’Ente Regione Piemonte”. Coral si è sempre mosso con disinvoltura nel mondo delle costruzioni. “Facendo il Sindaco ho cercato di far vedere che noi imprenditori, credo che qui siamo tutti imprenditori ognuno nella sua misura, non è vero che siamo dei disonesti, abbiamo solo bisogno di lavorare ..” ha detto durante una cena elettorale ai suoi invitati. Esponenti della ‘ndrangheta e pregiudicati, chiamati a sostenere la candidatura del figlio Ivano, suo erede nel ruolo di sindaco a Leinì, nel 2009 in corsa per una poltrona alla provincia. Coral ha detto di non sospettare nulla della loro identità né della presenza della ‘ndrangheta sul territorio di cui è stato sindaco. “Nel 2003 è morto un mafioso nel quartiere Tedeschi, poi non ne abbiamo avuti altri”, ha detto. Di quanto fossero importanti certe relazioni era invece ben consapevole, perché “la comunità calabrese è la nostra ricchezza” aveva ammesso alla cena. Un appuntamento rivelatosi imbarazzante, che Coral giustifica con queste parole: “Proporre la cena è il modo di fare dell’imprenditore, che non chiude mai la porta”. È il suo stile, dice. Secondo la magistratura Nevio Coral dopo quella cena ha pagato 24mila euro per la campagna elettorale a favore del figlio Ivano presso le “famiglie” calabresi. Ma le cifre dei suoi accordi, secondo le ricostruzioni, sembrerebbero essere state ben altre. Si parla di centinaia di migliaia di euro, che lui nega risolutamente. “Perché noi non siamo una famiglia che ha bisogno di comprare i voti”, dice, e lui sa fare bene il suo mestiere.
SPRECOPOLI. MORALITA’ A GO GO.
C'è chi ha fatto acquisti da Cartier e chi si è pagato la massaggiatrice, chi la seduta al solarium e chi ci ha comprato i libri di scuola per i figli, scrive il TGcom. E c'è anche chi, con i soldi pubblici del Consiglio regionale piemontese, si è procurato un giogo per i buoi. Così dalla Procura di Torino sono partiti 52 inviti a comparire, per chiarire come e perché per queste spese non esattamente "politiche" siano stati usati i fondi dei gruppi consiliari. L'elenco degli indagati comprende quasi tutti i consiglieri, 52 su 60: per qualcuno le spese contestate sono pochi spiccioli, per altri si cresce fino a raggiungere una somma complessiva di oltre un milione di euro. Non si salva nemmeno il Movimento 5 Stelle: ci sono buoni benzina, ristoranti e biglietti del treno (anche per raggiungere i luoghi delle manifestazioni No Tav, dicono gli inquirenti). Il capogruppo, Davide Bono, risponde di 619 euro per spese legate alla propria attività e 3.905 euro per i collaboratori. Il suo ex compagno di banco Fabrizio Biolè, ora nel Gruppo Misto, ne ha per settemila euro: "E' stato un errore contabile. Quando me ne sono accorto ho restituito la somma al gruppo", spiega lui. Nella lista compaiono i nomi dell'attuale presidente della giunta, il leghista Roberto Cota, indagato per peculato, e del suo predecessore di centrosinistra, Mercedes Bresso, ora consigliere, per la quale si ipotizza il finanziamento illecito ai partiti: due fatture per materiali che secondo la Procura è servito per la campagna elettorale. "No, erano per la pre-campagna - puntualizza la Bresso - e dopo le elezioni li abbiamo acquisiti per il gruppo e riutilizzati". "Mi sono già recato spontaneamente dai magistrati - sottolinea Cota dal canto suo - e ho chiarito la mia posizione. Non un euro è finito nel mio conto corrente". Spulciando ricevute e scontrini dei vari gruppi, però, i finanzieri hanno trovato spese quanto meno bizzarre: oltre al giogo da bue (comprato da un leghista), ci sono il catering per un battesimo, il cambio di un set di pneumatici, un frigorifero, calze di lusso, borse di Vuitton ed Hermes, panettoni, spumanti. Il "recordman" è un consigliere che da solo raggiunge quota centomila euro. Cifre certo lontane da quelle emerse in altre regioni italiane, ma comunque sufficienti per spingere Roberto Placido (Pd), vicepresidente del consiglio, uno dei pochi non raggiunti dall'avviso di garanzia, a invocare nuove elezioni subito: "E' una giornata triste, terribile e infausta per il Piemonte", dice. ma Aldo Reschigna, capogruppo del Pd, spiega come "a nessuno di noi è contestato l'uso di fondi a scopi personali: si tratta di spese per le missioni. A me sono addebitati 2.400 euro, più circa settemila per il gruppo di cui sono responsabile".
Vestiti acquistati da Olimpic, il negozio delle grandi griffe di Torino, scrive Elisa Sola su “Il Corriere della Sera”. Un «massaggio particolare» da tremila euro effettuato da una ragazza non italiana. Gioielli di Cartier. Abbonamenti al solarium, sedute ai centri benessere. Litri di champagne e vini pregiati. Moltissimi elettrodomestici, soprattutto frigoriferi e televisioni. E ancora mobili e un intero trasloco pagato. Libri scolastici e filetti del macellaio. Un ciondolino per un battesimo. Tutto pagato con i soldi della Regione Piemonte, per un ammontare di oltre un milione e trecentomila euro, dal 2010 al 2012 compreso. La guardia di finanza di Torino ha consegnato avvisi di garanzia a 52 consiglieri regionali, compreso il governatore Roberto Cota e il presidente Valerio Cattaneo, entrambi leghisti. Sono quasi tutti accusati di peculato. Avrebbero usato in modo irregolare - spesso per scopi personali – con i finanziamenti erogati dalla Regione per i rimborsi spese dell'attività politica dei gruppi consiliari. Ad alcuni viene contestato anche il finanziamento illecito e a un solo consigliere la truffa, per una fattura falsa. Sono i primi risultati dell'inchiesta ribattezzata «Sprecopoli». I primi quattro indagati erano stati iscritti sul registro in autunno. Ad oggi, sono solo otto i consiglieri che si salvano, ma tre non contano perché sono appena entrati in consiglio e la loro condotta non è stata esaminata. È bufera nella politica piemontese. Il capogruppo del Pd Aldo Reschigna ha annunciato le dimissioni in tarda mattinata. Giorgio Merlo, suo compagno di partito parlamentare, ha chiesto che venga sciolta la giunta e che si vada al voto. Cota si dichiara innocente e intende restare al suo posto: «Sono già stato interrogato e ho chiarito, non un euro è finito sul mio conto». «Ci sono differenze rilevanti tra le varie posizioni» sottolinea il procuratore capo Gian Carlo Caselli. Gli indagati si dividono in due gruppi: coloro che sono stati spudoratamente «disinvolti» nell'usare le risorse pubbliche e quelli dei casi dubbi. Il partito più nei guai è il Pdl. Sono tutti indagati, dal capogruppo Luca Pedrale al vicepresidente Angiolino Mastrullo, a Michele Formagnana. Tutti e tre sono nelle prime posizioni della classifica di chi ha speso di più. Il più spendaccione ha superato i 100mila euro. Si concentrano quasi tutte nel fascicolo dei pidiellini le spese che nella relazione della finanza stanno sotto le voci «abbigliamento», «gioiellerie», «cosmesi e solarium». A cui si aggiungono i vini, i pernottamenti in hotel e i ristoranti. Alla Lega Nord va la spesa più curiosa, un giogo da bue. Lo ha acquistato uno dei più anziani, Gianfranco Novero. A tutti i membri del Carroccio è contestata la spesa del regalo di nozze per l'assessoreregionale alla Cultura Michele Coppola del Pdl, che non è indagato: un cucchiaio d'argento da 395 euro. Cota aveva voluto fargli un regalo da solo. La procura sta verificando con quali soldi. Nel Pd e Sel invece, sono state fatte spese minori, spiegano gli inquirenti, quasi tutte per ristoranti o viaggi. Sarà compito del sostituto procuratore Enrica Gabetta, affiancata recentemente dal pm Giancarlo Avenati Bassi – entrambi coordinati dall'aggiunto Andrea Beconi scoprire, anche dopo gli interrogatori, se si è trattato di «grandi abbuffate» o di pasti relativi «all'attività istituzionale svolta». Anche i consiglieri di Idv e dell'Udc hanno consumato pietanze per migliaia di euro. E anche da loro sarebbero stati acquistati elettrodomestici. L'ex governatore del Piemonte Mercedes Bresso, sempre del Pd, non è accusata di peculato ma di finanziamento illecito. Avrebbe pagato un collaboratore della sua campagna elettorale del 2010 in ritardo, e la fattura sarebbe finita tra quelle del gruppo. La sua contabilità però, spiega un inquirente, è l'unica «scritta bene». Anche gli esponenti del Movimento 5 stelle non possono dichiararsi innocenti, secondo la procura. L'ipotesi è quella di aver fatto pagare alla Regione benzina e viaggi in treno per missioni non propriamente istituzionali, come le marce No Tav. «Ho già restituito circa 7mila euro al Movimento – spiega Fabrizio Biolè, passato al gruppo misto dopo l'espulsione da parte di Beppe Grillo lo scorso autunno – mi ero accorto di aver inserito per errore spese di viaggio e ho rimediato subito con un bonifico».
MAI DIRE INTERDIZIONE ED INABILITAZIONE: “MESSI A TACERE PERCHE’ RICERCAVAMO LA VERITA’….”
In questo campo, io Antonio Giangrande, mi sono imbattuto quando svolgevo l’attività forense. Professione che fatta da me in modo etico, ha portato gli operatori della giustizia ad adottare atti di ritorsione, che mi impediscono di proseguirla. La mia testimonianza sui casi di malagiustizia da me affrontati, o di cui sono venuto a conoscenza, hanno indotto i magistrati a far chiudere i miei siti web e di processarmi per diffamazione a mezzo stampa. Ad oggi, nonostante che a giudicarmi siano gli stessi magistrati criticati, nessuna sentenza di condanna ha sporcato la mi onorabilità. E quantunque fosse stato il contrario, sarebbe comunque salva la mia dignità. Il tutto ben illustrato nel dossier ingiustizia a parte. Perché il potere ti dice: subisci e taci. La Mafia ti distrugge la vita, lo Stato di uccide la speranza. In Avetrana, una mia cliente, alla morte del padre, quale unica erede, riceve centinaia di milioni di lire. Il fratellastro, che da tempo non aveva rapporti con loro, al fine di impossessarsi dell’eredità, promuove il procedimento d’interdizione per dichiarare incapace d’intendere e volere la stessa sorella. Contestualmente, presenta esposto penale, ritenendola vittima di circonvenzione d’incapace a seguito di condotta di un’altra parente. Il sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, non nuovo ad abusi giudiziari, in violazione degli artt.257 e 322 c.p.p., sequestra tutti i beni, compresi quelli di sostentamento, senza notifica del decreto per poter opporre richiesta di riesame. Inoltre attiva, d’ufficio, altro procedimento d’interdizione. Nei tre procedimenti, 1 penale e 2 civili d’interdizione, per anni si impedisce il diritto di difesa all'interdicenda, perché non gli viene nominato un difensore d’ufficio, né gli viene nominato il curatore-tutore provvisorio per la nomina del difensore di fiducia. Si abbandona l’interdicenda e la si sente dopo anni, anziché dopo giorni, in procedimento d’interdizione, in udienza pubblica, alla presenza di decine di spettatori divertiti. Il sottoscritto, suo difensore, pur con regolare abilitazione al patrocinio legale, operando nell’interesse dell’assistita nei molteplici mandati extragiudiziari, sol perché è Praticante Avvocato con patrocinio legale, viene indagato per esercizio abusivo della professione e per gli effetti anche di circonvenzione d’incapace, nonostante non fossi io il denunciato dal fratellastro, e lo viene a sapere dal fascicolo del P.M., segretato per le indagini in corso, ma alla mercé pubblica del procedimento d’interdizione. Tutti gli atti richiesti al sottoscritto sono stati consegnati senza sapere di essere indagato e senza la presenza del difensore. Non si indaga in suo favore, per accertare la regolare abilitazione con il patrocinio legale, né viene sentito su fatti e circostanze. Al sottoscritto gli viene impedito di nominare un difensore, in quanto gli si impedisce l’accesso al gratuito patrocinio, perché gli viene comunicato il limite di reddito di lire 11.260.000, anziché lire 18 milioni. Così come fanno altre Procure per altri accusati. Inoltre per 3 rituali richieste di accesso al gratuito patrocinio non viene dato riscontro, nemmeno per il diniego. Il PM, ricevendo la prima richiesta, invia al GIP parere negativo, che diniega, ma non comunica. Il PM, ricevendo la seconda richiesta, inviata al GIP tramite carabinieri, la fa sparire. Il giudice del Tribunale di Manduria, nell’udienza del 4 novembre 2003, rigettando la terza richiesta impone la nomina illegale preventiva dell’avvocato, nominandolo ella stessa, in violazione della legge, che stabilisce la scelta dell’avvocato, da parte dell’imputato, solo ad ammissione avvenuta al gratuito patrocinio. Il giudice viene sostituito per altri motivi ed il successore, nonostante le illegalità e gli abusi, rigetta l’istanza di annullamento e rinvio al GIP degli atti processuali. Insomma, dopo anni è stata impedita la difesa, per una condanna scontata. Al sottoscritto indagato non gli si impedisce di reiterare il presunto reato, perché continua a lavorare per la persona offesa dallo stesso reato, abbandonata da tutti, e continua a lavorare per altri. In violazione dell’art.50 c.p.p. non si indaga sui veri responsabili, oggetto di denuncia. Inoltre, in udienza di interdizione, il Giudice, alla richiesta del sottoscritto di attivarsi, affinché l’interdicenda potesse esercitare il suo diritto di difesa, lo sbatté fuori fisicamente a spintoni, sbattendogli dietro la porta, sfiorandoli la spalla. Questo nonostante fosse stato il Giangrande stesso a portare la donna in udienza, cosa che avrebbe dovuto fare, invece, il fratello o l'autorità giudiziaria. Ad istigare il Giudice era il legale del fratellastro, che nella stessa udienza, derideva il sottoscritto, sua controparte, per essere praticante, fino a farlo cacciare dall’aula, affermando, che i Praticanti possono solo esercitare presso i Giudici di Pace. In sede di udienza preliminare, il GUP, anziché effettuare reale udienza preliminare con contraddittorio delle parti, si limita a ratificare tout cour la richiesta di rinvio a giudizio, senza dare modo di interloquire. In tale sede, pur denunciando la nullità degli atti di indagine, le cause di non procedibilità, ovvero le cause di giustificazione, il GUP, non sente ragioni. L’avvocato nominato d’ufficio per il sottoscritto, non si presenta nemmeno. L’avvocato nominato in udienza in sua sostituzione, non se ne frega niente del suo assistito. Egli è silente e inattivo. L’interdicenda, addirittura, in udienza era assente e non rappresentata per la mancanza di nomina del difensore o del curatore-tutore giudiziale provvisorio. Con questo stato di cose si è impediti, inoltre, ad essere interrogati, a conoscere gli atti del P.M. e a costituirsi nei termini, decadendo dal diritto di chiamare testi e produrre prove a discarico. La stessa cosa è nel proseguo presso il Tribunale di Manduria, dove è disattesa l’ennesima istanza di accesso al Gratuito Patrocinio e dove è impedita la nomina dell’avvocato di fiducia. Lo stesso Presidente della Camera Penale, iscritto nell’elenco degli avvocati del gratuito patrocinio, rifiuta il mandato. L’interdicenda abbandonata da parenti ed Istituzioni, impedito l’aiuto del sottoscritto e ritenuta capace da tutti, improvvisamente, viene allontanata dalla sua casa e ricoverata coattivamente presso un ospedale, presumibilmente, psichiatrico. All’uscita essa entra in uno stato di depressione senza soluzione di continuità. Non si poteva non presentare alla procura di Potenza le denunce penali contro i magistrati. Invece la Procura di Taranto dichiara in udienza che non esistono denuncie presentate presso di loro, né presso altre Procure. Dichiarazioni mendaci confermate dalla Procura di Potenza. La Procura di Potenza si affretta ad archiviare la denuncia del 02/09/03. Lo stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, denunciato, per ritorsione alle battaglie di legalità, impedisce l’accesso al gratuito patrocinio al Giangrande per due procedimenti civili. Nel primo procedimento civile era controparte lo stesso Consiglio dell’Ordine, dichiarato contumace, e l’INPS; nel secondo procedimento civile era controparte l’INPS. La seconda causa è stata tenuta da un avvocato, che per 10 anni non ha svolto fedele patrocinio, chiedendo ed ottenendo, sistematicamente, il mero rinvio, rasentando la soccombenza e decadendo dal diritto di chiamare i terzi garanti in causa, i quali erano titolari della esattoria comunale e per questo delegati dall’INPS ad incassare le somme richieste per i contributi previdenziali. Esattori che, sembra, non hanno versato al delegante le somme percepite. In seguito alla doverosa e necessaria estromissione dell’avvocato, avendone le qualità, si è attuata la difesa personale da parte dell’istante, ex art.86 c.p.c., così come è stato fatto per l’altro procedimento, fino a che non è scaduto il patrocinio legale, con conseguente indigenza e mancanza di difesa. COMUNQUE IN DATA 14 LUGLIO 2009 SI E’ PRONUNCIATO IN APPELLO IL NON LUOGO A PROCEDERE PER ANTONIO GIANGRANDE E LA CONDANNA DI CIRCONVENZIONE D’INCAPACE ED ESERCIZIO ABUSIVO DELLA PROFESSIONE E’ DECADUTA.
Questo a Taranto, nel Sud dell’Italia. Ed al Nord?
Che fine ha fatto la professoressa Borgna? Questo si chiede Alessandro Barbaglia della “Tribuna Novarese”. Tutto comincia così con una domanda che la testata torinese “Cronaca Qui” nel gennaio 2009 fa risuonare dalle proprie colonne. Che fine ha fatto? Rapita? Confinata all’ospizio? Fatta interdire da avidi parenti con l’intenzione di spartirsene l’eredità? O forse semplicemente ricoverata in una struttura adatta ad accogliere le esigenze di un’anziana 83enne resa sorda dagli anni o dai ricordi di una vita difficile, molto difficile? Le ipotesi in quel gennaio freddo sulla stampa si fanno roventi. Anche fantasiose. Salta fuori pure una lettera (autentica) firmata dai vicini di casa della professoressa che racconta quanto sia stato anomalo quel ricovero forzato eseguito per far sparire la vecchia professoressa di latino e greco definita “donna lucida e sempre presente e sé stessa, eppure è stata caricata a forza su un’ambulanza, legata e portata via: era evidente che c’era qualcosa di poco chiaro”. Ma chi è la signora Borgna? E perché ricordare oggi questa vicenda torinese e passata? Perché quella domanda, quella che poneva ai lettori “Cronaca Qui”, ha aperto un vortice di strane vicende fatte anche di minacce ed intimidazioni che ha allargato le proprie spire fino a coinvolgere un’assistente sociale novarese che si è interessata del caso, ha proposto una chiave di lettura della vicenda drammaticamente differente da quella che i giudizi ed i tutori legali stavano seguendo ed è stata radiata dall’ordine professionale con gravi accuse: aver rivelato a terzi informazioni sul conto della propria cliente; aver contattato la persona interdetta senza autorizzazione; aver effettuato attività professionale senza aver ricevuto compenso ed incarico. Radiata perché ha fatto il suo lavoro. Inoltre questa storia vede imputata un’altra donna finita in questo ciclone: la badante della professoressa Borgna accusata di circonvenzione d’incapace. Ma cosa è successo? Che storia e cosa si nasconde dietro il mistero della scomparsa professoressa Borgna e della radiazione dell’assistente sociale novarese? Proviamo a ricapitolare la vicenda, proprio con lei, l’assistente sociale Luigia Padalino, specializzata tra l’altro, in psichiatria forense. «Inizia quasi tutto per caso – spiega – Una mattina di oltre un anno fa quando mi sono imbattuta nella lettura di alcuni articoli del giornale “Cronaca Qui”. Si raccontava della sparizione, o del ricovero forzato, di un’anziana professoressa, la signora Borgna e delle accuse rivolte alla badante della donna: circonvenzione d’incapace. In quegli articoli c’era qualcosa che non mi convinceva, le modalità con cui la donna era stata prelevata dalla sua abitazione sembrava una deportazione: polizia, finanzieri ed infermieri che l’hanno addirittura legata. Tutto ciò per una pacifica donna di 82 anni.» in realtà, secondo gli atti, la donna era stata interdetta un anno prima e affidata ad un tutore. «Già, anche questo era un elemento anomalo: il nuovo tutore legale era l’avvocato che accusava la badante di circonvenzione d’incapace: mentre sulle capacità mentali della donna ci sono lettere lucidissime inviate poco prima del sequestro ad un amico di vecchia data. Una persona interdetta non potrebbe scrivere lettere tanto precise». Insomma la questione la incuriosisce e cosa fa? «Mi occupo di malagiustizia e malasanità, anche in forma privata e gratuita: quando ho letto la storia della professoressa ho inviato una mail al procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli chiedendogli di non sottovalutare il caso, presentava anomalie, mi ricordava altre vicende simili e drammatiche in cui donne anziane, e molto ricche come la Borgna, erano state fatte internare dai parenti per potersi spartire l’eredità». E lei a Caselli fa presente questa ipotesi? «No, assolutamente no, chiedo solo di prestare attenzione al caso perché poteva presentare anomalie». La mail parte ad inizio gennaio, due giorni dopo l’assistente novarese viene convocata in procura. A Torino. «Mi sono stupita molto, nemmeno credevo l’avrebbero letta quella mail, e invece nel giro di pochi giorni mi convocano, mi interrogano e mi chiedono cosa sapessi di quella storia. Il bello è che io non sapevo nulla, richiamavo l’attenzione della Procura al caso. È a quel punto che ho la conferma che tutta quella situazione è anomala: perché la procura di Torino ha voluto sentirmi? Cosa supponeva potessi sapere? Perché è scattata sull’attenti appena ho nominato il caso della ricca professoressa fatta interdire e poi ricoverare con la forza? Qui inizi il gorgo del mistero. L’assistente sociale incontra la badante della professoressa Borgna, accusata di circonvenzione di incapace ai danni della Borgna, e la versione dei fatti che la donna fornirà sarà sconcertante. «La badante era accusata in sede penale sulla base di un’unica prova: nel suo appartamento era stato ritrovato un testamento a firma della Borgna a lei favorevole. L’avvocato dell’accusa, nonché tutore della Borgna, non ha dubbi: la badante è colpevole. Senza averla mai ascoltata, altrimenti avrebbe appreso dell’altro, di un complotto ordito da persone vicine alla Borgna nei confronti della professoressa: in una lettera scritta dalla Borgna ai carabinieri, la donna racconta di persone che le si aggiravano in casa e le sottraevano mobili, oggetti preziosi e documenti … E’ per quello che la Borgna aveva chiesto alla badante di conservare il testamento: per evitare che sparisse! La Borgna collezionava mobili antichi, oggi in casa sua non ce ne è più nemmeno uno. Dove sono finiti?» questa è una sua tesi? «Questo è quanto si evince dal racconto della badante e dalla lettura della lettera scritta dalla Borgna ai carabinieri di Torino e mai considerata quel che succede poi è un “giallo”. Con regolare assunzione d’incarico svolgo tre indagini sociali per conto della badante sollevando interrogativi inquietanti corredandole di documenti e testi che nessuno aveva considerato arrivando però alla sbrigativa conclusione che la badante fosse responsabile di qualcosa. Tre indagini sociali che finiscono negli atti processuali contro la badante, privati degli allegati dei documenti dei testi». E il processo ha preso in considerazione le sue indagini? «Il processo non è ancora iniziato (la prima udienza è fissata per oggi ) ma l’accusa invia le perizie, prive degli allegati fondamentali, all’ordine degli assistenti sociali che mi ha sospeso per un anno sostenendo che, per stenderle, avevo agito in maniera deontologicamente scorretta. Un bavaglio che ha messo a tacere me e tutti quelli che, anche con intimidazioni, come dimostrato dalle mie indagini sociali, tentavano di presentare la vicenda sotto altre vesti, cercavano di sollevare dubbi sulle monolitiche verità che erano state assunte: la colpevolezza della badante, il corretto internamento della Borgna, l’affidamento del suo patrimonio ad altri. Ho cercato di fare il mio lavoro, di cercare la verità, forse ho toccato tasti o interessi che non andavano nemmeno sfiorati…». Mentre il processo sulla colpevolezza della badante è ancora tutto da dibattere, l’assistente sociale, Luigia Padalino, scusate il giro di parole, paladina della giustizia: è radiata dall’Ordine. “NESSUN COMMENTO, MA LA SANZIONE POGGIA SU MOTIVAZIONI SERIE”. La storia di Luigia Padalino è complessa e scivola in temi per cui le colonne del giornale rischiano di essere strette. Dall’ordine degli assistenti sociali di Torino, organo da cui è partita al sospensione annuale nei confronti dell’operatrice novarese, sulla questione c’è un riserbo totale. «E’ impensabile- ci spiega Povero Graziella, segretaria dell’ordine- che si possano fare commenti ad una sospensione che è un atto ufficiale e notificato su cui incide il segreto professionale e la tutela della privacy». Quindi per capire cosa ha spinto l’ordine ad assumere il provvedimento disciplinare contro Padalino, che bisogna fare? «Chiederlo a lei e attenersi agli atti. È chiaro però che se l’ordine ha deciso per la sospensione, non ha agito in maniera sconsiderata: è in possesso di atti e ragioni che lo giustificano e lo motivano chiaramente. Tutti atti e ragioni di cui non si può sapere nulla. All’interessata tutto è stato spiegato e tutte le carte che la riguardano le sono state consegnate. Se la signora dovesse avere qualcosa da ridire è libera di impugnare il provvedimento davanti al consiglio nazionale, ma noi non siamo tenuti a dare ulteriori spiegazioni».
Già! Peccato che il potere non può tacitare una verità inconfessabile e censurata dai media.
Sane di mente o psichicamente disturbate? Lucide testimoni di gravissimi atti criminali o instabili mitomani da manicomio? Pezzi di giustizia asserviti a potenti poteri criminali o casuali coincidenze? A proporre il dubbio due storie. Protagoniste due donne. Di età, città, vissuti diversi, ma con un unico filo conduttore: due cause di "interdizione," che si inseriscono in vicende per nulla chiare. Secondo il codice civile si può richiedere l'interdizione quando una persona maggiorenne si trova in situazione di abituale infermità di mente. Si applica dunque in casi di incapacità legale a compiere atti giuridici. Piera Crosignani è la prima vittima di una delle due storie ai limiti di ordinaria follia. La vicenda è clamorosa, non fosse altro per i 150 miliardi di lire che fanno da sfondo o, più propriamente, da protagonisti. L'incubo di cui parla inizia il 9 giugno 1999, quando, con una sentenza del tribunale di Milano (pubblico Ministero Ada Rizzi, giudice tutelare Ines Marini – nomi da tenere presente, perché torneranno nella seconda storia), viene stabilita l'interdizione della Crosignani su richiesta dell'ex marito, un diplomatico di nazionalità austriaca. La Crosignani, da ricchissima che era, rimane senza nulla. Si trasferisce nella provincia lucchese dove amici l'accolgono e la sostengono. La paranoica Piera, maturità classica, quattro lingue parlate correntemente, studi alla Sorbona e a Cambridge, legge Sofocle e Ibsen quando incontra lo psichiatra Gian Luca Biagini all'Asl 2 di Lucca. E Biagini contesta da subito la perizia ammessa dal tribunale di Milano. E lo psichiatra di Lucca va oltre: spedisce un esposto al Ministero della Giustizia e al Consiglio Superiore della Magistratura oltre che segnalare all'Ordine dei medici di Milano il comportamento del perito del tribunale e la validità della perizia a suo dire inspiegabile. Silenzio e ancora silenzio. Si susseguiranno perizie su perizie, finchè la Crosignani, matta per legge da anni, viene riabilitata da una revoca della sentenza di interdizione accolta nel giugno 2005. Il giudice tutelare del tribunale di Lucca impedisce alla signora di ritornare in possesso delle sue proprietà. Sana sì, ma che non tocchi il suo patrimonio (per quello ci sono i tutori, sempre). Delle due l'una: se la Crosignani proprio non è matta, allora il suo delirio paranoico diagnosticato può anche essere, al contrario, una lucida consapevolezza di essere divenuta vittima di una organizzazione truffaldina. Ancora anni fa raccontava a Il Giornale del 17 settembre 2000 le parole di un magistrato milanese «su piani orditi per impossessarsi dei beni di anziani soli e abbienti, di notai manigoldi, di avvocati conniventi». A non avere dubbio alcuno sull'esistenza di un vero racket delle interdizioni e a denunciarlo pubblicamente e in ogni sede è Claudia Mariani, un'altra vittima di quel meccanismo perverso e criminale che ha rovinato l'esistenza di Piera Crosignani e di chissà quanti come loro. Laureata in filosofia con orientamento psicologico, lucidissima e agguerrita, pronta a ripercorrere ancora una volta quei dodici anni che iniziano con la denuncia di un traffico illecito, passano per processi, minacce di morte, divorzio, lutti familiari e, non una, ma ben quattro procedimenti di interdizione. Il caso fu oggetto anche di 2 interrogazioni parlamentari. Claudia non vuol rendersi indirettamente complice degli illeciti del marito e informa Autorità pubbliche e magistratura di quanto scoperto, continuando, su loro indicazione, a raccogliere informazioni utili. E le informazioni documentali Claudia le porta copiose alla competente Procura di Tortona; ma l'inchiesta non prosegue, rallenta, si insabbia, e si ferma. Di più: il procuratore capo Aldo Cuva, che da lì a pochi mesi verrà radiato dalla magistratura per essere accusato di aver manomesso i verbali d'interrogatorio nell'inchiesta sui drammatici fatti dei sassi dal cavalcavia di Tortona, «cercò – dirà la Mariani – di farmi passare per pazza e colpevole, impedendo in tutti i modi il proseguimento delle indagini». Emblematico a questo proposito un documento, di cui siamo in possesso, redatto a mano dal dottor Cuva su carta intestata della Procura indirizzato al comandante della Guardia di Finanza di Tortona con il quale si suggerisce di «farsi carico… di elementi di giudizio utili, eventualmente, sotto il profilo della calunnia». Sembrano ora trovare conferma, nei fatti, le tante minacce rivolte dal marito e rintracciabili nelle numerose denunce depositate dalla Mariani negli anni: «Non immagini neppure chi sta dietro a sto giro!!! Abbiamo amici magistrati, finanzieri, poliziotti che lavorano per noi. Ti distruggiamo fino a farti interdire e internare in un manicomio. E quando sei lì dentro ti distruggiamo fisicamente e cerebralmente». Trasferitasi a Milano si fa pressante la condizione della madre, l'allora ottantenne Cesarina Fumagalli già affetta da patologie psichiche che peggiorano di giorno in giorno. Si rivolge dunque alle strutture sanitarie per chiedere il Trattamento Sanitario Obbligatorio e al Tribunale di Milano l'interdizione della madre. E qui i fatti si susseguiranno con una sequenza travolgente che ha dell'incredibile: il Tso viene revocato e la Mariani si ritrova una imputazione per sequestro di persona da parte del PM Ada Rizzi (la ricordate? La stessa della storia Crosignani). Ma non basta: ora il caso Mariani si riannoda indissolubilmente con il caso Crosignani. Perché manca ancora il colpo di scena: non solo la domanda di interdizione per la madre è stata rigettata ma è ora la stessa Mariani che si dovrà difendere da una richiesta di interdizione. Ad avallare la causa c'è ancora lei, il PM Ada Rizzi. E a proporla, assistita dall'avvocato Calogero Lanzafame, la stessa Fumagalli. Nel 1997 la dottoressa Mariani, sollecitata anche dai giudici tutelari della madre, denuncia Lanzafame per circonvenzione e reati connessi e presenta un ricorso urgente per la limitazione della capacità di agire della madre. Ma denuncia e ricorso, assegnate come sempre alla Rizzi, vengono naturalmente respinte. Seguono negli anni: denunce e controdenunce; perizie e controperizie (saranno addirittura 12); istanze e controistanze; citazioni in giudizio, richieste di avocazioni, richieste di sequestri cautelari, archiviazioni in un via vai di fascicoli che appaiono e scompaiono interessando tutti i piani di Procura, Tribunale e Corte d'Appello di Milano. Siamo nel 2000 quando il sostituto procuratore Gherardo Colombo, consultata la memoria presentata dalla Mariani, inoltra con urgenza per competenza alla Procura di Brescia i procedimenti aperti. Mentre quella Claudia Mariani che chiede l'interdizione della madre malata, presenta alla procura di Brescia, su suggerimento del presidente di corte d'Appello Seriani e del sostituto Colombo, una denuncia per abuso d'ufficio contro il PM Rizzi. Di rimando, la Rizzi cita in giudizio la denunciante Mariani per richiederne l'interdizione, in quanto affetta principalmente da «querulomania». Il 4 aprile 2007 presso il Tribunale di Milano all'udienza in appello per il giudizio di interdizione intentato contro la dottoressa Claudia Mariani dal pm Ada Rizzi, la corte ha preso atto della perizia del tutto favorevole redatta dal Consulente tecnico d'ufficio dottor Vittorio Boni. Claudia Mariani è ufficialmente sana di mente. Come lo è la Crosignani. Questa inchiesta sulla Crosignani e sulla Mariani è stata pubblicata sul mensile Casablanca, che rischia di chiudere per "dimenticanze" dello Stato, e perchè forse l'antimafia è concepita solo se si parla di coppole e lupara.
PADANIA: PO’ LENTONIA? BARBARIA? NO, LADRONIA!
“TERRONI FUORI DAI MARONI”
Sembra l’inno di vittoria di Roberto Maroni a discapito di Bossi e del suo entourage. Per il potere si passa sui corpi di figli ed amici: uguale come sempre; uguale come tutti. Italiani……Lo scorso Natale 2011, quando il cerchio magico picchiava duro contro Roberto Maroni accusandolo di volersi prendere la Lega, l'ex ministro dell'Interno chiese un incontro alla moglie di Umberto Bossi. Lei, la signora Manuela Marrone, è indicata come fulcro del clan di Gemonio nonché vera leader del Carroccio. Alla fine, il faccia a faccia non si fece. La Manuela snobbò la richiesta di Bobo.
I rapporti tra i due sono gelidi da tempo. L'ultima volta che si videro fu nel 2010, a casa Bossi, quando Maroni si presentò per portare il regalo di Natale a Umberto. Poi, il nulla. Solo frasi riportate e tanto veleno, con la signora pronta a ripetere al marito: attento a Roberto, vuole prendere i soldi della Lega e farsi un altro movimento. Gli stessi concetti venivano ripetuti al leader da Rosi Mauro e dagli altri esponenti del cerchio magico. Anche per questo Bobo ha deciso di non forzare la mano diventando capogruppo alla Camera al posto di Marco Reguzzoni. Per dimostrare di essere disinteressato ai quattrini (a Montecitorio il gruppo padano può gestire alcuni milioni di euro) lasciò campo libero al trevigiano Gianpaolo Dozzo, "accontentandosi" della testa del rivale Reguzzoni. In più, nonostante il passo indietro di Umberto e del Trota, pare che la famiglia del fondatore non voglia mollare. Tanto che all'inizio ha giustificato a Bossi senior lo scandalo dei rimborsi elettorali come una vendetta di Bobo, forte degli agganci con la magistratura e i servizi segreti che ha coltivato da responsabile del Viminale. E la base lo sa. La polemica è nata dalla contestazione di alcuni militanti in via Bellerio. "Traditore, traditore". Così i militanti hanno urlato a un'auto con i vetri oscurati che usciva dalla sede della Lega. I manifestanti pensavano che a bordo di quella macchina ci fosse Roberto Maroni. L'ex ministro dell'Interno, in lizza per la leadership del Carroccio e da tempo rincorso dalle voci sulla sua presunta volontà di voler scalzare Bossi, non si trovava però a bordo di quell'automobile. Il volantino - I militanti della Lega Nord, presenti fin dalla mattina di giovedì 5 aprile 2012 davanti a Via Bellerio per manifestare il loro sostegno a Umberto Bossi, hanno anche poi distribuito dei volantini sui quali era riportato un brano del Vangelo di Matteo e sul quale vi erano le foto del Senatùr e di Maroni, accostate a quelle di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Ossia una doppia versione del Gesù (Bossi e Berlusconi) e del Giuda (Maroni e Fini). Chiarissimo il testo che accompagna l'immagine: "Il traditore aveva dato loro un segno dicendo: 'quello che bacerò è lui, arrestatelo'. Subito si avvicinò a Gesù e disse: 'Salve rabbi'. E lo baciò".
Invece l’epilogo: vergogna padana, anziché orgoglio padano. Ma è proprio per la ricorrenza dell’orgoglio padano a Bergamo del 10 aprile 2012, armati di scope e ramazze, le camicie verdi chiedono di fare pulizia. "Sono giorni di passione, di dolore. Ma anche di rabbia e di onta perché trattati da partito di corrotti". Con queste parole Roberto Maroni sintetizza il clima che si respira nella Lega, sottolineando "l'orrore per le accuse di collusione con la 'ndrangheta e con la mafia". Il ritornello è uno solo: "Bisogna fare pulizia, chi sbaglia paga e chi ha preso i soldi li dovrà restituire". E così l'ex ministro, chiedendo di anticipare il congresso federale a giugno, snocciola uno ad uno i passi indietro, prima quello di Umberto Bossi e poi quello di Renzo Bossi. E tra la folla che fischia i nomi del figlio del Senatùr, quello di Francesco Belsito e quello di Rosi Mauro, Maroni annuncia: "Giovedì l'ex tesoriere sarà espulso e ci penserà la Lega a dimettere il presidente del sindacato padano che finalmente sarà guidato da un padano vero". Ed ecco dove si voleva arrivare: fuori i terroni dalla lega. Ed ai terroni ben gli sta di rinnegare le loro origini e di calpestare la dignità ed onore loro e della loro terra. Non solo loro rubano e la colpa la danno a “Roma Ladrona”. Il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ospite di Ballarò su RAI 3 sbotta: ma questi padani alla fonte del Po cosa bevono: acqua o grappa?? Esce il vero volto dei “duri e puri” polentoni: come se fosse cosa di cui vantarsi. Maroni gioca in casa a Bergamo, con la platea piena dei suoi sostenitori. Gli altri: epurati.
"Da oggi si cambia", dice Maroni elencando le sue regole per una nuova Lega Nord: "Uno: i soldi alle sezioni e ai suoi militanti. Seconda regola: meritocrazia. Terza regola: largo ai giovani. Quarto: fuori chi viola il codice padano". Ma soprattutto - il più amato dei triumviri lo ricorda spesso - "la Lega non è morta e riparte da qui. Basta con la caccia alle streghe, con i complotti, con le scomuniche, con le fatwe e con i cerchi, ora è importante l'unità del movimento". E il Senatùr rincara la dose: "Vogliono dividerci per colpirci. Bisogna smettere di dividersi: crea varchi per il nemico, che è il centralismo romano". Bossi arriva a chiedere persino un giuramento "su chi deve dirigere la Lega, perchè non ci siano più discussioni nè divisioni". Poi aggiunge: "Il cerchio magico non esiste. Ora dobbiamo essere tutti uniti: noi non scompariremo, basta fare il gioco degli altri". Per quanto riguarda l'inchiesta, il leader della Lega è convinto che "le cose sono organizzate: è una specie di complotto. Quello che è avvenuto è il tentativo di distruggere la Lega. Non possono farla sparire per decreto e fanno il ragionamento: se togliamo i soldi del finanziamento...". E, dopo aver ricordato come Belsito è arrivato al Carroccio, Bossi commosso si è scusato con il popolo padano: "A me spiace non solo per la Lega ma anche per i miei figli. Chiedo scusa perché i danni sono stati fatti da chi porta il mio cognome". Si passa sui corpi di figli ed amici. Bah!
E insomma pare che Maroni si sia preso la rivincita di quando nel 1994, a un passo dall’espulsione, fu costretto ad un umiliante autodafe’, tanto da far dire alla Pivetti, allora ancora in auge, che sembrava un “rieducato di Pol Pot”. L’esibizione del feticcio Bossi sul palco di Bergamo costringendolo a umilianti pubbliche scuse è però al tempo stesso un segnale di forza e di debolezza. Il segnale di forza consiste appunto nell’esibizione del feticcio, a mo’ di burattino. Il segnale di debolezza risiede nel fatto che Maroni, per aspirare al comando, deve esibire il feticcio, per ottenerne, anzi estorcerne, l’investitura di fronte ai militanti. Insomma Maroni ammette implicitamente che non ha la forza, o la voglia, prendere il partito manu militari dimostrando, alla fin fine, di non aver capito la genesi dei problemi della Lega che risiedono, tra le altre cose, nel personalismo del partito, la cui transizione passa per investitura dall’altro, come in una monarchia, e non in una elezione dal basso. Il “cerchio magico” quale espressione della corte del principe ne è la conseguenza diretta, e il sostituire il despota rincoglionito con un sovrano sognante, non cambia i termini della questione, perché il sovrano necessita comunque di una corte e al “cerchio magico“ ben presto si sostituirà una “confraternita maronita“. Inoltre la questione è anche pericolosa per lo stesso Maroni. Basta guardare il povero Alfano, che dopo essere stato nominato, ha scoperto che gli manca quel quid per diventare effettivamente il leader del partito, nonostante gli innumerevoli guai del suo predecessore. Purtroppo per Maroni questa concezione è insita nella Lega fin dalle sue origini. Il “padroni a casa nostra” sottintende che il problema non e’ l’organizzazione della casa, ma il suo padrone, nella visione leghista. E così anche il loro tanto gabellato federalismo non è altro che una somma di centralismi regionali, che non intaccano i problemi della cosa pubblica della sua organizzazione, gestione ed efficienza, e infatti appena si sono assisi sulle cadreghe locali hanno cominciato a comportarsi come tutti gli altri.
Umberto Bossi e Roberto Maroni sono saliti insieme sul palco a Bergamo per la serata dell'orgoglio leghista e sono stati accolti dal coro "Lega" scandito dalla base. Insieme a loro, anche Roberto Calderoli e Manuela Dal Lago, oltre al segretario provinciale di Bergamo, Cristian Invernizzi e il presidente della Provincia, Ettore Pirovano. I giovani padani si sono presentati con simboliche scope di colore verde, simbolo della pulizia che vogliono fare dentro al partito. "Sono giorni di passione - ha detto Maroni - di dolore ma anche di rabbia per l'onta che abbia subito per essere considerati un partito di corrotti, per Umberto Bossi che non si merita quello che è successo. Ho provato anche orrore per le accuse di collusione con la 'ndrangheta e la mafia. Da stasera noi ripartiamo con le nostre straordinarie battaglie. La Lega non è morta e non morirà mai. La Lega è potentissima, non ci sono cerchi che tengano". Il partito, ha aggiunto, dimetterà Rosy Mauro e venerdì espellerà Francesco Belsito. «Mi spiace che Rosi Mauro non abbia accolto la richiesta del nostro presidente, ma se non si è dimessa ci penserà la Lega a dimetterla - ha annunciato l'ex ministro dell'Interno - Così finalmente - precisa - forse potremo avere un vero sindacato padano, guidato da un padano vero». Maroni ha parlato poi del leader storico: "Umberto Bossi non si merita quello che è successo. Conosco Umberto da 40 anni e non c'entra niente". "Dobbiamo anticipare entro giugno il congresso federale per dare una guida salda alla Lega", ha proseguito. Poi è intervenuto Umberto Bossi che ha detto: "Siamo capaci di ripartire e siamo stati vittima di un complotto", ha detto l'ex segretario. "Penso che quando ci presenteremo davanti al Padreterno - ha insistito - ci chiederà quanto volte siamo stati capaci di ripartire. Questo vuol dire Pasqua: ripartenza. Siamo vittime di una specie di complotto, come è possibile che nessuno si è accorto che l'amministratore, come dicono ora alcuni, era vicino a famiglie mafiose". "'Non e' vero che Maroni sia un traditore, bisogna che si smetta di divedere la Lega: questo crea varchi per il nemico che è il centralismo romano. La cosa principale che dobbiamo decidere questa sera è un giuramento su chi deve dirigere la Lega, perché non ci siano più discussioni né divisioni", ha detto ancora. Ma un'ammissione importante il leader leghista l'ha fatta, scusandosi per il figlio Renzo: "Chiedo scusa perché danni sono stati fatti da chi porta il mio nome".
Intanto, dopo voci di imminenti dimissioni di Rosi Mauro da vicepresidente del Senato, è stata la stessa esponente leghista a smentire nella serata del 10 aprile 2012 a “Porta a Porta” di Bruno Vespa questa possibilità. «Perché dovrei? - ha detto nel corso della registrazione di 'Porta a Porta' - Innanzitutto voglio spiegare come stanno le cose e dire la verità, e poi vedremo -ha aggiunto - In questi giorni - ha proseguito - mi sono accorta del potere che ha l'informazione e ho il diritto di difendermi. Lo farò parlando in Aula in Senato. Non ho nulla da nascondere e ho tutte le prove per rispondere alle accuse». Rispondendo poi a una delle principali contestazioni ha sostenuto: «La Lega Nord non ha mai dato un euro a Rosy Mauro, ha fatto donazioni solo a Rosy Mauro in qualità di segretaria del Sindacato Padano. La direzione del partito era informata». Quanto all'accusa di essersi comprata una laurea in Svizzera con i soldi della Lega, la senatrice ha spiegato: «Non mi ha mai sfiorato l'idea». Mauro ha poi smentito che Pierangelo Moscagiuro sia il suo compagno. «Questa - ha risposto - è un'altra nefandezza, qui mi hanno colpito anche nella vita privata. E' assurdo ed è inconcepibile». Allo stesso modo ha negato di essere identificabile con "la Nera" delle intercettazioni telefoniche. «Altro non è che l'infermiera svizzera che segue Umberto Bossi da quando è stato male" e i "29 mila euro di cui si parla saranno i mesi che dovevano pagarle». Cosi Mauro smentisce tutto: la relazione con Pier Mosca, la laurea comprata in Svizzera, il nomignolo che le hanno dato. "Pierangelo Moscagiuro è il mio caposcorta, non è il mio compagno. Questa è un’altra nefandezza. Tutti questo è assurdo e inconcepibile. Questo lo vedremo in altre sedi". Così la vicepresidente del Senato, a Porta a Porta. "Questa vicenda ha fatto male a molte persone. Uno stillicidio e mi ha fatto male", ha aggiunto l'esponente leghista. Rosi Mauro ha ribadito che Moscagiuro "è il mio caposcorta, non è in aspettativa e non è stato assunto dal Senato". L'Italia ha scoperto dell'esistenza di Pier Moscagiuro, l'ex poliziotto diventato cantante (dal singolo Kooly Noody con Enzo Iachetti fino alle esibizioni sul palco in stile Elvis Presley) e soprattutto finito a libro paga della vicepresidenza del Senato. E Franco Bechis, in un articolo su Libero, ricordava anche i pettegolezzi che hanno coinvolto i due amanti: "E' sulla bocca di tutti il racconto di un giorno in cui i due, chissà come, fecero scattare l'impianto anti-incendio dalla stanza della vicepresidenza mettendo a soqquadro l'intero Senato". La hit di Pier Mosca è diventata un tormentone. Kooly Noody è cantata in duetto con Enzo Iachetti e fa parte dell'album "Tra dire e tradire". Il testo vorrebbe essere una sorta di denuncia sociale. Ma Pier Mosca risulta soprattutto uno dei beneficiari dei compensi girati del tesoriere Belsito. Nell'interrogatorio di Nadia Dagrada, segretaria amministrativa della Lega, viene fuori che al poliziotto sarebbero arrivati circo 60 mila euro per pagarsi diploma e laurea in Svizzera.
Sempre la Dagrada lo definisce "amante" della Mauro. Poi la Mauro risponde sulla laurea farlocca: «Io ero asina a scuola. Mai sfiorata dall’idea di prendermi la laurea in Svizzera. Mai avuto contatti con la Svizzera». E anche sui presunti pagamenti a suo favore: «Mai avuto spese mediche pagate. Assolutamente no, è ridicolo». L'esponente leghista, poi, spiega che il nomignolo "La Nera" sarebbe un enorme malinteso: "Non sono io, sarà facile verificare che si tratta dell’infermiera svizzera che ha in cura Bossi da quando è stato male. Infermiera che si chiama Nera. E credo che quei 29mila euro siano la somma che dovevano da mesi a quell'infermiera". Insomma un nome proprio scambiato per un soprannome. "Da giovedì scorso ad oggi mi sono sentita messa in croce. Io non ho fatto niente, non ho niente da nascondere", ha concluso la Mauro.
Ed hanno ancora il coraggio e la faccia tosta di parlare, anziché coprirsi il viso dalla vergogna.
Alla manifestazione della Lega a Pontida erano presenti moltissimi cosiddetti padani, come se la Padania fosse uno stato e Ponte di Legno la capitale. Ciò nonostante la propaganda leghista si diverte a celebrare rituali e ad invocare la secessione. Lungi da noi l’idea di crederci, rimane comunque il fatto che tale invocazione, è musica per il popolo padano. Ma è veramente padano questo popolo o è invece per lo più, il popolo dei figli dei meridionali cresciuti in Padania?
Paradossalmente, non sono pochi i leghisti di origine meridionale (come lasciano intuire i loro cognomi) che, dopo aver vissuto il razzismo sulla loro pelle, a loro volta discriminano i nuovi arrivati.
Aljarida (in arabo “il giornale”) è un interessante periodico mensile free press, realizzato a Milano e giunto al suo secondo anno di pubblicazione. Interessante per varie ragioni: ricco di notizie sul territorio e le dinamiche dell’immigrazione (ma sempre senza retoriche ideologiche), informato sul dialogo culturale che intercorre fra le due sponde del Mediterraneo, e opportunamente scritto in due lingue: italiano e arabo. Ma la ragione per cui vi parlo di Al Jarida è anche un’altra: un articolo intitolato “Tutto il mondo è Paese”. Nell’articolo, che si può leggere sul numero di giugno 2010 della rivista, si spiega l’origine – araba in certi casi , “meridionale” in altri – dei cognomi di alcuni deputati leghisti. In sostanza, spiega l’articolo, quando nel 1492 i Mori vennero cacciati dalla Spagna (Al Andalus, l’Andalusia) alcuni fuggirono nella Repubblica di Venezia e in particolare in una città che faceva parte del suo territorio, Brescia. Così, i cognomi di molti bresciani hanno origini arabe. Per esempio quello dell’on. Gibelli, deputato della Lega Nord e Vice Governatore della Regione Lombardia non ha origini celtiche bensì arabe: molti Mori fuggiti dalla Spagna si rifugiarono infatti sulle montagne del bresciano e Gibelli deriva dalla parola araba giabali che significa appunto “montanaro”. L’articolo su Aljarida contiene anche altre stimolanti informazioni, fra cui una riguardante il nuovo Presidente della Regione Piemonte, il leghista Roberto Cota: il suo cognome sembra derivare dall’arcaico albanese kota, termine diventato un cognome molto diffuso nel meridione d’Italia e sopratutto in Puglia e che – particolare curioso – in albanese significava “inutile, cosa da poco”. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Per noi è veritiera quest’ultima tesi, e molti dirigenti leghisti ne sono una prova. Il governatore del Piemonte Cota ne è una dimostrazione vivente, lui figlio di un avvocato di San Severo di Puglia, così come l’europarlamentare Speroni, pugliese anche lui e che dire della signora Bossi cofondatrice della Lega ma siciliana doc. Per non parlare poi dei diversi amministratori leghisti nei comuni, nelle province e nelle regioni, che sono nati o hanno genitori meridionali.
Diteci voi quindi se questo non è altro che razzismo dei razziati, che vi ha indotto a diventare meridionali leghisti, per una storia sottaciuta ai più e falsata nei giudizi della gente comune. Dalla rabbia verso un sud che non vi ha garantito benessere e occupazione, ai pregiudizi della gente del Nord, verso questo meridione inetto, assistenzialista, lamentoso e scarsamente produttivo. Dallo sfruttamento delle vostre braccia da parte degli industrialotti del nord, alle scritte sui ponti padani inneggianti all’eruzione dell’Etna. Capiamo che per sopravvivere a tale barbarie, non vi restava altro che emulare lo stile padano, al fine di non rimanere vittime di voi stessi, per il resto dei vostri giorni. E da qui, che le generazioni figli dei meridionali, hanno assunto verso il loro sud uno spirito ostile, credendo fino in fondo ai pregiudizi e a quel disprezzo leghista verso il povero meridione. Siete diventati i più spietati nemici del sud, ignorando però le ragioni storiche, sociali, culturali ed economiche che hanno reso il sud perdente verso il nord. Cari figli nostri del sud se solo conosceste la vera storia meridionale, il leghismo diventerebbe una barzelletta da raccontare in una serata goliardica con gli amici. Ma non preoccupatevi, se non l’hanno fatto i libri di storia, lo faremo noi il vero racconto del sud e dell’unità d’Italia armata. Vi racconteremo a puntate dai mille in poi. Per adesso cari Cota e c. cercate di liberarvi del razzismo dei razziati…..al resto ci pensiamo noi.
Tratto dal libro di Pino Aprile, Terroni, che vi invito a leggere: “Una mia cugina, dopo sei mesi al Nord, tornò per le ferie estive. Era cambiata: vestiva in modo più appariscente, esibiva un accento non suo, roteava stizzosamente le spalle, il mento puntuto e alto. Parlava malissimo dei meridionali, con astio rovente e ridicolo. «Ma cosa fanno di così terribile?» le chiese mia madre, incuriosita. Lei tacque per lo stupore, si guardò intorno, come a cercare una risposta. Era sorpresa, o ci parve, dalla stupidità della domanda: c’era bisogno di una ragione per parlar male dei meridionali? Così, poverina, se ne uscì con una frase, lei settentrionale da sei mesi, che la bollò per sempre, in famiglia: «Sporcano i monumenti». Cosa le fosse accaduto, lo capii molto più tardi. Quella mia cugina è leghista.”
E voi? quante “cugine leghiste” avete conosciuto? Io purtroppo un bel po', rinnegati/e che dopo una settimana che sono al nord parlano con accenti ridicoli ed usano i loro intercalari. Ebbene, mi chiedo se hanno il coraggio di dire ai loro genitori che si vergognano delle loro origini e della loro famiglia. E' vero, sarà perchè una volta non si "affittava casa ai terroni" e oggi "non si affitta casa agli stranieri", ma questa Lega, ha uno strano rapporto con quelli che chiamano con orgoglio 'terroni'. Prima li insulta in campagna elettorale, ma poi li sposa (vedi a casa Bossi), gli mette i soldi del partito in mano (vedi Belsito, nato a Genova, ma calabrese di origine) e ci fa affari e magari cerca anche qualche voto o accetta di 'mettersi a disposizione' (vedi mister 19mila voti Angelo Ciocca, eletto in regione Lombardia, non indagato dall'antimafia ma pizzicato in compagnia a Pavia di tale Pino Neri, oggi a processo a Milano per associazione a delinquere di stampo mafioso). Vedi magari anche quel "gamma" di Lecco, primo leghista eletto in un consiglio comunale nei primi anni '90 che, secondo le parole di un collaboratore di giustizia, spesso si incontrava col boss Franco Coco Trovato. Lo chiamiamo "gamma" perchè su di lui c'è aperta una indagine dell'antimafia di Roma, anche se l'ex ministro della Giustizia Roberto Castelli ha candidamente ammesso di rispecchiarsi in quel personaggio tratteggiato nel libro "Metastasi" di Gianluigi Nuzzi. Sui terroni ci faranno le campagne elettorali insultandoli, ma poi li frequentano. E qualcuno frequenta pure quelli sbagliati... Ma secondo loro è un complotto dei poteri forti perchè si sono messi all'opposizione, e non una indagine partita dalle denunce di un militante indispettito dall'uso fatto dei soldi arrivati al partito dopo i rimborsi. Saperlo... che uno degli indagati della vicenda Belsito, avrebbe tra l'altro, stando alle indagini, favorito il clan calabrese della 'ndrangheta dei De Stefano...Fortuna che ci sono meridionali onesti, ma quelli evidentemente sono quelli di cui la Lega Nord non tiene conto.
Rosy Mauro, la leghista terrona che rinnega le origini meridionali. Rosy Mauro nata il 21 luglio 1962 a San Pietro Vernotico, in provincia di Brindisi, cresciuta nella provincia di Lecce a Squinzano e diplomata in ragioneria, nel 1980 si è trasferita a Milano per lavoro; ha iniziato l'attività sindacale in azienda nelle file della UIL a 21 anni. Nel 1990 è stata eletta segretario organizzativo del Sindacato Autonomista Lombardo. L'11 novembre 1999 è nominata Segretario Generale del Sindacato Padano. La prima uscita, nel ' 90: "Vedete? Sono pugliese e leghista. Il Carroccio non ce l' ha con i meridionali". L' ultima uscita: "Mi iscrivo alla Guardia nazionale di Erminio Boso. Il Nord se ne va: diventa indipendente". Rosy Mauro fa la sindacalista ma soprattutto la leghista. La chiamano "la pasionaria del Carroccio": perchè corre, scrive, parla, si agita, si indigna, si arrabbia. Sempre in nome di Bossi. "Rosy è un vulcano", dicono gli amici. "Rosy è un vulcano", confermano i nemici. Per svegliare dal letargo la Lega milanese, Bossi l'ha appena nominata segretario cittadino. E così lei si ritrova con il triplo incarico: leader locale del movimento, consigliere comunale, attivista del Sal (il sindacato filo Lega). Schizza da una sede all'altra. Con un pensiero fisso: "Rilanciamo il "porta a porta" come facevamo una volta". Ma ora è proprio lei, la pasionaria, che fa tremare il Carroccio.
