Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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L’AMICO TERRORISTA

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 INDICE

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

INTRODUZIONE. NELLA MENTE DI UN TERRORISTA.

TERRORISMO IN ITALIA.

TERRORISMO ROSSO.

TERRORISMO NERO.

LOTTA AL TERRORISMO L’ESPERIENZA ITALIANA.

IL MISTERO DI MORO E DELLA STRATEGIA DELLA TENSIONE.

IL MISTERO CIRO CIRILLO.

IL MISTERO DI MINO PECORELLI.

IL MISTERO DELLE STRAGI. IL TRENO ITALICUS.

IL MISTERO DELLE STRAGI. L’AEREO DC-9 ITAVIA.

IL MISTERO DELLE STRAGI. MILANO. PIAZZA FONTANA.

IL MISTERO DELLE STRAGI. LA STAZIONE DI BOLOGNA.

IL MISTERO DELLE STRAGI MAFIOSE. PALERMO, MILANO, FIRENZE, ROMA.

LE BRIGATE ROSSE.

RILETTURA CRITICA DELLA STORIA DELLE BRIGATE ROSSE E DEL RAPIMENTO DI ALDO MORO.

BRIGATE ROSSE E RISCRIZIONE DELLA STORIA: LE VERITA' NEGATE.

GLI INFILTRATI DI STATO.

EMILIO ALESSANDRINI. IL GIUDICE DALLA FACCIA MITE.

GUIDO ROSSA. L’OPERAIO CONTRO.

QUELL'ESKIMO IN REDAZIONE.

EX TERRORISTI: DOVE SONO E COSA FANNO. 

DALLE FOIBE A GLADIO. ECCO COME NACQUE L'ANTICOMUNISMO IN ITALIA.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Facciamo in modo che diventiamo quello che noi avremmo (rafforzativo di saremmo) voluto diventare.

Sono qualcuno, ma non avendo nulla per poter dare, sono nessuno.

Sono un guerriero e non ho paura di morire.

Non ho nulla più da chiedere a questa vita che essa non avrebbe dovuto o potuto concedermi secondo i miei meriti. Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora ho il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.

Dunque, è questa vita irriconoscente che ha bisogno del mio contributo ed io sarò sempre disposto a darlo, pur nella indifferenza, insofferenza, indisponenza dei coglioni.

Anzichè far diventare ricchi i poveri con l'eliminazione di caste (burocrati parassiti) e lobbies (ordini professionali monopolizzanti), i cattocomunisti sotto mentite spoglie fanno diventare poveri i ricchi. Così è da decenni, sia con i governi di centrodestra, sia con quelli di centrosinistra.

L’Italia invasa dai migranti economici con il benestare della sinistra. I Comunisti hanno il coraggio di cantare con i clandestini: “. ..una mattina mi son svegliato ed ho trovato l’invasor…” Bella Ciao 

Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti. 

«È un paese così diviso l’Italia, così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche all’interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali. Alla propria carrieruccia, alla propria gloriuccia, alla propria popolarità di periferia. Per i propri interessi personali si fanno i dispetti, si tradiscono, si accusano, si sputtanano... Io sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la torre di Giotto o la torre di Pisa, l’opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo darebbe la colpa all’opposizione. I capoccia del governo e i capoccia dell’opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò, lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che caratterizza gli americani. Nasce dal loro patriottismo.» — Oriana Fallaci, La Rabbia e l'Orgoglio

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

Se a destra son coglioni sprovveduti, al centro son marpioni, a sinistra “So camburristi”. Ad Avetrana, come in tutto il sud Italia c’è un detto: “si nu camburrista”. "Camburrista" viene dalla parola italiana "camorra" e non assume sempre il significato di "mafioso, camorrista" ma soprattutto di "persona prepotente, dispettosa, imbrogliona, che raggira il prossimo, che impone il suo volere direttamente, o costringendo chi per lui, con violenza, aggressività, perseveranza, pur essendo la sua volontà espressione del torto (non della ragione) del singolo o di una ristretta minoranza chiassosa ed estremamente visibile.

Oltretutto in tv o sui giornali non si fa informazione o cultura, ma solo comizi propagandistici ideologici.

Se questi son giornalisti...

In un mio saggio sulla mafia mi è sembrato opportuno integrare, quanto già ampiamente scritto sul tema, con una tesi-articolo pubblicato su "La Repubblica" da parte di un'autrice poco nota dal titolo "La Mafia Sconosciuta dei Basilischi". Dacchè mercoledì 16 gennaio 2019 mi arriva una e-mail di diffida di questo tenore: qualche giorno fa mi sono resa conto che senza nessuna tipologia di autorizzazione Lei ha fatto confluire il mio abstract pubblicato da la Repubblica ad agosto 2017, in un suo libro "La mafia in Italia" e forse anche in una seconda opera. Le ricordo che a norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. La sua opera essendo caratterizzata da fini di lucro, (viene venduta al pubblico ad uno specifico prezzo) rientra a pieno in un'attività economica. L'art 70 ut supra  è, pertanto, pienamente applicabile al caso del mio abstract, non rientrando neanche nel catalogo di articoli a carattere "economico, politico o religioso", poichè da questi vengono escluse "gli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico ", di cui all'art 65 della medesima legge (secondo un'interpretazione estensiva della stessa), la cui riproduzione può avvenire in "altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite." Pertanto La presente è per invitarLa ad eliminare nel più breve tempo possibile il mio abstract dalla sua opera (cartecea e digitale), e laddove sia presente, anche da altri eventuali suoi libri, e-book e cartacei, onde evitare di dover adire le apposite sedi giudiziarie per tutelare il mio Diritto d'Autore e pedissequamente richiedere il risarcimento dei danni.

La mia risposta: certamente non voglio polemizzare e non ho alcun intendimento a dissertare di diritto con lei, che del diritto medesimo ne fa una personalissima interpretazione, non avendo il mio saggio alcun effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione rispetto al suo articolo. Nè tantomeno ho interesse a mantenere il suo articolo nei miei libri di interesse pubblico di critica e di discussione. Libri a lettura anche gratuita, come lei ha constatato, avendo trovato il suo articolo liberamente sul web. Tenuto conto che altri sarebbero lusingati nell’essere citati nelle mie opere, e in migliaia lo sono (tra i più conosciuti e celebrati), e non essendoci ragioni di utilità per non farlo, le comunico con mia soddisfazione che è stata immediatamente cancellata la sua tesi dai miei saggi e per gli effetti condannata all’oblio. Saggi che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente.

La risposta piccata è stata: Guardi mi sa che parliamo due lingue diverse. Non ho dato nessuna interpretazione mia personale del diritto, ma come può notare dalla precedente mail, mi sono limitata a riportare il tenore letterale della norma, che lei forse ignora. Io credo che molte persone, i cui elaborati sono stati interamente riprodotti nei suoi testi, non siano assolutamente a conoscenza di quello che lei ha fatto. Anche perché sono persone che conosco direttamente e con le quali ho collaborato e collaboro tutt'ora. Di certo non sarà lei attraverso l'estromissione (da me richiesta) dalle sue "opere" a farmi cadere in qualsivoglia oblio, poiché preferisco continuare a collaborare con professionisti (quali ad esempio Bolzoni) che non mettono in vendita libri che non sono altro che un insieme di lavori di altri, come fa lei, ma che come me continuano a studiare ed analizzare questi fenomeni con dedizione, perizia e professionalità. Ma non sto qui a disquisire e ad entrare nel merito di determinate faccende che esulano la questio de quo. Spero che si attenga a quanto scritto nella precedente mail.

A questo preme puntualizzare alcuni aspetti. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Molti moralizzatori, sempre col ditino puntato, pretendono di avere il monopolio della verità. Io che non aspiro ad essere come loro (e di fatto sono orgoglioso di essere diverso) mi limito a riportare i comizietti, le prediche ed i pistolotti di questi, contrapponendo gli uni agli altri. A tal fine esercito il mio diritto di cronaca esente da mie opinioni. D'altronde tutti i giornalisti usano riportare gli articoli di altri per integrare il loro o per contestarne il tono o i contenuti.

Io sono un Aggregatore di contenuti di ideologia contrapposta con citazione della fonte. 

Il World Wide Web (WWW o semplicemente "il Web") è un mezzo di comunicazione globale che gli utenti possono leggere e scrivere attraverso computer connessi a Internet, scrive Wikipedia. Il termine è spesso erroneamente usato come sinonimo di Internet stessa, ma il Web è un servizio che opera attraverso Internet. La storia del World Wide Web è dunque molto più breve di quella di Internet: inizia solo nel 1989 con la proposta di un "ampio database intertestuale con link" da parte di Tim Berners-Lee ai propri superiori del CERN; si sviluppa in una rete globale di documenti HTML interconnessi negli anni novanta; si evolve nel cosiddetto Web 2.0 con il nuovo millennio. Si proietta oggi, per iniziativa dello stesso Berners-Lee, verso il Web 3.0 o web semantico.

Sono passati decenni dalla nascita del World Wide Web. Il concetto di accesso e condivisione di contenuti è stato totalmente stravolto. Prima ci si informava per mezzo dei radio-telegiornali di Stato o tramite la stampa di Regime. Oggi, invece, migliaia di siti web di informazione periodica e non, lanciano e diffondono un flusso continuo di news ed editoriali. Se prima, per la carenza di informazioni, si sentiva il bisogno di essere informati, oggi si sente la necessità di cernere le news dalle fakenews, stante un così forte flusso d’informazioni e la facilità con la quale ormai vi si può accedere.

Oggi abbiamo la possibilità potenzialmente infinita di accedere alle informazioni che ci interessano, ma nessuno ha il tempo di verificare la veridicità e la fondatezza di quello che ci viene propinato. Tantomeno abbiamo voglia e tempo di cercare quelle notizie che ci vengono volutamente nascoste ed oscurate. 

Quando parlo di aggregatori di contenuti non mi riferisco a coloro che, per profitto, riproducono integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. E contro questi ci sono una legge apposita (quella sul diritto d’autore, in Italia) e una Convenzione Internazionale (quella di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche). Tali norme vietano esplicitamente le pratiche di questi aggregatori.

Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili.

Dagospia. Da Wikipedia. Dagospia è una pubblicazione web di rassegna stampa e retroscena su politica, economia, società e costume curata da Roberto D'Agostino, attiva dal 22 maggio 2000. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta». Lo stile di comunicazione è volutamente chiassoso e scandalistico; tuttavia numerosi scoop si sono dimostrati rilevanti esatti. L'impostazione grafica della testata ricorda molto quella del news aggregator americano Drudge Report, col quale condivide anche la vocazione all'informazione indipendente fatta di scoop e indiscrezioni. Questi due elementi hanno contribuito a renderlo un sito molto popolare, specialmente nell'ambito dell'informazione italiana: il sito è passato dalle 12 mila visite quotidiane nel 2000 a una media di 600 mila pagine consultate in un giorno nel 2010. A partire da febbraio 2011 si finanzia con pubblicità e non è necessario abbonamento per consultare gli archivi. Nel giugno 2011 fece scalpore la notizia che Dagospia ricevesse 100 mila euro all'anno per pubblicità all'Eni grazie all'intermediazione del faccendiere Luigi Bisignani, già condannato in via definitiva per la maxi-tangente Enimont e di nuovo sotto inchiesta per il caso P4. Il quotidiano la Repubblica, riportando le dichiarazioni di Bisignani ai pubblici ministeri sulle soffiate a Dagospia, la definì “il giocattolo” di Bisignani. Dagospia ha querelato la Repubblica per diffamazione.

Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Certamente le mie opere nulla hanno a che spartire con le opere di autori omologati e conformati, e quindi non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera altrui. Quindi questi sconosciuti condannati all'oblio dell'arroganza e della presunzione se ne facciano una ragione.

Ed anche se fosse che la mia cronaca, diventata storia, fosse effettuata a fini di insegnamento o di ricerca scientifica, l'utilizzo che dovrebbe inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali è pienamente compiuto, essendo io autore ed editore medesimo delle mie opere e la divulgazione è per mero intento di conoscenza e non per fini commerciali, tant’è la lettura può essere gratuita e ove vi fosse un prezzo, tale è destinato per coprirne i costi di diffusione.

Valentina Tatti Tonni soddisfatta su Facebook il 20 gennaio 2018 ". "Ho appena saputo che tre dei miei articoli pubblicati per "Articolo 21" e "Antimafia Duemila" sono stati citati nel libro del sociologo Antonio Giangrande che ringrazio. Gli articoli in questione sono, uno sulla riabilitazione dei cognomi infangati dalle mafie (ripreso giusto oggi da AM2000), uno sulla precarietà nel giornalismo e il terzo, ultimo pubblicato in ordine di tempo, intitolato alla legalità e contro ogni sistema criminale".

Linkedin lunedì 28 gennaio 2019 Giuseppe T. Sciascia ha inviato il seguente messaggio (18:55)

Libro. Ciao! Ho trovato la citazione di un mio pezzo nel tuo libro. Grazie.

Citazione: Scandalo molestie: nuove rivelazioni bomba, scrive Giuseppe T. Sciascia su “Il Giornale" il 15 novembre 2017.

Facebook-messenger 18 dicembre 2018 Floriana Baldino ha inviato il seguente messaggio (09.17)

Buon giorno, mi sono permessa di chiederLe l'amicizia perchè con piacevole stupore ho letto il mio nome sul suo libro.

Citazione: Pronto? Chi è? Il carcere al telefono, scrive il 6 gennaio 2018 Floriana Bulfon su "La Repubblica". Floriana Bulfon - Giornalista de L'Espresso.

Facebook-messenger 3 novembre 2018 Maria Rosaria Mandiello ha inviato il seguente messaggio (12.53)

Salve, non ci conosciamo, ma spulciando in rete per curiosità, mi sono imbattuta nel suo libro-credo si tratti di lei- "abusopolitania: abusi sui più deboli" ed ho scoperto con piacere che lei m ha citata riprendendo un mio articolo sul fenomeno del bullismo del marzo 2017. Volevo ringraziarla, non è da tutti citare la foto e l'autore, per cui davvero grazie e complimenti per il libro. In bocca a lupo per tutto! Maria Rosaria Mandiello.

Citazione: Ragazzi incattiviti: la legge del bullismo, scrive Maria Rosaria Mandiello su "ildenaro.it" il 24 marzo 2017.

INTRODUZIONE. NELLA MENTE DI UN TERRORISTA.

Nella mente di un terrorista. Luigi Zoia, psichiatra Junghiano, ci guida dentro la mente dei terroristi per comprendere le ragioni che li spingono a gesti estremi, scrive Luca Sciortino il 14 gennaio 2019 su Panorama. La mente del terrorista è una stanza piena di fantasmi. Con le chiavi della psicanalisi la porta si apre e gli spettri rivelano il loro vero volto. Hanno le sembianze di istinti primordiali e paure ataviche, talvolta di disturbi mentali collettivi, radicati nelle società del nostro tempo. Questo è un giro dentro quella stanza in compagnia di Luigi Zoja, autorità internazionale nel campo della psicoanalisi junghiana, che ha analizzato la mente dei terroristi jihadisti in diverse pubblicazioni (tra le quali il “Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre" per Bollati Boringhieri e "Nella mente di un terrorista” per Einaudi con il giornalista e carabiniere Omar Bellicini). A indicarci la strada in questa esplorazione sono gli elementi comuni nelle vite e nelle personalità degli autori dei recenti attentati. Eccone alcuni: «Spesso i terroristi hanno un padre umiliato, non carismatico, moderato nella fede religiosa o frustrato» esordisce Zoja «sono disoccupati o lavoratori precari, frequentatori assidui di social, condannati per vari reati minori e, infine, sono giovanissimi, cresciuti in Occidente in famiglie venute dal Medio Oriente». Come autori di stragi, hanno collaborato con uno o più fratelli, basti pensare a Said e Cherif Kouachi colpevoli dei delitti nella sede di Charlie Hebdo il 7 gennaio del 2015, a Salah e Brahim Abdeslam coinvolti negli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, a Driss e Moussa Oukabir, parte attiva nell'attacco al cuore di Barcellona del 17 agosto 2017. E basti ricordare, infine, che dopo l'ultimo attentato di Strasburgo da parte del killer di origine marocchina Chérif Chekatt, sono stati fermati dalla polizia francese con il sospetto di complicità anche due suoi fratelli. L'assenza di una figura paterna, un ruolo che anche una madre potrebbe ricoprire, ha enormi implicazioni nella vita di un individuo. «Bisogna pensare alla paternità come a una guida spirituale che detta le regole della vita e stabilisce i limiti delle proprie azioni» afferma Zoja. La psicanalisi junghiana la definisce come un archetipo psicologico, ovvero una sorta di immagine primordiale e universale dell'inconscio. Oggi il ruolo di proibizione e autorità della famiglia si è indebolito, tanto che quando un ragazzo non va bene a scuola, non viene rimproverato il figlio ma l'insegnante. «Se manca una guida spirituale o una figura paterna, la mente umana necessita di un fantasma, un simulacro che la sostituisce. In psicologia come in fisica il vuoto deve essere sempre colmato. Nella mente del terrorista è il capo di un'organizzazione jidahista a riempire il posto rimasto vacante dalla scomparsa di punti di riferimento» conclude Zoja. Ecco anche spiegata la complicità di uno o più familiari nell'organizzazione delle stragi: in mancanza di figure paterne, si rafforza il legame con i fratelli. Questi ultimi, trovandosi nella stessa condizione di smarrimento, amplificano il desiderio inconscio di cercare altrove un sostituto dell'archetipo della paternità. La cesura tra padri e figli è netta perché i giovani hanno adottato i costumi degli europei che i padri rifiutano, per esempio nell'uso di alcolici e nel rapporto con il sesso. La mancanza di un lavoro stabile in cui identificarsi e con il quale mettere alla prova se stessi facilita poi il lavoro delle organizzazioni terroristiche che cercano adepti su Internet. «Il fondamentalismo islamico incarna alla perfezione la nostalgia nei confronti di una società patriarcale. Come si vede nelle biografie di molti attentatori, la figura di riferimento non è però tanto un padre forte e protettivo ma un maschio aggressivo e prevaricatore» continua Zoja «Questi si ammanta del ruolo di guida spirituale, forte delle verità rivelate dell'Islam, interpretate fanaticamente dal terrorista come fossero regole rigide e ferree, proprio quelle regole che il suo subconscio sta cercando». La giovane età degli attentatori gioca anch'essa un ruolo cruciale perché a quell'età la psiche è più fragile alla propaganda. Questi fantasmi mentali non bastano di per sé a spiegare il gesto folle di mettere a repentaglio la propria vita compiendo una strage. Cosa c'è di più anti-istintivo di guidare un aereo contro una torre come fecero i terroristi dell'11 settembre 2001? Ci riesce impossibile concepire un tale gesto mettendoci nei panni di un terrorista. La psicanalisi lo spiega chiamando in causa altri istinti primordiali che si contrappongono a quello di conservazione. Uno di questi è l'anelito a recuperare una dimensione epica, a compiere azioni che, sfidando la morte, riscattano i terroristi dalla condizione di inferiorità in cui sentono di essere. «Questi giovani hanno alle spalle la frustrazione di famiglie che si arrabattano a vivere lontane da Paesi dalle storie travagliate e ferite dal colonialismo» ricorda Zoja «La maggior parte delle civiltà del passato si affidava a riti di passaggio che accompagnavano i giovani verso la maturità. Per esempio la funzione di cacciatore consentiva di sfogare l'aggressività individuale nobilitandola come un'attività socialmente utile. Ora che l'identità maschile ha confini più labili e il modello paterno tradizionale è venuto meno, la mente di molti giovani si trova in uno stato di smarrimento. Un gesto eroico come quello di andare incontro alla propria morte diventa quindi un istinto irresistibile». E' l'istinto del “cupio dissolvi” di cui parlava anche Freud, che in certe circostanze può avere il sopravvento perfino sull'istinto di autoconservazione. I gruppi terroristici come l'Isis conoscono con esattezza questi istinti tanto da veicolare i loro messaggi manipolatori attraverso video di eroi delle guerre stellari o delle lotte di religione. Raggiungono menti prive di senso critico, l'antidoto più potente contro gli istinti e fanatismi, forse il regalo più grande che un giovane possa mai ricevere.

TERRORISMO IN ITALIA.

Terrorismo in Italia. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il terrorismo in Italia, ovvero le attività di terrorismo politico ed eversivo condotte da vari gruppi e organizzazioni con metodi, motivazioni e interessi diversi e talvolta contrapposti, caratterizzò una fase della storia dell'Italia repubblicana dalla fine degli anni sessanta agli anni ottanta; questa fase, inizialmente conosciuta come quella degli opposti estremismi, successivamente divenne nota come anni di piombo, da un film omonimo del 1981. Ci sono due teorie interpretative del fenomeno: la teoria degli opposti estremismi e la teoria della strategia della tensione. Alla fine degli anni novanta si è avuta una nuova recrudescenza del terrorismo politico che, nelle sue azioni eclatanti ma sporadiche, ha operato fino ai primi anni del 2000. Oltre al terrorismo politico, implicato nel contesto della guerra fredda insieme alla strategia della tensione, ci fu anche un terrorismo legato alla criminalità organizzata di matrice mafiosa, camorristica o di altra matrice, a opera di organizzazioni come Cosa nostra, Camorra, 'Ndrangheta e Sacra Corona Unita. Nell'ordinamento italiano il terrorismo è prevista come finalità aggravante ad esempio nell'art. 280 del codice penale, introdotto dalla legge Cossiga del 1980: «Chiunque, per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico, attenta alla vita od alla incolumità di una persona, è punito, nel primo caso, con la reclusione non inferiore ad anni venti e, nel secondo caso, con la reclusione non inferiore ad anni sei.» (Articolo 280, comma 1).

Terrorismo politico.

Anni sessanta e settanta. La lunga durata del terrorismo italiano ha attirato l'attenzione di molti studiosi che hanno cercato di analizzarlo e di interpretarne le cause. L'Italia sembra essere il solo grande Paese europeo dove il terrorismo politico abbia avuto una così lunga cittadinanza, con l'eccezione dell'Irlanda del Nord e dei Paesi Baschi, in cui però la problematica ha risentito di cause etniche e religiose. Recentemente il politologo Ernesto Galli della Loggia ha esaminato il problema dell'anomalia italiana arrivando alla conclusione che esista un fondo di violenza proprio della società italiana. L'interpretazione ha suscitato consensi e dissensi. La questione è stata trattata anche da Giovanni Fasanella e Giovanni Pellegrino in un libro dal titolo particolarmente significativo (La guerra Civile) che argomenta che l'Italia è rimasta per oltre cinquant'anni sull'orlo di una guerra civile e questo gli ha impedito, nei fatti, di diventare un paese normale. Altra anomalia italiana, legata all'ipotizzata "strategia della tensione", è inoltre il diffuso sospetto che negli anni settanta una parte della recente storia patria sia stata influenzata da iniziative di elementi dei servizi segreti e di gruppi politici extraparlamentari, interessati alla destabilizzazione del sistema politico italiano e a condizionarne la democrazia. Il periodo è conosciuto con il termine Anni di piombo, con riferimento all'omonimo film del 1981 di Margarethe von Trotta il cui titolo richiama il piombo delle pallottole. Il terrorismo di diversa matrice fallì nei propri obiettivi e sconfitti furono i gruppi di estrema sinistra di matrice in genere marxista-leninista che videro sfumare la possibilità di sovvertire l'ordinamento statale attraverso la lotta armata. Sconfitti furono anche i gruppi di estrema destra che a loro volta intendevano cambiare la formula politica che per un venticinquennio ci ha governato terrorizzando l'opinione pubblica al fine di dimostrare l'incapacità della democrazia a governare l'ordine pubblico, e l'esigenza di instaurare un regime autoritario. Qualcuno ritiene però che l'emanazione da parte dello Stato di leggi repressive, le cosiddette leggi speciali, fosse una parziale vittoria dell'estrema destra. L'analisi e la discussione su questo complesso periodo storico sono ancora aperte e mentre per alcuni si è trattato di anni di "terrorismo di sinistra", per altri si deve parlare di "stragismo di destra" e per altri ancora di "stragismo di stato". Altre posizioni ritengono che al riguardo "esista solo una verità giudiziaria parziale, confusa e spesso contraddittoria".

Anni ottanta. La fine degli "anni di piombo" viene comunemente fatta coincidere con la liberazione del generale statunitense James Lee Dozier, avvenuta a Padova il 28 gennaio 1982 con un'azione incruenta dei NOCS. In realtà, c'è ancora da segnalare l'omicidio del Senatore democristiano Roberto Ruffilli, commesso proprio nel 1988, decennale del rapimento di Aldo Moro, del quale Ruffilli è, secondo le BR, il continuatore politico. Nel corso del decennio comunque gli episodi di violenza andarono scemando, anche a causa del crollo del sostegno alle Brigate Rosse a seguito dell'assassinio dell'operaio comunista Guido Rossa nel 1979. L'opinione che la lotta armata potesse mutare l'assetto costituzionale andava sempre più indebolendosi e, secondo alcuni studiosi, cresceva parallelamente la reazione capitalistica che elevava produttività e competizione economica a valori e ne faceva gli unici criterio di progresso. Il terrorismo politico successivo, soprattutto di matrice rossa, limitò quindi i suoi obiettivi, cercando di influire nei processi politici e sociali e mantenere una certa pressione sulle libertà decisionali democratiche. Questo terzo ciclo del terrorismo politico, pur estremamente discontinuo e disomogeneo, arriva a mietere vittime fino all'inizio del XXI secolo.

Anni novanta e 2000. A diversi anni di distanza dagli avvenimenti degli omicidi a sfondo politico, sul finire degli anni novanta ha iniziato a riaffacciarsi sullo sfondo extraparlamentare il cosiddetto terrorismo risorgente di matrice comunista che portò alla ricostruzione di organi eversivi scioltisi con la fine degli anni di piombo, come le Nuove BR. In questa ottica avvengono gli omicidi di Massimo D'Antona, consulente per il ministero del Lavoro, il 20 maggio 1999 e di Marco Biagi, il 19 marzo 2002, rivendicati da parte dei nuclei ricostituiti delle Brigate Rosse nel tentativo di influenzare lo scenario sociopolitico come accaduto durante gli anni di piombo. L'ultima vittima, Emanuele Petri, agente della Polfer, ucciso il 2 marzo 2003 nel corso di uno scontro a fuoco a bordo di un treno nel quale viaggiavano i capi della nuova organizzazione eversiva: Nadia Desdemona Lioce e Mario Galesi. Nel 2003 il gruppo viene ufficialmente sciolto dopo l'arresto della Lioce e la morte di Galesi e i conseguenti arresti degli altri membri. Nel 2005 la sentenza definitiva condanna all'ergastolo la Lioce.

Episodi più rilevanti.

Bombe del 25 aprile 1969: il 25 aprile 1969 una bomba esplode al padiglione FIAT della Fiera di Milano (sei feriti e nessuna vittima) e una seconda bomba inesplosa viene ritrovata all'Ufficio Cambi della Stazione Centrale. Alcuni considerano questo episodio l'inizio della cosiddetta "strategia della tensione".

Strage di Piazza Fontana: il 12 dicembre 1969 una bomba esplode a Milano, provocando diciassette vittime e ottantotto feriti; nello stesso giorno viene trovata una seconda bomba inesplosa in Piazza della Scala ed altre tre bombe esplodono in punti diversi di Roma, provocando alcuni feriti.

Strage di Gioia Tauro: il 22 luglio 1970 un treno deraglia sui binari sabotati precedentemente da una bomba, uccidendo sei persone.

Strage di Peteano: il 31 maggio 1972 a Peteano di Sagrado (provincia di Gorizia) un'autobomba preparata da militanti di Ordine Nuovo uccide tre carabinieri.

Strage della Questura di Milano: il 17 maggio 1973 un attentato messo in atto dall'anarchico Gianfranco Bertoli provoca 4 morti e 52 feriti.

Strage di Piazza della Loggia: il 28 maggio 1974 una bomba esplode a Brescia uccidendo 8 persone.

Attacco alla sede MSI di Padova: il 17 giugno 1974 le Brigate rosse uccidono due militanti missini.

Strage dell'Italicus: il 4 agosto 1974 una bomba ad alto potenziale esplode sul treno Italicus provocando 12 morti e 48 feriti.

Strage di via Fani: il 16 marzo 1978 Aldo Moro viene rapito dalle Brigate rosse e 5 uomini della scorta vengono uccisi.

Omicidio di Aldo Moro: il 9 maggio 1978 le Brigate Rosse uccidono Aldo Moro.

Omicidio di Guido Rossa: il 24 gennaio 1979, le Brigate Rosse uccidono il sindacalista Guido Rossa a Genova.

Strage di Bologna: il 2 agosto 1980 un ordigno esplode nella stazione di Bologna Centrale uccidendo 85 persone e ferendone oltre 200.

Terrorismo in Alto Adige. La stagione del terrorismo in Alto Adige iniziò nella seconda metà degli anni '50. Scopo dei terroristi era la rivendicazione dell'indipendenza dall'Italia o l'annessione all'Austria. I primi attentati sono riconducibili al Gruppo Stieler, ma la più importante organizzazione clandestina fu il Comitato per la liberazione del Sudtirolo (Befreiungsausschuss Südtirol). La sua prima grande azione fu la Notte dei fuochi (Feuernacht) nel 1961, quando i terroristi fecero esplodere diversi tralicci dell'alta tensione mediante l'uso di 350 ordigni, anche per richiamare l'attenzione internazionale sulla questione altoatesina. Negli anni il movimento si radicalizzò e prese di mira le forze dell'ordine italiane. L'azione più cruenta fu la strage di Cima Vallona nel 1967. Tra i più noti esponenti del terrorismo altoatesino vi sono il fondatore del Befreiungsausschuss Sepp Kerschbaumer e Georg Klotz, detto il martellatore della Val Passiria, la cui figlia Eva Klotz viene considerata l'attuale leader dell'indipendentismo sudtirolese. Mentre gli anni '70 furono segnati da una relativa calma, negli anni '80 il terrorismo altoatesino ricomparve sulla scena nella forma di un'organizzazione terroristica di stampo neonazista, Ein Tirol ("Un Tirolo"), che compì vari attentati dinamitardi. Il bilancio del terrorismo in Alto Adige dal 20 settembre del 1956 al 30 ottobre del 1988: 361 attentati con esplosivi, raffiche di mitra, mine; 21 morti, di cui 15 membri delle forze dell'ordine, due cittadini comuni e quattro terroristi, dilaniati dagli ordigni che stavano predisponendo; 57 feriti, 24 fra le forze dell'ordine, 33 privati cittadini.

Terrorismo politico in Sardegna. La stagione dell'eversione politica, attiva in Italia già dai primi anni del dopoguerra, si espanse in Sardegna a metà degli anni '60 e si concluse negli anni '80, fine degli anni di piombo anche nella penisola. I contatti tra i banditi locali dell'anonima sarda e i militanti di organizzazioni eversive di estrema sinistra e attive nel terrorismo rosso, quali Brigate Rosse e Nuclei Armati Proletari, furono in parte aiutate dalla detenzione di militanti estremisti di sinistra nei carceri di massima sicurezza dell'isola, in maniera similare ai soggiorni obbligati dei mafiosi meridionali nel Settentrione, che influenzarono la nascita della Mala del Brenta. I movimenti terroristici e paramilitari più famosi, nati nell'isola, furono Barbagia Rossa, Movimento Armato Sardo e Comitato di Solidarietà con il Proletariato Prigioniero Sardo Deportato, nella maggior parte di ideologia comunista e indipendentista, nell'arco di un decennio rivendicarono diversi attentati, omicidi e sequestri di persona.