Per una strana storia di amicizie e di rifiuti. Rosy Mauro viene da Squinzano, nel Leccese: il padre lavorava in campagna e la madre alla Manifattura tabacchi. Arriva a Milano, entra in un'azienda metalmeccanica, si iscrive alla Uil. Ma il vero amore arriva nel' 90: si chiama Bossi. Prima si avvicina "in modo carbonaro", poi fa il grande passo: "Lasciai la Uil, delusa da Benvenuto, e abbracciai la Lega. Il primo obiettivo? Fare un sindacato regionale. Autonomista. Senza ordini da Roma". Guida le varie campagne leghiste, è dappertutto. Eccola, anni fa, ripresa dalle telecamere mentre fischia e urla contro il sindaco di Bologna Walter Vitali al congresso della Lega. Un putiferio. Tanto che lo stesso Bossi perde la pazienza: "Stavolta abbiamo esagerato". Nel febbraio del' 94 si fanno le liste per la Camera: Rosy Mauro, a sorpresa, non c'e'. Deve accontentarsi del consiglio comunale. E sempre con Bossi. Anche al processo Cusani. Anche in vacanza: la foto in piscina con il senatur, a Ponte di Legno, fa il giro dei settimanali. Si incatena davanti a Montecitorio per tre giorni e tre notti "per ricordare che il referendum sulle trattenute sindacali è stato calpestato". Passano quindici giorni e ricompare a Pontida: si iscrive alla Combat guardia nazionale. Diventa "legionaria" del senatur: "Saremo pronti a difendere la libertà del Nord. Ma anche a proteggere Bossi, perchè è il bersaglio numero uno: meglio vigilare prima che piangere dopo". l ritratto che i maligni fanno del Senatur Umberto Bossi, in questi mesi di crisi leghista culminati nell'indagine sui fondi "distratti" dal tesoriere Belsito dai rimborsi elettorali del partito, è quello di un uomo "stritolato" tra due donne di ferro: la moglie Manuela Marrone e quella che, sempre i "maligni", chiamano la "badante" del leader leghista. Due padane (la firma della Marrone compare sull'atto fondativo della Lega nel 1984, mentre la Mauro vanta un lunga militanza politica culminata nella vicepresidenza del Senato), ma anche due donne del sud: la Marrone per il padre siciliano e la Mauro per essere brindisina, di San Pietro Vernotico.
Strano destino, quello del leader padano circondato da donne meridionali.
La moglie - Descritta come schiva ma decisa, raramente ha rilasciato interviste o fatto dichiarazioni. A qualche congresso è salita sul palco, ma sono stati episodi sporadici. Il suo impegno è tutto per la scuola Bosina di Varese, che, spiega il sito dell’istituto, lei «maestra di scuola elementare di lunga esperienza» ha fondato nel 1998. Sulla scuola nel 2010 ci sono state alcune polemiche per un finanziamento di 800 mila euro dal Governo. Di lei s'è parlato anche quando Gianfranco Fini, in rottura con Berlusconi e i suoi alleati, la definì una "baby-pensionata", in quanto destinataria di un assegno dal 1992. Sarebbe lei a indossare i pantaloni in casa Bossi, sopratutto da quando il Senatur è stato colpito dall'ictus dell'11 marzo 2004. E, secondo i ben informati, ci sarebbe lei dietro la nascita del cosiddetto "cerchio magico", ossia quel gruppo di fedelissimi che da qualche anno circonda Umberto Bossi e della quale Rosy Mauro è primo esponente. Come sarebbe stata lei a premere per l'avvio della carriera politica del primogenito Renzo Bossi, "Il Trota", approdato nel 2010 al Consiglio regionale della Lombardia.
La "badante" - Nel 1980 si trasferisce a Milano per lavoro e inizia l'attività sindacale nelle file della UIL. Dieci anni dopo viene eletta segretario organizzativo del Sindacato Autonomista Lombardo. L'11 novembre 1999 è nominata Segretario Generale del Sindacato Padano. Consigliere comunale a Milano, dove è eletta nel 1993 col sindaco lumbard Marco Formentini, nell'aprile 2005 entra nel Consiglio regionale della Lombardia attraverso il listino (cioè senza prendere voti di preferenza) del Presidente Roberto Formigoni. Nel 2008 il grande salto a Roma, dove è eletta al Senato nella circoscrizione Lombardia e viene addirittura nominata vicepresidente dell'aula di Palazzo Madama. Epico l'episodio del dicembre 2010 quando, irritata per le richieste dell'opposizione utilizzare il voto elettronico per ogni emendamento al ddl gelmini, ha disposto votazioni a raffica, suscitando le proteste dei senatori del centrodestra e perdendo il controllo dell'aula. Dopo il via libera a quattro emendamenti del centrosinistra, la seduta veniva sospesa e le votazioni riprendevano più tardi con presidente Renato Schifani a tenere le redini dell'aula di Palazzo Madama. Negli ultimi anni è stata una presenza costante in tutte, o quasi, le foto del Senatur.
Leghisti terroni. In Svizzera vincono gli slogan anti italiani. Forse questo signore non lo conoscete ancora. Ve lo presento. Si chiama Giuliano Bignasca. A dispetto del nome italianissimo, italiano non è. E' svizzero. E non è uno scherzo. Anzi. Contro gl'italiani ce l'ha assai. E su slogan fortissimamente anti-italiani ha fondato la sua campagna elettorale nel Canton Ticino. E già. Perché il Giuliano è il dux della Lega Ticinese. Che, udite udite, ha appena ottenuto un trionfo alle elezioni cantonali. Il successo è fondato su slogan e parole d'ordine che noi italiani conosciamo bene. Perché son gli stessi sui quali i primitivi lumbard hanno fondato la loro politica razzista, egoista e localista. Anti-italiana. Insomma. A farla breve. Il Giuliano sta alla Svizzera come l'Umbèrt sta all'Italia. Così si comprendono perfettamente valori e spessori della creatura in questione. C'è però una cosa che, nello squallore generale, mi fa davvero morir dal ridere. Che quando gli sfascioleghisti longobardi se la prendono coi terùn se la prendono, ovviamente, con noialtri. Ma quando il Giuliano se la prende coi suoi, di terùn, se la prende coi longobardi nostrani. In una parola. Coi leghisti. Buffo, eh? Molto, ma molto prima di quanto si potesse immaginare, la storia sta dimostrando definitivamente che il mondo è una gran palla. Nel senso che è rotondo. E così non è poi tanto facile individuare esattamente se noi stiamo a nord. A sud. O magari al centro. Perché la verità è che stiamo tutti a nord di qualche sud. E, naturalmente, stiamo tutti a sud di qualche nord. Da questa verità elementare dovrebbe discenderne un'altra, che purtroppo tanto elementare probabilmente non dev'essere, se così tante creature, in ogni parte del mondo, non riescono a comprenderla. Ossia che, in realtà, in quella gran clessidra che è il tempo umano siamo tutti, ma proprio tutti, piccolissimi granelli di sabbia che si ritrovano mischiati. Sballottolati diqquà e dillà. Disù e digiù. Che importanza può avere il vicino che il destino mi mette accanto, a condividere un pezzo di strada? Anzi. Siamo talmente tanto mischiati ed appiccicati. Le cose del mondo son così tanto interconnesse tra di loro. Che solo chi non ha capito proprio niente può essere convinto che sia possibile distinguere, con una linea. Una frontiera. Magari un dialetto. Il destino di coloro che, nella storia, camminano gomito a gomito. Davvero può essere ragionevole pensare che il destino del granello di sabbia che mi sta accanto non c'entra nulla con me.
Davvero può essere ragionevole pensare che la sua sofferenza, come la sua felicità, siano qualcosa di staccato. Di avulso. Di indipendente? Ecco. Il Giuliano è l'esempio vivente di quanto il mondo sia rotondo. E di quanto giri, giri, giri senza posa. Da oggi, se vorrete, all'ennesimo imbecille insulto che faranno alla nostra meridionalità potrete rispondere con un altrettanto «terùn sarai tu». Tanto potete stare tranquilli. Un altro nord si trova sempre. Per tutti.
I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio. Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso.
Conformità per conformità, l'omologazione appare su "Il Giornale". Allora, Salvini, le è piaciuto Benvenuti al sud? «Francamente mi aspettavo di più. Soprattutto di ridere e sorridere di più. Invece molte gag e alcuni passaggi mi sono sembrati un po’ scontati. Comunque, complessivamente è un film gradevole». Non sarà Renzo Bossi, il figlio di Umberto detto il Trota, con il quale il regista napoletano Luca Miniero avrebbe voluto assistere alla proiezione del suo film campionissimo d’incassi (vicino a 16 milioni e lanciato verso i 20) ma, quanto a uscite hard e sbandate antimeridionaliste anche Matteo Salvini non scherza. Trentasettenne, europarlamentare nonché capogruppo leghista in consiglio comunale a Milano durante un raduno a Pontida venne colto a cantare «Senti che puzza, scappano anche i cani. Sono arrivati i napoletani…». «Un coro da stadio dopo una birra di troppo», minimizzò lui. Che però, pur smentendo qualsiasi relazione tra i due fatti, qualche giorno dopo si dimise da deputato e optò per il seggio di europarlamentare a Bruxelles. Al primo spettacolo del pomeriggio la sala non è pienissima. Ma a sentire le risate, il pubblico sembra divertirsi. Anche Salvini si lascia andare a qualche risolino. Nella parte iniziale del film, Alberto (Claudio Bisio), direttore dell’ufficio postale del paesino brianzolo, è intriso di pregiudizi e cultura leghista. La moglie Silvia (Angela Finocchiaro) fa parte della squadra di Rondinelle, le ronde al femminile, che perlustra quartieri immacolati. «Ma sì, ci può stare un po’ di presa in giro – accetta Salvini – anche se certi passaggi sono un po’ troppo caricaturali. I brianzoli vengono dipinti come gente che pensa al gorgonzola e all’aiuola di casa. Forse si poteva pensare a qualcosa di più elaborato. Ecco: diciamo che la storia è tagliata giù con il falciot».
Però il giubbetto antiproiettile che Bisio indossa nel viaggio verso il Cilento ci può stare… «Diciamo che i numeri dimostrano che quando si va a Napoli e dintorni non si vive proprio in perfetta tranquillità», ammicca Salvini. «Detto questo, purtroppo la cronaca ci dice che i pirla e i delinquenti abbondano anche a Milano. Il giubbetto antiproiettile potrebbe essere dato in dotazione in tanti posti». Il Bisio cripto-razzista non scandalizza Salvini. Anzi, in alcune gag l’europarlamentare ha ritrovato un pezzetto della sua esperienza di deputato. Soprattutto quando arriva al sud e non capisce una parola… «Ricordo la difficoltà dei miei primi tempi a Roma, nei negozi, al ristorante. Restavo sbigottito». Quindi, nel film non c’è nulla che l’abbia particolarmente irritato. «Guardi, ho visto anche Cado dalle nubi di Checco Zalone, dove in un certo senso c’è il procedimento inverso, un pugliese che emigra a Milano e s’imbatte in alcuni ambienti leghisti, dipinti in modo un po’ gretto. Quello che conta è ridere da tutte e due le parti, anche dei propri difetti». Però. «Però, non c’è bisogno di andare a Napoli per trovare un po’ di sole. Da milanese, se vado a Recco trovo il sole, il mare.
E anche la focaccia». Non dirà che non è mai andato in vacanza al sud: «Quando avevo quattro o cinque anni sono stato in Calabria e in Sicilia. Adesso alcuni amici mi hanno decantato e invitato in Salento. Non escludo di andare a verificare di persona. Una città che invece non è tra le mie priorità turistiche è proprio Napoli». Già, i napoletani puzzano. «Quello era e rimane un coro da stadio. Noi abbiamo la nebbia. Se dovessi scegliere le mie mete meridionali punterei sempre sulla Sicilia e la Puglia». Il regista Luca Miniero ha detto che «quelli del Nord sono bravi a fare i razzisti solo da lontano». «Grammaticalmente, razzismo significa sentirsi superiori agli altri. Penso che non ci sia nessuno così stupido da ritenersi superiore. Ma quelli che vengono considerati luoghi comuni spesso sono fatti facilmente riscontrabili». Per esempio? «Beh, s’infervora Salvini: «Il numero dei falsi invalidi nelle province della Campania, l’assenteismo per malattia, il numero esorbitante di dipendenti pubblici: tutti fatti comprovati. Qui il razzismo non c’entra. E poi solo a Napoli esiste un movimento che si chiama Disoccupati organizzati». Meglio organizzati che sbandati. Comunque, a proposito di pregiudizi, pensa che anche a lei qualche volta potrà capitare di ricredersi? «Ho sbagliato tante cose e altre ne sbaglierò ancora», concede Salvini. «Per esempio, a Milano molti dei migliori militanti leghisti, vengono dalla Puglia o dalla Calabria. Ciò che fa la differenza non è il luogo di nascita di una persona, ma il modo di ragionare che non dipende solo dalla latitudine. Detto questo, non cambierei Milano, la sua cultura e la sua filosofia del vivere per niente al mondo». Qualcuno dei militanti leghisti di origine meridionale potrebbe venir buono per il seguito, Benvenuti al nord.
Salvini teme che vengano rispolverati i soliti luoghi comuni dei «nordisti razzisti e un po’ polentoni». Ma lui un’idea ce l’ha: «Lo ambienterei a Chiavenna in Valtellina. Ma va bene anche a Bergamo o a Varese, dove la Lega ha il 40 per cento». A proposito di Benvenuti al nord, il sindaco di Treviso Gian Paolo Gobbo ha respinto il set di una commedia in cui Abatantuono è un imprenditore ostile agli extracomunitari. Ma dopo che una tromba d’aria allontana tutti gli immigrati della zona e l’economia locale entra in crisi perché i pomodori marciscono nei campi e le fabbriche rallentano la produzione, la faccenda si complica. Il film si girerà a Bassano del Grappa, ma a Treviso c’è chi si lamenta per i mancati introiti. «Non so bene quali siano i veri motivi della decisione del sindaco di Treviso», premette Salvini. «Certamente, respingere la produzione di un film importante può penalizzare l’economia locale.
Ma credo che, ormai, città come Treviso o come Verona, sempre dipinte come culle di razzismo, siano stanche di essere usate per alimentare questa fama». Già, i razzisti stanno tutti al nord. Tornando a Bisio, come si spiega il successone di Benvenuti al sud? «È una parodia, una favola che può mettere di buonumore. Però non mi sembra un capolavoro. Ecco, diciamo che Amici miei è un’altra cosa».
CHI DI SPADA FERISCE, DI SPADA PERISCE. I Media: Lega Nord Padania Ladrona. Giornali e tv ne parlano: Non solo Roma ladrona, ma anche Padania ladrona.
IL CASO. Bufera sulla Lega, il tesoriere va via. "Denaro pubblico alla famiglia Bossi". Le accuse dei magistrati: truffa ai danni dello Stato e finanziamento illecito ai partiti. "Elementi di opacità nella tesoreria del Carroccio fin dal 2004". Al lavoro le Procure di Milano, Napoli e Reggio Calabria. Contatti con la 'ndrangheta. Maroni: "Adesso facciamo pulizia nel partito". Il resoconto di Emilio Randacio su “La Repubblica”. Soldi pubblici gestiti "nella più completa opacità" da almeno otto anni, tanto da far sorgere il sospetto che siano andati a coprire le spese personali, cene, alberghi e viaggi dei figli di Umberto Bossi - tra cui Renzo, 'il Trota', sovvenzionato anche per la campagna elettorale - e della senatrice Rosy Mauro, ma anche la ristrutturazione della villa di Gemonio del leader del Carroccio. Fondi che sarebbero stati "sottratti" alla casse della Lega pure per prendere il volo verso la Tanzania e Cipro con investimenti su cui ora la magistratura vuole vederci chiaro. Così come vuole analizzare a fondo quei rendiconti elettorali, pare truccati, che hanno tratto in inganno i presidenti di Camera e Senato, cioè coloro che li hanno certificati dando il via libera a finanziamenti, come l'ultimo da circa "18 milioni di euro", irregolari.
Dopo le presunte tangenti del caso Boni (Davide, il presidente leghista del consiglio regionale lombardo), arriva un'altra batosta che colpisce al cuore il Carroccio. Questa volta a finire nelle maglie della giustizia è Francesco Belsito, diventato non solo sottosegretario nell'ultimo governo di Silvio Berlusconi, ma tesoriere della Lega. Belsito si è visto piombare negli uffici milanesi di via Bellerio - crocevia di tre inchieste: una di Milano, una di Napoli e una di Reggio Calabria - la guardia di finanza e i carabinieri del Noe. Nell'indagine coordinata dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dai pm Roberto Pellicano e Paolo Filippini, è accusato, assieme agli imprenditori Stefano Bonet (già in affari con l'ex ministro Aldo Brancher) e Paolo Scala, di appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato. Belsito è arrivato in serata nella sede della Lega in via Bellerio a Milano e ha presentato le dimissioni. Il passo indietro era stato auspicato da diversi esponenti del partito, dopo le perquisizioni e la notizia delle indagini, a cominciare dall'ex ministro Roberto Maroni. Che commenta: "E' una buona notizia, adesso bisogna andare fino in fondo e fare pulizia dentro il partito, cominciando dalla nomina di un nuovo amministratore capace di aprire tutti i cassetti". Dopo le dimissioni non sono state avanzate, per ora, ipotesi riguardo a una sostituzione o alla nomina di un commissario: sarà il consiglio federale a deliberare sulla questione.
"Visto che è stato tirato in ballo il nome di Umberto Bossi mi sento di escludere in maniera assoluta ogni suo coinvolgimento", è stato invece il commento del governatore lombardo Roberto Formigoni.
Sulla stessa lunghezza d'onda l'ex premier Silvio Berlusconi: "Chiunque conosca Umberto Bossi e la sua vita personale e politica, non può essere neanche lontanamente sfiorato dal sospetto che abbia commesso alcunchè di illecito. E in particolare per quanto riguarda il denaro della Lega, del movimento al quale ha dato tutto se stesso. Perciò esprimo a Umberto Bossi la mia più affettuosa vicinanza". "Altro che Roma ladrona. Alla fine i nodi vengono sempre al pettine - ha invece commentato Felice Belisario, presidente dei Senatori dell'Italia dei valori - La Lega, che si è sempre messa sul piedistallo dell'integrità morale, adesso si ritrova nei guai fino al collo". Due i filoni su cui i pm del capoluogo lombardo da tempo, anche in seguito alla denuncia di un militante della base leghista, hanno acceso i riflettori: il primo riguarda i fiumi di denaro finiti nelle casse del partito fondato da Bossi presentando rendiconti, questa l'ipotesi, "irregolari"; il secondo la "distrazione" di parte di quei fondi, alla fine dello scorso dicembre, da parte del tesoriere, non si sa in base a quali poteri statutari, per acquisire tramite la Banca Aletti (dove la Lega ha un conto corrente) quote in un fondo Krispa a Cipro e quote in un fondo in Tanzania per circa "6 milioni". Operazioni, queste, avvenute per gli inquirenti con la complicità dei due imprenditori. E proprio uno dei due imprenditori è anche complice di Belsito nella vicenda, autonoma rispetto a quella sull'andirivieni dei finanziamenti pubblici alla Lega, che riguarda la Siram, multinazionale che si occupa di energie rinnovabili e servizi ambientali, anch'essa perquisita dalla guardia di finanza. Dai primi accertamenti, fra il 2010 e l'anno scorso, i due avrebbero architettato una maxi truffa che, grazie a un giro di fatture false, avrebbe consentito al colosso di usufruire in modo indebito di un credito di imposta pari al 40 per cento dei costi sostenuti per l'attività di ricerca e sviluppo. E Belsito in questo caso si sarebbe speso come "procacciatore d'affari" in virtù delle sue relazioni politiche, perché anche sottosegretario. Ma il capitolo che ha provocato un terremoto in via Bellerio, dove i militari hanno sequestrato carte e pc in vari uffici - compresi quelli di Daniela Cantamessa, una delle segretarie di Umberto Bossi, e di Nadia Dagrada, dirigente amministrativo e responsabile del settore gadget, acquisendo anche documentazione sul Sindacato padano, fondato da Rosy Mauro - è quello, come si legge nel decreto di perquisizione, che riguarda la gestione della tesoreria del partito "avvenuta nella più completa opacità fin dal 2004". Una "gestione in nero (sia in entrata sia in uscita) di parte delle risorse affluite alla cassa del partito", soldi pubblici provenienti dal 4 per mille dell'Irpef o sotto forma di rimborsi elettorali, che, come emerge da una serie di intercettazioni riportate in un'informativa del Noe (a coordinare le indagini è il 'capitano Ultimo', lo stesso che catturò Totò Riina), Belsito avrebbe anche usato per contribuire alle spese per gli svaghi dei figli del Senatur, ma anche in parte per la moglie di Bossi e per Rosy Mauro (non sono indagati): cene, alberghi e viaggi. E la ristrutturazione della villa di famiglia a Gemonio: in un'intercettazione si sente dire che quelle spese vanno a finanziare "i costi della famiglia". In sostanza ci sarebbe stata una sorta di viavai di denaro e il tesoriere, che è stato anche nel consiglio di amministrazione di Fincantieri, avrebbe a volte anche versato sui conti della Lega soldi "in misura superiore ai redditi da lui percepiti" - altro punto di indagine su possibili fondi neri - o prelevato in banca somme in contanti, come i 95mila euro del dicembre 2010 con giustificazione "alimentare la cassa del partito". E poi ancora quei 6 milioni sottratti per essere dirottati negli investimenti in Tanzania e a Cipro e che Belsito dice di aver restituito alla Lega ma su cui gli inquirenti, che hanno sentito numerosi testimoni, tra cui pare anche la stessa segretaria di Bossi, vogliono far luce. Così come vogliono fare chiarezza sui rendiconti per le spese elettorali finiti alla presidenza di Camera e Senato per il via libera ai rimborsi. Sull'ultimo, quello alla base dei 18 milioni erogati ad agosto, ci sono seri dubbi: si riferisce al 2010 e - scrivono i pm negli atti - "vi è la prova della falsità".
L'INCHIESTA. Triangolazioni sospette per milioni. E con Belsito spunta la 'ndrangheta. E' a Reggio Calabria uno dei tre filoni dell'inchiesta sul tesoriere leghista. Giri di fatture e compravendite sospette con società in tutta Italia e un faccendiere in rapporti con il potente caln dei De Stefano. Il reportage di Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica”. Il terremoto giudiziario nella Lega arrivato con l'avviso al tesoriere Belsito e il blitz nella storica sede milanese di via Bellerio, è partito seguendo un sospetto personaggio calabrese. Su Belsito sono ben tre le inchieste aperte: Milano, Napoli, Reggio Calabria. A lui la Dda di Reggio è arrivata seguendo gli affari di Romolo Girardelli, un procacciatore di business in odore di 'ndrangheta. Girardelli, o meglio "l'ammiraglio", come lo chiamavano nell'ambiente, nel 2002 era stato indagato per associazione di stampo mafioso. Gli investigatori lo ritengono vicino ai vertici del clan "De Stefano", famiglia potentissima della città dello Stretto con interessi in Liguria e Francia. Il faccendiere fin dal 2002 è legato a Paolo Martino e Antonio Vittorio Canale, braccia economiche della cosca. Il Pm reggino Giuseppe Lombardo e gli specialisti della Dia gli stavano dietro da tempo, nella speranza di mettere le mani sul tesoro della "famiglia". Una pista buona, che ha poi portato a scoprire anche i rapporti tra la presunta testa economica dei De Stefano e il tesoriere della Lega. Girardelli, secondo l'inchiesta, di affari ne aveva procacciati anche a Belsito, all'imprenditore Stefano Bonet e all'avvocato Bruno Mafrici. "L'ammiraglio", oltre che broker era socio di fatto di Belsito in una immobiliare con sede a Genova. Ma non è tutto, perché gli inquirenti hanno ricostruito una serie di passaggi milionari tra grandi società che si occupavano di consulenza e ricerca. Affari per diversi milioni di euro che consentivano utili sotto forma di crediti d'imposta. Giri di soldi e di "regali" che coinvolgono direttamente il tesoriere della Lega e alcuni altri manager di grandi aziende. C'è ad esempio il caso della Siram che "acquista" servizi per circa 8 milioni dalla Polare del gruppo Bonet (di cui Giradelli è responsabile della sede genovese). La Polare poi è in affari con la Marco Polo da cui compra consulenze per 7 milioni. Ed è attraverso quest'ultima che la stessa cifra torna nuovamente a Siram. Un triangolo strano per i magistrati reggini, che ritengono che nei diversi passaggi alcune centinaia di migliaia di euro restino impigliate in diverse mani. Tra queste quelle di Belsito. L'inchiesta accerta che gli vengono liquidate circa 250 mila euro in due trance.
Un caso analogo è quello che coinvolge Siran, Polare e Fin.tecno.
Sono 8 gli indagati dell'inchiesta che si muove su tre diversi filoni. Quello reggino che riguarda gli interessi della 'ndrangheta, quello milanese legato a Belsito al riciclaggio e all'appropriazione indebita e quello napoletano dove ha sede una delle società coinvolte nel giro. Le ipotesi di reato sarebbe la truffa allo Stato per i falsi crediti d'imposta e il finanziamento illecito dei partiti oltre che riciclaggio di denaro su conti esteri.
Tre procure contro Belsito: "Soldi pubblici ai Bossi". I pm di Milano, Napoli e Reggio Calabria accusano il tesoriere Belsito di aver truccato i bilanci. Viaggi per i figli e Rosi Mauro, fondi per il Trota e per la casa di Gemonio. Il resoconto di Luca Fazzo ed Enrico Lagattola su “Il Giornale”. Spericolati investimenti, false fatturazioni, denaro che viaggia estero su estero, bilanci truccati, fondi neri destinati al vertice del partito, pericolosi (e per nulla padani) legami con la ’ndrangheta. È un uragano giudiziario quello che ieri si abbatte sulla Lega Nord. Il Carroccio finisce nel fuoco incrociato di tre Procure: Milano, Napoli e Reggio Calabria. La sede del partito, in via Bellerio, viene perquisita dalla Guardia di finanza (che porta via documenti del Sinpa, il sindacato di cui è segretaria Rosi Mauro), così pure la segretaria personale di Umberto Bossi, Daniela Cantamessa. Undici gli indagati, dalla Lombardia alla Campania, dal Veneto alla Calabria. E su tutti spicca il nome di Francesco Belsito, il tesoriere del partito, che si è dimesso ieri sera. Il cassiere del Carroccio è sotto inchiesta per appropriazione indebita, truffa, riciclaggio e finanziamento illecito. È lui, secondo i magistrati, ad aver «gestito nella più completa opacità la tesoreria della Lega fin dal 2004». È ancora lui, spiegano i pm, ad alterare la contabilità del partito. Ed è sempre Belsito a impiegare i soldi pubblici sfilati alle casse del Carroccio «per le esigenze personali dei familiari del leader della Lega Nord». Umberto Bossi non è indagato. Ma l’ultimo siluro è per il Senatùr. L’inchiesta della Procura di Milano - coordinata dai pm Alfredo Robledo, Paolo Filippini e Roberto Pellicano e condotta dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria- parte da alcune operazioni sospette che riguardano gli investimenti di Belsito, denunciate da un militante leghista il 23 gennaio scorso, e prende di mira proprio gli investimenti del Carroccio in Tanzania e a Cipro. Denaro che, secondo gli inquirenti, non si sarebbe in realtà fermato nel continente africano né nell’isola del Mediterraneo, ma avrebbe preso la strada di ritorno per tornare nella disponibilità del tesoriere.
L’indagine milanese si incrocia con quelle dei carabinieri del Noe, coordinata dalla Procura di Napoli, e della Dia di Reggio Calabria. Dal Noe negli uffici milanesi arriva un documento che «fornisce elementi inequivocabili sul fatto che la gestione della tesoreria della Lega Nord è avvenuto nella più completa opacità fin dal 2004 e comunque, per ciò che riguarda Belsito, fin da questi ha cominciato a ricoprire l’incarico di tesoriere». «Egli - si legge negli atti - ha alimentato la cassa con denaro non contabilizzato e ha effettuato pagamenti e impieghi anch’essi non contabilizzati o contabilizzati in modo inveritiero». Quali? Nelle intercettazioni telefoniche, viene fatto riferimento ai «costi della famiglia». La famiglia di Umberto Bossi. «Tali esborsi- insistono i pm- vengono effettuati per esigenze familiari del leader della Lega Nord», in «contanti o assegni o contratti simulati». Cene, alberghi, viaggi per la moglie e i figli del Senatùr, per Rosi Mauro, e per la campagna elettorale di Renzo Bossi (consigliere regionale in Lombardia dal 2010), per ristrutturare la villa di Gemonio. La truffa allo Stato viene contestata perché «il rendiconto della Lega è inveritiero, non dà conto della reale natura delle uscite, né della gestione in nero (sia in entrata sia in uscita) di parte delle risorse affluite alla cassa del partito». E non è un dettaglio da poco. Perché i rimborsi elettorali vengono calcolati in base alla validazione del rendiconto da parte degli organi di revisione del Parlamento. E per il bilancio 2010 (ritenuto truccato dai pm) lo scorso anno al Carroccio sono stati riconosciuti rimborsi per 18 milioni di euro. Da Pontida a Dodoma (capitale della Tanzania), esisterebbe un link. Ed è qui che entra in scena un secondo indagato: Stefano Bonet. Di chi si tratta? Bonet è un commercialista tuttofare, sotto inchiesta oltre che a Milano anche a Napoli ( pm John Woodcock e Vincenzo Piscitelli) e Reggio Calabria (pm Giuseppe Lombardo). È Bonet a intrattenere i rapporti con la Siram spa, colosso dei servizi energetici con sede nel capoluogo lombardo, controllata dai francesi di Veolia e Edf, che nell’inchiesta svolge un ruolo chiave. Dai fondi neri creati da Siram attraverso Bonet, e in parte ceduti allo stesso Bonet, provengono probabilmente i fondi occulti della Lega. Nell’inchiesta la Siram viene definita «la lobby di Giovanni Pontrelli»,il suo direttore generale, che avrebbe versato a Belsito 250mila euro. Tra gennaio e febbraio 2010, le società Polare e Marco Polo Tecnhology- di cui Bonet era amministratore - realizzano «movimenti circolari di denaro fittiziamente giustificati con fatture relative a costi per investimenti in ricerca e sviluppo ». Più precisamente, «la Siram aveva versato alla Polare una somma di 5 milioni di euro dei quali era rientrata in possesso attraverso pagamenti effettuati ad altre società, tutte legate al “gruppo Bonet”». Quei soldi, per il commercialista, sarebbero arrivati grazie al «patrocinio politico» di Belsito, sponsor di un fantomatico «progetto Sirio ». In cambio il tesoriere della Lega ottiene che l’investimento a Cipro venga effettuato tramite Bonet su un conto gestito da Paolo Scala (indagato), che a Larnaka fonda la Krispa Enterprises. Tra il 27 e il 28 dicembre 2011, da uno studio milanese, Belsito fa partire i soldi destinazione Cipro: ma invece del milione e duecentomila euro concordati ne spedisce il quadruplo, quattro milioni e otto. «Devono essere semplicemente parcheggiati, poi andranno dove devono andare », si legge in una intercettazione. Scala e Bonet ne parlano allarmati qualche giorno dopo. E Bonet rivela che i soldi sono del «gruppo», cioè della Lega. Scala: «Non so cosa sia, lui (Belsito, ndr ) mi ha detto che escono da lui». Bonet: «Devono essere del gruppo quelli».«Dobbiamo andare a fare un po’ di giri per andare a creare quelle strutture necessarie per andare a segregare questi importi e per pilotare gli investimenti. Non è che domattina viene fuoriuna fogna e andiamo a finire tutti... ». Infatti.
Secondo di Matteo Pandini su “Libero Quotidiano” qualcuno dice che la Lega è cambiata nel 2000, quando decise di riappacificarsi col Cavaliere. Di sicuro è mutata dall’11 marzo 2004 in poi, quando Umberto Bossi rischiò di morire. È da quella mattina che sulla scena piomba la famiglia del Senatur. Gli inquirenti che ieri hanno perquisito la sede di via Bellerio parlano di «gestione opaca» proprio a partire da lì. Dal 2004 è salita sul ponte di comando Manuela Marrone. È la maestra di origini siciliane che ha sposato il capo lumbard il 12 gennaio 1995 a Palazzo Marino, con la benedizione di un commosso Marco Formentini. Con l’ex ministro in ospedale, parecchi scommettevano sullo sgretolamento del movimento. È andata diversamente. Il fortino di via Bellerio ha retto perché il potere non è scivolato lontano da Gemonio. “La Manuela” ha tutelato il marito tagliando i contatti col mondo, a eccezione di pochi privilegiati. È in quelle fasi drammatiche che nasce il cosiddetto cerchio magico, ovvero il gruppo di fedelissimi in stretto contatto con il leader e i suoi familiari. All’inizio ne fa parte pure Giancarlo Giorgetti, il segretario della Lega Lombarda con cui i rapporti si sono poi raffreddati. Stesso discorso per Roberto Cota.
Marco Reguzzoni, allora presidente della Provincia di Varese, era uno dei pupilli della signora Bossi e lo è tuttora. Rosi Mauro, l’anima del sindacato padano (Sinpa), è nelle grazie di Manuela e scala in un amen le gerarchie del partito, fino a quando – con Umberto che torna sulla scena – gli s’appiccica nelle uscite pubbliche. Nel 2007 acquista casa davanti alla villa del Senatur a Gemonio. Bossi sta male a marzo, dicevamo. A novembre dello stesso anno il Parlamento europeo assume come assistenti di Francesco Enrico Speroni e Matteo Salvini il fratello del capo padano, Franco, e il figlio primogenito di Bossi, Riccardo (il pilota di rally avuto con Gigliola Guidali). Nella Lega spunta per la prima volta un’accusa sanguinosa e collegata al suo capo: nepotismo. Nulla, in confronto ai veleni delle ultime ore. Nell’informativa del Noe si parla di denaro che sarebbe stato utilizzato dai familiari del leader e dai suoi strettissimi collaboratori (tra cui la Mauro) per alberghi, cene, viaggi. C’è la ristrutturazione della villa di Gemonio e la campagna elettorale del Trota. Una storiaccia. E che - se confermata - sarebbe ben più grave dell’affaire Montecarlo che investì Gianfranco Fini.
Pochi anni fa erano state le disavventure scolastiche di Renzo a riempire i giornali. Prima viene bocciato a 15 anni. Poi rifà due volte la maturità. Nell’ultimo caso decide di presentare ricorso. È il leader ad annunciare in un comizio: «Renzo ce l’ha fatta». Non si sa dove. In Italia o all’estero? «Quando stava male mio padre, avevo i giornalisti che mi aspettavano fuori da scuola. Da lì decisi di non dare più certe informazioni» spiegò il Trota a Libero nell’ottobre 2010. Il mistero rimane, anche perché il diploma non s’è mai visto.
Nel 2005, ancora ragazzino, aveva fatto la prima apparizione pubblica con papà. Si affacciò dalla casa di Carlo Cattaneo, in Svizzera, per urlare alla piazza: «Padania libera!». Da lì iniziò a essere sempre più presente. Non solo nei comizi. Pure a Roma.
Nei vertici di governo. A casa Berlusconi. Quando il Corriere gli dedica una paginata, la madre s’inalbera perché non lo vuole così esposto. Bossi smorza: «Lui mio delfino? Al massimo è una trota». Nasce il nomignolo. Nel 2010, però, Renzo finisce al Pirellone incassando quasi 13mila preferenze. Nel frattempo il cerchio magico cambia ma prospera. Vi fanno parte anche il capogruppo a Palazzo Madama Federico Bricolo e, naturalmente, il tesoriere Francesco Belsito. I rapporti nel movimento si fanno sempre più tesi. È gelo soprattutto con Roberto Maroni. La famiglia lo accusa di volersi prendere la Lega sfilandola a Umberto. Renzo nega l’esistenza del cerchio: «Qualche giornalista ha la sindrome Tolkien» dice a fine 2010. Nel novembre 2011 cambia idea: «Non esistono più né cerchisti né maroniani, è tutto a posto». Nel frattempo, alcuni vecchi amici di Umberto faticano addirittura a parlargli, tanto è impenetrabile il cordone di sicurezza che lo circonda. Per esempio, si raffreddano i rapporti con Bruno Caparini, il padre del deputato Davide e che ospita il segretario a Ponte di Legno. Il Trota, approdato al Pirellone, è sempre più al centro della scena. I militanti s’arrovellano: era giusto candidarlo? Di sicuro sono fioccati veleni, con l’assessore lombardo Monica Rizzi accusata di aver fatto confezionare dossier per attaccare altri padani e favorire l’ascesa del rampollo. Il Trota gira con un suv Bmw (intestato a lui) e su un’Audi A5 che risulta di una concessionaria comasca. Vive tra Gemonio e Milano. Spesso si fa vedere a Brescia e sul lago di Garda. Ha frequentato anche alcune vippine da tv. È amicone di Valerio Merola. All’ultimo congresso di Varese l’hanno fatto risultare militante anche se non lo era. Condizione che ne avrebbe dovuto impedire la candidatura alle regionali. Il fratello Roberto Libertà, studente d’Agraria, vive a Gemonio e spesso bazzica una cascina ristrutturata a Brenta, Varese. Eridano Sirio, il più piccolo, è ancora lontano dai riflettori. C’è curiosità per i legami tra Belsito, il tesoriere che ha lasciato l’incarico ieri sera, e la famiglia. Gli inquirenti hanno dato un occhio pure alla Pontida Fin, cioè lo scrigno della Lega. Contiene gli immobili del partito. Tempo fa, all’amministratore unico Ugo Zanello arrivò la richiesta di trasferire le proprietà a una fondazione. Nel luglio 2010, con la Lega al governo, spuntano 800mila euro di finanziamento per la scuola Bosina di Varese, quella della signora Marrone. È lei che, col passare del tempo, è sempre più indigesta alla base. Soprattutto, non la sopportano i militanti che guardano a Maroni. Però, quando a settembre il berlusconiano Panorama spara un articolo che descrive i malumori nei confronti della signora (definita «terrona», mentre la Mauro è «la badante»), tutta la Lega s’inalbera. Ieri sono stati perquisiti anche gli uffici del sindacato padano, che in serata ha parlato di «fraintendimento». Si fa un gran chiacchierare di una sede in Sardegna: sarà vero? Dal canto suo, la Marrone incassa ma resta nell’ombra. In pubblico non parla mai.
Neanche con i media di partito. Quelli che, nel febbraio 2011, erano stati affidati alla supervisione di Renzo Bossi. Papà ne fu felice. I professionisti che ci lavorano e i militanti, un filo meno.
Eccola qui, la vera Lega di Daniele Sensi.
I figli degli immigrati? «Un bel lanciafiamme, e che si brucino queste merde». Il piano svuota carceri? «Lo facciamo noi con un mitragliatore dal balcone». Napolitano? «Un terrone del cazzo, gli ci vorrebbe un colpo in testa». E' il gruppo su Facebook 'Padani si nasce', a cui aderiscono anche i parlamentari Reguzzoni, Rondini, Fugatti, Mura, Pittoni e Stiffoni. Eros Domenico è un militante leghista. Il suo profilo Facebook è una profusione di foto di cene e di manifestazioni del Carroccio. Maglietta col Sole delle Alpi addosso, ama ritrarsi al fianco di Matteo Salvini o ai piedi di una qualche statua dell'Alberto da Giussano. Ha un'opinione su tutto: sul piano "svuota carceri" («mi trasformo in cecchino con un bel mitragliatore sul balcone e via con lo show»); sulle origini meridionali di Giorgio Napolitano («Napoli merda, Napoli colera») e sui due cittadini senegalesi uccisi martedì scorso a Firenze: «Meglio così, due in meno da mantenere». Sempre su Facebook, ha fondato "Padani si nasce, cuore leghista", gruppo - chiuso e riservato - dell'orgoglio padano. Ne fa parte anche Giovanna, bresciana, «casalinga, moglie e mamma», immagini di Topolino, Bambi e Winnie The Pooh sul proprio profilo pubblico. Sulla cittadinanza ai figli degli immigrati ha le idee chiare: «Un bel lanciafiamme, e che si brucino queste merde». Quanto ai loro genitori invece si chiede: «Perché, quando aprono la porta, c'è una puzza strana che fa schifo?». Opinione condivisa da Remo, un odontotecnico di Mantova: «Sapessi che odoraccio quando vengono da me, sono peggio della capre», mentre Anna Paola prova a rispondere: «Puzzano perché non si lavano dopo che fanno l'amore, per non parlare della loro puzza naturale, che è nauseabonda. Tempo fa ho sentito dire in televisione che il loro sesso ha un odore disgustoso, indelebile, che non va via neanche se lo lavi con un sapone speciale». Appartiene al gruppo anche "Maestra Marzia", insegnante di una scuola elementare che sul web amministra un blog di filastrocche, ninne nanne, esercizi di scrittura ed altro materiale didattico «utile agli alunni in caso di assenze prolungate per malattia». Una maestra modello, che sulla propria bacheca condivide foto di «pasticcetti in cucina» e di Topo Gigio, ma che nel gruppo "Padani si nasce", da quando il presidente Napolitano ha definito «una follia» negare la cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori immigrati, non si dà pace: «Non si trovano 3000 miseri euro per un ingranditore utile ad un mio alunno ipovedente, mentre si pagano almeno tre volte tanto i facilitatori linguistici per gli alunni cinesi che si rifiutano di ripetere anche la più semplice parolina di italiano. Cosa mai potranno invece dare i cinesi che sia di utilità comune?». Con soluzioni agli sbarchi di "clandestini" che vanno dal «napalm» a «una bella bomba, così saltano in aria», "Padani si nasce" è qualcosa di più di un semplice gruppo leghista di area. O almeno è il solo che possa vantare tra i propri membri tanti nomi eccellenti. Tra gli altri: il presidente del gruppo parlamentare della Lega Nord alla Camera Marco Reguzzoni; i deputati Marco Rondini e Maurizio Fugatti; i senatori Roberto Mura, Mario Pittoni, Piergiorgio Stiffoni e Michelino Davico; gli assessori della Regione Lombardia Daniele Belotti e Monica Rizzi; l'assessore alle politiche agricole della Regione Veneto Franco Manzato; il vicepresidente della Regione Lombardia Andrea Gibelli; l'europarlamentare Claudio Morganti; il segretario provinciale della Lega Nord di Milano Igor Iezzi, più una sfilza di sindaci e amministratori locali. Tutti iscritti ad un gruppo che per mettere a tacere quel «vecchio di merda» e «terrone del cazzo» di Napolitano propone «un colpo in testa» e, per ritorsione, «un attentato alle Coop». Un gruppo esplicitamente razzista («mischiare le razze non ha mai portato bene») e omofobo («dovremmo equiparare i gay ai pedofili così Vendola la finisce di fare il ricchioncello per strada») che, a fronte dei reati commessi da cittadini stranieri, vorrebbe «dare una ripulita», «aprendo la caccia con i pallettoni per cinghiali, almeno li traforiamo per bene». Con un trattamento di riguardo per gli immigrati malati di TBC («con loro usiamo la fiamma ossidrica, così non ne rimane nemmeno una cellula»), e per i rom: «Mettiamoli nelle stufe a legna, in modo da farne carburante alternativo». Perchè «i rom», spiega Luca, bresciano, amorevoli foto dei suoi bambini in bacheca, «ladri, stupratori e assassini nascono, ladri, stupratori e assassini moriranno: personalmente adotterei per loro le stesse politiche usate dal Führer». «Anziché stanziare fondi per l'integrazione dei rom, L'Unione Europa dovrebbe finanziare l'apertura dei forni», rilancia Alessandro, consulente aziendale nel comasco. Mentre Giovanna – quella appassionata di Topolino, Bambi e Winni The Pooh - euforica applaude: «Evvai! Che bello vederli bruciare!».
«Roma ladrona vuole i soldi dei lavoratori del Nord per tenere viva la vecchia pratica assistenzialista. Ad ogni giro ritornano, come nel gioco della roulette...», disse una sera all’Ansa Umberto Bossi, correva l’anno 2003. «Voglio essere cattivello... non tutti sanno che c'è una insegnante che è andata in pensione nel '92 a 39 anni: è la moglie dell'onorevole Bossi»: lo rivela Gianfranco Fini a Ballarò del 25 ottobre 2011.
La Lega Nord per l'Indipendenza della Padania, meglio nota come Lega Nord o più semplicemente Lega, è un partito politico nato come federazione di vari movimenti autonomisti regionali, tra i quali, in particolare, la Lega Lombarda e la Liga Veneta. I bersagli dei loro strali sono gli extracomunitari e i meridionali. Le accuse contro questi sono fondate su assiomi che delineano una mancanza di cultura o che sono frutto di una cultura distorta. Gente che si sente dura e pura e autoctona, ma, spesso, nelle sue fila vi è gente proprio di origine meridionale ed extracomunitaria. I loro territori non hanno radici storiche e culturali degne di nota, per cui l’odio verso gli altri è la loro linfa vitale e il programma politico si tramuta in calunnie e diffamazioni. Originariamente sostenitrice del federalismo, dal 1996 la Lega Nord ha proposto la secessione delle regioni settentrionali, indicate collettivamente come Padania.
Successivamente ha riproposta il progetto di uno Stato federale, da realizzarsi attraverso il Federalismo fiscale e la devoluzione alle regioni di alcune funzioni esercitate dallo Stato. Propone altresì di aumentare il peso politico delle regioni del Nord Italia, ritenuto non adeguato al peso demografico ed economico delle stesse, nonché di promuovere e valorizzare le culture e le lingue regionali, per fare dell’Italia una “Babele”. La Lega è formata da più Leghe: ognuno con i propri campanili e le loro differenze, che alla minima occasione si fanno notare e che sono foriere di odio interno. A riguardo un articolo di Carlo Puca su “Panorama” del 18 gennaio 2011 rende bene l’idea. “Roberto Calderoli, dentista, già ministro per la Semplificazione e leader dei cosiddetti «bergamaschi» (che poi tutti bergamaschi non sono: per esempio Gianna Gancia, la sua compagna, è presidente della Provincia di Asti). È normale, dunque, che in una Lega divisa in correnti più di quanto si racconti i «varesotti» siano in stato d’allerta. Il loro leader è il già ministro dell’Interno Roberto Maroni. Quando Bossi abbandonerà la vita politica, il Carroccio avrà un problema enorme: trovare il nuovo leader. Tenere assieme i bergamaschi con i varesotti, i piemontesi con i veneti, i lombardi con gli emiliani sarà assai complicato. E non soltanto per le diversità su base territoriale: i nordisti sono divisi tra loro pure all’interno delle singole zone d’influenza. In Emilia-Romagna, dove il partito è in forte crescita, una riunione di partito è addirittura finita in rissa. Erano in discussione le candidature al consiglio comunale. Figurarsi cosa mai accadrà nel prossimo giro per il Parlamento…Date le premesse, per sedare gli animi certo non basterà Renzo «Trota» Bossi, il figlio che il Senatùr vorrebbe (addirittura!) ministro. Men che mai basterà l’altro figlio di Bossi, Eridano Sirio Bossi. Insomma: non basterà il feticcio di un cognome, seppur pesante, a salvare la Lega da una prevedibile diaspora.”
CARROCIOPOLI: Bossi, un mare di bugie.
La presentazione e le recensioni di "Il libro che la Lega Nord non ti farebbe mai leggere", saggio di Eleonora Bianchini edito da Newton Compton. Un'inchiesta appassionata che ridisegna il ventennio leghista dagli anni del "celodurismo" all'ossessione del federalismo fiscale. I lati oscuri di un partito pieno di contraddizioni: minacce di secessione che si alternano ad abili mosse politiche per acquisire un peso sempre maggiore nel governo del nostro Paese; vilipendi alla bandiera, diti medi alzati e pernacchie in TV che fanno da contrappunto a raffinate strategie orchestrate nei palazzi e nelle ville del potere. Ma come ha fatto questo movimento, da sempre spina nel fianco della democrazia italiana, a ottenere un simile consenso? Eleonora Bianchini, con una prosa secca e incisiva, mette al muro il partito del Carroccio, svelando i falsi moralismi di chi grida contro "Roma ladrona", ma chiude un occhio sugli scandali finanziari della "Padania ladrona". «Il nostro popolo», affermava Bossi, «è pronto ad attaccare. Si dice che il Paese stia andando a fondo, ma io conosco un solo Paese, che è la Padania. Dell'Italia non me ne frega niente». Ma una volta scoperti i verdi scheletri nell'armadio anche il leghista duro e puro potrebbe vacillare. Una giornalista ricostruisce la storia e le dinamiche del consenso del Carroccio. Rivelando come il partito di Bossi abbia due volti. Uno al nord, dove continua a far sognare un federalismo che non farà mai.
uno a Roma, dove pensa solo a divorare posti di potere. L'ultima, in ordine di tempo, è la proposta di un consigliere comunale di Padova di non finanziare la locale maratona perché "vincono sempre neri in mutande". Ma alle dichiarazioni shock, partite da esponenti di ben altro rilievo, la Lega Nord ha ormai abituato gli elettori: forse persino assuefatti, visto che se ne sentono quasi tutti i giorni.
Dagli anni delle minacce di secessione, della caccia ai terroni e dei riti celtici si è passati al federalismo fiscale e alla lotta all'islam e all'immigrazione (clandestina e non solo). E in un paese che non ha memoria e che dimentica troppo in fretta, il lavoro di Eleonora Bianchini ("Il libro che la Lega Nord non ti farebbe mai leggere" - Newton Compton) prova a mettere in ordine gli eventi. Quasi un manuale per leggere la Lega Nord attraverso tutta la sua storia.
"L'espresso" ha parlato con l'autrice, giornalista e blogger che lavora tra l'altro per il network Blogosfere.
Perché la Lega non dovrebbe far leggere il tuo libro, come recita il titolo?
"Il mio lavoro ricostruisce la storia del partito in questi anni: le origini, le parole d'ordine, gli slogan, le dichiarazioni, le promesse.
Un elenco di fatti, niente invettive preconcette. E questo li ha fatti innervosire: il loro quotidiano, "la Padania", lo ha subito definito "un libro che esercita mistificazioni politiche", ma senza entrare mai nel merito dei fatti concreti che sono stati raccolti".
Iniziamo da Alberto Da Giussano e la Padania...
"Pochi ricordano che Alberto da Giussano è stato copiato dalla biciclette Legnano, perché a Bossi piaceva il logo. Quanto alla Padania, i suoi confini sono stati scelti a tavolino e nella storia della Lega sono anche risultati piuttosto "elastici" per non lasciare fuori nessun potenziale elettore. Adesso però la Padania esiste davvero nella mente dei sostenitori e, nei primi anni del movimento, queste immagini hanno aggregato molto i leghisti e contribuito a costruire un'aura intorno alla dirigenza".
Dal partito di lotta al governo. Come è cambiata la Lega Nord?
"Il cambiamento è stato enorme, da quando è iniziata la corsa al potere e alle poltrone: lo scandalo di Credieuronord, la conquista delle regioni per avere le banche, la parentopoli interna. L'approccio al potere è simile a quello di tutti gli altri partiti che la Lega critica e di cui ha invece preso i peggiori difetti. Anche in tv, c'è stata la lottizzazione della Rai in pieno stile Prima repubblica. Intanto sono cambiati anche i nemici: dalla guerra ai "terroni" si è passata a quella agli islamici".
Terroni, islamici, immigrati, rom. Le dichiarazioni shock e i suggerimenti a bruciare, impallinare o altro in questi anni non sono mancate. Qualcuno le definisce folklore.
"La Lega ci ha assuefatto. Ormai ci siamo abituati a fare spallucce su affermazioni aberranti, quando in altri paesi non avverrebbe lo stesso: alla Lega invece viene perdonato tutto. Sono le famose "sparate" che servono per coltivare il consenso "di pancia" al Nord mentre a Roma si pensa solo a lottizzare e a conquistare fette sempre maggiori di potere".
Passiamo dalla parole ai fatti. Come governa la Lega?
"A livello locale si devono riconoscere degli esempi dignitosi. A livello nazionale invece si usa lo specchietto per le allodole del federalismo per occupare posti di potere a Roma e nelle istituzioni centrali. Nessun leghista ha mai risposto, concretamente, ad alcune domande semplicissime su questo ipotetico federalismo: quanto costerebbe? Quali direttive avrebbe? Chi lo paga? Se fosse davvero il provvedimento che dice la Lega, in cui tutti guadagnano e nessuno paga, sarebbe un sogno. Invece serve solo a mantenere in vita un sogno in periferia per occupare poltrone al centro".
La Lega sembra essere il fenomeno editoriale di questo Natale.
Tanti libri ne parlano e sono tutti testi molto critici.
"Il partito di lotta che diventa partito di governo fa emergere tutte le sue contraddizioni e con queste arriva il disincanto nei confronti del movimento. Ormai le due facce della Lega non si possono più coniugare tra loro: il partito non è né duro e puro né un alieno della politica i Palazzo, tutt'altro".
Però i consensi almeno fino a oggi, sembrano in crescita.
"Il mito del federalismo fiscale attrae voti perché promette di abbassare le tasse al nord. Finché il federalismo non viene attuato, resta un immaginario Sacro Graal di benessere. Infatti viene sempre rimandato".
Aveva negato di essere stato iscritto al Pci. Aveva escluso che il figlio prendesse soldi dalle Coop padane. Aveva smentito gli affari poco limpidi del partito. Un libro-inchiesta rivela: era tutto vero. Si intitola "Umberto Magno, l'imperatore della Padania" la biografia non autorizzata del leader della Lega Nord che è uscito in libreria il 2 dicembre 2010 per Aliberti (480 pagine). E' un'accurata inchiesta di Leonardo Facco, giornalista che ha conosciuto la Lega (e Bossi) da molto vicino, avendo tra l'altro lavorato per quattro anni al quotidiano "la Padania". L'autore parte dagli "albori della Lega", quando un giovanotto della provincia di Varese senza un lavoro riesce a coagulare attorno all'idea autonomista – non senza screzi e fatti poco chiari – prima alcune decine di amici, poi centinaia e infine migliaia di persone pronte a dare il loro consenso a un progetto politico sempre in bilico tra il federalismo e la secessione.
Bossi è la Lega e la Lega è Bossi, secondo Facco, nonostante la malattia abbia ridotto il senatùr all'ombra di quel personaggio movimentista del passato recente. Per dimostrarlo, l'autore racconta fatti, episodi, ricordi personali, con tanto di documentazione (sono quasi 400 le note bibliografiche). «Bossi», sostiene l'autore, «è il responsabile principale della trasformazione della Lega in un soggetto politico partitocratico, dove agli scandali si uniscono le truffe perpetrate ai danni, in primis, dei militanti e simpatizzanti. I crac delle Cooperative Padane, del Villaggio in Croazia e della banca padana rappresentano l'epitome del modo di fare politica del "lumbard", circondato da sempre di yes-men (and women) in carriera». Nel libro ci sono diversi fatti inediti, mai conosciuti e-o raccontati: dalla strana busta paga del figlio primogenito a spese dei militanti ignari, fino alla famosa questione della militanza comunista del giovane Umberto: da lui sempre negata, ma ora provata da un documento scoperto in una vecchia sezione del Pci. E poi si va dai tempi in cui elogiava "Mani pulite" alla sequela di condanne penali incassate dai leghisti odierni. Un capitolo, infine, è dedicato alla vita privata di Bossi che «ama la famiglia tradizionale» ma, secondo l'inchiesta di Facco, non sembra negarsi svaghi al di fuori di essa. «E' un'inchiesta che dovevo a me stesso perché ho un passato da leghista, ho creduto in questo movimento e sono stato anche sul Po, alla metà degli anni '90», dice l'autore. «Era giusto scrivere questo libro adesso, in cui la Lega si sente particolarmente forte e pensa di fare il pieno di voti.
Bisogna che tutti gli elettori sappiano chi è il padrone del partito che pensano di votare: un cialtrone, né più né meno».
Ma non è tutto. Due pentiti scrivono la storia di Carrocciopoli, così come ripreso da Alessandro Da Rod sul Riformista.
Due libri coinvolgono i due alti esponenti del partito. Il già titolare della Semplificazione è accusato di furto ai danni della Lega emiliana nel periodo caldo delle cooperative padane. Il già Ministro della Giustizia e viceministro delle Infrastrutture invece sarebbe il candidato “Gamma” favorito dalla malavita calabrese.
Due pentiti. Due libri. Un camion di letame sulla Lega Nord di Umberto Bossi. Non c’è dubbio che giovedì 2 dicembre del 2010 non passerà alla storia del Carroccio come una giornata qualunque. Perché presentare nello stesso giorno due libri come Umberto Magno, l’imperatore della Padania di Leonardo Facco e Metastasi di Gianluigi Nuzzi e Claudio Antonelli, significa scoperchiare l’intero vaso di Pandora di via Bellerio, svelando ciò che il Carroccio ha sempre cercato di nascondere: problemi interni, finanziamenti ai figli di Umberto Bossi, intercettazioni scomode e quant’altro. Il primo è il più pesante. Facco, leghista della prima ora, ex giornalista della Padania, ha riportato in 480 pagine tutta la vita del Senatùr, raccontandone misfatti, debolezze sessuali e di potere. Nel secondo i due cronisti di Libero, non hanno incentrato il loro libro sui rapporti tra la ’ndrangheta e la Lega Nord, ma hanno comunque inserito in un capitolo una storia scomoda per i leghisti. Quella di “Gamma”, leghista di Lecco che ha iniziato a fare carriera nel suo feudo grazie anche all’aiuto dei voti della malavita organizzata. Ex ministro della Giustizia, dirigente di una certa importanza, nessuno ha osato dire il suo nome, ma l’unico che ha alzato la voce per replicare alle illazioni è stato Roberto Castelli, viceministro alle Infrastrutture. Negli ambienti del Carroccio, si vocifera che ci sia una cosa che accomuna i due libri in uscita in questi giorni nelle librerie. Entrambi, in un modo o nell’altro, vanno a colpire, oltre al Senatùr, i due esponenti che in questi mesi hanno perso più posizioni di potere all’interno del partito. Da un lato Castelli, dall’altra Roberto Calderoli, ministro per la Semplificazione. È utile ricordare che il leghista lecchese fu l’unico questa estate a rilasciare un’intervista al Giornale in cui raccontava pubblicamente dei problemi interni al partito. Come allo stesso tempo accadde a Calderoli, finito sulla graticola per l’affare Brancher, il ministro breve del Federalismo, anche lui comparso su svariati quotidiani per difendersi dalle bordate che gli arrivavano dagli uffici di via Bellerio.
Sarà un caso, ma in mesi così difficili per la Lega Nord, tra cerchi magici, colonnelli, varesini e veneti, nel libro di Facco ci si sarebbe potuto aspettare qualcosa di più sul potente ministro dell’Interno Roberto Maroni. In realtà c’è ben poco, se non un richiamo al caso Antonveneta, passando per spedizione in Serbia e la storia dei finanziamenti alla sua portavoce Isabella Votino. Quisquilie se messe in relazione ai file alla Wikileaks che riguardano Castelli e Calderoli. Perché se il primo viene di fatto associato alla malavita organizzata dal pentito Giuseppe Di Bella, sul secondo vengono persino pubblicati i documenti che testimonierebbero un presunto furto ai danni della Lega emiliana nel periodo caldo delle cooperative padane. Partiamo dal ministro per la Semplificazione. A pagina 311 di Umberto Magno, Sacco racconta la storia delle “Coop made in Padania Scrl” creatura bossiana organizzata per finanziare il partito, finita in disgrazia quasi come Credieuronord. Presidente delle Coop in un primo momento era proprio Calderoli. E attraverso le parole di Mario Morelli, ex consigliere di amministrazione della catena di supermercati, Facco ripercorre tutti i disastri dei calderoliani, tra dentifrici in esubero, immobili pagati uno sproposito, flop economici e conti lasciati in sospeso. «Bossi, Calderoli e altri padani - si legge nel libro - pensavano che un pizzico di coraggio, un tantino d’inventiva, un po’ di voglia di fare mischiata all’improvvisazione fossero elementi sufficienti per il successo». In realtà la vicenda, oltre ad avere tratti grotteschi, tra cui quello di 24 milioni di buste di deodorante con il sole della alpi rimaste invendute, finì molto male. Morelli, infatti, a cui fu data la presidenza dopo l’addio di Calderoli nel 1999, si ritrovò di fronte in poco tempo un debito di circa un miliardo di lire e un’azienda sull’orlo del fallimento. «Una mattina - racconta Morelli - Calderoli mi convocò nel suo ufficio chiedendomi di sostituirlo in quell’incarico. Motivò la sua richiesta col fatto che questo incarico incideva negativamente sul rapporto politico che aveva con Bossi». Del resto, quando Morelli parlò della situazione al Senatùr, Bossi non la prese affatto bene. «Mi rispose con parole di fuoco - ricorda Morelli - indirizzate contro il mio predecessore Calderoli: tuoni, fulmini e saette». Non solo. Il caso scottante è che al fallimento delle Coop è conseguita la protesta di chi quei soldi li aveva versati nelle tasche di Calderoli. Emblematica la lettera di Genesio Ferrari, ex segretario della Lega emiliana che chiede indietro i dieci milioni di lire versati anche grazie all’aiuto dei militanti: «Il tutto si è risolto in una bolla di sapone». Quanto a Castelli, si è già scritto molto. Ma il dato è comunque pesante, perché nel ’90 ci fu il boom di voti per i leghisti. Il pentito Di Bella, vicino al boss della 'ndrangheta, Coco Trovato, racconta a Nuzzi e Antonelli che la parola d’ordine tra le ’ndrine di Lecco era votare “Lega”: Gamma era il loro uomo di riferimento.
LE GRANE GIUDIZIARIE DELLA LEGA. CANDIDATI AL PARLAMENTO: ELEZIONE 13 APRILE 2008. CONDANNATI, PRESCRITTI, INDAGATI, IMPUTATI E RINVIATI A GIUDIZIO.
Fonte “Se li conosci li eviti” di Marco Travaglio e Peter Gomez.
Lega Nord (8)
Bossi Umberto: Condannato in via definitiva a 8 mesi di reclusione per 200 milioni di finanziamento illecito dalla maxitangente Enimont; condannato in via definitiva per istigazione a delinquere e per oltraggio alla bandiera; indagato e imputato in altri procedimenti penali. Il 16 dicembre 1999 la Cassazione l’ha condannato a 1 anno per istigazione a delinquere, per aver incitato i suoi, in due comizi a Bergamo nel 1995, a «individuare i fascisti casa per casa per cacciarli dal Nord anche con la violenza». Tremaglia, suo futuro collega ministro, l’aveva denunciato. Altra condanna definitiva nel 2007 a 1 anno e 4 mesi (poi commutati in 3.000 euro di multa, interamente coperti da indulto) per vilipendio alla bandiera italiana, per aver dichiarato nel 1997: «Quando vedo il tricolore mi incazzo. Il tricolore lo uso per pulirmi il culo». Niente sospensione condizionale della pena, che però è coperta da indulto (che cancella anche quelle pecunarie fino a 10 mila euro): insomma, Bossi non pagherà nemmeno un euro. Inoltre ha un altro processo in corso per lo stesso reato, per aver detto, sempre nel 1997, durante un comizio: «Il tricolore lo metta al cesso, signora... Ho ordinato un camion di carta igienica tricolore personalmente, visto che è un magistrato che dice che non posso avere la carta igienica tricolore». Nel 2002 la Camera ha negato ai giudici l’autorizzazione a procedere, ritenendo le espressioni rientranti nella libera attività parlamentare e dunque coperte da insindacabilità; ma nel 2006 la Consulta ha annullato la delibera di Montecitorio, disponendo che Bossi sia processato come un comune cittadino. Il Senatùr è invece uscito indenne dal lungo processo per resistenza a pubblico ufficiale, in seguito agli scontri con la polizia che perquisiva, il 18 settembre ’96, la sede leghista di via Bellerio a Milano: condannato a 7 mesi in primo grado e a 4 in appello, Bossi s’è visto annullare con rinvio la seconda condanna dalla Cassazione, che ha disposto un nuovo processo d’appello. E qui, nel 2007, è stato assolto.
Ancora aperto, invece, il processo di Verona per le camicie verdi della cosiddetta Guardia nazionale padana costituita nel 1996: Bossi, con altri quarantaquattro dirigenti leghisti, deve rispondere in udienza preliminare di attentato alla Costituzione e all’unità dello Stato, nonché di aver costituito una struttura paramilitare fuorilegge.
Ma, almeno in questo caso, rischia poco o nulla: allo scadere dell’ultima legislatura, la maggioranza di centrodestra ha riformato i primi due reati (punibili ora solo in presenza di atti violenti), in modo da assicurarne la decadenza al processo di Verona. L’ennesima legge ad personam. Una volta tanto non per il Cavaliere, ma per il Senatùr. Il procuratore di Verona Guido Papalia, però, tiene duro sull’accusa residua di associazione paramilitare. Allora, nel 2007 la Camera regala l’insindacabilità ai deputati imputati, tra i quali Bossi, Calderoli e Maroni, quasi che la Guardia Padana fosse un’«opinione». A quel punto Papalia ricorre nuovamente alla Consulta con un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, come ha già fatto contro un analogo provvedimento impunitario adottato dal Senato per salvare Gnutti e Speroni.
Bragantini Matteo: Nel 2004 è stato condannato in primo grado a 6 mesi di carcere e a 3 anni d'interdizione dall'attività politica, per istigazione all’odio razziale e propaganda di idee razziste. Nell’agosto-settembre 2001 la Lega Nord di Verona aveva organizzato una campagna (“Firma anche tu per mandare via gli zingari dalla nostra città”) contro la comunità Sinta di Verona. Nelle motivazioni, i giudici di primo grado scrivono che Bragantini e i suoi 6 coimputati, fra i quali l’attuale sindaco leghista di Verona Flavio Tosi, hanno “diffuso idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale ed etnico e incitato i pubblici amministratori competenti a commettere atti di discriminazione per motivi razziali ed etnici e conseguentemente creato… un concreto turbamento alla coesistenza pacifica dei vari gruppi etnici nel contesto sociale al quale il messaggio era indirizzato”. Il 30 gennaio 2007, la Corte d’appello di Venezia riduce la pena da 6 a 2 mesi, assolvendo i leghisti dall'istigazione all'odio razziale, confermando la condanna per la propaganda razzista e i risarcimenti ai sette Sinti (2500 euro per ciascuno) e all’ente morale Opera Nomadi (8 mila euro), costituitisi parte civile. Bragantini è ricandidato alla Camera per la Lega Nord nel Veneto1.
Brigandì Matteo: Arrestato e condannato in primo grado il 24 novembre 2006 a 2 anni di reclusione dal Tribunale di Torino per truffa aggravata ai danni della Regione Piemonte (a cui dovrà risarcire 255 mila euro): avrebbe, in veste di assessore regionale al Legale, aver architettato un raggiro ai danni della Regione per regalare 6 miliardi di lire pubblici all’amico imprenditore Agostino Tocci, titolare di una concessionaria di auto di lusso, a titolo di “rimborso” per inesistenti danni subiti dalle alluvioni del 1994 e del 2000.
Calderoli Roberto: Indagato a Milano per ricettazione nell’inchiesta sulla Bpl di Giampiero Fiorani. Il quale sostiene di averlo foraggiato per garantirsi l’appoggio politico della Lega durante il suo tentativo di scalata alla Banca Antonveneta: con il suo sottosegretario Brancher, l’allora ministro delle Riforme si sarebbe spartito 200mila euro. Salvo per prescrizione nel processo per i tafferugli con la polizia nella sede leghista di via Bellerio a Milano (resistenza a pubblico ufficiale), Calderoli è scampato al processo in corso a Verona per le camicie verdi (attentato alla Costituzione e all’unità dello Stato, struttura paramilitare fuorilegge) grazie a una legge ad personam e all’insindacabilità regalatagli dal Senato (contro cui però la Procura ricorrerà alla Consulta).
Caparini Davide: Salvo per prescrizione nel processo per resistenza a pubblico ufficiale nel processo sui tafferugli con la polizia durante una perquisizione nella sede leghista di via Bellerio a Milano.
Castelli Roberto: Indagato per abuso d’ufficio patrimoniale per alcune consulenze facili al ministero della Giustizia durante il secondo governo Berlusconi, s’è salvato grazie al voto del Senato, che nel dicembre 2007 gli ha regalato l’immunità totale per i suoi presunti reati ministeriali, negando l’autorizzazione a procedere chiesta dal Tribunale dei ministri di Roma. Per gli stessi fatti la Corte dei Conti l’ha condannato a rimborsare un danno erariale di 98.876,96 euro e gliene ha contestato un altro di circa 400 mila euro.
Maroni Roberto: Condannato definitivamente a 4 mesi e 20 giorni di reclusione per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, in relazione ai tafferugli durante la perquisizione della sede leghista di via Bellerio a Milano. Maroni, prima di finire in ospedale con il naso rotto, avrebbe tentato di mordere la caviglia di un agente di polizia. Di qui la condanna a 8 mesi in primo grado, poi dimezzata in appello e in Cassazione. Maroni è anche imputato a Verona come ex capo delle camicie verdi, insieme a una quarantina di dirigenti leghisti, con le accuse di attentato contro la Costituzione e l’integrità dello Stato e creazione di struttura paramilitare fuorilegge. Ma i primi due reati sono stati ampiamente ridimensionati da una riforma legislativa ad hoc, varata dal centrodestra nel 2005, allo scadere della penultima legislatura. Resta in piedi solo il terzo.
Stefani Stefano: Indagato a Roma per concorso in truffa ai danni dello Stato e riciclaggio, ha ottenuto la richiesta d’archiviazione del procedimento perché la Procura non ha potuto usare le intercettazioni indirette che facevano sospettare qualcosa di poco chiaro nella vicenda dei finanziamenti pubblici al quotidiano «Il Giornale d’Italia». In pratica, come molti suoi colleghi parlamentari, anche Stefani è un miracolato dalla legge Boato che – prima della sentenza della Consulta del 2007 – rendeva inutilizzabili le intercettazioni in cui compariva la voce di un eletto dal popolo.
Scandalo Lega. Giulietto Chiesa su “Il Fatto Quotidiano”: Come dicono gli oratori prolissi: sarò breve. Questa faccenda della Lega Nord mi fa venire in mente due o tre cose (tra le tante). La prima è che là dentro, nel Palazzo, il più sano ha la rogna. Voglio dire che l’intreccio delle complicità e dei ricatti reciproci fa sì che ci sia un dossier per ognuno. E che, all’occorrenza (se qualcuno rompe l’omertà) questo fascicolo vedrà la luce. Nel caso specifico la Lega, espulsa dal potere, rompeva le scatole al nuovo potere della troika. Così adesso sappiamo di quale tempra fosse forgiato quel cosiddetto “partito”. Lo sapevano tutti, lassù, nel Palazzo. Adesso è uscito il dossier. Ed è cominciata la caccia a quel serbatoio di voti che se ne va in libera uscita. Naturalmente bastava guardare quelle facce, quei gesti, quella volgarità becera, quell’ignoranza che trasudava da ogni gesto di quegli “eletti del popolo” che divennero perfino ministri del governo italiano, per capire dove eravamo arrivati. Ma ve li ricordate i giornalisti, e i politici, che nei talk show, s’inchinavano di fronte al ludibrio? Ve lo ricordate il Presidente della Repubblica che stringeva le mani a uno che si era appena pulito il culo con la bandiera tricolore, e che sputava sulla Costituzione Repubblicana?
La seconda cosa che mi viene in mente, appunto, è la straordinaria ipocrisia del sistema politico e informativo italiano. Che adesso, dopo avere espulso Bossi, gli tributa gli onori di grande leader rinnovatore. Perché lo fanno? Perché erano suoi complici nel degrado. Lo salutano rendendogli gli onori, come in un simbolico ammainabandiera. Pensano al loro tramonto, incerti se sarà nel silenzio o se dovranno scappare inseguiti dai forconi.
SCANDALO LEGA NORD: LA REAZIONE DEI LEGHISTI. Come fossi un appassionato di antropologia, analizzo la reazione allo scandalo dei leghisti (dirigenti, militanti, simpatizzanti e semplici elettori). Le risposte sono in continuo mutamento, anche in considerazione del procedere dello scandalo e del susseguirsi di notizie, ma si riescono comunque ad intravedere delle macro categorie . Ecco quelle che ho intravisto finora:
il complottista, per lui è tutto un complotto ordito dal potere imperante che, a pochi giorni dalle elezioni amministrative (ma guarda che caso!!!), tenta di colpire la lega in quanto unica opposizione. Non crede a quanto scritto dai magistrati, ma considera quest'ultimi "soldati" al servizio dei potenti. Bossi è solo un eroe sognatore e per questo viene colpito. E i poteri forti del complotto? Il governo Monti, il Sud, Roma, gli alieni, i puffi, cambia poco. Ogni complottista trova il giusto colpevole. La cosa importante è urlare a voce alta al complotto, cercando magari anche le prove per smascherare i complottisti;
l'incredulo, sono due giorni che, faccia sgomenta e smorfia di dolore scolpita sulla bocca, il nostro leghista continua a ripete: non ci credo, non è possibile. E' lì che turbina le mani dinanzi al viso, come a scacciare la dura verità. Ma è troppo difficile accettare questa verità. Troppo difficile. Per questo si rifugia in un limbo nel quale non deve porsi domande. Un limbo di incredulità nel quale non servono domande o risposte. Basta non credere alla cosa per non porsi il problema. Semplicemente non accetta la questione;
il camicio verde, è un pò che "il Bossi" lo contesta sottovoce (anche perchè in lega, almeno fino a ieri, chi contestava il "capo" a voce alta veniva accompagnato rapidamente alla porta). Almeno da quando ha smesso di parlare di fucili, secessioni, indipendenze ed altre amenità. Lui è un soldato. E un soldato è fedele alla bandiera, non al generale. Morto un generale se ne fa un altro. Fosse per lui, la secessione partirebbe domani mattina. Ma non spreca energie a dire "ve lo avevo detto che il Bossi si era rammollito". No. Risponde alla scandalo aizzando i suoi per partire alla guerra contro tutto e tutti;
il duro e puro, per lui, se qualcuno ha sbagliato, deve pagare. Fosse anche il Trota. Per lui la lega è una fede. E come per le religioni, o si crede o non si crede. Bossi deve mettersi "di fianco" (non da parte, si badi bene), ma la lotta continua. Difficile fargli notare che fino a ieri, quelli come lui dicevano che "Bossi è la lega e la lega è Bossi". E quindi, se cade il "capo", deve cadere pure la lega. Lui è duro e puro. Lui è un leghista col membro sempre in tiro. Scandalo o non scandalo, va dritto per la sua strada;
il caritatevole/compassionevole, per lui l'Umberto non è da mettere in discussione. E' la malattia che l'ha reso facile vittima del "cerchio magico". E' la malattia che non gli ha fatto capire quanto accadeva intorno a lui. E i veri delinquenti, quelli del cerchio magico, ne hanno approfittato. Inutile fargli notare che fino a ieri Bossi guidava la lega e, quella che oggi agli occhi dei caritatevoli è descritta come una malattia così invalidante per il suo intelletto, aveva già colpito il Senatur;
il barbaro sognante, finge di essere triste, ma è da un pezzo che sogna una lega guidata da Maroni. Ma bisogna essere cauti. Il rischio di prendersi del Giuda è altissimo. Ecco perchè reagisce in modo anonimo allo scandalo. Si, ogni tanto butta lì qualche frase del tipo : bisogna fare pulizia, ricominciare; ma lo fa cautamente. Tanto ormai, lo scettro della lega è in mano a chi ha gli occhiali rossi e i baffetti da impiegato del Catasto anni '50;
il veneto, lui è il più contento. Lui vuole solo la Serenissima e il Leone di San Marco e con i lombardi spocchiosi ha poco da spartire. Tosi o Zaia, basta che si torni in Veneto a sbraitare frasi sconnesse sull'indipendenza. Lo scandalo serve solo a rincarare la dose:basta con 'sti lombardi che se la tirano e ci considerano solo dei contadinotti ignoranti che spussano anca se coi sghei;
il lombardo, esattamente complementare al veneto, il lombardo però ha una carta in più. Finora la lega nord era "lombardocentrica" e questo scandalo può far perdere potere in lega alla Lombardia. Maroni non è che lo esalti (nonostante le apparenze, Bobo è troppo berluschino), ma almeno è varesotto. Bisogna serrare i ranghi intorno a Bobo. E i veneti fa mia i barlafus!
la pasionaria Giovanna "Brambilla" D'arco come la pulzella d'Orleans, anche la "sciura Maria" ha le visioni. E le sue visioni hanno il volto dell'Umberto di 20 anni fa, lontano anni luce da quello sofferente di oggi, con lo spadone dell'Alberto in mano, ad indicare la strada. Lo scandalo? Niente è più importante della missione dell'Umberto. Se davvero ha rubato, poco importa.Lui è la guida, il condottiero, il sogno di libertà. Lui può anche rubare. Lui ha quasi dato la vita per la Lega e niente e nessuno potrà metterlo in discussione. E poi c'è la battaglia di Lepanto da rievocare.....;
il "solato", sono 20 anni che si dedica anima e corpo al sogno leghista. Sono 20 anni che si beve tutte le promesse urlate dal palco di Pontida. Ha investito anche soldi nella lega. Ha creduto a tutto. Ora deve affrontare la dura realtà. L'hanno fottuto. L'hanno fregato. Gli hanno dato una "sola" colossale. Una "sola" lunga più di 20anni. E con chi se la deve prendere? Ma non è arrabbiato con Bossi. E con se stesso che se la prende. Si copre il viso. Non basta dire "per me la Lega non rappresenta più niente". Non basta strappare la tessera del partito. E' della sua vita che sta parlando. E lui alla Lega ci ha creduto davvero. Si è preso del razzista, dell'ignorante, del barbaro, dello xenofobo. Si è pure messo le corna celtiche sul prato di Pontida. Come può ora dimenticare tutto? Si odia;
il nostalgico depresso, che bei tempi quelli. Le lacrime gli solcano il viso, scivolando lentamente però. Non sono lacrime di disperazione. Sono lacrime di nostalgia. Più salate. Più lente. Più dolorose e profonde. Quante "polentate" a cantare contro "Roma Ladrona", quanto orgoglio addentando la salamella appena cruda o carbonizzata, mentre si cercava di ricordare quella canzone cantata dagli alpini. Quanta vita trascinata via dal tempo. Quanti sogni, quante speranze. Il futuro è cupo. Meglio allora prendere un bicchiere di rosso corposo, solo un pò legnoso, e tentare di fermare le lacrime asciugandole con i ricordi. Il futuro è nel passato. Un passato che non tornerà. Per questo si deprime. Quant' era verde (padano) la mia valle....Molte altre "figure" si stagliano nell'orizzonte dello scandalo, e molte altre reazioni si paleseranno.
Nessuno però ancora ha detto le paroline magiche che noi non leghisti vorremmo sentire: I SOLDI CHE HAN RUBATO, SONO SOLDI ITALIANI E VANNO RESTITUITI.
PARLIAMO DI MASSONERIA
La Massoneria. Erede di misteriose società segrete avvolte nella leggenda, come il Priorato e i Rosacroce, è considerata un’organizzazione di sicura esistenza anche oggi. Non è ben chiaro, però, se questa società sia da vedersi come un’erede di quelle del passato, o piuttosto come un altro volto della medesima organizzazione, perseguente sempre gli stessi scopi, ma con rituali differenti. L’origine della Massoneria sembra da collocarsi in età moderna, quando, nel 1717, la Grande Loggia dei Massoni di Londra rese pubblica la sua esistenza. Ma ci sono diverse prove che la società esistesse già precedentemente: nel 1646 l’antiquario Elias Ashmole fu iniziato alla Massoneria, mentre una poesia di Henry Adamson del 1638 vi fa riferimento. Ma ci sono anche teorie che ne fanno risalire la fondazione all’epoca antica e che costituiscono la “Leggenda della libera Muratoria”. Essa si basa su documenti pubblicati nel 1800, che collegano la Massoneria alla costruzione del Tempio di Salomone, considerato il primo Gran Maestro. L’origine della società si fa anche ricondurre ai Templari, essendo stati ritrovati simboli massonici su pietre tombali in loro castelli. Quindi, ancora una volta, l’Ordine del Tempio, che dovrebbe essere stato il supremo difensore della fede, viene messo in relazione con un gruppo dalla religiosità discutibile. I massoni, infatti, credono in una suprema divinità, che però non si specifica chiaramente se sia un dio cristiano oppure no, visto che vengono accolte persone di tutte le religioni. Nel 1738, papa Clemente XII emanò una bolla in cui proibiva ai cattolici di aderire alla Massoneria, situazione che cambiò solo nel 1976.
La Massoneria prevede un rigido rituale, a cui deve attenersi chi vuole accedere ai diversi gradi, il cui simbolismo è riassunto in alcune Tavole illustrate, nelle quali sono sempre presenti i simboli fondamentali, riconducibili alla geometria e all’architettura: il Libro Sacro, la squadra, il compasso. L’aspirante al Primo Grado è detto Apprendista e deve essere bendato, indossare un abito di lino, con un cappuccio e un cordone intorno al collo (possiamo scorgere un’analogia con il cordone usato nella cerimonia d’iniziazione dei Templari). L’apprendista deve anche giurare di non rivelare mai i segreti che gli verranno svelati, altrimenti incorrerà in una terribile pena: aver la mia gola tagliata, la mia lingua strappata alla radice, e il mio corpo sepolto nelle ruvide sabbie del mare al limite della bassa marea. Sembra che questa minaccia non sia mai stata messa in atto, ma serve comunque a definire il sapere della Massoneria come esoterico.
La Tavola del Primo Grado comprende una rappresentazione del Sole e della Luna, a sottolineare l’importanza del concetto di dualismo che governa l’universo. Di rilievo sono le due colonne, corinzia e dorica, che rappresentano il passaggio dell’Apprendista verso un altro stato, e che pare siano quelle del Tempio di Salomone, chiamate Jachim (lo spirito attivo e creativo, ed anche la conoscenza) e Boaz (lo spirito passivo e riflessivo, ed anche l’ignoranza), i due giganti che sorreggono le colonne d’Ercole.
Nella Tavole del Secondo Grado, a cui accede chi è diventato Compagno, le colonne sono cave e possono contenere documenti segreti (ci viene in mente l’abate Saunière che a Rennes-le-Château forse trovò delle pergamene in una colonna cava). Vi è, inoltre, la rappresentazione della scala di Giacobbe che sale verso il cielo (anche nella chiesa di Rennes troviamo un richiamo a Giacobbe tramite le parole sul timpano d’entrata Terribilis est locus iste).
Le Tavole del Terzo Grado, con cui si diventa Maestro, mostrano la simbologia che accompagna uno strano rituale: viene mimato l’assassinio da parte di tre cospiratori dell’architetto del Tempio, Hiram Abif, e l’iniziato riceve tre colpi, simbolici, sul capo. I simboli che si ritrovano sulle Tavole si addicono ad un fatto di sangue: una bara e il “Teschio” ossia un teschio su due femori incrociati.
Ci sono tantissimi luoghi nel mondo dove è possibile trovare nell’architettura simboli massonici. Ad esempio la cappella di Rosslyn in Scozia, già sito prediletto dai cercatori del Santo Graal: due colonne sembrano essere quelle del Primo Grado, un’immagine di una testa ferita ricorda l’uccisione di Hiram, una scultura sembra rappresentare un Templare che amministra riti massonici. Sembra che i massoni abbiano partecipato alla progettazione di intere città, come Washington D.C., progettata seguendo viali diagonali, che formano triangoli e che sono allineati secondo eventi astronomici. Il viale diagonale principale, infatti, è la Pennsylvania Avenue, che pare allineata secondo tale evento: la sera del 10 agosto il sole tramonta esattamente alla fine del viale, mentre mezz'ora più tardi nello stesso punto tramonta una costellazione che include quella della Vergine. Intorno a questa costellazione c'è un triangolo rettangolo formato dalle stelle Regolo, Arturo e Spica, che ricalca quello formato da Pennsylvania Avenue, il Mall (vasto viale diretto ovest verso il fiume) e una linea che passa lungo il Monumento a Washington. Innegabile è l'influenza della Massoneria nella storia degli Stati Uniti, essendo massoni gran parte dei firmatari della Dichiarazione d'Indipendenza ed essendo lo stesso Washington membro della Loggia Alexandria. Il monumento a Washington è costruito sul modello di un obelisco egiziano, simbolo molto usato dalla Massoneria; una statua dedicata al presidente Garfield mostra uno zodiaco; il Gran sigillo degli Stati Uniti (quello che si vede sul dollaro) raffigura una piramide sormontata dall'Occhio-che-Tutto-Vede. Anche molte associazioni universitarie utilizzano un simbolismo massonico: il più lampante esempio è la confraternita Teschio e Ossa di Yale, della quale fecero parte molti politici e personaggi in vista, tra i quali George H. W. Bush e George W. Bush. Esiste una città vicino a noi che sembra nascondere tra le sue vie ed i suoi monumenti chiari riferimenti massonici, Torino.
Il capoluogo torinese è notoriamente considerato un “città magica”, dove proliferano le sette e i sedicenti maghi. Torino sarebbe, infatti, un omphalos primordiale, un centro d’irradiazione di energia tellurica e spirituale, sorgendo su un nodo geomantico, cioè in un punto d’intersezione tra correnti enrgetiche dette leys (le stesse dove potrebbero essere sorti i luoghi di culto delle civiltà antiche, specialmente quelli dedicati alla Dea Madre). Torino farebbe, dunque, parte di un doppio triangolo magico, i cui vertici sarebbero altre città magiche del mondo: Lione, Praga, Londra e San Francisco. A Torino sono segnalati da chi si diletta di magia ed occultismo 33 punti magici, negativi e positivi. Il punto di maggiore positività si situa in piazza Castello, dove si trova la meridiana astrologica sulla prima colonna di destra del Duomo e la cancellata della Piazzetta Reale su cui sono rappresentati i Dioscuri, simboli dell’opposizione tra luce e tenebre, Sole e Luna, secondo un dualismo caro ai massoni. Il punto di maggiore negatività sarebbe Piazza Statuto, rivolta ad Ovest, dove si eseguivano le condanne capitali. Nella storia di Torino è anche rilevante il legame con l’Egitto, i cui simboli si ritrovano in alcuni rituali massonici: la città sembra, infatti, aver dato asilo al principe eretico Eridano, che avrebbe scelto questo sito per fondare una città nel XV secolo a. C., perché il Po gli ricordava il suo Nilo. Anche il nome stesso della città potrebbe essere di origine egizia, ricollegandosi al culto del Toro sacro di Menfi. La chiesa della Gran Madre di Dio (indicata come uno dei luoghi del Santo Graal) si dice sia stata costruita sulle rovine di un antico tempio di Iside. Vi è, inoltre, in Piazza Solferino, un’opera d’arte palesemente ispirata dal simbolismo massonico, la Fontana Angelica. Essa era stata progettata per essere collocata davanti al Duomo, mentre nella posizione attuale ha perduto parte del suo significato simbolico, non essendo rivolta ed est. Le statue rappresentano due figure maschili, l’Autunno e l’Inverno, che si possono identificare con Jaquim e Boaz. Essi versano l’acqua da due otri, uno a forma d’Ariete, l’altro d’Acquario. L’acqua rappresenta la conoscenza, mentre l’Ariete è il Vello d’Oro cercato dagli Argonauti, ma anche la trasformazione della materia verso la perfezione (la Massoneria è considerata depositaria di segreti alchemici); l’Acquario, invece, rappresenta l’Era dell’Acquario a cui deve tendere l’umanità. Le due figure maschili, però, possono anche rappresentare la divinità egizia Osiride, e allora quelle femminili, la Primavera e l’Estate sarebbero la sua compagna Iside. Se poi ci si pone di fronte alla fontana si vedrà che tra l’Autunno e l’Inverno si apre un varco: quello che l’iniziato deve attraversare per giungere alla vera conoscenza. Ecco che una città dalle antiche tradizioni di magia è stata eletta da una società segreta come luogo privilegiato per esprimere i propri riti e forse svelare i propri segreti all’attento osservatore.
La Massoneria in Italia. Essa visse stentatamente fra le persecuzioni fino alla occupazione napoleonica. Si ha notizia dì qualche Loggia in Firenze, Napoli, Torino, Cremona e Milano. Il 5 marzo 1805 si costituì in Milano il primo Supremo Consiglio d'Italia, ad opera dei fratelli massoni Francesi di 33° Grado, appartenenti alla Armata Napoleonica, e furono eletti a Sovrano Gran Commendatore il Viceré d'Italia Principe Eugenio Beauharnais e Gran Cancelliere il Principe Gioacchino Murat. Nel 20 giugno dello stesso anno si formò il Grande Oriente d'Italia, pure in Milano col quale si fusero le Logge Francesi del Grande Oriente e della Divisione Militare del Regno d'Italia. Nel 1806 furono pubblicati gli Statuti della Franca Massoneria in Italia ed i Rituali dei primi tre Gradi; nel 1809 la Costituzione Generale del Grande Oriente in Italia; nel 1812 una nuova edizione degli Statuti, da cui derivano gli Statuti generali del Rito Scozzese Antico ed Accettato, stampati in Napoli; nel 1820 ed ancor oggi in uso.
Dal 1806 al 1808 si ebbero nell'Italia settentrionale più di 30 Logge, composte dai migliori elementi della società del tempo, tra i quali il filosofo Romagnosi, Vincenzo Monti, ed il musicista Paganini. Nei documenti ufficiali Napoleone era chiamato " Potentissimo Fratello Protettore dell'Ordine".Nel 1808 si costituì il Grande Oriente di Napoli con Gioacchino Murat Gran Maestro; l'anno successivo fu fondato il Grande e Supremo Consiglio per le due Sicilie dei Potentissimi Grandi Ispettori Generali, con sede in Napoli e Murat Sovrano Gran Commendatore. Il Colletta riferisce che nel 1813 la Massoneria meridionale contava 94 Logge. Caduto Napoleone, il Supremo Consiglio di Milano si sciolse, mentre continuò il fervido lavoro segreto delle Logge nell’Italia meridionale. Dopo il 1848 sembra che vi fosse in Torino uno Supremo Consiglio, che però non fu molto attivo fino al 1862; nel 16 dicembre di quell'anno si costituì in Torino un Concistoro del 32° Grado, che funzionò fino al 1866, anno in cui si ebbe un Supremo Consiglio per l'Italia, che continua il suo lavoro ancora nel 1883. Nel 1861 la Massoneria funzionava ancora in Napoli, ove la Loggia "Sebezia" assumeva il titolo di Gran Loggia Madre per affermare la sua diretta discendenza dal Supremo Consiglio di Napoli; a Palermo si creavano altre due Massoneria, una delle quali si fondeva con il Supremo Consiglio di Torino nel 1867, è l'altra nel 1862 eleggeva alla carica di Sovrano Gran Commendatore Giuseppe Garibaldi.Divenuta Firenze capitale del Regno, nel 1864 molti membri della Supremo Consiglio di Torino vi si trasferirono; ivi veniva fondato nel 1869 un nuovo Supremo Consiglio, che nel 1872 si trasferiva a Roma. In tale data veniva nominato Sovrano Grande Commendatore Giorgio Tamayo. Nel 1863 la situazione della Massoneria italiana era la seguente: un Supremo Consiglio a Torino con a capo il Generale Milbitz, un Supremo Consiglio a Firenze con a capo Francesco De Luca, un Grande Oriente a Napoli, un Supremo Consiglio a Palermo. Una ispezione del Potentissimo Fratello Albert G. Goodall del Supremo Consiglio di Boston dichiarava illegittimi i Supremi Consigli di Palermo e di Firenze, e regolare il solo Supremo Consiglio di Torino, cui spettò di partecipare al Congresso di Losanna del 1875. Circa nel 1869 il Grande Oriente di Napoli si fondeva con il Supremo Consiglio di Torino, nel 1875 auspice Giuseppe Garibaldi si fondevano i Supremi Consigli di Roma e di Torino, creandosi un nuovo Supremo Consiglio per l'Italia con sede a Roma, al quale aderiva nel 1876 il Supremo Consiglio di Palermo. Ma varie vicende, specie per il fatto di dover trasferire la sede a Roma, rompevano l'accordo; però nel 1879, per iniziativa di alcuni Supremi Consigli esteri tutti i fratelli italiani di 33 Grado, convocati a Roma, creavano il Supremo Consiglio per l'Italia ed il nuovo Sovrano Gran Commendatore nella persona di Giorgio Tamayo. Però la Massoneria piemontese si tenne ancora in disparte, cessando di essere regolare. La fusione completa avveniva poi nel 1887 per opera di Adriano Lemmi, Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia in Roma: morti nel 1895 il Riboli di Torino è nel 1897 il Tamayo di Roma, veniva nominato Sovrano Gran Commendatore della Massoneria italiana il Lemmi, che tenne la carica fino alla sua morte, avvenuta nel 1906. Dopo il 1860, parallelamente al Rito Scozzese, e sul tipo della Massoneria francese, si era formata in Italia una Grande Loggia Simbolica, che non riconosceva Gradi superiori al 3°. Ne furono Grandi Maestri Costantino Nigra, Giuseppe Garibaldi, Francesco De Luca, e il Marchese Cordova. Adriano Lemmi si adoperò perché il Rito Scozzese ed il Rito Simbolico si riunissero, delegando i due poteri ad un Grande Oriente d'Italia per la sovranità sulle Logge; il patto potè dirsi perfetto nel 1882 quando Adriano Lemmi, già Sovrano Gran Commendatore, fu eletto anche Gran Maestro del Grande Oriente. Morto Adriano Lemmi nel 1906, gli succedevano come Gran Maestro Ettore Ferrari e come Sovrano Gran Commendatore Achille Ballori, il quale aveva come Luogotenente Saverio Fera. Nel 1908 la Massoneria si divise in due a causa di un conflitto sorto, essendo un gruppo di Deputati al Parlamento stato minacciato di espulsione per non essersi schierato con sufficiente energia circa un progetto di Legge sulla laicità dell'insegnamento. In sostanza, si contestava la inopportunità dell'intervento ed il diritto del Gran Maestro E. Ferrari di imporsi sulla coscienza dei massoni Deputati in questioni politiche e religiose che non toccavano direttamente l'Ordine. Perciò il Supremo Consiglio, quale tutore della regolarità delle Rito Scozzese, minacciò di demolizione il Grande Oriente. Il Sovrano Gran Commendatore A. Ballori in un primo momento si schierò contro E. Ferrari, ed in secondo tempo si alleò a questi avendo contro di sé tutto il Supremo Consiglio, lasciò la carica al Luogotenente Saverio Fera. Questi creò allora secondo gli Statuti Scozzesi una Gran Loggia Nazionale d'Italia, di cui venne nominato Gran Maestro. Si ebbero così due Massonerie, che dalle rispettive sedi furono dette Piazza della Gesù (Fera) e di Palazzo Giustiniani (Ballori). Una ispezione allora a nome dei vari Supremi Consigli Esteri ed a mezzo del Potentissimo Fratello Belga De Paepe riconobbe regolare la prima, tale decisione venne confermata dalla Conferenza di Washington del 1912; così nel mentre la Massoneria regolare di Piazza del Gesù rimaneva federata con le 56 Potenze massoniche di Rito Scozzese, quella di Palazzo Giustiniani rimaneva collegata con alcuni Grandi Orienti irregolari, fra i quali il Grande Oriente di Francia e la Gran Loggia Simbolica di New York. Morto Saverio Fera, furono Gran Maestri della Massoneria Scozzese Italiana i Sovrani Gran Commendatori Leonardo Ricciardi, William Burgess e Raoull Vittorio Palermi. La posizione delle due Massoneria venne definitivamente regolata dalla Conferenza di Losanna del 1922 il delegato di Palazzo Giustiniani non venne ricevuto, perché ritenuto irregolare, e Raoul Vittorio Palermi, delegato di Piazza delle Gesù, fu nominato Presidente della prima Sezione, ottenendo il riconoscimento da parte di tutti i Supremi Consigli rappresentati alla Conferenza, della sua regolarità. Tra il 1919 ed il 1922 le due Massoneria presero posizione contro i movimenti estremisti, che avevano fatto piombare il Paese nell'anarchia. Giunto al potere Benito Mussolini, con un programma costruttivo di disciplina nazionale, tanto il Palermi, che Domizio Torrigiani Gran Maestro di Palazzo Giustiniani, gli resero pubblico omaggio, e malgrado il divieto fatto ai fascisti di essere massoni, tutti gli uomini più eminenti delle fascismo erano iscritti a Logge dell’una o dell'altra parte. A causa del delitto Matteotti e del discorso del 3 gennaio 1925, la Massoneria assunse verso il regime un atteggiamento di aperta sfiducia: mentre però il Torrigiani si chiuse in una rigida opposizione, il Palermi cercò di salvare il salvabile; ma nulla potè conseguirne, infatti fu promulgata la legge 20 novembre 1925 contro le Società Segrete. Ma la Massoneria non era morta: gruppi di massoni si tenevano in contatto nelle varie città. Alla fine del conflitto bellico le Logge servirono a far divampare la Sacra fiamma massonica che, sopita ma non spenta, brilla di luce antichissima: essa potrà e dovrà di nuovo riverberarsi nella vita italiana, riportare il contributo dello splendore dello Scozzesismo alla ricostruzione della Patria ed al suo ritorno nel Consesso delle Nazioni.
Torino capitale, covo di massoni. La città incarna le ragioni del laicismo contro quelle della chiesa. Dopo la fine del sogno rivoluzionario quarantottino, a decine di migliaia gli esuli della libertà vanno a Torino, nuova e impensabile capitale italiana. Impensabile è la parola giusta: da sempre la classe dirigente torinese ha avuto il francese come eloquio privilegiato, esclusivo per le buone occasioni. Non è un caso che Cavour abbia fatto esercitazioni di italiano prima di affrontare i dibattiti in Parlamento. Torino diventa la capitale morale d’Italia facendo proprie le ragioni del mondo civile contro quelle della barbarie medioevale, incarnate dalla Chiesa cattolica. Non solo: Torino diventa Gerusalemme. Il Paragone non sembra ardito a Roberto Sacchetti: "Torino saliva allora al colmo del suo splendore. Era stata forte e diventava grande - bella, balda di una gioia viva e seria come una sposa a cui preparano le nozze. La Mecca d’Italia diventava la Gerusalemme". A Torino, nuova capitale morale e religiosa d’Italia, si trasferiscono, e non può che essere così, tutti i liberal-massoni (Free-Mason, Franc-Maçon, Libero-Muratore, liberalismo e Massoneria sono nell’Ottocento praticamente sinonimi) del resto d’Italia. I regnanti sardi offrono ai "fratelli" italiani un’accoglienza tanto calorosa da riservare loro (a tutto discapito dei locali) alcuni dei posti più prestigiosi nelle università, nei giornali, nella diplomazia, nello stesso Parlamento. Ecco come il siciliano Giuseppe La Farina, una delle più eminenti personalità massoniche emigrate a Torino, racconta l’accoglienza riservata agli esuli in una lettera alla "carissima amica" Ernesta Fumagalli Torti, spedita il 2 giugno 1848. "Arrivati appena a Torino - scrive - stavamo spogliandoci, quand’ecco il popolo preceduto da bandiere venire sotto le nostre finestre, e farci una dimostrazione veramente magnifica. Mi affacciai alla finestra, ringraziai; fui salutato con mille prove ed espressioni d’affetto. La mattina seguente, dopo essere stati da’ ministri, ritorniamo a casa; e dopo un momento, chi viene a visitarci? Tutta la Camera de’ Deputati col presidente. Onore insigne, che i parlamentari non sogliono concedere né anco ai propri re". L’accoglienza "regale" offerta alla generosa emigrazione italiana, permette ai Savoia di incassare un importante obiettivo politico: li rende preziosi e credibili alleati degli stati che contano. Offre garanzie ai liberali - protestanti e massoni di tutto il mondo - che sono intenzionati a fare sul serio. Che hanno davvero deciso di rompere con la tradizione cattolica del proprio stato e della nazione cui quello stato appartiene. I Savoia per amore di regno e quindi per furto - come scrive D’Azeglio nei suoi ricordi - diventano fautori dell’ideologia massonica e della religione protestante che apertamente combattono la cultura e la religione nazionali. Grazie a questa scelta strategica che rende il Piemonte docile feudo della cultura inglese, americana, tedesca, di parte del Belgio e dell’imperatore Napoleone III, i Savoia godono dell’appoggio incondizionato dell’una o l’altra di queste potenze e realizzano l’unità d’Italia sfruttando fino in fondo e con grande spregiudicatezza l’unico elemento in proprio favore: la radicale disomogeneità culturale e religiosa con il resto della penisola.
L’anima massonica del regno sardo, e in particolare del Parlamento subalpino, viene mai apertamente alla luce? No, perché l’associazione è pluri-scomunicata e perché il primo articolo dello Statuto vincola i parlamentari all’ossequio della fede cattolica definita religione di stato. L’11 novembre 1848, però, un brillante intervento del deputato Cavallera rende palpabile la "fraternità" quasi come l’aria che si respira. Si sta discutendo di sollevare le finanze dello stato, esauste per la campagna militare, ricorrendo all’esproprio e alla vendita dei beni delle corporazioni religiose. Contrario alla proposta Cavallera fa un discorso brevissimo, allusivo, singolare e sintomatico insieme, che dopo un primo momento di sconcerto suscita la generale ilarità. Ecco le poche battute del curioso intervento. Gli ordini religiosi - osserva il deputato - sono nati in Italia dove esistono da "più di dodici secoli". Bisogna dedurne che "necessariamente corrispondono ad un bisogno reale della società (rumori) [chiosa degli Atti del Parlamento subalpino]; e per conseguenza se si volessero abolire, altre se ne dovrebbero sostituire; infatti i moderni che vollero abolire i frati, vi sostituirono un’altra specie di frati: e cosa sono i circoli politici, se non vere fraterie? (Sorpresa e scoppio generale di risa prolungate). Perciò posto che non si sa stare senza frati, ai moderni preferisco gli antichi (Segue ilarità e mormorio di voci diverse)".
Da tanto alto lignaggio e nobiltà si arriva a delle bassezze assurde.
Si auto-annulla una multa,indagato viceprefetto. Secondo “Libero Quotidiano”, alla guida senza assicurazione e libretto di circolazione fa ricorso contro la contravvenzione. Poi firma di suo pugno l'archiviazione. Ha fatto tutto da solo il viceprefetto di Torino Roberto Dosio: ha preso una multa, ha fatto un ricorso e lo ha accolto cancellandosi la contravvenzione. Tutto nei suoi poteri. Ma per il pm di Torino, Andrea Paladino è abuso d'ufficio: non avrebbe dovuto giudicare se stesso. E così è stato denunciato. Secondo la ricostruzione degli inquirenti il 27 di maggio, durante un normale controllo, la Polizia stradale fa due contravvenzioni al vice prefetto, trovato alla guida dell’auto del padre senza tagliando dell’assicurazione e sprovvisto del libretto di circolazione: 78 euro il totale da pagare. Lui però il 14 giugno presenta ricorso eccependo "ragioni di sicurezza e emergenza, come previsto dall’art. 4 della legge 689 del 1981". Ragioni alle quali a sua volta si oppone la Polstrada sostenendo che l'occasione non rientrava nell'applicazione di quella legge. Il 28 settembre però la sorpresa: il ricorso, accolto e archiviato, porta in calce proprio la firma del vice prefetto intestatario delle multe. Poco dopo scatta la denuncia della Polizia stradale. A quanto si apprende l'uomo si sarebbe giustificato dicendo di aver trattato il suo ricorso "con gli stessi criteri usati per gli altri cittadini".
Il viceprefetto: "Mi sono tolto la multa ma è stata una scelta trasparente". Dosio ha accolto il suo stesso ricorso, per due contravvenzioni al codice della strada: "Ero io che in quel momento avevo la delega e dovevo decidere. Potevo disturbare il mio superiore per una mia questione personale, ma non sarebbe stato corretto". Ha detto a Sarah Martinenghi di “La Repubblica”.
Viceprefetto Roberto Dosio, lei è indagato per abuso d'ufficio per una vicenda davvero insolita: dopo essersi preso due multe, ha fatto ricorso a se stesso. E da solo ha estinto le contravvenzioni.
Non è un po' strano?
«Mi rendo conto, ma del resto ero io in quel momento che avevo la delega e doveva decidere sui ricorsi. Ho ritenuto che non ci fosse nulla da nascondere...»
Ma non poteva trovare un'altra soluzione?
«Io ho ritenuto che fosse giusto agire così. L'ho fatto proprio perché non c'era nulla da nascondere: è stata una scelta di stile e trasparenza».
Può spiegarsi meglio?
«Beh, avrei potuto far passare 210 giorni dalla presentazione del ricorso, avrei potuto attendere il periodo di ferie di un collega, o disturbare il mio superiore per una mia questione personale.. ma non sarebbe stato corretto. Non volevo ricorrere a sotterfugi. Ho seguito la procedura operando una scelta di trasparenza, coerenza e responsabilità».
Scusi, ma è legittimo archiviarsi una multa? Posto che il ricorso sia fondato, ovviamente...
«E' una cosa pienamente legittima perché il potere di archiviazione deriva dalla titolarità stessa dell'ufficio attribuita direttamente dal Prefetto. Io avevo il potere di firma».
Veniamo invece al merito del ricorso: perché erano ingiuste quelle multe?
«Io quel giorno ero a casa, ho ricevuto una telefonata e sono dovuto uscire per andare a firmare delle memorie davanti al giudice di pace. Ho preso l'auto di mio padre, non sapevo fosse priva di documenti».
Secondo la Polizia Stradale le ragioni di "emergenza e sicurezza" che lei ha addotto non contemplano il fatto di non aver avuto assicurazione e libretto.
«L'interpretazione della prefettura prevale su quella dell'organo accertatore: i fatti attestano che mi stavo spostando per necessità inerenti al servizio che vengono comunemente ritenuti sufficienti per invocare le esimenti dell'articolo 4. Non ritengo che ci siano estremi penali».
Però la procura l'ha indagata per abuso d'ufficio. Che idea si è fatto di questa vicenda?
«Credo che di fondo possa avere infastidito la linea garantistica che ho seguito nella direzione dell'ufficio, affinché le motivazioni dei cittadini potessero essere valutate in profondità e secondo legge. Nella realtà ho coniugato trasparenza e legalità individuando una linea di equilibrio rispetto ai Giudici di Pace, notoriamente meno restrittivi della Prefettura. E ho evitato di appiattirmi sulle interpretazioni notoriamente restrittive degli organi accertatori. Il cittadino deve potersi fidare della Prefettura e del fatto che le giuste motivazioni vengano accolte».
PARLIAMO DI MAGISTRATI.
INTERDIZIONE GIUDIZIARIA: INCAPACI O RICCHI DA SPOLPARE?!?
Luigia Padalino: «Messa a tacere perché ricercavo la verità».
ITALIA MALATA - QUANDO I "BUONI" TRADISCONO.
Il procuratore chiedeva tangenti. Arrestato Marabotto: 30% su false consulenze.
Giuseppe Marabotto era scampato a un primo processo per un serio reato (aveva rivelato a un indagato che il suo telefono era sotto controllo). Chiacchierato da molti anni e divenuto procuratore di Pinerolo, ha costruito in una tranquilla periferia giudiziaria un regno personale e il malaffare perfetto per chi, come lui, si sentiva impunito stando dalla parte della legge: 11 milioni di euro sottratti allo Stato sotto forma di consulenze fiscali seriali ed inutili ai fini di azioni giudiziarie. Si sapeva dal 2005. Si sa anche che i commercialisti e consulenti della procura restituivano a un suo collettore il 30 per cento. «Ci sono spese da sostenere» veniva detto loro. In tre hanno confessato.
Pesanti le accuse: corruzione, associazione per delinquere, truffa aggravata ai danni dello Stato.
Il magistrato, che in questi anni da indagato è riuscito prima a farsi trasferire alla Corte d’appello di Genova e ad andare poi in pensione, è stato arrestato e portato da Torino nel carcere di Pavia insieme al commercialista Ruggero Ragazzoni. Gli altri due ammanettati di giornata, il professionista Mario Emanuele Florio e il ginecologo, medico legale anche per pm torinesi e collettore delle tangenti, Dario Vizzotto, sono stati destinati al carcere di Opera. Ma il secondo a sera era ancora in procura, a Milano, interrogato su richiesta del suo legale (Mauro Anetrini). Tirava aria di confessione.
Le 106 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare del gip Stefania Donadeo danno conto della «palingenesi» del procuratore e del giro di commercialisti che aveva radunato: 27 sono indagati, tre notissimi a Torino (Alberto Ferrero, già candidato per Forza Italia alla presidenza della Provincia) e i due arrestati, Ragazzoni storicamente vicino alla sinistra, tutti e due ex revisori dei conti del Comune di Torino. Con la regia esterna di Vizzotto, Marabotto costruiva terne di consulenti per moltiplicare l’ammontare delle risibili consulenze contabili: migliaia fra il 2001 e il 2005. Solo in due anni intermedi fece controllare, si fa per dire, 375 società del Pinerolese. Lo Stato pagava (30 mila euro, più Iva, a botta) e il procuratore archiviava. L’importante è che girassero carte e soldi.
Questo scandalo è stato bloccato nel 2005 da alcuni pm torinesi: un’ispezione ministeriale aveva registrato l’«anomalia», sicché il procuratore fu costretto a iscrivere alcuni dirigenti di società nel registro degli indagati malgrado non avesse in mano niente e ad inviare gli atti, in alcuni casi, ad altri uffici giudiziari per competenza territoriale. A Torino si accorsero dell’«irritualità» di quei fascicoli e misero in moto la procura milanese. Un giudice e un pm di Pinerolo hanno messo a verbale i loro sospetti. Perquisizioni, avvisi di garanzia, e nient’altro. Sino al settembre scorso, quando, dopo una segnalazione dell’Agenzia delle Entrate alla procura torinese su uno studio di commercialisti che evadeva le imposte, emerse che quei professionisti avevano deciso di pagarle solo sul 70 per cento delle parcelle, quanto restava loro.
Marabotto a uno dei suoi: «Ho già preparato una lettera al Comando generale della Guardia di Finanza dicendo che è vergognoso che vadano a fare indagini che riguardano compensi, e che quindi chiamano in causa il modo di agire della Procura... che vengano affidate a persone talmente incompetenti... per cui lo stesso procuratore deve spiegare a un deficiente di maresciallo come stanno le cose». Le intercettazioni svelano il mondo particolare di Marabotto che faceva arrestare gente spessa - in questo caso dei marocchini con un negozio di abbigliamento a Pinerolo - e poi ne diventava amico. Tanto che questi gli propongono di comprare una collina in Marocco. Il denaro non gli mancava. E si sentiva al sicuro. Donatella Giovannini, fra i professionisti che hanno rivelato il sistema Marabotto, ha rivelato che il procuratore aveva detto a Vizzotto: «I soldi li ritiri tu, così in galera ci vai tu».
Arrestato per corruzione l'ex procuratore di Pinerolo Giuseppe Marabotto. Negli anni '80 era stato protagonista di diverse indagini sul mondo del calcio. Ospite fisso per stagioni al "Processo" di Biscardi, nel 1986, quando era sostituto procuratore a Torino, è stato titolare della seconda inchiesta calcistica su un giro di scommesse illegali che, sul piano sportivo, portò alle penalizzazioni dell'Udinese in serie A, di Perugia, Lazio e Vicenza in B nonché alla squalifica di 27 calciatori.
L'inchiesta della procura di Torino che ha portato al provvedimento per lui e altre tre persone è iniziata diversi mesi fa. Le Fiamme Gialle si erano concentrate su un giro di consulenze (pagate in tutto una dozzina di milioni di euro in tre anni) che Marabotto affidava a un gruppo di professionisti: gli accertamenti sulle aziende di Pinerolo venivano condotti "a modello 45", vale a dire senza notizia di reato. Quando trapelò la notizia dell'inchiesta, l'allora procuratore spiegò che il suo modo di procedere poteva permettere all'Erario di recuperare cospicue somme di denaro.
Nel 2006 il magistrato era finito nelle intercettazioni telefoniche disposte dai pm di Napoli per l'inchiesta su Calciopoli. Aveva - secondo l'accusa - chiesto aiuto al direttore generale della Juventus Luciano Moggi per il buon esito di un'ispezione negli uffici di Pinerolo, disposta dall'allora ministro della Giustizia Castelli. Una interpretazione che Marabotto aveva respinto con sdegno e stupore: "Macché imbonire - si era difeso -, la mia era una telefonata scherzosa con la quale presentavo Moggi a un ispettore ministeriale, sfegatato tifoso bianconero, un ispettore venuto a Pinerolo per controllare dati informatici, non certo per esaminare il mio operato".
Sul piano disciplinare il caso è stato archiviato dal plenum del Csm, ma Armando Carbone, l'uomo che nell'86 truccò gran parte delle partite allora sotto inchiesta, due anni fa davanti ai magistrati di Napoli ha messo a verbale: "Grazie all'inchiesta di Marabotto negli anni '80 è stato affossato il sistema di Italo Allodi per consentire a Luciano Moggi di diventare il nuovo burattinaio del calcio. Marabotto indagò a senso unico zittendomi ogni volta che parlavo della corruzione di Juventus e Torino. Insieme al sostituto Laudi, prestato all'ufficio inchieste della Federcalcio, Marabotto fu strumento di Moggi nello scandalo dell'86". Di tutto questo si parlerà nel processo in corso a Napoli, dove Carbone è teste per l'accusa.
Amore tra magistrati ed avvocati, vietato e punibile, ma solo se si viene a sapere e il CSM interviene.
L’imparzialità nei giudizi resi rende la credibilità dei magistrati granitica. Se poi si scopre che negli uffici giudiziari vi sono legami sentimentali risaputi tra avvocati e giudici, che influenzano o potrebbero influenzare le attività delle parti in causa e dei loro colleghi, la credibilità va a farsi benedire. Sì, però, basta non farlo sapere in giro.
E' per incompatibilità ambientale nei confronti di due donne giudici di Torino la prima pratica aperta dal Csm di nuova nomina, il cui vicepresidente è, casualmente, un torinese, l'ex deputato udc Michele Vietti. Il procedimento riguarda le gip Fabrizia Pironti e Sandra Casacci, fidanzate ufficialmente, e da diversi anni, rispettivamente con gli avvocati del foro subalpino Fulvio Gianaria e Renzo Capelletto.
La normativa giudiziaria vigente prevede l'incompatibilità ambientale in casi di questo genere. La vicenda delle due donne magistrato impegnate sentimentalmente con legali torinesi, per la verità, non è affatto una novità sotto la Mole. Anzi, anche il precedente Csm, il cui vicepresidente era Nicola Mancino, aveva avviato nei loro confronti un procedimento per incompatibilità: la pratica, tuttavia, non si sa per quale motivo, era rimasta inevasa. Il nuovo Consiglio di Palazzo dei Marescialli, dunque, ha deciso di portare a termine quell'istruttoria e ha deciso di convocare il procuratore generale di Torino, Marcello Maddalena. E domanderanno pure anche perché il caso, essendo annoso, non sia stato risolto prima.
Un problema di incompatibilità è stato sollevato, ma ristretto nell'ambito degli uffici della giurisdizione torinese, nei confronti di un'altra giudice, la dottoressa Alessandra Vecchione, moglie dell'ex comandante del Reparto investigativo dei carabinieri, Nicola Fozzi. Era evidente, l'incompatibilità, in quel caso: il marito arrestava, la moglie avrebbe potuto trovarsi a giudicare quegli indagati. Questo intreccio investigativo-giudiziario-matrimoniale è stato risolto questa volta dall'Arma, che ha trasferito l'ufficiale al Reparto operativo, non più incompatibile con l'ufficio della moglie gip.
Il giudice torinese Sandra Casacci e l’avvocato Renzo Capelletto vivono la loro storia sentimentale da 31 anni. Una vita. L’hanno sempre fatto alla luce del sole. Il nuovo Consiglio Superiore della Magistratura, targato Michele Vietti, che solo per un caso è torinese e avvocato anch’egli, ha appena aperto la sua prima pratica disciplinare. L’ha aperta nei confronti del giudice Casacci per incompatibilità ambientale. Il suo compagno, Capelletto, è amareggiato: «Mi spiace per Sandra - racconta - Stiamo insieme da tanto, non ci siamo mai nascosti. Sono stato anche presidente degli avvocati di Torino e nessuno ha mai potuto dire che ci siano stati contatti tra la mia attività di avvocato e la sua di giudice. Il vero problema è che Sandra, dopo una vita di lavoro, sta per diventare capo del suo ufficio e forse questo dà fastidio a qualcuno».
Il Csm ha aperto un’altra pratica contro un giudice torinese. Questa volta si tratta di Fabrizia Pironti, legata per anni sentimentalmente all’avvocato Fulvio Gianaria, uno dei legali più conosciuti e stimati del foro torinese. «Della mia vita privata preferirei non parlare - dice l’avvocato - ma una cosa la dico: in tutto questo tempo non ho mai partecipato a un processo che avesse come giudice la dottoressa Pironti. E così i miei colleghi di studio. È la differenza tra la sostanza e il formalismo».