Tra i principali sostenitori della causa indipendentista ed eversiva vi fu l'editore Giangiacomo Feltrinelli, che più volte tentò di prendere contatti con diverse organizzazioni con l'intento di rendere indipendente la Sardegna (con l'aiuto degli indipendentisti) e formare un governo comunista (con l'aiuto degli eversivi di sinistra) sul modello approcciato da Fidel Castro a Cuba. Prendendo in considerazione l'elezione di Graziano Mesina, il più noto bandito della criminalità sarda, come capo delle truppe ribelli, idea che effettivamente fu opzionata sia dagli eversivi di sinistra come dimostrano i vari contatti avutisi che dai servizi segreti deviati. Storia recente è il fallito attentato dinamitardo, a Porto Rotondo, nei confronti del presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi, durante la visita del premier inglese Tony Blair in Sardegna, avvenuto nell'agosto 2004, rivendicato da un movimento indipendentista, denominato Organizzazione Indipendentista Rivoluzionaria (Oir) e dai Nuclei proletari per il comunismo (Npc).

Terrorismo anarchico. Verso la fine degli anni novanta e per tutti gli anni 2000 si assisterà anche ad una continuata attività eversiva relativa all'area dell'anarco-insurrezionalismo. Le azioni terroristiche di matrice anarchica in questi anni sono state caratterizzate dall'utilizzo di esplosivi. La sigla più presente nelle rivendicazioni di tali attentati è stata la FAI - Federazione Anarchica Informale. Una organizzazione anarchica nota come "Solidarietà Internazionale" fu protagonista di una serie di eventi dal 1998 al 2000 nella città di Milano. Nell'estate 1998 seguirono alla morte degli anarchici Maria Soledad Rosas e Edoardo Massari (conosciuti come "Sole e Baleno", furono vittime di quella che si rivelò in seguito una montatura giudiziaria che li voleva responsabili di atti di ecoterrorismo, entrambi morirono suicidi in strutture di detenzione) una serie di lettere-bomba inviate a diversi politici, magistrati, giornalisti e carabinieri. Nell'ottobre 1998 un attentato alla stazione dei carabinieri. Nell'estate 1999 due bombe rivendicate dal gruppo vengono trovate e per un caso fortuito non esplodono. Il 28 giugno 2000 due bottiglie incendiarie lanciate dai membri del gruppo durante la cerimonia per la polizia penitenziaria nella basilica di Sant'Ambrogio non esplodono. Nel settembre 2001 le indagini di diverse 14 procure interregionali portarono a una maxi-retata nazionale con l'indagine su 60 persone legate all'organizzazione e accusate di «associazione a delinquere con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico». Le motivazioni del gruppo erano la lotta a favore dei detenuti anarchici in Spagna sottoposti a regime di carcere duro, e aveva diversi contatti con associazioni sovversive in Grecia e Inghilterra. Il 18 dicembre 2000 un lavoratore notò la presenza di una borsa tra la terza e la quarta guglia del tetto del Duomo di Milano, disinnescata dopo l'intervento degli artificieri, l'ordigno era programmato per esplodere alle 3 della notte seguente e carico di oltre un kg di esplosivo. La notte del 16 dicembre 2009 esplode parzialmente un ordigno rudimentale carico di 2 kg di dinamite negli interni dell'università Bocconi di Milano. La bomba, piazzata per chiedere la chiusura dei Centri di identificazione ed espulsione, è stata rivendicata dalla FAI in un volantino firmato "Nucleo Maurizio Morales" recapitato alla redazione del quotidiano Libero. A tal proposito si inserisce un comunicato della Federazione Anarchica Italiana, che denuncia l'uso infamante del medesimo acronimo.

Terrorismo palestinese. Di terrorismo palestinese in Italia si parlò nel corso degli anni di piombo, quando per la prima volta agì nel Paese un commando di dell'organizzazione Settembre Nero, che, il 4 agosto 1972, collocò delle cariche esplosive nei pressi dei serbatoi petroliferi al terminale dell'oleodotto transalpino a San Dorligo della Valle (TS). Anche se non ci furono vittime, l'esplosione provocò alcuni feriti oltre a ingenti danni materiali ed ambientali.

Il 17 dicembre 1973, un attentato di matrice palestinese presso l'aeroporto di Fiumicino causò la morte di 34 persone e il ferimento di altre 15. Nel 1982 un commando di cinque terroristi di origine palestinese, facenti parte del Consiglio rivoluzionario di al-Fath di Abu Nidal causò la morte di Stefano Gaj Taché (2 anni) e il ferimento di altre 37 persone, alla sinagoga di Roma. Nel 1985, la terza azione di un commando palestinese, di nuovo all'aeroporto Fiumicino, costò la vita a 13 persone. Contemporaneamente avveniva all'aeroporto Schwechat di Vienna un attacco della stessa cellula e con le stesse modalità.

Terrorismo di matrice islamista. Nel 1998, dopo che si era scelta la Francia come nazione ospite dei campionati mondiali di calcio, le unità antiterroristiche dei diversi paesi europei lanciarono diversi allarmi riguardo al rischio di azioni sovversive da parte di sopravvissuti e nostalgici del Gruppo Islamico Armato algerino. In Italia la Digos effettuò l'"Operazione Al Shabka", l'"Operazione Venti Tranquilli" e l'"Operazione Ritorno"; le quali portarono alla scoperta di reti logistiche islamiste in Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto composte da tunisini, algerini e magrebini in parte reduci dal conflitto bosniaco, che sostenevano la latitanza di terroristi e il finanziamento di cellule terroristiche, argomenti identificati dal rapporto finale delle indagini come una «agenzia di servizi a disposizione del terrorismo islamico in Europa».

Si riprese a parlare di terrorismo islamico dopo gli attentati dell'11 settembre 2001. Dai rapporti elaborati da agenzie di sicurezza italiane ed estere, è emerso che l'Italia sia luogo di posizione per cellule islamiche più o meno in contatto tra loro in attesa di richiami o compiti. Nel 2001 l'ambasciata statunitense di Roma chiuse sotto il periodo di Capodanno per timore di attentati.

Nei primi mesi del 2002, per la prima volta dopo gli attentati dell'11 settembre, in Italia veniva emesso un comunicato dei servizi segreti statunitensi nel quale si confermava la nascita di gruppi terroristici a livello embrionale di matrice islamica. Lo stesso rapporto indicava le città di Firenze e Venezia come possibili obiettivi di attentatori suicidi, motivo per il quale nel periodo seguente la pubblicazione vennero intensificate le misure di sicurezza per prevenire possibili attacchi terroristici. Poco tempo dopo l'avviso di cautela emesso dagli Stati Uniti d'America, la polizia aveva ritrovato, in un appartamento affittato ad alcuni marocchini, delle piantine e possibili tracce della pianificazione di un attacco all'ambasciata inglese di Roma. Una settimana dopo i fatti, da un controllo delle autorità dell'ordine contro l'immigrazione clandestina, venne sgominata una banda di immigrati magrebini impegnata nella progettazione di un attentato all'ambasciata americana di Roma e in Via Veneto. Per la realizzazione del piano i quattro avevano formulato un composto con alte dosi di cianuro, aiutandosi con lo studio di una pianta con alcuni acquedotti capitolini, forse con l'intenzione di avvelenarli.

Nel dicembre 2008 vengono arrestati a Giussano, nella Brianza, Rachid Ilhami e Albdelkader Ghafir, due cittadini marocchini, con l'accusa di pianificare attentati ad alto potenziale stragista nella città di residenza. I due avevano previsto tre attacchi con esplosivo in zone contigue a Giussano: supermercato Esselunga a Seregno, vasto parcheggio per auto nelle vicinanze del supermercato e caserma dei Carabinieri locale.

Il 3 settembre 2009 viene arrestato a Roma un cittadino algerino di 44 anni, ma in possesso di un passaporto irlandese, legato al Gruppo Islamico Armato e ricercato a livello mondiale per un mandato di cattura internazionale emesso nei suoi confronti per i suoi legami con il terrorismo.

Il 12 ottobre 2009 viene messo in atto, contro una caserma di Milano, da parte di un cittadino libico, quello che è stato considerato il primo attacco suicida ad alto potenziale stragista in Italia. La quantità di esplosivo usata dall'attentatore non risultò però così pesante da provocare ingenti danni, tanto che l'attentatore stesso ne uscì ferito insieme a un militare in procinto di fermarlo. In una relazione sull'accaduto del Dis al Parlamento, si accoglieva l'ipotesi di un atto isolato di una persona classificata come «terrorista solitario», smentendo nel frattempo i collegamenti tra l'azione e organizzazioni integraliste vere e proprie.

Terroristi latitanti. Il Ministro della Giustizia Clemente Mastella e il Ministro dell'Interno Giuliano Amato, rispondendo a interrogazioni parlamentari, hanno divulgato all'inizio 2007 una lista di terroristi latitanti "ricercati in campo internazionale per atti di associazione terroristica, banda armata o associazione sovversiva" in cui risultano "113 soggetti, di cui 59 appartenenti a gruppi terroristici considerati di estrema sinistra, 11 a gruppi considerati di estrema destra e 43 appartenenti a gruppi terroristici internazionali".[26]Negli ultimi anni il Mandato di Cattura Europeo ha reso più facile estradare e processare i terroristi residenti all'estero.

Omissis e segreti di Stato. Il 7 novembre 1977 è entrata in vigore la legge 801 che imponeva la segretezza su «atti, documenti, notizie, attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recar danno all'integrità dello Stato democratico». Nell'aprile del 2008 un decreto governativo ha deciso che i documenti riservati non potranno restare segreti per più di 30 anni sancendo di fatto l'accessibilità a documenti occultati più di trent'anni fa. Il diritto di accesso a documenti coperti da segreto di Stato non si calcola però a partire dalla data in cui è avvenuto il fatto, ma a decorrere dall'opposizione del vincolo o dalla conferma della sua opposizione. Per quanto riguarda la strage dell'Italicus del 1974, ad esempio, la comunicazione al Parlamento dell'apposizione del segreto di Stato da parte del Governo è avvenuta il 2 settembre del 1982 e pertanto i 30 anni indicati sono scaduti nel 2012. La cessazione del vincolo del segreto di Stato "non comporta l'automatica decadenza del regime della classifica e della vietata divulgazione".

Utilizzo del segreto di Stato. Durante le indagini sul golpe bianco, venne posto il segreto di Stato dal Governo anche se, secondo Edgardo Sogno, il segreto non riguardava il golpe ma un memorandum sui fatti d'Ungheria e alcuni documenti riguardanti Mario Scelba. Nel 1985 l'allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi decise il segreto di Stato sulle vicende riguardanti Augusto Cauchi, terrorista nero fatto espatriare nel 1974 dal SID, durante l'istruttoria sulla strage dell'Italicus. Sempre nel 1985 Craxi pose inoltre il viene alle indagini sul comportamento del Sismi che, recuperato in Uruguay l'archivio di Licio Gelli, decise di restituire alle autorità sudamericane due fascicoli riguardanti due politici italiani. Nel 1988 il Segreto di Stato viene opposto al giudice Carlo Mastelloni che indagava sulla caduta dell'aereo militare del Sismi Argo 16, esploso in volo nel 1973 con tutti i membri del suo equipaggio.

Il terrorismo delle associazioni mafiose. Cosa Nostra ha cercato di influire sugli avvenimenti politici e giudiziari anche ricorrendo alla violenza di matrice terroristica, attraverso l'uso di esplosivi per seminare il terrore: infatti, il boss Giuseppe Calò organizzò insieme ad alcuni terroristi neri e camorristi la strage del Rapido 904 (23 dicembre 1984), che provocò 17 morti e 267 feriti, al fine di distogliere l'attenzione delle autorità dalle indagini del pool antimafia e dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno. Nel biennio 1992-93 tale strategia terroristica di Cosa Nostra si ripropose in seguito alle numerose condanne all'ergastolo scaturite dal Maxiprocesso e ai nuovi provvedimenti antimafia varati dallo Stato: in due gravi attentati dinamitardi furono uccisi i giudici Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e Paolo Borsellino (19 luglio), a cui seguirono alcune autobombe a Roma, Firenze e Milano (maggio-luglio 1993) che provocarono numerose vittime e feriti nonché danni al patrimonio artistico italiano.

TERRORISMO ROSSO.

Terrorismo rosso. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il terrorismo rosso è una tipologia di eversione armata di ispirazione comunista e rivoluzionaria e, più in generale, collegata a ideologie politiche di estrema sinistra e che ha come obiettivo il ricorso alle armi come unico mezzo individuato per disarticolare il sistema Stato-Capitale, al fine di generare un sollevamento del proletariato e provocare così uno slancio rivoluzionario liberatrice delle masse oppresse. Obiettivo di tali organizzazioni è il rovesciamento dei governi capitalistici e la loro sostituzione con la dittatura del proletariato, ovvero con l'unica classe rivoluzionaria e anti-imperialista, in grado di abolire il classismo e lo sfruttamento e favorire l'instaurazione di una società marxista-leninista o socialista, come passo fondamentale verso il raggiungimento di una democrazia vera e non solo formale.

Le origini. «La netta soluzione di continuità tra l’organizzazione armata e i movimenti sociali è sottolineata dalla decisione di intendere la violenza come progetto e strumento di azione in strutture clandestine […] privandosi delle discussioni politiche aperte e democratiche per analizzare e verificare ipotesi e obiettivi» (Robert Lumley da La genesi del terrorismo di sinistra). Alcune tracce delle origini del terrorismo rosso, d'ispirazione marxista-leninista e che poi diede vita al moltiplicarsi di organizzazioni armate di sinistra negli anni settanta, possono essere probabilmente individuate in alcuni scritti del politico e rivoluzionario russo, Lev Trotsky. Già nel 1918, all'indomani cioè della Rivoluzione d'ottobre, nel suo Terrorismo e comunismo, Trotsky teorizzava la necessità dell'impiego della forza (terrore rosso) da parte del potere rivoluzionario, per difendere il neonato Stato dei soviet dai germi della controrivoluzione e dalle stesse classi che, la rivoluzione stessa, aveva espropriato e che cercavano a loro volta di rovesciare. «La Storia non ha trovato finora altri mezzi per fare avanzare l'umanità, se non opponendo ogni volta alla violenza conservatrice delle classi dominanti, la violenza rivoluzionaria della classe progressista» (Lev Trotsky da Terrorismo e Comunismo). Il terrore rosso, quindi, come proseguimento naturale dell'insurrezione armata attraverso la quale i comunisti avevano preso il potere in Russia. E come chiarisce lo stesso Trotsky, nella prefazione alla seconda edizione inglese del suo testo: "il terrorismo è, in ultima analisi, un'incitazione, un monito, un incoraggiamento: lavoratori di tutti i paesi, unitevi e prendete il potere, strappatelo a chi lo usa per tenervi in catene e fatelo vostro." «La creazione di un disciplinato e potente Esercito rosso nello Stato comunista dei Soviet ha la virtù di eccitare i cervelli vuoti. Si parla della Russia sovietista come di una nuova Prussia militarista. Lev Trotsky, che ha saputo rinnovare i miracoli di Lazzaro Carnot, tra difficoltà enormemente superiori a quelle dovute superare dal grande organizzatore della Rivoluzione francese, viene presentato come un nuovo Gengis Kan; si parla di 'regime militarista', mentre l'Esercito rosso è istituzione transitoria creata per la difesa della rivoluzione» (Antonio Gramsci da L'Avanti!, marzo 1919).

Nel mondo. Nate perlopiù nel contesto storico che seguì il movimento di protesta che, sul finire degli anni sessanta, prese il nome di Sessantotto, le organizzazioni terroristiche di sinistra ebbero il loro periodo di maggiore attività soprattutto nel corso degli anni settanta e ottanta quando la loro strategia eversiva sembrò in alcuni casi far vacillare governi e sistemi politici, in nome di una trasformazione radicale della società e nella speranza di un sollevamento del proletariato nella lotta rivoluzionaria. Nel corso del tempo, moltissimi Paesi in tutto il mondo hanno dovuto in qualche modo confrontarsi con il fenomeno terrorista e, nello specifico dell'eversione legata ad ideologie di sinistra, furono le democrazie occidentali (Stati Uniti, Giappone e, soprattutto, l'Europa), dove i gruppi terroristici trovarono il terreno più fertile per le loro azioni. E anche nei Paesi dittatoriali dell'America Latina, dove la lotta eversiva assunse la valenza anche di lotta per la liberazione nazionale, la svolta armata d'ispirazione marxista-leninista, alimento il fiorire di gruppi di guerriglia per la presa del potere in nome di una rivoluzione socialista. Tra le organizzazioni terroristiche di sinistra più conosciute e longeve nel mondo, ci furono: l'Armata Rossa Giapponese, i Weather Underground negli Stati Uniti, le Brigate Rosse e Prima Linea in Italia, la Rote Armee Fraktion nella ex Germania Ovest, Action directe in Francia, il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale in Nicaragua, Sendero Luminoso in Perù e le FARC in Colombia.

Germania. La più importante formazione armata di sinistra tedesca fu la Rote Armee Fraktion (RAF). Inizialmente nota come banda Baader-Meinhof, la RAF venne fondata il 14 maggio 1970 da Andreas Baader, Gudrun Ensslin, Horst Mahler, e Ulrike Meinhof. Organizzazione comunista e antimperialista, dedita alla guerriglia urbana e impegnata nella resistenza armata contro quello che considerano uno stato fascista, nonostante i suoi leader (Ensslin, Baader e Meinhof) furono prematuramente arrestati nel 1972, il gruppo rimase comunque attivo per quasi 30 anni, fino al 1993, e venne formalmente disciolto nel 1998. Organizzato in piccole cellule compartimentate la RAF poteva contare anche su collegamenti con formazioni terroristiche internazionali come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, con il gruppo francese Action directe, le Brigate Rosse, e con terroristi come il Comandante Carlos. Complessivamente, la Rote Armee Fraktion fu responsabile di numerose operazioni terroristiche e di 33 omicidi[7] e raggiunse momento di massima attività fra il 1975 e il 1977, culminata con il rapimento del presidente degli industriali tedesco-occidentali Hanns-Martin Schleyer e il dirottamento di un aereo Lufthansa. Diversi dirigenti e militanti del gruppo rimasero uccisi tra la fine degli anni settanta e primi anni ottanta durante scontri a fuoco con la polizia oltre alla morte, in carcere, il 18 ottobre del 1977 nella prigione di Stammheim, a Stoccarda (ufficialmente per suicidio), di Andreas Baader e di altri due leader storici del gruppo, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe. l 20 aprile del 1998, un volantino di otto pagine a firma RAF fu inviata via fax all'agenzia di stampa Reuters, dichiarando lo scioglimento ufficiale del gruppo. Altra organizzazione terroristica di estrema sinistra tedesca fu la Revolutionäre Zellen (RZ). Attiva tra il 1973 e il 1995, è stata descritta nei primi anni ottanta, secondo il Ministero dell'Interno tedesco, come una delle più pericolose formazioni terroristiche di sinistra e responsabile di 186 attacchi, 40 dei quali furono portati a segno a Berlino Ovest. Banda Baader-Meinhof. Le idee, le bombe, i suicidi, “sospetti”. Nel 1968 in Germania si forma il gruppo terroristico Raf. E scoppia l’autunno caldo, scrive Paolo Delgado l'8 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Li chiamavano “Banda Baader- Meinhof” e i media tedeschi li definivano comunemente “anarchici”, oltre che naturalmente “terroristi”. In realtà il nome che si erano dati era Raf, Rote Armee Fraktion, Frazione dell’armata rossa, ed erano comunisti con forte venatura terzomondista. Per sconfiggerli, lo Stato varò leggi eccezionali infinitamente più dure di quelle adoperate in Italia contro le Br. Calpestò ogni diritto, umano e civile. Fu il momento più tragico della storia della Germania ovest nel dopoguerra: “l’autunno tedesco”. Bettina Rohl, figlia di Ulrike Meinhof, una delle più famose esponenti del gruppo, ha segnalato in una recente intervista quanto, secondo lei, la separazione dei genitori sia stata determinante nella scelta estrema di sua madre. Materiale sufficiente per consentire qualche titolo a effetto sul terrorismo tedesco derivato dalle sofferenze private di Ulrike, giornalista molto nota negli anni anni 60. In realtà neppure Bettina Rohl accenna una tesi così balzana. Si limita ad affermare che il “tradimento” di suo padre Klaus Rohl, direttore della rivista radicale tedesca Konkret, la stessa dove aveva a lungo lavorato Ulrike, avesse fatto vacillare l’equilibrio mentale della madre, spingendola nelle braccia dell’Armata rossa. È anche questa una forzatura. Iscritta al Partito comunista illegale sin dal 1959, poi redattrice di punta dell’infiammata Konkret, Ulrike Menhoif era sempre stata schierata su posizioni molto estreme. E’ possibile che l’abbandono da parte di Rohl abbia pesato sulla sua decisione, ma certamente fu più determinate la situazione che si era creata in Germania ovest alla fine degli anni 60. Lo stesso clima incandescente che aveva portato alla nascita della Raf, gruppo armato longevo il cui scioglimento fu annunciato solo nel 1998, con numerosi attentati spettacolari all’attivo e un bilancio di sangue pesante: 33 vittime, oltre 200 feriti. Più una sfilza impressionante di suicidi, su molti dei quali non hanno mai smesso di aleggiare sospetti di omicidio camuffato, tra cui quello della stessa Ulrike Meinhof. Il ‘ 68 tedesco inizia in realtà il 2 giugno 1967. Quel giorno, nel corso delle manifestazioni contro la visita dello Scià di Persia, uno studente di 27 anni, Benno Ohnesorg fu ucciso da un poliziotto a Berlino. La situazione era già tesa di per sé. Per la prima volta era al governo una Grosse Koalition e i già esigui spazi d’opposizione, con il partito comunista fuori legge, si erano definitiva- mente chiusi. Il capo del governo, Kurt Georg Kiesinger, aveva avuto in tasca la tessera nazista fino al 1945. Ex nazisti di spicco erano disseminati un po’ ovunque nella pubblica amministrazione. L’assassinio di Ohnesorg suscitò tra i giovani una reazione fortissima, che si tradusse nella nascita di un diffuso movimento rivoluzionario che coniugava spesso confusamente marxismo, terzomondismo e suggestioni controculturali. Dal quel terreno sarebbero presto nati i gruppi armati, come la stessa Raf, le Cellule rivoluzionarie, il Movimento 2 Giugno di Bommi Bauman, che prendeva il nome proprio dalla data dell’uccisione di Ohnesorg. Il 2 aprile 1968 quattro studenti, tra cui Andreas Baader e Gudrun Ensslin, diedero fuoco alla sede di due grandi magazzini a Francoforte per protesta contro la guerra in Vietnam. Meno di dieci giorni dopo il leader della Sds, guida del movimento studentesco, Rudi Dutschke fu ferito gravemente da un neofascista dopo una campagna martellante contro il movimento e contro Dutschke personalmente dei giornali del gruppo Springer. La Germania prese fuoco. Le manifestazioni furono violentissime, costellate da attacchi ai giornali di Springer. Gli attentatori di Francoforte furono condannati a tre anni, con pena temporaneamente sospesa nel giugno 1969. Cinque mesi dopo, in novembre, fu spiccato un nuovo ordine di arresto ma a quel punto tre di loro, tra cui Baader e Ensslin erano già riparati in Francia, ospiti del giornalista amico di Castro e di Guevara Regis Debray. Baader fu catturato nell’aprile 1970: meno di un mese dopo fu fatto evadere grazie all’aiuto di Ulrike Meinhof. Il ruolo della giornalista, che aveva chiesto un’intervista per far sì che il leader della Raf venisse spostato dal carcere permettendo l’evasione, avrebbe dovuto restare ignoto. Ma nell’imprevisto scontro a fuoco ci scappò un ferito grave e la giornalista decise di seguire Baader e la Ensslin in clandestinità. La Raf propriamente detta nacque allora. Il gruppo si trasferì in Libano, fu addestrato all’uso delle armi nei campi del Fronte popolare della Palestina. Strinse legami fortissimi con i palestinesi e probabilmente anche con qualche servizio segreto dell’est. Scelse il nome e il simbolo, pare commissionato da Baader a un grafico pubblicitario debitamente pagato: la stella rossa col mitra sovraimpresso e il nome del gruppo. Iniziarono le rapine e gli attentati, molti segnati dall’antimperialismo ma molti anche contro le proprietà di Springer. La Raf diventò il pericolo pubblico numero 1 in Germania, oggetto di una caccia all’uomo di proporzioni inaudite che si concluse con l’arresto di tutti i dirigenti nel giugno 1972. Una nuova generazione di militanti riempì però i vuoti lasciati dagli arresti e iniziò allora la fase più tragica della storia tedesca nel dopoguerra. I detenuti furono rinchiusi nel carcere di massima sicurezza di Stammheim, un inferno lastricato di isolamento assoluto, luci sempre accese, controlli permanenti. Nel 1974 Holger Meins proclamò uno sciopero della fame per protesta e ne morì. Nel 1976 morì anche la Meinhof: un altro suicidio. In occasione dell’inizio del processo ai capi della Raf, nell’aprile 1977, il gruppo uccise il pubblico ministero, Siegfried Buback, con l’autista e la guardia del corpo. In luglio fu colpito a morte il banchiere Hans Jurgen Ponto. Il 5 settembre fu sequestrato a Colonia il presidente della Confindustria tedesca, in un attacco che fece da modello al sequestro Moro. I quattro uomini della scorta furono uccisi. La Raf chiese il rilascio dei detenuti, lo Stato prese tempo pur avendo già deciso di non trattare. In ottobre l’Fplp si unì all’operazione con uno spettacolare dirottamento aereo. Per il rilascio degli ostaggi avanzò le stesse richieste dei rapitori di Schleyer, aggiungendo alla lista due detenuti palestinesi. Le teste di cuoio tedesche attaccarono l’aereo in sosta a Mogadiscio uccidendo quasi tutti i sequestratori. La stessa notte Baader, la Ensslin a Jan- Carl Raspe si suicidarono a Stammheim. Sulla loro morte, come su quella di Ulrike Meinhof non è mai stata fatta davvero chiarezza. Schleyer fu ucciso il giorno dopo. L’autunno tedesco durò ancora a lungo.

Belgio. La formazione terroristica delle Cellule comuniste combattenti (CCC) venne fondata nel 1982, in Belgio, da Pierre Carette, grazie anche all'apporto di alcuni militanti della francese Action directe. Gruppo d'ispirazione marxista-leninista, i CCC furono attivi per meno di due anni. Finanziarono le loro attività attraverso una serie di rapine in banca e furono principalmente impegnati in attentati entro i confini del Belgio ma con obiettivi prevalentemente internazionali. Nel corso di 14 mesi effettuarono 20 attentati contro, in particolare, la NATO, aziende statunitense ed altre imprese internazionali. Nel dicembre 1985, la polizia ha arrestò il leader e fondatore Pierre Carette, assieme ad altri militanti del gruppo. Dopo la sua condanna all'ergastolo, il 14 gennaio 1986, il gruppo cessò di essere operativo.

Francia. In Francia, l'organizzazione Action Directe (AD), venne fondata, nel 1979 da Jean-Marc Rouillan e dalla fusione del Groupe d'Action Révolutionnaire Internationale con il Noyaux Armés Pour l'Autonomie des Peuples. Attiva solamente per otto anni, al suo interno coesistevano due formazioni: una nazionale e un'altra internazionale con quest'ultima che manteneva una collaborazione attiva con gli altri movimenti terroristici europei come la Rote ArmeeFraktion tedesca, le Brigate Rosse e le Cellule comuniste combattenti del Belgio. Tra il 1982 e il 1985, la fazione nazionale di Action Directe effettuò numerosi attentati dinamitardi a edifici governativi e omicidi contro obbiettivi politici: il più noto fu quello che nel 1985 costò la vita al generale René Audran, uno dei massimi responsabili della Difesa e dell'industria militare. Il 28 marzo 1986, la fazione nazionale dell'organizzazione, venne smantellata con l'arresto a Lione e a Saint-Étienne di André Olivier e molti suoi complici. Il 21 febbraio 1987, l'arresto dei capi storici Jean-Marc Rouillan, Nathalie Ménigon, Régis Schleicher, Joëlle Aubron e Georges Cipriani, segnò la fine dell'intera organizzazione.

Spagna. Il Grupos de Resistencia Antifascista Primero de Octubre (GRAPO) nasce, a partire dall'estate del 1975, come braccio armato del Partito Comunista di Spagna Ricostituito (PCEr), componente clandestina scissa dal Partito Comunista di Spagna. Un gruppo clandestino anticapitalista e anti-imperialista d'ispirazione maoista che puntava essenzialmente alla formazione di uno stato repubblicano spagnolo sul modello della Repubblica Popolare Cinese di Mao Zedong. Fortemente contrari all'adesione spagnola alla NATO, a partire dalla sua nascita e fino al 2006, furono responsabili di 84 omicidi tra poliziotti, militari, giudici e civili, di 300 attentati dinamitardi e di circa 3.000 azioni armate (il governo spagnolo ne riconosce ufficialmente 545). Il gruppo ha anche commesso una serie di rapimenti, inizialmente per motivi politici e, solo in seguito, per autofinanziamento. L'ultima azione venne commessa il 17 novembre 2000 con l'omicidio di un agente di polizia ucciso a Carabanchel, distretto di Madrid. Secondo la polizia spagnola il GRAPO sarebbe stato sciolto nel 2007, dopo che 6 dei suoi militanti furono arrestati, nel giugno quell'anno e anche se, il gruppo stesso, non abbia mai annunciato il suo ufficiale scioglimento. Fino ad oggi 3.000 persone sono state arrestate in relazione al gruppo (e al PCEr), di cui 1.400 sono state poi incarcerate. Ad oggi ci sono 54 prigionieri del GRAPO (e del PCEr) nelle carceri spagnole. Il leader del GRAPO, Manuel Pérez, è stato condannato da un tribunale francese nel 2000 per associazione a delinquere con finalità di terrorismo.

Altra organizzazione armata spagnola di sinistra è l'ETA politico-militare, nata nel 1974, dopo la scissione dalla componente maggioritaria nazionalistica dell'Euskadi Ta Askatasuna (meglio nota con l'acronimo ETA), il gruppo terroristico per l'indipendenza delle Province Basche. L'ETA politico-militare, formazione d'ispirazione marxista e propensa alla lotta politica contro il franchismo, dopo il fallito colpo di Stato militare del febbraio 1981, sospese ogni azione di guerriglia e, nel 1982, si unì al Partito Comunista di Euskadi.

Grecia. In Grecia, a partire dal 1975, fu attiva l'Organizzazione Rivoluzionaria 17 novembre (17N), un gruppo di estrema sinistra che deve il proprio nome alla data della violenta repressione della rivolta degli studenti del Politecnico d’Atene, del 17 novembre 1973, durante la dittatura dei Colonnelli. Il gruppo 17N, che ebbe come principali nemici obiettivi Americani e capitalistici in Grecia, si rese responsabile in tutto di 25 omicidi e di decine di attentati. L'ultima vittima fu il militare britannico Stephen Saunders, colpito a morte nel giugno del 2000. Si ritiene che l'organizzazione sia stata definitivamente sciolta nel 2002, dopo l'arresto ed il processo di un certo numero dei suoi componenti come Alexandros Giotopoulos, identificato come il leader del gruppo ed arrestato il 17 luglio 2002, o Dimitris Koufodinas, capo operativo del 17N, che si arrese alle autorità il 5 settembre di quello stesso anno. In tutto 19 persone vennero accusate di circa 2.500 reati relativi alle attività del 17N. Il processo contro i sospetti terroristi 19 accusati d'aver compiuto 25 delitti in 27 anni, iniziò ad Atene il 3 marzo 2003[21] e, l'8 dicembre successivo, quindici imputati (tra cui Giotopoulos e Koufodinas), vennero ritenuti colpevoli, mentre altri quattro vennero assolti per mancanza di prove. Come risposta allo scioglimento forzato della 17N, a partire dal 2003, vennero fondati i gruppi Lotta rivoluzionaria e Setta dei rivoluzionari, organizzazioni terroristiche paramilitari tuttora attive, entrambe legate alla sinistra radicale greca e note, soprattutto, per una serie di attentati dinamitardi nei confronti di obbiettivi governativi (tribunali, corti d'appello, ministeri) e statunitensi, in territorio greco.

Regno Unito. Fondato nel 1970, l'Angry Brigade, fu un piccolo gruppo anarco-insurrezionalista, responsabile di una serie di attentati in Inghilterra fino al 1972, anno in cui fu smantellato a causa di una serie di arresti nei confronti dei loro militanti. Gli obiettivi dei circa 25 attentati, attribuiti loro dalla polizia, non causarono comunque morti, in quanto tesi a colpire beni materiali e simboli dell'establishment britannico: banche, ambasciate, piuttosto che abitazioni di deputati conservatori. Il 3 maggio del 1972 si aprì il processo a carico del gruppo, che terminò il 6 dicembre dello stesso anno, con condanne pari a dieci anni di detenzione per i quattro imputati (John Barker, Jim Greenfield, Hilary Creek e Anna Mendleson). L'Irish National Liberation Army (INLA) è stato un gruppo paramilitare nordirlandese di ispirazione marxista-socialista, costituitosi nel dicembre del 1974 (anno della scissione dall'IRA), con l'obiettivo di far uscire l'Irlanda del Nord dal Regno Unito e di riunificarla con la Repubblica d'Irlanda. Tra il 1975 e il 2001, il gruppo si rese responsabile della morte di 113 persone, tra cui: 42 civili, 46 membri delle forze di sicurezza del Regno Unito, 16 paramilitari repubblicani e 7 paramilitari unionisti. Dopo 24 anni di ininterrotta lotta armata, il 22 agosto del 1998, l'INLA dichiarò per la prima volta il cessate il fuoco e, nell'ottobre del 2009, ha formalmente deciso di perseguire i suoi obiettivi con mezzi politici pacifici.

Turchia. Nato nel marzo 1994 dalle ceneri del movimento Dev-Sol (Sinistra rivoluzionaria, fondato nel 1978) il Partito/Fronte rivoluzionario popolare di liberazione (Dhkp/C), è una delle principali organizzazioni armate turche di estrema sinistra. Accusata di aver compiuto una serie di omicidi e attentati contro ex ministri e generali in pensione e dell'uccisione nel 1996 dell'industriale Ozdemir Sabanci, membro di una delle due principali famiglie imprenditoriali del paese, l'organizzazione è dichiaratamente ostile agli USA e alla NATO. Il Dhkp/C è stato al centro di numerose rivolte nelle carceri e, nel 2000, di uno sciopero della fame che portò alla morte di 64 persone. A tutt'oggi è ancora attivo e, in particolare nel 2013, ha rivendicato una serie di attentati kamikaze contro obbiettivi politici, tra cui quello all'ambasciata Usa ad Ankara che, nel febbraio di quell'anno, ha provocato la morte di due persone (tra cui l'attentatore stesso). Altre formazioni terroristiche turche, d'ispirazione marxista-leninista sono: il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), fondato, nel 1978, da Abdullah Ocalan e che da anni combatte nelle regioni sudorientali a maggioranza curda per la creazione di uno Stato curdo indipendente; l'Esercito segreto armeno per la liberazione dell'Armenia, attivo dal 1975 al 1986 e responsabile dell'uccisione di più di 30 diplomatici turchi in tutto il mondo, con l'obiettivo di costringere il governo turco a riconoscere pubblicamente la sua responsabilità nel genocidio del popolo armeno e imporre la restituzione del territorio sottratto agli stessi. Le diverse scissioni interne e l'uccisione, ad Atene, il 28 aprile 1988, del suo leader Hagop Hagopian, determinarono in pratica la fine dell'organizzazione.

Medio Oriente. In Medio Oriente, le più importanti organizzazioni terroristiche di sinistra, sono legate al conflitto arabo-israeliano e alla questione palestinese. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP), fondato nel 1967 da George Habash, da una costola del Movimento dei Nazionalisti Arabi, è un'organizzazione marxista-leninista che, pur rimanendo fedele agli ideali del Panarabismo, giudica la lotta palestinese parte della più ampia rivolta contro l'imperialismo occidentale, allo scopo anche di unire il mondo arabo e di rovesciare i regimi reazionari. Nel 1968 il PFLP aderì all'OLP e vi rimase fino al 1974, anno in cui decise di abbandonare l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, rea di aver abbandonato (secondo il PFLP) l'obiettivo di azzerare lo Stato di Israele. Nell'immediato biennio che seguì la fondazione del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, a seguito di altrettante scissioni, nacquero altre due organizzazioni palestinesi di ispirazione marxista-leninista e nazionalista: il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina - Comando Generale, fondato nel 1968 da Ahmed Jibril, ed il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP), nato nel 1969 e guidato da Nayef Hawatmeh. Le tre formazioni palestinesi sono state inserite nella lista delle organizzazioni terroristiche redatta da Stati Uniti d'America, dal Canada e dall'Unione europea. Da una combinazione di estremismo islamico e marxismo, invece, nascono i Mujahidin del Popolo, gruppo di dissidenti iraniano che ha all'attivo numerosi attentati nel loro Pases.

Giappone. L'Armata Rossa Giapponese fu un gruppo terroristico fondato, nel febbraio 1971, da un gruppo di studenti guidati da Fusako Shigenobu (soprannominata la regina del terrorismo) e con il preciso obiettivo di rovesciare il governo e le istituzioni imperiali giapponesi, ma soprattutto infiammare la rivoluzione mondiale. Il gruppo, che ebbe fino circa 400 membri e strinse legami anche con il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, divenne noto per aver compiuto il primo attacco kamikaze portato a termine, nel maggio 1972, all'aeroporto israeliano di Tel Aviv, che provocò la morte di 24 persone. Con l'arresto, nel novembre 2000, dopo trenta anni di latitanza, della sua leader Fusako Shigenobu, l'organizzazione venne formalmente sciolta il 14 aprile 2001. Nel 2006, la Shigenobu venne condannata a venti anni di carcere. Di più recente formazione, invece, è l’Esercito Rivoluzionario Kansai, considerato come il braccio armato dello schieramento estremista di sinistra nato dalla frammentazione del Partito Comunista Giapponese.

Stati Uniti. Negli Stati Uniti d'America, i Weather Underground, furono un'organizzazione terroristica di ispirazione comunista rivoluzionaria attiva dal 1969, anno della contestazione giovanile studentesca americana, e fino al 1976.

Nata da una scissione all'interno del movimento Students for a Democratic Society e fondata da Bill Ayers, Mark Rudd, Bernardine Dohrn, Jim Mellen, Terry Robbins, John Jacobs e Jeff Jones, il nome del gruppo fa riferimento al verso You don't need a weatherman to know which way the wind blows (non serve un meteorologo per capire da che parte tira il vento) contenuto nel brano Subterranean Homesick Blues, di Bob Dylan. Utilizzando metodi di protesta violenta in reazione alla politica estera degli Stati Uniti, i Weather compirono diversi attentati come l'esplosione al Campidoglio di Washington, del primo marzo 1971 o l'attentato al Pentagono del 19 maggio 1972. Il gruppo sposò anche la causa antirazzista delle Black Panther al fine di raggiungere, secondo un rapporto del governo degli Stati Uniti del 2001, tre obiettivi: liberare i prigionieri politici nelle carceri americane, attuare espropri proletari (rapine a mano armata) per finanziare la terza fase, ovvero quella di avviare una serie di attentati e attacchi terroristici. La clandestinità dei vari componenti finì all'inizio degli anni ottanta, quando molti attivisti del gruppo decisero di costituirsi.

Canada. Il Fronte di Liberazione del Québec (FLQ) fu un'organizzazione terroristica di estrema sinistra canadese fondata, nel 1963, dal rivoluzionario belga George Schoeters, con l'obiettivo di raggiungere l'indipendenza della provincia del Québec e la sua trasformazione in una nazione comunista indipendente. Sostenitori di una politica marxista-leninista, nel corso della sua storia e fino al 1970, il FLQ si rese responsabile di oltre 200 azioni violente, tra cui attentati dinamitardi, rapine di autofinanziamento e due omicidi. Tra le azioni più note ci furono: l'attentato alla borsa valori di Montréal che, nel febbraio 1969, causò 27 feriti; il rapimento e successivo assassinio del ministro del Lavoro del Québec, Pierre Laporte e il rapimento del diplomatico britannico James Cross, entrambi nell'ottobre del 1970. Il declino del movimento coincise con le misure repressive messe in atto dal governo canadese che, su richiesta dell'organo provinciale, proclamò lo stato di guerra e lo stanziamento di truppe dell'esercito che riuscirono a riportare l'ordine, grazie anche ad una compatta reazione dell'opinione pubblica, contraria alla svolta armata della lotta politica. Alla promulgazione di una serie di leggi speciali approvate dal Parlamento, fece seguito un'ondata di arresti da parte delle unità antiterrorismo della polizia di Montreal: 457 persone tra attori, scrittori, giornalisti e militanti politici.

America Latina. Nel volume The New Dimension of International Terrorism, scritto da Stefan Aubrey nel 2004, l'autore identifica le seguenti formazioni quali principali organizzazioni terroristiche di sinistra operanti, negli anni settanta e ottanta, in America Latina: il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale in Nicaragua, i Sendero Luminoso in Perù, l'M-19 e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (note come FARC) in Colombia. Molto spesso, questi movimenti, presentano al loro interno, caratteristiche sia indipendentistiche che rivoluzionarie. Il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale fu un movimento rivoluzionario nicaraguense di ispirazione marxista fondato nel 1961 e che riuscì, con un forte sostegno popolare, nell'offensiva militare finale che, nel 1979, contribuì al definitivo crollo del regime dittatoriale di Anastasio Somoza Debayle. Saliti al potere l'anno seguente, i sandinisti si costituirono come partito politico e instaurarono un governo rivoluzionario riformista. Sendero Luminoso è un'organizzazione terrorista peruviana di ispirazione maoista che, fondata nel 1969 da Abimael Guzmán Reynoso (da una scissione dal Partido Comunista del Perú - Bandera Roja), si propone di sovvertire il sistema politico per l'instaurazione del socialismo attraverso la lotta armata. Inizialmente attivo soprattutto nelle zone andine e specializzato in azioni di guerriglia, il gruppo ha messo a segno diversi attacchi contro le forze governative. Diviso in tre fazioni, in questi anni il movimento ha alternato momenti di tregua con ritorni alla lotta armata. Il 12 settembre 1992, il principale leader di Sendero Luminoso, Abimael Guzmán, è stato catturato dal Gruppo Speciale di Intelligence della polizia peruviana, in una casa del distretto di Surquillo nella città di Lima. M-19, acronimo di Movimiento 19 de Abril fu un'organizzazione di guerriglia rivoluzionaria di sinistra colombiana molto nota per le sue azioni spettacolari (come ad esempio l'occupazione dell'ambasciata domenicana nel 1980) e per la sua massiccia presenza nelle città. Nonostante le sue divisioni interne, il movimento M-19contribuì ad innalzare il livello di lotta contro il regime dell'allora presidente Belisario Betancur il quale, avvertendo il pericolo imminente dell'avanzata guerrigliera, nel 1984 decise di decretare un'amnistia per tutti i prigionieri politici e di negoziare la tregua con il movimento armato. Dopo anni di guerriglia, nel 1990, l'M-19 consegnò definitivamente le armi e divenne partito politico (Alianza Democrática). Le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC) sono un'organizzazione guerrigliera comunista e anti-imperialiste colombiana fondata nel 1964. Obiettivo principale del gruppo è quello di rappresentare le classi contadine nella lotta anti-governativa e contro l'influenza statunitense e delle grandi multinazionali nel Paese. Finanziatesi principalmente attraverso i sequestri di persona e la produzione e il commercio di cocaina, a partire dal 2002 le FARC sono state oggetto di una dura repressione militare, condotta per quasi dieci anni dal governo di Álvaro Uribe Vélez con l'obiettivo dichiarato di sconfiggere il movimento senza ricorrere ad alcun strumento diplomatico. A queste formazioni vanno aggiunte anche altre organizzazioni terroristico-guerrigliere operanti in America Latina: i Montoneros (formazione guerrigliera della sinistra peronista) in Argentina; i Tupamaros in Uruguay; il Fronte Patriottico Manuel Rodriguez (sorto nel 1983 come frangia armata del Partito Comunista del Cile) e le Forze Ribelli Popolari Lautaro in Cile; l'Esercito di Liberazione Nazionale e i guerriglieri Tupac Katari in Bolivia; l'Esercito di Liberazione Nazionale(gruppo ispirato a Che Guevara e a Fidel Castro) in Colombia; l'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (per l'autodeterminazione del popolo indios) nella regione messicana del Chiapas; il Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru in Perù.

In Italia. L'arco temporale attraverso cui si snoda la vicenda del terrorismo di sinistra, nell'Italia repubblicana, è un periodo che comprende gli anni settanta e la fine degli anni ottanta. Le prime azioni, fatte di attentati dinamitardi all'interno delle fabbriche e sequestri di persona dimostrativi di dirigenti, industriali e magistrati, lasciarono poi il passo ad un'estremizzazione della violenza politica con gli attentati e gli omicidi. Una parabola che vide il suo apice con l'agguato di via Fani ed il sequestro dell'allora presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse nella primavera 1978 (e assassinato dopo 55 giorni di reclusione in una cosiddetta prigione del popolo) e che entrò in crisi, nella seconda metà degli anni ottanta, anche grazie alla promulgazione di leggi speciali dello Stato e grazie soprattutto al fenomeno del pentitismo. Dopo l'omicidio, da parte delle Brigate Rosse, del senatore democristiano Roberto Ruffilli, nel 1988, il fenomeno fu considerato praticamente esaurito e, solo verso la fine degli anni novanta, il Paese fu testimone di una nuova breve stagione di omicidi politici e di lotta armata che si esaurì nuovamente nel 2002 con l'omicidio di Marco Biagi. Complessivamente i morti provocati dalle organizzazioni armate di sinistra in Italia, tra il 1974 e il 2002, ammontano a circa 130.

La nascita della sinistra extraparlamentare. I primi germi che favorirono la nascita dell'eversione e del terrorismo di sinistra in Italia possono essere rintracciati nel periodo di tensione sociale che segnò il finire degli anni sessanta in Italia e che venne in qualche modo alimentato dalla protesta operaia e sindacale e dal movimento di contestazione studentesca che prese poi il nome di sessantotto. Pur non avendo come componente prevalente un progetto rivoluzionario mediante lo strumento della lotta armata, proprio della radicalizzazione successiva, quel movimento ebbe in realtà forme e modalità anche intense di protesta espresse su basi culturali genericamente anti-autoritarie e che, nell'ambito universitario, investiva innanzitutto il potere accademico. La spinta che alimentò quella protesta giovanile, di ispirazione marxista, profondamente incisiva sui costumi sociali di quel tempo, non seppe però trovare, nel nostro Paese, un valido sbocco politico autorappresentativo soprattutto per l'assenza di riferimenti ideologici nei partiti della sinistra istituzionale e quindi, almeno come movimento di massa, perse rapidamente la sua forza propulsiva esaurendosi in un breve e intenso lasso temporale. La fine della protesta studentesca, tra la primavera e l'estate del 1968, ed il fallimento rivoluzionario di quel movimento e delle speranze di un sollevamento proletario e operaio, nella lotta per la trasformazione delle logiche classiste del paese determinò, invero, la nascita di un nuovo fermento culturale ben più radicale ed eversivo del precedente. Dall'esperienza delle lotte negli anni precedenti e dall'incontro tra lavoratori e studenti, nasce così la figura del cosiddetto militante rivoluzionario: una generazione di giovani studenti che decise di proseguire il conflitto al di fuori del contesto studentesco e che si inserì quindi nel più ampio ambito dell'autunno caldo del 1969 e delle lotte operaie per un radicale cambiamento del sistema. Come scrisse Guido Viale: "nasce una figura politica che non lotta per vivere (come invece faranno gli operai), ma che vive per lottare.” e che, sul finire del 1969, con la nascita della cosiddetta sinistra extraparlamentare, portò prima ad una estremizzazione dello scontro sociale e quindi alla lotta armata vera e propria, che percorrerà senza sosta il quindicennio successivo (1969-1984) dei cosiddetti anni di piombo. Il ricorso alla violenza e alla lotta armata, quindi, giustificata come essenziale grimaldello in grado di generare un vero e proprio impeto rivoluzionario e di scatenare quella protesta sociale contro quelle forze reazionarie borghesi e imperialiste, incluse quelle della sinistra istituzionale (come ad esempio il Partito Comunista Italiano) che in tutti i modi tentò di affrancarsi come avanguardia del processo di rivendicazione e di miglioramento delle condizioni del proletariato, troncando qualsiasi possibilità di riconoscimento, quale soggetto politico, da parte delle formazioni della sinistra extraparlamentare. E se alcune di queste formazioni perseguirono la strada della lotta politico-sociale, rifiutando lo scontro frontale attraverso la scelta armata o, al limite, limitandola alla prassi degli scontri di piazza (Potere Operaio, Lotta Continua, Avanguardia operaia, Movimento Lavoratori per il Socialismo, Autonomia Operaia, Lotta Comunista), altri gruppi, invece, optarono per la scelta eversiva e per l'uso della violenza per fini politici. Questo portò ad una stagione di intensa fase repressiva politico-giudiziaria da parte dello Stato che, anche attraverso l'uso di una legislazione speciale, tentò in questo modo di contrastare il crescente fenomeno della lotta armata di sinistra. Il risultato fu una decisa diminuzione delle libertà costituzionali e individuali ed un ampliamento della discrezionalità operativa delle forze dell'ordine. Un giro di vite repressivo che raggiunse poi il suo picco massimo nel 1977, con l'adozione di misure come quella di vietare tutte le manifestazioni pubbliche nella città di Roma. Come ebbe a dichiarare il Ministro dell'interno Cossiga, intervistato sulle violenze in piazza: "Io mi chiedo come si possa pensare che tutta questa violenza serva a qualcosa o a qualcuno. Sia ben chiaro che peraltro non siamo più disposti a sopportarla."

La svolta armata. Due episodi in particolare, che segnarono in diverso modo la fine del 1969, possono forse essere letti come linea di confine tra la protesta sessantottina e l'implosione di quel movimento nella successiva stagione armata[41]: i disordini seguiti allo sciopero generale del 19 novembre 1969, che a Milano determinarono la morte dell'agente di polizia Antonio Annarumma, in servizio durante la manifestazione indetta dall'Unione Comunisti Italiani e dal Movimento Studentesco, e poi la strage di piazza Fontana del 12 dicembre successivo, che provocò 17 morti e oltre 100 feriti e che accelerò la svolta armata a sinistra, tesa a contrastare quel golpe militare ritenuto da molti imminente. Soprattutto la bomba di piazza Fontana, nel quadro di crescente tensione sociale che attraversava l'Italia in quel periodo, determinò la definitiva discesa verso la deriva terroristica, favorendo nuove forme di protesta politica che solo l'azione armata poteva garantire. «Simbolicamente quella deflagrazione, in un freddo pomeriggio del dicembre 1969, racchiude in sé tutto quanto accadrà dopo. Incancrenirà le ideologie, ridurrà i cervelli di migliaia di giovani ad agglomerati di pulsioni emotive e ribellistiche, polverizzerà i sentimenti in milioni di frammenti di vita, di odio e di amore, di voglie di cambiamento e desideri di distruzione. E, soprattutto, come un colpo d'ascia, taglierà in due tronconi le pulsioni di un Paese ancora acerbo. Sfumerà in due colori, il rosso e il nero, le vitalità di più di una generazione» (A. Baldoni, S. Provvisionato da A che punto è la notte). È l'alba di una stagione politica che sarà contraddistinta da innumerevoli fatti di sangue in nome dell'odio ideologico che trascinò il Paese quasi alle soglie di una guerra civile e che vide contrapporsi, inizialmente, giovani militanti di estrema destra e di estrema sinistra e che poi sfociò, fatalmente, nel terrorismo di matrice politica. E dalle prime azioni di giustizia proletaria dei gruppi operaisti della sinistra extraparlamentare si giunse così rapidamente a maturare in militanti, operai e studenti di estrema sinistra, la scelta terroristica come unico mezzo per disarticolare il sistema Stato-Capitale. «Pur essendovi state ideologie o teorie rivoluzionarie che possano aver agevolato la maturazione di concezioni terroristiche, questo non spiega sufficientemente il salto all’azione armata, perché essa non ha pescato solo nel panorama delle ideologie insurrezionali (che sono state varie: operaismo, luxenburghismo, strategie tese alla disarticolazione dello Stato) e perché non è possibile presupporre che ideologie particolari conducano inevitabilmente al terrorismo, se non concorrono altre cause o contesti, quale una società in forte movimento, come nel biennio 68/69, il mito della violenza, l’acriticità» (Nando dalla Chiesa da La genesi del terrorismo di sinistra). Se inizialmente lo spazio d'azione privilegiato dall'eversione armata di sinistra fu, quasi esclusivamente, quello della fabbrica e il nemico da colpire il padrone e, più genericamente, il capitale, intorno al 1973 si registro invece un progressivo abbandono della cosiddetta logica fabbrichista, in favore di un'offensiva diretta verso figure più istituzionali e statuali di maggiore valenza simbolica.

Le sigle.

Feltrinelli e i GAP. Il primo tentativo di una proposta rivoluzionaria imperniata sulla lotta armata fu quella dell'editore Giangiacomo Feltrinelli: figlio di un industriale del legno e proveniente da una ricchissima famiglia, nel 1945 Feltrinelli aderì al Partito comunista che provvide anche a sostenere con ingenti contributi finanziari. All'indomani della strage di piazza Fontana, la paura per un imminente colpo di stato neofascista, lo spinse a chiudere i rapporti col PCI e a decidere di iniziare a finanziare i primi gruppi di estrema sinistra. Coinvolto nell'esplosione del padiglione FIAT alla Fiera di Milano del 25 aprile 1969, la magistratura dispose il ritiro del suo passaporto prima di decidere, lui stesso, il passaggio alla clandestinità, nel dicembre 1969 (in realtà non una vera e propria clandestinità, quanto un'uscita dalla scena pubblica). Il suo percorso politico-rivoluzionario lo portò, poco più tardi, nel 1970, a fondare i Gruppi d'Azione Partigiana (GAP), un gruppo paramilitare che richiamava nel nome un'organizzazione militare della Resistenza (i Gruppi di Azione Patriottica). In nome di "una rivoluzione più rivoluzionaria" e allo scopo di alimentare focolai di guerriglia civile, tra l'aprile 1970 e il marzo 1971 misero in atto alcuni attentati dinamitardi a scopo dimostrativo a Genova e Milano. Richiamandosi alla Resistenza come ideale politico tradito dal riformismo e dal seguente sbocco neocapitalistico, il suo progetto principale era quello di un'unificazione dei gruppi armati europei, coordinati con i movimenti rivoluzionari del Terzo mondo. Il suo impulso rivoluzionario, però, non vide mai la luce: il 15 marzo 1972 il suo cadavere dilaniato da un'esplosione fu rinvenuto ai piedi di un traliccio dell'alta tensione presso Segrate (Milano).

Il Gruppo XXII Ottobre. Se si eccettuano gli iniziali tentativi eversivi di Feltrinelli, la prima vera formazione che decise di saltare definitivamente il fosso e di passare all'azione, sin dal 1969, attraverso la scelta della lotta armata, fu il Gruppo XXII Ottobre (che prese il nome dalla sua data di fondazione). Attivi a Genova e composti prevalentemente da operai ed ex partigiani d'impostazione marxista-leninista, si fecero conoscere per una serie di attentati dinamitardi e, soprattutto, per il sequestro di Sergio Gadolla, secondogenito di una delle famiglie più ricche di Genova, del 5 ottobre 1970. Obiettivo del gruppo fu quello di "scardinare i poteri dello Stato" e di provare ad introdurre, nella vita politica italiana, il metodo della guerriglia urbana attraverso attentati dinamitardi, incendi e sabotaggi, nella speranza di un progressivo sostegno popolare alle proprie azioni. Leader del gruppo fu Mario Rossi e ne fecero parte, in tutto, non più di 25 persone, tra cui: Augusto Viel, Rinaldo Fiorani, Giuseppe Battaglia, Adolfo Sanguineti, Gino Piccardo, Diego Vandelli, Aldo De Sciciolo e Cesare Maino. Verranno definitivamente smantellati nella primavera del 1972, in seguito alle indagini sulla rapina di autofinanziamento che, il 26 marzo 1971, vide l'uccisione (da parte di Mario Rossi) del portavalori dell'Istituto Autonomo Case Popolari, Alessandro Floris. L'omicidio Floris segna infatti la fine del gruppo stesso, nel 1972, dopo poco più di un anno di vita: Mario Rossi venne arrestato il giorno stesso e, nei mesi a seguire, gli altri componenti andranno ad ingrossare le file di altre organizzazioni armate, chi nei Gruppi d'Azione Partigiana e chi nelle nascenti Brigate Rosse. L'ultima tappa della storia del gruppo fu la richiesta di liberazione di Rossi e compagni, da parte delle Brigate Rosse, in occasione del sequestro del magistrato Mario Sossi (che era stato il pubblico ministero nel processo al Gruppo XXII Ottobre) e come prezzo richiesto per la liberazione dell'ostaggio. La richiesta non venne mai accolta per l'opposizione del procuratore della Repubblica di Genova Francesco Coco (che per questo verrà poi assassinato a Genova l'8 giugno 1976, dalle stesse BR[58]), ma venne comunque letta come una sorta di condivisione di un percorso politico e strategico comune tra il gruppo e le prime BR e che autorizzava a ricondurre queste ultime nel solco politico ideologico che il Gruppo XXII Ottobre avevano appena tracciato.

Il Collettivo Politico Metropolitano. Alla lotta armata, sempre nel 1969, andavano pervenendo anche altri gruppi come il Collettivo Politico Metropolitano che proprio nel settembre di quell'anno nasce a Milano con l'obiettivo di mettere insieme le diverse forze che animavano l'area della sinistra extraparlamentare milanese di quegli anni. Formato da elementi provenienti da alcuni gruppi di fabbrica (CUB Pirelli, GdS Sit-Siemens, GdS IBM), come Mario Moretti e Corrado Alunni, e da altri soggetti, provenienti dal movimento studentesco (come Renato Curcio e la moglie Margherita Cagol), piuttosto che dissidenti del PCI o della FGCI (come Alberto Franceschini). Il gruppo, che prese in affitto un vecchio teatro milanese in disuso nelle vicinanze di Porta Romana, nel complesso poteva contare solo su poche decine di militanti. Non esiste una data ufficiale di nascita del CPM ma, uno degli atti di definizione del collettivo, risale all'8 settembre 1969, giorno in cui fu preparato un bollettino ad uso interno dei militanti, redatto dai singoli comitati di azienda di Torino, Milano, che definiva il nascente gruppo quale strumento per predisporre "le strutture di lavoro indispensabili a impugnare in modo non individuale l'esigenza-problema dell'organizzazione rivoluzionaria della metropoli e dei suoi contenuti (ad esempio democrazia diretta, violenza rivoluzionaria ecc.)". Pur non avendo mai di fatto compiuto azioni armate, l'esperienza del Collettivo Politico Metropolitano, riveste un'importanza politica e strategica fondamentale nella ricostruzione delle sigle che contribuirono a formare l'arcipelago delle organizzazioni terroristiche di sinistra. Il CPM, infatti, può essere considerato come il nucleo iniziale che, attraverso varie trasformazioni, darà poi vita al progetto del gruppo terroristico di sinistra più importante nell'Italia del secondo dopoguerra, quello delle Brigate Rosse. La scelta di passare alla lotta armata in clandestinità venne discussa per la prima volta nel novembre del 1969, in un convegno del Collettivo tenutosi all'Hotel Stella Maris di Chiavari e a cui parteciparono «essenzialmente marxisti-leninisti e cattolici progressisti (o cattolici del dissenso), i primi delusi dalla svolta moderata e dalla conseguente rinuncia alla rivoluzione dei partiti della sinistra storica, Partito comunista in testa, i secondi convinti che fosse necessario un maggiore impegno per modificare l'assetto sociale». Al termine dei lavori, il 4 novembre, venne redatto un documento finale (il cosiddetto libretto giallo) intitolato Lotta sociale e organizzazione nelle metropoli e in cui si individua la lotta popolare violenta come l'unica risposta adeguata alla repressione attuata dalla borghesia. «Ogni alternativa proletaria al potere è, fin dall’inizio, politico-militare. La lotta armata è la via principale della lotta di classe. La città è il cuore del sistema, il centro organizzativo dello sfruttamento economico-politico. Deve diventare per l’avversario un terreno infido» (Lotta sociale e organizzazione nelle metropoli). In quel convegno, i promotori della svolta armata, furono comunque in minoranza e decisero quindi di separarsi dal Collettivo Politico Metropolitano per confluire in Sinistra Proletaria. Fondata, tra gli altri, da Renato Curcio, Margherita Cagol e Alberto Franceschini, la storia di SP fu di fatto molto breve: iniziata nel dicembre 1969, si concluse nell'estate dell'anno successivo e servì soprattutto da ponte fra l'esperienza del Collettivo ed il passaggio, nel 1970, alle Brigate Rosse.

Le Brigate Rosse. Quella che fu l'organizzazione terroristica di estrema sinistra più nota, numerosa e longeva dell'Italia del secondo dopoguerra, nacque, nell'agosto del 1970, in coincidenza con il Convegno di Pecorile (Reggio Emilia) che segna la definitiva fine dell'esperienza politica di Sinistra Proletaria e in cui Renato Curcio, Margherita Cagol e Alberto Franceschini, assieme ad altri militanti (tra cui Prospero Gallinari, Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Roberto Ognibene), sanciscono il loro definitivo passaggio alla clandestinità e alla lotta armata, attraverso la nascita delle Brigate Rosse. A livello ideologico, la prospettiva del movimento, si inseriva in un contesto più ampio (tipico di diverse formazioni armate di sinistra di quel periodo) che riteneva non conclusa la fase della Resistenza[64] all'occupazione nazifascista dell'immediato dopoguerra e che, secondo la loro visione, era stata sostituita da una più subdola occupazione economico-imperialista delle multinazionali. Un meccanismo a cui, secondo i terroristi, bisognava rispondere attraverso la lotta armata per poter scardinare i rapporti di repressione dello Stato e fornire lo spazio di azione necessario allo sviluppo di un processo insurrezionale del proletariato.