La pratica aperta dal Csm mette il dito in una piaga. Nei tribunali italiani non ci sono solo coppie formate da giudici e avvocati, ma anche giudici e giudici sono incompatibili in certi ambiti. Oppure parenti, affini. La legge dice, fino al secondo grado. «Abbiamo aperto questa pratica perché ci è arrivata una segnalazione - si limita a dire il vicepresidente del Csm, Vietti - È una pratica nuova, verificheremo».
A Palazzo dei Marescialli è stato convocato il procuratore generale del Piemonte Marcello Maddalena che dovrà spiegare se esiste una situazione di incompatibilità dei suoi due giudici. E, nel caso esista da tempo, perché non è stata risolta prima. Dovrà spiegare, insomma, come mai l’amore ha trovato spazio tra le aule austere e i faldoni dei suoi uffici giudiziari.
Scandalo riportato da tutti i giornali.
Pagati dai carrozzieri: in cambio davano le radio per arrivare prima sugli incidenti.
C’era da guadagnare per tutti. I vigili urbani incassavano tangenti tra i 300 e i 500 euro a settimana. Dipendenti e titolari dei carri attrezzi anche 2 mila al giorno. Uno di questi si è addirittura comprato un mezzo da 100 mila euro. Tutto grazie alle ricetrasmittenti portatili Tetra che 7 agenti della polizia municipale avevano ceduto a chi con l’autosoccorso aveva tutto l’interesse ad arrivare prima sul luogo dell’incidente stradale per accaparrarsi il lavoro.
Arresti domiciliari per 6 civich (mentre una vigilessa è stata graziata perché gravemente malata), mentre 16 persone, tra autisti, titolari e dipendenti di società che gestiscono il pronto intervento stradale, hanno l’obbligo di firma.
Da quanto tempo gli agenti mettevano in atto il reato di peculato e corruzione? Questa non è l’unica domanda aperta, parallelamente c’è un altro filone di indagini che riguarda la fuga di notizie. Prove schiaccianti invece - intercettazioni telefoniche e ambientali, pedinamenti, videoriprese - a conferma di un sistema a prova di bomba. Archiviati i vecchi apparecchi facilmente intercettabili con un comune scanner, le nuove radio Tetra funzionano solo se autorizzate da password in dotazione alla centrale della polizia municipale. Per essere informati in tempo reale su una collisione stradale è dunque indispensabile possedere una di queste radio. I vigili arrestati le avevano consegnate in cambio di mazzette che potevano fruttare anche 2 mila e 500 euro al mese.
Una spesa più che tollerabile per quei privilegiati che potevano battere la concorrenza grazie alle indicazioni ricevute.
Ad insospettire la polizia municipale sulle irregolarità sono stati proprio gli oggetti del profitto facile. Le radio digitali Tetra. Dotate di Gps - meccanismo che consente l’individuazione via satellite - risultavano presente in aree dove non sarebbero dovuto essere. In zone, cioè, diverse da quelle dove lavoravano i civiche che le avevano in dotazione. Da verifiche e controlli incrociati gli inquirenti si sono accorti che le cose non quadravano.
Più che una “semplice” Tangentopoli, la vicenda degli arresti domiciliari ai vigili urbani per le mazzette sugli incidenti stradali è una “spy story”. Dove salta fuori di tutto: persino il sesso, il gioco d’azzardo, la cocaina. E, ovviamente, le “talpe”, le spie che con le loro informazioni cercano di proteggere i colleghi nei guai.
Sesso nel retro. Il giorno dopo la bufera, il mondo dei carristi è in fibrillazione. Nelle carrozzerie e nei bar frequentati dagli autisti non si parla che dello scandalo. E in molti, a quanto pare, sanno più di quanto è contenuto nelle 85 pagine dell’ordinanza di custodia. «Uno di quei vigili lo conoscevo - racconta Pino (nome di fantasia) - e conoscevo il titolare della carrozzeria a cui prestava la radio. All’inizio, il patto tra i due era semplice: il civich, quando sapeva di un incidente, chiamava il carrista, e in cambio gli facevano usare il letto che di solito serviva agli autisti che facevano la notte.
Il vigile aveva un’amante, e quando voleva appartarsi andava lì». Qui invece non si parla di sesso, ma di mazzette da 500 euro alla settimana. «Briciole, se si pensa che arrivando sempre per primo un autista poteva fare 2mila euro al mese più il fisso». E qualcuno, a quanto pare, di soldi aveva davvero bisogno. «Uno di quelli beccati (gli autisti conoscono i nomi di tutte le persone coinvolte pur non avendo letto l’ordinanza ndr) si è fatto dei debiti grandi così. Ha preso la piccola ditta del padre, ha incominciato a comprare carri, auto di grossa cilindrata e ha continuato a giocare d’azzardo. Per forza che non ce la faceva a pagare i creditori. E ha dovuto escogitare qualcosa». Di un altro, invece, uno degli indagati dice alla sorella, in una intercettazione del 20 maggio, «ha il vizio del gioco o c’ha un altro vizio perché con 2500/2600 euro lui e la mamma non riescono a vivere». E specifica, parlando con la moglie «se abbiamo capito questo qua tira di coca».
Stalking e vendetta. Uno degli argomenti più dibattuti è quello relativo a Sabina Torrente, la vedova di Angelo Laurino, uno dei martiri Thyssen, finita suo malgrado nell’inchiesta. La Torrente, ex amante di Gaetano Spinapolice, un benzinaio indagato, nell’ordinanza è indicata come attuale compagna di Plinio Paduano, uno dei vigili agli arresti. Il 6 giugno, Spinapolice denuncia Paduano ad un vigile della quinta circoscrizione. E i giudici ritengono che il benzinaio sia mosso da «motivi legati a sentimenti di gelosia». «Ma quale gelosia - ribatte il benzinaio -. Per me se la può prendere e se la può sposare. L’ho fatto per difendere il mio lavoro. Io ho una mogie stupenda e con la Torrente c’è stata una piccola esperienza sentimentale finita dopo qualche mese. Se ho deciso di denunciare il vigile è perché lui non voleva smettere, nonostante glielo avessi chiesto in tutti i modi, di fare quel lavoro nella mia stazione di servizio. Quando ho visto che incominciava a incattivirsi e continuava a fare determinate cose, con la mia famiglia ho deciso di denunciarlo». Spinapolice, che dice di «non aver percepito una lira» nell’affare delle radio, è stato denunciato dalla donna per stalking. «Ha detto che le ho danneggiato la macchina e bruciato il campanello di casa - ricostruisce Spinapolice -. Ma per dire cose del genere ci vogliono le prove, e in tribunale vedremo se le ha. Io intanto l’ho querelata per calunnia e diffamazione». Le denunce per atti persecutori, spiega Spinapolice, sono arrivate «dopo che io ho denunciato il vigile». Un caso? «A me viene da pensare che la signora Torrente ha avuto una relazione con questo vigile qua, il vigile è venuto a sapere che io avevo preso una certa decisione e si sono messi d’accordo per farmi del male».
Caccia a “Orso Grigio”. E d’altra parte è proprio nelle conversazioni tra lo Spinapolice e la Torrente che salta fuori la “talpa”. O la spia, se preferite: “Orso grigio”. Costui è stato identificato dagli investigatori come un ex sottufficiale della polizia municipale di nome A.M. ma non figura tra gli indagati. Fatto sta che, quando ci si rende conto che il terreno sotto i piedi comincia a scottare, Orso Grigio è colui che si attiva per capire se esista una inchiesta giudiziaria in corso. Addirittura, riferendosi al linguaggio criptato per cui la radiolina era definita «zia», spiega - scrive il gip nell’ordinanza - «che non avendo i due zie in comune, il ricorso al termine zia poteva essere pericoloso». Ecco la conversazione dell’8 maggio. Nino: «lo dico “orso grigio” non mi fai dire i cognomi, no». Sabina: «Orso grigio?». Nino: «Sìììì è quello che lavorava al comando...». Il 12 maggio, l’uomo risalta fuori, indicato con il cognome - che qui ci limitiamo a puntare ndr- in un’altra telefonata tra i due. Sabina: «...perché purtroppo sono colleghi e i colleghi il culo se lo riparano uno con l’altro... fai attenzione... perché M. non è un santo. M. lo avrà fatto prima di lui... attenzione eh...». Nino: «...no no, me lo ha detto anche mio cognato».
Complicità. E a dire il vero il discorso del coprirsi le spalle a vicenda ingenera più di un dubbio negli inquirenti. E se le “mele marce” di Chiamparino fossero di più? Conversazione del 19 aprile tra i “carristi” P. e S. Dice S.: «Se ti fermano tranquillamente digli che te l’ha prestata un vigile e poi vengo io con lui, non è un problema. Hai capito?». P. assente. E S. ribadisce: «Perché mi ha avvisato lui di dire così». “Lui” è il vigile urbano che aveva ceduto la radiolina. Davvero era sicuro che, con questa scusa, i suoi colleghi, in caso di controllo, non avrebbero fatto storie? O ci sono altre possibilità.
Ma non è la sola inchiesta che mina la credibilità nelle istituzioni.
C’è il furto sensazionale, poi le incredibili trattative per rientrare in possesso della preziosa refurtiva. Il furto è quello messo a segno nella palazzina di caccia di Stupinigi, la notte tra il 18 e il 19 febbraio del 2004: spariscono nel nulla mobili di inestimabile valore storico-artistico. Le trattative, invece, sono quelle avviate da due uomini in divisa: il maresciallo dei carabinieri Riccardo Ravera, nome in codice “Arciere”, e il sovrintendente della polizia Riccardo Cavuoti. Per la Procura di Torino, durante la delicata fase di recupero della refurtiva i due uomini in divisa diventano complici degli autori del furto, una banda di nomadi sinti. Ecco perché, adesso, i sostituti procuratori Andrea Padalino ed Enrico Arnaldi di Balme inseriscono i nomi di Ravera e Cavuoti nell’avviso della conclusione delle indagini preliminari.
Sono accusati, Ravera e Cavuoti, di estorsione e falso in atto pubblico. Nei documenti in possesso della Procura si legge che «a seguito del furto dei preziosi beni contenuti nella palazzina di caccia di Stupinigi, avvenuto ad opera di Daniele Decolombi, Adriano Decolombi, Claudio Decolombi, Renato Di Maio e Carlo Cerutti, il maresciallo dei carabinieri Riccardo Ravera dapprima informava Adriano Decolombi e Daniele Decolombi dell’esistenza di una ricompensa per il recupero dei beni pari a 500mila euro e, successivamente, nel corso della trattativa instaurata con Adriano Decolombi, redigeva una annotazione di servizio in cui attestava falsamente che “fonte confidenziale ha riferito che per il ritrovamento della merce gli attuali possessori, che in ogni caso stanno organizzando la spedizione dei manufatti nei paesi arabi, hanno chiesto la somma di 500mila euro”.
Un’annotazione di servizio identica a quella contemporaneamente redatta dal sovrintendente della polizia stradale della sottosezione di Saluzzo, Giuseppe Cavouti. «Autonome e parallele annotazioni di servizio, destinate ai rispettivi superiori gerarchici», che avrebbero quindi costretto la Fondazione dell’Ordine Mauriziano e la società assicurativa Axa a consegnare agli autori del furto la somma di 250mila euro. Insomma, Arciere e Cavuoti mettono in pratica un piano geniale, diabolico: contattano i sinti e li informano, falsamente, dell’esistenza di una ricompensa di 500mila euro per il recupero dei mobili; poi riferiscono alla Procura che gli autori del furto pretendono proprio la somma di 500mila per la restituzione dei preziosi beni. Ma perché l’avrebbero fatto? «Per ottenere plausi e riconoscimenti a ogni costo», aveva spiegato il giudice per le indagini preliminari Silvia Bersano Begey nell’ordinanza di misura cautelare emessa nei confronti dei due indagati nel marzo del 2008. Ma invece dei plausi e dei riconoscimenti è arrivata l’iscrizione nel registro degli indagati.
Arciere è accusato anche di truffa ai danni dello Stato per aver chiesto rimborsi spesa per missioni mai eseguite. Dichiarava, falsamente, di essere al lavoro. In realtà, se ne stava comodamente seduto in poltrona, nella sua abitazione di Piscina.
Concorsi universitari truccati? O viziati da favoritismi e raccomandazioni, e dunque esami finti, perché se ne conosce sempre in anticipo il vincitore? Dopo giorni di polemiche e j’accuse, si muove la Procura della Repubblica. Le dure prese di posizione di due professori universitari pubblicate sulle colonne de «La Stampa» hanno convinto il procuratore aggiunto Francesco Saluzzo, che coordina il pool di magistrati impegnati sui reati contro la pubblica amministrazione, ad aprire un fascicolo giudiziario. I due cattedratici sono Paolo Bertinetti, preside della facoltà di Lingue e letterature straniere, e Roberto Alonge, ex preside della facoltà di scienze della Formazione, ordinario di Storia del teatro. La prossima settimana saranno sentiti in procura come «persone informate sui fatti», ovvero testimoni della pubblica accusa. Tutto è cominciato nelle scorse settimane. La procura della Repubblica aveva aperto un fascicolo sulla base di un circostanziato esposto presentato su un concorso da ricercatore (nel settore dell’ingegneria aerospaziale) al Politecnico. L’ha firmato Luciano Demasi, «cervello migrato» all’università di Washington, a Seattle. Il pm Cesare Parodi ha aperto un fascicolo penale, su cui c’è il massimo riserbo: si sa soltanto che alcuni protagonisti della querelle sono stati sentiti a Palazzo di Giustizia. Di quel concorso s’è fatto al Politecnico un gran parlare.
E, al di là di quello specifico episodio, al Poli come all’Università s’è allargato lo sguardo alla situazione generale dei concorsi. Finché sono arrivati, da Palazzo Nuovo, i coraggiosi j’accuse di Alonge e Bertinetti. «In tanti anni di Università - ha detto il preside di Lingue a “La Stampa” - non ho mai visto nessuno vincere un concorso solo in base ai suoi meriti». Roberto Alonge ha firmato su «La Stampa» quasi un’invettiva: «Che i concorsi siano truccati, lo sanno tutti». «Un maestro sfrutta per anni un allievo: gli fa fare esami, gli fa seguire tesi di laurea, si fa sostituire da lui a lezione. Quando, dopo anni di sfruttamento, arriva un concorso, può il maestro non far vincere il proprio allievo, anche se al concorso s’è presentato un altro più bravo?» E Bertinetti: «I meriti possono essere tanti o pochi: ma senza un professore che lo porta, nessuno sale in cattedra». Hanno denunciato un malcostume che fa a pugni con l’etica, o sono anche a conoscenza di reati? Probabilmente i magistrati li hanno chiamati nei loro uffici per saperlo.
Non si sa se Saluzzo e Parodi già indaghino su altri concorsi, al di là di quello del Politecnico, ma probabilmente a Bertinetti e ad Alonge, che appartengono a un altro ateneo, chiederanno se intendono passare da generiche accuse al sistema al resoconto di specifici episodi. Per intanto, ieri Alonge ha ribadito «che il difetto sta nel manico: è la legge stessa a costituirsi a difesa dell’arbitrio, e ad essere costruita in modo tale da consentire la massima discrezionalità». E Bertinetti, sibillino: «Sarò ben lieto di illustrare anche negli uffici giudiziari quali sono i meccanismi concorsuali».
PARLIAMO DI MALASANITA'. MULTATI PERCHE’ TROPPO EFFICIENTI !!! IL PRIMARIO: IO FUORILEGGE E ME NE VANTO.
«Ora che l’Ispettorato del lavoro ha sanzionato le Molinette per eccesso di attività, mi aspetto che multi chi prende lo stipendio e non fa nulla». Il professor Mauro Salizzoni, primario del Centro trapianti di fegato finito nel mirino del ministero del Lavoro per la vicenda degli infermieri sfruttati, è caustico, come sempre.
Come giudica la sanzione alle Molinette?
«Non mi sono mai posto il problema di essere fuorilegge. Ogni giorno, qui, abbiamo a che fare con persone in condizioni gravi, e più di me il collega Rinaldi, primario in Cardio-rianimazione. Non trattiamo merci, curiamo esseri umani. Il nostro dovere è dare il massimo delle garanzie, il massimo dell’impegno. Se non abbiamo rispettato la legge, allora la legge va cambiata».
Anni fa, professore, lei sfilava in corteo teorizzando il «lavorare tutti per lavorare meno». Cosa è cambiato nelle sue convinzioni?
«Nulla. La regola è ancora valida: lavorare tutti».
Non è così, alle Molinette?
«Ci sono pochi che lavorano molto e molti che lavorano poco».
Troppo vago. A chi si riferisce?
«Se nei reparti come il mio sovente non c’è un attimo di tregua, ci sono ambulatori che chiudono alle 16, con gli infermieri che vanno a casa tutti i pomeriggi a quell’ora. Io dico: prendiamo un po’ di quegli infermieri e li trasferiamo nei reparti dove l’attività è più pesante, dove i turni sono massacranti, come dice il sindacato».
Anche gli infermieri non sono merce, professore. Se si oppongono un motivo ci sarà.
«E’ ovvio che questi infermieri devono essere incentivati a stare nei reparti più difficili. Innanzitutto economicamente. Lavorare in centri come il mio, o come la Cardiochirurgia, dà grandi soddisfazioni oltre a richiedere sacrifici».
Qual è l’ostacolo?
«Spesso lo stesso sindacato. Qui alle Molinette, in particolare, ci sono abitudini e convinzioni consolidate. Come sostenere che tutti gli infermieri sono uguali e tutti devono ricevere lo stesso in busta paga. Il che è sbagliato, e non va nell’interesse dei cittadini. La verità è che stiamo andando verso l’appiattimento di questo Paese, stiamo scadendo, ci serve una scossa. Se il messaggio che passa, anche attraverso le multe dell’Ispettorato, è “non si deve lavorare troppo”, povera Italia».
Nel frattempo?
«Nulla. Continuiamo a garantire gli interventi a tutti i pazienti che si rivolgono a noi. A dare le risposte che dobbiamo dare. Non siamo un centro estetico: qui, molto spesso, si vive o si muore».
Il ministero del Lavoro ha inflitto alle Molinette una condanna da 110 mila euro per troppo impegno. Il sindacato infermieri aveva denunciato il principale ospedale del Piemonte per i turni di riposo saltati e i troppi straordinari nelle sale operatorie del Centro trapianti di fegato e della Cardio-rianimazione: «Sfruttamento puro», ha accusato Nursing Up. L’Ispettorato ha compiuto una verifica accurata e ha dato ragione ai dipendenti, condannando il direttore generale dell’ospedale a pagare una cifra enorme per lo scandalo. Poco importa che il centro trapianti di fegato diretto dal professor Mauro Salizzoni sia al top in Italia per numero di interventi. Il primo ad aver raggiunto e superato, già nel 2002, i mille trapianti. Un fiore all’occhiello della Sanità pubblica. Poco importa che alcuni giorni fa otto persone siano state strappate alla morte grazie a una maratona di 15 ore in camera operatoria.
Il record qui diventa paradosso. Ma il direttore generale, Giuseppe Galanzino, non ci sta: «Il mio compito è far funzionare al meglio l’ospedale, garantire ai malati un centro di prim’ordine. Se mi chiedono di ridurre l’attività delle camere operatorie, firmo le dimissioni e me ne vado».
Il confronto è fra due diritti legittimi: quello degli infermieri al rispetto di un contratto, quello di un direttore generale (e di un primario) alla gestione di un reparto efficiente. Su un punto credo che entrambi concordino: a chi giova una maxi-multa al direttore generale?
PARLIAMO DI INGIUSTIZIA.
IL CASO STROPPIANA. Il delitto della logopedista Marina di Modica.
14 aprile 2011. Questo è il resoconto del Corriere della Sera.
"Nel suo ultimo giorno da uomo libero parla come un detenuto. «Quando esco, divento un vero pensionato. Mi sono fatto tutti i calcoli: ho 54 anni, ne ho versati 30 di contributi. Finalmente avrò una vita davanti, spero lunga: mio nonno è morto che ne aveva 88, mio papà ne festeggia novanta tra qualche giorno». La voce si rompe quando scivola su quel compleanno al quale non potrà assistere, ma è questione di un attimo. Paolo Stroppiana, il filatelico che ride, il von Bulow di Torino, cerca di riprendere i panni del personaggio enigmatico che ha portato come una corazza per quasi tre lustri. Solo che oggi è difficile. Oggi la sua storia, quella del delitto di cui è accusato, esce dalla dimensione romanzesca che tanto ha allietato le serate dei salotti cittadini orfani delle trame di Fruttero e Lucentini, e si fa vita vera. Presenta il conto, tutto in una volta. Dopo una assoluzione e tre sentenze di condanna, due volte riformate, la Corte di cassazione ha confermato l'ultimo verdetto che lo scorso gennaio gli aveva assegnato 14 anni di carcere per l'omicidio preterintenzionale di Marina Di Modica. Aveva 39 anni, quando scomparve la sera dell'8 maggio 1996. Era figlia di un professore universitario, cattedratico di Chimica e presidente dell'Accademia delle scienze, faceva la logopedista. «Ore 18.30. Cena Paolo per francobolli». Marina era una donna ordinata, segnava tutto su una agenda. Stroppiana all'inizio negò di essere lui, quel Paolo. Un filatelico ben conosciuto, figlio della borghesia torinese, che lo aveva ripreso con sé dopo gli anni dell'estremismo nero in Terza posizione. Poi cambiò versione, raccontando di avere disdetto all'ultimo l'incontro con la donna. Non c'è il corpo, non c'è l'arma, non c'è un movente. La storia è questa. Un canovaccio che ha diviso opinioni e anime, compattando una procura convinta di avere un colpevole e poche prove contro di lui. Stroppiana affronta il tempo sospeso che manca alla ratifica dell'ultima sentenza con una normalità ostentata. Alle 9 del mattino esce di casa, fresco di rasatura, e sale in macchina diretto nell'alto Novarese. Deve far vedere ad alcuni clienti le novità del catalogo Bolaffi, istituzione cittadina per la quale lavora dal 1990. Una tappa a Romagnano Sesia, un'altra a Omegna, infine il pranzo in una trattoria di Crodo. Insieme a lui c'è il figlio Federico, che ha 23 anni. La sua presenza è un segno di resa, per entrambi, perché hanno tante cose da dirsi, perché al ritorno a Torino sentono che dovranno salutarsi. Dietro di loro, due Volanti e altrettante moto della Polizia, una specie di corteo presidenziale che lo segue a distanza. «Non ho mai pensato di scappare, mai. E sinceramente, spero che la sentenza della Cassazione sia definitiva. Non ce la farei a ricominciare un altro processo. In questi anni passati a fingere una vita normale non ho mai potuto coniugare un verbo al futuro. Non ho comprato casa, non ho fatto un mutuo, non ho fatto un figlio con la mia nuova compagna. Avevo sempre la borsa con i vestiti nel bagagliaio, ogni momento era buono il carcere. Basta, adesso basta. Quando sarò fuori, potrò almeno vivere come un ragazzino, fare programmi, costruire qualcosa». Il verdetto della Cassazione sta per arrivare, manca poco. «Spero di diventare nonno in carcere, mio figlio mi ha promesso dei nipotini. Non si stupisca, la mia non è rassegnazione. Giusto o sbagliato non importa, ci sarà sempre un colpevole che la fa franca e un innocente condannato. È solo che sono stanco, molto stanco». Lo status di piccolo mistero cittadino aveva anche solleticato il suo ego. Ma lentamente, come una goccia cinese, era divenuto un peso insostenibile. «Quindici anni, con addosso il marchio di questa storia. Spero che una volta fuori mi lascino stare». Sul marciapiede trova il maresciallo che lo aspetta. Dottore, gli dice, è arrivato l'ordine di tradurla in questura. Stroppiana abbraccia il figlio. Un sorriso. «Andiamo». Certe volte anche la prigionia può essere una liberazione."
14 aprile 2011. Questo è il resoconto de La Stampa. "La Corte di Cassazione di Roma ha confermato la condanna della Corte d'Assise d'Appello di Torino, a 14 anni di carcere, per Paolo Stroppiana, il filatelico torinese accusato del delitto di Marina Di Modica. Per lui, in serata, si sono aperte le porte del carcere. Fra meno di un mese, l'8 maggio, saranno 15 anni che la logopedista torinese è scomparsa, lasciando dietro di sé lo scontrino di un paio di calze nuove e un'agenda piena di enigmi. Su quelle pagine gli inquirenti trovarono gli indizi per le loro indagini, in un mondo senza cellulari: un appuntamento per fare valutare dei francobolli. C'è finito così nell'inchiesta Paolo Stroppiana, 52 anni, filatelico alla Bolaffi. In mancanza di un cadavere, di un'arma e di un movente, c'è rimasto per le troppe bugie, per gli alibi che si sono rivelati falsi, per le contraddizioni sue e di fidanzate e amanti. Sullo sfondo, un chiacchierato un passato da neofascista, le pruriginose abitudini sessuali, la scomparsa, anni prima, di una collega, Camilla Bini. Ma soprattutto è rimasto inchiodato al processo grazie all'ostinazione dei famigliari della vittima, il padre Gaetano e la sua compagna, Marina Ferrero, il fratello Marco, assistiti dall'avvocato Gian Paolo Zancan, che hanno sollecitato la ripresa delle indagini che languivano, ma soprattutto si sono opposti nel 2004 all'archiviazione. E' cominciata la lista dei processi e delle sentenze: in primo grado 21 anni per omicidio volontario, nel gennaio del 2006, ridotti a 16 in secondo grado, a luglio 2008. Nel gennaio del 2010 la nuova sentenza della Corte d'Appello, dopo che la Cassazione aveva ordinato di ripetere il processo: 14 anni per omicidio preterintenzionale. Per l'accusa, sostenuta dal procuratore generale Vittorio Corsi, potrebbe essere stato fatale uno strangolamento durante un rapporto sessuale. “Una sentenza illogica e irragionevole” per gli avvocati difensori, Aldo Albanese e Mauro Ronco. Tutto si è giocato su un appuntamento segnato sull'agenda della vittima per quell'8 maggio 1996 “Cena Paolo x f.bolli”. Quei francobolli ritrovati in soffitta in una vecchia scatola di latta per biscotti, spariti anche loro con Marina. Paolo Stroppiana ha sempre sostenuto che l'appuntamento fosse stato annullato."
Giusta pena in giusto processo, ma dai resoconti giornalistici qualcosa non quadra. Nessuno osa criticare la sentenza. La Cassazione ha condannato per un delitto in cui si nota: niente arma, niente corpo, niente movente.
La Cassazione ha condannato un imputato per omicidio preterintenzionale che: o doveva essere assolto con formula piena; o doveva essere condannato per omicidio volontario e soppressione od occultamento di cadavere. Non esiste in diritto una via di mezzo !!!
IL CASO FRANZONI
«Io non ero stressata. Era come se questo giudice avesse vissuto con me, fosse stato lì quella mattina. Voleva farmi uscire pazza, così se ne lavavano le mani.
La realtà è un’altra. Pretendo giustizia. Loro non sanno che cos’è la giustizia!
Voi (giornalisti) mi avete triturato assieme agli altri. Vogliamo raccontare barzellette? Vogliamo raccontare favole? E quel bastardo dell’assassino dov’è?
Lotterò per avere giustizia perché lo faccio per il bambino, che è più importante di tutto il resto. Mi è stato tolto un figlio atrocemente e sono ormai 6 anni che vivo con questo dolore reso ancora più dilaniante da un’accusa ingiusta.
Il deposito delle motivazioni rinnova in me la profonda delusione per una giustizia che non ha il coraggio di dire: forse sto sbagliando.
L’atteggiamento della giustizia rende sempre più difficile la ricerca della verità. E’ giusto aver indagato in casa, nella nostra famiglia, ma purtroppo si è rimasti solo dentro questi ambiti, cosicché a oggi non sono ancora state approfondite altre piste. Quindi anche quelle del vero colpevole.
Continuerò per tutta la vita a chiedermi perché non ho il diritto di sapere chi ha ucciso il mio Samuele, nella speranza di trovare quanto prima un magistrato che mi ascolti.
Quello che mi fa arrabbiare di più è come si possa motivare la sentenza cercando di leggere, o di inventare addirittura, la figura di una donna stressata che ha perso il lume della ragione fino ad arrivare a commettere un omicidio tanto atroce. Questo non c’è nelle carte del processo».
I DUBBI:
· GLI ZOCCOLI. Secondo il RIS l’assassino li ha indossati con i piedi sporchi di sangue. Per la difesa possono essersi macchiati quando Anna Maria ha soccorso il figlio.
· IL PIGIAMA. Per l’accusa lo indossava l’aggressore di Samuele, ma lo stesso perito nominato dai giudici dice che non c’è certezza.
· I TEMPI. Poco verosimili. Anna Maria avrebbe ucciso nei 4 minuti in cui l’altro figlio era fuori a giocare. In questo brevissimo tempo si sarebbe ripulita dal sangue, quindi, avrebbe accompagnato Davide allo scuolabus e, una volta tornata, in tre minuti sarebbe riuscita a preparare il depistaggio ipotizzato dalla Corte.
· IL MOVENTE. La mamma di Cogne viene descritta come un soggetto con problemi psichici e allo stesso tempo un’assassina lucida e spietata. Nonostante ciò, non le viene concessa la semi infermità.
· L’ARMA. I giudici sostengono che Anna Maria abbia usato un mestolo o un pentolino e fanno tre ipotesi: l’ha lavato e rimesso a posto, ma i Ris non hanno trovate tracce; l’ha fatto uscire dalla casa nascosto in un calzino, ma era troppo grande; l’ha fatto uscire nello zainetto, che ha una traccia ematica all’esterno, ma non ci sono macchie all’interno.
Ritengo che le motivazioni della condanna di Annamaria Franzoni siano «al di qua di ogni ragionevole dubbio» e non «aldilà di ogni ragionevole dubbio», oltre che ispirate alla frase del Manzoni nella Storia della colonna infame: «Spegnere il lume è un mezzo opportunissimo per non vedere la cosa che non piace, ma non per vedere quella che si desidera». Difatti, con questa sentenza la giustizia e il diritto sono stati dimenticati. La sentenza commette una serie di sviste e di travisamenti, ne cito sette:
1. Contiene troppi «forse» e troppi verbi al condizionale, si riferisce a congetture prive di riscontri.
2. Ritiene che l'arma del delitto sia un mestolo o un pentolino, nonostante risulti evidente dalle ferite sulla testa di Samuele che la parte terminale dell'arma avesse tre canali e angoli vivi e rettilinei.
3. Ipotizza senza riscontri oggettivi quale sia stato il movente dell'omicidio, il modus operandi, le circostanze che hanno prodotto il crimine, come e dove sia stata nascosta l'arma del delitto.
4. Ipotizza che la Franzoni dopo l'omicidio abbia immediatamente «rimosso», ma che, prima della «rimozione», abbia avuto la lucidità, l'organizzazione mentale e le capacità cognitive e previsionali di ideare e coordinare i vari depistaggi.
5. Ha dimenticato che la Franzoni alle 8.20 era alla fermata dell'autobus distante 330 metri dall'uscio di casa e che, quindi, con certezza assoluta, doveva essere uscita entro le 8.16 e non alle 8.18 come invece ritiene: è il classico errore di forzatura.
6. Individua la prima telefonata d'allarme alle ore 8.28 mentre la telefonata è iniziata alle 8.26 e 30 secondi: classico errore di spostamento del tassello.
7. Si basa sulla perizia del tedesco Herman Schmitter, costata a noi italiani almeno 50mila euro, una perizia che reputo inadeguata: quella perizia che ha sentenziato che l'assassino indossava il pigiama mentre uccideva il bambino mentre, secondo le mie analisi, l'assassino non lo indossava assolutamente.
L'illogicità fondamentale della sentenza, ma nascosta e invisibile, è il presupporre che se l'assassino non fosse la Franzoni dovrebbe essere un soggetto introdottosi con la premeditazione di uccidere il bambino e non, invece, come le scienze dell'investigazione criminale e l'analisi della scena del crimine fanno ritenere: un assassino che si è introdotto in camera da letto per fare un'offesa ai Lorenzi approfittando dell'uscita della Franzoni, che poi ha perso il controllo perché si è visto riconosciuto da Samuele che non si aspettava di trovare sul letto matrimoniale.
PARLIAMO DI ALESSANDRIA
L'ETERNIT A CASALE MONFERRATO: MALAPOLVERE E MALAGIUSTIZIA.
Inizio di una crisi ambientale: lo stabilimento ex Eternit, da risorsa a bomba ecologica, si legge sul sito web del Comune di Casale Monferrato. L'insediamento produttivo della ditta Eternit di Casale Monferrato si estendeva su di un'area di circa 94.000 mq di cui circa 50.000 erano coperti (con lastre di fibrocemento). L'attività produttiva ebbe inizio il 19/03/1907 e cessò completamente il 06/06/1986. Durante questo periodo le assunzioni furono circa 5000 con presenza simultanea anche di 3500 addetti. Verso la fine degli anni '70 incomincia a prendere credito la convinzione che l'attività lavorativa alla Ditta Eternit sia accompagnata da una drammatica sequenza di patologie professionali, e parallelamente cominciano le prime indagini mirate alla conferma epidemiologica di tale convinzione. Nel giugno del 1986 dopo lunghi anni di crisi la produzione si interrompe con l'allontanamento degli ultimi 350 lavoratori ancora occupati. La città di Casale perde definitivamente il ruolo di capitale del cemento-amianto per assumere quello di città a rischio dove la gestione delle aree che si presumono inquinate pone e porrà gravissimi problemi.
GLI EFFETTI SANITARI. I danni causati dall' amianto lavorato all'Eternit non si sono limitati ad interessare la popolazione esposta professionalmente, ma riguardano anche l'ambiente con i suoi abitanti. Infatti negli anni '70 si comincia a registrare nel reparto di Medicina dell' Ospedale di Casale Monferrato, un significativo incremento dei morti per mesotelioma anche in soggetti con anamnesi lavorativa negativa nei confronti di una esposizione professionale ad amianto. L'amianto è presente nell' ambiente casalese, e non certamente in quantità modeste, se è stato sufficiente a generare conseguenze rilevanti anche sulla salute dei soggetti non esposti professionalmente. Sino al 2008 sono stati rilevati oltre 1200 casi di mesotelioma pleurico: una vera e propria strage se si considera che la città di Casale Monferrato conta 37.000 abitanti e che tra i 47 Comuni del territorio, la maggioranza non raggiunge i 3.000......L'asbesto non è presente naturalmente nella conformazione geologica dell'area casalese (come invece accade nelle valli di Lanzo dove si trova la cava di Balangero): necessariamente quindi doveva essere stato immesso da fonti esterne, che nella fattispecie si configurano come l'attività lavorativa della ditta Eternit che ha comportato la diffusione dell' amianto in svariate forme su tutto il territorio, con epicentro nella città di Casale Monferrato.
LE POSSIBILI FONTI DI INQUINAMENTO. Fino agli anni '60 la lavorazione del cemento-amianto veniva effettuata in ambienti molto polverosi; spesso erano gli stessi operai a portare nelle loro case le fibre con le tute da lavoro. Altra possibile fonte di inquinamento era la fase di trasporto sia dell'amianto grezzo in arrivo allo stabilimento, che dei prodotti finiti ai magazzini generali, operazioni che venivano fatte con mezzi scoperti che attraversavano da un capo all' altro la città lungo un percorso sempre identico. Mentre queste due fonti di inquinamento con la chiusura degli impianti produttivi hanno cessato i loro effetti, altre fonti sono rimaste nel territorio per anni sino all'esecuzione delle bonifiche: Una fonte di inquinamento era determinata dagli scarichi liquidi della lavorazione e della pulitura delle macchine, che attraverso un canale raggiungevano le acque del fiume Po: per 80 anni il defluire delle acque inquinate da amianto e cemento ha creato un "delta", una vera e propria SPIAGGIA CONTAMINATA che si estendeva per 60/70 m lungo fiume, vicino allo Stabilimento Eternit. Altre forme di inquinamento più nascoste ma non meno importanti: l' utilizzo improprio delle polveri di tornitura dei tubi, prodotto di scarto della fabbricazione che veniva letteralmente distribuito ai cittadini e dagli stessi riutilizzato in forma sfusa quale stabilizzante per le pavimentazioni di cortili e strade o come coibente nei sottotetti. Nel casalese questo materiale ha assunto la denominazione popolare di "POLVERINO". Dal 2000 al 2008 sono stati accertati più di 100 indirizzi con presenza di "polverino" in sottotetti di abitazioni private, cortili e giardini ad uso residenziale ma anche luoghi pubblici: una piazza, i vialetti di un cimitero, il sagrato di una chiesa, il cortile di uffici pubblici e di un istituto scolastico superiore... l' elenco non è ancora finito, agli uffici comunali continuano a pervenire segnalazioni. Altra fonte di inquinamento è rappresentata dal riciclaggio dei FELTRI utilizzati nella produzione di tubi e lastre: grandi tappeti (dimensioni medie 2,00 x 6,00 m) venivano riutilizzati come teli di protezione per tettoie o per la copertura di attrezzi, nelle campagne del territorio. La larghissima diffusione dei prodotti tipici dello Stabilimento: LASTRE DI COPERTURA, con una presenza ben maggiore della media nazionale data la vicinanza con il luogo di produzione. Sull' area del distretto sanitario ex USL 76 composta da 48 Comuni con epicentro a Casale è stato censito 1 milione di metri quadrati di manti di copertura (rilevati non solo su fabbricati industriali o artigianali, ma su case, scuole, ospedali, biblioteche, caserme, mercati coperti, oratori, chiese......).
Eternit, la morte a orologeria a Casale Monferrato, scrive Maria Mantello su Micro Mega de “L’Espresso”. «Guardi, qua, sotto questo baffo... qua, vede che bel tubero violaceo? Sa come si chiama questo? Ah, un nome dolcissimo, più dolce d'una caramella: Epitelioma, si chiama. Pronunzii, sentirà che dolcezza: epitelioma... La morte capisce? È passata. M’ha ficcato questo fiore in bocca, e m’ha detto: – “tienitilo, caro: ripasserò tra otto o dieci mesi!”», fa dire Pirandello al protagonista del suo L’uomo dal fiore in bocca, che vive il dramma esistenziale di chi sa di avere la morte addosso. Gli abitanti di Casale Monferrato (ma non solo), dopo aver visto morire i lavoratori dell’amianto per asbestosi – il tumore ai polmoni che si rivela dopo circa 13 anni –, vivono adesso nel terrore di aver contratto in massa il mesotelioma, inalando i maledetti filamenti cristallini per contatto indiretto. Mesotelioma, un nome «più dolce d'una caramella»! Un cancro subdolo, perché ti accorgi di averlo portato conficcato nelle carni dopo un’incubazione di circa 30 anni. Una morte ad orologeria innescata dalla cinica sete di guadagno della dirigenza Eternit, che ben sapeva dell’inquinamento mortifero che seminava. Ma che adesso, per prescrizione, è stata assolta. A Casale proprio non ci stanno. Temono che spenti i riflettori sulla sentenza della Cassazione, che pur confermando le colpe di Stefan Schmidheiny (patron Eternit), tutto venga risucchiato nella tomba del silenzio. L’Eternit di Casale era lo stabilimento più grande d’Europa e i filamenti cristallini dell’amianto si sono incuneati indistruttibili nei polmoni, ma anche nelle cellule che rivestono le cavità sierose del corpo (pleura, peritoneo, pericardio, ecc.) provocando in questi casi il mesotelioma che si prende – ripetiamo – anche per contatto occasionale con quella maledetta “polvere d’amianto” che i lavoratori portavano a casa con le loro tute, o che più banalmente seminavano come polline nell’ambiente, quando ad esempio andavano a tagliarsi i capelli. Operazioni normali, gesti banali... ma la catena di montaggio della morte implacabile procedeva, meglio del cronometro della fabbrica. Negli anni Settanta era tutto già noto ai padroni dell’Eternit che non hanno fatto nulla per evitare questo. E il cui picco di mortalità si sta manifestando in questi anni e durerà fino al 2025 (cfr: Atti II Conferenza governativa sull’amianto, Venezia, 2012). A Casale vivono nell’ansia per ogni colpo di tosse, per ogni spasmo all’addome... Un’angoscia tremenda, per chi ha già visto morire di eternit tanti. Si sarebbero aspettati almeno Giustizia per tutto questo dolore, ma sono stati beffati. Il “disastro ambientale doloso” c’è, e anche il nome del responsabile, Stefan Schmidheiny, La Cassazione lo ha confermato. Ma lo ha assolto per prescrizione. Proprio quella che in appello nel 2013 non gli era stata riconosciuta, confermando così i risarcimenti alle vittime per 89 milioni di euro, e portando gli anni di galera dai 16 del primo grado a 18. Ci sono le centinaia di morti avvenute per amianto, c’è il dolo statuito, ma la spugna della prescrizione, riconosciuta nel terzo grado dalla Cassazione, salva il magnate dell’amianto. Una vergogna, che ha indignato tutti, tanto che più di un politico adesso dice di volersi impegnare a rivedere la legge sulla prescrizione. Non così per l’ineffabile Alfano, che forse inchiodato sulla lunghezza d’onda delle leggi ad personam e alla ricerca di consensi tra padroni e padroncini strumentalmente la difende, dichiarando in TV: «Credo che la sentenza Eternit abbia trasmesso un profondo senso di ingiustizia ma questo non deve travolgere i principi a garanzia delle singole persone: eliminare la prescrizione vuol dire ai giudici che possono scaricare l'inefficienza e la lentezza della giustizia tutta sul cittadino che può restare sotto processo per tutta la vita […] se dopo un certo, lungo lasso di tempo non riesce a dimostrare che sei colpevole non ti può lasciare appeso alla corda del processo per tutta la vita». A Casale, tra il dolore e la rabbia crescente, c’è chi ripensa a quando negli anni Settanta la dirigenza dell’Eternit occultava il cancro da amianto invitando gli operai a “fumare di meno!”. I sopravvissuti ricordano bene un volantino-comunicato del 1978: «Si è appurato che l’amianto può avere effetti cancerogeni, come il fumo di sigarette. Invitiamo dunque i nostri dipendenti a smettere di fumare». Sul nesso causale amianto-carcinoma già c’erano stati studi importanti tra il 1955 e il 1960. Ma è dagli anni Settanta che quella relazione causale mortifera non è più possibile ignorarla: i morti non si possono non vedere e neppure le diagnosi. C’è inoltre dal 1970 la conquista dello Statuto dei diritti dei lavoratori (legge 300/1970) che chiamava a pretendere nelle fabbriche il diritto costituzionale alla tutela della salute: «I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l'elaborazione e l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica» (art.9). Allora quell’avviso dell’Eternit (l’amianto porta il cancro, ma intanto non fumate) nella sua sublime ipocrisia, serviva a smorzare l’allerta sindacale, sollecitando un fatalismo analogico di questo tipo: “Io fumo, ma non è detto che mi prendo il cancro ai polmoni, quindi continuo a fumare. Può valere in fondo anche per l’amianto!”. E il gioco era fatto, visti i lunghissimi tempi di incubazione di quella lana di vetro che intanto moltissimi già si portavano conficcata in corpo senza saperlo. Qualche colpo di tosse? L’amianto? Ma va! fuma di meno! Solo nel 1992, la legge 257 vieterà l’impiego dell’amianto, imponendo anche la bonifica delle aree contaminate. Dopo anni di lotte e manifestazioni infinite, nel 2005 si arriva a far mettere i lucchetti all’Eternit di Casale Monferrato e a bonificare l’area che si estendeva fino ai comuni limitrofi per centinaia di milioni di mq. Nel 1907, anno della fondazione dell’Eternit italiana a Casale, lo stabilimento di metri quadrati ne occupava 94000. L’Eternit, che ha prosperato nel mondo col suo cemento-amianto dalle applicazioni multiformi, finanche nel design di poltrone e lampade supermoderne, chiudeva. Ma la morte che ha conficcato in corpo a tanti continua a “fiorire” con quel cancro dal nome “più dolce d'una caramella”: mesotelioma. Perché l’amianto e i suoi filamenti cristallini sono poco amici dell’ecologia non essendo biodegradabili. Per paradosso, proprio di ecologia sembrerebbe occuparsi lo svizzero sessantacinquenne Stefan Schmidheiny (imputato nel maxi processo Eternit insieme al novantaduenne barone belga Louis de Cartier de Marchienne, che però è deceduto qualche settimana prima della sentenza d’appello). Stefan Schmidheiny, patrimonio che sfiora i 2 miliardi di sterline britanniche, la passione per l’ecologia dice di averla scoperta fin da bambino: «Sono cresciuto in una fattoria con le vigne ... e le vacanze le facevamo nelle isole del Mediterraneo». Stefan Schmidheiny, erede per quarta generazione dei magnati dell’amianto, dell’Eternit si occupa dal 1976. Sua prima preoccupazione in quello stesso anno è chiamare a raccolta i dirigenti. È il convegno di Neuss nella Renania settentrionale. Una tre giorni dal 28 al 30 giugno 1976, dove viene anche stilato una sorta di prontuario di risposte da dare ai lavoratori sulla questione amianto. Eccone due significativi esempi: “Mettiamo il cartello pericoloso? No signori non è affatto necessario”. “L’amianto porta il tumore? Non è affatto vero!”. Chissà se sia un parto del magnate svizzero il volantino-comunicato aziendale del 1978: «Si è appurato che l’amianto può avere effetti cancerogeni, come il fumo di sigarette. Invitiamo dunque i nostri dipendenti a smettere di fumare»? Se non lo è, c’è da dire che le maestranze dirigenziali di Casale sono andate ben oltre la raccomandazione del padrone, reiterata con insistenza a Neuss: «bisogna convincere che l’amianto non è pericoloso in sé». Forse non tutti sanno che l’ecologista per passione Stefan Schmidheiny, nel 1982 ha acquistato in Cile da Pinochet centinaia di ettari di foreste. Come altre terre, anche queste erano proprietà delle tribù Mapuche, che per questo continuano a esigerne la restituzione. Pinochet – denunciano – gliele avrebbe sottratte con violenze e torture. I mapuches, l’unica etnia sopravvissuta anche agli stermini e alle conversioni forzate dei conquistadores, hanno sempre dato filo da torcere ai prepotenti. Hanno resistito e continuano a resistere! E ne vanno orgogliosi. Chissà se la passione per l’ecologia porterà Stephan Schmidheiny a rendere agli originari proprietari le terre di cui è diventato padrone grazie a Pinochet? O magari – complici le multinazionali della deforestazione con cui sembrerebbe intendersela bene – la farà franca anche in questa occasione. Magari per prescrizione?
La Corte di Cassazione, prima sezione penale, presieduta dal dott. Arturo Cortese, poco dopo le 21:00 di ieri sera 19 novembre 2014, ha assolto il magnate svizzero Stephan Ernest Schmidheiny dal reato di disastro ambientale: per prescrizione. Increduli, indignati, arrabbiati i parenti delle vittime che hanno urlato “vergogna, vergogna!” in direzione dei giudici, scrive da Gianni Avvantaggiato su “Ambiente&Ambienti. Nonostante la correttezza della sentenza di primo e di secondo grado e la mole delle prove poste a fondamento della condanna dell’imputato a 18 anni di reclusione – ha taciuto sulla pericolosità del minerale, che era ben nota -, secondo la Suprema Corte il reato c’è ma si è estinto per il decorso del tempo, nonostante l’amianto continui a colpire e uccidere centinaia di innocenti ogni anno. Il picco è previsto per il 2025. La sentenza ha effetto anche sui risarcimenti alle vittime, perché secondo il verdetto la prescrizione era maturata già prima della sentenza di primo grado. Nel corso della requisitoria, il sostituto procuratore generale Francesco Iacoviello ha sostenuto che l’imputato è certamente colpevole ma “va esattamente qualificata la sua condotta dal punto di vista giuridico”, perché proprio per via della lunghissima latenza del mesotelioma e delle altre patologie causate dall’assunzione delle fibre killer – dall’esposizione al manifestarsi della malattia possono trascorrere dai 25 ai 40 anni – “non può essere considerata sussistente la permanenza” e quindi il reato deve intendersi prescritto. Pertanto, secondo la Suprema Corte, quanto affermato dal sostituto procuratore generale sarebbe conforme al diritto. Tesi errata in fatto e in diritto, sostiene l’avvocato Ezio Bonanni, uno dei difensori di parte civile, che ha contestato la sentenza choc perché il fenomeno epidemico è ancora in corso. Tesi errata in fatto e in diritto, ha sostenuto in aula l’avvocato Ezio Bonanni, uno dei difensori di parte civile, che ha contestato la sentenza choc perché il fenomeno epidemico è ancora in corso e «giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, le vittime, compreso chi abitava e abita ancora nei dintorni dei cinque stabilimenti di Eternit Italia – oltre tremila tra Casale Monferrato (stabilimento principale), Cavagnolo, Rubiera, Bagnoli e Priolo Gargallo; questo dato non è estraneo al capo di imputazione, diversamente da quanto affermato dall’ufficio stampa della Corte di Cassazione -, continuano a morire e per il fatto che le bonifiche non sono state ancora ultimate», in contrasto con la tesi di Iacoviello. «La sentenza di assoluzione per prescrizione del reato di disastro ambientale non è condivisibile sia perché l’epidemia è in atto, sia perché l’amianto è ancora disperso nell’ambiente – ha chiarito Bonanni ai giudici, replicando alle conclusioni del Procuratore Generale che invece sono state accolte ma che secondo l’avvocato sono errate -. Attenderò le motivazioni della sentenza per valutare la possibilità di un ricorso alla Corte Europea per i diritti dell’uomo e, in ogni caso, in sede processuale tornerò a sostenere la richiesta di contestazione di diverse ipotesi di reato, in ordine a decessi che si sono verificati anche recentissimamente». L’ultimo, Luigi Bozzo, è deceduto la scorsa settimana. L’avvocato Bonanni, ha quindi annunciato che avvierà un’azione di risarcimento a carico dello Stato, per la lentezza del processo. I parenti delle vittime delusi. Ma sperano ancora di ottenere giustizia nel procedimento per omicidio. Iacoviello ha pure sostenuto che ci sarebbe stato un errore nella formulazione del capo di imputazione, per il fatto che non sarebbe stato ipotizzato il reato di omicidio. «Forse sarebbe stato meglio procedere da subito per omicidio – ha commentato Bonanni – . probabilmente non ci sarebbe stata prescrizione». Il pm di Torino Raffaele Guariniello – che ha condotto l’inchiesta che ha portato alla condanna in primo e secondo grado del milionario svizzero – ha replicato che aprirà il capitolo degli omicidi. «È un fatto gravissimo – ha commentato il direttore scientifico di Ambient&Ambienti Tommaso Farenga -. Serve una norma che stabilisca la permanenza del reato ambientale. L’azione non si interrompe con la condotta illegale, bensì con la rimozione del danno provocato all’ambiente. In questo modo si evita la prescrizione!»
Eternit, reato prescritto, scrivono e Ada Pagliarulo e Paolo Martini su “Reset” il 20 novembre 2014.
Il Corriere della Sera: “Nessuno pagherà per Eternit”. “Migliaia di morti per le polveri d’amianto. L’unico imputato era il miliardario svizzero Schmidheiny. Prescritta la condanna a 18 anni. Il grido dei familiari contro i giudici: ‘Vergogna’”.
La Repubblica: “Tremila morti, nessun colpevole”, “Eternit, la Cassazione annulla condanne e risarcimenti per l’amianto: ‘Reato prescritto’. Cancellato il pagamento di 90 milioni di euro. La rabbia delle famiglie: ‘Vergogna’”. “La giustizia in polvere” è il titolo del commento di Gad Lerner dedicato a questa vicenda. E Paolo Griseri racconta il caso: “Un dolore lungo 40 anni”. Con il richiamo ad un’intervista del quotidiano al pm Guariniello: “Chiedo ai parenti di non arrendersi”.
La Stampa: “Eternit, sentenza beffa”, “La Cassazione: reato prescritto fin dal primo grado. I parenti: vergogna”. “Diritto senza giustizia” è il titolo del commento di Michele Brambilla. E Vladimiro Zagrebelsky, in un altro editoriale su questo tema: “I dubbi sulla scelta dei giudici”.
Il Fatto: In taglio basso: “Eternit: 2154 morti, tutto prescritto. La Corte cancella pure i risarcimenti”, “La Cassazione annulla la condanna del magnate svizzero Schmidheiny”, “Lo sdegno dei parenti delle vittime dell’amianto. Le parti civili dovranno pagare le spese. Il pm Guariniello: ‘Già pronto il processo-bis per tutti gli omicidi fino ai casi più recenti, che nessuno potrà estinguere’”.
La Repubblica scrive che il maxiprocesso Eternit, frutto di 30 anni di ricostruzione dovuti al lavoro del procuratore di Torino Raffaele Guariniello, che riuscì a dimostrare come i vertici della multinazionale produttrice di amianto fossero del tutto consapevoli dei pericoli cui esponevano gli operai, è stato cancellato ieri con un colpo di spugna e con la complicità dell’oblio del tempo. La tesi del procuratore generale Francesco Iacoviello, fatta propria dalla Corte di Cassazione, è che da quel delitto sono passati troppi anni: visto che la Eternit chiuse nel 1986, le responsabilità dei suoi proprietari si fermano a quella data e dunque, dopo quasi trent’anni, il reato cade in prescrizione. In un’intervista allo stesso quotidiano, Guariniello dice: “Devo ovviamente poter leggere le motivazioni prima di esprimere un giudizio, ma non è detto che si tratti necessariamente di notizie negative”. Perché, chiede il cronista, visto che dieci anni di lavoro sono stati considerati inutili dalla Cassazione? “Non è così -risponde il pm- Se i giudici accoglieranno anche nel merito l’impostazione del procuratore generale Iacoviello, è possibile che questa sentenza abbia risvolti positivi sull’inchiesta per omicidio che è già partita la scorsa primavera”. Si riferisce all’inchiesta sugli oltre 200 decessi per mesotelioma dal 1976? “Sì, siamo pronti per andare avanti”.
Su La Stampa: Guariniello pronto a rilanciare con il processo bi per omicidio”, “Sconfitta la strategia della Procura, ma la battaglia prosegue”. Ricorda il quotidiano che l’inchiesta “Eternit-bis” si era conclusa a luglio con l’avviso di chiusura indagini per 213 morti per amianto: il reato su cui si è lavorato non è disastro, ma omicidio. E sarà omicidio volontario perché il “viatico” è in una frase che il Procuratore generale Iacoviello ha pronunciato nella sua requisitoria: “Per me l’imputato è responsabile di tutte le condotte a lui ascritte”, “di fronte al dilemma tra giustizia e diritto, il giudice deve scegliere il diritto”.
Il Fatto spiega che gli avvocati del manager svizzero Schmideiny (Franco Coppi e Astolfo D’Amato), che ha guidato l’azienda dal 1976 in poi, hanno definito il loro assistito “la vittima di un pregiudizio della magistratura italiana, che ha voluto nei processi di primo e secondo grado a tutti i costi individuare in lui il responsabile di una strage”. La colpa, sostengono i legali secondo il quotidiano, sarebbe invece di chi ha gestito l’azienda prima di lui. Il procuratore generale Iacoviello ha quindi sostenuto la tesi che Schmidheiny è sì responsabile, ma che i reati sono prescritti perché il reato di “disastro ambientale” è terminato con la chiusura degli stabilimenti Eternit nel 1986. Quindi la prescrizione sarebbe già scattata.
Su La Stampa segnaliamo la riflessione di Vladimiro Zagrebelsky sul ruolo attribuito nel nostro ordinamento alla Cassazione, nata per assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge”. Tuttavia il giurista sottolinea che “se non è possibile dire che le interpretazioni adottate dai primi giudici fossero ‘esatte’ e sia ‘sbagliata’ quella della Cassazione, è però lecito se non c’era davanti ai giudici una scelta, ragionata e seriamente argomentabile, che metteva d’accordo diritto e giustizia e un’altra che proclamava summum jus, summa injuria”.
Sul Corriere Marco Imarisio scrive: “La prescrizione decorrerà senza dubbio dal momento in cui Eternit chiuse, nel lontano 1976. Ma quelli che conoscono Casale Monferrato e le altre città colpite da questa morte bianca che non conosce prescrizione sanno che l’effetto sarà devastante, allontanerà intere comunità fatte di gente perbene e senza fortuna dalla giustizia”. Lo stesso quotidiano spiega che è crollato il “castello costruito dal pm di Torino Guariniello che però rassicura: ‘Il reato c’è. Non demordiamo. Ora apriremo il capitolo omicidi’. Mentre il magnate assolto dichiara: ‘L’Italia è l’unico Paese che vuole risolvere la catastrofe dell’amianto attraverso processi. Sarebbe meglio abbandonarlo”. Il Pg Francesco Iacoviello, che aveva chiesto l’assoluzione per prescrizione, aveva ammonito: “Per i reati come le morti per amianto, che ha una latenza di decenni, serve un intervento legislativo, perché a volte diritto e giustiza vanno da parti opposte”. “Parole che avevano suscitato l’applauso delle parti civili, convinte di ascoltare la conferma di condanna a 18 anni per Schmidheiny”.
Il Sole 24 Ore ricorda che in questi anni sono state almeno 1500 le persone che hanno accettato una transazione con Stephan Schmidheiny. Hanno rinunciato ad ogni ulteriore azione contro Eternit, e dunque compiuto una “scelta dolorosa”, scrive il quotidiano. La sentenza di ieri ha fatto decadere le richieste di indennizzo decise dai giudici di primo e secondo grado.
Leggo che, dopo la sentenza per il processo Eternit, il governo ha promesso di rivedere le norme sulla prescrizione. Magari sono io che non capisco ma leggendo pare che:
l'azienda ha aperto in Italia nel 1955;
la produzione di Eternit è cessata nel 1986;
il processo penale è iniziato nel 2009;
condanna in primo grado nel 2012;
prescrizione in appello nel 2014;
Cioè il processo è iniziato più di 20 anni dopo che l'azienda ha smesso di produrre eternit. Siamo già a quasi 30 anni di distanza da quando quella fabbrica ha smesso di usare amianto. Non so voi come la pensate, a me sembra che questo sia uno dei casi dove la prescrizione è sacrosanta. Non puoi iniziare un processo penale 20 anni dopo il presunto reato. Bravi i giudici a rispettare le norme invece di cedere al giustizialismo della piazza. Pessimo il governo che lancia questi proclami alla cazzo per sfruttare l'indignazione popolare.
Il PM per il caso ETERNIT ha chiaramente sbagliato capo di imputazione. Così facendo ha permesso che intervenisse la PRESCRIZIONE. Tutti hanno guardato il DITO (Prescrizione) e nessuno ha controllato la LUNA (l'incapacita e l'incompetenza del PM). Possibile che questi PM siano cosi Narcisi e PRESUNTUOSI da non conoscere le leggi?
Ed infatti. Non si placano le polemiche dopo la sentenza d’assoluzione sul caso Eternit, pronunciata il 20 novembre 2014 dalla Corte di Cassazione, che ha di fatto convalidato le tesi sostenute nella requisitoria del procuratore generale. In un comunicato la Suprema Corte ha voluto precisare che non erano “oggetto del giudizio i singoli episodi di morti e patologie sopravvenute, dei quali la Corte non si è occupata”, scrive Diretta News. Si legge nella nota, firmata dal consigliere Raffaele Botta, responsabile dell’ufficio stampa: “Con riferimento al processo Eternit, celebrato il 19 novembre 2014, la Corte di Cassazione precisa che oggetto del giudizio era esclusivamente l’esistenza o meno del disastro ambientale, la cui sussistenza è stata affermata dalla Corte, che ha dovuto, però, prendere atto dell’avvenuta prescrizione del reato essendosi l’evento consumato con la chiusura degli stabilimenti Eternit, avvenuta nel 1986, data dalla quale ha iniziato a decorrere il termine di prescrizione”. Sui social network, intanto, si sprecano i commenti alla sentenza da parte di esponenti della società civile, come lo scrittore Roberto Saviano, che commenta su Facebook: “In tempo di riforme costituzionali, per onestà, bisognerebbe chiarire una volta per tutte che l’Italia è una Repubblica fondata sull’istituto della prescrizione“. Stessi concetti rilanciati in rete e ripresi da centinaia di tweet. Nel frattempo, il procuratore Raffaele Guariniello, che ha portato avanti l’accusa nel processo, ha commentato: “Mai demordere, la delusione che si può avere non deve essere mai una resa: e io non mi arrendo”. Guariniello, insieme al collega Gianfranco Colace, ha infatti chiuso in mattinata la cosiddetta inchiesta bis sul caso Eternit, cambiando la tipologia di reato che è adesso quella di omicidio volontario continuato e pluriaggravato di 256 persone; l’indagato è sempre l’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, che avrebbe – si legge nelle nuove carte – cagionato “la morte di lavoratori operanti, familiari, cittadini residenti, dal giugno 1989 in poi. Condotta ed evento coincidono”. L’avvocato di parte civile, Sergio Bonetto, che rappresenta 400 familiari delle vittime, ha nel frattempo espresso il proprio giudizio sulla sentenza di ieri: “La sentenza della Cassazione non ha risolto alcun problema perché le persone continueranno a morire di amianto. Comunque, ci sono altri processi in corso e la Cassazione stessa ha in sostanza detto che il maxiprocesso doveva svolgersi con l’accusa di omicidio: dunque tenderei a non escludere che il procedimento aperto con questa imputazione possa avere un esito migliore”.
Non c’è giustizia, scrive Giuseppe Panissidi su Micro Mega de “L’Espresso”. Chissà, forse anche perché da un pezzo non scende più manna dal cielo, tranne che nella divertente metafora biblica sulla giustizia distributiva di Robert Nozick. Intanto, sulla terra, si fa quel che si può. Cioè, si impreca. Risuonano le parole e scorrono le penne dell’universo mediologico e giuridico, visibilmente trafelato, stavolta nei confronti della Suprema Corte di Cassazione. Resta, comunque, trepida l’attesa che qualcuno, congedandosi momentaneamente dal politichese, chiarisca a sé stesso, prima che al popolo sovrano quali ‘specifiche’ funzioni l’ordinamento costituzionale attribuisca a quel consesso della giurisdizione. Il giudice della legittimità è certamente organo di “giustizia”, ma solo perché, in via preliminare, è organo di “diritto”. Nello Stato, appunto, di diritto. Non di giustizia. La giustizia di cui parliamo, infatti, la giustizia che invochiamo, altro non è se non la corretta applicazione dei principi del diritto. L’’altra’ giustizia, se anche non meno importante, esibisce l’essenziale ‘sentimento del giusto’, che ci fa onore come esseri umani dotati di logos, ma non vale a guidare le pronunce della giurisdizione. Si consideri, in proposito, una qualsiasi res iudicanda. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi (per nulla surreale) di un giudice tenacemente convinto, sul piano logico-psicologico, della colpevolezza dell’imputato. Si immagini, ora, che quel giudice, per motivi di ‘giustizia sostanziale’, commini una condanna senza avere raggiunto la prova della responsabilità dell’imputato oltre ‘ogni ragionevole dubbio’. Diremmo che è stata fatta giustizia o, piuttosto, che è stato inflitto un vulnus terribile ai più basilari principi della civiltà giuridica e della persona, dunque alla Civiltà come tale? Dopo Beccaria, il convincimento è radicato: meglio un colpevole fuori, che un innocente in prigione. Hic Rhodus, hic salta. Grande il disordine sotto il cielo, ma la situazione non è eccellente. Invero, si sta consumando una perniciosa confusione tra principi, valori e concetti, tra giustizia ed equità, nobile principio di ascendenza formalmente aristotelica, ancorché presente nella cultura greca precedente. Aristotele ne formula la definizione concettuale: “L’equità è una forma di giustizia che trascende la norma scritta”, necessaria per risolvere comandi normativi collidenti. Una vera e propria “virtù”, la cui attuazione dipende dell’esistenza di una disposizione di carattere nell’individuo che deve realizzare l’azione. Nello stesso senso, tra gli altri, Chäim Perelman definisce l’equità come “una tendenza a non trattare in modo troppo disuguale degli esseri facenti parte di una stessa categoria essenziale”. Il valore dell’equità, pertanto, definisce comportamenti e decisioni eccedenti il “giusto legale”, ossia il quadro del diritto codificato. Se non ché, alla Suprema Corte, non soltanto non è consentita l’applicazione del principio di equità, ma bensì è imposta la scrupolosa applicazione del diritto codificato. Ché, anzi, essa, in quanto organo nomofilattico – lemma tecnico impronunciabile, ma di limpido significato: “protettore della norma di diritto” – “quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni”. Tale rigorosa configurazione, da ultimo, ribadita, nel D. Lgs. n. 40 del 2006, e largamente presente nel diritto pubblico internazionale, mira all’unità dell’ordinamento giuridico e alla salvaguardia della certezza del diritto, sebbene le frequenti oscillazioni nella giurisprudenza di legittimità, in contesti di complessità sociale, talora sembrino affievolire la detta funzione regolatrice della Corte. In ogni caso, la vexata quaestio del rapporto tra diritto e giustizia dev’essere perciò posta in termini seri, non (pericolosamente) emotivi e demagogici. E, soprattutto, senza pretendere dal giudice di ultima istanza la concessione di una giustizia eccedente i principi ordinamentali formali dello Stato di diritto. Sembra, invece, più opportuno e pertinente interrogarsi intorno alle ragioni logico-giuridiche della decisione in argomento. Si è osservato, in modo quasi corale, finanche autorevole, che gli effetti perversi delle condotte antigiuridiche dell’Eternit non sono cessati con la chiusura degli stabilimenti. Nessun dubbio può esservi sul punto, almeno per individui mentalmente sani. Né v’è ragione di credere che la Corte viva fuori dal pianeta. Quegli effetti perdurano con innegabile, drammatica stabilità. E tuttavia, in punto di diritto, ciò non è sufficiente. La configurazione del delitto di disastro ambientale come fattispecie ‘a carattere permanente’, infatti, esige – dottrina e giurisprudenza pacifiche e costanti – come suo indefettibile presupposto la volontà di protrarre nel tempo la violazione del comando giuridico. La chiusura degli stabilimenti esclude palesemente e in radice l’occorrenza della detta volontà, e attesta l’opposto, a nulla (purtroppo) rilevando la persistenza degli effetti nocivi. Un esempio può aiutare a comprendere meglio. Se, dopo un sequestro, una persona viene liberata, lo ‘specifico’ reato di sequestro cessa in quello stesso momento. Qualora, però, durante la prigionia, quella persona si sia, putacaso, ammalata in modo più o meno grave e stabile, oppure muoia a seguito e a causa dei patimenti subiti durante il sequestro, allora, ferma restando l’avvenuta consumazione/cessazione del reato di sequestro, si procederà in ordine alle ‘altre’ fattispecie legali, quali le lesioni o l’invalidità o il decesso. Non a caso, ora si sta procedendo in relazione agli omicidi-Eternit. Ora. Al riguardo, e non casualmente, con la sua naturale saggezza Giancarlo Caselli ha stigmatizzato la disciplina (pseudo-politica) della prescrizione, non già la pronuncia della Suprema Corte. Un saggio di… giustizialismo? Ripugnano, al contrario, le grida di un rottamatore che si vede costretto a cambiare mestiere, a ripristinare, ossia, un istituto della prescrizione che sia munito di (almeno) un minimo di decenza, dunque presentabile al mondo, in conformità agli ordinamenti giuridici democratici internazionali. Ciò che, tuttavia, appare sommamente ridicolo sono le condizioni in cui il novello restitutore dovrà operare, vale a dire gli alleati del suo scalcinato esecutivo e di improbabili riforme. Si tratta, infatti, dei medesimi soggetti responsabili degli innumerevoli stravolgimenti ad personam del vigente ordinamento penale, prescrizione in primis. Carnevale è davvero vicino. Anziché stracciarsi le vesti, nell’ormai abituale guisa farisaica, perché il nostro uomo-grandi-riforme non prova a vergognarsi e, magari, nascondersi faccia al muro in compagnia dei suoi soci, come amava suggerire il non dimenticato Fortebraccio?
Tutta colpa della prescrizione? Scrive “Il Foglio”. La sentenza Eternit riaccende il dibattito sulla giustizia, la lentezza dei processi, le responsabilità di politici e giudici e le riforme impossibili. «La prescrizione dei reati, che il codice di diritto penale prevede, è un’offesa al senso di giustizia o una garanzia per il cittadino di fronte alla pretesa punitiva dello Stato? Questa domanda è affiorata, evidente e drammatica, in occasione della sentenza della Cassazione che ha annullato la condanna a 18 anni di reclusione al magnate svizzero Schmidheiny per il disastro doloso ambientale causato dall’amianto nella produzione dell’Eternit» (Cesare Mirabelli, ex presidente della Corte Costituzionale). La vicenda in breve: mercoledì scorso la Cassazione ha annullato la sentenza della Corte d’appello di Torino del 3 giugno 2013 del processo Eternit: è stata, infatti, prescritta la condanna a 18 anni all’unico imputato, Stephan Schmidheiny, a capo dell’azienda e accusato di disastro ambientale per aver esposto i lavoratori all’amianto e alla conseguente morte per mesotelioma pleurico. La decisione è arrivata tra le proteste dei familiari di alcune delle oltre tremila vittime registrate nei quattro stabilimenti italiani e tra i cittadini di Casale Monferrato (Alessandria), Cavagnolo (Torino), Rubiera (Reggio Emilia) e Bagnoli (Napoli). Sfumano così i risarcimenti previsti dalla sentenza di appello per le 983 parti civili: familiari e comunità locali. Le morti per amianto, intanto continuano e dovrebbero avere il loro picco nel 2025. Donatella Stasio: «Suonano come una beffa le parole di Matteo Renzi a poche ore dalla sentenza: “Non ci può essere l’incubo della prescrizione. Bisogna cambiare le regole del gioco”. Parole sante, se non fossero pronunciate dal capo di un governo che da aprile annuncia la riforma della prescrizione, che l’ha approvata solo il 29 agosto, ma che ancora non ha fatto pervenire al Parlamento la sua proposta (pur continuando a parlarne come cosa già fatta), con il solo risultato di aver rallentato i lavori parlamentari in corso da maggio. Parlare di prescrizione, oggi, è “popolare” e il premier cavalca il sentimento popolare nel solco della peggiore tradizione politica». Nel processo Eternit la procura di Torino aveva contestato il delitto di disastro, reato che si realizza «quando viene cagionato un evento dirompente di vaste proporzioni che crea una situazione di pericolo per la vita o l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone». Carlo Federico Grosso: «Il problema è sorto quando ci si è domandati in quale momento il reato di disastro si consumi. Secondo l’interpretazione maggioritaria della cassazione, ciò si verificherebbe quando le condotte che cagionano la situazione di pericolo (ad esempio l’inquinamento di un ambiente) vengono a cessare (ad esempio, perché l’ambiente viene bonificato o l’attività produttiva nociva viene interrotta). Secondo un’interpretazione minoritaria, la persistenza dell’insorgere di malattie o del verificarsi di decessi impedirebbe invece di considerare concluso il fatto disastroso, che rimarrebbe vivo fino a che tutte le patologie o gli eventi collegati al disastro si siano esauriti. In questa prospettiva il delitto di disastro verrebbe meno soltanto quando si sia verificato l’ultimo decesso o l’ultima malattia collegata alla situazione di pericolo. La spiegazione tecnica di quanto è avvenuto nella vicenda Eternit risiede tutta in questa divergenza d’interpretazione». Maurizio Belpietro: «Naturalmente tutti, o quasi, se la sono presa con i giudici della Cassazione, i quali sono stati accusati di non aver avuto il coraggio di condannare un uomo ricco e potente. Ma qui non si tratta di aver coraggio. Anzi, semmai i magistrati della suprema corte di coraggio ne hanno dimostrato anche troppo, perché con l’assoluzione per prescrizione hanno sfidato l’opinione pubblica che voleva a tutti i costi una condanna, anche a prezzo di violare il codice. Perché il problema sta tutto lì, nella legge penale, che fissa i termini di prescrizione per il reato di disastro ambientale. Superati 12 anni dai fatti, il reato non è più perseguibile. E siccome l’azienda è chiusa dal 1986, cioè ha smesso di diffondere nell’aria le polveri che provocano il mesotelioma ai polmoni, per la giustizia il reato si è prescritto nel 1998, cioè molto prima che cominciasse il processo di primo grado e che la Procura di Torino decidesse di aprire il fascicolo contro Schmidheiny per disastro ambientale». Di parere opposto Marco Travaglio: «Diciamo subito che la Cassazione non era affatto obbligata dalla legge a dichiarare prescritto il reato di disastro colposo per il patron dell’Eternit Stephan Schmidheiny. La Corte poteva sposare l’interpretazione alternativa data dal Tribunale e dalla Corte d’appello di Torino, che con due sentenze molto ben motivate avevano spiegato come il disastro provocato dall’amianto, rimasto a lungo latente e poi esploso con effetti che semineranno malati e morti per tanti decenni ancora, non può cristallizzarsi – come invece ritiene la Cassazione – all’istante in cui le fibre del minerale-killer smisero di depositarsi sul terreno con la chiusura della fabbrica di Casale nel lontano 1986». Giovedì, sulla Stampa, Vladimiro Zagrebelsky ha ricordato una sentenza della Cassazione francese del 7 novembre, che, modificando l’interpretazione prevalente, ha stabilito un principio innovativo per evitare la prescrizione di un orrendo omicidio rimasto nascosto per anni, e cioè che i termini decorrono da quando il magistrato ne ha notizia. Zagrebelsky: «La Corte ha usato fino in fondo il suo potere interpretativo per dare una risposta di giustizia, nel rispetto del diritto. La legge francese prevede termini di prescrizione molto brevi (che decorrono da quando il reato è commesso) compensati, però, da un sistema di interruzioni molto elastico, per cui a ogni atto dell’autorità giudiziaria la prescrizione riparte da zero. Ciò nonostante, ci sono casi in cui il reato si scopre dopo talmente tanti anni che la giustizia ha le mani legate. Ebbene, secondo la Corte la prescrizione è sospesa allorquando un “ostacolo insormontabile” rende impossibile che il giudice proceda». Ma che cos’è la prescrizione? E come funziona? Giorgio Dell’Arti: «“Gli effetti giuridici del trascorrere del tempo”. Se dal reato è passato troppo tempo, c’è una convenienza sociale a metterci una pietra sopra. Oltre tutto, la pena, nel sistema italiano, ha anche un fine rieducativo, e quale reo avrà bisogno di essere rieducato a una distanza così lunga dalla sua colpa? Premesso che i casi e i sottocasi sono un’infinità, in genere la prescrizione scatta quando è trascorso un tempo pari al massimo della pena prevista per quel reato. Tra le complicazioni possibili c’è quella che è spesso poco chiaro il momento da cui si comincia a contare il tempo della prescrizione». Donatella Stasio: «Di riforma della prescrizione (i cui termini erano stati dimezzati nel 2005 con la legge ex Cirielli) si è ricominciato a parlare fin dall’uscita di scena di Silvio Berlusconi, con i governi Monti, Letta e Renzi. Parole. Inutili le sollecitazioni di Europa e Ocse, scomodate per cambiare il reato di concussione, sebbene fosse l’ultima delle preoccupazioni nella lotta alla corruzione, ma pervicacemente ignorate sulla prescrizione. Ignorati anche i vertici della Cassazione (Ernesto Lupo e Giorgio Santacroce) e la loro richiesta ai governi di turno di farsi carico della specificità di alcuni reati che spesso vengono scoperti soltanto dopo anni da quando sono stati commessi, sicché buona parte della prescrizione si è già consumata. È il caso dei reati contro la pubblica amministrazione ma anche di altri, compreso il “disastro ambientale” contestato nel processo Eternit». Gli attacchi alle modifiche introdotte da Berlusconi nel 2005 non sono troppo convincenti: le prescrizioni nel 1996 furono 56.486 e nel 2003, quando la legge Cirielli non era ancora stata approvata, furono il quadruplo, cioè 206 mila. Ricorda Liana Milella che il ddl sulla riforma della giustizia stagna nei cassetti di Palazzo Chigi da 90 giorni: «Il ministro Orlando decide ora di stralciare, dal corposo ddl che riscrive pezzi importanti della procedura penale, l’articolo 3 sulla prescrizione. Va in tv e annuncia che “la prossima settimana la prescrizione andrà in Parlamento”. Promette addirittura «una rapida approvazione». Quando? Al ministero si azzarda una previsione, quattro mesi, ma pare il libro dei sogni. Di tempo ce ne vorrà molto di più, come dimostra l’avventura dell’autoriciclaggio». Travaglio: «Come spiega Piercamillo Davigo sull’ultimo Micromega, la prescrizione non è l’effetto dei processi lunghi: ne è la causa principale, perché incoraggia i ricorsi dilatori e le perdite di tempo degli imputati ricchi e dei loro avvocati specialisti in criminalità & impunità. Il timidissimo ddl Orlando, ove mai fosse approvato, non cambierebbe una virgola dello sconcio, che dipende da due fattori nemmeno sfiorati dal ministro della Giustizia: in Italia la prescrizione parte quando il delitto viene commesso, non quando viene scoperto; e – caso unico al mondo – non si ferma mai, nemmeno dopo due condanne di merito alla vigilia del giudizio di legittimità in Cassazione, e neppure quando uno patteggia la pena (e poi fa ricorso contro la sanzione da lui stesso concordata)». «Ecco la bugia, ecco la speculazione, ecco il miglior modo di non vedere il problema: non la prescrizione, ma la durata dei processi. Tutti quelli che diranno e scriveranno che l’Italia è l’unico Paese dove si applica mentiranno. C’era già nell’antica Grecia, c’è in Francia, c’è in Germania, c’è in Spagna. Tempi e modi diversi, ma c’è. La prescrizione non c’è in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, dove però vige una prassi che fa impallidire i nostri tribunali: la durata dei processi è in media di due anni. In Italia è di otto» (Giuseppe De Bellis). Ma non è stata la lentezza della giustizia a portare a questa sentenza sul caso Eternit, sottolinea Luigi Ferrarella: «Di fronte a 3.000 morti, ogni parola rischia di suonare oscena. Ma osceno è anche illudere la gente che la prescrizione sia dipesa dalla lentezza della giustizia (tre gradi di giudizio in appena quattro anni?) o dai guasti della, per molto altro nefanda, legge ex Cirielli, anziché dal messianico continuo chiedere solo al processo penale ciò che fatica a dare: l’applicazione delle classiche categorie di responsabilità nate negli anni ’30, e dell’asticella probatoria più alta che nel civile (“l’oltre ogni ragionevole dubbio”), a eventi epidemiologici lesivi di un indeterminato numero di persone e svelati dalla scienza decenni dopo». Carlo Federico Grosso: «Ben venga comunque, ora, l’indignazione (tardiva) dei politici per gli effetti dirompenti della prescrizione (come è stata delineata qualche anno fa dalla c.d. riforma ex Cirielli) sul sistema di giustizia italiano. Purché ovviamente non si finisca per cadere nell’eccesso opposto: eliminare cioè pressoché del tutto, o ridurre in modo spropositato, gli effetti estintivi del decorso del tempo. La ratio della prescrizione – e cioè non punire il delinquente che, a distanza di anni dalla commissione del reato, magari si è redento o si è rifatto una vita – mantiene infatti, intatta, la sua efficacia persuasiva».
Lasciate stare la prescrizione, scrive “Il Foglio”. La rabbia del Monferrato è legittima, ma guai a sbagliare bersaglio. La rabbia delle vittime della strage di Casale Monferrato cui una sentenza di prescrizione ha negato, oltre tutto, anche i risarcimenti dovuti è comprensibile e pienamente giustificata. Invece lo è assai meno la schizofrenia dei commentatori (a parte un magistrale Cesare Mirabelli sul Messaggero) che oggi imprecano contro l’istituto stesso della prescrizione definita come una tomba della giustizia, mentre contemporaneamente sostengono, più fondatamente, che una giustizia troppo ritardata è una giustizia negata. La prescrizione è una garanzia contro le persecuzioni giudiziarie di durata illimitata, impone alla magistratura inquirente un limite ragionevole, connesso alla dimensione della pena prevista per il reato contestato. Se Raffaele Guariniello ha sbagliato scegliendo di perseguire il responsabile dell’avvelenamento da amianto per un reato a rischio prescrizione, magari per affermare una giurisprudenza ambientale creativa, una parte non piccola della responsabilità del fallimento dell’azione giudiziaria è sua, non di una norma giusta che fornisce garanzie indispensabili. L’insigne giurista che sorprende per equilibrio e radicalità Se c’è invece da correggere qualcosa, forse, è il sistema italiano che fa dipendere i risarcimenti essenzialmente dalla condanna penale, mentre in altri ordinamenti, come quello americano, i due procedimenti, quello civile e quello penale, possono svolgersi parallelamente. Nel caso che ha suscitato tanta giusta indignazione, il fatto più grave è che non venga almeno economicamente risarcito il danno subìto, indiscutibile, mentre la responsabilità dell’imputato, che richiede la prova della sua consapevolezza del carattere letale della lavorazione dell’amianto, deve essere dimostrata, come sempre, “oltre ogni ragionevole dubbio” e anche in tempi ragionevoli, com’è tuttora giusto che sia.
Malapolvere e malagiustizia,
l’offesa ai morti del Monferrato, scrive
Gad Lerner. Questo articolo è uscito su “La Repubblica”. La
malapolvere che lacera i polmoni ieri, nel palazzo della Cassazione, ha inferto
una ferita sanguinante all’intera giustizia italiana. Mi sento stupido a
scrivere di amianto, stasera. Perché tre anni fa c’ero anch’io, monferrino
d’adozione, a confidare nel diritto e quindi a implorare l’allora sindaco di
Casale Monferrato affinché rifiutasse i 18,3 milioni di euro che l’imputato
miliardario Stephan Schmidheiny gli offriva come transazione purché rinunciasse
a costituirsi parte civile nel processo Eternit, al fianco di tremila famiglie.
Ci sembrava una mancia offensiva, quella somma, meno della liquidazione di un
manager, quota infinitesimale dei profitti miliardari accumulati quando già si
sapeva che lo stabilimento intorno a sé spargeva una malapolvere mortale.
Avremmo fatto meglio a incassarli –sporchi, maledetti e subito- quei soldi, da
un signore svizzero resosi irraggiungibile, dotato di ottimi avvocati e potere
extraterritoriale abbastanza per rendersi indisponibile anche solo a un
interrogatorio? Davvero tocca rassegnarsi alla giustizia del più forte? Il fatto
è che a Casale e nelle verdi colline del Monferrato ne abbiamo visti morire
troppi di mesotelioma pleurico, rapiti da una malattia che sopraggiunge
improvvisamente colpendo a casaccio fra coloro che anni prima avevano respirato
quelle fibre cancerogene, sparse dovunque, a riempire i sottotetti o a
imbiancare l’aia della cascina. La strage è fatta di nomi e di volti familiari,
non c’è abitante di Casale Monferrato che non ne custodisca almeno uno a cui
rispondere. Bisognava incassare la mancia e rassegnarsi? Cosa avrebbero detto
del “patto col diavolo”, della transazione Schmidheiny, il mio collega Marco,
direttore del giornale locale; o il mio formidabile amico Renzo, vignaiolo,
alpino e maestro nella caccia al cinghiale? Come avremmo potuto guardare ancora
in faccia Romana Blasotti Pavesi che ha perso un marito, una sorella, una figlia
e due nipoti? Potrei continuare con migliaia di nomi…La dignità esemplare con
cui i familiari delle vittime hanno costruito un’associazione rispettosa del
diritto, fiduciosa nella giustizia, capace di assumere il ruolo di capofila
internazionale nella campagna per la messa fuorilegge dell’amianto, ieri ha
subito un’offesa che ci fa sentire, come minimo, ingenui. Umiliati. Possibile
che si sia svegliato all’ultimo minuto prima della sentenza decisiva il
procuratore generale della Cassazione, Francesco Iacoviello, nel sostenere in
punta di diritto che un disastro ambientale non si consumerebbe a lungo nel
tempo? Davvero può fermarsi al 1986 la colpa dell’imprenditore beneficiato di
ignominiosa prescrizione, quando la scia di morte ha trascinato via con sé
migliaia di vittime nei ventotto anni successivi, e ancora non si arresta? Non
suona forse macabro addebitare alle pubbliche istituzioni la responsabilità
successiva, riguardante il divieto all’uso dei materiali velenosi e la mancata
bonifica, scagionando chi per convenienza economica, pur sapendo, non fermò
subito la produzione?
Schmidheiny ha assoldato società di pubbliche relazioni per presentarsi come
ambientalista coscienzioso, vittima di una giustizia italiana prevenuta. Intanto
sfuggiva a ogni confronto con il territorio violentato dalla sua azienda.
Sarebbe stato lecito aspettarsi come minimo da parte sua un cospicuo
finanziamento alla ricerca medico-scientifica che tuttora annaspa, povera di
fondi, nel tentativo di trovare una cura per il mesotelioma. Invece ha tentato
solo il trucco meschino, lo scambio utilitaristico giocato a ridosso della prima
sentenza di Torino, quando ha intuito la mala parata: una manciata di soldi in
cambio dell’immunità. Cavarsela a buon mercato, di fronte a magistrati che i
suoi depistaggi non erano riusciti a fermare. Ci ha pensato la Cassazione,
infine. I calcoli di Schmidheiny sulla malagiustizia italiana erano ben riposti,
purtroppo. La legge del più forte ha prevalso sulla sofferenza di una comunità
civile che per anni ha continuato a inalare le fibre cancerogene della sua
Eternit. Nelle alte sfere multinazionali, quelle particelle affilate che
lacerano i polmoni non arrivano mai. Il disastro per lui si è fermato al 1986,
prescritto. Quel che è successo dopo, sono affari del Monferrato. Fesso chi ha
creduto, in Italia e nel mondo, che il Codice penale non potesse ignorare gli
effetti ritardati dell’amianto.
"Non parlate del rischio tumori". Il manuale per i dirigenti Eternit benedetto da Schmidheiny. Il vademecum redatto dopo il convegno del ’76 sui pericoli dell’esposizione alle polveri, scrivono Ottavia Giustetti e Fabio Tonacci per la Repubblica. La coscienza sporca di Stephan Schmdheiny sta in 29 pagine. Quelle del manuale “Hauls 76”, scritto dopo il famoso convegno di Neuss in Germania organizzato dalla Eternit spa nel giugno del 1976. Suggeriva, o meglio, imponeva ai dirigenti delle fabbriche cosa dire e cosa non dire a giornalisti, sindacalisti e operai. Qualcuno sospettava che le micro fibre di diametro inferiore a 0,3 micron provocassero il mesotelioma? «Rispondere che per il crisotilo (il minerale dell’amianto, ndr) non sono mai state trovate inferiori a 0,5 micron ». Qualcuno voleva mettere sui sacchi il segnale di pericolo? «Rispondere che per il momento non è necessario». Qualcuno parlava del dottor Selikoff che aveva scoperto il legame tra amianto e tumori? «Dissociarsi in ogni discussione, evitare di citarlo». È soprattutto su questo che poggia la nuova accusa nei confronti di Schmidheiny di aver volontariamente ucciso 256 persone, esposte alla polvere cancerogena nei dieci anni in cui la procura di Torino lo ritiene «effettivo responsabile della gestione della società». Non ci fu colpa, sostengono i pm Guariniello e Colace. Ci fu dolo. Il convegno di Neuss del 1976 fu uno dei primi atti dell’imprenditore svizzero, neanche trentenne e già a capo del gruppo. L’argomento erano i rischi sulla salute del prodotto che la sua Eternit vendeva in tutto il mondo. In tre giorni di dibattiti fu chiaro che l’estrema pericolosità della polvere di amianto era una verità sotto gli occhi di tutti. Si trattava dunque di annacquarla. L’intervento di Schmidheiny è agli atti dell’inchiesta: «Dobbiamo renderci conto di una cosa, possiamo convivere con questo problema. Riconosciamo che può essere potenzialmente un materiale pericoloso se non viene maneggiato in maniera corretta». A parlare è lo stesso uomo che oggi, dopo che la prescrizione gli ha evitato 18 anni di carcere, sostiene di essere un ambientalista vittima di un complotto della procura di Torino. Quarant’anni fa la sua azienda inventava il manuale “Hauls” per i dirigenti e lui se ne compiaceva con l’ad italiano Luigi Giannitrapani: «Sono contento di constatare che porti frutti». Cosa contenesse quel libercolo si capisce dal resoconto che Ermanno Martini, ex capo dell’ufficio ecologico dell’Amiantifera di Balangero, scrive dopo aver partecipato a un corso di aggiornamento a Neuss nel 1976. «Sono pervenute dalla direzione generale istruzioni dettagliate su come far fronte al rifiuto dei dipendenti di accedere a un punto di lavoro ritenuto nocivo, o all’arrivo di giornalisti, avvocati, enti pubblici». Tra queste, anche il suggerimento di riferirsi, in materia di concentrazione aerea delle fibre, «alla legislazione tedesca o americana, che è meno restrittiva», o di disconoscere Selikoff. Quando però si doveva trattare con chi l’Eternit lo comprava e pagava, era un’altra storia. Bisognava inviare «una lettera riservata a tutti gli acquirenti», per spiegare che «l’inalazione può essere pericolosa se in forti quantità. Lo scopo oltre che di informazione è di dissociazione preventiva delle responsabilità del produttore». Il prossimo, di processi, quello che potrebbe vedere l’imprenditore imputato di omicidio rischia tra l’altro di non aprirsi nemmeno. I suoi avvocati si appellano al principio giuridico del “ne bis in idem”, per cui non si può essere giudicati due volte per lo stesso fatto. «Ci sono quattro sentenze — spiega il legale Astolfo Di Amato — due della Corte di Strasburgo e due della Corte di giustizia dell’Unione Europea che ci danno ragione».
L’intervista. Giampaolo Pansa: “L’Eternit non distruggerà Casale Monferrato”. Pubblicato il 27 novembre 2014 da Mario Bocchio su “Barbadillo”. “Non voglio parlare: non è mia abitudine commentare le sentenze e poi non sono in grado di esprimere un giudizio tecnico. Certo, potrei sempre richiamarmi al detto latino: il massimo del diritto a volte crea il massimo dell’ingiustizia”. Ad affermarlo è il noto giornalista, saggista e scrittore italiano Giampaolo Pansa, nato proprio a Casale Monferrato, città diventata un simbolo in tutto il mondo della tragedia chiamata polverino d’amianto. “Forse chi aveva cominciato questa indagine potrebbe non aver valutato sino in fondo il nodo prescrizione. In ogni caso immagino lo choc di chi vive lì, i seri problemi che ancora ci sono. Stiamo parlando della più grande tragedia ambientale dell’Italia: sono cambiati i regimi, sono passati i partiti di tutti i generi, ma l’amianto è sempre rimasto lì”, ha aggiunto. Pansa ha vissuto fino ai 24 anni proprio a Casale Monferrato, dove si trova una delle due filiali per la quale Eternit era stata condannata.
Cosa è stata l’Eternit per Casale Monferrato?
“Eternit è una società fondata a Casale Monferrato nel 1906, quindi stiamo parlando di più di un secolo fa. È un’azienda storica, e Casale all’epoca era chiamata la capitale del cemento, proprio per il numero dei cementifici. Come ho spiegato nel mio libro, ‘Poco o niente’, attorno a Casale c’erano dei terreni ricchi di marna, che allora era l’ingrediente principale per fare il cemento. Quando arrivò l’Eternit, diede lavoro a migliaia di casalesi e anche agli abitanti dei paesi intorno. Andare a lavorare all’Eternit era una garanzia. Oggi si parla tanto di precariato e disoccupazione, ma all’epoca l’Eternit era una società in grandissima espansione. Infatti ancora oggi l’amianto lo troviamo dappertutto: si può girare l’Italia, andare in un piccolo paese e scoprire le lastre di Eternit che sono ancora lì, e quindi fanno ancora i loro danni. All’epoca però era un volano economico fortissimo per l’intera Casale Monferrato. Lavorare all’Eternit era una garanzia per la vita, poi naturalmente si è scoperto che questa garanzia veniva pagata con la morte”.
Come si è reso conto dell’inferno dell’amianto?
“Perché Casale è una città che vive di continuo davanti a questa roulette russa. In tutti questi anni, è morto di mesotelioma pleurico sia chi ha lavorato all’Eternit sia chi non ci ha mai lavorato. Sono morte anche persone che avevano vissuto in città o nei paesi vicini fino ai 20-25 anni, e poi erano sempre vissute all’estero o altrove. Quando parlo quindi di roulette russa penso anche a me stesso. Io sono nato a Casale nel 1935, ci ho abitato fino al 1959, finora non mi sono ammalato ma spero che non mi succeda in futuro. Lì vicino all’Eternit ho giocato, ho fatto l’amore, ho respirato un’aria che ad alcuni aveva già devastato i polmoni facendoli morire soffocati. Il pensiero terribile è che gli effetti di questa peste non li prescrive nessun codice penale, fanno ancora parte della vita di Casale, porteranno altre morti ancora. Ho visto morire dei miei compagni di scuola, che non avevano mai fatto gli operai ma erano professionisti o industriali di altri settori. Tra le mie letture irrinunciabili c’è il bisettimanale cittadino, ‘Il Monferrato’: su ogni numero c’è una storia di una persona che ha combattuto e perso contro quel cancro, il mesotelioma pleurico. Qualche tempo fa il direttore del giornale, Marco Giorcelli, ha pubblicato la drammatica Spoon River di tutti i morti. Non poteva sapere che mancava un nome: il suo. Ci ha lasciato a poco più di cinquant’anni. È terribile. Con il passare dell’età, le radici topografiche, sentimentali, ti assalgono e ti riportano indietro nella memoria. E forse io lì trovo qualche consolazione”.
Perché?
“Perché Casale non l’ha distrutta la guerra e non la distruggerà il mesotelioma. Lo stato d’animo della gente è oggi certamente al minimo, ma la città ha tutte le risorse per reagire, per risollevarsi, e lo farà. Mia madre mi avrebbe detto: caro Giampa, chi è morto giace, chi è vivo si dà pace. Capisco questa disperazione, so che passerà. La Procura di Torino ha chiuso l’inchiesta bis per 256 casi di morte per cui è contestato l’omicidio volontario. Forse si poteva procedere da subito così, ma stiamo a vedere cosa succede”.
Purtroppo tutta Italia fa i conti con scandali e storie drammatiche legate all’amianto, da Nord a Sud, dall’Italcantieri di Monfalcone all’Isochimica di Avellino.
“Questo è il dramma nel dramma: la bonifica del materiale uscito dalla fabbrica è quasi impossibile, quella roba sta dappertutto e impianti così erano in molte zone. Io da anni vivo in Toscana, in campagna, e quando sono in giro vedo piccole costruzioni, magari un piccolo pollaio, dove è stato messo ed è rimasto l’amianto ondulato per recintare lo spazio. Sta lì, in un ambiente apparentemente immacolato, ed è la morte. Questa è la situazione”.
ALESSANDRIA E LA MASSONERIA.
C’è un tesoro massone nascosto in città, scrive Giordano Panaro su “La Pulce”. Dan Brown ci potrebbe scrivere il seguito di “Angeli e Demoni”, con tanto di tesoro nascosto, momenti d’azione, intrecci storici e riferimenti simbolici, al fine di ritrovare i quadri e le statue sepolte nel centro della città. A far da sfondo all’ipotetico romanzo storico è l’intreccio massonico tra la fine dell’800 e la seconda guerra mondiale. Narra la leggenda che il maestro massone Leonardo Bistolfi – scultore casalese di fama internazionale, diventato celebre per i suoi Angeli portatori di morte e gloria – regalò una statua ai Fratelli alessandrini che la nascosero in un luogo segreto per evitare che gli squadristi fascisti la distruggessero. Con il marmo, finirono nel nascondiglio segreto anche quadri, documenti della Loggia devastata e altri oggetti di valore. Un vero e proprio tesoro sommerso che, ancora oggi, verrebbe custodito dai Liberi Muratori, in un luogo legato alla loro tradizione ed accessibile solo a chi sa riconoscere e decifrare i simboli in giro per il centro di Alessandria. “La Massoneria è un Ordine iniziatico che fa gran uso della simbologia e dei riti classici”, ci conferma il Compagno d’Arte (secondo grado nella gerarchia degli iniziati) di una Loggia massonica del Grande Oriente d’Italia, la più grande istituzione massonica italiana. E quindi è probabile che in una città dal passato (e dal presente) massonico siano molto presenti riferimenti alla costruzione del Tempio, con squadre, compassi e cazzuole varie. La Massoneria ad Alessandria fa la sua comparsa ufficiale già nel XVIII secolo quando si costituì la Massoneria dell’Ancora, un gruppo di “persone nobili o di qualche merito particolare, inclinate a sollazzarsi in maniera diversa dal volgo”. La testimonianza è di Antonio Muratori, confermata dall’avvocato Antonio Grassi, presidente del Centro Studi “M. Pannunzio”, che nel maggio 2010 fu relatore proprio al convegno sulla relazione tra Alessandria e la Massoneria, in Cittadella. Le prime Logge di Liberi Pensatori in Provincia furono organizzate da militari savoiardi: la nascita ad Alessandria della “Constante Amitié” è datata 1765; la “Candeur” di Casale Monferrato nacque nel 1790 anche ad Acqui Terme, Valenza e Tortona. Sotto Napoleone, il governo della città era costituito da massoni dichiarati (che obbedivano al Grand Orient de France) e i Muratori potevano riunirsi in due templi, probabilmente presenti in centro città. Esisteva anche un hotel per “fratelli in viaggio”, forse nella zona odierna tra via Milano, via Vochieri (massone anche lui) e via Migliara. Oggi come un tempo: in base ad alcuni elenchi massonici non ufficiali, risulta nel governo attuale cittadino un fratello con squadra e compasso. Di templi sparsi per la città ce ne dovrebbero essere almeno tre, una per ogni sede delle Logge del GOI: la Santorre di Santarosa, tra le più antiche in Italia, la “Pitagora” e la “Marengo”. Dove? Probabilmente in centro – tra corso Roma e via Trotti – e nella zona di piazza D’Annunzio, dove inizia via Cesare Lombroso, noto medico e criminologo massone torinese, marito dell’alessandrina Nina De Benedetti. Nel 1925 la massoneria venne dichiarata fuorilegge dal Fascismo e le sedi distrutte dalle camicie nere. Le Logge sicuramente attive in quel periodo erano la “Verità e Fede” e la “Andrea Vochieri”, poi fusesi insieme. Ma quella moderna ed “attiva” è quasi sicuramente in Piazza Divina Provvidenza. Anche il numero civico scelto non è casuale…Il Grande Oriente Sardo, nel periodo risorgimentale, fu ben presente nella laica e militaresca Alessandria, con membri importanti nella polizia locale, tra i notabili e i governanti e addirittura all’interno del clero: “Don Raffaele Piacenza, parroco della chiesa Santa Maria del Carmine – prosegue Grassi – era un libero muratore e non negò un funerale massonico ad un ufficiale della Loggia alessandrina ‘Amici di Napoleone il Grande’”. La cerimonia fu celebrata il 21 aprile 1806, in una chiesa addobbata secondo la simbologia dell’ordine dei liberi pensatori. Tra attivi e “dormienti” sono centinaia i massoni alessandrini “contemporanei”, dispersi nelle Logge del GOI o in altre istituzioni iniziatiche “non riconosciute” (dove per esempio vengono ammesse le donne o professano chiaramente il primato illuminista della ragione sulla fede). Si riuniscono solitamente ogni due settimane, il mercoledì sera. Vestono giacca e cravatta ed hanno tutti una borsa tipo portadocumenti: “E’ dove custodiscono i paramenti e il grembiule di Loggia che devono indossare durante le riunioni”, ci dice il Compagno d’Arte. Quali siano i temi delle discussioni e cosa succeda quando si chiudono le porte del tempio, resta un segreto. “I primi discutevano di filosofia e cultura”, ipotizza Grassi, “parlare di uguaglianza e fratellanza era all’epoca rivoluzionario”. “Lavoriamo per elevare noi stessi e gli altri, l’Uomo insomma, e per migliorarlo”, conferma criptico il “graduato” massonico, che ci racconta come è entrato a farne parte. “Li avevo contattati per conoscere meglio l’Ordine e per cercare spiegazioni filosofiche a certe mie domande. Mi risposero dopo qualche mese, chiedendo un incontro per capire il mio reale interesse e le mie intenzioni. Ovviamente chiesero informazioni sulla vita privata e lavorativa. Incontrai successivamente i Tegolatori (tre persone scelte per la valutazione del “bussante”, chi chiede di entrare), prima dell’iniziazione vera e propria”. Che avvenne secondo un rito ancestrale. Preso da un uomo incappucciato, bendato a sua volta, ha ricevuto l’iniziazione che simboleggia la rinascita ad uomo nuovo. La cerimonia è segreta, ma si sa che il bussante deve sottoporsi ad alcune prove e momenti di meditazione che simboleggiano i quattro elementi (terra, aria, acqua, fuoco) e la purificazione che tende ad uno stato superiore. Una volta sbendato, vede i “fratelli” e gli vengono insegnati segni e toccamenti in base alla gerarchia (movimenti di saluto e di riconoscimento con le mani, il pollice e il braccio) e la parola sacra (solitamente in ebraico).
ALESSANDRIA MAFIOSA.
La Liguria è 'ndranghetista"... ma anche l'alessandrino non scherza..., scrive “La Casa della Legalità”. L'alessandrino si potrebbe dire rappresenta geograficamente l'epicentro del regno della cosca GULLACE-RASO-ALBANESE, che nel nord-ovest del Paese ha come indiscusso referente il boss Carmelo "Nino" GULLACE (a cui piace tanto querelarci). Sì, nonostante l'indagine MAGLIO, con le Operazioni "ALBA CHIARA" (o MAGLIO 1) e "MAGLIO 3", e la maxi operazione "MINOTAURO", il potere dei GULLACE-RASO-ALBANESE, legati e imparentati ai PIROMALLI, è ancora forte, retto dalle alture savonesi di Toirano...Il 10 febbraio siamo stati, con il MoVimento 5 Stelle di Alessandria e Novi Ligure e Davide Bono, consigliere regionale in Piemonte, ad Alessandria per rimpere quella cappa omertosa che ancora vorrebbe negare o, quantomeno, minimizzare la presenza mafiosa nel basso Piemonte. Nonostante il freddo e la neve, che era tornata a cadere, la sala si è riempita. Eravamo al buio per un guasto nella sala comunale, ma le cose le abbiamo dette, compresi i nomi ed i fatti, ad alta voce...Abbiamo ricordato prima di tutto che lì, storicamente, si era già ben insediata Cosa Nostra, con la rete dei gelesi legati agli EMMANUELLO ed ai MADONIA. Proprio a Bosco Marengo vi era una cascina del boss Rosario CACI adibita all'ospitalità di latitanti ed a nascondiglio di armi, come accertato dalla DIA e sancito in una sentenza definitiva (anno 2005) che ha portato alla confisca dei beni tra alessandrino e Genova del CACI. Abbiamo ricordato che quando una cosca mafiosa sceglie un luogo per dare rifugio e supporto ai latitanti, significa che quel territorio è sicuro per loro. Non sono soggetti che amano rischiare di essere presi. Quel segnale però è stato colpevolmente ignorato dalla comunità e dalle Istituzioni. Così come altri segnali... concreti, tangibili, ma sempre, puntualmente, ignorati. Così come il legame tra Liguria e basso Piemonte, si era già evidenziato con la prima indagine MAGLIO del ROS, nei primi anni duemila... e con l'Operazione "COLPO DI MAGLIO" che aveva colpito il Silvio SCRICINO (marito di Angela MAMONE) con la sua GEDAL con sede a Novi Ligure. Era quella famosa ragnatela 'ndranghetista che passava per il "locale" di Busalla... con qualla valle Scrivia dove gli affari del vecchio Luigi MAMONE sono sempre andati bene, da un lato con la Iplom e dall'altro con le collaborazione con FURFARO ed altri uomini della 'ndrangheta... Territorio dove è andato anche in scena, più recentemente, il pranzo nel quale Gino MAMONE tantava di organizzare un tentativo di corruzione del pm Francesco Pinto che alla Procura di Genova non mollava la presa, con le inchieste che hanno incrinato, dopo anni di immobilismo anche della magistratura, il sistema di potere che ruotava attorno ai MAMONE. Che Alessandria fosse terra di affari criminali che avevano attirato la 'ndrangheta lo si sa da tempo... Erano insediati nell'alessandrino i SOFIO che concorsero, secondo i racconti di chi conosce i fatti di allora, agli interramenti "coordinati" dal vecchio boss Francesco FAZZARI, esponente - ora defunto - della cosca GULLACE-RASO-ALBANESE... Ma andiamo con ordine e cerchiamo di ricostruire i fatti, contesto e protagonisti così che il tutto sia più chiaro...I "locali" 'ndranghetisti del basso Piemonte fanno capo alla 'Ndrangheta "ligure", ovvero al capo 'ndrangheta del "locale" di Genova. In allora il vertice della 'ndrangheta in Liguria (e, quindi, nel basso Piemonte, oltre che per la provincia lombarda di Voghera) era nelle mani della famiglia RAMPINO, con Antonio e Franco. Ed il Franco RAMPINO era al brindisi nel 1993, insieme al boss Carmelo GULLACE, con Gino MAMONE, figlio di Luigi MAMONE e Alba RASO, nonché titolare della ECO-GE. Dal 1993, anno del brindisi dei boss a casa MAMONE, i grandi affari dei MAMONE, imparentati con i GULLACE-RASO-ALBANESE, passarono proprio nelle mani di Gino MAMONE e della ECO-GE. Prima con la ERG, poi con la COOPSETTE... i grandi affari dei MAMONE si sviluppano arrivando ad una sorta di monopolio a Genova tra appalti pubblici e privati. E la storia dei MAMONE era già legata a quella dei SOFIO presenti nell'alessandrino, come evidenziammo in quel dialogo con l'ex moglie di Vincenzo MAMONE che ebbe il coraggio di denunciare pubblicamente e verbalizzate nomi, fatti e affari di quella famiglia. E, nell'alessandrino, infatti, i conferimenti illeciti dei MAMONE sono stati evidenziati da tempo. Era un'inchiesta del NOE del 2004 con la Procura di Alessandria che prendeva il nome di "Pesciolino d'oro". E qui con Gino MAMONE trovavamo Franco SOFIO, titolare della "SOFIO ELIA SAS". Il rapporto tra Gino MAMONE e Franco SOFIO è quasi fraterno e nelle intercettazioni disposte dalla Procura di Alessandria si scoprì che attraverso il SOFIO i MAMONE possono disporre per i conferimenti illeciti del centro di stoccaggio del SOFIO a Pozzolo Formigaro, che poi li trasferisce in una cava a Castellazzo Bormida. Tra le ditte coinvolte anche la "Intekna" di Castellazzo, la "Pellizzari Bruno" di Montebello Vicentino e la "Eco-Arena" di Bussolengo. Ma il tempo corre e la prescrizione anche... Se a questo si aggiungono alcuni "errori" durante l'inchiesta, l'impunità sui fatti è già scritta nelle norme! Ed è così che solo il 10 febbraio 2012 arriva a conclusione il procedimento di primo grado, su quelle 350 mila tonnellate di rifiuti tossici illegalmente smaltiti, per un giro d'affari di 2 milioni di euro. False documentazioni sui rifiuti che venivano bonificati solo sulla carta e senza subire alcun trattamento, finendo in discarica o utilizzati per asfaltare le strade. Sostanze tossiche, cancerogene... cioè inquinamento che uccide! Ed alla fine, il 10 febbraio 2012, 7 anni dopo, grazie alle lentezze e prescrizioni, abbiamo assistito a sei assoluzioni ed una condanna per Franco SOFIO, ad un anno e otto mesi di reclusione. Nel frattempo l'alessandrino continua ad essere la "grande discarica" per i conferimenti illeciti dei soggetti legati alla 'ndrangheta. Ancora una volta soggetti che operano in Liguria, nella zona del pavese e del basso Piemonte. Seguimmo i camion che formalmente andavano nei Centri di Recupero e che in realtà andavano direttamente a conferire in due siti nella zona di Tortona. Di nuovo le carte sono regolari, i bolli certificano un trattamento dei materiali che però mai si è realizzato... e di nuovo sversamenti di sostanze inquinate, tossico-nocive. Abbiamo quindi indicato punto per punto tutto (i nomi delle società, i soggetti 'ndranghetisti coinvolti, i siti di partenza ed i siti di conferimento illecito, gli inquinanti...) in un dettagliato Esposto alla competente DDA ed in una successiva integrazione. E' stata aperta l'indagine, trovando i riscontri a quanto denunciato, anche attivando le necessarie intercettazioni, ed arrivando ad individuare una sessantina di soggetti coinvolti. Ora si attende che questa nuova Operazione stronchi tutta la rete affaristico-mafiosa coinvolta e che, non perdendo troppo tempo, li si schiacci, evitando che arrivi nuovamente la prescrizione a garantire una inaccettabile impunità. E l'alessandrino rappresenta, come abbiamo detto, quella sorta di epicentro geografico degli affari e traffici della cosca GULLACE-RASO-ALBANESE, capeggiata nel nord-ovest dal boss Carmelo "Nino" GULLACE, e che si ramifica nei vari territori del Piemonte (dal torinese, al vercellese, passando dal biellese e l'alessandrino) sino alla Liguria (con savonese, genovese e imperiese), ed in Lombardia (dove si spinge sino alla zona di Lecco e dell'hinterland milanese). Non è un caso che a capo del "locale" della 'ndrangheta di Alessandria vi fosse proprio il cugino di Carmelo "Nino" GULLACE, ovvero quel Bruno Francesco PRONESTI' di Bosco Marengo. Avevamo già accennato, parlando dei GULLACE-FAZZARI in terra savonese e della partecipazione del SOFIO Orlando al funerale del boss Francesco FAZZARI, al fatto che nella villetta adiacente a quella del PRONESTI' in via Emilia a Bosco Marengo, vi sia proprio un citofono con l'indicazione della dimora di un SOFIO, ma non avevamo ad esempio ancora detto che il Bruno Francesco PRONESTI' era ad un matrimonio, nel savonese, dove tutta la "famiglia" si era ritrovata... perché si sa che certe cerimonie sono strumento, come i funerali ed i battesimi, per summit e per stringere o rafforzare alleanze.Avevamo già indicato tutto quando era raccontabile - per non compromettere le indagini ancora in corso - sul PRONESTI' ed alcuni dei principali esponenti della 'ndrangheta del basso Piemonte che facevano capo a lui, così come abbiamo ricordato che risulta alquanto "curioso" che un pluriomicida come Rocco PRONESTI' detto "u lupo" sia libero di circolare tanto da poter partecipare, anche lui, nel 2008 al funerale di Francesco FAZZARI, insieme ai GULLACE, ai MAMONE, ai FOTIA dell'altro "casato" 'ndranghetista dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. In questo "viaggio" avevamo prima di tutto affrontato la questione del Cento Benessere del REA Romeo, che, ad Alessandria, continua ad essere aperto. L'apertura di questo Centro, che era stato inaugurato da quello che lì chiamavano "l'assessore" ovvero dal Giuseppe CARIDI, il consigliere comunale affiliato alla 'ndrangheta, ha comportato la chiusura di una ditta di fornitori di Roma che aveva proceduto nel denunciare puntualmente il REA & Co. ben prima che venisse arrestato nell'ambito dell'indagine MAGLIO. Truffati, come hanno denunciato i fornitori, hanno poi dovuto chiudere. Invece il Centro Benessere è ancora aperto, tranquillamente, come se nulla fosse... A Roma le denunce sono state "archiviate", dalla Procura Nazionale Antimafia hanno dichiarato che è una "vicenda estremamente significativa", ma a Torino, l'Autorità Giudiziaria (quella che procede a sequestrare i nostri articoli sulla questione magistratura), dopo l'arresto del REA non ha però ancora proceduto ad alcuna azione di sequestro dell'esercizio aperto dal REA e gestito dalla sua compagna. Avevamo ricostruito poi, oltre alle vicende "di 'ndrangheta" a cui era legato il REA, che suggeriva al PRONESTI' di comprare le apparecchiature per scoprire ed eliminare le cimici, anche uno spaccato delle attività "alla luce del sole" di un altro 'ndranghetista, ROMEO Sergio, facente capo, anche lui, al "locale" guidato dal PRONESTI', così come molto avevamo già scritto sul CARIDI Giuseppe...Se guardiamo ai principali affari pubblicamente noti che il ROMEO Sergio, con l'impresa R.G. COSTRUZIONI, svolgeva apprendiamo che nella zona di Novi Liguri aveva una sorta di monopolio. Sì, proprio in quella zona dove, ad esempio, dietro l'Outlet, si nasconde una sorta di "zona franca", terreno fertile di contraffazione quanto di lavoro nero che però la locale articolazione della Guardia di Finanza pare non aver notato. E di nuovo, la questione è sempre la stessa: dove l'illegalità regna sovrana e le norme vengono disattese, con violazioni tollerate per una sorta di "convenienza" sociale (prodotti a basso costo e lavoro nero che garantisce l'unica fonte di occupazione per ragazzi e ragazze di interi paesi circostanti), le mafie trovano terreno fertile, permeabile. La lista delle opere ben note dell 'ndranghetista ROMEO Sergio le abbiamo, come detto, già pubblicate (vedi qui), e trovano un loro principale territorio di sviluppo: la zona di Novi Ligure. Ed è proprio nella zona di Novi Ligure, nel Consiglio Comunale di Novi Ligure che troviamo il nipote di SOFIO Franco, ovvero il Francesco SOFIO, nato a Reggio Calabria nel 1974... E non ci pare che tra le tante interrogazioni che il "consigliere comunale" ha promosso nella sua attività, abbia mai sollevato questioni su questa "zona franca" dell'illegalità e dei vermi 'ndranghetisti che operano sul territorio del suo Comune... così come mai, stando a quanto si trova in rete, ha mai condannato senza appello, le vergognose attività del Franco SOFIO, nuovamente connesse ad altri esponenti dell'organizzazione mafiosa, e che hanno devastato l'ambiente (e quindi la salute) nell'alessandrino. Tornando invece ad Alessandria, non possiamo non ribadire la gravità dell'infiltrazione mafiosa proprio nel Comune di Alessandria. Il CARIDI 'ndranghetista era infatti il presidente della Commissione Territorio-Urbanistica del Consiglio Comunale... ovvero aveva più potere di concorrere alla "distribuzione" di ricchezza ed affari di quanto può fare l'assessore al Bilancio. E' infatti da quella Commissione che passano le varianti e le stesure del Piano Regolatore, le deroghe ed i vincoli. E' lì che un terreno può diventare da agricolo a edificabile, magari residenziale e commerciale, aumentando in modo esponenziale il proprio valore. Ed è proprio su quel terreno, delle grandi speculazioni edilizie, di nuovi insediamenti come centri commerciali e/o artigianali, che passano tanti gli interessi di chi deve riciclare e di controlla il mercato dei movimenti terra, degli scavi e del cemento... in una parola sola: la 'ndrangheta! A volte con i nomi noti, come quello del ROMEO, ad esempio, in altri attraverso nomi insospettabili.... di professionisti che si piegano, per buone parcelle, a coprire gli interessi delle cosche... di prestanome che pur di avere una fettina di guadagno si vendono l'anima ed anche i figli... di grandi colossi del commercio e delle costruzioni che pur di fare utili si affidano all'operato delle imprese mafiose che gli offrono servizi a basso costo. Ecco, ad Alessandria, chi non si era accorto di chi era CARIDI, a partire dal Sindaco, dovrebbero andare a casa, perché se non si accorgono di aver dato un ruolo chiave della Pubblica Amministrazione in mano ad un 'ndranghetista, sono incapaci e quindi pericolosi! E l'indecenza si nota anche alla luce del fatto che, una volta arrestato il CARIDI che a sediate in testa portava avanti la variante al PRG per autorizzare la speculazione edilizia che devasterà la Valle San Bartolomeo, il Comune di Alessandria (il 31 gennaio 2012 in Commissione ed il 1 febbraio 2012 in Consiglio Comunale) ha approvato in via definitiva la variante al PRG relativa agli interventi sulle aree edificabili ed edificate di Valmadonna e Valle San Bartolomeo. Un provvedimento che non ha avuto manco un voto contrario... perché nessuno in Consiglio Comunale, manco l'opposizione, ha osato alzare la mano per dire "NO". Così la variante che il CARIDI pretendeva è stata approvata con 6 astenuti (minoranza e consigliere Bianchini) e 17 favorevoli. Dagli arresti, il CARIDI 'ndranghetista può quindi essere contento! Il quadro è evidente quindi nella sua inquietante portata. Ad Alessandria non vi era manco il tempo di avviare l'iter per mandare una Commissione di Accesso (come avvenuto ad esempio a Bordighera e Ventimiglia) perché gli organismi elettivi (Consiglio e Giunta) andavano comunque a scioglimento naturale per le elezioni del 2012. Ma il problema della permeabilità, dell'infiltrazione e del condizionamento, è evidente, ben oltre al caso di CARIDI che, non a caso, veniva definito persona per bene da quella politica che, nonostante l'arresto per 416 bis, nonostante quanto emerge con inequivocabile certezza dalle intercettazioni, ivi compresa l'affiliazione alla 'ndrangheta alla presenza dei vertici della 'ndrangheta ligure. Il Sindaco Piercarlo Fabbio, che sino a pochi giorni prima dell'arresto di CARIDI girava con lui a braccetto alla festa calabrese, che cosa ha detto? Ha ricordato che con la sua Amministrazione aveva "già firmato un protocollo d'intesa con la Prefettura per migliorare i 'percorsi antimafia'"... ovvero la stessa dichiarazione del Sindaco di Ventimiglia sciolto per infiltrazione e condizionamento mafioso! Ha dichiarato che avrebbe chiesto ai capigruppo ''una maggiore coesione e comunita' d'intenti per salvaguardare l'istituzione comunale da potenziali infiltrazioni malavitose''.... Cosa? "Potenziali infiltrazioni"???? C'era un affiliato alla 'ndrangheta che era presidente della III Commissione del Consiglio Comunale e lui parla di "potenziali" e non reali e concrete, avvenute infiltrazioni??? E poi come tranquillizza i concittadini? Così: "Anche con le scuole il profilo del Comune è alto: "Con l'associazione Parcival che fa parte del coordinamento di ‘Libera contro tutte le mafie', di Don Ciotti - aggiunge Fabbio - svolgiamo un progetto di educazione alla legalità, dalla materna fino alle superiori." Ecco, davanti a questo panorama, dove la politica tace e copre sino all'arrivo delle manette e dove i progetti ed affari perseguiti dagli 'ndranghetisti non vengono fermati manco dagli arresti, serve che la comunità reagisca e risponda con un rigetto! Serve che l'allarme sociale sia alto e che la comunità costruisca quel muro impenetrabile che la politica e le imprese hanno invece reso permeabile alle cosche, in cambio di pacchetti di voti, finanziamenti e servizi a basso costo. Serve che i cittadini trovino il coraggio della denuncia perché, lo si deve capire, se si reagisce i mafiosi sono finiti, in quanto la loro forza è determinata dalla nostra paura. E serve anche avere il coraggio di aprire gli occhi a quei settori di controllo, compresa la magistratura, che troppe volte è stata cieca... e che ancora su molti torbidi affari si mostra cieca o lenta, troppo lenta. Non possiamo più permetterci procedimenti senza fine che portano solo all'impunità e non possiamo permettere segnali devastanti come la mancata aggressione ai patrimoni ed alle imprese dei mafiosi. Ci sono tutti gli elementi e gli strumenti per intervenire e schiacciarli, e la comunità deve spingere in questa direzione. Noi, intanto, andiamo avanti... continueremo a raccogliere le segnalazioni per portarle all'attenzione di chi di dovere... continueremo ad indicare i mafiosi, i loro prestanome e servi ed i politici amici e quelli che "imbecilli" o "ingenui" non li sanno riconoscere e così facendo gli aprono le porte... continueremo ad indicare quegli affari sporchi che bisogna fermare... e continueremo ad invitare ogni cittadino ad essere "sentinella di legalità" del territorio, perché così si rende impermeabile una comunità e si crea una rete che collabora con i reparti investigativi e la magistratura per colpire, senza lasciare più spazio ad alibi, i mafiosi ed i loro amici, i cumpari e le reti di compiacenze e protezione di cui si nutrono. Per questo, ci siamo presi l'impegno, insieme al MoVimento 5 Stelle di Alessandria, di promuovere una grande manifestazione a San Bartolomeo, insieme al Comitato "Noi di Valle", per denunciare e fermare lo scempio tanto amato e perseguito dal consigliere 'ndranghetista! Il problema non è solo ad Alessandria... è a Novi Ligure ed in tanti Comuni dell'alessandrino... bisogna farlo emergere e colpire senza tregua ovunque sia necessario, sino a schiacciare ogni verme mafioso. E poi bisogna non mollare la presa sulle "grandi opere" inutili ed antieconomiche ma che rappresentano il grande banchetto su cui, come abbiamo già documentato, gli appetiti delle cosche sono forti... C'è il Terzo Valico e c'è la TAV... e così se si riscende verso la Liguria, si deve salire anche al nord... dove a Torino, siede un sindaco che è stato eletto anche con voti raccolti dalla 'ndrangheta! Non devono esistere "santuari" intoccabili perché la mafia è e resta una montagna di merda.