1970-1973: la propaganda armata. «Il progetto, detto in due parole, era questo: prima fase, la propaganda armata. Bisognava far capire che in Italia c'era bisogno della lotta armata e che l'organizzazione era lì per farla. Infatti nei primi tempi il problema non era che si parlasse bene delle Brigate Rosse, ma che se ne parlasse. Seconda fase, quella dell'appoggio armato. Un numero sempre maggiore di persone, capito che l'unico sistema di cambiare era la lotta armata, si sarebbe unito a noi. Terza fase, la guerra civile e la vittoria» (Patrizio Peci da Io, l'infame). La prima azione del gruppo risale al 17 settembre 1970, con l'incendio dell'automobile del dirigente della Sit-Siemens, Giuseppe Leoni. Tutta l'iniziale fase di propaganda armata, tra il 1970 e il 1974, vide comunque le neonate BR agire prevalentemente in piccoli gruppi, operanti all'interno delle fabbriche e in modo spesso clandestino. Le prime iniziative furono perlopiù di natura dimostrativa: attentati incendiari, sabotaggi e brevi sequestri di persona, a scopo dimostrativo, di quadri e dirigenti aziendali e della durata di qualche ora o di pochi giorni (come quello di Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit-Siemens, nel marzo 1972, o di Ettore Amerio, capo del personale FIAT, nel dicembre 1973). A livello organizzativo, sempre nel 1972, venne formato il primo esecutivo (formato da Renato Curcio, Alberto Franceschini, Mario Moretti e Pierino Morlacchi) e la costituzione (a Milano e a Torino) di due colonne, ognuna delle quali composta da più brigate formate da militanti, operanti all'interno delle fabbriche e dei quartieri. Fu anche decisa la distinzione tra forze regolari (i militanti clandestini) e le forze irregolari (militanti organici ma senza essere clandestini). Un modello che venne in seguito sempre più affinato attraverso una struttura paramilitare, compartimentata e organizzata in colonne e cellule e coordinata da una comune Direzione strategica.

1974-1980: l'attacco al cuore dello Stato. L'azione terroristica, in questa seconda fase, andò sempre più spostandosi verso simboli e rappresentanti del potere politico, economico e sociale. Furono gli anni del cosiddetto attacco al cuore dello Stato, caratterizzati da un'escalation di situazioni criminose con omicidi, attentati e rapimenti nei confronti di politici, magistrati, forze dell'ordine, giornalisti, industriali, dirigenti di fabbrica e sindacalisti. La prima azione rilevante fu il rapimento del sostituto procuratore Mario Sossi, già Pubblico ministero nel processo contro il Gruppo XXII Ottobre, sequestrato a Genova, il 18 aprile del 1974. Tenuto prigioniero in un villa vicino Tortona, Sossi fu sottoposto ad un processo proletario dai brigatisti che, in cambio della sua liberazione, chiesero la scarcerazione di otto militanti della XXII Ottobre. Alla fine il giudice venne però rilasciato senza alcuna contropartita. La risposta dello Stato non si fece attendere, con una serie di contromisure appositamente costituite per la lotta al terrorismo politico: l'istituzione delle carceri speciali per i detenuti politici, la legge Reale, che assegnava alla polizia poteri eccezionali nella prevenzione al terrorismo e la costituzione di un nucleo speciale dei Carabinieri, comandato del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Il 1974 fu anche l'anno dei primi arresti: l'8 settembre, le forze speciali di Dalla Chiesa, misero a segno la cattura dei due capi storici del gruppo, Curcio e Franceschini, arrestati grazie alle informazioni del pentito Silvano Girotto. Renato Curcio venne liberato nel febbraio 1975 da un nucleo di brigatisti guidato da Margherita Cagol, ma la sua seconda clandestinità terminò il 18 gennaio 1976 quando venne arrestato di nuovo a Milano dagli uomini del generale Dalla Chiesa; il 5 giugno 1975 la Cagol invece era rimasta uccisa in un conflitto a fuoco con i carabineri durante il fallito sequestro Gancia. Nonostante queste sconfitte, nel biennio 1975-1976, le azioni delle BR, si moltiplicarono: il 15 maggio 1975 venne gambizzato il consigliere comunale della DC milanese, Massimo De Carolis e, sempre in quegl'anni, diversi agenti perirono negli scontri a fuoco con i brigatisti: il carabiniere Giovanni d'Alfonso (4 giugno 1975), il maresciallo Felice Maritano (15 ottobre 1974), l'appuntato di Polizia Antonio Niedda (4 settembre 1975), il vice questore Francesco Cusano (11 settembre 1976) e i sottoufficiali della Polizia, Sergio Bazzega e Vittorio Padovani (15 dicembre 1976). A partire dall'omicidio l'8 giugno 1976 del giudice Francesco Coco e della sua scorta, le Brigate Rosse, sotto la direzione principalmente di Mario Moretti, accrebbero la loro forza numerica e organizzativa. Nel periodo 1977-1980, gli attentati, aumentarono in maniera esponenziale: alla fine del 1978 se ne conteranno 230, con 42 morti e 43 feriti. Tra i più eclatanti: l'omicidio di Fulvio Croce, presidente del Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Torino, ucciso il 28 aprile 1977, quello del giornalista de La Stampa, Carlo Casalegno (16 novembre 1977), quello del maresciallo Rosario Berardi, quello del commissario Antonio Esposito, e quello di Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura (12 febbraio 1980). Ma il vero "attacco al cuore dello stato" fu portato il 16 marzo 1978, con l'agguato di via Fani: il rapimento a Roma del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro e l'uccisione dei cinque uomini della sua scorta. Durante i 55 giorni del sequestro, le BR chiesero (ma non ottennero) la liberazione di tredici prigionieri politici come contropartita per la liberazione del politico. La vicenda si concluse il 9 maggio 1978, con il ritrovamento del corpo dell'onorevole Moro in via Caetani, a Roma. 

1981-1988: il declino e la dissoluzione. Il sequestro Moro segnò il momento più alto e, contemporaneamente, l'iniziò il processo di declino delle BR: l'efficace reazione dello Stato, le prime divisioni interne all'organizzazione, gli arresti e i processi ma, soprattutto, il nuovo fenomeno del pentitismo, furono tra i fattori che contribuirono alla dissoluzione dell'organizzazione. Il 21 febbraio 1980 furono arrestati, a Torino, Rocco Micaletto e Patrizio Peci, quest'ultimo dirigente della colonna torinese. L'inattesa collaborazione di Peci con i carabinieri, provocò l'improvvisa cattura di centinaia fra dirigenti e militanti brigatisti e una grave crisi organizzativa e politica per il movimento. Il 28 marzo 1980 quattro importanti brigatisti furono uccisi dai carabinieri nel corso della drammatica irruzione di via Fracchia a Genova. Nonostante l'arresto di Mario Moretti il 4 aprile 1981, le Brigate Rosse ripresero la loro azione: il 17 dicembre 1981, rapirono a Verona il generale statunitense James Lee Dozier, che venne poi liberato, a Padova, dai NOCS, le squadre speciali della polizia. Il rapimento Dozier, che nei propositi brigatisti avrebbe dovuto rilanciare l'organizzazione, ne rappresentò, invece, l'inizio della loro fine. Pur se decimate dagli arresti, seguiti alle confessioni di Peci, nella prima metà degli anni ottanta, sotto la guida di Giovanni Senzani, le BR continuarono l'azione contro lo Stato con un numero rilevante di attentati, rapimenti e, soprattutto, omicidi: quello di Roberto Peci, fratello del pentito Patrizio, del direttore del petrolchimico di Marghera, Giuseppe Taliercio (nel 1981), del generale statunitense Leamon Hunt (1984), dell'economista Ezio Tarantelli (1985), dell'ex-sindaco di Firenze Lando Conti (1986), del generale Licio Giorgieri (1987) e del senatore Roberto Ruffilli (1988). Nel gennaio del 1987, una serie di "lettere aperte" firmate da diversi militanti, sancirono quindi la chiusura unitaria dell'esperienza da parte del nucleo storico delle BR. Tra il giugno e il settembre 1988 venne smantellata anche l'intera ala militarista del movimento, denominata BR-Partito comunista combattente e sorta, nel 1984, da una scissione interna alle BR.

1999-2003: le Nuove BR. Nel 1999, a distanza di undici anni dall'ultimo omicidio del nucleo storico delle Brigate Rosse, quello del senatore democristiano Roberto Ruffilli, un nuovo gruppo armato adottò nuovamente la sigla della stella a cinque punte. Le cosiddette Nuove Brigate Rosse, organizzazione capeggiata da Nadia Desdemona Lioce e Mario Galesi, furono protagonisti di una nuova breve stagione di omicidi politici e di lotta armata. Il gruppo terroristico fu responsabile degli omicidi di Massimo D'Antona nel 1999 e di Marco Biagi nel 2002, e venne poi smantellato nel 2003, a seguito degli arresti degli stessi Lioce e Galesi, azione che è costò la vita al sovrintendente della Polfer Emanuele Petri. 

Le altre sigle. A partire dal 1970, con la nascita delle BR, le organizzazioni armate di sinistra andranno sempre più moltiplicandosi. Tra le più rilevanti che da li in poi nasceranno ci furono: i Nuclei Armati Proletari, Prima Linea, i Proletari Armati per il Comunismo, i Comitati Comunisti Rivoluzionari, le Unità Comuniste Combattenti, le Formazioni Comuniste Combattenti e la Brigata XXVIII marzo.

Organizzazioni armate di sinistra in Italia. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Elenco delle principali organizzazioni armate di sinistra in Italia. Include gruppi attivi in Italia in diversi periodi storici, differenti tra loro per entità e scopi, ma accomunati dall'uso delle armi a scopo eversivo e dall'orientamento politico di sinistra, in particolar modo marxista rivoluzionario. La maggior parte di queste organizzazioni si sviluppò nei cosiddetti anni di piombo, tra la fine degli anni sessanta e la seconda metà del decennio successivo. Per un analogo elenco di organizzazioni ispirate a ideologie di destra, vedere le organizzazioni armate di destra in Italia. Non sono incluse organizzazioni politiche legali e non armate, di cui alcuni membri compirono a volte atti terroristici o violenti (es. Potere operaio, Lotta Continua, ecc.) né organizzazioni di terrorismo anarchico (come la Federazione Anarchica Informale).

1 Armata Rossa Giapponese ARG 1971-2001 Giappone, Italia, Medio Oriente. Comunismo, antiamericanismo, antimperialismo, anticapitalismo, antimonarchismo in Giappone. Attentato alla sede Nato di Napoli, omicidi e attentati nel mondo.

2 Azione Rivoluzionaria AR 1977-1980 Centro-Nord Italia. Anarchismo, Internazionale Situazionista, RAF. Sabotaggi, attacchi contro sedi di giornali e di partiti, diffusione di falsi comunicati sindacali.

3 Barbagia Rossa BarbRo 1978-1982 Sardegna. Brigate Rosse, Indipendentismo sardo, Gruppi d'Azione Partigiana. Attentati contro carabinieri e strutture carcerarie, due omicidi.

4 Brigate Comuniste BC 1973-1979 Nord Italia. Autonomia operaia. Sabotaggio alla International Telephone and Telegraph Corporation di Fizzonasco, attacco e demolizione del carcere di Bergamo in costruzione.

5 Brigata d'assalto Dante Di Nanni BAD 1972-1977 Italia. Autonomia operaia, comunismo, antifascismo. Attentati contro sedi militari, ripetitori Rai e partiti di destra.

6 Brigata proletaria Erminio Ferretto BE 1972-1974 Italia. Autonomia Operaia, Brigate Rosse. Attentati contro banche e sedi industriali.

7 Brigate Rosse BR 1969-1989/1999-2003 Italia. Lotta armata metropolitana, comunismo, marxismo-leninismo, maoismo, operaismo armato, antimperialismo, anticapitalismo e antifascismo. Attacchi dimostrativi e intimidatori nelle fabbriche; attacchi ed intimidazioni contro industriali, magistrati, politici e forze dell'ordine; rapine in banca ed espropri; rapimenti, sequestri (Gancia, Mario Sossi) ed omicidi politici; evasioni dalle carceri; agguato di via Fani, sequestro ed omicidio di Aldo Moro. Sigle utilizzate dopo il 1980: BR-Colonna "Walter Alasia", BR-Partito Guerriglia, BR-Partito Comunista Combattente, Unione dei Comunisti Combattenti (UCC).

8 Brigata XXVIII marzo XXVIII marzo 1980 Lombardia. Brigate Rosse. Omicidio di Walter Tobagi.

9 Cellule di offensiva rivoluzionaria COR 2003-2004 Toscana, Roma. Lottarmatismo. Attentati intimidatori contro membri di AN e incendiari contro sedi di FI.

10 Collettivi politici veneti CPV 1974-1985 Italia. Autonomia operaia, sinistra operaista lotta di classe. Attentati contro sedi militari, capitaliste e di destra presenti in Italia, notti dei fuochi del Veneto, rapine in banca.

11 Comitati comunisti rivoluzionari CoCoRi 1975-1978 Nord Italia. Sinistra operaista, lotta di classe. Uccisioni di guardie giurate.

12 Comunisti Organizzati per la Liberazione Proletaria di Prima Linea COLP 1981-1983 Italia, Francia, Spagna. Prima Linea, anti-carcere. Evasione di Cesare Battisti (PAC) dal carcere di Frosinone. Evasione dal carcere di Rovigo di Susanna Ronconi, Marina Premoli, Loredana Biancamano, Federica Meroni (Prima Linea).

13 Collettivo politico metropolitano CPM 1969-1970 Italia. Operaismo comunista, Brigate Rosse, lotta di classe. Manifestazioni violente contro la polizia, occupazione di case.

14 Consiglio Rivoluzionario di al-Fatah FRC 1974 Italia, Israele. Socialismo arabo, militarismo, comunitarismo, antisionismo, nazionalismo palestinese, Abu Nidal. Strage di Fiumicino, omicidi contro cittadini israeliani oppure legati ad Israele, attentati contro banche, industrie ed attività commerciali israeliane in Italia.

15 Esercito del popolo EDP 1981 Italia. Comunismo, lotta di classe, rivoluzione proletaria. Attacco alla sede Rai di Primiero.

16 Gruppi Armati Radicali per il Comunismo GARC 1977 Italia. Comunismo lotta di classe rivoluzione proletaria. Attentati dinamitardi a sedi industriali e finanziarie liguri.

17 Formazioni Comuniste Armate FCA 1975-1976 Centro Italia. Operaismo comunista, lotta di classe, Formazioni Comuniste Armate. Omicidi contro poliziotti, imprenditori e magistrati.

18 Formazioni comuniste combattenti FCC 1978 Centro Italia. Prima Linea. Omicidio di Fedele Calvosa, procuratore capo di Frosinone.

18 Fronte Armato Rivoluzionario Operaio FARO 1971-1977 Italia, Svizzera, Liechtenstein, Cecoslovacchia, Cuba. Lavoro illegale, operaismo comunista, lotta di classe. Azioni violente contro banche, gruppi industriali e finanziari, omicidi e azioni violente contro capitalisti e gruppi di destra, rapimento di Carlo Saronio, espropri proletari.

19 Fronte comunista combattente FCC 1977-1979 Italia. Autonomia operaia, Prima linea, lotta di classe. Azioni violente ed omicidi contro imprenditori ed industriali.

20 Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina FPLP 1967 Italia, Germania, Israele, Francia, Grecia. Comunismo, operaismo comunista, comunitarismo, nazionalismo di sinistra, nazionalismo palestinese, antisionismo. Attentati a banche industrie e sedi Nato, omicidi contro cittadini israeliani, strage di Fiumicino del 1985.

21 Guerriglia rossa GR 1979 Italia. Lavoro illegale, operaismo comunista, comunismo. Attentati a multinazionali capitaliste, banche, sedi militari e fabbriche nel Nord Italia.

22 Guerriglia comunista GC 1977-1979 Italia. Autonomia operaia, operaismo comunista, lotta di classe, lotta contro l'eroina. Attacchi a banche, omicidi di spacciatori.

23 Guerriglia metropolitana per il comunismo GMC 1987-1990. Italia, Francia, Germania. Autonomia operaia, operaismo comunista, antimperialismo. Attentati contro la Nato, omicidi dei poliziotti Rolando Lanari e Giuseppe Scravaglieri.

24 Guerriglia proletaria GP 1981-1982 Italia. Operaismo comunista, Autonomia operaia. Attentati dinamitardi a banche e sedi della Confindustria.

25 Gruppi Armati Proletari GAP 1967-1983 Italia. Comunismo, operaismo comunista, Autonomia operaia. Lotta di classe, azioni di guerriglia contro le forze armate in Appennino, attentati contro le banche e le industrie.

26 Gruppi d'Azione Partigiana GAP-EPL 1970-1972 Nord Italia. Insurrezionalismo di liberazione nazionale, comunismo, guevarismo, antifascismo, Gruppi di Azione Patriottica. Attentato dinamitardo contro un traliccio a Segrate in cui morì il leader Giangiacomo Feltrinelli, azioni dimostrative con il FLP e l'ELP.

27 GAP-Esercito popolare di liberazione GAP-EPL 1967-1979 Italia. Operaismo comunista, Gruppi d'Azione Partigiana, lotta di classe, liberazione nazionale. Attentati a banche, sedi Rai, caserme e postazioni militari, assalto alla sede Rai di Padova, al giornale l'Adige di Trento.

28 GAP-Fronte popolare di liberazione GAP-FPL 1967-1972 Nord Italia. Gruppi d'Azione Partigiana, operaismo comunista, liberazione nazionale, lotta di classe, antimperialismo. Attacchi a banche e alle sedi Rai.

29 Gruppo XXII Ottobre XXII Ottobre 1969-1971 Nord Italia. Marxismo-leninismo. Attentati a sedi istituzionali, omicidio di Alessandro Floris, rapimento di Sergio Gadolla.

30 Lotta Armata per il Comunismo LAC 1970-1980 Italia. Comunismo. Attentati a sedi industriali, azioni violente contro le banche.

31 Lotta armata potere proletario LAP 1970-1973 Italia. Lotta di classe, comunismo, Operaismo. Attentati a banche, industrie e sedi militari.

32 Volante Rossa "Martiri Partigiani" La Volante Rossa 1945-1949 Nord Italia. Resistenza italiana, comunismo. Omicidi di ex-fascisti, liberali o industriali, in genere di anticomunisti.

33 Movimento armato sardo MAS 1983-1984 Sardegna, Italia. Operaismo comunista, comunismo, indipendentismo sardo. Omicidi contro carabinieri ed esponenti della borghesia.

34 Movimento Comunista Rivoluzionario MCR 1979-1980 Italia. Operaismo comunista. Lotta per la casa, lotta contro il carovita e le carceri, azioni armate contro agenzie immobiliari e membri delle forze dell'ordine.

35 Movimento Proletario Resistenza Offensivo MPRO 1977-1978 Centro Italia. Brigate Rosse, Movimento proletari prigionieri, operaismo comunista. Lotta di classe, lotta per la casa, lotta contro l'eroina.

36 Nuclei armati comunisti NAC 1983 Italia. Lotta di classe, Autonomia operaia. Attentati contro banche, industrie ed istituzioni.

37 Nuclei Armati Comunisti Rivoluzionari-Brigate Rosse NACORI 1973-1983 Italia. Brigate Rosse, lotta di classe, Autonomia operaia. Omicidio di Sebastiano Vinci.

38 Nuclei armati per il contropotere territoriale NACT 1977 Centro Italia. Autonomia operaia, operaismo comunista, antifascismo, lotta di classe. Strage di Acca Larentia.

39 Nuclei Armati Potere Operaio NAPO 1973-1982 Italia. Autonomia operaia, operaismo comunista. Attentati a banche e a istituzioni industriali, azioni violente contro poliziotti.

40 Nuclei armati proletari NAP 1974-1977 Sud Italia. Brigate Rosse. Sequestri, rapimenti e agguati contro personalità istituzionali, attacchi ed omicidi contro forze dell'ordine e politici, rapine in banca, attacchi esplosivi, lotte nelle carceri.

41 Nuclei contropotere comunista NCC 1973-1983 Italia. Autonomia operaia, operaismo comunista. Assalti a banche ed a sedi industriali.

42 Nuove Brigate Rosse Nuove BR 1999-2009 Centro-Nord Italia. Brigate Rosse. Attentati e omicidi di politici (Massimo D'Antona e Marco Biagi).

43 Nuclei Comunisti Combattenti NCC 1977-1999 Centro Italia. Nuove Brigate Rosse. Attentanti alla Confindustria.

44 Nuclei comunisti territoriali NCT 1979-1980 Piemonte. Prima Linea. Sabotaggio alla fabbrica FRAMTEK.

45 Nuclei di comunisti. NDC 1981-1983 Italia. Comunisti Organizzati per la Liberazione Proletaria. Attenatati e sabotaggi contro il capitalismo e lo Stato italiano.

46 Nuclei comunisti guerriglia proletaria-PAC NCGP 1979. Lombardia, Veneto. Proletari Armati per il Comunismo. Omicidi contro imprenditori, poliziotti e militari.

47 Nuclei Iniziativa Proletaria Rivoluzionaria NIPR 1999-2003 Italia. Operaismo comunista, Nuove Brigate Rosse. Lotta di classe, attentati contro la Nato, attentati contro Confindustria.

48 Nuclei Operai Resistenza Armata NORA 1973-1977 Nord Italia. Autonomia operaia, Brigate Rosse, operaismo comunista, lotta di classe. Attentati contro le fabbriche e contro le banche.

49 Nuclei proletari comunisti NPC 1999-2003 Italia. Comunismo, Nuove Brigate Rosse, lotta di classe. Attentati contro banche, industrie e sedi militari ed omicidi contro giuslavorsiti.

50 Nuclei proletari organizzati NPO 1973-1983 Italia. Operaismo comunista, Proletari Armati per il Comunismo, Autonomia operaia. Lotta di classe, attentati contro Nato e Confindustria.

51 Nuclei territoriali antimperialisti NTA 1991-2004 Italia. Operaismo comunista, Nuove Brigate Rosse, lotta di classe, anticapitalismo. Attentati contro la Nato.

52 Nuovi partigiani NP 1967-1977 Italia. Comunismo, operaismo comunista, antifascismo. Attentati a banche, caserme militari e sedi di partiti di destra.

53 Nuclei per il potere del proletario armato NPPA 1983 Italia. Operaismo comunista, Brigate Rosse, comunismo. Attentati contro le banche e le carceri, omicidio di Germana Stefanini.

54 Organizzazione operaia per il comunismo OOC 1973-1983 Italia. Rivoluzione proletaria, lotta di classe. Attentati contro banche e fabbriche in Italia.

55 Pantere Rosse PA 1970-1982 Italia. Nuclei armati proletari, Brigate Rosse, Movimento proletari prigionieri, operaismo comunista, Proletariato extra legale. Lotta di classe, lotte carcerarie.

56 Partito Comunista Politico-Militare PCPM 2007 Nord Italia. Seconda posizione. Progettato attentato a Pietro Ichino, assalti a fabbriche e banche.

57 Prima Linea PL 1976-1981 Italia. Autonomia Operaia. Omicidi di personalità istituzionali, evasioni dalle carceri.

58 Primi fuochi di guerriglia PFG 1977-1978 Centro-Sud Italia. Questione meridionale. Attentati a sedi militari.

59 Proletari armati per il comunismo PAC 1977-1979 Nord Italia. Autonomia Operaia, illegalismo proletario. Rapine in banca e omicidi di commercianti e poliziotti.

60 Proletari armati in lotta PAIL 1970-1974 Centro Italia. Lotta continua, comunismo. Lotta di classe, anticapitalismo, rivolta di San Benedetto del Tronto.

61 Proletari comunisti organizzati PCO 1973-1983 Italia. Collettivi politici veneti, Autonomia operaia. Azioni di sabotaggio contro industrie, banche e forze dell'ordine.

62 Rote Armee Fraktion RAF 1970-1998. Germania, Svizzera, Austria, Francia, Italia, Spagna, Somalia, Israele. Operaismo comunista, lotta di classe, anticapitalismo. Sabotaggi ed attacchi incendiari ed esplosivi a fabbriche, strutture militari, basi Nato, carceri, sedi di forze dell'ordine e sedi istituzionali; evasioni dalle carceri; rapine in banca; attacchi ed omicidi contro politici, forze dell'ordine ed industriali; collaborazione ad un dirottamento aereo. In Italia: assalti a banche ed a sedi tedesche in Italia; collaborazione nel sequestro Moro; collaborazione con il movimento internazionale Separat.

63 Reparti comunisti d'attacco RCA 1978-1980 Lombardia. Formazioni comuniste combattenti. Ferimenti di personalità, irruzione a Radio Torino Internazionale.

64 Ronde armate proletarie RAP 1975-1980 Italia. Comunismo, Autonomia operaia, Prima linea. Lotta di classe, omicidi ed attentati contro industriali, banchieri e militanti di destra.

65 Ronde proletarie per il comunismo RP 1967-1976 Lombardia. Prima linea, comunismo, lotta di classe. Attentati contro banche ed industrie.

66 Ronde proletarie RP 1973-1979 Italia. Comunismo, rivoluzione proletaria, Autonomia operaia. Attentati a banche, gruppi di destra, istituzioni scolastiche e militari.

67 Settembre Nero SN 1970-1979 Italia, Germania, Israele. Socialismo arabo, comunitarismo, nazionalismo di sinistra, nazionalismo palestinese, antisionismo. Attentati ad istituzioni israeliane in Italia, strage di Fiumicino del 1973, massacro di Monaco in Germania.

68 Squadre armate comuniste SAC 1973-1983 Italia. Lotta di classe. Attentati contro banche ed industri capitaliste.

69 Squadre armate proletarie SAP 1978- 1979 Italia. Comunismo, Autonomia operaia. Omicidio di Fedele Calvosa, attentati contro la Fiat e l'Alfasud.

70 Squadre operaie armate SOA 1973-1983 Centro-Nord Italia. Autonomia operaia, Prima linea, Brigate Rosse. Attentati alle fabbriche, azioni violente contro le banche.

71 Superclan (Super-Clandestini) Superclan 1970-1971. Italia, Grecia, Europa. Comunismo, antiamericanismo, Sinistra Proletaria. Fallito attentato all'ambasciata americana di Atene.

72 Unità comuniste combattenti UCC 1976-1979 Centro-Nord Italia. Formazioni comuniste armate. Irruzioni in sedi di organi istituzionali e industriali.

TERRORISMO NERO.

Terrorismo nero. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La locuzione terrorismo nero in Italia indica una tipologia di eversione armata di ispirazione neofascista e nazional-rivoluzionaria e, più in generale, collegata a ideologie politiche di destra.

Storia. La nascita del terrorismo neofascista in Italia non coincide con una data specifica ma al contrario, per rintracciare la sua genesi, è forse più utile seguire la storia di tutti quei movimenti legati agli ambienti della cosiddetta destra radicale ed extraparlamentare che, nel corso degli anni, nacquero e si svilupparono al fianco o, addirittura, il più delle volte, in contrapposizione al più grande partito fascista italiano del dopoguerra: il Movimento Sociale Italiano. La forte recrudescenza della violenza politica tra la fine degli anni settanta e gli inizi del decennio successivo, vide infatti la moltiplicazione a destra (come anche a sinistra) di gruppi armati eversivi con obiettivi, metodi e motivazioni tra loro differenti e talvolta anche contrapposti. Accanto ad organizzazioni essenzialmente nazional-rivoluzionarie, interessate ad abbattere il sistema e a sovvertire l'ordinamento democratico dello stato repubblicano per mezzo della lotta armata (su tutti i Nuclei armati rivoluzionari), presero forma anche altri movimenti (in primo luogo Ordine Nuovo, Avanguardia nazionale, Ordine nero) che intesero perseguire il medesimo obbiettivo sovversivo attraverso uno strategico compromesso con i lati più oscuri del potere costituito, l'utilizzo di elementi appartenenti ai servizi segreti deviati e della massoneria e attuato spesso con la manovalanza di gruppi terroristici neofascisti o di membri della criminalità organizzata in quella che venne poi conosciuta come strategia della tensione: un disegno eversivo "basato principalmente su una serie preordinata e ben congegnata di atti terroristici, volti a creare in Italia uno stato di tensione e una paura diffusa nella popolazione, tali da far giustificare o addirittura auspicare svolte di tipo autoritario" o quantomeno a lanciare avvertimenti ai governi al fine di ottenere leggi speciali o di attuare colpi di stato in funzione di svolte dittatoriali anticomuniste. Un disegno eversivo che venne attuato soprattutto attraverso dinamiche stragiste e il cui momento iniziale viene generalmente individuato nella strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, raggiungendo poi il suo culmine con la strage di Bologna del 2 agosto 1980.

Organizzazioni.

Ordine nuovo. Una delle prime organizzazioni, in termini temporali, fu il movimento Ordine Nuovo, nato nel 1969 dalla scissione di una componente minoritaria del Centro studi Ordine nuovo, in opposizione al ricongiungimento della frangia guidata da Pino Rauti e composta dalla maggioranza dei dirigenti nelle file del Movimento Sociale Italiano dell'allora segretario Giorgio Almirante. Contrari al rientro in un partito considerato troppo asservito alla borghesia e all'imperialismo americano e guidati da Clemente Graziani (che ne diviene segretario nazionale), i militanti ordinovisti diedero quindi vita a Ordine Nuovo. In stretto collegamento con Avanguardia nazionale e con alcuni gruppi clandestini armati e funzionari di diversi ministeri, capeggiati dal Principe nero Junio Valerio Borghese e raccolti sotto la sigla Fronte nazionale, gli ordinovisti parteciparono al progetto di un colpo di Stato, nella notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970, a Roma. Per motivi mai chiariti fino in fondo, tuttavia, il tentativo di golpe durò soltanto alcune ore e venne interrotto prima che venisse raggiunto un vero e proprio stato insurrezionale. Ad ON, nel corso del tempo, si legarono personaggi della destra radicale come Stefano Delle Chiaie, Giovanni Ventura, Franco Freda, Delfo Zorzi, Pierluigi Concutelli e Vincenzo Vinciguerra, indagati in seguito per atti di terrorismo. L'attività del MPON, fino al suo scioglimento per decreto, emanato dall'allora Ministro dell'Interno Emilio Taviani, il 21 novembre 1973, venne contraddistinta da una duplice direzione: la formazione ideologica dei suoi componenti secondo i principi della tradizione e allo scopo di creare una élite di «combattenti e di credenti» e l'attivismo militante attraverso la costituzione di una fitta rete di rapporti, sia in Italia che all'estero, «con altri gruppi di ispirazione eversiva e con i "corpi separati" dello Stato, fino al coinvolgimento in almeno un tentativo di colpo di Stato». Quando il movimento Ordine Nuovo venne ritenuto illegale e messo fuori legge, molti suoi membri entrarono in clandestinità. Già cinque mesi prima di quella data, 42 ordinovisti subirono a Roma un processo per violazione degli articoli sulla ricostituzione del Partito fascista, conclusosi con condanne che variarono dai cinque anni ai sei mesi di reclusione. Allo scioglimento del movimento, seguì poi un ulteriore processo terminato, a Roma, il 24 gennaio del 1978, con 113 assoluzioni ed il rinvio a giudizio di 19 imputati, quasi tutti però latitanti. Titolare di quelle inchieste che portarono alla sbarra gran parte di quel movimento fu il sostituto procuratore di Roma Vittorio Occorsio che, per quel motivo, venne poi assassinato il 10 luglio 1976, sotto la sua abitazione al quartiere romano Trieste, da uno dei capi militari di Ordine Nuovo, Pierluigi Concutelli, che ne firmò personalmente la stessa rivendicazione: «Il tribunale speciale del Mpon ha giudicato Vittorio Occorsio e lo ha ritenuto colpevole di avere, per opportunismo carrieristico, servito la dittatura democratica perseguitando i militanti di Ordine Nuovo e le idee di cui essi sono portatori. Vittorio Occorsio ha, infatti, istruito due processi contro il Mpon. Al termine del primo, grazie alla complicità dei giudici marxisti Battaglini e Coiro e del barone de Taviani, il Movimento Politico è stato sciolto e decine di anni di carcere sono state inflitte ai suoi dirigenti. Nel corso della seconda istruttoria numerosi militanti del Mpon sono stati inquisiti e incarcerati e condotti in catene dinanzi ai tribunali del sistema borghese [...] La sentenza emessa dal tribunale del Mpon è di morte e sarà eseguita da uno speciale nucleo operativo. Avanti per l'Ordine Nuovo!» (Concutelli da Io, l'uomo nero).