ALESSANDRIA FALLITA.
Alessandria è un comune piemontese dalla storia di tutto rispetto e nodo nevralgico di interscambio importantissimo per Torino, Milano e Genova, collocandosi esattamente nel centro del triangolo immaginario che unisce i tre capoluoghi di provincia. Oggi la città non ha più i soldi per offrire i servizi ai suoi quasi 100 mila cittadini. E' il primo capoluogo di provincia a non avere i fondi per ripagare i creditori e gli stipendi dei dipendenti pubblici. Alessandria, nel comune fallito è una banca a pagare i dipendenti pubblici, scrive Nicolò Sapellani su "Il Fatto Quotidiano". La Banca di Legnano retribuirà i lavoratori delle municipalizzate. Ma chi accede alla linea di credito deve aprire un conto presso i suoi sportelli e in caso di insolvenza dell'amministrazione saranno loro a dover ripagare, dopo sei mesi, con tanto di interessi, i fondi ricevuti. Volete gli stipendi? Prendeteli in prestito. Ad Alessandria i circa 500 dipendenti delle municipalizzate Atm (trasporti), Amiu (rifiuti) e Aspal (pluri-servizi) sono da questo mese senza retribuzione, ma hanno ricevuto una (discutibile) proposta: ottenere un finanziamento a titolo di anticipo della buste paga, accollandosi il rischio di insolvibilità dell’ente comunale. Il neo sindaco Rita Rossa (Pd), infatti ha annunciato di aver trovato una soluzione per tamponare la mancanza di liquidità del Comune, il cui fallimento è stato certificato il 12 giugno scorso dalla sezione regionale di controllo della Corte dei Conti. La Banca di Legnano si è offerta di “finanziare” il 90 per cento della media delle ultime tre mensilità ad ogni lavoratore, per il prossimo bimestre e con possibilità di proroga di ulteriori 30 giorni. A due condizioni: la prima è che chi accede alla linea di credito apra un conto presso i suoi sportelli (a costo e tasso zero), la seconda è che, nel caso non arrivassero i soldi dal Comune, saranno gli stessi dipendenti a dover ripagare, dopo sei mesi, con tanto di interessi, i fondi ricevuti. Nel primo semestre, invece, i prestiti saranno a tasso zero. Contrari alla proposta i dipendenti di Amiu e Aspal che sono in stato di agitazione. Se le loro richieste di dilazionare i pagamenti, inoltrate questo sabato al presidente del Consiglio Mario Monti, non saranno ascoltate, non sanno come pagare le municipalizzate e queste, i lavoratori. Dalle casse, hanno spiegato dal Comune, “escono dai 103 ai 105 milioni di euro all’anno (di cui 40 vanno alle municipalizzate) ma ne entrano solo 87. Entro ottobre dovremo presentare un’ipotesi di pareggio di bilancio, tagliando 24 milioni. Così è impossibile andare avanti”. Fino a ieri l’amministrazione ha potuto contare su un escamotage, con la tesoreria cittadina che ha anticipato 300mila euro ad ognuna delle società controllate. Ad una in particolare, quella che ha in gestione i rifiuti, pesantemente indebitata con Barclays per 9 milioni di euro, l’amministrazione ha sempre approvato il versamento straordinario per “ragioni di pubblica sicurezza”. Operazione che ora i giudici contabili hanno espressamente vietato a causa del dissesto finanziario. Questo è uno dei primi effetti del fallimento del Comune. Il dissesto è stato imputato a Piercarlo Fabbio (Pdl), ex sindaco rinviato a giudizio con l’accusa di aver “truccato” il bilancio consuntivo 2010 per rispettare il patto di stabilità. Con lui dovranno rispondere di falso in bilancio, abuso d’ufficio e truffa ai danni dello Stato anche l’ex assessore Luciano Vandone e l’ex ragioniere capo, Carlo Alberto Ravazzano. Resta da capire perché la Banca di Legnano abbia accettato di rinunciare agli interessi sui prestiti offerti ai dipendenti delle municipalizzate alessandrine. Alcuni siti di informazione hanno indicato come possibile “suggeritore” dell’operazione Ezio Guerci, marito del primo cittadino, che oltre ad essere un esperto di dinamiche del lavoro è consigliere della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, fusa con la Legnano, e azionista della controllata Bpm.
TORTONA E LA MALAGIUSTIZIA. ALDO CUVA.
Due ore bastano a chiudere il caso: l'ex procuratore di Tortona Aldo Cuva, difeso dagli avvocati Giulio Bianchi e Sergio Badellino, il pm Giovanna Ichino e il gip Luisa Savoia concordano, fra le 10 e mezzogiorno, che un anno e dieci mesi saldano il conto con la giustizia del magistrato che indagò sui sassi dal cavalcavia di Tortona, accusato di falso e violenza privata, scrive Elisabetta Rosaspina su "Il Corriere della Sera". Cuva, precipitato dalle stelle alle stalle per aver catturato la (presunta) banda del cavalcavia che uccise Maria Letizia Berdini e pasticciato con le prove per incastrarla, lascia il settimo piano del Palazzo di Giustizia di Milano e ogni ambizione. Ha riconosciuto d'aver manipolato nastri e verbali, di aver indotto due impiegate a manomettere le prove di interrogatori un po' troppo serrati, ma la collega che lo accusa accetta di cancellare un'aggravante: quella di aver spinto Loredana Vezzaro, l'ex supertestimone, a calunniare se stessa e i suoi amici. Il ritocco al capo d'imputazione richiede la presenza in aula dell'ex procuratore. Cuva passa sotto le forche caudine delle telecamere e beve fino in fondo la coppa del disonore. Ammette le frasi pesanti che aveva gridato in faccia alla Vezzaro, nelle furiose notti di gennaio del '97, quando nel tribunale di Tortona si moltiplicavano arresti e interrogatori: "Pupetta non m'imbrogli. Sbatto dentro anche tua madre". E i saltafossi a Sandro Furlan, allora fidanzato di Loredana, per convincerlo a confermare le traballanti confessioni della ragazza. Gli pareva che non ci fosse altro modo per dimostrare la sua certezza: sul cavalcavia di Tortona, la notte della morte di Letizia Berdini, c'erano una dozzina di sassaioli. I testimoni a difesa, che fornivano alibi di ferro ad alcuni degli imputati, finirono incriminati per falsa testimonianza. Ma neanche questo bastò a proteggere l'impalcatura dell'accusa dai colpi di continue rivelazioni e ritrattazioni. Cuva convinse due giovani impiegate del tribunale a "limare" un po' le trascrizioni degli interrogatori, a modificare i passaggi discutibili e le due ragazze, le sorelle Melissa e Giuditta Saltari, hanno patteggiato una pena di quattro mesi per concorso in falso. Nel luglio 1998, Cuva ha presentato le sue dimissioni al Consiglio superiore della magistratura, bloccando così il procedimento disciplinare avviato a suo carico.
Più dei 22 mesi patteggiati, più dei milioni che dovrà pagare alle parti civili, cioè i suoi ex imputati, gli costa il silenzio. Aldo Cuva, il pm dei sassi, ammette i suoi torti e sa che c’è poco da aggiungere alla sentenza che seppellisce 28 anni di carriera in magistratura. "Ho passato un anno terribile, il primo anniversario di tutta questa storia cade proprio tra pochi giorni, il 10 ottobre. Ma adesso è davvero finita, la partita è chiusa. Ho lasciato la magistratura, ho patteggiato la sanzione che chiude questo processo. E’ stata una mia scelta, per ritrovare la tranquillità che avevo perso fin dall'inizio dell'inchiesta sull'omicidio di Maria Letizia Berdini. Nessuno sa quel che passai in quei giorni, sotto la pressione di giornali e tivù che conducevano indagini parallele". Patteggiando, ha comunque ammesso di aver sbagliato. "E’ da gentiluomini saper riconoscere i propri errori. Se ho peccato, è stato per avvicinarmi il più possibile alla verità". Non è un peccato grave falsificare verbali? " E’ stato un errore umano. Per eccesso di zelo. Ho perso la ragione, per un'ora. E’ accaduto un giorno, tra le due e le tre del pomeriggio: è stato un gesto irrazionale, ma non era dettato da interesse personale". E terrorizzare i testimoni? "Adesso chiunque può valutare gli abusi e gli eccessi che mi sono stati attribuiti. Io credevo e continuo a credere che sia legittimo contestare a un testimone le false dichiarazioni e rappresentargli le conseguenze penali della sua condotta". Ha seguito il processo per Marta Russo? Vede analogie tra la sua vicenda e il caso dell'interrogatorio alla Alletto? "Certo che ce ne sono. In tutti e due i casi si grida allo scandalo per l'atteggiamento del pm che, nel sottoporre a esame un teste apparentemente falso, gli prospetta le conseguenze penali previste dalla legge per chi mente sotto l'obbligo di dire la verità". Però lì è intervenuto Prodi: ritiene di essere stato lasciato solo, a differenza dei suoi colleghi romani? "E’ una provocazione a cui preferisco non rispondere e tento di resistere pur dovendo ammettere che è opportuna". E’ in discussione il ruolo del pm? "Certo. Mi chiedo infatti se in un processo così delicato come l'indagine per un omicidio, in mancanza di testimoni e in un ambiente omertoso..." Come quello della Sapienza di Roma? "Parlo del caso mio, di Tortona. Mi chiedo se in una inchiesta indiziaria così delicata e complessa, il pubblico ministero potesse comportarsi in maniera diversa da me, di fronte a un testimone che continuo a considerare falso e perseverante nella falsità. Me lo chiedo e basta, senza accusare nessuno". A che cosa servirebbe attaccare i pm? "Non ho una risposta certa e assoluta. Ma mi sembra evidente che certe iniziative sono legate a un particolare momento storico e devono essere sempre rapportate alle scelte di politica criminale". Politica criminale? "Mi spiego. Il processo si risolve in un concorso d'interessi, quello pubblico, della collettività, che mira alla propria tutela, e quello del singolo che mira a garantirne la difesa. L'ago della bilancia si sposta in un senso o nell'altro a seconda dei momenti storici e delle finalità che si vogliono perseguire. A me pare che adesso si sia persa di vista la tutela della collettività, ipergarantendo l'interesse dell'imputato. Sarebbe meglio trovare un punto di equilibrio". Che cosa dirà se la Corte d'assise di Alessandria dovesse condannare i sette imputati della sassaiola dal cavalcavia di Tortona e confermare quindi le conclusioni della sua inchiesta? "Io non dirò niente, spero che saranno gli altri a ricordarsi di me. Io posso soltanto tacere, adesso. E pagare, forse anche troppo, le conseguenze di un momento di irrazionalità". Che cosa farà? "Non so. Aspetto che il Csm accolga le mie dimissioni dalla magistratura. Coltiverò i miei hobby. Ne ho diritto, dopo una vita di lavoro".
LE TAPPE DELLA VICENDA (La Repubblica):
LA MORTE DI LETIZIA. Il 27 dicembre '96 muore Maria Letizia Berdini, colpita da un sasso lanciato da un cavalcavia vicino a Tortona.
GLI ARRESTI. Il 15 gennaio '97 il pm Cuva chiede 4 fermi per i fratelli Furlan e Paolo Bertocco. Il 20 gennaio '97 davanti a Cuva confessa Loredana Vezzaro, fidanzata con Sandro Furlan: fermati altri 7 membri della banda
LE IRREGOLARITA' NELL'INCHIESTA. Il 14 ottobre '97 Aldo Cuva abbandona l'inchiesta. Il giorno seguente è iscritto nel registro degli indagati: è accusato di aver fatto pressioni sulla Vezzaro per spingerla a confessare, di aver manomesso la bobina della sua confessione e alterato il contenuto di 8 verbali.
IL PATTEGGIAMENTO DELLA PENA. Il 23 settembre 1998 Cuva ha patteggiato la pena a un anno e 10 mesi.
Ecco una cronologia della fasi principali della vicenda dei "sassi dal cavalcavia".
- 27 dicembre 1996: sulla autostrada A/21 che collega Torino a Piacenza, Maria Letizia Berdini muore colpita da uno dei sassi lanciati contro le auto in corsa da un cavalcavia nei pressi di Tortona, in provincia di Alessandria.
- 1 gennaio 1997: Mariarosa Berdini, sorella della vittima, in una lettera aperta ai killer scrive: "Non vi darò più tregua, vi torturerò piano piano".
- 14 gennaio 1997: i fratelli Paolo, Sandro e Sergio Furlan vengono fermati.
- 14 ottobre 1997: il procuratore Aldo Cuva, accusato di aver manomesso i verbali di interrogatorio, abbandona l'inchiesta, affidata al procuratore aggiunto di Torino Maurizio Laudi.
- 9 marzo 1998: comincia il processo di primo grado presso la Corte d'Assise di Alessandria.
- 9 luglio 1998: Aldo Cuva si dimette dalla magistratura. Sarà condannato a un anno e dieci mesi per abuso d'ufficio e violenza privata e il Csm lo rimuoverà dall'ordine giudiziario.
- 2 luglio 1999: i quattro fratelli Furlan, Franco, Gabriele, Paolo e Alessandro, e il cugino Paolo Bertocco vengono ritenuti responsabili della morte di Maria Letizia e sono condannati a 27 anni e sei mesi. Assolti Loredana Vezzaro e Roberto Siringo.
- 22 giugno 2000: comincia il processo di secondo grado, con rito abbreviato, prsso la Corte d'Assise d'Appello di Torino.
- 19 luglio 2000: sentenza d'appello. Assolto Gabriele Furlan. La condanna per gli altri è ridotta a 18 anni e 4 mesi.
Visite mediche obbligatorie per i magistrati", scrive “Il Corriere della Sera”. Perchè un pm stressato e depresso è pericoloso: può arrivare al punto di manipolare interrogatori e verbali. La proposta è del parlamentare Maretta Scoca e il riferimento è al caso - Cuva, l'ex procuratore di Tortona, titolare dell'inchiesta su quel manipolo di sbandati che lanciando sassi dal cavalcavia uccisero Maria Letizia Berdini. Cuva ammise di aver spinto una testimone ad accusarsi e di aver poi modificato i verbali giustificandosi così: "Nel '91 ebbi un gravissimo esaurimento nervoso. Sono ancora in cura da uno psichiatra". Domanda: ci sono sufficienti garanzie su chi rappresenta la giustizia? Non per Maretta Scoca, che i magistrati vorrebbe mandarli dal dottore periodicamente. "E bisognerebbe introdurre la dispensa temporanea dal servizio quando sia provata l'inidoneità psicofisica del giudice". L'Associazione nazionale dei magistrati risponde che è una "proposta provocatoria". "Garanzie e controlli ci sono - sostengono all'Anm -. La vigilanza si esplica attraverso il sistema disciplinare e quello delle valutazioni. E c'è anche un controllo sociale, quello dell'opinione pubblica". Una provocazione ma non del tutto, secondo il pm di Venezia Carlo Nordio, contrario alle visite mediche periodiche, ma favorevole a verifiche psicologiche e psicoattitudinali per chi entra in magistratura e per chi passa da una funzione all'altra, per esempio da pm a giudice. "Esiste in materia - ammette Nordio - un certo vuoto normativo". Che fine fara' l'ex procuratore di Tortona, per il quale è stato chiesto il giudizio immediato e la sospensione dall'Ufficio? Lui (in aspettativa per motivi di salute), quando ammise di "aver perso la testa" disse: "A Tortona non ho intenzione di tornare. Ma potrei passare a una funzione giudicante". Da pubblico ministero "esaurito" a giudice "esaurito". Vedremo.
PARLIAMO DI BIELLA
I MISTERI DEL FALLIMENTO AIAZZONE E DELLA MORTE DI LIBERO CORSO BOVIO.
Il 6 luglio del 1986 il "re dei mobili" precipita con l'aereo. Con lui morirono il pilota e un magistrato, scrive Rita Rosso su “News Biella”.
Biella, mercato di piazza Martiri, maggio 1986
“Te lo dico io, vedrai, tra un po’, che fine fa il vostro Aiazzone!”.
“Ma stà zitto, che a Napoli uno come lui ve lo sognate!”.
Biella, 7 luglio 1986
“Ciao, cavajé!”.
“Dè, te sentù che l’ha masasi l’Aiazun!”.
“Ma cosa dici?”.
“Ieri sera, è andato giù con l’aereo… Sono morti tutti, anche l’Allegretti, la moglie del notaio”.
Giorgio Aiazzone, 39 anni, è all’apice del suo successo. Partito quasi da zero, il padre aveva già un piccolo mobilificio, in breve tempo ha costruito un impero, portando Biella nelle case di tutti gli italiani. Il suo intuito è stato geniale: ha utilizzato le emittenti televisive private per farsi conoscere e ora ne possiede addirittura una. Dal Leprotto Milcaro fino a Guido Angeli e al suo “provare per credere”, il mobilificio, che da piazza Vittorio Veneto si è spostato nell’open space di corso Europa, impazza ovunque. E poi, dopo una visita, tutti a pranzo con gli architetti. Giorgio Aiazzone e la moglie Rosella Piana “sono” il jet set made in Biella. Protagonisti ovunque, vengono invitati a feste e ricevimenti, addirittura a fare da testimoni a nozze di rilievo, come quelle di uno noto dirigente della Questura cittadina. Ma non basta. Ora l’impero si sta espandendo. L’imprenditore ha acquistato Villa Reda, splendido esempio di architettura in stile Liberty, a due passi da quel polmone verde che sono i giardini Zumaglini e che si sussurra colpito da una maledizione. Il “re del mobile” vuole trasformare l’immobile in un istituto di credito, per concedere prestiti ai clienti. All’ultimo piano ha fatto realizzare un solarium, con piscina, dove trascorre il suo tempo libero. Sulle scale, invece, ha fatto dipingere il suo ritratto: da qualunque angolazione lo si guardi, sembra sempre che ti stia fissando. Il che non fa che alimentare la leggenda secondo cui, Giorgio Aiazzone, abbia stretto un patto con il diavolo. Forse per garantirsi a vita il successo, o magari solo per conquistarsi l’immortalità. Ma l’occulto non è infallibile, o semplicemente è il genio umano che è fallibile. Gli affari, in quella metà degli anni Ottanta, vanno a gonfie vele, tanto che le consegne dei mobili vengono assicurate anche nelle isole, mentre iniziano a girare strane voci. Qualche cliente si lamenta di cucine che cambiano colore, mobili in legno massiccio che, in realtà, altro non sono che due pezzi di compensato pieni di sabbia. Rumors messi in giro dalla concorrenza, illazioni?
Biella, 2 luglio 1986
“Marco, sono Giacomo. So che sei sotto di ore, nel brevetto. Vuoi venire con me, domenica? Devo portare Aiazzone in Toscana. Così ti fai qualche ora di volo con me. Che ne dici?”. Giacomo Ramella, pilota esperto dell’Aereoclub di Cerrione, da tempo accompagna l’imprenditore nei suoi spostamenti. Il loro rapporto è basato sulla fiducia e la discrezione. Giacomo pilota l’aereo e non commenta; inoltre dalla sua bocca, dopo ogni viaggio, non esce mai una parola. La sua passione per il volo, ben si sposa con la voglia di viaggiare del “re del mobile”. Di solito lo avverte all’ultimo momento, ma questa volta è diverso. Ci sarà un’ospite speciale: la dottoressa Clelia Allegretti. Originaria del Sud, arrivata a Biella ha conosciuto uno stimato professionista locale e si è sposata. Nell’arco di pochi anni, hanno avuto due bambini. Un matrimonio felice e un grande amore per il suo lavoro. I colleghi la stimano e la apprezzano per il suo carattere indomito, per le sue doti professionali e per il suo equilibrio che ne fanno un ottimo magistrato. Lei e il marito conoscono bene gli Aiazzone, tanto che insieme a Rossella Piana frequentano lo stesso salone di parrucchieri. A gestirlo è una ragazza di colore: padre biellese e madre del Burundi. Ha imparato il mestiere a Parigi e poi è tornata in città, insieme ai suoi tagli innovativi e alla moda. Tanto Clelia Allegretti è discreta e veste in modo sobrio, tanto Rosella Piana è volitiva ed estroversa. Le due donne vanno d’accordo, mai uno screzio, seppure è improbabile che tra loro possa nascere una forte amicizia. Il legame più stretto è con Giorgio Aiazzone, che si rivolge a lei per questioni di lavoro e quella domenica 6 luglio vuole portarla con sé in Toscana, all’isola d’Elba. Vogliono parlarsi, lontani da occhi e orecchi indiscreti. Con loro, dovrebbe esserci anche l’avvocato Sandro Delmastro, noto esponente della Destra biellese. Non ha ancora confermato ed è probabile che darà forfait all’ultimo minuto. Se il magistrato ha accettato l’uscita, lasciando a casa i due bimbi, in tenerissima età, evidentemente è perché deve discutere con l’amico di qualcosa di importante.
Sartirana, 6 luglio 1986
Ivana sta guardando un programma alla televisione. Fuori, il temporale, con i suoi lampi e i suoi tuoni estivi. A 2700 metri di quota, un piccolo aereo civile ha appena deviato rotta. Il pilota, esperto, aveva sconsigliato al passeggero di rientrare, quella sera, cercando di convincerlo a pernottare in Toscana per partire il giorno dopo, all’alba. L’altro, però, è stato irremovibile. L’ospite ha fretta di raggiungere Biella, come lui, e poi lunedì è atteso in tribunale. Così, per evitare la perturbazione, ha deciso di deviare leggermente sulla rotta, puntando verso i cieli della Lomellina. Intanto Ivana continua a seguire la trasmissione in Tv, fino a quando non lo sente, quel boato fortissimo. Poi la terra trema, come per effetto del terremoto. Esce, sconvolta, e in cortile lo vede, quell’ammasso oscuro che, alla luce dei lampi, si rivela essere un motore. Qualcosa, più in là, attira ancora la sua attenzione. Un fagotto, da cui provengono dei gemiti. Corre in casa, chiama i carabinieri e poi un medico. Quando quest’ultimo arriva, quel povero corpo, dilaniato, ha già smesso di respirare. Altrove, una donna si è sentita male. Era in casa, quando ha sentito un botto, sul tetto della casa. Salita a vedere, si è trovata davanti i resti di un corpo, femminile. A qualche centinaia di metri di distanza, l’attenzione dei soccorritori è attratta da qualcosa che brucia. E’ la cabina di un aereo, un piccolo bimotore Seneca. Dentro, un cadavere carbonizzato. Arrivano i vigili del fuoco e le fiamme vengono spente, mentre la violenta perturbazione continua a scaricare pioggia su pioggia. Pochi istanti e viene ritrovata la carlinga del velivolo, da cui si risale alla sua identificazione. E’ partito, secondo il piano di volo, dall’aeroporto di Cerrione, al mattino, con meta la Toscana; il rientro era previsto in serata. La più vicina torre di controllo, lo ha perso poco prima mentre in zona infuriava il temporale. Sopra non c’erano viaggiatori qualsiasi, ma un magistrato, Clelia Allegretti, e il “re del mobile”, Giorgio Aiazzone.
Biella, 5 luglio 1986
“Pronto, Giacomo… Mi dispiace, ma domenica non vengo”.
“Perché?”.
“Sai, la mia ragazza… non vuole. O lei o l’aereo. Mi ha urlato che è stanca di passare i fine settimana da sola. Odia volare. Non me la sono sentita di dirle di no. Resto a casa, mi dispiace”.
“Figurati. Sarà per la prossima volta”. Parte da solo, Giacomo Ramella, alla volta della Toscana, con Giorgio Aiazzone e la sua ospite. All’ultimo momento, anche l’avvocato Sandro Delmastro ha dato forfait. Il cielo è limpido e la conversazione formale. Ha l’impressione che l’imprenditore e il magistrato non vedano l’ora di atterrare, per parlare da soli. Arrivati a destinazione, i due si allontanano, mentre lui resta in aeroporto. Un panino al bar, e poi di nuovo in pista, per controllare l’apparecchio e fare rifornimento. Ripartono che fuori è quasi sera, con le previsioni che danno temporali di forte intensità. Sono sui cieli della Lomellina, quando Giacomo Ramella si accorge che l’apparecchio non risponde ai comandi. Entra in stallo e si avvita su sé stesso, precipitando. Clelia Allegretti urla, mentre Giorgio Aiazzone cerca di calmarla. “Giacomo, fai qualcosa! Noooooooooo”. In piena rotazione, il velivolo, mentre il pilota cerca disperatamente di riprenderlo, inizia a perdere pezzi. La fusoliera si lacera e i due passeggeri volano fuori, verso un destino atroce. Giacomo Ramella, legato al sedile con le cinture, rimane bloccato ai comandi. Quel che resta dell’apparecchio, impatta sui fini dell’alta tensione, e si incendia, schiantandosi poi a terra. Ma non è solo la fine di tre vite, è la fine di un mito, del “re dei mobili”, e l’inizio della leggenda. In tanti, in futuro, racconteranno di aver incontrato Giorgio Aiazzone nei più diversi paesi tropicali. La verità, però, è che la vita dell’imprenditore è finita domenica 6 luglio 1986, nei cieli della Lomellina. Per quello che riguarda le vicende del suo impero, questa è storia nota, si dipaneranno tra il Libano e le aule del tribunale.
Il declino senza fine di Aiazzone: la figlia del mobiliere in sciopero della fame davanti al Tribunale di Torino, ”Aspetto la verità da anni”, scrive “Il Quotidiano Piemontese”. Sono passati 18 anni da quando, nel 1986, Giorgio Aiazzone moriva in un incidente aereo quando era all’apice di un’ascesa senza soste la sua azienda, quella che è stata – piaccia o meno – una gloria piemontese, se è vero che un semplice mobilificio di Biella conquistò l’intera penisola. Da allora, la sorte si è accanita in ogni modo sullo storico marchio, sugli eredi dell’imprenditore, con un peso che oggi la figlia Marcella non riesce più a sostenere, come dicono le lacrime che le scendono mentre sta immobile, con un cartello in mano, a condurre uno sciopero della fame davanti al Tribunale di Torino. Da otto lunghi giorni. Ma come si è giunti a questo?
Oggi è Repubblica a tentare una ricostruzione della vicenda, che sinteticamente prende il via quando – poco dopo la morte del fondatore – la di lui vedova, Rosella Piana, vende tutto a un imprenditore di Prato che però non avrebbe mai pagato i 18 miliardi pattuiti; nel frattempo, i risparmi con cui pensava avrebbe agevolmente garantito il futuro alle tre figlie viene affidato a un trust svizzero che l’avrebbe però amministrato in maniera fraudolenta. Il condizionale è d’obbligo perchè la vicenda giudiziaria non è ancora riuscita a fare luce sull’intera realtà dei fatti, che comunque costrinsero ai domiciliari la stessa Rosella, morta poi di cancro nel 2002. Il marchio poi finiva in liquidazione e quindi nelle mani di Gian Mauro Borsano (famoso come ex presidente del Torino Calcio) e Renato Semerato, entrambi in carcere ormai da tre anni per bancarotta fraudolenta. Perchè Marcella è arrivato a questo punto, si diceva? Perchè nel frattempo ha presentato due esposti, uno contro il curatore fallimentare che non le avrebbe mai concesso di visionare gli atti, e uno contro Mario Conzo, ex presidente del Tribunale di Biella, il quale si era occupato della vertenza Aiazzone ma che accidentalmente è stato anche condannato per essersi fatto corrompere dal commercialista di Franceschini, l’imprenditore di Prato che aveva “acquistato” la catena nel 1986. L’esposto però è passato da Roma a Milano a Biella a Torino e a tutt’oggi non è stato avocato, proprio come la prima querela. Marcella Aiazzone chiede giustizia, o per lo meno vorrebbe sapere la verità.
Torino, la figlia di Aiazzone sul lastrico fa sciopero della fame davanti a Palagiustizia. L'erede di Giorgio che ha rivoluzionato il mercato dei mobili negli anni Settanta è intrappolata da 12 anni in una complessa vicenda giudiziaria che ha uno sviluppo anche qui a Torino. In ballo cifre da capogiro in un intrico che vede anche coinvolto un giudice di Biella, scrive Federica Cravero su “La Repubblica”. Dell'idea vincente di un mobilificio innovativo è rimasto un nome, quello di Aiazzone, entrato nella memoria collettiva attraverso spot in tv - "Provare per credere" - diventati quasi proverbiali. Ma di tutto il patrimonio accumulato negli anni d'oro dai coniugi Aiazzone ora non c'è che un cumulo di carte che da dodici anni viaggiano senza requie attraverso i palazzi di giustizia di mezza Italia, passando anche dalla Svizzera. Ed è per questo che Marcella Aiazzone, figlia di Giorgio e Rosella Piana, da otto giorni sta facendo lo sciopero della fame e in segno di protesta si è piazzata, lacrime agli occhi e un cartello in mano, davanti al palazzo di giustizia di Torino, dove sono approdati due suoi esposti. La vicenda è contorta e costellata di misteri che iniziano dopo la morte dell'imprenditore biellese, avvenuta in un incidente aereo nel 1986. La moglie Rosella raccoglie le redini dell'impresa, che si chiama Mobilificio Piemonte, e la vende all'imprenditore di Prato Francesco Franceschini che crea la società Aiazzone srl, "ma senza mai pagare i 18 miliardi pattuiti", spiega l'avvocato di Marcella Aiazzone, Edoardo Tamagnone. Nel frattempo la vedova, anche per mettere al sicuro il futuro delle tre figlie piccole, aveva affidato tutti i beni a un trust svizzero, che tuttavia avrebbe amministrato il patrimonio in maniera fraudolenta anche se né l'inchiesta avviata in Italia, né quella condotta in Svizzera, sono mai arrivate a una conclusione, visto che entrambe sono state ostacolate da vincoli di giurisdizione. Ma per quella vicenda anche Rosella Piana viene messa ai domiciliari e, malata di cancro, muore nel 2002. Se il destino si accanisce contro gli Aiazzone, anche la sorte dell'azienda non è rosea, visto che finisce in liquidazione, viene rilevata da Gian Mauro Borsano e Renato Semeraro, ma il loro arresto nel 2011 per bancarotta fraudolenta e il fallimento dell'azienda misero una pietra tombale sulla catena di negozi che da Biella aveva conquistato tutta la penisola. "In tutto questo tempo la mia assistita - spiega l'avvocato Tamagnone - ha presentato un esposto contro il curatore fallimentare, che non le ha mai permesso di visionare gli atti sostenendo che non ne avesse diritto, quando invece c'erano documenti che provavano un vasto credito della madre, che sarebbe spettato alle eredi". Ma in tutta la vicenda si inserisce anche la condanna per corruzione di Mario Conzo, ex presidente del tribunale di Biella, che accettò una mazzetta dal commercialista di Francesco Franceschini (che aveva incrociato quando era giudice fallimentare a Prato) nella vertenza Aiazzone. Anche per il ruolo di Conzo la figlia degli Aiazzone ha presentato un esposto a Prato, che però per competenza territoriale è passato da Roma, Milano, Biella ed ora è alla procura generale di Torino in attesa che venga avocato, così come l'altra querela. "In tutto questo tempo, però, nessuno ha mai fatto indagini o interrogato qualcuno - lamenta il legale - ed è per questo che Marcella Aiazzone è arrivata al gesto dello sciopero della fame, perché si faccia chiarezza su quello che è accaduto all'azienda della sua famiglia".
Era appena tornato da un viaggio a Prato. L'avvocato Bovio si è sparato a Milano, scrive “La Nazione”. Corso Bovio, uno dei più noti legali italiani, si è suicidato il 9 luglio 2007 all'interno del suo studio. Era appena tornato da un viaggio di lavoro a Prato, dove si era recato per una causa, l'avvocato Corso Bovio, uno dei più noti legali italiani, che si è suicidato all'interno del suo studio a Milano, a pochi passi dal Palazzo di Giustizia, sparandosi colpo di pistola. Prima del fatale gesto aveva consegnato a un suo collaboratore una busta indirizzata alla moglie. E' quanto è stato possibile ricostruire dalla parole del presidente dell'Ordine degli avvocati di Milano, Paolo Giuggioli, giunto negli uffici di Bovio. Ad avvertire i carabinieri, intorno alle 14.15, è stata la centrale del 118, che avvertiva che in uno studio legale in via Podgora numero 13 a Milano si era verificato un suicidio. Sotto lo studio si è radunata una folla di avvocati, giornalisti e anche magistrati, che si dicono tutti sgomenti per la morte di Bovio. Nessuno si aspettava un gesto come questo. Corso Bovio a Prato, aveva difeso il commercialista Annibale Viscomi. Il commercialista, insieme all'imprenditore Francesco Franceschini, era finito sotto processo con l'accusa di aver corrotto Mario Conzo, già giudice fallimentare di Prato, nella vicenda del fallimento dell'ex mobilificio Aiazzone. La sentenza: Viscomi è stato condannato a due anni, mentre Franceschini è stato assolto. All'inizio dell'udienza Bovio ha chiesto di parlare per primo e, poco dopo le 9.30, ha svolto la sua arringa a favore di Viscomi, chiedendone l'assoluzione. Poi, insieme a un suo collaboratore, ha lasciato il palazzo di giustizia di Prato e in macchina si è diretto verso Milano.
Fra i 40 e i 50 milioni di lire, scrive Franca Selvatici su “La Repubblica”. Tale sarebbe stata la richiesta di Mario Conzo, ex presidente del tribunale di Biella, per favorire una transazione proposta da Francesco Franceschini, fondatore dell' omonimo Euromercato di Calenzano, nel fallimento del mobilificio Piemonte, già Aiazzone, di cui nel '97 aveva acquisito il marchio. La circostanza è emersa nel corso dell'interrogatorio del commercialista di Prato Annibale Viscomi, arrestato per corruzione in atti giudiziari insieme con Francesco Franceschini, di cui era consulente nella vertenza Aiazzone. L'inchiesta è stata condotta dai Pm milanesi Corrado Carnevali e Maurizio Romanelli, competenti nelle indagini sui magistrati in servizio in Piemonte. Incastrato dalla moglie tradita, che il 28 marzo 2003 spifferò ai magistrati della procura di Biella la storia della tangente, il giudice Conzo, che nel settembre 2002 era andato prudentemente in pensione, ha ammesso di aver incassato da Viscomi il 3 gennaio 2002 l'equivalente in euro di 30 milioni, negando però di aver favorito Franceschini nella vertenza Aiazzone. Annibale Viscomi, interrogato dal Gip Andrea Pellegrino, ha fornito la sua versione dei fatti. Il giudice Conzo, che prima di arrivare a Biella nel '95 era stato giudice fallimentare a Prato, andò a ritirare la bustarella il 3 gennaio 2002 nello studio pratese di Viscomi. «Nello studio ci sarà stato al massimo 10 secondi, giusto il tempo di prendere i soldi», ha ricordato il commercialista. «Gli ho dato 30 milioni e gli ho spiegato che era il massimo che gli potevo dare. E lui mi ha detto che me li avrebbe restituiti». Viscomi esclude di aver promesso un'ulteriore tranche di denaro e sostiene di aver tirato fuori i soldi «dal suo portafoglio». Franceschini, di cui era consulente per il fallimento, non gli chiese mai di avvicinare il giudice. Fu un'idea sua. Una fesseria. Viscomi si è dato dell'«ingenuo». Aveva già avuto problemi con Conzo quando era giudice a Prato. Non avrebbe più dovuto riprendere i contatti con lui. L'avvocato Gaetano Berni, che assiste Viscomi insieme con il collega milanese Corso Bovio, ha dichiarato che sarebbero state estrapolate e rese pubbliche solo alcune parti dell'interrogatorio, ma non ha voluto fornire ulteriori chiarimenti per non violare il segreto investigativo. Quanto a Francesco Franceschini, che probabilmente ora starà maledicendo la decisione di acquisire il marchio Aiazzone che gli ha procurato solo una montagna di guai, ha respinto le accuse, ha spiegato che si era rivolto a Viscomi solo per una consulenza e ha detto: «Non so perché avrebbe dovuto pagare il giudice».
Libero Corso Bovio, uno dei più noti legali italiani, già difensore della Fiat e di altrettanto noti tangentisti si sarebbe suicidato il 9 luglio 2007 all’interno del suo studio, sparandosi un colpo in bocca, a pochi passi dal Palazzaccio di Giustizia di Milano, scrive “Avvocati senza Frontiera”. Il condizionale è d’obbligo, in considerazione degli oscuri retroscena non chiariti dai P.M. di Milano e dei tanti segreti custoditi dall’influente legale piemontese, già al centro di importanti processi e difese, sin dai tempi della prima tangentopoli. Era appena tornato da un viaggio di lavoro a Prato, dove si era recato per una causa. Prima del fatale gesto aveva consegnato a un suo collaboratore una busta indirizzata alla moglie. E’ quanto è stato possibile ricostruire dalla parole del presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano, Paolo Giuggioli, giunto negli uffici di Bovio. Ad avvertire i carabinieri, intorno alle 14.15, è stata la centrale del 118, che avvertiva che in uno studio legale in via Podgora numero 13 a Milano si era verificato un suicidio. Sotto lo studio si è radunata una folla di avvocati, giornalisti e anche magistrati, che si dicono tutti sgomenti per la morte di Corso Bovio. Se nessuno si aspettasse veramente un gesto come questo è difficile dirlo. Di certo è che l’avv. Libero Corso Bovio a Prato, aveva difeso Annibale Viscomi. Il commercialista, insieme all’imprenditore Francesco Franceschini, era finito sotto processo con l’accusa di aver corrotto Mario Conzo, ex giudice fallimentare di Prato, nella vicenda del fallimento del mobilificio Aiazzone. Viscomi è stato condannato a due anni, mentre Franceschini è stato assolto. All’inizio dell’udienza Bovio ha chiesto di parlare per primo e, poco dopo le 9.30, ha svolto la sua arringa a favore di Viscomi, chiedendone l’assoluzione. Poi, insieme a un suo collaboratore, ha lasciato il palazzo di giustizia di Prato e in macchina si è diretto verso Milano. Fra i 40 e i 50 milioni di lire. Tale sarebbe stata la richiesta di Mario Conzo, ex presidente del tribunale di Biella, per favorire una transazione proposta da Francesco Franceschini, fondatore dell’ omonimo Euromercato di Calenzano, nel fallimento del mobilificio Piemonte, già Aiazzone, di cui nel ’97 aveva acquisito il marchio. La circostanza è emersa nel corso dell’interrogatorio del commercialista di Prato Annibale Viscomi, arrestato per corruzione in atti giudiziari insieme con Francesco Franceschini, di cui era consulente nella vertenza Aiazzone. L’inchiesta è stata condotta dai Pm milanesi Corrado Carnevali e Maurizio Romanelli, competenti nelle indagini sui magistrati in servizio in Piemonte. Incastrato dalla moglie tradita, che il 28 marzo 2003 spifferò ai magistrati della procura di Biella la storia della tangente, il giudice Conzo, che nel settembre 2002 era andato prudentemente in pensione [come di norma viene consentito dal C.S.M. ai magistrati in odore di corruzione], ha ammesso di aver incassato da Viscomi il 3 gennaio 2002 l’equivalente in euro di 30 milioni, negando però di aver favorito Franceschini nella vertenza Aiazzone. Annibale Viscomi, interrogato dal Gip Andrea Pellegrino, ha fornito la sua versione dei fatti. Il giudice Conzo, che prima di arrivare a Biella nel ’95 era stato giudice fallimentare a Prato, andò a ritirare la bustarella il 3 gennaio 2002 nello studio pratese di Viscomi. «Nello studio ci sarà stato al massimo 10 secondi, giusto il tempo di prendere i soldi», ha ricordato il commercialista. «Gli ho dato 30 milioni e gli ho spiegato che era il massimo che gli potevo dare. E lui mi ha detto che me li avrebbe restituiti». Viscomi esclude di aver promesso un’ulteriore tranche di denaro e sostiene di aver tirato fuori i soldi «dal suo portafoglio». Franceschini, di cui era consulente per il fallimento, non gli chiese mai di avvicinare il giudice. Fu un’idea sua. Una fesseria. Viscomi si è dato dell’«ingenuo». Aveva già avuto problemi con Conzo quando era giudice a Prato. Non avrebbe più dovuto riprendere i contatti con lui. L’avvocato Gaetano Berni, che assiste Viscomi insieme con il collega milanese Corso Bovio, ha dichiarato che sarebbero state estrapolate e rese pubbliche solo alcune parti dell’interrogatorio, ma non ha voluto fornire ulteriori chiarimenti per non violare il segreto investigativo. Quanto a Francesco Franceschini, che probabilmente ora starà maledicendo la decisione di acquisire il marchio Aiazzone che gli ha procurato solo una montagna di guai, ha respinto le accuse, ha spiegato che si era rivolto a Viscomi solo per una consulenza e ha detto: «Non so perché avrebbe dovuto pagare il giudice». L’inchiesta sull’ ex presidente Conzo include anche un altro tentativo di corruzione, proveniente da una persona vicina alla signora Rosella Piana, vedova Aiazzone. L’ uomo, buon conoscente di Conzo, andò dal magistrato a sollecitare lo sblocco dei capitali della signora Aiazzone, che in tal modo avrebbe potuto acquistare l’esclusiva per la vendita di cinture con fibbie di oro zecchino, platino e diamanti su 300 navi passeggeri della Costa e Festival. Il giudice ci avrebbe guadagnato un vitalizio non inferiore ai 4 milioni di lire al mese. Ma l’offerta pare fu respinta…Ma chi erano gli altri più influenti clienti dell’avv. Libero Corso Bovio? Certamente non le due rumene, che aveva assistito a scopo umanitario. I veri clienti dell’avvocato Bovio appartengono a ben altre classi, tanto più che la sua specializzazione erano i reati societari, ambientali, fallimentari e contro la pubblica amministrazione. Ecco dunque una serie di nomi eccellenti: Marcello Dell’Utri, pupillo dell’Opus Dei, che nonostante le condanne definitive e non, per false fatture e frode fiscale, tentata estorsione, concorso esterno in associazione mafiosa, siede rieletto in Senato; Stefano Ricucci, uno dei furbetti del quarterino; l’ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia; gli attori interessati alla scalata dell’Antonveneta; la Impregilo, uno dei colossi Fiat per le costruzioni, legalmente appartenente a Piergiorgio e Paolo Romiti. Già, la Impregilo, Corso Bovio era andato personalmente due volte a Napoli in una settimana, aveva consegnato una memoria difensiva di duecentotrenta pagine per difendere l’operato della Impregilo dall’accusa di presunta truffa ai danni della Regione Campania; la società aveva in appalto lo smaltimento dei rifiuti della Campania, gara che aveva vinto nel 1999 contro l’offerta dell’Enel. Secondo le decisioni dei giudici napoletani Impregilo non potrà partecipare a gare pubbliche sui rifiuti per un anno; l’impresa sarebbe colpevole dell’emergenza rifiuti in Campania in quanto viene accusata di aver saputo da sempre che gli impianti non avrebbero mai funzionato. Alla società sono contestati illeciti penali per truffa, frode in pubbliche forniture ed è stato disposto un sequestro per 750 milioni di euro, intanto gli abitanti della Campania vivono in una discarica a cielo aperto. Coinvolti sono anche coloro che avrebbero dovuto vigilare e non l’hanno fatto, tra cui in primis il presidente della Regione Antonio Bassolino in qualità fino al 2004, di commissario straordinario per l’emergenza rifiuti. Il presidente della Commissione Ambiente del Senato, Tommaso Sodano, riferendosi all’Impregilo da anni denuncia “la condotta volontariamente colpevole di questa società”, Pecoraro Scanio rincalza dicendo che non si poteva mettere nelle mani di una sola azienda tutto il ciclo di smaltimento e di gestione dei rifiuti della Campania. Certo queste cause sono delle vere e proprie patate bollenti per gli avvocati, anche per quelli bravi come Bovio, eppure non c’è motivo di non credere alla moglie Rita Percile quando pochi istanti dopo la disgrazia ha asserito che il suicidio del marito non poteva essere messo in relazione alle cause che stava trattando. Sicuramente la signora Percile, che non ha voluto farsi riprendere dalle telecamere mentre rilasciava queste dichiarazioni è in grado di valutare meglio di noi ogni elemento non solo per la vicinanza al marito, ma anche per le sue competenze, essendo essa stessa avvocato penalista, e lavorando inoltre in uno studio come quello dell’avvocato Ignazio La Russa. Nell’ambito della famiglia non tutti però la pensano come lei. La zia dell’avvocato, signora Gianna, è convinta del contrario, che le cause della morte possono essere legate proprio al lavoro del nipote, l’aveva visto preoccupato nel gennaio scorso tanto che gli aveva chiesto – chi mai può avercela con te? – e lui le aveva risposto: “c’è sempre qualcuno che ti vuole male”. Ricorda inoltre la signora che il nipote pur non soffrendo di cuore si sottoponeva a regolari controlli cardiologici dopo la morte del padre per infarto, era quindi una persona che aveva cura della propria salute. La signora si sofferma sulla generosità e sulla bontà del nipote; certo è difficile immaginare che un uomo così attento ed equilibrato non abbia valutato il dolore che la sua morte per di più così drammatica avrebbe arrecato alla madre, alla zia, alla sorella, alla nipote, alla moglie, agli amici, ragion per cui la contropartita doveva essere veramente alta. Anche in caso di depressione per arrivare a fare il gesto estremo che va contro ogni naturale istinto di sopravvivenza, questa dovrebbe essere così profonda che un segnale, se pur minimo, qualcuno dei più stretti collaboratori avrebbe dovuto coglierlo. Ma i fatti rimangono, e il nove luglio, alle ore quattordici, chiuso nel suo studio di via Podgora n.13, l’avvocato cinquantanovenne Libero Corso Bovio viene trovato sdraiato sul pavimento del suo studio “suicidato” con una pistola sparato in bocca. All’arrivo della polizia si cercano, inutilmente, le chiavi della cassaforte, è necessario chiamare un fabbro per aprirla, dentro ci sono alcune pistole, tutte regolarmente denunciate come la Magnum 357; si apre la lettera per la moglie, ma non è una lettera d’addio, non ci sono spiegazioni, c’è solo del denaro, 14.000 euro e qualche oggetto personale. Tutti quelli che lo conoscevano, secondo le testimonianze raccolte dai giornali, restano increduli, ricordando l’umorismo, l’ironia, la compostezza, gli innumerevoli interessi, l’amore per il lavoro e il carattere vincente dell’avvocato Bovio. Tutti ritengono assolutamente assurdo l’accaduto. Anche l’autopsia non ha evidenziato alcuna patologia e malattia grave. C’è chi addirittura afferma pubblicamente che Corso Bovio fu fatto ammazzare. E, “l’ordine sarebbe stato di Silvio Berlusconi“. Secondo Pietro Terenzio del Rotary milanese: “Egli era avvocato di Paolo Berlusconi, e i due avevano litigato furiosamente, sia in Loggia coperta a Milano che nel suo, di studio, giusto 6 mesi prima del tragico epilogo”. Pare che Corso Bovio minacciasse di far sapere di soldi riciclati alla mafia da parte di Paolo Berlusconi stesso, “me lo han detto”, riferisce, sempre, Terenzio, “sia al Rotary di C.so Porta Venezia a Milano che presso la Gran Loggia Italiana Massonica del, praticamente, nuovo Licio Gelli italiano, Giuseppe Sabato, mio ex Gran Maestro e non per niente dipendente Berlusconianissimo in Banca Esperia”. “Ora tirerò fuori tutti gli scheletri dall’armadio di Silvio Berlusconi che conosco benissimo, essendo stato mio ex socio in Roma Vetus”, conclude Terenzio. Non conosciamo quale consistenza possano avere i sospetti della famiglia e del rotariano Terenzio ma è certo che la magistratura milanese (e non solo) ha sempre affossato ogni indagine sulle attività illecite delle logge massoniche.
Il giallo della morte dell’avvocato Libero Corso Bovio. Nel primo pomeriggio di un’afosa giornata di luglio, un famoso avvocato milanese, Libero Corso Bovio, senza alcun apparente motivo si suicida: è nato un mistero, scrive Ornella Guidi su “Giro di Vite”. E’ luglio, aria di ferie imminenti e lavoro incessante prima della pausa estiva. Anche l’avvocato Corso Bovio si prepara alle sospirate vacanze, domenica 8 luglio chiama il marinaio addetto alla sua nuova barca e gli dà appuntamento per il giorno 24. Prima di partire però devono essere portati a termine gli impegni di lavoro, così il lunedì seguente, 9 luglio, con un suo collaboratore si reca al tribunale di Prato, in Toscana, per tenere un’arringa e insieme ritornano a Milano intorno alle ore 14. L’avvocato appena arrivato dà una busta al collaboratore chiedendogli di consegnarla alla moglie, gli avrebbe detto lui quando, poi entra nel proprio studio e si spara un colpo di pistola in bocca. Chi era Corso Bovio? Era un celebre avvocato, rampollo di una importante famiglia di origini pugliesi napoletane, il padre era stato uno dei migliori avvocati di Milano, purtroppo morì giovane, all’età di 59 anni per un infarto, il figlio ne segue però le orme diventando avvocato penalista e pubblicista, esperto in diritto all’informazione, giornalista professionista ed anche avvocato cassazionista; per anni l’avvocato Bovio ha difeso le più importanti testate giornalistiche italiane ed ha formato, attraverso la sua attività di docente, generazioni di giornalisti. Corso Bovio viene apprezzato ed ha successo per la sua intelligenza, la sua brillantezza e acutezza, è un grande assertore della vittoria del processo, l’imputato non si deve difendere aggirando il processo come è accaduto ad esempio nel delitto di Cogne, la bravura dell’avvocato consiste nello smontare i pezzi dell’accusa con l’arma del proprio sapere. Un uomo rigoroso che non si affida a "mezzucci", anche mediatici. Gli piace molto scrivere; quando vengono arrestate, dopo una ricerca serrata, due ragazze rumene accusate di aver ucciso (la maggiorenne) una giovane ragazza italiana infilandole "d’impeto" la punta di un ombrello nella cavità orbitale con conseguente sfondamento del cranio, l’avvocato Corso Bovio scrive un articolo contro la gogna mediatica che colpevolizza le ragazze in quanto prostitute e rumene, sicuramente chi ha ucciso non voleva uccidere...Un uomo dunque non arroccato dietro i suoi privilegi di professionista di successo, un uomo attento ai margini, il giornale Panorama lo ha descritto come "uno con il pallino della verità". Viene ricordato, coro unanime, come un uomo di spirito, di stile, pronto a cogliere l’ironia nelle cose del mondo, un uomo, suppongo, amante della vita anche in virtù delle quattro mogli che ha avuto. Senza offendere i matrimoni felici, spesso proprio chi si ferma al primo matrimonio fa parte della schiera degli sfiduciati dell’amore, di coloro i quali accettano passivi un fisiologico appiattirsi del sentimento e magari mutuano una situazione misera con qualche amante. Chi si sposa quattro volte è quanto meno un appassionato dell’amore, uno che comunque, ad un prezzo alto e non mi riferisco agli alimenti, ne va alla ricerca, che non si ferma per vigliaccheria, si assume le sue responsabilità perché ha fiducia nelle esperienze della vita e non teme bigotti giudizi sociali. Un uomo che la vita se la sterza come vuole e non si fa vivere, perché si uccide? Forse perché è depresso? La depressione crea uno scafandro che impedisce di "vedere", non ci sono più occhi se non per il proprio dolore, allora come si giustifica questa sua attenzione anche per i casi che non lo riguardavano da vicino, vedi il fatto delle due rumene, tanto che sebbene fosse impegnatissimo trova il tempo e la voglia di scriverci un articolo. Ne scrive uno scherzoso anche per i diritti degli animali, soprattutto per i pesci e lo invia ad un collega. Ma i suoi veri clienti chi erano? Certamente non le due rumene, i clienti dell’avvocato Bovio appartengono a ben altra tipologia tanto più che la sua specializzazione erano i reati societari, ambientali, fallimentari e contro la pubblica amministrazione. Ecco dunque una serie di nomi eccellenti: Marcello Dell’Utri, pupillo dell’Opus Dei, che nonostante le condanne definitive e non, per false fatture e frode fiscale, tentata estorsione, concorso esterno in associazione mafiosa, siede rieletto in Senato; Stefano Ricucci, uno dei furbetti del quarterino; l’ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia; gli attori interessati alla scalata dell’Antonveneta; la Impregilo... uno dei colossi Fiat per le costruzioni, legalmente appartenente a Piergiorgio e Paolo Romiti. Già, la Impregilo, Corso Bovio era andato personalmente due volte a Napoli in una settimana, aveva consegnato una memoria difensiva di duecentotrenta pagine per difendere l’operato della Impregilo dall’accusa di presunta truffa ai danni della Regione Campania; la società aveva in appalto lo smaltimento dei rifiuti della Campania, gara che aveva vinto nel 1999 contro l’offerta dell’Enel. Secondo le decisioni dei giudici napoletani Impregilo non potrà partecipare a gare pubbliche sui rifiuti per un anno; l’impresa sarebbe colpevole dell’emergenza rifiuti in Campania in quanto viene accusata di aver saputo da sempre che gli impianti non avrebbero mai funzionato. Alla società sono contestati illeciti penali per truffa, frode in pubbliche forniture ed è stato disposto un sequestro per 750 milioni di euro, intanto gli abitanti della Campania vivono in una discarica a cielo aperto. Coinvolti sono anche coloro che avrebbero dovuto vigilare e non l’hanno fatto come il presidente della Regione Antonio Bassolino in qualità fino al 2004, di commissario straordinario per l’emergenza rifiuti. Il presidente della Commissione Ambiente del Senato, Tommaso Sodano, riferendosi all’Impregilo da anni denuncia "la condotta volontariamente colpevole di questa società", Pecoraro Scanio rincalza dicendo che non si poteva mettere nelle mani di una sola azienda tutto il ciclo di smaltimento e di gestione dei rifiuti della Campania. Certo queste cause sono delle vere e proprie patate bollenti per gli avvocati, anche per quelli bravi come Bovio, eppure non c’è motivo di non credere alla moglie Rita Percile quando pochi istanti dopo la disgrazia ha asserito che il suicidio del marito non poteva essere messo in relazione alle cause che stava trattando. Sicuramente la signora Percile, che non ha voluto farsi riprendere dalle telecamere mentre rilasciava queste dichiarazioni è in grado di valutare meglio di noi ogni elemento non solo per la vicinanza al marito ma anche per le sue competenze essendo essa stessa avvocato penalista, lavora inoltre in uno studio importante, quello dell’avvocato Ignazio La Russa. Nell’ambito della famiglia non tutti però la pensano come lei. La zia dell’avvocato, signora Gianna, è convinta del contrario, che le cause della morte possono essere legate proprio al lavoro del nipote, l’aveva visto preoccupato nel gennaio scorso tanto che gli aveva chiesto - chi mai può avercela con te? - e lui le aveva risposto - c’è sempre qualcuno che ti vuole male -. Ricorda inoltre la signora che il nipote pur non soffrendo di cuore si sottoponeva a regolari controlli cardiologici dopo la morte del padre per infarto, era quindi una persona che aveva cura della propria salute. La signora si sofferma sulla generosità e sulla bontà del nipote; certo è difficile immaginare che un uomo così attento ed equilibrato non abbia valutato il dolore che la sua morte per di più così drammatica avrebbe arrecato alla madre, alla zia, alla sorella, alla nipote, alla moglie, agli amici, ragion per cui la contropartita doveva essere veramente alta. Anche in caso di depressione per arrivare a fare il gesto estremo che va contro ogni naturale istinto di sopravvivenza, questa dovrebbe essere così profonda che un segnale, se pur minimo, qualcuno dei più stretti collaboratori avrebbe dovuto coglierlo. Ma i fatti rimangono, e il nove luglio scorso, alle ore quattordici, chiuso nel suo studio di via Podgora n.13, l’avvocato cinquantanovenne Libero Corso Bovio si sdraia sul pavimento del suo studio e con una pistola si uccide sparandosi in bocca. Nello studio, evidentemente grande, qualcuno sente il colpo attutito, un’altra collaboratrice riferisce invece di non aver sentito niente, chi ha sentito va a vedere, trova la porta chiusa a chiave dall’interno. Quando arriva la polizia si cercano, inutilmente, le chiavi della cassaforte, è necessario chiamare un fabbro per aprirla, dentro ci sono alcune pistole, tutte regolarmente denunciate come la Magnum 357; si apre la lettera per la moglie ma non è una lettera d’addio, non ci sono spiegazioni, c’è solo del denaro, 14.000 euro e qualche oggetto personale. Tutti quelli che lo conoscevano rimangono, secondo le testimonianze rese ai giornali, increduli e sbigottiti, e ricordando l’umorismo, l’ironia, la compostezza, gli innumerevoli interessi, l’amore per il lavoro e il carattere vincente dell’avvocato Bovio, ritengono assolutamente assurdo l’accaduto. In ultimo, l’autopsia non ha evidenziato alcuna patologia e malattia grave. Parafrasando il celebre detto di Sherlock Holmes viene da dire "quando tutte le ipotesi possibili devono essere scartate non rimane che l’impossibile".
PARLIAMO DI CUNEO
LA VERGOGNA NELLE LANGHE. MAXI OSPEDALE MAI FINITO.
Sono passati vent'anni dai primi finanziamenti. Dieci dalla prima pietra. E la struttura è ancora in costruzione. Su un terreno franoso ritenuto non edificabile: perché regga sono stati necessari 900 pali in cemento. E la strada per arrivarci costerà dodici euro al millimetro. Cronaca di uno scandalo a Verduno, la terra del tartufo, scrive Roberto Di Car su “L’Espresso”. Il più drastico è Carlo Petrini, presidente Slow food: «Mi è sempre sembrata una follia costruire un enorme ospedale su una collina instabile a metà strada fra Alba e Bra quando ce n’erano due, più piccoli, ben funzionanti e vicini alla gente: di uno ho usufruito, c’è una dimensione umana, anche la mensa è eccellente. Ma da destra e sinistra mi facevano capire con un sorrisetto che io ero fuori dal tempo, che bisognava pensare e realizzare in grande. Ora paghiamo il fio di quella megalomania». Sì, posizione minoritaria, Petrini. I politici adducono la necessità di economie di scala, i tecnici la vetustà di muri e impianti dei settecenteschi ospedali di Bra e Alba, i dottori le esigenze della nuova medicina, diagnostica in testa. Giusto o sbagliato che fosse, ormai l’enorme falansterio sta lì, abbarbicato coi suoi tre bracci che si stagliano per nove piani sulla collina di Verduno: appena sotto il paese e grande altrettanto, quando ti si para innanzi dalla statale Alba-Bra. Fra vigne e noccioleti, casali e castelli, nel cuore di Langhe e Roero, cammeo dell’enogastronomia italiana: area d’elezione del tartufo bianco, terra dei vini nobili piemontesi, culla dello Slow food, meta di orde di colti gourmet francesi, tedeschi, inglesi a gustare Barolo e Barbaresco, tajarin e agnolotti al plin. I lavori sono fermi da due anni. Del nuovo ospedale c’è solo l’imponente scheletro in cemento armato, metà pelle in vetro e metallo, qualche organo interno tipo le modernissime cellule bagno parzialmente all’addiaccio. E la gente del posto fa gli scongiuri perché il mastodonte non resti abbandonato a cadere a pezzi. «Assolutamente no! I lavori ripartiranno prima di Natale, due squadre di operai dell’impresa costruttrice sono già arrivate da Bari per ripristinare le condizioni di sicurezza per le maestranze», replica Francesco Morabito, da un anno direttore generale della Asl Cn2. Qui però finché non toccano con mano non credono a niente. Come dargli torto? «Rispetteremo i tempi», giura Roberto Cota in visita nel settembre 2010, caschetto verde-Lega lui e Gianna Gancia presidente della Provincia di Cuneo. Ma la sua Regione, fuori di 16 milioni e mezzo, non salda i debiti: sicché, settembre 2011, l’impresa ferma i lavori e il cantiere sbaracca. A maggio 2012 arrivano 8 milioni: finta ripartenza, giusto qualche pannellatura, e a settembre Renato Balduzzi ministro della Salute in visita pastorale assicura: «La costruzione sarà completata a giugno 2014». Invece qualche giorno e i lavori si fermano. Ma a febbraio Balduzzi e l’allora direttore generale della Asl Alba-Bra Giovanni Monchiero vengono eletti deputati per Scelta Civica in Piemonte. Qualcosa comincia a sbloccarsi quando la Regione salda finalmente il pregresso. Se davvero si rimetterà mano allo scheletro, benevole previsioni parlano di entrata in funzione a fine 2016. Vent’anni dopo i primi stanziamenti della Regione, governatore Enzo Ghigo, centrodestra: d'accordo all'unanimità tutti i Comuni interessati. Dieci anni dopo la posa della prima pietra in una nebbiosa giornata d’autunno, governatore Mercedes Bresso, centrosinistra. Ma come ci si è infilati in un guazzabuglio del genere? Il terreno scelto, per cominciare. «La sua conformazione geologica è ben nota: marne argillose inclini a scivolamenti e uno strato gessoso carsico, frane attive e quiescenti»», fotografa Riccardo Torri, geologo che ha lavorato su gallerie Torino-Lione e Brennero. Una instabilità antica, bastava chiedere a qualunque contadino. «Nel piano regolatore la zona era classificata “non edificabile, salvo opere di interesse pubblico non diversamente ubicabili”», conferma il sindaco di Verduno, Alfonso Brero. Su un terreno dove non potevi costruire neanche un casotto decidono di edificare un ospedale da 550 letti. Il geologo Orlando Costagli viene incaricato di certificare: «Mi rifiutai. Posso forse cambiare le carte dell’Autorità di Bacino, dove l’area è segnata in dissesto?». Lui no, ma la palla passa alla Regione, «e d’improvviso, sulle carte ufficiali, le frane scompaiono». Perché lì, su una collina franosa e scomoda da raggiungere, quando in tutta la piana c’erano fior di terreni alcuni tuttora liberi e altri negli anni a venire occupati da enormi centri commerciali? Chi decise? «Il primo lotto di terreno lo comprammo noi, Comune di Alba, e fatta un’accurata perizia geologica lo donammo alla Asl. Perché lì? Era a mezza strada e costava un tozzo di pane. Non fosse andato bene, potevano sempre rivenderlo», racconta Enzo De Maria, ingegnere, sindaco Dc di Alba per tutti gli anni Novanta, amareggiato perché «è diventata come la Salerno-Reggio Calabria, tempi folli e soldi al vento». Leggenda vuole che la scelta del sito fu un intrallazzo con la Chiesa: della Diocesi di Alba era il lotto più grande, 9 giornate, un decimo del totale: «Ma noi neanche volevamo vendere», racconta don Angelo Franco, parroco di Verduno e presidente dell’Ufficio sostentamento del clero; «la Asl offriva poco, fu il vescovo a sentenziare: dateglielo, non si dica che la Chiesa boicotta l’ospedale». Incassarono, novembre ‘98, 122 milioni e 480 mila lire, meno di quanto ottennero in seguito altri proprietari di noccioleti e vigne di Dolcetto acquistati con la carota del fate del bene e il bastone della minaccia di esproprio. In tutto, l’acquisizione dei 300 mila metri quadri è costata 2 milioni 570 mila euro, quasi 4 con Iva e spese: cifra fornita da Ferruccio Bianco, architetto, il rup, responsabile unico del progetto. Bianco diventa rup a fine ‘95. Si indice una gara internazionale: vince lo studio Aymeric Zublena di Parigi, progetto preliminare nel ‘99, esecutivo nel 2004. Ora tocca trovare chi costruisce. E qui è la seconda anomalia: con la motivazione che costerà (Iva esclusa) 114 milioni e la Regione non ne può mettere più di 97, si procede in project financing. Vantaggi? «Nessuno», risponde chiaro lo stesso Bianco, il rup: «in quegli anni tutti si riempivano la bocca col project financing: una bolla, chi l’ha usato per opere similari se n’è pentito. La sua quota del 15 per cento il privato la metterà solo nell’ultima fase dei lavori, poi gestirà i 500 metri quadri di spazi commerciali interni, la manutenzione ordinaria e straordinaria, le forniture di acqua, luce e gas: introito annuo concordato, 7 milioni 280 mila euro più Iva al 22 per cento. Per vent’anni». Vince, settembre 2005, la Mgr Verduno 2005, gruppo Maire Tecnimont. Che appalta i lavori di costruzione a una ati, associazione temporanea, fra l’impresa Matarrese di Bari e, per l’impiantistica, la Olicar di Bra. «Una delle pochissime gare in cui non c’è stato neppure un ricorso», vanta Morabito, il dg della Asl. I guai cominciano l’anno dopo, bonifica e messa in sicurezza della collina. Scavi, e il terreno frana. Ti sposti, e continua a franare. Alla fine l’edificio risulta 200 metri più in alto verso ovest. Perché il terreno regga sono necessari 900 pali in cemento larghi 1,80 metri profondi 30, e una diga in cemento armato lunga 260 metri, larga 7,3 e profonda 6. Una montagna di cemento. Costo dichiarato, 15 milioni di euro, 4 in più del previsto. E in tutto quanto costerà? Dice Bianco: «Fermati i lavori, le richieste del concessionario erano spropositate: 60 milioni in più. Con un accordo bonario, gliene abbiamo riconosciuti 12. Il che porta il costo nudo a 125 milioni». Se aggiungi Iva, acquisizione terreni, spese tecniche e di gare ballano altri 31 milioni. Per un totale di 156 milioni, 29 a carico del concessionario. Ammesso che lo si finisca, poi come ci si arriva al nuovo ospedale? La posizione è infelice. Su un versante collinare esposto a nord dove, con neve e ghiaccio, si sono addirittura immaginati di riscaldare il manto con una serpentina a pannelli solari. Poi «dovranno allargare la provinciale 7 e il ponte sul Tanaro. Raccordarla con la strada statale. Scavalcare l’autostrada Asti-Cuneo che ancora non c’è ma prima o poi faranno. Un rompicapo», descrivono Silvio Veglio e Franco Bartocci, Osservatorio per la tutela del paesaggio di Langhe e Roero che raccoglie una ventina di associazioni. Guardi la carta dei progetti della Provincia ed è tutto un gira e svolta e scavalla. Una variante doveva costare 4 milioni di euro, l’ultima oltre 20. Per 1700 metri. Significa 12 euro al millimetro, roba che neanche il tartufo. Ora pare si torni al tragitto originario, ma di deciso non c’è un fico secco. Coi tempi medi di costruzione, se l’ospedale sarà terminato rischi di poterci arrivare solo in elicottero o su una stradina buona giusto per la camporella. «I primi a sentirci drammaticamente presi in giro siamo noi», attacca Luciano Scalise, direttore della Fondazione Nuovo Ospedale Alba-Bra, nata nel 2008 con un primo contributo di un milione e mezzo di Franco Miroglio del tessile e 100 mila euro a testa degli undici soci fondatori, Oscar Farinetti di Eataly, Bruno Ceretto dei vini, imprenditori e maggiorenti della zona: «Siamo l’unico esempio in Italia di onlus privata che sostiene un ospedale pubblico. Abbiamo raccolto 11,8 milioni e l’obbiettivo è 15. Ne studiamo una più del diavolo, dai punti fedeltà nei supermercati, alle bottiglie della vigna del Camillo Cavour. E ci troviamo una Regione Piemonte e un’impresa costruttrice che non rispettano gli impegni presi». Non sono gli unici a lagnarsi. Settanta medici, tecnici, infermieri e amministrativi (ma in due settimane sono già diventati 470) hanno appena costituito un il movimento Salviamo gli ospedali di Alba e Bra: «Per la spending review e mentre tutti aspettano Verduno», elenca Giovanni Asteggiano, primario di Neurologia, uno dei promotori, «a Bra hanno tolto il punto nascita, chiusi Ostetricia e Pediatria, il Pronto Soccorso è destinato a sparire. Alba ha ridotto le prestazioni e allungato le liste d’attesa. Le attrezzature sono obsolete. Quattro medici specialisti a contratto precario se ne sono già andati via in un mese, e altri dovranno lasciare prima di Natale». Che cosa resterà dei due attuali nosocomi sotto casa? Bruna Sibille, centrosinistra, sindaco di Bra, nega che toccherà salire a Verduno per un esame del sangue: «Analisi, radiografie e lungodegenza resteranno dove sono. Ci stiamo battendo con la Regione per ottenere deroghe alla spending review. Perché la smettano di svuotare servizi essenziali a noi che per la sanità spendiamo 1600 euro a cittadino, 200 in meno della media piemontese. Significa che costiamo 25 milioni di euro l’anno in meno». Sì, però vi costruiamo l’ospedale, insinuano in Regione. Si annuncia un altro annoso tira e molla.
CUNEO MASSONE.
Aldo A. Mola, noto storico della massoneria italiana, ha pubblicato il suo ultimo lavoro, Storia di Cuneo 1700-2000, uno spaccato della storia nazionale dal Diciottesimo al Ventunesimo Secolo: le vicissitudini, i pregi, le caratteristiche, le difficoltà dei vari momenti storici visti da un punto di vista particolare, così la recensione di Angela Pellicciari su “Liberal” . La storia generale analizzata da un'angolatura provinciale ci guadagna: al di là delle parole altisonanti, sono più evidenti e più chiare le concrete esigenze, gli spiccioli interessi, l'opportunismo politico spacciato per dedizione all'interesse generale, delle generazioni che si avvicendano alla guida della cosa pubblica. E il panorama si estende, al di là di Cuneo, alla penisola italiana e, in prospettiva, all'Europa. "Cuneo s'identificò col "vincitore"": Mola descrive così come la città sopravvive ai cataclismi politico-culturali di fine Settecento inizio Ottocento. Il ciclone rivoluzionario giacobino e napoleonico trasforma in carta straccia il patto considerato "indissolubile" fra la città e la casa di Savoia firmato nel lontano 1382. Di botto tutto cambia e la città si lascia semplicemente plasmare dal corso degli eventi: "Nessuna voce si levò in difesa del sovrano fino a poco prima venerato. In pochi mesi interi secoli vennero cancellati, calpestati con disprezzo, additati all'odio e all'esecrazione da notabili, clero e capipopolo". Un'analoga duttilità accompagna il rientro dei Savoia: gli antichi sovrani sono accolti a braccia aperte, la città ci guadagna il passaggio a sede vescovile, il ceto dirigente, mutando pelle, adattandosi e insieme accompagnando la generale evoluzione dall'assolutismo al liberalismo, continua a essere in mano agli stessi ceti sociali; non di rado alle stesse persone. Negli andirivieni dai Savoia alla Francia repubblicana, poi napoleonica, quindi nuovamente sabauda, poi italiana, prezioso collante - Mola lo mette giustamente in evidenza - è la massoneria cui appartengono da tempo i vertici della società cuneese: "Questa "catena" fu depositaria della tutela di interessi generali permanenti del "vecchio Piemonte", che andavano - ritiene lo studioso - oltre i vantaggi dei loro singoli "anelli" e dei loro rispettivi ceti". Mola prosegue: "La confluenza in loggia diluì sino a rendere pressoché innocue le divisioni tra legittimisti e francesizzanti, antichi giacobini e napoleonici, municipalisti e nostalgici della restaurazione sabauda, federalisti e unitari". Le vicende storiche, dalle più tumultuose alle più normali, analizzate nel dettaglio, ben raccontate, sono esposte con un serio tentativo di equanimità. Prova ne sia il giudizio del tutto controcorrente espresso sul conte Clemente Solaro della Margarita, diplomatico cuneese, dileggiato dalla storiografia risorgimentale e progressista. Ministro degli Esteri di Carlo Alberto negli anni della reazione, in realtà Solaro è tanto lungimirante da stabilire - primo nel Regno sardo - legami coi Paesi dell'Oltreoceano: "Solaro guardò oltre lo stesso Mediterraneo e per primo ampliò gli orizzonti del Regno di Sardegna alle coste dell'Africa occidentale e delle Americhe, con speciale attenzione per la meridionale" a conferma - continua Mola - "che non era solo Giuseppe Garibaldi a occuparsi di quant'avveniva nel continente sudamericano, sibbene anche lo statista nativo di Cuneo e dalla storiografia solitamente dipinto, a torto, quale miope reazionario".
LA MAFIA A CUNEO.
I casalesi a Cuneo, scrive Giampaolo Pansa su “L’Espresso”. Trentotto anni fa Sciascia mi spiegò "la teroria della palma" per indicare l'espansione della mafia al Nord. I casalesi del titolo non siamo noi di Casale Monferrato. Sono i gangster camorristi di Casal di Principe. Mentre Cuneo è Cuneo, la città piemontese all'estremo nord-ovest italiano, sul confine con la Francia. Vi stupireste se i casalesi armati di mitragliatori fossero arrivati sin lassù? Io no. Per ora la conquista non è avvenuta, ma prima o poi avverrà. L'ultima inchiesta de 'L'espresso' ci ha spiegato che Gomorra è già partita alla conquista dell'Emilia e del Veneto. Dunque non si vede perché non dovrebbe mettere le mani su Torino, per poi arrivare ancora più a ovest. Tanti anni fa si pensava che la mafia sarebbe rimasta confinata in Sicilia. E che la camorra e la 'ndrangheta non sarebbero uscite dalla Campania e dalla Calabria. Poi ci siamo accorti che non era così. Un italiano che aveva visto tutto per tempo è stato Leonardo Sciascia: grande scrittore e lucido pessimista, capace di guardare lontano. La prima volta che mi capitò d'intervistarlo fu per 'La Stampa' di Alberto Ronchey. Il direttore voleva pubblicare un colloquio con lo scrittore a proposito della mafia. E mi mandò in Sicilia. Era l'ottobre del 1970, trentotto anni fa. Andai a trovare Sciascia a Palermo. Tra le verità che mi offrì, una soprattutto mi colpì per la carica profetica. Lo scrittore mi domandò: "Conosce la teoria della palma?". Ammisi di no. Lui proseguì: "Secondo una teoria geologica, per il riscaldamento del pianeta la linea di crescita delle palme sale verso il nord di un centinaio di metri all'anno. Per questo motivo, fra un certo numero di anni, vedremo nascere le palme anche dove oggi non esistono". Gli chiesi: "Che cosa c'entrano le palme con la mafia?". Sciascia sorrise: "Anche la linea della mafia sale ogni anno. E si dirige verso l'Italia del nord. Tra un po' di anni la vedremo trionfare in posti che oggi sembrano al riparo da qualsiasi rischio. E anche al nord la mafia avrà gli stessi connotati che oggi ha in Sicilia. Qui da noi il mafioso si è mimetizzato dentro i gangli del potere. Una volta in Sicilia c'erano due Stati, adesso non ci sono più. Quello della mafia è entrato dentro l'altro. Un sistema dentro il sistema. Ha vinto il sistema di Cosa Nostra: più rozzo, più spregiudicato, più violento. E vincerà anche al nord". Confesso che, rilette oggi, le parole di Sciascia mi mettono più paura di quando le ascoltai. Cerco un perché e mi rispondo che nel 1970 ero un giornalista giovane, con la metà degli anni di adesso. Ma poi mi dico che l'anzianità degli essere umani non c'entra e non è mai pericolosa. Il pericolo viene dalla vecchiaia delle società e degli Stati che dovrebbero governare la senescenza di un paese. Ogni mattina, i giornali mi portano in casa il ritratto di una repubblica coperta di rughe, impacciata nei movimenti, lenta a reagire di fronte ai rischi che la minacciano. Tra questi rischi c'è la giovinezza sanguinaria del grande crimine organizzato. Noi discutiamo, come a Bisanzio, spaccando il capello in quattro, litigando, dividendoci in fazioni contrapposte, incapaci di trovare una tregua. Loro, invece, sparano e uccidono. Con le pallottole o con la droga. La strage di Castel Volturno rappresenta un passo in avanti dentro questa strategia. Un passo senza precedenti e molto pericoloso. Sono stati uccisi dei neri, forse innocenti o forse coinvolti nello spaccio di droga. E la strage ha prodotto un evento anch'esso senza precedenti: una furiosa marcia di protesta di altri neri, che ha preso di mira i simboli della società bianca che incontravano per strada. La stessa cosa è accaduta a Milano, dopo il corteo di protesta per il ragazzo nero ucciso da due bianchi violenti. La domanda inevitabile riguarda quel che accadrà domani. Tutti ci auguriamo che il governo e le forze dell'ordine riescano a sgominare i killer di Castel Volturno. Ma anche dopo questo possibile successo, non sarà risolto il problema che le due marce dei neri hanno fatto emergere. Un problema assai più pesante dei clandestini stranieri presenti in Italia. Siamo di fronte a italiani nati qui, ma che hanno una pelle diversa dalla nostra. Dobbiamo convivere con loro o combatterli perché stiano al loro posto? La mia risposta è persino banale: dobbiamo convivere, ma nel rispetto della legge che è uguale per tutti. Non sarà facile. La paura di tanti italiani non è un'invenzione, come sostengono in molti a sinistra. E' una paura reale. E purtroppo, come ci insegna la storia, la paura può essere una cattiva consigliera.
COLLAUDI TRUFFA.
Collaudopoli. In morte di un imprenditore ucciso dallo Stato
La storia di Carlo Massone da Alessandria
“Dopo tanti anni, come volevasi dimostrare, in Italia, pur con la ragione, non si riesce a cavare un ragno dal buco, anzi sì è cornuti e mazziati e ti dicono, in aggiunta, subisci e taci”.
«Siamo un paese di truffatori ed evasori fiscali, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Esemplare è la storia di Carlo Massone, un autotrasportatore di Alessandria che da anni combatte una battaglia impari. Comprò, a sua insaputa, un camion inidoneo alla funzione indicata, tratto in inganno dalla documentazione pubblica allegata e per questo, a sua volta, ingiustamente accusato di truffa. Mezzo inidoneo, ma dichiarato idoneo, e per gli effetti bloccato, inibendo l’attività imprenditoriale. Da anni si rivolge alle istituzioni competenti ed ai Parlamentari italiani ed europei con funzioni di vigilanza ed inchiesta. La prima volta che si rivolse a me, chiedendomi aiuto e non avendo potere di intervento, premonendo il futuro, gli dissi che con questa gente e le istituzioni che li coprono non avrebbe cavato un ragno dal buco: “sarai cornuto e mazziato”, gli dissi. A questo danno si è aggiunta la beffa: Equitalia chiede 175mila euro per quella sua stessa attività».
“Preg.mo Presidente Avv. Antonio Giangrande le mando l'interrogazione parlamentare aggiornata con la risposta evasiva del Ministero, in quanto il collaudo avvenuto a Cuneo non era solo scaduto, ma era falso. E ciò lo dico con documenti alla mano. Sia la motorizzazione, che la ASL, ARPA e il CTU del Tribunale di Alessandria hanno dichiarato la declaratoria di non usabilità del camion con gru e piattaforma. A riscontro della risposta mi chiedo come abbia fatto il camion a circolare prima di essere venduto al Carlo Massone con timbri “regolare” senza verifica e poi come si possa addebitare il tutto all’usura successiva del camion gru se ciò non può essere avvenuto in quanto si è imposto il fermo per due anni. Carlo Massone”. Ed ancora. “Preg.mo. Avv. Antonio Giangrande, cortesemente la Imploro. Le Chiedo di postare sul suo BLOG anche questa ennesima interrogazione parlamentare. Così la giro anche ad EQUITALIA,che entro oggi, il 28 febbraio 2014, pretende 175mila euro!! Non mi resta che ammazzarmi!! Grazie. Saluti. Massone Carlo”.
Ecco l’interrogazione alla Camera, Commissione Giustizia, del 26.02.2014, n. 5-02234 dell’On.le Emanuele Fiano (PD).
Interrogazione a risposta in Commissione: FIANO
Al Ministro della giustizia, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
nel 1989 l'autotrasportatore Carlo Massone residente in frazione Crebini 37 – Castelletto d'Orba (Alessandria) acquistò un camion usato tipo Fiat 170/35 B targato AL 359341, ribaltabile su tre lati con gru e piattaforma aerea a due posti, pagandolo oltre 100 milioni;
come da attestazione rilasciata dal concessionario Iveco Plura spa di Ovada (Alessandria), il mezzo in questione risultava regolarmente collaudato in tutte le sue parti, completo di attestazioni rilasciate dalla motorizzazione e dall'Ispesl (Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro) e pertanto pronto per essere utilizzato su strada;
il signor Carlo Massone, prima di utilizzare il mezzo in questione, richiese ed ottenne dalla motorizzazione e dalla USL di Alessandria una verifica preventiva straordinaria che, in seguito, diede esito negativo, e cioè si rivelò che il mezzo presentava una serie di anomalie tecniche e strumentali tali da renderlo inutilizzabile, in totale contrasto con le norme di prevenzione e di sicurezza sul lavoro;
a seguito di ciò, il signor Carlo Massone non solo fu costretto a rinunciare al camion appena acquistato, ma venne altresì indagato – gli fu attribuita la responsabilità di averlo manomesso e modificato – e successivamente assolto, avendo dimostrato di non aver mai impiegato il mezzo per alcun lavoro e di non averlo mai ritirato dalla concessionaria se non il giorno prefissato per la revisione straordinaria;
dai documenti in possesso del signor Massone risulterebbe che la data di emissione della fattura quietanzata rilasciata dalla ditta Iveco Plura spa – 7 settembre 1989 – è in netta e curiosa contraddizione con quella citata nella notifica rilasciata (a richiesta del signor Massone, proprietario del mezzo) dal compartimento della polizia stradale, sezione di Alessandria, secondo cui «Visti gli atti d'ufficio si dichiara che la carta di circolazione relativa all'autocarro targato AL 359341 è gravata dal decreto di sequestro n. 616/88/A emesso dalla Procura della Repubblica presso il tribunale di Bergamo il 14 marzo 1988 e che in ordine alla stessa sono in corso ricerche da parte di questo ufficio al fine di rintracciarla e sequestrarla» (Alessandria, 3 maggio 1990, n. 326, rep. 240 PG);
successivamente, il medesimo compartimento della polizia stradale, sezione di Alessandria, rispondeva alla procura della Repubblica presso la pretura circondariale di Alessandria – in ordine alla denuncia sporta dal signor Massone – «Fa seguito alla denuncia sporta da Massone Carlo, in atti generalizzato, trasmessa con nota prot. n. del 4 maggio 1990 in ordine alla quale si sciolgono parte delle riserve espresse. Si comunica che negli elenchi forniti dalla motorizzazione civile e dei trasporti in concessione di Cuneo, relativi ai collaudi effettuati negli anni 1989-1990 presso la ditta Delia, non c’è traccia di quello afferente al certificato di approvazione rilasciato per l'autocarro targato AL 359341» (Alessandria, 16 giugno 1990, n. 600, rep. 240 PG);
lo stesso Massone Carlo chiedeva e otteneva, successivamente, una relazione tecnica circa la causa Massone-Plura spa in merito all'udienza del 23 marzo 1995 con lo scopo di chiarire i punti elencati nelle «deduzioni istruttorie»; nella conclusioni della relazione si ravvisavano da un lato uno «stato di degrado tecnico» del mezzo e la sussistenza di «una serie di inadempienze contrattuali» definite «elementi sconcertanti»; e dall'altro, si rilevava l'assoluta estraneità del signor Massone all'utilizzo dell'automezzo in oggetto, come sentenziato anche dalla procura di Tortona il 16 settembre 1993;
quanto sopra esposto ha prodotto ripercussioni gravissime alle economie della ditta del signor Carlo Massone, al punto da indurlo – pur di non rimanere senza lavoro e con un mezzo sequestrato ed improduttivo – ad acquistarne altri, con il medesimo triste e scandaloso risultato;
ad oggi il signor Carlo Massone, pur avendo interpellato parlamentari e Ministri ed aver interessato anche la procura della Repubblica di Genova poiché nessuna risposta o indennizzo sono pervenuti dalle autorità di Alessandria e comunque da tutte quelle interessate nella vicenda, è ancora in attesa che si faccia chiarezza e che la sua pratica approdi a giusta conclusione;
da più di dieci anni lo stesso Carlo Massone sta combattendo una battaglia di sensibilizzazione volta a far emergere la verità sul suo personale caso e su fatti di analoga gravità che metterebbero in discussione l'intero apparato preposto alla certificazione di idoneità ad operare dei mezzi industriali coinvolgendo ingegneri e pubblici ufficiali funzionari dello Stato;
il 9 marzo 1999, nella XIII legislatura, il senatore Bornacin presentò in merito una specifica interpellanza parlamentare, la 2-00767, cui però non fu data risposta, e in data 7 marzo 2007 il senatore Martinat ha ripresentato l'interrogazione n. 4-01468 –:
se non si reputi opportuno e doveroso attivarsi con estrema urgenza per fare chiarezza su di una vicenda così delicata e di sconcertante gravità, sollecitando il riesame della pratica e verificando, secondo quanto denunciato, la regolarità delle attestazioni rilasciate dalle autorità competenti in ordine ai collaudi di omologazione dei veicoli industriali al fine di verificare responsabilità ed eventuali comportamenti omissivi da parte di pubblici funzionari;
che cosa intenda fare il Governo per garantire che, in materia di collaudi ed omologazioni di veicoli industriali, venga rispettato scrupolosamente il dettato legislativo e si eviti pertanto che pubblici funzionari rilascino certificati di omologazione e di collaudo su veicoli industriali sulla base di documenti di conformità rilasciati dagli allestitori senza effettuare verifiche tecniche rigorose sui mezzi, come prevede la normativa vigente;
come si spieghi che veicoli industriali certificati e collaudati al momento dell'acquisto risultino poi, ancor prima di essere utilizzati (come in questo caso e grazie soprattutto alla scrupolosità dell'acquirente), non in regola e che vengano avanzati sospetti solo sull'autotrasportatore, anziché considerare anche le responsabilità delle motorizzazioni civili, dell'Ispesl e dei concessionari;
se non si reputi doveroso promuovere una verifica per accertare che i funzionari pubblici deputati alla certificazione di collaudo e di omologazione dei veicoli industriali della motorizzazione civile ed Ispesl procedano attenendosi scrupolosamente a quanto previsto dalla legge in materia e non vengano adottati metodi del tutto estranei alla corretta condotta delle ispezioni. (5-02234)
Dello stesso tenore sono state le interrogazioni dello stesso Fiano al Ministro dei trasporti: Seduta n. 238 dell'8/11/2007 (4-05578).
Anche Aurelio Salvatore Misiti ha fatto la stessa cosa con le interrogazioni in Commissione:
Interrogazione a risposta in Commissione 5-00893 presentata mercoledì 28 gennaio 2009, seduta n. 122;
Interrogazione a risposta scritta 4-02736 presentata giovedì 2 aprile 2009, seduta n. 158
Interrogazione a risposta scritta 4-03144 presentata mercoledì 27 maggio 2009, seduta n.183.
La stessa cosa ha fatto il Gruppo Consiliare Alleanza Nazionale a Torino il 10 marzo 2008.
Ed ancora l’interrogazione scritta al Parlamento europeo dell’On. Mario Borghezio del 18/04/2007 - Emissione di certificati di omologazione falsi da parte delle Motorizzazioni Civili italiane.
Ed ancora l’interrogazione scritta alla Commissione Europea. Interrogazione con richiesta di risposta scritta P-001164/2012 alla Commissione, Articolo 117 del regolamento, dell’on. Oreste Rossi (EFD).
«Dopo tanti anni, come volevasi dimostrare, in Italia, pur con la ragione, non si riesce a cavare un ragno dal buco, anzi sì è cornuti e mazziati e ti dicono, in aggiunta, subisci e taci», chiosa in chiusura Antonio Giangrande.
Collaudopoli: preg.mo Presidente AVV: ANTONIO GIANGRANDE le mando l'interrogazione parlamentare aggiornata con la risposta evasiva del Ministero, in quanto il collaudo avvenuto a Cuneo non era solo scaduto, ma era falso. E ciò lo dico con documenti alla mano. Sia la motorizzazione, che la ASL, ARPA e il CTU del Tribunale di Alessandria hanno dichiarato la declaratoria di non usabilità del camion con gru e piattaforma. A riscontro della risposta mi chiedo come abbia fatto il camion a circolare prima di essere venduto al Carlo Massone con timbri “regolare” senza verifica e poi come si possa addebitare il tutto all’usura successiva del camion gru se ciò non può essere avvenuto in quanto si è imposto il fermo per due anni. Carlo Massone
Atto Camera.
Interrogazione a risposta scritta 4-03144
presentata da AURELIO SALVATORE MISITI mercoledì 27 maggio 2009, seduta n.183
Interrogazione a risposta scritta 4-02736
presentata da AURELIO SALVATORE MISITI giovedì 2 aprile 2009, seduta n. 158
Interrogazione a risposta in Commissione 5-00893
presentata da AURELIO SALVATORE MISITI mercoledì 28 gennaio 2009, seduta n. 122
MISITI. - Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. - Per sapere - premesso che:
l'autotrasportatore Carlo Massone residente a Castelletto d'Orbia (Alessandria) è stato coinvolto in una gravissima vicenda che ha compromesso la sua stabilità economica e quella dell'omonima azienda di trasporti;
tale vicenda ha avuto inizio con l'acquisto di 6 automezzi con gru effettuati in epoche diverse (dal 1983 al 1996), tutti apparentemente pronti per essere utilizzati su strada ma poi risultati con documentazione irregolare a seguito di verifiche disposte dallo stesso Massone;
il caso più famoso e più documentato, già oggetto dell'interrogazione 4-05578 dell'8 novembre 2007 alla Camera dei Deputati e della 4-01468 del 7 marzo 2007 al Senato, è quello che riguarda un veicolo Fiat 170/35B. Tale mezzo all'acquisto risultava regolarmente collaudato in tutte le sue parti, completo di attestazioni rilasciate dalla Motorizzazione e dall'Ispesl (Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro). Successivamente, dopo la richiesta dello stesso sig. Massone per la verifica della veridicità della documentazione, si ebbe esito negativo da parte della Motorizzazione e della Asl di Alessandria. Il mezzo presentò una serie di anomalie tecniche e strumentali tali da renderlo inutilizzabile;
nel procedimento penale riguardante i fatti esposti e nei confronti dello stesso sig. Massone, egli veniva accusato di aver dolosamente manomesso e modificato le caratteristiche tecniche del mezzo. Tale procedimento si è concluso con una sentenza dell'8 giugno 1999 del Tribunale di Alessandria dove la concessionaria Plura, venditrice del veicolo, è stata condannata ad un risarcimento danni pari a circa 100 milioni del vecchio conio;
in molti altri casi, comunque, dopo l'acquisto presso concessionarie e rivenditori, gli autocarri con gru e piattaforma aerea sono risultati tutti con documenti di revisione e collaudo falsi rilasciate dalle Motorizzazioni civili e dall'Ispesl;
aldilà delle ripercussioni della vicenda in ambito giudiziario, da questa esperienza risulta l'esistenza di gravi irregolarità nelle operazioni di collaudo. Questo è solo il caso più eclatante, ad onta delle forti perdite economiche subite dopo queste tristi esperienze che hanno addirittura portato il sig. Massone a minacciare il suicidio su diversi organi di stampa;
è chiaro che se le esperienze del sig. Massone si verificassero in tutto il territorio italiano ci troveremmo di fronte ad un problema grave che non metterebbe in discussione soltanto la stabilità economica delle aziende operanti nel settore dei trasporti, ma anche la sicurezza di tutti i mezzi che circolano sulle strade italiane, con le conseguenze che ne deriverebbero -:
se il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti non ritenga opportuno effettuare delle efficaci indagini presso gli Uffici provinciali del Dipartimento dei Trasporti terrestri al fine di verificare lo svolgimento a norma di legge delle trasformazioni dei veicoli e dei relativi collaudi.(4-03144)
RISPOSTA
Atto Camera.
Risposta scritta pubblicata martedì 21 luglio 2009 nell'allegato B della seduta n. 205
All'Interrogazione 4-03144 presentata da AURELIO SALVATORE MISITI
Risposta. - In riferimento all'interrogazione in esame, si forniscono i seguenti elementi di risposta.
Le procedure adottate dagli uffici periferici del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti per «garantire lo svolgimento a norma di legge delle trasformazioni dei veicoli e dei relativi collaudi, e la veridicità e la conformità delle carte di circolazione rilasciate» sono esposte nel codice della strada (decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, articoli 75 e seguenti), nel regolamento di esecuzione del codice della strada (decreto del Presidente della Repubblica 16 dicembre 1992, n. 495) ed in numerose circolari ministeriali che pongono riferimento ai tanti e diversi tipi di allestimenti. Allorché, come nel caso di specie, trattasi della modifica di un veicolo già immatricolato, elemento univoco delle suddette procedure è la presentazione all'ufficio periferico del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti (di norma quello territorialmente competente per la sede dell'allestitore) di una domanda corredata della carta di circolazione, della descrizione delle modifiche apportate e relativi allegati grafici, delle copie dei certificati attestanti l'origine dei componenti utilizzati per l'allestimento e di eventuale ulteriore documentazione specifica del singolo allestimento. La domanda viene esaminata dall'ufficio che, ove nulla osti, autorizza il collaudo. Nel corso di tale operazione si prende atto della corrispondenza del veicolo a quanto riportato nella documentazione, avuto riguardo alle modifiche. Viene infine compilato il «certificato di approvazione» i cui dati saranno stampati sulla carta di circolazione.
Per quanto consta i fatti riferibili all'interrogazione in esame si riepiloga quanto segue.
Il veicolo Fiat 170 Nc 35B targato AL359341 «nasce» con carrozzeria cassone centine e telone ed è immatricolato il 9 febbraio 1978. Detto autocarro è stato allestito a cura della s.p.a. Plura con cassone ribaltabile trilaterale e gru idraulica e, a richiesta di quest'ultima, in data 11 luglio 1989 è stato sottoposto a visita e prova presso l'ufficio periferico di Cuneo di questo Ministro che ha rilasciato il certificato di approvazione n. 02CN234680 a seguito dell'esito favorevole delle prescritte verifiche.
Nel settembre del 1989 il signor Massone ha acquistato il suddetto autocarro e all'atto della consegna da parte della ditta esecutrice dei lavori egli ha rilevato difetti strutturali e funzionali.
In data 4 marzo 1991, il veicolo è stato sottoposto presso l'Ufficio periferico di Alessandria del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti a visita, prescritta dalla normativa (circolare 1242/4382 del 23 maggio 1980), per la conferma del certificato tecnico rilasciato a Cuneo, scaduto per decorrenza temporale. In tale occasione sono stati rilevati una serie di anomalie attribuibili, per la maggior parte, al periodo di inattività del veicolo (circa 2 anni e mezzo) ed è stato chiesto, pertanto, di integrare la documentazione con nuovo relazione tecnica per la verifica delle mensole del ribaltabile. Integrata la documentazione e rilasciato il nulla osta per la nuova visita al veicolo, gli interessati non hanno più ripresentato il veicolo all'ufficio Motorizzazione civile di Alessandria per la relativa regolarizzazione.
Successivamente, in seguito all'azione risarcitoria intrapresa dal signor Massone nei confronti della s.p.a. Plura commercializzatrice del veicolo, lo stesso ottiene nel 1999 dalla Società una somma a risarcimento dei danni subiti.
Attualmente, non si è a conoscenza se al signor Massone spettino risarcimenti oltre quelli già percepiti, trattandosi di contenziosi avviati nei confronti di ditte operanti nel settore dei veicoli usati.
Nessun adempimento è dovuto dall'ufficio periferico di Alessandria di questo Ministero, né risulta instaurato nei confronti di quest'ultimo alcun contenzioso.
Si specifica che la competenza dei collaudatori degli uffici della motorizzazione di questo Ministero è esclusivamente limitata alla verifica dimensionale e ponderale degli allestimenti in relazione alle masse massime ammissibili a vuoto e a carico sugli assi dei veicoli mentre le operazioni di collaudo e certificazione delle gru idrauliche sono esperite da altro ente. Pertanto le cause della problematica rilevata concernente il signor Massone non sono assolutamente riconducibili sotto alcun profilo e per alcun verso al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.
Il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti: Altero Matteoli.
ALTRE INTERROGAZIONI
Gruppo Consiliare Alleanza Nazionale
Torino, 10 marzo 2008
Al Presidente del Consiglio Regionale del Piemonte
Avv. Davide Gariglio
Sede
INTERROGAZIONE
a risposta orale in Aula, ai sensi dell’articolo 18, comma 4, dello Statuto e dell’articolo 89 del Regolamento interno.
Oggetto: Situazione Ditta Autotrasporti Massone.
Premesso che
· Carlo Massone, 56 anni, autotrasportatore di frazione Crebini, a Castelletto d'Orba dopo oltre 20 anni di processi, ricorsi, interpellanze, proteste eclatanti (nel luglio del 1998 si incatenò davanti al tribunale di Alessandria) si ritrova oggi privato dei mezzi di lavoro posti sotto sequestro senza apparente motivo dall’ autorità giudiziaria.
Considerato che
· La vicenda iniziò nel 1983 quando Massone acquistò un camion con gru, cestello e piattaforma aerea per un valore di 200 milioni di lire. All'apparenza i mezzi erano in regola perché forniti di documentazione delle varie Motorizzazioni competenti.
Constatato che
· Massone denunciò la concessionaria di Ovada che gli aveva venduto il camion, quindi comprò altri mezzi, con il medesimo scandaloso risultato Il lunghissimo iter giudiziario si è concluso nel ‘99 con un'archiviazione e un risarcimento di appena 100 milioni di lire molto poco in confronto al mezzo miliardo di vecchie lire che il Massone ha dovuto spendere per pagare i mezzi e le spese giudiziarie, senza contare gli introiti mancati per il lavoro non svolto,
I sottoscritti Consiglieri Interrogano Il Presidente della Giunta Regionale e gli Assessori competenti per conoscere:
- Quali provvedimenti è in potere la Regione Piemonte di attuare per risolvere questa disastrosa situazione;
- Come intende agire la Regione Piemonte per perseguire tale obbiettivo.
Marco Botta (PRIMO FIRMATARIO), William Casoni, Roberto Boniperti, Agostino Ghiglia, Gian Luca Vignale
Allegato B Seduta n. 238 dell'8/11/2007 : TRASPORTI
FIANO. - Al Ministro dei trasporti. - Per sapere - premesso che:
nel 1989 l'autotrasportatore Carlo Massone residente in Frazione Crebini 37 - Castelletto d'Orba (Alessandria) acquistò un camion usato tipo Fiat 170/35 B targato AL 359341, ribaltabile su tre lati con gru e piattaforma aerea a due posti, pagandolo oltre 100 milioni;
come da attestazione rilasciata dal concessionario Iveco Plura spa di Ovada (Alessandria), il mezzo in questione risultava regolarmente collaudato in tutte le sue parti, completo di attestazioni rilasciate dalla motorizzazione e dall'Ispesl (Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro) e pertanto pronto per essere utilizzato su strada;
il signor Carlo Massone, prima di utilizzare il mezzo in questione, richiese ed ottenne dalla motorizzazione e dalla USL di Alessandria una verifica preventiva straordinaria che, in seguito, diede esito negativo, e cioè si rivelò che il mezzo presentava una serie di anomalie tecniche e strumentali tali da renderlo inutilizzabile, in totale contrasto con le norme di prevenzione e di sicurezza sul lavoro;
a seguito di ciò, il signor Carlo Massone non solo fu costretto a rinunciare al camion appena acquistato, ma venne altresì indagato - gli fu attribuita la responsabilità di averlo manomesso e modificato - e successivamente assolto, avendo dimostrato di non aver mai impiegato il mezzo per alcun lavoro e di non averlo mai ritirato dalla concessionaria se non il giorno prefissato per la revisione straordinaria;
dai documenti in possesso del signor Massone risulterebbe che la data di emissione della fattura quietanzata rilasciata dalla ditta Iveco Plura S.p.A. - 7 settembre 1989 - è in netta e curiosa contraddizione con quella citata nella notifica rilasciata (a richiesta del signor Massone, proprietario del mezzo) dal Compartimento della Polizia stradale, sezione di Alessandria, secondo cui «Visti gli atti d'ufficio si dichiara che la carta di circolazione relativa all'autocarro targato AL 359341 è gravata dal decreto di sequestro n. 616/88/A emesso dalla Procura della Repubblica presso il tribunale di Bergamo il 14 marzo 1988 e che in ordine alla stessa sono in corso ricerche da parte di questo ufficio al fine di rintracciarla e sequestrarla» (Alessandria, 3 maggio 1990, n. 326, rep. 240 PG);
successivamente, il medesimo Compartimento della Polizia stradale, sezione di Alessandria, rispondeva alla Procura della Repubblica presso la Pretura circondariale di Alessandria - in ordine alla denuncia sporta dal signor Massone - «Fa seguito alla denuncia sporta da Massone Carlo, in atti generalizzato, trasmessa con nota prot. n. del 4 maggio 1990 in ordine alla quale si sciolgono parte delle riserve espresse. Si comunica che negli elenchi forniti dalla motorizzazione civile e dei trasporti in concessione di Cuneo, relativi ai collaudi effettuati negli anni 1989-1990 presso la ditta Delia, non c'è traccia di quello afferente al certificato di approvazione rilasciato per l'autocarro targato AL 359341» (Alessandria, 16 giugno 1990, n. 600, rep. 240 PG);
quanto sopra esposto ha prodotto ripercussioni gravissime alle economie della ditta del signor Carlo Massone, al punto da indurlo - pur di non rimanere senza lavoro e con un mezzo sequestrato ed improduttivo - ad acquistarne altri, con il medesimo triste e scandaloso risultato;
ad oggi il signor Carlo Massone, pur avendo interpellato parlamentari e Ministri ed aver interessato anche la Procura della Repubblica di Genova poiché nessuna risposta o indennizzo sono pervenuti dalle autorità di Alessandria e comunque da tutte quelle interessate nella vicenda, è ancora in attesa che si faccia chiarezza e che la sua pratica approdi a giusta conclusione;
da più di dieci anni lo stesso Carlo Massone sta combattendo una battaglia di sensibilizzazione volta a far emergere la verità sul suo personale caso e su fatti di analoga gravità che metterebbero in discussione l'intero apparato preposto alla certificazione di idoneità ad operare dei mezzi industriali coinvolgendo ingegneri e pubblici ufficiali funzionari dello Stato;
il 9 marzo 1999, nella XIII Legislatura, il senatore Bornacin presentò in merito una specifica interpellanza parlamentare, la 2-00767, cui però non fu data risposta, e in data 7 marzo 2007 il senatore Martinat ha ripresentato l'interrogazione n. 4-01468 -:
se non si reputi opportuno e doveroso attivarsi con estrema urgenza per fare chiarezza su di una vicenda così delicata e di sconcertante gravità, sollecitando il riesame della pratica e verificando, secondo quanto denunciato, la regolarità delle attestazioni rilasciate dalle autorità competenti in ordine ai collaudi di omologazione dei veicoli industriali al fine di definire responsabilità ed eventuali comportamenti omissivi da parte di pubblici funzionari;
che cosa intenda fare il Governo per garantire che, in materia di collaudi ed omologazioni di veicoli industriali, venga rispettato scrupolosamente il dettato legislativo e si eviti pertanto che pubblici funzionari rilascino certificati di omologazione e di collaudo su veicoli industriali sulla base di documenti di conformità rilasciati dagli allestitori senza effettuare verifiche tecniche rigorose sui mezzi, come prevede la normativa vigente;
se non si reputi di altrettanto sconcertante gravità che veicoli industriali certificati e collaudati al momento dell'acquisto risultino poi, ancor prima di essere utilizzati (come in questo caso e grazie soprattutto alla scrupolosità dell'acquirente), non in regola e vengano avanzati sospetti solo sull'autotrasportatore anziché considerare anche le responsabilità delle Motorizzazioni civili, dell'Ispesl e dei concessionari;
se non si reputi doveroso promuovere una verifica per accertare che i funzionari pubblici deputati alla certificazione di collaudo e di omologazione dei veicoli industriali della Motorizzazione civile ed Ispesl procedano attenendosi scrupolosamente a quanto previsto dalla legge in materia e non vengano adottati metodi del tutto estranei alla corretta condotta delle ispezioni. (4-05578)
INTERROGAZIONE SCRITTA AL PARLAMENTO EUROPEO
ON. MARIO BORGHEZIO
18/04/2007 - Emissione di certificati di omologazione falsi da parte delle Motorizzazioni Civili italiane.
Premesso che:
Nel 1983 il Sig. Carlo Massone, autotrasportatore indipendente di Castelletto d'Orba (AL), acquistò, presso una concessionaria di Ovada (AL), vari automezzi tra cui un camion con gru, cestello e piattaforma aerea per un valore di 200 milioni di lire.
Gli autoveicoli erano apparentemente in regola essendo forniti di documentazione delle varie Motorizzazioni competenti.
Ad un successivo controllo, la documentazione d'abilitazione tecnica risultò falsa causando il divieto di utilizzare gli autoveicoli in questione e provocando in tal modo un enorme danno all'attività del Sig. Carlo Massone, il quale iniziò un lunghissimo iter giudiziario che ebbe fine solo nel 1999 con l'archiviazione ed un risarcimento parziale di 100 milioni.
La Commissione è a conoscenza della diffusione presso molte Motorizzazioni Civili italiane di pratiche illegali, come l'emissione di certificati di omologazione falsi?
Non ritiene di intervenire per porre fine a questa "collaudopoli" che vede come vittime principali i piccoli autotrasportatori indipendenti?
Non ritiene che la vicenda del Sig. Massone ed il diniego sostanziale di giustizia siano indegne e contrarie ai principi fondamentali dello Stato di diritto, sui quali si basa l'Unione Europea?
PARLIAMO DI NOVARA
BUROCRAZIA DA STRAPAZZO.
Cantiere fermo otto ore: sommerso dai controlli l'imprenditore anti Coop. No, nessuna chiusura per protesta in stile Dolce e Gabbana, scrive Corinna De Cesare su “Il Corriere della Sera”. Ma un «blitz» di Inail, Asl, direzione provinciale del lavoro, Inps, carabinieri, polizia, Guardia di Finanza e Guardia forestale per controllare la regolarità di un cantiere, è sembrato a Bernardo Caprotti senza dubbio esagerato. Tanto più che a Novara in corso Vercelli, dove a fine 2012 sono iniziati i lavori per un nuovo superstore, ci lavorano 30 persone e i controllori arrivati a giugno, di prima mattina, erano in 20. I tempi dei libri denuncia sono lontani ma il fondatore di Esselunga, 88 anni, continua a essere combattivo. A La Spezia, per dire, si è dato da fare vent'anni tra ricorsi e controricorsi riuscendo alla fine ad aprire l'unico negozio Esselunga in una zona dominata dall'eterno rivale Coop. I cavilli e la burocrazia insomma sono il pane quotidiano per uno che ha creato un impero della Grande distribuzione con più di 20 mila dipendenti e 6,8 miliardi di giro d'affari. Eppure questa volta, assicura chi lavora con Caprotti tutti i giorni, la storia dell'ispezione a Novara «non gli è andata proprio giù. Otto ore con polizia, carabinieri e Guardia di Finanza a controllare che nessun lavoratore scappasse via, per poi redigere 75 pagine di verbale per un badge lasciato a casa». Proprio così. «Il 26 giugno - la ricostruzione dell'Esselunga - alle 9 del mattino si presentavano all'ingresso del cantiere funzionari e agenti per una visita ispettiva. Dalle 9 alle 17 ogni singolo addetto ha dedicato ai funzionari circa due ore della sua giornata lavorativa. E al termine della visita sono stati prodotti 10 verbali per un totale di 75 pagine. A settembre - fanno sapere dalla catena della Grande distribuzione - sapremo che sanzioni pagheremo, ma le osservazioni emerse sono state di un cantiere regolare e in ordine, con la sola eccezione della mancanza dell'esposizione del cartellino identificativo da parte di poche unità del personale presente sul posto». Qualche lavoratore lo aveva dimenticato a casa, qualcun altro lo aveva ma senza specifiche indicazioni previste per legge. Irregolarità che i funzionari hanno contestato alle ditte che hanno in appalto il nuovo supermercato di Novara di settemila metri quadrati. «Ma i funzionari fanno il loro mestiere - precisano da Esselunga - è tutto il resto che non torna». Cioè? «Basta dire questo: l'idea di un superstore a Novara ci viene proposta nel 1999. Da lì in avanti abbiamo fatto partire tutti gli iter e le procedure burocratiche: nel 2004 abbiamo chiesto le autorizzazioni ambientali per l'argine che si sono concluse solo nel 2011. Nel 2006 otteniamo le autorizzazioni commerciali, nel marzo del 2011 chiediamo il permesso di costruire che ci viene rilasciato a fine luglio 2012. A novembre iniziamo i lavori e a giugno il blitz». Un'umiliazione l'avrebbe addirittura definita Caprotti. Ancora di più, aggiungono dal gruppo della Gdo «se si considerano i complimenti fatti per la gestione e la regolarità del cantiere». Parole, queste, che trovano conferma anche da ambienti del servizio ispezione lavoro della direzione territoriale di Novara. «Nessuno contesta i controlli che ci devono essere, ma non ci stupiamo del perché in Italia le aziende non riescono a resistere in questo periodo di crisi» spiegano da Esselunga. Un eccesso di vittimismo? «No, solo il racconto di quello che succede sempre quando una grande realtà imprenditoriale italiana ha piani di sviluppo, apre cantieri e spende soldi per investire».
Blitz a Novara dove il patron dell'Esselunga aspetta da anni di aprire un superstore. Impegnate venti persone, irregolarità zero, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. E facciamoli lavorare, questi dipendenti pubblici, non sia mai che qualche politico s'inventi che gli statali stanno inchiodati alla scrivania tra le scartoffie. Che si muovano, vadano in giro, che i loro capi li sguinzaglino nei cantieri, quei rarissimi cantieri edili aperti da chi ha ancora il fegato di investire in quest'Italia dei divieti, della burocrazia, delle invidie. Che facciano i loro controlli al meglio: tra un po' arriveranno all'inimmaginabile, un ispettore per ogni lavoratore, come sognano i nostalgici dei totalitarismi e gli ideologi del controllo statalista su ciò che si muove nel mondo. L'Esselunga è un'azienda che conosce bene la burocrazia italiana. Dall'alto dei suoi 88 anni, moltissimi dei quali passati al vertice dell'azienda della grande distribuzione da lui fondata e fatta crescere fino a raggiungere gli attuali 20mila dipendenti e 6,8 miliardi di euro di giro d'affari annuale con oltre 150 punti vendita, Bernardo Caprotti sa perfettamente quanto tempo, quanti soldi, quante energie vanno spesi per aprire un supermercato. Quanti ostacoli da superare, a volte posti dagli uffici pubblici, altre volte piazzati dalla concorrenza, come ha raccontato nel best-seller Falce e carrello. Per Esselunga, il suo management e i suoi consulenti, l'ultimo sforzo di pazienza quasi sovrumana è stato l'attesa durata otto anni per i permessi necessari a iniziare la costruzione di un nuovo superstore (7.000 metri quadrati) a Novara, in corso Vercelli. I lavori sono cominciati il 19 novembre 2012; il taglio del nastro è previsto entro il 2014. Aprire il cantiere di un supermercato nell'Italia di oggi è una sfida e un gesto di fiducia: si investe, si crea lavoro, si prevede un rilancio dei consumi, si guarda al futuro con la certezza che le cose cambieranno. Ed ecco, alle 9 del mattino del 26 giugno 2013, si materializza il Grande Fratello del Controllo Supremo. Lo schieramento di forze fa presumere sospetti di ogni nefandezza sul cantiere: quattro funzionari Inail, due dell'Azienda sanitaria locale, altrettanti della Direzione provinciale del Lavoro, altri due dell'Inps, una coppia di carabinieri, un'altra di poliziotti, tre finanzieri e tre guardie forestali. Totale 20 ispettori per passare ai raggi «X» i 30 lavoratori all'opera nel cantiere edile. Il controllo è durato 8 ore, dalle 9 alle 17, l'intera giornata lavorativa. «Ogni singolo addetto - informa una nota di Esselunga - ha dedicato ai funzionari circa 2 ore; al termine della visita sono stati prodotti 10 verbali per un totale di 75 pagine». E le irregolarità? Lo sfruttamento? Il lavoro in nero? La violazione delle norme sulla sicurezza, sanitarie, assicurative il cui sospetto ha mobilitato 20 funzionari di otto diversi uffici pubblici? «Le osservazioni emerse - fa sapere l'azienda - sono state di un cantiere regolare e in ordine». Un solo problema con qualche cartellino identificativo: alcuni dipendenti l'avevano dimenticato a casa, altre tessere erano prive di talune indicazioni di legge. La giornata di lavoro di 20 dipendenti pubblici, tra cui 10 membri delle forze dell'ordine sottratti ad altri compiti di pubblica sicurezza forse più urgenti: tutto questo per scoprire minime irregolarità nei badge contestate alle ditte che hanno in appalto la costruzione del superstore. Pare addirittura che alcuni ispettori si siano complimentati per la gestione e la regolarità del cantiere. I funzionari fanno il loro mestiere: obbediscono agli ordini. I controlli vanno fatti. È il resto che non quadra. Del supermercato a Novara si cominciò a parlare nel 1999; nel 2004 furono chieste le autorizzazioni ambientali, nel 2006 arrivarono quelle commerciali mentre il permesso di costruire viene rilasciato nel luglio 2012. Quando c'è da strizzare l'imprenditore, la burocrazia scatta come un centometrista e se ne va lasciandosi dietro qualche multa. Se invece c'è da favorire nuovi posti di lavoro, il tempo si ferma. E anche l'uscita dalla crisi.