Avanguardia nazionale. Altra sigla attiva nell'ambito dell'eversione armata di destra fu Avanguardia nazionale. Fondato nel 1960 da Stefano Delle Chiaie, un giovane militante fuoriuscito dal Movimento Sociale Italiano e successivamente formatosi in Ordine Nuovo, Avanguardia venne sciolta formalmente nel 1976. Nell'arco temporale della sua esistenza AN «fu probabilmente la principale protagonista della violenza neofascista degli anni Sessanta. Il suo orientamento era fondamentalmente squadristico, brutale nelle parole nei fatti». Fino alla metà degli anni settanta, assieme ad Ordine Nuovo, AN dominava lo scenario delle formazioni appartenenti all'area della destra radicale: una sorta di egemonia politica e militante che funzionò anche da filo rosso, da collegamento tra le prime organizzazioni post-fasciste formate dai reduci della RSI e lo spontaneismo armato degli anni settanta e ottanta. Ma, mentre la strategia di ON era centrata maggiormente sul piano dell'elaborazione politica e di diffusione ideologica, la dirigenza avanguardista operava più su un orizzonte attivista ed operativo e in azioni di indole terroristica. Entrambe le organizzazioni, comunque, svilupparono tra loro fitte relazioni di collaborazione con l'obiettivo comune di creare un movimento nazionale rivoluzionario atto a provocare l'abbattimento del sistema democratico e parlamentare con l'appoggio fattivo dei servizi segreti e di gruppi industriali italiani. «Nel solo novembre 1968 il gruppo ha organizzato ben quattro attentati con bombe, tre contro scuole e uno contro l'Accademia nazionale delle guardie di Pubblica Sicurezza». Per questi attentati, nel 1977, furono dichiarati colpevoli e condannati gli avanguardisti Stefano Delle Chiaie, Saverio Ghiacci e Roberto Palotto, ciascuno a 3 anni di reclusione. Come venne riportato nella motivazione di quella sentenza: «Stefano Delle Chiaie e il suo gruppo, alla fine del 1968, erano smaniosi di agire e di farsi vivi in qualsiasi modo. Erano attivissimi sia nel campo degli intrighi e delle lotte propri mente politiche, sia nel settore che potrebbe definirsi genericamente attivistico.» Nell'ambito dell'inchiesta sui gruppi della destra radicale, la questura di Roma, nel 1973, stimò che almeno 500 attivisti distribuiti in una trentina di città sparse per l'Italia facessero capo all'organizzazione, che a quel punto, con Delle Chiaie latitante, faceva riferimento come leader ad Adriano Tilgher: quindici pagine di accuse contro i componenti di AN per crimini e reati che vanno dall'incendio al tentativo di strage. Il 5 giugno del 1976 il tribunale di Roma dichiarò Avanguardia Nazionale un movimento illegale e sentenziò la condanna di colpevolezza per ricostituzione del partito fascista e atti di violenza politica e terrorismo. Nei confronti dei 64 imputati alla sbarra, tra capi e dirigenti, il processo si concluse con 31 condanne (tra i cui Stefano Delle Chiaie, Adriano Tilgher, Roberto Agnellini, Cristiano De Eccher, Felice Genoese Zerbi, Mario Di Giovanni) e 33 assoluzioni, con pene inferiori a quelle richieste dal pubblico ministero. Riguardo alle fonti di finanziamento del movimento, la polizia riuscì solo a verificare la provenienza legale attraverso contributi degli aderenti. In realtà, molti dei soldi, arrivavano con cadenza regolare anche da alcuni ambienti economici, a sostegno dei campi di addestramento o anche grazie al traffico d'armi.

Ordine Nero. La messa in clandestinità di Ordine Nuovo venne seguita dalla nascita di altre sigle che iniziarono a popolare l'area dell'eversione neofascista e che diventarono poi oggetto di inchieste da parte della magistratura italiana. Tra il 28 febbraio ed il 2 marzo del 1974, in un summit organizzato presso un hotel di Cattolica, da alcuni dirigenti di Ordine Nuovo e Avanguardia nazionale e a cui parteciparono, fra gli altri, Clemente Graziani, Paolo Signorelli e Salvatore Francia si gettarono le basi per la riorganizzazione di ON e del conseguente rilancio della lotta armata neofascista. Venne quindi creato il gruppo di Ordine Nero che raccoglieva militanti ordinovisti assieme agli avanguardisti di Stefano Delle Chiaie. Considerato come una diretta emanazione dei servizi segreti italiani, verrà scoperto successivamente che non solo i servizi erano a conoscenza della riunione costitutiva ma anche che lo stesso proprietario dell'hotel, tale Caterino Falzari, era un agente informatore del SID stesso. Con la sigla Ordine nero vennero poi rivendicati una decina di attentati dinamitardi, avvenuti nel 1974 e per i quali vennero poi riconosciuti diretti colpevoli i milanesi Fabrizio Zani e Luciano Benardelli ed il toscano Augusto Cauchi.

Nuclei armati rivoluzionari. Attivi dal 1977 fino al 1981, i Nuclei armati rivoluzionari, rappresentarono l'ala spontaneista dell'eversione armata di destra segnando un deciso punto di svolta e di rottura nei confronti dei loro predecessori (su tutti Ordine Nuovo e Avanguardia nazionale) sia attraverso una diversa modalità nell'azione, che nella comunicazione delle stesse che, soprattutto, nel totale abbandono della contrapposizione frontale tra destra e sinistra tipica di chi li aveva preceduti e che, tradotta in violenza armata, portava le due diverse fazioni ad una radicalizazione della lotta armata e a rispondere colpo su colpo, azione su azione all'altrui violenza. «Le organizzazioni di estrema sinistra armate vengono prese a modello per la serietà e l'impegno dimostrati nelle loro azioni: parlando dei compagni si sottolineava spesso l'unità di generazione e inoltre se ne apprezzava la caratteristica anti-borghese, che voleva essere anche una nostra caratteristica» (Valerio Fioravanti da A mano armata di Giovanni Bianconi). Contrariamente a tutti gli altri movimenti dell'eversione di destra di quell'epoca, i NAR intesero recidere ben presto il cordone ombelicale con il loro partito di riferimento (il Movimento Sociale Italiano) e, seguendo l'esempio dei gruppi armati di sinistra, seppero perseguire una strada assolutamente differente rivolgendo apertamente le loro armi contro lo Stato colpendo appartenenti alle forze dell'ordine e magistrati: una singolarità che li rese un fenomeno assolutamente atipico nella vasta galassia del terrorismo italiano di destra. Il loro nucleo originario, che all'inizio comprendeva essenzialmente i soli Valerio Fioravanti, suo fratello Cristiano, Francesca Mambro, Franco Anselmi ed Alessandro Alibrandi, nel corso del tempo si trasformò in una sorta di sigla aperta messa a disposizione dello spontaneismo armato che, per volere dei suoi stessi componenti originari, non si trasformò mai in una struttura rigida e gerarchicamente definita. «Nar è una sigla dietro la quale non esiste un’organizzazione unica, con organi dirigenti, con dei capi, con delle riunioni periodiche, con dei programmi [...] Non esiste neppure un livello minimo di organizzazione. Ogni gruppo fascista armato che si formi anche occasionalmente per una sola azione può usare la sigla Nar. D’altra parte non esisterebbe modo per impedirlo.» (Interrogatorio di Valerio Fioravanti del 19 febbraio 1981). Un movimento aperto, quindi e nel quale transitarono diversi militanti provenienti dalla galassia dell'estrema destra tanto che, la sentenza del processo a loro carico, riconobbe condanne per ben 56 imputati tra componenti e fiancheggiatori. Durante i quattro anni di attività i NAR furono ritenuti responsabili di 33 omicidi, oltre che della morte di 85 persone cadute nella strage alla stazione di Bologna, del 2 agosto 1980, per la quale furono condannati (ma rispetto alla quale si sono sempre professati innocenti) come esecutori materiali con sentenza definitiva, Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Da tempo il Partito Radicale e numerosi esponenti politici di estrazione trasversale richiedono l'apertura del processo, a causa delle molte incongruenze registrate e della scarsa attendibilità di alcuni testimoni, alcuni dei quali pluricondannati per reati gravissimi come Massimo Sparti e Angelo Izzo, quest'ultimo autore del massacro del Circeo.

Le altre sigle. Altre sigle attive nell'area dell'eversione di destra furono il Fronte Nazionale Rivoluzionario del terrorista Mario Tuti, attivo soprattutto in Toscana dal 1972 al 1975; il Movimento di Azione Rivoluzionaria fondato da Carlo Fumagalli e Gaetano Orlando nel 1962, ma attivo in Lombardia soprattutto tra il 1970 e il 1974 e responsabile di alcuni attentati esplosivi contro tralicci Enel in Valtellina e alla Pirelli di Milano in cui perse la vita l'operaio Gianfranco Carminati; le Squadre d'azione Mussolini, movimento nato nel 1969 e attivo soprattutto in Lombardia fino al 1974 con un'ottantina di attentati dinamitardi; il gruppo La Fenice, fondato nel 1971 da Giancarlo Rognoni, Nico Azzi, Mauro Marzorati e Francesco De Min: molto vicini ad ON e condannati per l'attentato al treno Torino-Roma del 7 aprile 1973[30]. Transitato nei vari processi sulla Strage di piazza Fontana, il 3 maggio 2005, la Corte di cassazione di Milano assolse Rognoni per non aver commesso il fatto; Terza Posizione, attiva soprattutto a Roma dal 1976 fino al 1980 e guidato da Gabriele Adinolfi, Giuseppe Dimitri e Roberto Fiore poteva contare su alcune migliaia di militanti divisi in una sorta di un doppio livello, uno più politico e alla luce del sole, ed un secondo più occulto e strettamente militare, con a capo Dimitri. Nel settembre del 1980, nell'ambito delle indagini sulla strage alla stazione di Bologna del 2 agosto precedente, una quarantina di suoi componenti furono oggetto di mandato di cattura per reati associativi e costrinsero Fiore ed Adinolfi alla fuga nel Regno Unito e a lasciare l'organizzazione nelle mani di Giorgio Vale[32] il Movimento Rivoluzionario Popolare, formatosi nel 1979 da attivisti riconducibili all'area di Costruiamo l'azione, con a capo Paolo Aleandri e Marcello Iannilli e protagonisti di una campagna di attentati dinamitardi nella primavera del 1979: il 20 aprile con una carica esplosiva posizionata all'ingresso della sala consiliare del Campidoglio, il 15 maggio con 55 chili di dinamite fatti esplodere nei pressi del carcere di Regina Coeli, il 4 maggio con un'altra carica di esplosivo deflagrata nei pressi del Ministero degli Esteri ed infine il 20 maggio con un'auto imbottita di esplosivo nei pressi del CSM[33]; la Rosa dei venti, struttura autonoma di Gladio, sotto il diretto controllo del Sid e in concerto con i vertici delle Forze armate e dell'Arma dei carabinieri (tutti favorevoli ad una svolta autoritaria) e il cui nome venne legato al tentato colpo di Stato Borghese. L'esistenza dell'organizzazione fu portata alla luce da un'inchiesta dell'ottobre 1974 della magistratura di Padova.

Episodi più rilevanti. Le inchieste che negli anni seguiranno le vicende di questi movimenti porteranno alla luce come una parte dell'eversione neofascista, attraverso la strategia della tensione, individuò nello stragismo delle bombe sui treni, nelle piazze e negli edifici pubblici, lo strumento attraverso cui segnare col sangue la propria presenza e cercare di abbattere lo Stato democratico in favore di una svolta autoritaria, intendendo così mutare «la formula politica che per un venticinquennio ci ha governato.» Anche se, per alcuni di questi attentati, la magistratura non riuscì ad emettere condanne definitive e a rintracciare mandanti o esecutori degli stessi nei vari gradi di giudizio, nel periodo che va dal 1969 (individuato come data di inizio degli Anni di piombo) fino al 1984 (anno della Strage del Rapido 904, l'ultima con finalità di destabilizzazione eversiva), gli episodi più rilevanti accostati ad una matrice di destra furono: Bombe del 25 aprile 1969: una serie di bombe ad alto potenziale esplodono alla Fiera e alla stazione centrale di Milano, provocando una ventina di feriti.

Attentati ai treni dell'estate 1969: otto bombe rudimentali esplodono su altrettanti treni in diverse località d'Italia, tra l'8 ed il 9 agosto, provocando 12 feriti. Per questi attentati e per quelli dell'aprile 1969, Franco Freda e Giovanni Ventura verranno condannati con sentenza definitiva a 15 anni di reclusione. Nel processo venne altresì accertato che quegli stessi attentati facessero parte di un unico piano eversivo che doveva portare fino alla Strage di Piazza Fontana.

Strage di Piazza Fontana: il 12 dicembre 1969 una bomba esplode nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura in piazza Fontana a Milano uccidendo 17 persone e ferendone altre ottantotto. Il 3 maggio 2005, dopo una lunga vicenda giudiziaria durata oltre 35 anni, la Corte di cassazione conferma le assoluzioni di Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni e Delfo Zorzi. Conferma però anche che l'eccidio fu organizzato da «un gruppo eversivo costituito a Padova nell'alveo di Ordine nuovo» e «capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura» non più processabili perché assolti per questo reato con sentenza passata in giudicato. La strage resta quindi tuttora impunita. Il collaboratore di giustizia Carlo Digilio, che confessò la sua partecipazione, fu condannato in primo grado e non fece ricorso, ma la pena era ormai prescritta grazie ai benefici di legge.

Strage di Gioia Tauro: il 22 luglio 1970, una carica di tritolo fa saltare un tratto di binario a poche centinaia di metri dalla stazione di Gioia Tauro provocando il deragliamento del Treno del Sole (Palermo-Torino) e provocando la morte di sei persone e 139 feriti.

Golpe Borghese: la notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970 un tentativo di colpo di Stato organizzato dal principe Junio Valerio Borghese e il suo Fronte Nazionale, in stretto rapporto con membri di Avanguardia Nazionale, vertici militari e dei servizi segreti, venne bloccato all'ultimo momento per ordine dello stesso Borghese e in circostanze mai chiarite.

Strage di Peteano: il 31 maggio 1972 a Peteano di Sagrado a causa di una telefonata anonima pattuglia di carabinieri viene chiamata a controllare un'auto sospetta che poi risulterà imbottita di esplosivo T4, in dotazione alla NATO. Quando il veicolo esplode, provoca la morte di tre agenti ed il ferimento di altri. Reo confesso della strage è Vincenzo Vinciguerra, allora membro di Ordine Nuovo e condannato all'ergastolo.

Strage di Piazza della Loggia: il 28 maggio 1974, una bomba nascosta in un cestino portarifiuti, esplode in piazza della Loggia a Brescia, mentre è in corso una manifestazione sindacale, provocando otto morti e 103 feriti. Nonostante nei vari procedimenti giudiziari si sia continuamente ipotizzato il coinvolgimento di rami dei servizi segreti, di apparati deviati dello Stato e di manovalanza neofascista nella vicenda. Dopo decenni di processi e indagini, il 16 novembre 2010, la Corte d'assise di Brescia ha assolto, per non aver commesso il fatto, tutti gli imputati: gli ordinovisti Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi, l'ex generale Francesco Delfino, il politico Pino Rauti e l'ex collaboratore del SID Maurizio Tramonte, lasciando così la strage impunita. La Corte di Cassazione nel 2014 ha confermato l'assoluzione di Zorzi, ma ha annullato quella nei confronti di Maggi e Tramonte, per cui verrà istruito un nuovo processo. La posizione di Rauti è stata dichiarata estinta, dato il decesso sopraggiunto dell'imputato.

Strage dell'Italicus: il 4 agosto 1974 una bomba ad alto potenziale posizionata sul treno Italicus esplode all'altezza di San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna, provocando 12 morti e 48 feriti. L'attentato venne inizialmente rivendicato da Ordine nero: «Abbiamo voluto dimostrare alla nazione che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi ora, in qualsiasi luogo, dove e come ci pare.» Sebbene il processo si concluse con l'assoluzione degli imputati Mario Tuti e Luciano Franci, nella sentenza del tribunale di Bologna che giudicò i neofascisti implicati nella strage, venne scritto come la P2 svolse un'opera di istigazione agli attentati e di finanziamento nei confronti della destra extraparlamentare toscana.

Strage alla stazione di Bologna: il 2 agosto 1980 l'esplosione di una bomba posizionata nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione bolognese provoca 85 morti e 200 feriti. Condannati, come esecutori materiali, con sentenza definitiva del 23 novembre 1995 i componenti dei NAR Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Condannati per il depistaggio delle indagini, i massoni Licio Gelli, Francesco Pazienza e i due ufficiali del servizio segreto militare, il generale Pietro Musumeci ed il colonnello dei carabinieri Giuseppe Belmonte, entrambi iscritti alla loggia massonica P2.

Strage del Rapido 904: il 23 dicembre 1984, una bomba esplode sul treno 904 Napoli-Milano, nei pressi della Grande galleria dell'Appennino, tra Vernio e San Benedetto Val di Sambro, causando la morte di 15 persone ed il ferimento di altre 267. Il 24 novembre 1992, la Corte di cassazione, confermando la sentenza di colpevolezza nei confronti degli imputati, acclarò la matrice terroristico-mafiosa dell'attentato.

Organizzazioni armate di estrema destra in Italia. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Questo elenco delle principali organizzazioni armate di estrema destra in Italia include organizzazioni attive nel paese in diversi periodi storici, di diverse entità e con scopi diversi, ma accomunate dall'uso, da parte di singoli esponenti o aderenti, delle armi a scopo eversivo e dall'orientamento politico di estrema destra, sia reazionaria che rivoluzionaria. La maggior parte di queste organizzazioni si svilupparono, dopo la seconda guerra mondiale, nei cosiddetti anni di piombo, tra la fine degli anni sessanta e la metà del anni settanta del XX secolo. Per ciascuna organizzazione vengono specificati sia il nome che la sigla più frequentemente usata per riferirsi a essa. Per un analogo elenco di organizzazioni ispirate a ideologie di sinistra, vedi le organizzazioni armate di sinistra in Italia.

1 Associazione Protezione Italiani API 1961-1979 Italia, Austria. Nazionalismo italiano, neofascismo. Attentati in Alto Adige.

2 Avanguardia Nazionale AN 1960 - 1976 (ufficialmente) Italia. Neofascismo, anticomunismo, G.A.R. Strage di Gioia Tauro (coinvolgimento), omicidi contro militanti comunisti, strage di Peteano, coinvolgimento nella strategia della tensione, sostegno ai golpe.

3 Bergisel Bund BB 1939-1971 Alto Adige. Austrofascismo, Fronte Patriottico, separatismo dall'Italia. Attentati contro gli italiani dell'Alto Adige.

4 Comitato per la liberazione del Sudtirolo BAS 1956-1969 Alto Adige. Nazismo, Austrofascismo, Antitalianismo. Attentati e omicidi contro gli italiani dell'Alto Adige.

5 Disoccupati Italiani Nazionalisti DIN 1991 Italia. Nazionalismo, Razzismo, Xenofobia. Omicidio di Auro Bruni.

6 Ein Tirol KET 1978-1991 Alto Adige. Neonazismo, separatismo dall'Italia, Antiitalianismo. Attentati contro gli italiani dell'Alto Adige.

7 Falange Armata FA 1990-1994 Italia. Estrema destra, mafia di Cosa nostra. Omicidi, depistaggi e attentati.

8 Fasci di azione rivoluzionaria FAR 1946 Italia. Nazionalismo italiano, Reduci della RSI, pensiero di Julius Evola. Assalto alla stazione radio di Monte Mario.

9 Fronte Nazionale FN 1967-1971 Italia. Nazionalismo italiano, Neofascismo, Organizzazione Gladio, Junio Valerio Borghese. Aattentati contro i tedeschi dell'Alto Adige, Golpe Borghese.

10 Fronte Nazionale Rivoluzionario FNR 1972 - 1975 Toscana. Nazionalismo italiano, Organizzazione Gladio. Strategia della tensione.

11 Gruppo Stieler GS 1956-1957 Alto Adige. Austrofascismo Nazismo, separatismo dall'Italia. Attentati dinamitardi contro gli italiani in Alto Adige.

12 Movimento di Azione Rivoluzionaria MAR 1962 - 1974 Lombardia. Nazionalismo, Organizzazione Gladio. Incendio alla Pirelli-Bicocca (14 gennaio 1971).

13 Movimento italiano Adige MiA 1978-1988 Alto Adige. Nazionalismo italiano, neofascismo, Organizzazione Gladio. Attentanti contro monumenti simbolo dei tedeschi dell'Alto Adige.

14 Movimento politico Ordine Nuovo MPON 1965 - 1973 Italia. Neofascismo, Centro Studi Ordine Nuovo, neonazismo, nazimaoismo. Strage di piazza Fontana e accusa della strage di piazza della Loggia (procedimento in corso); omicidi (es. quello del giudice Vittorio Occorsio), strage di Peteano, varie bombe su treni.

15 Movimento Rivoluzionario Popolare MRP 1979-1980 Italia. Nazionalismo, Socialismo nazionale, Comunitarismo. Attentati dinamitardi a sedi governative socialiste e democristiane, al PCI ed alle istituzioni militari.

16 Nuclei Armati Rivoluzionari NAR 1977 - 1981 Italia. Nazionalismo italiano, Gerarchia Fascista, Socialismo nazionale, spontaneismo armato di destra. 33 omicidi, tra magistrati (Mario Amato), forze dell'ordine, cittadini, ex membri del gruppo (Francesco Mangiameli) e militanti di sinistra; strage di Bologna (85 morti); coinvolgimenti con la Banda della Magliana e altra criminalità comune.

17 Ordine Nero ON anni settanta Italia. Neofascismo, Ordine Nuovo, Gerarchia Fascista, Socialismo nazionale. Attentati a linee ferroviarie, strage dell'Italicus.

18 Squadre d'Azione Mussolini SAM 1969-1974 Italia. Fascismo, Anticomunismo. Aggressioni fisiche e attentati dinamitardi contro sedi comuniste in Italia.

19 Terza Posizione TP 1979 - 1980 Italia. Gerarchia Fascista, terzomondismo, Socialismo nazionale, Peronismo. Aggressioni violente ai danni di comunisti e delle Forze armate italiane.

20 Rosa dei Venti RDV 1972 - 1974 Italia. Junio Valerio Borghese, anticomunismo, militarismo. Golpe Borghese.

 LOTTA AL TERRORISMO L’ESPERIENZA ITALIANA.