LA MAFIA A NOVARA.
La mafia, in Italia, ha tre capitali, una per area geografica: Reggio Calabria al sud, Latina al centro e Novara al Nord. Può far rizzare i capelli sulla testa, ma è questo il dato, inconfutabile perché numerico, che emerge dalla ricerca "Mafia Index", un vero e proprio indice della penetrazione della mafia in Italia citato durante il convegno sull'edilizia organizzato dalla Filca Cisl. Mafia Index è uno studio realizzato da Francesco Calderoni, ricercatore del centro Transcrime dell'Università Cattolica di Milano, che stila una classifica delle province italiane a secondo della densità di penetrazione della criminalità organizzata. [...]
«Se nel Novarese vanno a fuoco mezzi di cantiere, veicoli e locali pubblici vuol dire che c’è la mafia».
Nando Dalla Chiesa a Galliate ha documentato l’insediamento della ‘ndrangheta al nord, scrive Polo Viviani su “Il Corriere di Novara”. «Gli incendi sono indicatori straordinari ed efficaci sulla presenza mafiosa. Se qui in zona avete avuto incendi di auto, veicoli, mezzi di lavoro e di cantiere, furgoni di “paninari”, bar, ristoranti e locali, vuol dire che c’è la mafia. E non fatevi ingannare: se a volte tali tipi di incendi non sembrano dolosi, o non si hanno prove evidenti che lo siano, in realtà sono veri attentati: è stato accertato che i mafiosi scatenano anche roghi apparentemente “naturali”... ma chi deve capire capisce». Così Nando Dalla Chiesa sabato scorso a Galliate, in un incontro che è anche il titolo del suo ultimo libro scritto insieme a Martina Panzarasa ed edito da Einaudi, ovvero “La ‘ndrangheta al Nord”, riferito al caso emblematico di Buccinasco, piccolo centro alla periferia sud ovest di Milano trasformato fra gli anni ’80 e il 2000 in una specie di succursale di Platì, una delle capitali della ‘ndrangheta. Un contesto che ha visto episodi, fatti, avvenimenti - tutti ricostruiti nel dettaglio da Dalla Chiesa e Panzarasa, documentati con sentenze passate in giudicato - che sembra per alcuni aspetti proprio riproporsi oggi, come genesi, in zone limitrofe, Novarese compreso. A partire ad esempio proprio dagli incendi, e ancora dai traffici illeciti dei rifiuti, dalle problematiche legate al movimento terra, fino all’omicidio Marcoli, pur non legato espressamente - stando alle prime sentenze - al fenomeno mafioso ma molto vicino ai suoi metodi. Sorprendente e alquanto incauto, in tale specifico contesto, è apparso il sindaco di Galliate Davide Ferrari nel suo saluto iniziale, prima di lasciare la sala per la presentazione di un altro libro, quando ha sostenuto che «qui per fortuna non ci sono grosse infiltrazioni… ma è comunque meglio tenere alta la guardia». Appunto: se avesse letto il libro e avesse poi ascoltato i relatori forse non si sarebbe mostrato così tranquillo e tranquillizzante, fermo restando ovviamente, a sua “difesa”, che le parole di Dalla Chiesa (e gli atti giudiziari) non sono comunque il vangelo. Ha introdotto l’incontro nella sala Manfredda, anche a nome delle varie associazioni promotrici, Lorenzo Rebecchi, sottolineando la validità delle tesi dei relatori, basate appunto «su sentenze definitive, con nomi e cognomi dei protagonisti». Una lunga e tragica storia di ‘ndrangheta, supportata anche dalla testimonianze di uno dei più importanti (e rari) pentiti, Saverio Morabito: ovvero come Buccinasco… è diventata Platì, noto centro sull’Aspromonte. Quattro case sparse alla porte di Milano - ha spiegato Panzarasa - cresciute sotto tutti i punti di vista grazie all’arrivo dei calabresi (i primi al cosiddetto “confino”), che impararono il “mestiere” dai siciliani di Cosa nostra già insediati in centri limitrofi. Prima i sequestri di persona, lasciati perché fruttavano poco ed erano rischiosi, anche se servivano a rafforzare i rapporti con le famiglie di origine a Platì (dove spesso i rapiti venivano trasferiti); poi i traffici di droga, dalla poca eroina alla tantissima cocaina, con Buccinasco crocevia di tutto il Norditalia. Nel 1993 i primi importanti arresti, e contestualmente una ulteriore svolta: i profitti investiti in bar, ristoranti, locali vari e immobili, che diventavano importanti punti di osservazione per il controllo del territorio. Parallelamente il business del movimento terra, del traffico dei rifiuti, degli appalti. Con gli imprenditori “nostrani” che in parte se ne andavano a lavorare in altre zone più tranquille e immuni, in parte interloquivano e in qualche modo collaboravano con le cosche, e in parte erano del tutto collusi. Dalla Chiesa (docente universitario, ex parlamentare, figlio del generale Carlo Alberto ucciso dalla mafia): «Il problema iniziale non è stato tanto il “confino”: non c’è più da decenni, e comunque il mafioso va dove ha convenienza, dove trova terreno fertile. La forza della mafia sta fuori dalla mafia: la storia di Buccinasco è una storia di corruzione continua. "Loro“" hanno trovato tanta gente disposta a fare quello che non doveva fare. Il punto è: quanti sono i corruttibili davanti a me, e non quanti soldi ho io per corromperli. “Loro” sono diventati forti perché qualcuno ha consentito loro quello che non doveva essere consentito». Poi l’affondo di Dalla Chiesa:«I bimbi sapevano che a Buccinasco c’era la mafia perché a scuola vedevano che alcuni di loro, i figli dei boss, erano “rispettati” e trattati con deferenza… i bimbi sapevano quello che i politici e le istituzioni non sapevano o dicevano di non sapere. Sindaci, perfino prefetti, negavano: come si fa a dire che non sapevano? Forse perché il mafioso non si vede? E invece sì che si vede: il terrorista non si fa vedere, il mafioso sì. L’imprenditore sa benissimo chi mette le bombe nei suoi cantieri». Perché negare la presenza della mafia qui al Nord? «Per una sorta di difesa etnica, per la difesa dell’”immagine”. E per complicità». Una cosa fa arrabbiare Dalla Chiesa: «Conosco brava gente, vittima delle cosche, che è stata costretta ad andarsene da Buccinasco. E alcune amministrazioni comunali hanno querelato me perché ho scritto che a Buccinasco che la ‘ndrangheta!». Hanno concluso Roberto Leggero per l’associazione La Torre-Mattarella e Domenico Rossi referente di Libera: «Nel Novarese queste tematiche sono state letteralmente sdoganate nel 2010 con l’omicidio Marcoli. Prima ci si sorrideva su, ci vedevano come degli sprovveduti boy scout...».
PARLIAMO DI VERCELLI
VERCELLI E LA MASSONERIA.
Una sceneggiata "unitaria", tutti insieme ad applaudire per ricompattare la Lega, scrive Vera Schiavazzi su “La Repubblica”. Poi le dimissioni di un consigliere, e le accuse a sei componenti del Consiglio comunale di appartenere alla massoneria. E' un bilancio non da poco, per l' ultimo giorno di polemiche nella storia vercellese che ha spaccato in due il partito di Bossi. Nel giugno scorso, il Carroccio aveva eletto a sindaco Mietta Baracchi Bavagnoli. Ma prima ancora delle vacanze estive il nuovo governo della città, formato interamente da leghisti con l' eccezione dell' assessore liberale al Bilancio, si era rivelato fragile. Il primo a dare le dimissioni era stato il segretario cittadino Piermario Viale. Subito dopo, le polemiche di un' opposizione che si basa sul patto di ferro tra Rifondazione comunista, Pattisti di Mario Segni e Rete aveva spinto alle dimissioni anche l' assessore ai Lavori pubblici Mario Olmo, messo sotto accusa per aver confermato l' appalto per lo smaltimento dei rifiuti a due ditte, la "Celtica Ambiente" e la "Termomeccanica", già inquisite per lo scandalo dell' inceneritore che ha travolto e fatto arrestare molti degli amministratori precedenti. Olmo aveva trovato offensive le insinuazioni di "continuità" portate avanti dall' opposizione, e aveva lasciato la giunta. Subito dopo l' estate, però, la polemica è arrivata fino al cuore del Carroccio. A contrapporsi sono il nuovo "partito degli amministratori" e la vecchia ala dei "leghisti della prima ora". Un mese fa, ben sette dei ventiquattro consiglieri bossiani hanno disertato il voto sulle aree industriali per protestare contro la gestione del loro sindaco. Ieri, invece, tutti e 24 si sono alzati in piedi ad applaudire Mietta Baracchi Bavagnoli sotto gli occhi di Anna Corda, l' altra first lady della Lega vercellese, appena nominata commissario. Dopo l' intervento del sindaco, però, Carlo Boggio, consigliere ex dc, poi passato alla Rete ed ora eletto come unico rappresentante di una lista civica "Per Vercelli", ha chiesto di poter parlare, e ha a lungo battibeccato col sindaco senza riuscire ad ottenere la parola. Boggio ha infine rassegnato le dimissioni per protesta: nei giorni scorsi era stato querelato dal procuratore di Vercelli, il giudice Luciano Scalia, per aver indirizzato ai giornali locali una lettera di plauso al provvedimento disciplinare contro il magistrato preso dal ministro della Giustizia Conso. "Se non ho neppure il diritto di dubitare che veramente alla procura di Vercelli vengano insabbiate le inchieste sugli scandali, allora è inutile che io continui a sedere in quest' aula", ha detto Boggio prima di andarsene. Nel frattempo, un altro consigliere di opposizione, il "pattista" Francesco Radaelli, ha chiesto invano di poter distribuire a tutti i consiglieri un plico di fotocopie che documenterebbero i rapporti con la massoneria del sindaco, di due assessori, di un consigliere comunale, di un dirigente e di un deputato del Carroccio vercellese. La stessa Baracchi Bavagnoli, prima del voto, aveva ammesso di essersi "interessata della massoneria". Un altro veleno entra così nel palazzo comunale di Vercelli. Da Torino, il leader piemontese Gipo Farassino protesta: "Qualcuno pesca nel torbido, si è fatto delle naturali frizioni all' interno della Lega una polemica che non esiste. Ci vuole polso fermo e il commissario Anna Corda è la persona giusta". Intanto però le telefonate preoccupate di Bossi continuano a piovere sia nella sede leghista di Torino sia in quella provinciale di Vercelli.
LA STORIA OSCURA. Presenze massoniche vercellesi fra Settecento ed Ottocento, scrive Rosaldo Ordano. Studiare la massoneria del secolo XVIII e del principio del sec. XIX è estremamente difficile, sia per la scarsità delle fonti documentarie, sia per la loro interpretazione. Il prof. Terenzio Sarasso, primo direttore del Bollettino Storico Vercellese, è stato anche il primo a studiare la storia della massoneria vercellese (si veda: La Libera Muratoria vercellese del '700, in "Bollettino Storico Vercellese", 1977, n. 9). Alla sua compianta memoria è dedicato questo scritto. Nel Vercellese la libera muratoria si è diffusa molto tardivamente. Nello Stato Sabaudo la prima loggia massonica fu istituita nel 1749 a Chambery con il titolo Saint Jean des trois Mortiers dal marchese Joseph François Noyel de Bellegarde, gentiluomo di camera di Carlo Emanuele III. Almeno dieci anni prima questo signore era stato iniziato alla massoneria in Inghilterra e dalla Gran Loggia di Londra aveva ricevuto la patente che lo autorizzava ad aprire logge in Savoia ed in Piemonte. Solo nel dicembre del 1765 dalla loggia di Chambery venne formata a Torino la celebre loggia Saint Jean de la Mystérieuse, che nel Settecento fu la più importante del Piemonte; per la verità però questa loggia fu cronologicamente preceduta dalla loggia castrense Saint Jean de la Constante Amitié del Savoia Fanteria di stanza a Casale Monferrato, che era stata insediata all'inizio dello stesso anno. Non si ha notizia che nel secolo XVIII siano state istituite logge massoniche a Vercelli. Alcuni vercellesi però parteciparono all'attività di logge piemontesi, e, per quel poco che ci è dato sapere, erano ufficiali dell'esercito sardo appartenenti a famiglie nobili, fra le più in vista. Troviamo due membri della famiglia Avogadro di Quinto iscritti nel 1771 nella loggia torinese Saint Jean de la Mystérieuse. Facevano parte della stessa loggia Michele Benso di Cavour, avo di Camillo, e Gaetano Pugnani, primo violino della cappella del re, uno dei violinisti più ammirati d'Europa e maestro del famoso violinista vercellese Giovan Battista Viotti. Anche il Viotti, seguendo il suo maestro, divenne massone. Intanto Casale Monferrato era diventata il centro massonico più importante del Piemonte. Nel 1789 vi era attiva, oltre alla loggia militare Saint Jean de la Constance Amitié del Reggimento Savoia Fanteria, la loggia di adozione (ossia femminile) la Parfaite Harmonie patentata il 4 maggio dello stesso anno dai Trois Mortiers; poi nell'aprile 1790 venne fondata la loggia Saint Jean de la Candeur, che, almeno formalmente, apparteneva alla tradizione massonica inglese, essendo stata costituita in forza delle patenti del 15 aprile dello stesso anno, rilasciate dalla Grande Maîtresse Loge des trois Mortiers di Chambery (du vrai regime anglais), la quale dal 1752 era divenuta gran loggia (le grandi logge hanno facoltà di istituire logge nel territorio in cui esercitano la giurisdizione massonica, e nella fattispecie la Gran Loggia di Chambery affermava di avere giurisdizione su tutto lo Stato Sabaudo). Nella loggia di Casale La Candeur troviamo i vercellesi Gioachino Avogadro di Quinto, capitano del Savoia Cavalleria, il conte Giuseppe Alciati e Francesco Arborio Mercurino di Gattinara. Sarebbe interessante capire quali fossero i veri rapporti fra la massoneria e lo Stato Sabaudo. Sicuramente il re sapeva, approvava e taceva. Erano massoni molti patrizi che frequentavano assiduamente la sua corte e molti fedelissimi ufficiali dell'esercito; nel 1773 la Gran Loggia di Londra concesse al conte Gabriele Asinari di Bernezzo, che era maestro di palazzo del re, il titolo di gran maestro provinciale per il Piemonte. Per quanto poi riguarda le varie condanne papali inflitte alla massoneria (fu scomunicata la prima volta da Clemente XII nel 1738), pare che nessuno se ne curasse, considerando che non erano rare le presenze di sacerdoti in loggia. Soltanto quando gli eventi derivanti dalla Rivoluzione Francese incominciarono ad incalzare paurosamente, Vittorio Amedeo III, temendo che nelle logge si coltivassero troppo le idee di libertà, proibì la massoneria con editto del 20 maggio 1794 e in effetti, alla fine di quell’anno, nel suo Stato almeno ufficialmente non esisteva più nessuna loggia attiva. Contrariamente a quanto avveniva in Piemonte, in Francia la Libera Muratoria era rigogliosissima prima e dopo la Rivoluzione a tutti i livelli sociali; Napoleone stesso ne favorì la diffusione. Quando i Francesi s'insediarono in Piemonte non mancarono di dare un forte impulso al suo sviluppo. Bisogna però osservare che durante gli anni della Rivoluzione francese la massoneria settecentesca si era profondamente e rapidamente trasformata; quella che apparve nei primi anni dell'Ottocento infatti era molto diversa. La prima raccoglieva soprattutto aristocratici e dalla seconda metà del secolo era impegnata prevalentemente in ricerche spiritualiste, esoteriche ed occultistiche, e il più delle volte deviava dalla sua legge istituzionale, cioè dagli "Antichi Doveri" del 1723; la seconda invece, culturalmente erede dell'Illuminismo, raccoglieva soprattutto borghesi ed oltre a praticare più vivamente la filantropia era interessata in modo speciale ai problemi che riguardavano la formazione morale dell'uomo e i suoi rapporti con la società. Passato il Piemonte nello stato francese, nel 1806-1807 venne riattivata a Casale la loggia La Candeur (patentata dal Gr. Oriente di Francia il 26 febbraio 1807), nella quale, oltre a vecchi esponenti dell'aristocrazia monferrina, ora figuravano anche molti borghesi, fra cui il vercellese Paolo Cassinis, direttore delle Poste. A Vercelli la prima loggia massonica fu ufficialmente aperta il 28 giugno 1810, anche se in realtà esisteva già da qualche tempo. Il giorno dopo diede notizia dell'avvenimento il Journal de Verceil in un breve articolo posto bene in evidenza in testa alla prima colonna della prima pagina. L'inaugurazione della loggia vercellese dovette essere un fatto importante nel mondo massonico, se è vero che cette circonstance avait attiré un assez grand nombre d'étrangers. Che questa loggia fosse veramente la prima che ebbe Vercelli pare trovare conferma nello stesso articolo, che esordisce affermando: Une Société très-répandue sur la surface de l'Empire, mais nouvelle pour cette ville, y a été installée hier. Vi è poi nell'articolista la preoccupazione di spiegare che le persone poco o male istruite possono farsi una falsa idea di una loggia, "che invece dagli spiriti saggi viene guardata con interesse". Lo storico Carlo Dionisotti riferisce la notizia della fondazione di questa loggia seguendo quanto scrive il Journal de Verceil: "Il 28 giugno 1810 fu insediata in Vercelli una loggia di Frammassoni. La società fedele al principio fondamentale della sua istituzione consacrò detto giorno ad opere di beneficenza, rimettendo al comitato di beneficenza di Vercelli duecento lire, e facendo distribuzioni di commestibili ai prigionieri". In più il Dionisotti ci fa conoscere il titolo della loggia (Cœurs unis) e il suo motto (Eodem ardore fulgent). Essendo allora il Piemonte annesso alla Francia (la Sesia segnava il confine dello Stato), la loggia vercellese dipendeva sicuramente dal Grande Oriente di Francia. La loggia ebbe sede nella sala capitolare dell'abbazia di S. Andrea, ciò che ancora molti anni dopo faceva infuriare il buon sacerdote oblato don Paolo Gualino, il quale, descrivendo le condizioni dell'insigne monumento durante il periodo francese, esclamava: "...e per colmo di raffinatissima empietà nell'interna Cappella dei rev. Padri, la società massonica (nemica degli altari e dei troni, alla cui distruzione lavora accanita da un secolo) dipintala a tal turpe fine, radunavasi allora per le notturne sue conventicole ed orge!" La loggia Cœurs unis ebbe vita breve ma lasciò un'impronta duratura nella vita cittadina. Quasi sicuramente cessò la sua attività con l'entrata delle truppe austriache a Vercelli (6 maggio 1814) e con la conseguente restaurazione della monarchia sabauda e del vecchio ordinamento politico ed amministrativo. La massoneria fu subito rigorosamente proibita e molti massoni piemontesi si diedero alla cospirazione, andando ad alimentare quelle società segrete di carattere liberale e patriottico, che avrebbero partecipato attivamente al Risorgimento italiano. Per queste associazioni clandestine le logge massoniche rappresentarono un modello di riferimento organizzativo e rituale. Rimane un impenetrabile mistero ciò che avvenne dei massoni vercellesi. Una cosa però è certa: non tutti ritornarono ad essere sudditi quieti e remissivi. Probabilmente, già prima della fine del regime napoleonico, l'Adelfia si era insinuata nella loggia Cœurs unis, altrimenti non si spiega come, secondo alcuni studiosi, nel 1818 Vercelli abbia avuto una numerosa presenza di sublimi maestri perfetti, che appartenevano ad un'animosa e combattiva setta segreta derivata dall'Adelfia. È un capitolo di storia arcano e intricato, ancora tutto da studiare, a cui fanno da sfondo gli eventi che portarono ai moti del '21 e alle prime generose lotte risorgimentali contro l'assolutismo e il dispotismo. Non sappiamo valutare quanto nel sec. XVIII la massoneria piemontese abbia potuto influire sulla formazione morale e civile della classe dirigente; forse una parte della nobiltà che frequentava le logge aveva appreso a convivere con il pensiero illuministico e i principi democratici. La massoneria che fiorì in Piemonte durante il periodo napoleonico ha fatto nascere molti interrogativi. La comune opinione vuole che fosse asservita al potere politico, ma, almeno per Vercelli e Casale non fu così. Insieme all'ossequio formale e ufficiale a Napoleone, vi era anche adesione reale e genuina al nuovo regime; inoltre è probabile che nascessero proprio in seno a queste logge i primi germi delle società segrete, che non sappiamo quanto fossero antibonapartiste prima della Restaurazione, ma che furono risolutamente antiaustriache poi. Un entusiasmo sincero, totale e senza eccezione era riservato invece alla nascente democrazia americana, che stava crescendo all'unisono con la massoneria di quel paese. "...Il cielo stellato in campo azzurro non era forse sulla bandiera degli Stati Uniti come una volta sui templi massonici?" esclama l'oratore della loggia casalese La Candeur. Sulla storiografia della massoneria, sulle sette che ne derivarono e sui modi della partecipazione delle società segrete piemontesi alle prime lotte per le libertà costituzionali e per l'indipendenza del Paese, gli storici devono integrare la narrazione dei fatti con molte supposizioni. I documenti sono pochi e quasi sempre inutili, invece i "se", i "forse" e i "probabilmente" sono tanti; di conseguenza non poca parte della verità storica continua a rimanere oscura.
STORIE DI MALAGIUSTIZIA
Un errore giudiziario si può sempre commettere, scrive Stefano Zecchi su “Il Giornale”. Le conseguenze sono drammatiche, ma c’è chi ha il coraggio di comprendere le cause dell’errore e perfino di giustificarlo. Ciò che però è assolutamente inaccettabile, ciò che appare come una violenza al buon senso e al rispetto più elementare della persona è quando non si vuole comprendere a quale disastro può portare un errore giudiziario e si pensa che comunque c’è un secondo, un terzo grado del giudizio che può porre rimedio. E intanto passa il tempo, trascorrono gli anni, si distruggono le persone e i loro affetti, quasi fosse il destino cinico e baro ad essere il regista della tragedia e non un giudice con la sua superficialità o incompetenza. La sentenza di primo grado del tribunale di Vercelli giudicò due genitori «indegni» a svolgere il proprio ruolo, sottraesse loro la patria potestà, affidò le loro tre figlie a una casa di accoglienza. Tutto questo accadeva sette anni fa, in seguito alla denuncia di tre bambine che avevano sostenuto di essere state violentate dallo zio e dal nonno. La nipote più grande aveva dichiarato a un’insegnante di sostegno: «Il nonno fa sempre lo stupidino e mi alza la gonna». A favore dei due parenti accusati, intervennero i genitori delle tre bambine allora di quattordici, dodici e nove anni: «Sono sempre state fantasiose, si sono condizionate l’una coll’altra», dichiararono. E non solo i genitori non furono creduti, ma vennero ritenuti complici dello zio e del nonno. A loro furono portate via le figlie mentre nonno e zio ebbero una condanna a otto anni di prigione. Gli accertamenti medici dimostrarono, senza dubbi, che le tre bambine non subirono violenze di alcun genere, e tuttavia le bambine vennero credute. A distanza di quasi otto anni dalla denuncia che distrusse una famiglia, la Corte di appello di Torino ha ora sentenziato che il fatto non sussiste. Le due adolescenti più grandi sono ormai maggiorenni e decideranno se tornare in famiglia oppure andare a vivere per conto proprio; la più piccola invece rimane nella casa di accoglienza perché ai suoi genitori non è ancora stata revocata la sentenza che li ha privati della patria potestà. Qualcuno si potrà anche rallegrare: la giustizia ha fatto il suo corso e alla fine ha trionfato la verità. La cosa scandalosa sono però i tempi in cui la giustizia perviene alla verità. Una lentezza devastante che con un po’ di responsabilità e di buon senso i giudici, a cominciare da quelli di primo grado, dovrebbero evitare. Gli anni trascorsi per arrivare all’assoluzione hanno sottratto tre bambine all’educazione dei genitori che, evidentemente, le conoscevano molto bene, certamente meglio del giudice che ha creduto alle loro fantasie divenute terribili atti d’accusa. E i genitori, privati delle figlie, hanno subito l’onta peggiore, quella di essere ritenuti carnefici dei propri figli. Se la questione dei tempi del giudizio è in ogni circostanza fondamentale per il rispetto della persona, in un caso come quello ora descritto diventa una questione di vera e propria etica pubblica. I giudici vanno e vengono dal penale al civile, dal tribunale dei minori a quello in cui si trattano reati di mafia. Ci dovrebbe essere una competenza specifica di chi si trova a giudicare problemi tanto delicati come quelli che riguardano la vita delle famiglie. Ma la vicenda di Vercelli mette in luce un altro aspetto deleterio del politically correct giudiziario. La credibilità e la difesa del minore che denuncia violenza sessuale, appaiono al giudice innanzitutto indiscutibili. Una credibilità e una difesa molto simili a quelle che si riconoscono alle donne in analoghe denunce di violenza sessuale patita. Il modo di procedere segue un copione altrettanto violento quanto la presunta violenza denunciata: intanto si mandi in galera l’accusato, lo si dà in pasto all’opinione pubblica, poi si vedrà se è davvero colpevole. Sembra quasi che il giudice debba fare ammenda di un atavico senso di colpa, per il quale la nostra civiltà non avrebbe sufficientemente protetto, nella sua storia millenaria, donne e bambini. Insomma, meglio credere sempre a un bambino o a una donna: se sono bugiardi poi si vedrà.
PARLIAMO DELLA VALLE D’AOSTA.
PURE AD AOSTA. E' TUTTO UN MAGNA MAGNA.
Sprechi, scandali e privilegi l'autonomia senza limiti che regna in Valle d'Aosta. La più piccola regione italiana è un esempio di malagestione. Al riparo del suo statuto speciale e di una politica pervasiva, scrive Sergio Rizzo il 29 ottobre 2017 su "La Repubblica".
Il casinò di Saint Vincent. «In un casinò la regola è far continuare a giocare i clienti. Più giocano e più perdono, e alla fine becchiamo tutto noi», fa dire Martin Scorsese a Robert De Niro, alias “Asso” Rothstein, nel film Casinò. Regola che a Saint Vincent, tuttavia, nessuno ha mai applicato. Perché se avesse funzionato anche lì, come nelle case da gioco del mondo intero, il Casinò de la Vallee non avrebbe perso una montagna di soldi. Centotrentaquattro milioni 583.189 euro dal 2003 al 2016, che fa 26.311 euro al giorno. Ogni valdostano, neonati compresi, perde al Casinò un centesimo all’ora. E non è una battuta a effetto, ma un’emorragia economica reale: perché la casa da gioco è pubblica, di proprietà della Regione. Che ora, dopo il rosso monstre dell’anno scorso (46,6 milioni!) dovrà con ogni probabilità rimettere mano al portafoglio per ricapitalizzare: almeno una ventina di milioni. Un altro fra i prodigiosi risultati delle autonomie regionali? In una certa misura. Di sicuro il Casinò è oggi lo specchio della Valle D’Aosta. E se è legittimo chiedersi che senso abbia la sopravvivenza di statuti regionali speciali che spesso risultano fonte di sprechi e privilegi anacronistici e non più giustificabili, in questo caso la domanda è ancor più radicale: a settant’anni dai trattati di pace di Parigi del 1947 che ne sono di fatto l’origine, può ancora esistere una Regione così?
Il record di dipendenti pubblici. Secondo l’ultimo dato Istat la Valle D’Aosta ha 126.883 abitanti. Più o meno la metà di Verona, o se preferite tanti quanti sono i residenti di Giugliano in Campania, provincia di Napoli. Con la densità territoriale minore del Paese, la popolazione è disseminata in 74 comuni. Ognuno dei quali ha i relativi uffici. Ci sono poi quelli della Regione, oltre alle strutture periferiche dello Stato centrale. Il che rende questa microscopica Regione il più massiccio serbatoio di posti pubblici della nazione in rapporto agli abitanti. L’Istat dice che ce ne sono 14.101, ovvero uno ogni nove valdostani. Dei quali posti, va precisato, ben 2.821 sono occupati dai dipendenti regionali. Duecento in più rispetto alla vicina Regione Piemonte, che però di abitanti ne ha 4,4 milioni. Ma non basta. Perché si deve aggiungere la pletora assurda delle società pubbliche. Nel portafoglio della Valle D’Aosta si contano una sessantina di partecipazioni di primo e secondo livello, con un numero di posti a carico del bilancio regionale non inferiore alle 2.300 unità. Settecento solo nel Casinò. Per non parlare dei 22 “enti strumentali” elencati nel bilancio regionale. Se poi si calcola anche l’indotto, si può dire che in ogni famiglia c’è chi campa con i denari pubblici. Tutto parte da qui. Per chi non lo sapesse, la Valle D’Aosta è l’unica Regione italiana il cui governatore non è votato dal popolo, ma nominato dal consiglio regionale. Succede quindi che dopo le dimissioni del presidente Pierluigi Marquis seguite al ritrovamento di 25 mila euro in contanti nel suo ufficio, non si torni a votare. Perché la crisi si risolve esattamente come nella prima repubblica, con una manovra di corridoio. Anche se nulla cambierebbe pur tornando al voto. Perché in una comunità così ristretta, con il meccanismo delle tre preferenze, il sistema è congegnato in modo tale da garantire la conservazione del potere. Accontentando tutti grazie allo statuto speciale.
Il bastone del comando. In una Regione normale come la Lombardia c’è una poltrona ogni 125 mila abitanti. Seguendo lo stesso criterio, il consiglio regionale della Valle D’Aosta dovrebbe averne una sola. Invece sono 35: una ogni 3.600 residenti. Con i costi che ne conseguono, se si considerano anche i 111 dipendenti del medesimo consiglio. Dal 1946 a oggi, per più di sei decenni, il bastone del comando è stato nelle mani dell’Union Valdotaine, che ha governato ininterrottamente negli ultimi ventiquattro anni fino all’arrivo Marquis della Stella Alpina, il quale ha retto soltanto sei mesi e poi s’è dovuto dimettere. Prima di lui, la lunga epoca di Augusto Rollandin, ultimo vero padre padrone di una Regione dove un certo modo di intendere la politica ha allagato l’intera società. Come dimostrano alcuni dettagli solo apparentemente trascurabili. Prima di essere nominato governatore Rollandin era presidente della Compagnia valdostana delle acque, l’azienda pubblica che gestisce gli impianti idroelettrici acquistati nel 2001 dalla Regione con un’operazione di cui si parla più avanti. Società nella quale l’assessore al turismo Aurelio Marguerattaz, già membro del collegio sindacale del Casinò, è stato peraltro revisore. Mentre lo stesso Marquis aveva in passato occupato le poltrone di presidente della Società autostrade valdostane e del Raccordo autostradale Valle D’Aosta spa.
L'ombra del voto di scambio. Su 35 consiglieri, una decina hanno ricoperto incarichi in aziende o enti regionali. E colpisce che in quattro siano stati sospesi ai sensi della legge Severino perché raggiunti da condanne in primo grado in seguito alle inchieste sull’uso improprio dei fondi di partito. Mai però come hanno colpito le sconvolgenti affermazioni di Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare antimafia, che giovedì 19 ottobre ha scioccato l’intera Regione con queste parole: «In una realtà con così pochi elettori e una presenza significativa di persone riconducibili a gruppi ‘ndranghetisti è singolare che in Valle D’Aosta non si sia indagato sul voto di scambio per accertare se ci sono stati tentativi di condizionamento sulle scelte politiche e amministrative». Ombre davvero inquietanti, che si aggiungono alle tante che già aleggiano sulla più piccola Regione italiana. Al riparo dello statuto speciale e di un potere politico così pervasivo qui tutto può accadere. Sfiorando il limite delle regole imposte a ogni buon padre di famiglia. Per esempio, può succedere che la Regione acquisti un albergo (l’hotel Billia) per la rispettabile cifra di 58 milioni, con il risultato di aggravare la traballante situazione finanziaria del Casinò e ritrovarsi sul groppone altro personale.
L'affare Skyway. Oppure che la medesima Regione spenda 162 milioni per realizzare un impianto avveniristico come lo Skyway affidandone la gestione alla società Funivie Monte Bianco nella quale i privati hanno metà meno una quota del capitale. Però senza che sia stata fatta una gara, perché quella società era in origine tutta privata. O ancora, capita che più di 30 milioni dei contribuenti vengano investiti in un aeroporto gestito da un’altra società controllata da un petroliere genovese proprietario della compagnia aerea Air Vallée. Ma con la partecipazione, anche qui, della Regione che continua a tirare fuori i soldi.
I derivati con Deutsche Bank. Piccolo particolare, dal 2008 non c’è un volo di linea e l’aeroporto è costato quest’anno un altro milione e mezzo a un bilancio regionale pieno di sorprese. Una per tutte. Si scopre che dal 2001 la Regione ha stipulato con Deutsche bank un contratto in derivati per 543,1 milioni (4.310 euro per ogni cittadino) a valle di un prestito obbligazionario per comprare le centrali idroelettriche. Motivo, tutelarsi dal rischio di aumento dei tassi d’interesse. Fatto sta che i tassi sono al minimo storico e per quel contratto ventennale i valdostani stanno accantonando 43,5 milioni l’anno: circa 27 di capitale e 16 di interessi. Fare i conti non è difficile. Poi si è reso necessario per legge un riaccertamento dei residui attivi e passivi nel bilancio regionale, con il risultato che l’avanzo di amministrazione di 217,6 milioni del 2015 si è trasformato in un disavanzo di 204,8 milioni. Niente male, per una Regione che per statuto può trattenere in casa il 90 per cento delle tasse. Esattamente come ora vorrebbe il Veneto di Luca Zaia…
Magna magna. Anche ad Aosta scoppia Rimborsopoli. Il gruppo Pd della Vallée avrebbe speso 17mila euro per finanziare "la festa della Calabria" e l'acquisto di una capra, scrive Fabrizio Boschi su “Il Giornale”. Dalla mappa della vergogna ne rimanevano fuori poche. Giusto sette regioni su venti. Da oggi ne va aggiunta un'altra. Anche la limpida Valle d'Aosta ha finito col macchiarsi con l'onta dilagante in tutta la Penisola: i rimborsi coi soldi pubblici. Fondi destinati ai partiti coi quali si sono pagati di tutto: mutande, sigarette, pecore, aerei di carta, caramelle, corni d'avorio, campanacci, Barbie, aperitivi, serate in disco, mazze da golf, caldaie e anche le tasse suoi rifiuti. Il primato apparteneva a Lazio, Sicilia, Campania, Liguria, Emilia e Piemonte. Ma adesso entra in torneo pure la Valle d'Aosta. Con grande diligenza, così come vorrebbe il loro trasparente segretario, il gruppo Pd del consiglio regionale ha caricato sul sito i bilanci con entrate e uscite. Oltre a cene e pranzi, che non fanno più notizia, rientra fra le politiche democratiche anche la Festa della Calabria (che com'è chiaro si celebra ad Aosta), compresa «la cena della capra», che viene finanziata con 17mila euro dei soldi pubblici. Sempre in favore della festa c'è una spesa per «acquisto capra Festa Calabria». Così c'è scritto. E 2.640 euro per l'ospitalità in un residence di un gruppo ospite arrivato apposta per la festa. Dal 2012 il gruppo incassa più di 5mila euro ogni mese. Ci sono bonifici al Pd di Torino (circa 500 euro) e finanziamenti per il torneo di Belote e per la festa del quartiere Dora, nonché un assegno a favore della Publikompass per l'«inserzione pubblicitaria campagna Pd», di oltre settemila euro. Il gruppo ha poi acquistato, per 1.001 euro, un motorino Peugeot per la festa democratica di Morgex. E ancora un rimborso spese di 256,75 euro ad una persona estranea al gruppo per la festa di Chamois, e assegni per l'acquisto di panettoni e bottiglie (250 euro), per un regalo di nozze (300 euro), per premi e cornici in occasione della festa del Travail (circa 600 euro), per l'acquisto di stelle di Natale (370 euro) e per il premio Mimosa (circa 1.400 euro). In bilancio anche generici «rimborsi spese» da 500 euro a 800 euro a favore di tre consiglieri ai quali vengono pagati anche non meglio precisati «contributi previdenziali» per 20mila euro. In più, come in Piemonte, pare che diversi consiglieri, sebbene residenti in comuni fuori Aosta ma di fatto domiciliati in città, si facciano rimborsare le spese chilometriche per la partecipazione alle sedute. Sugli altri fronti continuano le bordate. È di ieri la notizia che vede indagato a Firenze per truffa ai danni di un'assicurazione e per «doppi rimborsi» per missioni il senatore Lucio Barani (Gruppo Grandi Autonomie e Libertà) per sospette attività di quando era sindaco di Villafranca in Lunigiana dal 2004 al 2009. Le accuse riguarderebbero 3mila euro ricevuti dall'assicurazione per un incidente domestico falso e rimborsi non dovuti ricevuti dal Comune di Villafranca per trasferte e missioni compiute quando Barani era già parlamentare. Per non parlare del Lazio. Il caso Fiorito non è servito a cambiare. Da due mesi i consiglieri grillini della Regione Lazio, alla richiesta di conoscere l'elenco dei vitalizi, si sono sentiti opporre addirittura ragioni di privacy. Ma ora ce l'hanno fatta ed è venuto fuori che nel dicembre 2013 sono stati pagati 266 assegni: ben 49 in più rispetto a quelli di tre anni prima per una spesa di un milione 635.917 euro. Il che significa 19 milioni 631.004 euro in un anno. Ovvero un terzo dell'intero bilancio regionale. Quell'elenco dimostra che nulla, dopo «Er Batman», è cambiato, nemmeno per coloro che facevano parte del Consiglio regionale capace di bruciare in un anno 14 milioni di denari pubblici per spese personali folli. Nel 2012, infatti, è bastato un piccolo emendamento bipartisan per far saltare la norma del decreto Monti che avrebbe inibito il vitalizio prima dei 66 anni di età e con meno di dieci anni di mandato. Il risultato è che ancora adesso nel Lazio c'è chi incassa l'assegno con le vecchie regole a cinquant'anni, e con una sola legislatura. Durata, per giunta, meno di tre anni. Poi c'è la Sicilia dove, fatti due conti, un terzo dei deputati regionali è sotto inchiesta: sono 31, su 90, quelli coinvolti nell'indagine sulle spese pazze dei gruppi parlamentari, gli altri 53 politici indagati sono ex onorevoli non rieletti in questa legislatura. Poi ci sono altre 13 persone tra dipendenti cosiddetti «stabilizzati» dell'Ars e consulenti. «Chi tû dicu a fari?».
Costi della politica, inchiesta conclusa. Consegnati gli ultimi avvisi di garanzia.
Nel mirino della guardia di finanza le spese dei gruppi consiliari della passata legislatura: 12 indagati nel Pd, 6 di Alpe, 5 dell’Uv, 4 di Stella Alpina e due di Fédération, oltre a una persona estranea al panorama politico regionale, scrive “La Stampa”. Sono stati consegnati oggi pomeriggio gli ultimi avvisi di conclusione indagini - ex 415 bis - nell’ambito dell’inchiesta sui costi della politica in Valle d’Aosta. Destinatari dei provvedimenti sono 12 esponenti o funzionari del Partito Democratico, 6 di Alpe, 5 dell’Union Valdotaine, 4 dell’ex Pdl, 4 della Stella Alpina e 2 di Federation autonomiste, oltre ad una figura estranea al mondo politico. Per tutti le accuse sono, a vario titolo, di peculato, finanziamento illecito dei partiti e indebita percezione di contributi pubblici. Gli indagati - tra cui 19 consiglieri della passata legislatura, segretari di partito ed editori di giornali politici - ora avranno 20 giorni di tempo per depositare memorie o essere interrogati, anche se è probabile che la procura conceda una proroga per consentire l’esame della mole di documenti (11.000 pagine). L’inchiesta - condotta dalla guardia di finanza della sezione della polizia giudiziaria - è stata avviata nell’ottobre 2012. Gli accertamenti hanno riguardato prima gli anni 2009-2011 e in una seconda fase il 2012.
Aosta, i consiglieri pagano le mazzancolle con i fondi pubblici. L'ultimo scandalo in Valle d'Aosta: cene, aperitivi ma anche motorini e teatro..., scrive “Libero Quotidiano”. "Operazione mazzancolle". Questo il nome che gli inquirenti hanno dato all'indagine sullo spreco di fondi pubblici dei consiglieri regionali della Valle D'Aosta. Dal Pd al Pdl, passando per i gruppi minori, tutti concordi nel decidere di spendere i soldi pubblici (ovvero soldi nostri) per se stessi. A partire da vino e cene di lusso (dove venivano spesso richieste le mazzancolle, da cui, appunto, il nome all'operazione) fino all'acquisto di carne di capra, di un motorino e all'ingaggio di 24 attori per la Festa della Calabria, per un totale di 40mila euro di spese totali. Sono 34 gli indagati in questa inchiesta, che ha individuato Massimo Lattanzi, coordinatore di Forza Italia, come gestore del conto da quale venivano poi distribuiti i soldi. Le indagini sono iniziate quando il Pd ha deciso di pubblicare su internet il proprio bilancio, non considerando che in questo modo avrebbe messo in bella mostra le spese pazze dei consiglieri. Va detto comunque che non ci sono solo acquisti bizzarri; alcuni consiglieri versavano i soldi direttamente sui propri conti correnti.
Inchiesta su fondi dei gruppi in Regione. Bufera sul coordinatore di Fi Vda. Tra le spese contestate la festa per la presentazione di una squadra di calcio, scrive “La Stampa”. Una festa con buffet per la presentazione del settore agonistico della propria squadra di calcio costata 3.000 euro, una trasferta (viaggio, vitto e alloggio) a Roma di militanti in occasione di una manifestazione del Pdl, un assegno a un amico ristoratore in difficoltà per il fittizio pagamento di servizi mai resi: queste alcune delle «spese pazze» che vengono contestate all’ex capogruppo regionale del Pdl della Valle d’Aosta e attuale coordinatore di Forza Italia Massimo Lattanzi che emergono nel dossier della Procura di Aosta sull’inchiesta riguardante l’utilizzo dei fondi a disposizione dei gruppi del Consiglio regionale valdostano tra il 2009 e il 2011. Quella dell’esponente di centro destra, accusato di peculato e di finanziamento illecito ai partiti, appare agli investigatori come una delle posizioni più complesse, nell’ambito di una lunga indagine che ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di ben 34 persone, tra cui 18 consiglieri regionali di tutte le forze politiche della precedente legislatura (Uv, Pd, Pdl, Stella Alpina, Alpe e Federation autonomiste). Nella tracciatura delle voci di uscita del conto corrente gestito dal capogruppo del Pdl, nel quale l’Amministrazione regionale ha versato complessivamente 320 mila euro di contributi per l’attività istituzionale, figurano tra gli altri il pagamento di 2.000 euro della parcella di un noto avvocato aostano per una prestazione a favore di familiari e un assegno intestato a un altro consigliere regionale che lo ha girato per la «restituzione di un prestito» personale. Tra le pieghe del bilancio del gruppo consiliare del Pdl anche un occhio di riguardo alla solidarietà: 1.000 euro a un comitato di quartiere, 1.100 euro a sostegno di un’associazione sportiva che organizza ad Aosta un torneo di calcio a 5 e 1.500 euro a sostegno dell’attività di un comitato referendario.
Nell’inchiesta sulle spese della politica anche regali per matrimoni, vacanze e pranzi romani con mazzancolle. Il procuratore Mineccia: “In un momento come questo è necessario fare una riflessione su come vengono spesi soldi che sono di tutti”. L’indagine partita dalle rivelazioni de La Stampa sulle spese del Pd. Ecco l’elenco degli indagati, scrive Daniele Mammoliti su “La Stampa”. Regali per matrimoni, viaggi in Inghilterra, pranzi romani a base di mazzancolle, oggetti di gioielleria, ma anche acquisti tra i banchi del mercato del martedì. Sono serviti anche a questo i contributi pubblici destinati ai gruppi consiliari negli anni tra il 2009 e il 2012. A raccontarlo è stato oggi il capo della Procura di Aosta Marilinda Mineccia durante la conferenza stampa in cui sono stati illustrati i risultati delle indagini eseguite in collaborazione con la guardia di finanza. Mineccia ha però sottolineato: “In un momento come questo è necessario fare una riflessione su come vengono spesi soldi che sono di tutti. Dobbiamo uscire da questa fase storica in cui il denaro pubblico è stato gestito con leggerezza”. Ecco l’elenco degli indagati: Per il Pd i nomi sono 12. Oltre ai consiglieri regionali della scorsa legislatura Carmela Fontana, Raimondo Donzel e Gianni Rigo ci sono anche: Ruggero Millet (al vertice della cooperativa che edita il giornale Le Travail); il direttore del Travail Davide Avati; l’ex tesoriere Claudio Latino; l’attuale capogruppo al Comune di Aosta Michele Monteleone; il vice presidente del Consiglio comunale di Aosta Fabio Platania; l’ex segretario Giovanni Sandri; il presidente della Fondazione Giulio Dolchi, Giuseppe Rollandin; l’ex segretaria organizzativa del partito Erika Guichardaz; il segretario del circolo Mont-Emilius “Elter-Saba” Emilio Zambon. Alpe conta 6 indagati: l’ex segretaria e attualmente consigliere regionale Chantal Certan; l’ex presidente del movimento Carlo Perrin; l’attuale capogruppo regionale Patrizia Morelli e il consigliere Albert Chatrian; i consiglieri della scorsa legislatura Roberto Louvin e Giuseppe Cerise. Per l’Uv 5 i nomi: l’ex capogruppo Diego Empereur; l’ex presidente del movimento e attuale capogruppo Ego Perron; il tesoriere Osvaldo Chabod; il legale rappresentante dell’editrice del Peuple Valdotain Guido Grimod; la funzionaria del movimento Giuliana Rosset. Il Pdl ha 4 indagati, cioè gli ex consiglieri regionali Massimo Lattanzi, Alberto Zucchi, Enrico Tibaldi e Cleto Benin; altrettanti per la Stella Alpina: l’attuale assessore alle Opere pubbliche Marco Viérin; l’attuale vicepresidente del Consiglio André Lanièce; l’ex capogruppo Francesco Salzone e l’ex vice Dario Comé. Per Fédération Autonomiste 2 indagati: l’attuale consigliere unionista Leonardo La Torre e l’ex assessore alle Finanze Claudio Lavoyer, entrambi capigruppo nella scorsa legislatura. Gli indagati sono 34 ma 33 sono gli avvisi di conclusione indagine inviati. Per tutti c’è l’accusa di finanziamento illecito ai partiti; l’accusa di peculato (cioè l’uso personale di soldi pubblici) interessa tutti e sei i gruppi consiliari della scorsa legislatura (Uv, Stella Alpina, Fédération Autonomiste, Alpe, Pd, Pdl); in diversi casi l’imputazione risponde all’articolo 316ter del codice penale, ovvero “il comportamento di chi affermando cose non vere - ha spiegato Mineccia - chiede contributi dalla Regione”. Il riferimento è all’uso dei fondi dei gruppi per pagare le spese di giornali di partiti che, a loro volta, chiedevano contemporaneamente i contributi regionali per l’editoria. Tra i paradossi, il fatto che la documentazione fornita abbia in diversi casi aggravato le posizioni degli indagati. E’ il caso del Pd che “su internet - ha spiegato Mineccia - documentava qualcosa che è sicuramente peculato, come l’uso dei fondi per il pagamento dei contributi pensionistici personali, seppur poi restituiti”. Anche Alpe “ha documentato molto, ma quasi sempre cose che sono diventati capi di imputazione”. Il Pdl “ha molta documentazione ma anche parecchie somme, circa 120 mila euro, di cui non abbiamo cognizione”. La Féd “ha utilizzato fondi per il giornale ma anche diverse somme prelevate e non giustificate”. L’Uv “ha massicci di passaggio di denaro transitato sul conto corrente del movimento. Alcuni legittimamente impiegati, ma non tutti”. Per quanto riguarda Stella Alpina “la maggior parte dei soldi è andata su conti correnti personali, con poca documentazione. Su 300 mila euro ricevuti dal gruppo 270 mila non sono al momento giustificati”. L’inchiesta della Procura fu avviata in seguito ad un articolo pubblicato da La Stampa e relativo alle spese sostenute dai consiglieri Pd per pagare i contributi previdenziali.
Delle due l’una……O tutte e due? Si chiede Piero Minuzzo su “Valledaostaglocal”. L’inchiesta sulle spese dei gruppi del Consiglio Valle, condotta con grande professionalità, attenzione e riservatezza dalla Procura con il supporto della Guardia di Finanza, ha messo in luce l’incapacità e la prosopopea di buona parte della classe politica valdostana di questi ultimi anni. I politici, infatti, si sono chiusi a riccio addossando le responsabilità alla legge regionale poco chiara e scarsamente esplicativa. “Dobbiamo – hanno detto alcuni degli indagati che siedono sui banchi del Consiglio Valle - rivedere la legge”. Ma vogliono prenderci per il naso? Le critiche alla legge le ha fatte proprio chi l’ha scritta e approvata. Quindi delle due l’una: o hanno redatto una legge a maglie larghe per sguazzarci o non sanno quello che scrivo. Oppure tutte e due. Quello che preoccupa è che se i nostri legislatori approvano leggi - ad uso e consumo proprio - di impossibile interpretazione c’è da pensare che quando fanno le leggi per i cittadini forse non sanno di cosa parlano né di cosa hanno scritto. E’ per questo che cittadini, gli imprenditori e chi lavora si trovano ad affrontare enormi problemi per l’incapacità di buona parte dei nostri politici. Dopo che AostaCronaca.it ha pubblicato per primo i contenuti delle spese dei gruppi per viaggi a Roma, l’ammontare dei rimborsi ai consiglieri, le prebende date agli amici, le note spese per pranzi e cene, gli acquisti di regali e carne di capra per le feste, il giornale ha ricevuto una valanga di complimenti. Ma abbiamo abbiamo ricevuto anche tante telefonate dagli interessati che ci hanno insultati; che ci hanno tolto il saluto; che si sono lamentati perché non abbiamo dimostrato amicizia; che ci siamo sbagliati; che quello scritto nelle carte della Procura non risponde a verità. A tutti abbiamo risposto: inviateci le vostre ragioni e le vostre precisazioni. Ma tutti si sono rifiutati. Noi abbiamo fatto il nostro lavoro leggendo le carte. Non spetta a noi valutare se è vero o falso, anche se pensiamo che gli inquirenti hanno fatto un gran lavoro di verifica e di riscontro e che quello c’è scritto gli interessati lo devono spiegare nelle udienze. Per la verità c’è anche chi, come il consigliere Jean-Pierre Guichardaz, che ci ha dato atto di fare con correttezza il nostro lavoro. “Chi spende soldi pubblici – ha detto – deve garantire la massima trasparenza”. Nessuno degli interessati ha fatto autocritica. Nessuno che abbia ammesso di aver sbagliato: Tutti hanno invocato nuove regole certe. Nessuno che abbia annunciato un passo indietro. Sono gli stessi che hanno sparato ad alzo zero sull’allora assessore Claudio Lavoyer, dopo che per un complotto teso ad eliminarlo dalla scena politica, è stato reso noto il verbale della Banca d’Italia relativo ad un giro di assegni personali (che nulla avevano a che fare con la politica). Lavoyer è stato costretto alle dimissioni. Sono gli stessi, quelli della sinistra, che hanno chiesto le dimissioni dell’assessore Mauro Baccega perché il figlio è consulente della Casinò de la Vallée . Sono gli stessi, dell’opposizione del Consiglio Valle e non solo, che hanno chiesto a Rollandin un passo indietro per l’inchiesta sul parcheggio dell’ospedale. Ma nessuno di loro si è fatto avanti per fare un passo indietro in attesa la magistratura faccia piena luce sulle spese pazze. E’ evidente l’incoerenza di una classe politica che deve lasciare il posto ad altri. Così come è ridicola quando, come il Pd, si vanta di aver pubblicato le spese sul proprio sito. Come dire che un ladro che dice di essere un ladro è meno ladro di chi ruba senza dirlo. Tutto sarà chiarito. Ma in attesa perché non iniziano a restituire parte del mal speso?
Aosta, l’aeroporto senza aerei.
L’aeroporto si trova a Saint-Christophe due km a est di Aosta, 546 metri sul livello del mare. Chiuso da quattro anni per lavori già costati 30 milioni. I gestori privati hanno 14 contenziosi con la Regione. Un gran volare di carte giudiziarie, documenti ripescati e altri contesi, ma di aerei neanche l’ombra. L’aeroporto valdostano «Corrado Gex» diventato commerciale, con pista allungata a un chilometro e mezzo e aerostazione progettata da Gae Aulenti, è nel silenzio. Così come racconta Enrico Martinet de “La Stampa”. Ciò che decolla e atterra sono i piccoli aerei da turismo, gli alianti e gli elicotteri del soccorso. Quattordici contenziosi dividono l’Avda, società di gestione al 51% privata e al 49% della Regione Valle d’Aosta, dal ritorno degli aerei passeggeri. E non solo: la linea Aosta-Roma è stata cancellata nel 2008, data dell’inizio lavori per allungare la pista, costruire l’aerostazione e mettere in funzione il necessario volo strumentale per gli atterraggi. Su un piano di investimenti pubblici di 36 milioni, ne sono già stati spesi 30. E 9 e mezzo costerà l’aerostazione di cui esiste già la struttura, ma anche lì il lavoro è fermo per un problema ambientale: è stato trovato dell’amianto nel sottosuolo, conseguenza di demolizioni di un altro edificio. Per l’inaugurazione passerà un altro anno. I costi sono già lievitati di un milione: il progetto iniziale, varato nella scorsa legislatura regionale (2003-2008), costava sulla carta 8 milioni e mezzo, ma aveva un piano in più. Da un presidente della giunta all’altro (prima Luciano Caveri oggi Augusto Rollandin) c’è stato un ridimensionamento. Ora anche un taglio di 6 milioni e mezzo per la gestione, per un’attività bloccata da contenziosi e appalto Enac (Ente nazionale aviazione civile) che dovrà assegnare la linea Aosta-Roma. Il 51% dell’Avda è dell’Air Vallée. Entrambi hanno lo stesso presidente, Michele Costantino, petroliere di Genova. I suoi rapporti con la Regione sono stati idilliaci per poco tempo. Ora fra patron e amministratori pubblici soltanto carte bollate, ricorsi al Tribunale e memorie di studi legali. C’è contestazione su tutto, dai bilanci alle nomine dei componenti del Cda. La causa-madre riguarda un impegno della Regione a pagare i costi dei viaggi su gomma tra Torino e Aosta durante la chiusura del «Corrado Gex» per i lavori necessari ai voli commerciali. Per la Regione era soltanto un’ipotesi di intervento, per Air Vallée un impegno formale, una sorta di cambiale in scadenza. Dal 2008 la compagnia di volo ha annunciato e tentato nuove attività, nonostante fosse stata costretta a spostare la sede operativa prima a Rimini poi a Parma. In attesa che il piano dei voli charter vagheggiato dalla Regione fin dal 2005 potesse trovare l’attenzione dei tour operator, Air Vallée ha varato voli di linea con la zona della Loira, dall’aeroporto di Angers, non distante da Le Mans. L’idea più che ottimistica era quella di catturare un’«utenza francese che non ha alternative per raggiungere il nostro paese», aveva detto Costantino. Poi c’era anche il progetto di collaudare proprio dalla pianura di Le Mans i possibili «voli della neve», per i turisti appassionati dello sci. È stato un fallimento: nel 2011 sono arrivati soltanto 85 turisti. L’ultimo volo da Angers è del 20 marzo 2011 con sei passeggeri. Stop forzato, costi insostenibili. Il secondo progetto riguardava proprio i futuri charter. Costantino chiamò la «Malmoe Aviation» per testare la possibilità di collegare l’aeroporto valdostano con l’aereo «Jumbolino», un quadrireattore copia in piccolo del «Boeing 747», capace di trasportare 80 passeggeri e di atterrare nei cieli stretti dalle montagne così come sulla City di Londra. «È questo - disse - il nostro futuro per i charter». Un volo perfetto mai ripetuto e di cui non si sente neanche più parlare. Le ultime vicende dell’aeroporto riguardano l’abusivismo edilizio sull’attuale piccola aerostazione in legno per cui è stato condannato anche Costantino e due voli di «aerei blu» che hanno trasportato in Vallée il capo di stato maggiore dell’Esercito Claudio Graziano e il sottosegretario alla Difesa Filippo Milone per la posa della prima pietra della caserma «Battisti» e della conversione in campus universitario dell’ex caserma Testafochi.