(Lotta al) Terrorismo: l’esperienza italiana, scrive Tullio Del Sette il 17 Dicembre 2018 su Leurispes. L’attentato dell’11 dicembre a Strasburgo ha fatto di nuovo salire il termometro dell’allarme terrorismo, un allarme che l’assenza di gravi attentati jihadisti in Europa negli ultimi mesi aveva fatto scendere sui mezzi di informazione, nei discorsi dei politici e nella vita della gente, in qualche modo rassicurati anche dalle notizie delle sconfitte subite sul campo dai radicali islamisti in Siria e in Iraq, oltreché in Libia. Calo dell’allarme e calo d’attenzione, che forse ha riguardato anche i responsabili della sicurezza pubblica a Strasburgo, data l’apparente carenza di servizi preventivi e di capacità di intervento immediato per la cattura dell’autore della strage, in una città che è sede del Parlamento europeo e non è nuova a fatti di terrorismo, in uno dei giorni in cui, in centro e a pochi passi dalla sede parlamentare, si tenevano i tradizionali mercatini di Natale, noto polo d’attrazione per tanta gente e, quindi, obiettivo privilegiato di attacco per folli assassini interessati a conseguire il massimo effetto mediatico. Un vantaggio al terrorismo che gli addetti ai lavori italiani sanno bene che non può essere concesso: nessun calo di tensione, nessuna distrazione sono consentiti, perché l’insidia rimane e permarrà fino a quando non sarà stato completamente eliminato il pericolo di nuovi attentati. Finché, quindi, non saranno state definitivamente sconfitte le formazioni jihadiste, comunque denominate, che ancora si annidano in Medio Oriente, in Africa e in Asia. Finché non saranno stati individuati e perseguiti, resi inoffensivi, lì e in ogni Paese in cui possano andare o ritornare, i disperati superstiti o altrove “dormienti” e, soprattutto, i loro maestri, funesti “predicatori di morte” che, nei luoghi di culto, nelle carceri, nelle periferie del mondo e in quelle incontrollate delle città – attraverso il web – continuano a lavorare per la radicalizzazione e l’avvio alla jihad di giovani alla ricerca di una identità e di una ragione di vita. Finché le politiche e le misure per l’integrazione e lo sviluppo economico e sociale, le ragioni del rispetto dei diritti umani, non prevarranno su quelle isolazioniste, divisive, dello sfruttamento, della violenza, delle paure, dei rancori e dell’ignoranza settaria. Perciò, in una situazione che rimane potenzialmente pericolosa, in evoluzione e dipendente soprattutto da variabili esterne, occorre che le Forze di sicurezza tengano alta la guardia e lavorino ogni giorno, come sanno fare, per continuare a preservare l’Italia da attentati jihadisti sul proprio territorio. Un territorio, il nostro, preservato benché ospiti anch’esso tanti stranieri di fede islamica tra i quali più d’uno propenso al terrorismo, benché l’Italia abbia, seppur meno numerosi di altri Paesi, i suoi foreign fighters, benché Roma e la S. Sede siano state indicate dalle organizzazioni jihadiste, il Daesh in particolare, come obiettivi primari, benché come e più di altre Nazioni partecipi alle missioni internazionali. Un territorio, quello italiano, preservato non per un qualche “Lodo” o patto segreto, come fu per gli attentati palestinesi tra la metà degli anni Settanta e Ottanta, non solo perché mancante di residenti musulmani di seconda o terza generazione non sufficientemente integrati, ma anzitutto per l’efficacia e l’efficienza di un sistema di contrasto – informativo, preventivo, d’intervento e investigativo – attivo da tempo e tuttora pienamente funzionante. Un sistema – esemplare per gli altri Paesi – che si avvale di strutture specializzate e territoriali di primo ordine, di mezzi e procedure d’avanguardia, di un pieno e proficuo coordinamento tra le Forze di Polizia, di una consolidata sinergia operativa tra esse (la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e le Direzioni Distrettuali), di una cooperazione ininterrotta con i Servizi di Informazione, di una ricercata collaborazione internazionale a livello informativo e operativo. Un sistema messo a punto con le esperienze maturate nel vittorioso contrasto dell’attacco portato allo Stato dal terrorismo politico di destra e di sinistra e dallo stragismo mafioso, dopo quello irredentista sudtirolese, nell’ultimo quarantennio del secolo scorso. Un’esperienza che non tutti – salvo i tanti parenti delle vittime e i protagonisti, da una parte e dall’altra – oggi ricordano o conoscono, costata centinaia di morti e migliaia di feriti; una realtà e una storia da non dimenticare. I 360 attentati, le 21 vittime (di cui 15 delle Forze dell’ordine), i 57 feriti, i 157 terroristi e complici condannati, dei quali 103 italiani e il resto austriaci e tedeschi, sono il lascito di sofferenze del terrorismo altoatesino, di poco anticipatore e coevo di quello politico. Al terrorismo nero, in segnalati rapporti con frange deviate dei servizi segreti di allora, vanno ascritte soprattutto stragi per attentati dinamitardi: quella del 12 dicembre 1969 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano – considerata all’origine della “Strategia della tensione”, degli “Anni di piombo”, della “Notte della Repubblica”, come vennero chiamati gli anni successivi – e quelle: del 22 luglio 1970 a Gioia Tauro, sulla linea ferroviaria per Reggio Calabria durante la rivolta seguita allo spostamento del capoluogo regionale a Catanzaro; del 31 maggio 1972 contro i Carabinieri a Peteano (UD); del 17 maggio 1973 avanti alla Questura di Milano durante la cerimonia per il primo anniversario dell’uccisione del Commissario Luigi Calabresi; del 28 maggio 1974 in Piazza della Loggia, a Brescia durante una manifestazione sindacale; del 4 agosto 1974 al treno Italicus; del 2 agosto 1980 alla stazione ferroviaria di Bologna, la più terribile e funesta con gli 85 morti e i 200 feriti provocati dall’esplosione di una valigia nella sala di attesa di seconda classe. Stragi che punteggiarono una miriade di attentati minori o falliti, di scontri e uccisioni tra opposti militanti, di assassinii di appartenenti alle Istituzioni dello Stato e alla società civile. Stragi non rivendicate e uccisioni, altri attentati, quasi sempre rivendicati, invece, con tante sigle, identificative di formazioni eversive di estrema destra: Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo, Ordine Nero, Movimento d’Azione Rivoluzionaria, Fronte Nazionale Rivoluzionario, Squadre d’Azione Mussolini, La Fenice, Terza Posizione, e, infine, la Falange Armata che nei primi anni Novanta rivendicò anche una serie di omicidi commessi dalla Banda della Uno Bianca. Il gruppo più tristemente noto fu quello dei Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), che, tra il 1977 e il 1981 si rese responsabile di attentati a organi di informazione, furti e rapine di armi militari e civili, rapine di autofinanziamento e 33 omicidi. Tre di loro sono stati condannati all’ergastolo per la strage della stazione di Bologna, sulla quale sono ancora in corso un processo su un quarto presunto autore, anch’esso appartenuto ai NAR, e un altro per individuare i mandanti. E non fu certo meno impegnativo il contrasto del terrorismo brigatista e delle altre sigle della sinistra extraparlamentare, sviluppatosi a partire dai primi anni Settanta, dopo un triennio difficile e confuso. Il 1967, l’anno dell’occupazione della Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento e delle prime violente contestazioni di piazza con il primo morto, dello scandalo SIFAR (denominazione di allora del servizio segreto), della nascita di Potere Operaio, delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam, del colpo di stato dei Colonnelli in Grecia, delle rivelazioni del settimanale L’Espresso sul c.d. Piano Solo. E poi il 1968, l’anno dell’ondata delle occupazioni e degli sgomberi delle Università, dei violentissimi scontri di piazza tra manifestanti e polizia, degli assassinii di Martin Luther King e di Robert Kennedy negli Stati Uniti, dell’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche. Infine il 1969, l’anno dei primi attentati di matrice neofascista sui treni, dell’ “autunno caldo” degli scioperi e delle manifestazioni che unirono operai e studenti, della costituzione a Genova del Gruppo XXII Ottobre, il primo a praticare la lotta armata a sinistra; un anno che si chiuse con il terribile attentato di Piazza Fontana, la precipitazione dell’anarchico Giuseppe Pinelli dal quarto piano della Questura di Milano mentre veniva interrogato in merito a quell’attentato e dell’arresto dell’anarchico Pietro Valpreda, poi prosciolto, per quella stessa strage. È nel 1970 che nascono i Gruppi d’Azione Partigiana (GAP), fondati a Milano dall’editore Giangiacomo Feltrinelli e attivi fino al 1972, l’anno in cui, il 14 marzo, l’editore morì dilaniato da un ordigno su un traliccio dell’alta tensione a Segrate. Ed è nello stesso anno che, a Pecorile di Reggio Emilia, alcune decine di giovani già aderenti al Collettivo Politico Metropolitano di Milano e poi a Sinistra Proletaria fondano le Brigate Rosse, l’organizzazione terroristica più strutturata, numerosa, longeva, pericolosa e nota degli Anni di piombo. I risultati ottenuti nella fase iniziale della propaganda armata, li convinsero a passare dal 1974 a quella dell’attacco al cuore dello Stato, che si proponevano di disarticolare mediante un crescendo di attacchi alle Istituzioni, ai partiti politici, al mondo accademico e a quello produttivo, cercando di coinvolgere nella lotta un numero sempre crescente di combattenti per passare alla guerra civile e, alla fine, instaurare una dittatura marxista- leninista. Propositi funesti e illusori, impediti dall’efficacia dalla risposta delle forze di difesa dello Stato, dalla capacità di resistenza delle forze politiche e sociali, dal coinvolgimento e dal coraggio della società civile, che li rifiutò decisamente, salvo le esitazioni di qualche intellettuale inizialmente attratto dallo slogan “Né con lo Stato né con le BR” diffuso da Lotta continua e Potere operaio. Il punto più alto dell’attacco allo Stato arrivò il 16 marzo 1978 con l’agguato di Via Fani, a Roma, in cui furono uccisi i cinque uomini di scorta e fu rapito Aldo Moro, Presidente della Democrazia Cristiana, il politico più influente, fine tessitore della politica nazionale e di nuovi equilibri democratici, sequestrato per quasi due mesi durante i quali, sottoposto al giudizio di un fantomatico “Tribunale del popolo”, scrisse ben 97 lettere al suo e ad altri partiti, alla famiglia, a governanti, personalità politiche e amici tese a sollecitare l’avvio di una trattativa – che non ci fu – per il suo rilascio anche attraverso rivelazioni di fatti e circostanze non note della politica, e un Memoriale, rinvenuto incompleto a Milano, in Via Monte Nevoso, in due soluzioni, nel 1978 e nel 1990. Cinquantacinque giorni durissimi per lo Stato e le Istituzioni – quelli tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978, giorno del ritrovamento del cadavere di Moro nel bagagliaio di un’autovettura parcheggiata a pochi metri dalle sedi nazionali della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista, i due partiti maggioritari e contrapposti che stavano orientandosi alla “solidarietà nazionale” e al “compromesso storico”. Cinquantacinque giorni iniziati e conclusi tragicamente, cadenzati anche da una “Risoluzione strategica” e comunicati delle BR, che, per converso, avviarono una più decisa reazione di contrasto e rifiuto, una nuova fase di arresti e importanti pentimenti – di cui fu ancora protagonista il generale Dalla Chiesa – che portarono allo smantellamento delle “vecchie” BR negli anni Ottanta. Ma prima ci furono altri omicidi, compreso quello di un sindacalista di sinistra, sequestri, tra i quali quello di un Generale statunitense (un suo collega era stato già ucciso), gambizzazioni, attentati, scontri a fuoco e rivolte carcerarie; un successo strategico delle Forze dell’ordine e della Magistratura che si ripeté con la disarticolazione delle “nuove” BR nel 2002, dopo ulteriori omicidi. Nel frattempo si erano consumati le storie e i delitti di altre 23 organizzazioni armate di sinistra: dai Nuclei Armati Proletari alle Formazioni Comuniste Combattenti, ai Comitati Comunisti Rivoluzionari, alle Unità Comuniste Combattenti, e a tante altre sigle, fino a Barbagia Rossa e ai Proletari Armati per il Comunismo, cui apparteneva il latitante Cesare Battisti, evaso dal carcere nel 1981 e condannato in contumacia all’ergastolo per quattro omicidi (due agenti, un gioielliere e un macellaio), fino alla più importante, seconda solo alle BR, Prima Linea, nata alla fine del ’76 senza il dogmatismo ideologico e la rigida organizzazione delle BR ma ad essa affine per scopo, obiettivi ed efferatezza criminale, dissolta nei primi anni ’80 dopo una serie di arresti, pentimenti e dissociazioni, dopo centinaia di attentati e decine di omicidi. Quando le velleità eversive di destra e di sinistra vennero definitivamente sconfitte, sul terreno erano rimasti centinaia di morti e oltre mille feriti: sono stati contati 370 uccisi tra il 1969 e il 1988, tra i quali settanta appartenenti alle Forze di polizia e otto alla Magistratura. Poco meno di 1.500 gli attentati, dei quali 500 nel biennio ’77-’78. Seimila gli inquisiti, dei quali i due terzi delle formazioni terroristiche di sinistra (1.337 delle BR e 923 di Prima Linea). Un progetto, quello dell’attacco allo Stato, per altre ragioni accarezzato anche dalla mafia corleonese, resasi dapprima responsabile della strage del treno Rapido 904 del 23 dicembre 1984 – attuata con la complicità di elementi della destra eversiva e lo scopo, non certo conseguito, di distogliere l’attenzione di Magistratura e Forze di polizia dalla decisiva offensiva avviata a Palermo dopo la costituzione del “Pool antimafia”, con Falcone e Borsellino, che consentì il “maxiprocesso” celebrato tra il 1986 e il 1992 con 475 imputati – e, poi, delle stragi del 1992, in cui i due giudici furono uccisi con i loro accompagnatori, e degli attentati stragisti, sempre dinamitardi, a luoghi e città d’arte dell’anno seguente. Tutto questo mentre altri attentati venivano commessi da terroristi appartenenti a gruppi irredentisti e nazionalisti stranieri: palestinesi, armeni e libici. Basti citare le stragi di Fiumicino del 1973 e del 1985, l’assalto alla Sinagoga ebraica di Roma dell’82, il sequestro della nave da crociera “Achille Lauro” di tre anni dopo, i due missili libici caduti in prossimità delle coste di Lampedusa nell’86, la strage del circolo militare statunitense di Napoli di due anni dopo, le numerose uccisioni di personalità, diplomatici e dissidenti di quei Paesi, senza dimenticare la terribile strage provocata dalla precipitazione dell’aereo di linea della società ITAVIA nel mare di Ustica il 27 giugno 1980. Il terrorismo di tutti quegli anni ha comportato tanti lutti, letture e dibattiti infiniti, ma anche importanti novità nella legislazione e nell’organizzazione statale, quali le leggi c.d. “Reale” del 1975 e “Cossiga” del 1978, quelle sul pentitismo, sulla riforma dei Servizi segreti del 1977 e del 2007, sul nuovo ordinamento della pubblica sicurezza che, nel 1981, ha ridefinito gli assetti del Ministero dell’Interno e delle Forze di polizia, smilitarizzando nella Polizia di Stato il Corpo di Pubblica Sicurezza dettando cogenti forme e regole di coordinamento tra le Forze di polizia e di collaborazione tra l’Autorità di PS, le altre articolazioni statali sul territorio e le Autorità locali. Risale al 1978 la costituzione delle Forze speciali dei Carabinieri (GIS) e della Polizia di Stato (NOCS) e agli anni compresi tra il 1989 e il 1993 quella dei servizi investigativi centrali delle Forze di polizia (ROS dei Carabinieri, SCO della Polizia di Stato e SCICO della Guardia di Finanza) e della DIA interforze. E’ in quegli anni che iniziano le scorte blindate ai vertici istituzionali e ai magistrati e si diffondono le misure statiche e dinamiche di protezione di siti e obiettivi sensibili, vengono introdotte nuove dotazioni scientifiche, di mezzi ed equipaggiamenti per le Forze di polizia. E’, soprattutto, in quegli anni che si forma quel prestigioso patrimonio, unico e vincente, di esperienza, fatta di conoscenze, di nuovi organismi, di moderne procedure operative e scientifiche, di informazioni condivise, di rapporti interistituzionali, di flessibilità e prontezza, di motivazione e di valori.

Il Generale Tullio Del Sette è il Presidente dell’Osservatorio permanente sulla Sicurezza dell’Eurispes.

IL MISTERO DI MORO E DELLA STRATEGIA DELLA TENSIONE.

“Caso Moro”, Sciascia, Mattarella e la Sicilia, scrive il 22 giugno 2018 su "La Repubblica" Simona Zecchi, Giornalista e scrittrice. Scriveva Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera nel 1982: «Si è parlato - e molti che non ne hanno parlato ci hanno creduto - della 'geometrica' perfezione di certe operazioni delle Brigate Rosse: e si è poi visto di che pasta sono fatti i brigatisti e come la loro efficienza venisse dall'altrui inefficienza. Arriveremo alla stessa constatazione - almeno lo spero - anche con la mafia». Già altrove lo scrittore siciliano era ricorso a rappresentare le due forze - terrorismo e mafia -  come motrici entrambe degli omicidi Mattarella (Piersanti, ammazzato il 6 gennaio 1980) e Reina (Michele, ammazzato il 9 marzo 1979). Scriveva in particolare il 7 gennaio del 1980 sempre sul Corriere: «Io sono stato tra i pochissimi a credere che Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana, fosse stato assassinato da terroristi. Terroristi magari un pò sui generis, come qui ogni cosa; ma terroristi. [...] Oggi di fronte all'assassinio del presidente della Regione Mattarella, quella mia ipotesi, che quasi mi ero convinto ad abbandonare, mi pare che torni a essere valida.» Giovanni Falcone, infatti, titolare della prima istruttoria sull'omicidio di Piersanti Mattarella aveva sin da subito indirizzato le indagini verso una pista nera per ciò che riguardava gli assassini materiali di cui chiese l'arresto nel 1986. Quella istruttoria culminò in una requisitoria depositata nel 1991 che poi non ebbe conferme giudiziarie ma che proprio recentemente ha di nuovo fatto capolino. Mattarella ha rappresentato in terra siciliana, per ciò che riguarda il compromesso storico fra PCI e DC, quello che Aldo Moro (con un percorso iniziato nel 1969 attraverso una sua "strategia dell'attenzione" verso il partito comunista italiano) è stato a livello nazionale, con tutte le specificità e le differenze che certo li caratterizzavano e che caratterizzavano le "due terre": la Sicilia spesso per anni un mondo a parte, e il resto d'Italia. Una differenza che anche si inserisce nella questione del compromesso in sé a livello nazionale. Chi si è opposto a logiche criminali come Mattarella e Reina si era anche opposto a un sistema di potere più complesso e ampio. Nel caso di Mattarella parliamo -secondo quanto emerse allora e permane come sospetto per il momento oggi - di terrorismo nero oltre all'intervento di Cosa Nostra. Per quanto riguarda il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro - strage degli agenti annessa-, l'evento spartiacque per gli equilibri nazionali indicativi per Moro di un cambiamento nel Paese al quale dare inizio, si è trattato di terrorismo rosso. Il colore politico, è ormai giunto il momento di dichiararlo con coraggio, cambia soltanto in funzione di dinamiche ma non di resa, di risultati. Cambiare approccio per ricostruire i cinquantacinque giorni del Caso Moro nella inchiesta da me condotta e culminata nel libro, "La Criminalità servente nel Caso Moro" ha significato certo attraversare quaranta anni di storia politico-criminale e di contesti politici nazionali e internazionali, ma non da ultimo ha inoltre significato raccogliere i fatti che conducevano verso quel filone, esaminarli in controluce ed esporli tutti in fila come se posti su un tavolo immaginario (anche se in realtà fisicamente è avvenuto proprio così), certo verificandoli. Lavorare su temi così complessi non può prescindere dall'analisi dei fatti e dei contesti insieme. Concentrarsi soltanto su uno dei due fattori rende il quadro intero sbilanciato nelle sue tinte. Così, la tavolozza che mano a mano ne è emersa non lasciava scampo: i vertici della criminalità organizzata e delle consorterie che la costituivano in quegli anni (attenzione non pedine o anche soltanto boss qualunque seppure di rilievo) hanno influito e operato nel Caso Moro, moltissimo. Non soltanto per ciò che riguarda le presenze di uomini della 'ndrangheta accertate o ancora da accertare sul luogo della strage, Via Fani, dove alle 9.02 del mattino la raffica di fuoco incrociato è partita, ma anche per quanto riguarda la gestione del sequestro fino alla consegna di Moro morto in Via Caetani, riverso nell'abitacolo di una Renault 4 rossa, e per le connivenze tra frange della lotta armata allineate alle BR e la criminalità organizzata e comune. A parte, poi, va considerato l'aspetto forse più noto al grande pubblico: il ruolo di alcune organizzazioni criminali nel tentativo di liberazione dell'onorevole Moro. Aspetto questo che ricostruito da me interamente dall'inizio, compiendo tabula rasa su quanto scritto e raccolto sino a quale momento da altri, ha anche fatto emergere dettagli e aneddoti rilevanti e nuovi per la comprensione dell'Affaire tutto. L'insieme di questa distesa di elementi conducevano tutti in Calabria: la 'ndrangheta, cresciuta nel corso degli anni all'ombra dei riflettori di una Cosa Nostra più 'spettacolare', infatti, rappresenta secondo quanto da me ricostruito la costante del Caso Moro e insieme la costante di altri eventi tragici che, come le ultime inchieste della Procura di Reggio Calabria certificano, ha attraversato questo Paese. Una costante operante quasi sempre con Cosa Nostra ma non necessariamente. Durante il corso delle indagini che la Commissione Parlamentare d'inchiesta sul caso stava svolgendo, ho seguito dunque un mio percorso investigativo parallelo supportato ovviamente dalla ricerca incessante e dallo studio degli atti passati e nuovi che come già svolto per un'altra inchiesta, quella sulla morte di Pier Paolo Pasolini, mi ha poi portato a sviscerare elementi inediti e anche alla ricostruzione di un contesto mai considerato prima in modo unitario. Fino a giungere agli anni della trattativa Stato-mafia così come la conosciamo, quella il cui processo di Palermo è da poco culminato a un primo grado di condanne e ad alcune assoluzioni (parziali o totali). Il cuore di questo libro-inchiesta è costituito da due punti principali: da un lato la spiegazione del "mistero" del falso comunicato del lago della Duchessa, legato alla scoperta del covo di Via Gradoli il 18 aprile del 1978 nel bel mezzo del sequestro, e l'emersione di una nuova prigione in cui Aldo Moro è stato di passaggio durante la sua prigionia: un covo non lontano dal lago stesso nella Sabina fra il Lazio e l'Umbria, luogo legato a sua volta sia a elementi della lotta armata sia alla criminalità; dall'altro, lo sviluppo delle inchieste del generale Dalla Chiesa e il giudice Vittorio Occorsio sulle morti dei quali pesa l'ombra sia della mafia sia del terrorismo: entrambi, infatti, stavano indagando su una struttura riservata composta da parti della massoneria, della criminalità organizzata, consorterie politiche e della magistratura, e di elementi del terrorismo di destra e di sinistra. Nel libro, tra le altre cose inedite, viene per la prima volta pubblicato l'estratto di un verbale sconosciuto alle cronache e alle ricostruzioni sin qui svolte, un verbale che porta proprio la firma del Generale. Intorno a questi due punti cardinali della inchiesta vengono da me sviluppati ulteriori fatti e risvolti a essi collegati. La "geometrica potenza" invocata da Sciascia, espressione usata in un articolo sequestrato a Franco Piperno leader di Potere Operaio, e operativo presso l'Università della Calabria, si dispiega tutta qui. Attraverso un metodo giornalistico che definisco "della piramide rovesciata" arrivo dunque al cuore del Caso Moro cercando di consegnare un pezzo di verità mancante di questo segreto usurato della Repubblica. Con le "prove" che un giornalista umilmente può portare. Il libro: “La criminalità servente nel Caso Moro”, La Nave di Teseo

Il grande vecchio, scrive Gianni Barbacetto il 15 novembre 2009. Sono passati 20 dalla caduta del muro di Berlino. A breve saranno 40 anni dalla bomba alla Banca dell'Agricoltura, a Piazza Fontana a Milano. In questi giorni dove si è celebrata la caduta del muro (e del regime comunista), mi chiedo quanti siano ancora interessati a conoscere la storia oscura del nostro paese. A dare una risposta ai tanti perché degli anni della strategia della tensione. Perché quelle morti, perché quelle bombe. Quale era la strategia che perseguivano, queste persone? Il libro di Barbacetto, che usa la metafora ancora attuale del "Grande vecchio" dà una risposta, a queste domande. “Ci avete sconfitto, ma oggi sappiamo chi siete” dice l'ex giudice che indagò sulla strage alla Stazione di Bologna Libero Mancuso “e andremo in giro a dire i vostri nomi a chiunque ce li chieda”. Compito degli storici o di quelli come me, con la passione per la storia, col vizio di voler coltivare la memoria di ciò che è stato è ricordare. E le pagine del libro, che mettono insieme i fatti di questa guerra che si è consumata, senza che nessuno (o quasi) se ne sia preso la colpa, storicamente e giuridicamente, hanno appunto questo fine: dare la parola ai magistrati che si sono occupati di queste inchieste. Sono loro, una volta tanto, a raccontare una storia di attentati, stragi e bombe, e delle difficoltà che hanno dovuto affrontare: omertà, depistaggi e veri e propri attacchi sia da parte degli imputati (direttamente o tramite giornali “amici”), sia all'interno dello stato (come nel caso dell'ex presidente Cossiga, nella sua guerra personale contro il CSM). Per la strage di Piazza Fontana, i ricordi del giudice istruttore Giancarlo Stiz e del pm Pietro Calogero, che seguirono il filone Veneto delle indagini: i neofascisti di Ordine Nuovo Franco Freda, Giavanni Ventura, Carlo Maria Maggi, e Pino Rauti (esponente del MSI, tirato in ballo nell'inchiesta dalle confessioni del bidello Marco Pozzan) e Delfo Zorzi. Indagini riprese poi a Milano dal giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio e dal pm Emilio Alessandrini: i primi a intravedere la pista nera sulla strage, mentre in Italia si sbatteva il mostro in prima pagina (l'anarchico Pietro Valpreda e il "suicida reo confesso" Giuseppe Pinelli). E in mezzo i servizi che invece che aiutare l'indagine, si occupavano di esfiltrare dei testimoni: Pozzam, lo stesso agente Guido Giannettini. Processo scippato ai giudici (una costante in tante altre inchieste sull'eversione nera, in Italia) e spostata dalla Cassazione a Palermo. La strage di Piazza della Loggia a Brescia: la bomba esplosa durante il comizio antifascista il 28 maggio 1974. Raccontata attraverso il lavoro dei primi giudici: Domenico Vino e Francesco Trovato; inchiesta riaperta poi dal g.i. Francesco Zorzi, sulle confessioni del pentito Sergio Latini e Guido Izzo. Fra tutti gli episodi raccontati, è l'unico ad avere un procedimento ancora aperto: il processo a Brescia iniziato nel novembre 2008 ha portato a giudizio tra gli altri, un ex politico come Pino Rauti e un generale dei carabinieri, Francesco Delfino. L'inchiesta di Padova sulla Rosa dei venti del giudice istruttore Giovanni Tamburino, che portò alla scoperta di questa organizzazione con finalità eversive che coinvolgeva industriali, ex fascisti, vertici militari (il colonnello dell'esercito Amos Spiazzi) e vertici dei servizi (il generale del Sid Vito Miceli). L'ultimo filone di indagini su Piazza Fontana, portato avanti dal giudice istruttore Guido Salvini a fine anni 80, che si è basato sugli archivi ritrovati in via Bligny (gli archivi di Avanguardia Operaia che contenevano dossier anche sul terrorismo nero, oltre che dossier sulle Br), le rivelazioni del pentito Nico Azzi e dell'artificiere di Ordine Nuovo Carlo Digilio, sul lavoro del capitano dei Ros Massimo Giraudo. Un lavoro che ha permesso una rilettura degli anni del golpe, sempre ventilato, mai attuato, "il golpe permanente". Il golpe Borghese della notte della Madonna del 1970, al golpe bianco di Edgardo Sogno nella primavera del 1974. E prima ancora il “tintinnar di sciabole" del Piano Solo. Un lavoro che permise di rileggere episodi di cronaca, attentati dell'anno nero che fu il 1973. "Alla fine e malgrado tutto, ribadisce Salvini, «un preciso giudizio si è radicato comunque nelle carte dei processi. La strage di piazza Fontana non è un mistero senza padri, paradigma dell’insondabile o, peggio, evento attribuibile a piacimento a chiunque, che può essere dipinto con qualsiasi colore se ciò serve per qualche contingente polemica politica. La strage fu opera della destra eversiva, anello finale di una serie di cerchi concentrici uniti – come disse nel 1995 alla Commissione stragi Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Aldo Moro – se non da un progetto, almeno da un clima comune». «La giustizia vuole più dolore che collera» scriveva Hannah Arendt nel 1961, all’apertura del processo al nazista Adolf Eichmann a Gerusalemme. Alla chiusura dei processi per le stragi, la banalità del male si presenta sotto forma di tentazione a dimenticare per sempre una vicenda con tanti morti, un’insanabile ferita alla democrazia che ha colpevoli, ma non condannati. La verità, nella sua interezza, è affidata ora agli storici. O consegnata ai capricci della memoria: che custodisce i ricordi nel tempo dell’indignazione, e poi li abbandona nel tempo della smemoratezza."

La bomba alla Questura nel 1973. L'inchiesta portata avanti dal giudice istruttore Antonio Lombardi sulla bomba alla Questura di Milano: in particolare, è questa vicenda svela bene quale fosse il disegno dietro tutti gli episodi stragistici. Ovvero addossare tutta la colpa della strage sulla sinistra: Gianfranco Bertoli, con un passato da informatore del Sifar e poi del Sid, doveva recitare la parte dell'anarchico solitario che uccide persone inermi (e il ministro Rumor, reo secondo Ordine Nuovo che aveva organizzato il teatro, di aver avviato l'iter per il loro scioglimento).

Le bombe sui treni in Italia centrale: l'Italicus (4 agosto 1974) e gli altri attentati (il fallito attentato a Vaiano, ad es.), avvenuti nella primavera estate del 1974, per mano dei neofascisti di Ordine Nero: i quattro colpi grossi (assieme alla bomba a Brescia) che avrebbero dovuto preparare il terreno l'ennesima reazione forte dello stato. Reazione che, come nel 1969, non avvenne, come non ci fu nemmeno il golpe solo minacciato dell'ex partigiano bianco Edgardo Sogno, su cui indagò il giudice Violante a Torino. Per l'Italicus, il giudice che ha indagato sulla strage si chiama Claudio Nunziata, che lavorò assieme a Rosario Minna. Ma stesso è lo scenario che si scopre, come per le precedenti inchieste: un organizzazione neofascista (Ordine Nero, di Mario Tuti e Augusto Cauchi), con coperture da parte dei carabinieri e finanziata da un imprenditore di Arezzo, tale Licio Gelli. Nunziata fu definito come un Torquemada dei treni, dai giornali della destra (come Il giornale di Indro Montanelli e di Guido Paglia, esponente di Avanguardia Nazionale). Perché era un magistrato zelante che non guardava in faccia a nessuno: nemmeno nella ricca Bologna massonica. Nunziata non si trattenne nemmeno dal criticare il comportamento della sua procura, per come venivano gestiti i carichi di lavoro e per come non venivano seguite le indagini che riguardavano l'eversione. Su di lui si concentrò un fuoco amico da parte del CSM e anche da parte dell'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga: fu sospeso e lasciato senza stipendio, fino alla sua riabilitazione, avvenuta anni dopo. "in fondo mi è andata bene, altri hanno pagato con la vita" il suo amaro commento.

La strage alla stazione di Bologna. Libero Mancuso iniziò la sua carriera a Napoli: seguì il rapimento da parte delle Br di Ciro Cirillo e assistì alla trattativa di esponenti dello stato con la Camorra di Cutolo per la liberazione dell'assessore. Nauseato, alla fine della vicenda, chiese il trasferimento a Bologna, in cerca di una maggiore tranquillità. Ma il 2 agosto 1980 scoppiò la bomba alla stazione. E il suo capo alla procura gli assegnò un'indagine sull'ex colonnello Amos Spiazzi (un personaggio già emerso nell'inchiesta di Tamburino sulla Rosa dei Venti). Da qui l'inizio dell'inchiesta che lo portò fino alla strage, in cui emerse il ruolo di depistaggio dei vertici del Sismi e della Loggia P2 (nonostante questo l'avvocatura di Stato chiese l'archiviazione del reato di eversione per quanto riguarda la Loggia P2 e Gelli, al processo di Appello). I processo fu, uno tra pochi, ad arrivare a giudizio con una condanna per i responsabili della strage, individuati negli estremisti dei Nar (Fioravanti, Mambro e Ciavardini). Come per altri giudici, anche per Mancuso non mancarono polemiche, diffamazioni, attacchi da parte dei Giornali (Il giornale, Il sabato ..) e persino dal capo dello stato, allora Francesco Cossiga.

La loggia P2: lo stato nello stato. Di questa storia, ne ha parlato Blu Notte recentemente: a partire dai giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone che, nella primavera del 1983, seguendo una indagine sul finto rapimento di Michele Sindona, si imbattono in questo strano, all'apparenza sconosciuto ma potente imprenditore. Licio Gelli da Arezzo. Dalla perquisizione in uno dei suoi uffici emerge una struttura che comprende i vertici dei servizi, politici, magistrati, giornalisti, politici, industriali (tra cui l'attuale presidente del Consiglio) ... Uno stato dello stato: dalla storia della P2 si capisce meglio l'evoluzione della politica filoatlantica italiana, la guerra non ortodossa compiuta sugli italiani: se nella prima metà degli anni 70 si parlava di golpe e si usavano le bombe per destabilizzare, a partire dal 1974 si usò questa loggia massonica segreta, come camera di compensazione per i poteri forti del paese. Come struttura in qui selezionare la classe dirigente del paese: l'obbiettivo non era più abbattere o sostituire le istituzioni, ma occuparle. Silenziosamente. Nella politica, nei posti chiave della magistratura, nell'informazione, nell'industria. Con l'attuazione del piano di rinascita democratica: un disegno politico quanto mai attuale.

Gladio. L'inchiesta del giovane giudice Felice Casson, a Venezia, che partendo dalla strage di Peteano e dalle confessioni del pentito (con ritardo e con ancora tanti punti aperti sulla sua sincerità), arriva a scoprire Gladio, la struttura italiana dell'organizzazione Stay Behind. Una struttura misto civile militare, addirittura fuori dall'organizzazione Nato e di cui nemmeno tutti i presidenti del Consiglio ne furono a conoscenza (come ad esempio Amintore Fanfani). Una struttura di cui l'opinione pubblica non fu informata: fino all'ammissione della sua esistenza da parte del primo ministro Giulio Andreotti nel 1990, quando ormai l'inchiesta veneziana stava arrivando al termine. Casson partì da qui partì, dai legami tra Gladio e i gruppi della destra eversiva che negli anni 70 compirono attentati in Italia. Una indagine con gli stessi protagonisti delle altre: gli ordinovisti veneti (il medico Carlo Maria Maggi, Franco Freda, Carlo Digilio, l'artificiere-confidente dei servizi); i vertici dei servizi come l'ammiraglio Fulvio Martini, legato anche al Conto Protezione di Craxi/Martelli, che avrebbe portato fino a Gelli. Cosa è Gladio? Solo una storia di arsenali nascosti sui monti del Friuli e forse qualche campo di concentramento in Sardegna, che si sarebbe dovuto usare per gli enuclenandi del Piano Solo? O forse, come in una struttura a scatole cinesi, una dentro l'altra, Gladio era solo il guscio esterno, quelle più presentabile, di altre strutture (come il Noto Servizio o Anello), più nascoste, dalle finalità più ambigue, ai limiti (se non oltre) del codice. Campagne stampa diffamatorie contro esponenti politici o sindacali da togliere di mezzo; l'utilizzo della corruzione come normale sistema di trattativa politica; l'utilizzo della malavita (come la Banda della Magliana, per l'individuazione della prigionia di Aldo Moro da parte della BR) in funzione di braccio armato, che può essere sempre reciso alla bisogna, allo stragismo e terrorismo della cui incredibile durata e virulenza nel nostro paese non è stata data ancora una plausibile spiegazione. E soprattutto, la domanda più importante: siamo sicuri che queste siano solo storie del passato? Se qualcuno, nel passato, ha pensato di mettere una bomba per spostare il baricentro della politica italiana, depistando le indagini della polizia, insabbiandone altre grazie a Procure compiacenti (vi ricordate come veniva chiamata la Procura di Roma? Il porto delle nebbie), cosa sarebbe disposto a fare oggi, per evitare tutti cambiamenti in ambito sociale e politico? Siamo sicuri che i servizi deviati (che poi non è nemmeno giusto chiamarli così, essendo stati solo al servizio di quei poteri forti già attivi nei anni 70) oggi non siano più operativi?

Ma esiste un’altra verità che i sinistroidi tacciono.

Le stragi senza colpevoli dell'estremismo nero. Franco Freda fa l’editore ad Avellino. Fioravanti e Mambro hanno scontato due mesi per ogni persona uccisa. Abbatangelo gode addirittura del vitalizio, scrive Paolo Biondani il 2 agosto 2017 su "L'Espresso". Sono rimasti quasi tutti impuniti. E oggi non si sentono vinti, ma vincitori. Sono i precursori e gli ispiratori dei movimenti neonazisti e neorazzisti di oggi. Se le Brigate rosse erano contro lo Stato, che le ha sgominate con centinaia di arresti e condanne, il terrorismo di destra era dentro lo Stato. Gli stragisti hanno trovato complicità e protezioni nei servizi e negli apparati di polizia e di giustizia. Così troppe bombe nere sono rimaste senza colpevoli. E i teorici della violenza hanno potuto riproporsi come cattivi maestri. Il più famoso dei terroristi neri, Franco Giorgio Freda, è libero da anni. Vive ad Avellino con una giovane scrittrice e fa ancora l’editore di ultradestra, con un sito che lo celebra come «un pensatore» da riscoprire: il padre «preveggente» di un «razzismo morfologico» da opporre «alla mostruosità del disegno di una società multietnica». Freda è stato condannato in tutti i gradi di giudizio per 16 attentati con decine di feriti che nel 1969 aprirono la strategia della tensione: bombe contemporanee sui treni delle vacanze, all’università di Padova, in stazione, in fiera e in tribunale a Milano. La sua casa editrice però parla solo dell’assoluzione in appello per piazza Fontana (17 morti, 88 feriti), per insufficienza di prove (e abbondanza di depistaggi). Liberato nel 1986, Freda si è rimesso a indottrinare neonazisti fondando un movimento chiamato Fronte Nazionale: riarrestato, è stato difeso dall’avvocato Carlo Taormina e nel 2000 la Cassazione gli ha ridotto la condanna a tre anni per istigazione all’odio razziale. Dopo di che è tornato libero. Il suo braccio destro, Giovanni Ventura, che aveva confessato gli attentati del 1969 che prepararono piazza Fontana, non ha mai scontato la condanna: è evaso nel 1978 e ha trovato rifugio sotto la dittatura in Argentina, che ha rifiutato di estradarlo. A Buenos Aires è diventato ricco con un ristorante per vip, fino alla morte per malattia nel 2010. Nell’ultimo processo su piazza Fontana, la sentenza conclude che Freda e Ventura erano colpevoli, ma le nuove prove sono state scoperte troppo tardi, dopo l’assoluzione definitiva. Per la catena di bombe nere che hanno insanguinato l’Italia fino agli anni Ottanta, oggi in carcere si contano solo due condannati. A Opera è detenuto Vincenzo Vinciguerra, esecutore della strage di Peteano, un irriducibile che rifiuta la scarcerazione e oggi accusa i servizi. Il secondo è Maurizio Tramonte, condannato solo ora per la strage di Brescia, commessa nel 1974 mentre collaborava con il Sid del generale Maletti (che è libero in Sudafrica). Tramonte è stato arrestato in giugno dopo l’ultima fuga in Portogallo. Il suo capo, Carlo Maria Maggi, leader stragista di Ordine Nuovo nel Triveneto, condannato per la strage Brescia (8 morti, 102 feriti), sconta la pena a casa sua, perché ha più di 80 anni ed è malato. Sconti e benefici di legge hanno cancellato il carcere anche per Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, i fondatori dei Nar (con Massimo Carminati), che dopo l’arresto hanno confessato più di dieci omicidi e sono stati condannati anche per la strage di Bologna (85 vittime), nonostante le loro proteste. E nonostante i depistaggi: due ufficiali del Sismi fecero trovare armi ed esplosivi su un treno, nel 1981, per salvare i neri incolpando inesistenti terroristi esteri. Fioravanti e Mambro hanno ottenuto la semilibertà nel 1999. Paolo Bolognesi, presidente dei familiari delle vittime, notò «hanno scontato solo due mesi di carcere per ogni morte causata». Anni dopo Bolognesi, mentre parlava in una scuola di Verona, si vide attaccare da uno studente di destra poi arrestato come uno dei picchiatori che nel 2008 hanno ucciso a botte un ragazzo di sinistra. Per le carneficine nere le condanne si limitano a pochi esecutori. I mandanti e tutti gli altri complici sono sconosciuti. E per molte stragi, da piazza Fontana a Gioia Tauro all’Italicus, l’impunità è totale. A fare eccezione è la strage del treno di Natale (23 dicembre 1984, sedici morti, 267 feriti), che è costata l’ergastolo, tra gli altri, a Pippo Calò, il boss della cupola di Cosa Nostra trapiantato a Roma. Il procuratore Pierluigi Vigna parlò di «terrorismo mafioso»: un attacco allo Stato ripetuto nel 1992-93. Come custode dell’esplosivo usato dai mafiosi, è stato condannato un politico di destra: Massimo Abbatangelo, ex parlamentare del Msi. Scontati sei anni, ha poi beneficiato della cosiddetta riabilitazione, che cancella la sentenza dal certificato penale. E il 4 luglio scorso l’ex deputato con la nitroglicerina ha perfino riottenuto il vitalizio della Camera.

Morire di politica - Violenza e opposti estremismi nell'Italia degli anni '70, scrive “La Storia siamo noi" della Rai. 69 morti e più di mille feriti, 7.866 attentati e 4.290 episodi di violenza: sembra un bollettino di guerra, è invece il bilancio di una stagione politica tra le più drammatiche della prima Repubblica, quella che negli anni Settanta ha visto contrapposte l'estrema destra e l'estrema sinistra, il rosso e il nero. Mai come in quegli anni questi due colori hanno finito per dividere e accecare centinaia di migliaia di giovani di più generazioni, che si sono odiati e combattuti senza esclusione di colpi, trascinando il nostro Paese quasi alle soglie di una guerra civile. Una violenza che nasce nei cortei e nelle piazze, che diventa sempre più cieca, anche se ammantata di grandi ideologie.

Gli anni Settanta cominciano nel '68. Due episodi, accaduti entrambi a Roma, preludono all'esplosione di violenza degli anni che verranno: la "battaglia di Valle Giulia" (1 marzo 1968) e l'attacco dei militanti del Movimento Sociale all'Università "La Sapienza" (16 marzo 1968). 

L'episodio di Valle Giulia prende avvio da una manifestazione indetta per protestare contro lo sgombero della facoltà di Architettura, occupata il 29 febbraio dagli studenti. Sgomberata dalla polizia, chiamata dal rettore Pietro Agostino D'Avack, la facoltà resta presidiata. Il corteo di protesta si riunisce prima a Piazza di Spagna, per poi dirigersi a Valle Giulia con l'intento di liberare la facoltà dalle forze dell'ordine. Gli studenti attaccano la polizia lanciando sassi e altri oggetti contundenti, la battaglia dura diverse ore e alla fine il bilancio è di 228 fermi e 211 feriti di cui 158 tra le forze dell'ordine. Tra i partecipanti agli scontri troviamo il regista Paolo Pietrangeli (che all'episodio dedicò una canzone), Giuliano Ferrara (che rimase ferito), e Oreste Scalzone, fondatore e leader dei gruppi della sinistra extraparlamentare Potere Operaio e Autonomia Operaia. Ispirato dall'episodio di Valle Giulia, Pier Paolo Pasolini scrive la poesia Il PCI ai giovani in cui dichiara polemicamente di simpatizzare con gli agenti perché veri "figli di poveri"; è l'interpretazione del Sessantotto come di 'una cifrata rivolta della borghesia contro se stessa'.

Pochi giorni dopo la battaglia di Valle Giulia, il 16 marzo, circa 200 militanti del Movimento Sociale si presentano all'università di Roma 'La Sapienza' per dare una lezione al movimento studentesco: poiché è di sinistra, va fermato. A guidarli c’è anche il Segretario del partito Giorgio Almirante insieme allo stato maggiore dell'MSI eletto a Roma: Anderson e Caradonna. Decine di picchiatori aggrediscono gli studenti di sinistra che ripiegano nella facoltà di Lettere - sulla cui scalinata viene fotografato Almirante attorniato da picchiatori armati di bastoni? ma poi l'attacco viene respinto; i militanti del MSI si rifugiano nella facoltà di Giurisprudenza che viene circondata dagli studenti di sinistra che tentano di entrare. Dalle finestre i missini cominciano a tirare mobili e a lanciare suppellettili. Un banco, lanciato dall'ultimo piano, ferisce gravemente alla spina dorsale Oreste Scalzone che si salva per miracolo. I fascisti asserragliati dovranno uscire dall'università dentro i blindati della polizia.

Piazza Fontana: 12 dicembre 1969. Milano, ore 16,37 del 12 dicembre 1969, una bomba collocata in una valigetta esplode nella Banca Nazionale dell'Agricoltura a Piazza Fontana: 16 vite stroncate e 88 feriti gravi. Inizia in questi locali anneriti dal fumo la vera storia politica degli anni Settanta con la lunga escalation di sangue che l'ha contrassegnata. Quella di Piazza Fontana, insieme alla strage di Bologna, è uno degli attentati più gravi dell'Italia del Dopoguerra. «Simbolicamente quella deflagrazione, in un freddo pomeriggio del dicembre 1969, racchiude in sé tutto quanto accadrà dopo. Incancrenirà le ideologie, ridurrà i cervelli di migliaia di giovani ad agglomerati di pulsioni emotive e ribellistiche, polverizzerà i sentimenti in milioni di frammenti di vita, di odio e di amore, di voglie di cambiamento e desideri di distruzione. E, soprattutto, come un colpo d'ascia, taglierà in due tronconi le pulsioni di un Paese ancora acerbo. Sfumerà in due colori, il rosso e il nero, le vitalità di più di una generazione» (da Baldoni A, Provvisionato S., A che punto è la notte, Vallecchi, 2003, p. 18).

Non sarà l'unica strage, altre cinque insanguineranno l'Italia negli anni Settanta: Gioia Tauro (22 Luglio 1970), Questura di Milano (17 maggio 1973), Piazzale della Loggia a Brescia (28 maggio 1974), treno Italicus (4 agosto 1974), Stazione di Bologna ( 2 agosto 1980): 132 morti che ancora chiedono giustizia. Il 12 dicembre del 1970, durante la manifestazione per il primo anniversario della strage di Piazza Fontana, scoppiano incidenti, la polizia carica, un agente spara un candelotto lacrimogeno ad altezza uomo e uccide lo studente Saverio Saltarelli, 23 anni.

Il rapporto Mazza (1971). A lanciare per primo l'allarme su una degenerazione dello scontro politico è il Prefetto di Milano Libero Mazza in un lungo rapporto sulla situazione di Milano in cui denuncia gli estremismi sia di destra che di sinistra: nessuno però lo prende in adeguata considerazione. Il fascicolo ha per titolo: Situazione dell'ordine pubblico relativamente a formazioni estremiste extraparlamentari, ma passa alla cronaca e poi alla storia più semplicemente come 'Rapporto Mazza', dal nome del suo autore che per mesi verrà criticato dalla sinistra come allarmista. In realtà il 'Rapporto Mazza' era stato redatto nel dicembre del 1970, ma diventa pubblico il 16 aprile 1971, quando viene riportato dal «Giornale d'Italia». Si sostiene che la contestazione sta prendendo una brutta piega, e che esiste il rischio di un'insurrezione armata contro lo Stato. Mazza è bollato come 'fascista', nonostante il suo passato di partigiano, e negli slogan dei cortei viene apostrofato con violenza («Mazza, ti impiccheremo in piazza»). Nel rapporto fa riferimento anche al "Collettivo politico metropolitano", crogiuolo delle future Brigate Rosse, in cui milita Renato Curcio: «Il gruppo conta pochissimi aderenti e nel gennaio 1970 ha pubblicato un opuscolo di propaganda dal titolo "Collettivo". I suoi principali esponenti sono Renato Curcio studente universitario, Corrado Simioni impiegato da Mondatori e Franco Troiano impiegato alla Siemens. Rispetto alle organizzazioni politico-sindacali di tipo tradizionale, il movimento ha recentemente annunciato la formazione di nuclei, denominati "Brigate rosse", da inserire nelle fabbriche».

Il "giovedì nero" di Milano: 12 aprile 1973. In quegli stessi anni anche a destra si fa strada la violenza con esiti drammatici. Siamo a Milano, il 12 aprile 1973: il Movimento Sociale ha indetto una manifestazione 'contro la violenza rossa'; nel partito si avverte la necessità di fare qualcosa contro lo strapotere delle formazioni estremiste della sinistra extraparlamentare: è oltre un anno che il Movimento Sociale non riesce a tenere nessun comizio a Milano. Tra gli oratori chiamati per la manifestazione spicca il nome di Ciccio Franco, il leader calabrese del 'Boia chi molla', motto della rivolta avvenuta a Reggio Calabria nel luglio del 1970, scoppiata in seguito alla decisione di spostare il capoluogo di regione a Catanzaro. La manifestazione era stata autorizzata da tempo, ma viene revocata nella mattinata del 12 dal Prefetto Libero Mazza che vieta tutte le manifestazioni di carattere politico fino al giorno 25, anniversario della Liberazione. Ma, ricorda Maurizio Murelli, militante del MSI: «Il comizio si sarebbe fatto a qualsiasi costo, lo volesse il prefetto o no. Questa era la parola d'ordine per quanto riguardava il Movimento Sociale»; nel pomeriggio, verso le 17,30, si radunano presso la sede del MSI in Via Mancini alcune centinaia di giovani che si dirigono verso Piazza Tricolore; a loro si aggregano altri gruppi provenienti da Piazza Oberdan, altri ancora si attestano in Corso Concordia. Dopo che una delegazione del MSI, capitanata dal vicesegretario Franco Maria Servello insieme all'On. Franco Petronio, Ciccio Franco e Ignazio La Russa, allora Segretario regionale del Fronte della Gioventù, si era recata in Prefettura per protestare contro il divieto, a ridosso di Piazza Tricolore viene lanciata una bomba a mano SRCM che ferisce un agente ed un passante. Le forze dell'ordine intervengono per disperdere i manifestanti e in Via Bellotti un altro militante Vittorio Loi, 21 anni, lancia una seconda bomba a mano contro le forze dell'ordine uccidendo sul colpo l'agente Antonio Marino: originario di Caserta, faceva parte della Seconda compagnia del Terzo celere e avrebbe compiuto 23 anni a giugno. La sera stessa il Movimento Sociale mette una taglia sugli assassini e il giorno dopo si consegnano Vittorio Loi e Maurizio Murelli. La morte dell'agente Marino mette in discussione la convinzione, molto diffusa a sinistra, che ci sia una sorta di connivenza tra estremisti di destra e forze dell'ordine.

Roma 16 aprile 1973: il rogo di Primavalle. Tra gli innumerevoli fatti di sangue che contraddistinguono questa stagione politica uno su tutti esprime l'aberrazione a cui si può arrivare in nome dell'odio ideologico: il rogo di Primavalle. A Roma nella notte del 16 aprile un commando di Potere Operaio si dirige verso Via Bibbiena nel quartiere popolare di Primavalle dove abita la famiglia di Mario Mattei, netturbino e segretario della sezione locale del Movimento Sociale Italiano. Al terzo piano, sotto la porta dell'appartamento, vengono versati diversi litri di benzina e viene quindi appiccato il fuoco: restano intrappolati nelle fiamme i figli di Mattei, Virgilio, di 22 anni, e il fratellino Stefano di 10. Viene lasciato un cartello sotto il palazzo: 'Giustizia proletaria è fatta'. Per il rogo di Primavalle vengono condannati con sentenza definitiva Achille Lollo, Manlio Grillo e Marino Clavo, esponenti di Potere Operaio, tutti fuggiti all'estero. Nel febbraio del 1975 si apre il processo per il rogo di Primavalle: il 28 febbraio nelle zone limitrofe al Tribunale di Roma, in Piazzale Clodio, scoppiano violenti scontri tra giovani di destra e di sinistra. A Piazza Risorgimento viene assassinato lo studente greco fuorisede del FUAN, Mikis Mantakas. La condanna è caduta in prescrizione il 28 gennaio 2005. Nel febbraio del 2005 la procura di Roma ha deciso di riaprire il caso. Le fiamme del rogo di Primavalle dimostrano che si è innescata una degenerazione senza limiti né tabù (come nel film Arancia Meccanica uscito proprio in quegli anni, 1971). Inizia a dilagare di un odio inarrestabile tra le opposte fazioni.

Dopo Piazza della Loggia, l'antifascismo militante. La mattina del 28 maggio 1974 una bomba nascosta in un cestino portarifiuti esplode sotto i portici di Piazza della Loggia a Brescia: è in corso una manifestazione antifascista indetta dai sindacati. L'attentato, rivendicato da Ordine Nero, provoca 8 morti e più di 90 feriti. Dopo la strage di Piazza della Loggia si avvia una campagna che chiede la messa al bando del MSI; si inaugura così una delle stagioni più funeste, ossia quella dell'antifascismo militante. Afferma Marco Boato, deputato dei Verdi, ex dirigente di Lotta Continua: «E' successo che una dimensione assolutamente condivisibile, quella dell'antifascismo - l'Italia è una repubblica nata sull'antifascismo, dalla Resistenza - è diventata una dimensione di scontro di piazza, anche ad un livello individuale assolutamente degenerato.»

Le leggi speciali. Di fronte a un ordine pubblico messo sempre più a rischio il Parlamento approva nel 1975 le cosiddette "leggi speciali": si tratta della cosiddetta 'legge Reale' (dal nome del Ministro che l'ha redatta, il repubblicano Oronzo Reale), che autorizza la polizia a sparare in caso di necessità e la misura del fermo di 48 ore. La legge risponde al desiderio di protezione e sicurezza dei cittadini. Approvata a grande maggioranza dall'opinione pubblica, viene sottoposta a referendum l'11 giugno 1978: il 23,5% vota per l'abrogazione, il 76,5% per il mantenimento. Nel 1978 segue l'istituzione di corpi speciali con finalità antiterrorismo: il GIS (Gruppo Intervento Speciale) dei Carabinieri ed il NOCS (Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza) della Polizia. Nel 1980 viene emanata la cosiddetta "legge Cossiga" (legge n. 15 del 6 febbraio) la quale prevede condanne sostanziali per chi venga giudicato colpevole di "terrorismo" ed estende ulteriormente, secondo alcuni in modo incostituzionale, i poteri della polizia. Anche questa legge viene sottoposta ad un referendum, tenuto il 17 maggio 1981: l'85,1% si esprime per il mantenimento, il 14,9% per l'abrogazione.

Il 1977: una nuova stagione di contestazione. Nel 1977 una nuova grande contestazione nasce dalle università. Ma, diversamente dal '68, esplode con violenza. Dopo la morte dello studente Francesco Lorusso a Bologna (11 marzo 1977), si allarga l'area della rivolta armata, nei cortei compaiono le P38 e le bombe molotov; negli scontri a Milano, Torino e Roma fanno la loro parte anche gli agenti delle squadre speciali. Il movimento del Settantasette è una galassia politica e culturale variegata che va dall'ironia dadaista degli 'indiani metropolitani', alle rivendicazioni delle femministe, alle provocazioni dell'autonomia creativa fino alle provocazioni violente dell'autonomia organizzata. Nascono le radio libere: Radio Alice a Bologna, Radio Sherwood a Padova, Radio Città Futura a Roma. Sostiene Marco Boato: «Il '77 è il secondo ciclo di un grande movimento collettivo che si verifica nel nostro paese all'interno del quale si scontrano due anime. Un'anima che potremmo definire creativa quasi di rinnovamento di costumi, di valori, di espressioni, fortemente innovativa, e un'anima violenta, alla fine è prevalsa questa seconda». Un elemento scatenante di questa nuova svolta violenta è anche la delusione della prova elettorale della sinistra extraparlamentare nelle elezioni del 20 giugno 1976, sotto il cartello elettorale di Democrazia Proletaria (raggiunge solo l'1,51 %, 556.022 voti). In molti si convincono che l'unica strada è quella della lotta armata, mentre altri si rifugiano nel privato e si comincia a parlare di riflusso.

Walter Rossi (30 settembre 1977). L'episodio più eclatante in questi anni è l'uccisione a Roma dello studente Walter Rossi. È il 30 settembre 1977, nel quartiere Balduina un gruppo di giovani di sinistra sta distribuendo volantini per protestare contro il ferimento, avvenuto la sera prima a Piazza Igea, di una compagna, Elena Pacinelli 19 anni, colpita da tre proiettili. In Viale Medaglie d'oro i compagni di Elena, dopo aver subito un'aggressione con sassi e bottiglie partita dalla vicina sede del MSI, vedono un blindato della polizia avanzare lentamente verso di loro, seguito da un gruppo di fascisti che lo utilizza come scudo. Due persone si staccano dal gruppo e fanno fuoco contro i giovani di sinistra. Walter Rossi, 20 anni, militante di Lotta Continua è colpito alla nuca: gli agenti si scagliano su chi tenta di soccorrerlo. I compagni del ragazzo pregano gli stessi agenti di chiamare qualcuno, un'ambulanza: «Non abbiamo la radio, non possiamo fare nulla», si sentono rispondere. I colpevoli saranno individuati anni dopo in Alessandro Alibrandi e Cristiano Fioravanti. Fioravanti attribuisce ad Alessandro Alibrandi il colpo mortale, ma in seguito alla morte di quest'ultimo in uno scontro a fuoco con la polizia (5 dicembre 1981) il procedimento penale viene archiviato. Fioravanti è condannato a nove mesi e 200 mila lire di multa, solo per i reati concernenti le armi. L'uccisione di Walter Rossi è un segno che anche l'estrema destra sta cambiando.

7 gennaio 1978: la strage di Via Acca Larentia. Sul finire degli anni Settanta lo spontaneismo armato trascina anche la destra nella galassia del terrorismo A scatenarlo un triplice omicidio che avrà un effetto devastante su tutta la destra italiana: l'eccidio di Acca Larentia. Sono le ore 18,20 e alcuni ragazzi stanno uscendo dalla sede del Movimento Sociale in Via Acca Larentia numero 28, al quartiere Tuscolano di Roma, quando una raffica di mitra Skorpion uccide Francesco Ciavatta, di 18 anni e Franco Bigonzetti di 19. Alcuni mesi dopo la strage, il padre di Ciavatta, operaio, si suicida per la disperazione gettandosi dalla finestra della sua casa in Piazza Tuscolo. Il duplice omicidio viene rivendicato in una maniera inusuale, mediante una cassetta audio fatta ritrovare accanto ad una pompa di benzina: la voce contraffatta di un giovane, a nome dei Nuclei Armati per il Contro potere Territoriale, dice: Ieri alle 18.30 circa, un nucleo armato, dopo un'accurata opera di controinformazione e controllo della fogna di via Acca Larentia, ha colpito i topi neri nell'esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l'ennesima azione squadristica. Da troppo tempo lo squadrismo insanguina le strade d'Italia coperto dalla magistratura e dai partiti dell'accordo a sei. Questa connivenza garantisce i fascisti dalle carceri borghesi, ma non dalla giustizia proletaria, che non darà mai tregua. I due giovani missini sono stati uccisi con quella stessa mitraglietta Skorpion che dieci anni dopo, nel 1988, sarà utilizzata in altri tre omicidi, firmati dalle Brigate rosse: quelli dell'economista Ezio Tarantelli, dell'ex sindaco di Firenze Lando Conti e del senatore Roberto Ruffili. La sera stessa del duplice omicidio, davanti alla sezione di via Acca Larentia scoppiano violenti scontri tra militanti di destra e forze dell'ordine: sembra che un giornalista RAI per sbaglio abbia gettato un mozzicone di sigaretta su una chiazza di sangue: il gesto, interpretato come un segno di disprezzo, infiamma gli animi e fa scoppiare il finimondo. Un tenente dei carabinieri fa fuoco ad altezza uomo e uccide Stefano Recchioni, 19 anni. Il bilancio è tremendo: tre ragazzi di destra uccisi, due dai comunisti, uno dallo Stato. Per molti è la prova di essere soli, contro tutti; scatta la molla della vendetta e della violenza fine a se stessa, non supportata da alcun preciso disegno politico. «È una violenza confusa e irrazionale, priva di programma, velleitaria quella che va organizzandosi dopo Acca Larentia. La scorciatoia della lotta armata si apre quasi da sola: nasce una sigla, quella dei NAR, Nuclei Armati Rivoluzionari, che non diventerà mai una vera e propria organizzazione di lotta armata, ma resterà soltanto una sigla a disposizione, una sigla che può usare chiunque abbia voglia di combattere il suo senso di impotenza e di incertezza» (da Baldoni A., Provvisionato S., op. cit., p. 253). Dalla deposizione di Francesca Mambro alla Seconda Corte d'assise d'appello di Bologna: «Acca Larentia segna il momento in cui la destra, i fascisti a Roma, hanno uno scontro armato violentissimo con le forze dell'ordine. Per la prima volta e per tre giorni, i fascisti romani spareranno contro la polizia. E questo segnò ovviamente un punto di non ritorno. Anche in seguito, per noi che non eravamo assolutamente quelli che volevano cambiare 'il palazzo', rapinare le armi ai poliziotti o ai carabinieri, avrà un grande significato. Che lo facessero altre organizzazioni era normale, il fatto che lo facessero i fascisti cambiava le cose di molto, perché i fascisti fino ad allora erano considerati il braccio armato del potere costituito. E poi diventerà anche un momento di prestigio» (udienza del 17 novembre 1989).

I NAR sono una delle 177 sigle che praticano la lotta armata nel 1978; l'anno dopo saranno 215, ma questo è terrorismo, ed è un'altra storia.

L'estremismo di sinistra. Dalla relazione della Commissione Parlamentare sul Terrorismo. Documento aggiornato al 24/02/2006 da Archivio 900. Nella seduta del 23 ottobre 1986 la Camera dei Deputati, approvando una proposta del deputato Zolla deliberò di istituire una Commissione parlamentare d'inchiesta per accertare, in relazione ai risultati della lotta al terrorismo in Italia, le ragioni che avevano impedito l'individuazione dei responsabili delle stragi verificatesi a partire dal 1969. Si era appena concluso il quindicennio terribile ('69-'84) che la Commissione fa oggetto della sua considerazione di insieme e nel quale il nostro Paese aveva conosciuto tensioni sociali estreme, tali da porre in discussione la stessa tenuta delle istituzioni democratiche. Altissimo era stato il numero degli attentati e degli episodi di violenza dichiaratamente ispirati da ragioni politiche o comunque immediatamente percepiti come tali dall'opinione pubblica ed alto il prezzo di sangue che il paese aveva pagato: nel periodo più acuto della crisi, e cioè dal 1969 al 1980, trecentosessantadue morti e quattromilaquattrocentonovanta feriti, di cui rispettivamente centocinquanta e cinquecentocinquantuno attribuibili ad episodi di strage lungo l'arco che lega l'attentato di Piazza Fontana a Milano nel dicembre del 1969 a quello della stazione di Bologna nell'agosto del 1980 (114). La risposta dello Stato era stata complessivamente ferma, le istituzioni democratiche avevano tenuto, i terrorismi di opposta matrice politica sostanzialmente disvelati e sconfitti. Tuttavia gli autori degli episodi di strage erano rimasti impuniti; da ciò la determinazione parlamentare di cui innanzi si è detto con la quale si è aperta una vicenda istituzionale che la presente relazione ambirebbe concludere, almeno allo stato delle acquisizioni attuali. Significativo appare peraltro che già nel 1986 il Parlamento manifestava di avvertire come le ragioni che avevano impedito l'individuazione dei responsabili delle stragi fossero da porre in relazione ai risultati della lotta al terrorismo in Italia, fossero cioè da individuare nei probabili limiti di una risposta istituzionale che pure nel suo complesso doveva (e deve) ritenersi positiva. E' un approccio che dopo un decennio appare ancora estremamente fondato e che la Commissione ritiene di mantenere fermo nell'analizzare separatamente, appunto dall'angolo visuale della risposta istituzionale, fenomeni che nella realtà storica del periodo ebbero compresenza ed ambiti di reciproca influenza: e cioè, da un lato, l'estremismo ed il terrorismo di sinistra, dall'altro, l'estremismo ed il terrorismo di destra. E ciò al fine di cogliere per entrambi nella risposta istituzionale identità o differenze di risultati e di limiti. Tutto ciò nella ribadita avvertenza che tale approccio analitico può apparire utile a disvelare insieme - e cioè in termini di una coincidenza almeno parziale - le ragioni dello stragismo e le ragioni della mancata individuazione delle relative responsabilità.

Sulla base di queste scelte di metodo è quindi possibile comprendere perché, nell'ordine espositivo, appaia opportuno affrontare innanzitutto l'analisi dell'eversione e dell'estremismo di sinistra, atteso che più diretta ne appare la connessione con due fenomeni che determinarono la grande tensione sociale che segnò il finire degli anni '60 e cioè la contestazione studentesca, da un lato, la protesta operaia e sindacale, dall'altro. Sul punto alla riflessione della Commissione due appaiono i dati che meritano di essere preliminarmente sottolineati. La riflessione storiografica sul partito armato, che ampiamente utilizza le fonti derivanti dall'analisi giudiziaria del fenomeno e dalla ormai imponente memorialistica dei principali attori di quella fosca stagione, consente di ritenere ormai acquisito che la lotta armata sia stata un derivato della storia della sinistra italiana, in particolare della sinistra di ispirazione marxista, per quanto riguarda l'ideologia, gli orientamenti, i progetti ed anche per quanto riguarda parziali insediamenti sociali. Sul punto non sembra ormai possibile nutrire dubbi di qualche fondatezza, giovando semmai segnalare i ritardi con cui fu percepita la reale natura di un fenomeno che, malgrado la sua natura clandestina, solo in parte ebbe carattere occulto nel suo svolgimento. In realtà le motivazioni politiche e gli obiettivi che il "partito armato" si proponeva furono resi sempre immediatamente conoscibili, sicché è il ritardo di percezione che potrebbe oggi assumere rilievo in una prospetti va critica, (attivando una problematica che merita di essere risolta), una volta che appare ben difficile ricondurre quel ritardo esclusivamente ai fenomeni di rimozione collettiva, che pure vi furono in ampi strati della pubblica opinione politicamente orientata a sinistra. Analogamente indubbio è che originariamente il movimento di contestazione studentesca, che prese il nome dal "sessantotto", non aveva come componente prevalente un progetto rivoluzionario di ispirazione marxista mediante lo strumento della lotta armata. Il movimento ebbe in realtà basi culturali non diverse da forme anche intense di protesta giovanile che in ambito occidentale si erano manifestate anni prima. Ovvio è il riferimento ai moti universitari statunitensi del 1964 e ad analoghe esperienze francesi, tedesche e inglesi degli anni successivi. I modelli culturali iniziali, solo latamente politici, (gli hippies, i figli dei fiori, i Beatles, la "contestazione", come venne definita, di stili di vita "borghesi", i primi contatti con le culture orientali, una maggiore libertà nei rapporti familiari e sessuali) erano ben diversi da quelli che avrebbero assunto dominanza nella radicalizzazione successiva ed esprimevano una aspirazione intensa quanto confusa ad un modello alternativo di società, più libera, meno stratificata e massificante. Non a caso nell'originaria atmosfera culturale il filosofo più letto era Marcuse (e non Marx) ed alimentava una protesta genericamente antiautoritaria, che nell'ambito universitario investiva innanzitutto il potere accademico. Con tali caratteri non può sorprendere che la spinta che alimentava la protesta giovanile, mentre profondamente incise sui costumi sociali liberalizzandoli, non seppe trovare uno sbocco politico; rapidamente quindi, almeno come movimento di massa, sfilacciandosi ed esaurendosi. Questa fu la tendenza in altre nazioni dell'Occidente che conobbero il fenomeno. Non così in Italia dove l'intrecciarsi dei moti studenteschi con le tensioni sindacali ed operaie che caratterizzarono il medesimo periodo, determinò un naturale terreno di cultura per una radicalità politica, già propria di gruppi sorti nel periodo precedente ma rimasti sino a quel momento sostanzialmente quiescenti e non operativi, che furono indicati da subito come sinistra extraparlamentare per l'assenza di un riferimento istituzionale in partiti rappresentati in Parlamento, ma anche perché intrisi di valori di fondo non coerenti con i principi della democrazia parlamentare. Il passaggio decisivo alla estremizzazione dello scontro sociale e quindi alla lotta armata può individuarsi in due eventi che segnano il tardo autunno del 1969. Il primo è lo sciopero generale proclamato dai sindacati per il 19 novembre 1969, che indicono a Milano un comizio al Teatro Lirico al centro della città, dove il sovrapporsi alla protesta sindacale di un corteo organizzato da formazioni di sinistra extraparlamentare a prevalente componente studentesca, determinò i disordini in cui morì Antonio Annarumma. Il secondo, sempre a Milano, è la strage di piazza Fontana di cui ampiamente ci si occuperà in pagine seguenti, ma della quale vuol qui sottolinearsi il carattere di spartiacque, che fortemente incide sull'esplodere della violenza successiva. Vuol dirsi cioè che nel "partito armato", dove le due componenti studentesca e operaista continueranno a lungo a convivere, fu percepibile almeno nella sua fase iniziale anche una ulteriore componente che potrebbe definirsi latamente "resistenziale", (si pensi, come esempio certamente non esaustivo all'esperienza individuale di Giangiacomo Feltrinelli, che giustificava la scelta dell'organizzazione armata e clandestina, con la necessità di contrastare un golpe autoritario e militare ritenuto imminente); anche se va riconosciuto che tale aspetto scemò nell'evoluzione successiva, a mano che un disegno sempre più segnatamente rivoluzionario e quindi antidemocratico venne a delinearsi.

La storia del partito armato, come si è già accennato, è ormai nota, perché ricostruita con sufficiente compiutezza dalla indagini giudiziarie e dalla stessa memorialistica dei suoi protagonisti. Sicché superfluo appare ripercorrerne sia pur sinteticamente le tappe, se non al fine di articolare intorno alle fasi della sua evoluzione, il giudizio che la Commissione ritiene compito suo proprio in ordine all'efficacia e ai limiti dell'azione di contrasto che al partito armato fu opposta dagli apparati istituzionali dello Stato. In tale prospettiva, ciò che colpisce allo stato attuale della riflessione è la sostanziale fragilità ed insieme il carattere di relativa segretezza che denunziano nella fase della loro costituzione i vari gruppi eversivi di sinistra, sì da fondare l'avviso meditato che una più ferma ed accorta risposta repressiva immediata avrebbe potuto almeno limitare l'alto prezzo di sangue che il paese pagò negli anni successivi.

Quanto alla fragilità e cioè alla ridotta capacità offensiva, sul piano di una lotta armata, dei vari gruppi eversivi che, pur tra notevoli diversità, costituirono nel loro insieme il "partito armato", sarà sufficiente il richiamo ad alcuni episodi che possono dirsi esemplari. Il primo organico tentativo fatto da una personalità di rilievo avente a disposizione molte risorse e molti legami internazionali, l'editore Giangiacomo Feltrinelli, si conclude tragicamente in un disastro, denunciante, per le sue modalità, improvvisazione e velleitarismo, portando rapidamente alla dissoluzione dei pochi nuclei che si erano costituiti. Altrettanto evidente è la fragilità di tentativi come quello della "Barbagia Rossa" in Sardegna o dei "Primi fuochi di guerriglia" in Calabria. Ed ancora: il 25 gennaio 1971 otto bombe incendiarie vengono collocate su altrettanti autotreni fermi sulla pista di Linate dello stabilimento Pirelli, solo tre, però esplodevano, non le altre cinque perché difettose. L'impreparazione è confessata nel volantino di rivendicazione, che commenta: "Sbagliando si impara. La prossima volta faremo meglio". L'11 marzo 1973, a Napoli, il militante dei N.A.P., Giuseppe Vitaliano Principe, è ucciso dall'esplosione di un ordigno che sta preparando, mentre rimane gravemente ferito Giuseppe Papale. Il 30 maggio dello stesso anno un altro militante dei NAP Giuseppe Taras è ucciso dall'esplosione dell'ordigno che sta preparando sul tetto del manicomio giudiziario di Aversa. D'altro lato le stesse Brigate Rosse nel documento teorico del settembre 1971 devono constatare "lo stato di impreparazione in cui si trovano le forze rivoluzionarie di fronte alle nuove scadenze di lotta".

A tale iniziale scarsa potenzialità offensiva, che alla luce dei fatti innanzi ricordati appare innegabile, si aggiunge la constatazione altrettanto dovuta del carattere di relativa segretezza e di permeabilità, che i gruppi eversivi denotano nella fase costitutiva e di operatività iniziale. Si pensi al gruppo "22 ottobre", operativo a Genova, che risulta essere stato infiltrato sin dall'inizio da ambigui personaggi tra malavitosi e confidenti della polizia (Adolfo Sanguinetti, Gianfranco Astra, Diego Vandelli). A tale gruppo è attribuibile la prima vittima della lotta armata, il fattorino portavalori dello IACP di Genova, Alessandro Floris, ucciso durante una rapina destinata ad autofinanziamento. Il gruppo (che all'inizio del mese si era inserito in un programma-radio annunciando: "Attenzione proletari, la lotta contro la dittatura borghese è cominciata") dopo la rapina è rapidamente liquidato. Per ciò che concerne il gruppo eversivo di maggior consistenza, e cioè le B.R., basterà rammentare ciò che riferisce Moretti, con riguardo alla fase preliminare di costituzione della struttura, in ordine ad una riunione che nel novembre 1969 si tenne al pensionato Stella Maris di Chiavari per iniziativa del Comitato Politico Metropolitano di cui furono fondatori tra gli altri Renato Curcio e Alberto Franceschini e nel quale erano confluiti Comitati Unitari di base di alcune fabbriche (tra cui la Sit-Siemens, ove operava lo stesso Moretti) e collettivi autonomi costituiti in varie situazioni dalla sinistra extraparlamentare. Riferisce Moretti: "A un certo punto ci accorgiamo che il convegno, pure indetto con una certa riservatezza, è sorvegliato da alcuni poliziotti della squadra politica di Milano: li conoscevamo benissimo, almeno quanto loro conoscevano noi". Esemplare ancora, il modo con cui Franceschini descrive le prime esperienze di clandestinità con riferimento alla situazione della Pirelli; "Ci conosciamo, nome per nome. Eravamo clandestini per modo di dire, stavamo in quella clandestinità di massa, in quella omertà proletaria che copriva tutti i comportamenti illegali. Vanno alla clandestinità obbligata solo quelli che stanno per essere arrestati". E' nota peraltro una deposizione del generale Dalla Chiesa che senza dare indicazioni ulteriori ha lasciato capire che l'opera di infiltrazione soprattutto dell'Arma dei Carabinieri nelle organizzazioni eversive di sinistra era stata quasi permanente e sin dall'inizio. Il dato è stato direttamente confermato alla Commissione nel corso della X legislatura dal generale Giovanni Romeo, ex capo dell'Ufficio "D" del SID: "Abbiamo seguito l'intera problematica del terrorismo in modo molto attento... Quando tutti parlavano di dover affrontare il terrorismo mediante infiltrazioni, il reparto D lo aveva già fatto, ed è per questo che è pervenuto a quei risultati" (il riferimento è ai due arresti di Renato Curcio). "Se questa informazione verrà fuori, molti uomini potranno correre pericoli" (il che esclude che il riferimento fosse a nomi noti come quelli di Girotto e Pisetta). Sono dati che ricevono conferma anche da altre fonti indubbiamente autorevoli. Con riferimento all'infiltrazione iniziale di Girotto ai suoi risultati positivi ma anche alla possibilità non sfruttata di risultati ulteriori, ha scritto il generale Vincenzo Morelli che ha ricoperto vari incarichi di comando nell'Arma dei CC e che dal 1980 al 1982 è stato comandante della I Brigata CC di Torino: "L'arresto di questi due brigatisti era stato infatti deciso ed eseguito in modo frettoloso a causa di sopravvenute difficoltà che minacciavano, di compromettere il confidente; così almeno si disse allora (il corsivo è della Commissione). Secondo alcuni esperti, tuttavia, era questo un rischio che poteva essere corso di fronte alle inderogabili necessità di continuare le indagini: essi suggerivano di non arrestare per il momento i due capi storici delle Brigate Rosse ma di continuare a seguirne i movimenti attraverso quegli elementi scaltri e di fiducia da tempo infiltrati nell'organizzazione eversiva". Appaiono quindi evidenti una serie di indici di una attività informativa fin dall'inizio penetrante ed efficace, che lascia interdetti dinanzi a risultati nell'attività di contrasto, che se non furono scarsi per ciò che in seguito si dirà, non ebbero però quella rapida definitività che lo stato delle informazioni di cui si era in possesso avrebbe potuto consentire. Una spiegazione del fenomeno potrebbe rinvenirsi nella circostanza che i gruppi eversivi, malgrado la loro scarsa organizzazione e la loro relativa permeabilità, trovarono nelle tensioni sociali del periodo (la prima metà degli anni settanta) una notevole capacità di radicamento. Il dato è però ambivalente atteso che, con riferimento alla realta sociale e politica in cui i gruppi venivano a radicarsi, la permeabilità ed il carattere di relativa segretezza divenivano indubbiamente maggiori. Si pensi ad esempio a periodici legali come "Nuova resistenza", che sorge per iniziativa concordata dalle B.R. con Feltrinelli e nel cui primo numero poteva leggersi: "Tutto il lavoro del nostro giornale vuol essere un contributo a sciogliere ostacoli, presentando la pratica, le tesi e le tendenze di quei movimenti di classe che hanno come base comune lo sviluppo della guerriglia, come forma di lotta dominante per la liberazione della classe operaia da ogni sfruttamento". Si pensi all'intera storia di Potere Operaio le cui vicende, se da un lato sono intimamente legate al terrorismo diffuso di Autonomia Operaia, dall'altro appartennero alla vita ufficiale del paese, sì da essere state suscettibili di una piena conoscibilità contestuale al loro svolgimento. Ha scritto riferendosi a Potere Operaio, Giorgio Bocca: "Ogni quattro attivisti di P.O. due sono poliziotti". A tanto può aggiungersi l'indiscutibile patrimonio informativo che deve ritenersi certamente derivato da una attività di contrasto che ha riguardato la confusa nebulosa dell'estremismo di sinistra e che ha conosciuto anche momenti di intensa efficacia; così negli ultimi mesi del 1971, quando hanno luogo "operazioni setaccio" nelle aree metropolitane con centinaia di arresti, migliaia di denuncie, sequestri di un imponente quantità di armi e munizioni. Vuol dirsi in altri termini, che il magma protestatario in cui le B.R. operano il loro radicamento sociale, era agevolmente conoscibile e noto, sì da rendere più severo il giudizio in ordine all'assenza di più intensi risultati nel contrasto al fenomeno eversivo.

Peraltro, sospendendo per ora il giudizio su tali aspetti almeno per alcuni profili inquietanti, va sottolineato come anche in ragione di tale radicamento in realtà sociali diffuse e nel loro complesso eversive, i gruppi clandestini, pur tra ricorrenti insuccessi, (si pensi, oltre a quelli già ricordati, al rapimento Gancia e alla sua sanguinosa conclusione nella cascina Spiotta) ottengano anche clamorosi risultati (i rapimenti Costa e Sossi da parte delle B.R., quello Di Gennaro ad opera dei NAP). Il successo di tali operazioni e le dichiarazioni di alcuni sequestrati (che presentano l'organizzazione delle BR come fortissima e in possesso di informazioni penetranti e globali) alimentano il mito della invincibilità delle BR e l'opinione diffusa che le stesse fossero qualcosa di diverso da ciò che erano e che pubblicamente dichiaravano di essere incentivando quel moto collettivo di rimozione, che già si è segnalato, nella pubblica opinione orientata a sinistra e dando altresì fondamento all'ipotesi che alle spalle delle BR e degli altri gruppi eversivi potesse esservi in Italia o all'estero un'unica centrale (il mito del Grande Vecchio) di direzione e controllo. Sono ipotesi che, per quanto autorevolmente e ripetutamente affacciate, non trovano riscontro in una storia, quella del partito armato, che ormai può ritenersi quasi compiutamente disvelata. Ma soprattutto giova sottolineare come il patrimonio informativo di cui gli apparati di sicurezza erano in possesso già all'epoca dei fatti, era già idoneo a smentire la fondatezza delle ipotesi medesime e a fondare un'azione di contrasto ferma ed efficace.

D'altro canto non vi è dubbio che un tal tipo di risposta vi sia stato; ciò che colpisce è però il carattere altalenante di un'azione repressiva che conosce momenti di forte intensità, inframmezzati a cali di tensione e a bruschi ripiegamenti. Sicchè la valutazione d'insieme che la Commissione ritiene di formulare sul punto è su un carattere di "stop and go" nella risposta istituzionale, carattere che merita di essere investigato e nei limiti del possibile chiarito ai fini di una sua meditata e motivata valutazione. Ed invero può dirsi storicamente accertato che, ad onta della presunta invincibilità delle B.R., fu ben possibile al generale Dalla Chiesa, pochi mesi dopo il clamoroso successo dell'operazione Sossi, infiltrarne addirittura il vertice nel giro di poche settimane (l'infiltrato è padre Girotto detto "frate Mitra") giungendo così all'arresto di due dei capi storici, Curcio e Franceschini, in occasione di un appuntamento al quale sarebbe dovuto intervenire anche Moretti che riesce fortunosamente a sfuggire alla cattura. In pochi mesi, quindi le B. R. sono decapitate, ma è disarmante l'estrema facilità con cui un'operaziona guidata da Margherita Cagol riesce a liberare Curcio dal carcere di Casale Monferrato. Tra il 1974 e il 1976 l'organizzazione appare comunque ridotta ai minimi termini, anche per effetto di una pressione costante delle forze di sicerezza sul vertice delle B.R. che culmina con il nuovo arresto di Curcio e di Nadia Mantovani, Angelo Basone, Vincenzo Guagliardo e Silvia Rossi Marchese, nella base di via Maderno a Milano, il 18 gennaio 1976, cui segue quello di Semeria, il 22 marzo, alla stazione centrale, sempre a Milano. E si è già riferito in ordine alla fonte che consente alla Commissione di ritenere che tali successi costituirono il frutto di una attività informativa dei servizi di sicurezza operata mediante infiltrati diversi dai noti Girotto e Pisetta. Appare quindi davvero singolare che subito dopo sia stato possibile ai pochi brigatisti residui riorganizzare sostanzialmente le proprie forze al fine di determinare un salto qualitativo all'azione eversiva, la quale passa da una fase iniziale che può definirsi di propaganda armata ad una fase successiva di vero e proprio terrorismo di sinistra, che si concluderà soltanto nei primi anni del decennio successivo. Ad un giudizio reso oggi sereno anche dagli anni trascorsi, tale recuperata possibilità dei pochi brigatisti residui di riorganizzarsi, per raggiungere come si vedrà un più elevato livello di aggressività, appare oggettivamente collegabile a scelte operative degli apparati istituzionali assolutamente non condivisibili e di ben difficile spiegabilità. Specifico è il riferimento allo scioglimento del 1975 del nucleo antiterrorismo del generale Dalla Chiesa. Tale scelta appare oggi ancora più grave, alla luce di acquisizioni in base alle quali risulterebbe che i servizi di sicurezza avevano chiaramente percepito che le BR avevano la possibilità di riorganizzarsi attingendo ad un più elevato livello di pericolosità. Già nel giugno del 1976 il settimanale "Tempo" pubblicò le seguenti dichiarazioni di uno dei massimi responsabili dei Servizi, generale Maletti: "Nell'estate del 1975 (...) avemmo sentore di un tentativo di riorganizzazione e di rilancio (delle BR, n.d.r.) sotto forma di un gruppo ancora più segreto e clandestino, e costituito da persone insospettabili anche per censo e per cultura, e con programmi più cruenti. (...) Questa nuova organizzazione partiva col proposito esplicito di sparare, anche se non ancora di uccidere. (...) Arruolavano terroristi da tutte le parti e i mandati restavano nell'ombra, ma non direi che si potessero definire di sinistra". Lo stesso Maletti, in un'intervista successiva, dichiarò: "Già nel luglio del 1975 inviai un rapporto al Ministro dell'Interno che allora era Gui, per avvertirlo che d'ora in poi gli eversori avrebbero inaugurato la tecnica dell'attentato alla persona, in particolare quella della sparatoria alle gambe".

Ed invero solo nel 1976 le B.R. alzano il tiro ponendo l'omicidio politico a fine dichiarato della propria azione. Episodi omicidiari precedenti, infatti, come l'uccisione di due militanti dell'M.S.I. a Padova, furono eventi volontari ma non premeditati. Soltanto alla vigilia delle elezioni politiche del 1976, le BR per la prima volta sparano per uccidere: la vittima è il Procuratore della Repubblica di Genova, coco, (che era considerato il responsabile del mancato avviarsi delle trattative al momento del sequestro Sossi) e due uomini di scorta. Che si fosse in presenza di un'evoluzione e quindi di una seconda fase del gruppo eversivo non può ormai revocarsi in dubbio. Ciò è pacificamente riconosciuto dagli stessi protagonisti della lotta clandestina. "Nel corso del 1976, l'impianto organizzativo subisce una trasformazione radicale, che non resterà senza conseguenze nel dibattito interno. Questa trasformazione costituisce una vera e propria seconda fondazione delle BR, in seguito alla quale tutti i comparti e tutte le attività dell'organizzazione vengono ripensati entro lo schema di una impostazione che mette al centro l'attacco al cuore dello Stato". Sorprende che un simile ambizioso ed estremo programma sia nutrito da un gruppo terroristico ridotto a poche unità e fortemente provato, come oggi riconosce parlando di sé. Lauro Azzolini dichiara a un giornalista; "Dopo Sossi, dopo la Spiotta, dopo la caduta di tanti compagni, con le forze regolari ridotte a quindici persone, Moretti, Bonisoli ed io facemmo una lunga riflessione e arrivammo a questa alternativa; qui, o questa guerra la facciamo sul serio, o tanto vale piantarla. Qui o ci mettiamo in testa di vincere, o siamo vinti in partenza. E' il fronte logistico che diventa il vero centro dell'organizzazione, e lì ci siamo noi, Moretti, Bonisoli ed io. La direzione strategica perde ogni importanza". E il giornalista che riceve tale dichiarazione ritiene di commentarla così: "I fondatori delle B, i capi storici, dicono che l'esperienza era esaurita nel 1975. E allora perché continuare per altri sette anni? Perché strascinamento e involuzione militarista sono l'effetto di una crisi sociale ed economia che si trascina: è la tesi fondamentale della nostra ricerca. La storia non si scrive con i se, ma come ipotesi si può dire che, se fra il '75 e il '76 non fosse ripartita l'eruzione sociale, la guerriglia urbana sarebbe probabilmente finita lì". E' valutazione che la Commissione ritiene solo in parte da condividere. E' pur vero infatti che le forti tensioni sociali che riesplodono nel Paese con il movimento del 1977 diedero nuova linfa all'estremismo terroristico. Ma è altrettanto vero, da un lato, che l'eruzione sociale segue di circa un anno il momento riorganizzativo delle BR, dall'altro che la successione storica degli eventi nello spazio temporale considerato denuncia momenti di forte debolezza e quasi di stallo nella risposta istituzionale dello Stato. Attribuire tutto ciò a meri fenomeni disorganizzativi sarebbe già grave nella prospettiva del giudizio storico politico che alla Commissione compete. E per altro anche un simile giudizio non può pienamente apparire satisfattivo, perchè contrastato dai notevoli successi del periodo precedente, consentiti anche dal cospicuo patrimonio informativo sul fenomeno di cui gli apparati di sicurezza erano in possesso.

Certo sul piano dell'oggettività storica non soltanto dal 1975 in poi le nuove BR (sostanzialmente rifondate) sotto la direzione di Moretti ed articolate soprattutto nelle due colonne di Genova e di Roma (la prima con un insediamento sociale di tradizione operaia, la seconda di tipo giovanile studentesco) appaiono abbastanza diverse da quelle del periodo di propaganda armata, ma subiscono per alcuni anni un'azione di contrasto abbastanza evanescente. Sul punto non può non sottolinearsi, tra l'altro, che alcuni dei protagonisti di sanguinosi eventi immediatamente successivi erano stati addirittura arrestati e poi rilasciati (come Morucci) o erano riusciti ad evadere (come Gallinari). E' in questa situazione che l'eruzione del movimento del '77 innalza in maniera esponenziale le possibilità di insediamento sociale dei gruppi terroristici. Il movimento ha una precisa data di nascita: il 1° febbraio 1977, quando durante scontri tra studenti di sinistra e di destra a Roma, nell'aula magna di Statistica (occupata) viene ferito alla testa da un colpo di pistola lo studente di sinistra Guido Bellachioma. I gruppi dell'ultrasinistra replicano con quella che definiscono "una risposta di massa" - nella quale, in un primo momento, hanno un ruolo gli "indiani metropolitani", più folcloristici che violenti - con l'occupazione dell'università, sino agli scontri col servizio d'ordine che protegge Lama, (sono in prima fila i futuri brigatisti Emilia Libera e Antonio Savasta). E' da tale area ribollente di protesta e conflittualità sociale che affluiscono alle BR centinaia di militanti, parte "regolari", parte no, che farà loro superare la stagnazione dl '76, col solo segnale nazionale - a Genova - che ora si spara per uccidere. Dirà Morucci: "A un certo punto c'è stata in Italia un'area di circa 200 mila giovani che è passata al comunismo marxista per mancanza di alternativa" (intervista a "il Giorno", 26 aprile 1984). Le BR divengono così il punto di riferimento di una parte dell'eredità (marxista-leninista oltreché anarco-libertaria) della sinistra italiana, alla quale si rivolgeranno centinaia di militanti che dai comportamenti collettivi ribelli che coinvolgono decine di migliaia di giovani (dai cortei che scandiscono: "Attento poliziotto è arrivata la compagna P38") passano alla pratica delle armi. Ciò non può essere storicamente dimenticato per negare di tali fenomeni la reale e dichiarata natura. Ma altrettanto impossibile è negare che nella fase la risposta dello Stato appare complessivamente deludente, per giungere a risultati di grottesca inefficienza nei giorni drammatici del sequestro Moro, che saranno oggetto in seguito di un'analisi separata e che tuttavia si situano in tale panorama complessivo, in cui viene a collocarsi il sorgere di un nuovo soggetto della lotta armata che del movimento del '77 deve ritenersi il più tipico prodotto: Prima Linea.

Anche per tale formazione terroristica, come già per le BR e forse in maniera più intensa, risalta alla riflessione della Commissione una notevole permeabilità e quindi conoscibilità già nella fase fondativa, che suscita forti perplessità intorno ai limiti dei risultati conseguiti nell'azione di contrasto immediato da parte degli apparati istituzionali di sicurezza pubblica. Prima Linea nasce infatti da un vero e proprio congresso costitutivo a San Michele a Torre presso Firenze nell'aprile 1977 e preceduto da riunioni a Salò e Stresa dell'autunno '76, promosse dalle componenti più estreme di una formazione extraparlamentare notissima e che non aveva in sé nulla di clandestino: "Lotta continua". PL costituisce quindi una sostanziale evoluzione dei cosiddetti "servizi d'ordine" di LC, con abitudine alla violenza e presenza riconosciuta sul territorio; A Milano, Torino, Bergamo, Napoli, in Brianza, a Sesto San Giovanni. "Prima Linea non è un nuovo nucleo combattente comunista, ma l'aggregazione di vari nuclei guerriglieri che finora hanno agito con sigle diverse", come può leggersi nel volantino che rivendica la prima clamorosa azione del nuovo soggetto della lotta armata, l'irruzione nella sede dei dirigenti FIAT a Torino, il 30 novembre 1976. La trasparenza della fase costitutiva non sembra quindi essere discutibile, se è vero che a San Michele a Torri viene approvato uno statuto: al vertice vi è una "conferenza di organizzazione", di fronte alla quale il comando nazionale deve rispondere del proprio operato. Vengono costituiti un settore tecnico logistico e uno informativo, ma quella che pesa è la struttura armata, che va dalle "ronde proletarie", ai "gruppi di fuoco" (che possono anche decidere le azioni) alle "squadre di combattimento" (che si limitano ad eseguirli). Ancora una volta è la stessa memorialistica dei protagonisti a dar conto di un livello di clandestinità davvero esile. "I sergenti (dei servizi d'ordine), noti a tutti (come Chicco Galmozzi, arrestato nel marzo '76 dopo un'allegra serata con cibi e liquori espropriati), potevano entrare alla mensa della Marelli (a Sesto) e sedere ammirati, come i moschettieri del re, al tavolo delle impiegate". Ed ancora Pietro Villa (uno dei fondatori) ricorda: "A Salò abbiamo discusso praticamente in pubblico. A Firenze ci trovavamo in una cascina (S. Michele a Torri), ma alla sera io e i compagni milanesi tornavamo in città per dormire in albergo, figurati che clandestinità. 'Senza tregua' (rivista legale sotto il cui striscione i militanti sfilavano nei cortei) esibiva le armi e scandiva 'Basta parolai, armi agli operai', senza subire conseguenze". Appare in proposito esemplare la vicenda del gruppo che si articolare intorno alla redazione di tale rivista. Il gruppo di Torino, guidato da Marco Donat Cattin (figlio del ministro DC Carlo) con nome di battaglia di "comandante Alberto", compie un'irruzione nel centro studi Donati (della DC e proprio della corrente di Carlo Donat Cattin), nel corso della quale una componente del commando, Barbara Graglia, perde ingenuamente un paio di guanti facilmente a lei collegabili: recano infatti il numero di matricola 236 delle allieve del collegio del Sacro Cuore. Durante una perquisizione del suo alloggio vengono trovati manifestini dal titolo “Costruiamo i comitati comunisti per il potere operaio”, che esprimono la necessità della guerra civile, ciclostilati in via della Consolata 1 bis, la vecchia sede di Potere operaio, intestata ora al centro Lafargue dove viene redatto il periodico 'Senza tregua'. Con Barbara Graglia frequentano la sede Marco Scavino, che è stato dirigente di Potere ope raio - possiede lui le chiavi dell'appartamento -, Felice Maresca, un operaio della Fiat, Valeria Cora, Marco Fagiano, Carlo Favero e una ottantina di giovani provenienti da Potere operaio e da Lotta continua. Vuol dirsi cioè, come ormai più volte sottolineato in sede saggistica, che con riguardo a Prima Linea si accentuano i due caratteri già innanzi sottolineati con riferimento alle BR dopo la fase rifondativa del 1975 e cioè: da un lato l'ampiezza dell'insediamento sociale, dall'altro nella risposta dello Stato, forti elementi di colpevole sottovalutazione e comunque di notevole debolezza. E' un giudizio già più volte formulato con argomentazioni che alla Commissione paiono sostanzialmente condivisibili, stante la esemplarità di episodi e sequenze oggettive. Leader come Galmozzi, Borelli, Scavini sono arrestati nel maggio '77, appena costituita l'organizzazione con statuto, ma tornano in libertà. Baglioni viene liberato mentre è in corso il sequestro Moro; Rosso e Libardi subito dopo. Marco Donat Cattin svolge tranquillamente il suo lavoro di bibliotecario, presso l'Istituto Galileo Ferraris, prendendo regolari permessi per partecipare alle azioni armate. In una di queste, in vista del processo di Torino alle Br, Prima linea uccide il maresciallo Rosario Berardi, uomo di punta dell'antiterrorismo (10 marzo '78) e la rivendicazione telefonica viene addirittura dalla casa dell'on. Carlo Donat Cattin, con relativa registrazione degli inquirenti. Un altro leader di PL, Roberto Sandalo, dalle future clamorose confessioni (marzo 1980), ben noto come "Roby il pazzo", capo del servizio d'ordine di Lotta continua, può frequentare la qualificata scuola allievi ufficiali alpini, ad Aosta, che controlla i curricula; e, come ufficiale, trasporta armi per l'organizzazione.

Non può quindi sorprendere come già nel 1984 e cioè al concludersi della fosca stagione, in sede saggistica fu da più parti avanzata l'ipotesi che sarebbe stato possibile stroncare il terrorismo sul nascere o almeno sin dal 1972 e ridurlo a fenomeno sporadico; e che pertanto la violenza estremistica aveva potuto dispiegarsi impunita per un decennio e il terrorismo rosso svilupparsi pressoché indisturbato fino al delitto Moro, solo in quanto dall'interno degli apparati dello Stato alcune forze avevano preferito lasciare mano libera ad un fenomeno che screditava le forze della sinistra parlamentare e i sindacati, inficiandone la capacità di rappresentanza sociale; o addirittura aveva ritenuto di usare l'estremismo e poi il terrorismo rosso per determinare allarme sociale con esiti politici stabilizzanti. Misurandosi con tale giudizio, come indubbiamente è dovuto, la Commissione osserva che, alla stregua dei dati già esposti, va riconosciuto che una risposta dello Stato all'estremismo di sinistra vi è stata, ha avuto carattere di fermezza ed ha conseguito successo finale. Le forze politiche - anche di sinistra e segnatamente il PCI - furono fermissime nella condanna del terrorismo e nel riaffermare i valori dello Stato democratico nato dalla Resistenza e ostacolarono con successo la possibilità che movimenti eversivi realizzassero un più ampio insediamento sociale. Il Parlamento varò provvedimenti legislativi rigorosi atti a combattere il terrorismo. Ottima fu nel suo complesso la tenuta e la risposta della istituzione giudiziaria, che pagò un doloroso prezzo di sangue in tutte le sue componenti (Bachelet, Alessandrini, Croce). In particolare la magistratura inquirente seppe trovare forme efficaci di conduzione e coordinamento delle indagini, che avrebbero dato positivi risultati anche in anni successivi nel contrasto a forme diverse di criminalità. Una democrazia ancor giovane seppe, nel suo complesso, reggere ad una difficile prova. Tutto ciò è indubbio, ma altrettanto innegabile è che nel corso del tempo la risposta istituzionale degli apparati di sicurezza ha conosciuto l'alternarsi di momenti di fermezza con momenti di minore tensione e di stallo spinti in alcuni casi fino alla colpevole tolleranza; giudizio negativo che ovviamente coinvolge - e sia pure in maniera indiretta - l'azione degli Esecutivi succedutisi nel tempo. Per tali ultimi profili peraltro, oggettività impone di riconoscere che consimili atteggiamenti di colpevole minimizzazione, o di tolleranza, furono presenti anche nel corpo sociale almeno con riguardo alla violenza diffusa e si accompagnarono ad una ritardata presa di coscienza della reale natura di un terrorismo, cui a lungo ci si intestardì ad attribuire "colore politico" diversa da quello palese e palesemente dichiarato. Si pensi con riferimento all'opinione pubblica orientata a sinistra al peso della coscienza di una affinità di matrice culturale, ai riflessi, a volte inconsci, dell'antica diffidenza verso lo Stato e di miti rivoluzionari non ancora superati che indicevano spesso ad atteggiamenti di comprensione verso i gruppi estremisti, a volte anche al fine di tentarne il recupero politico. Si pensi ancora, in termini più generali e con particolare riferimento alla vicenda di Prima Linea, a quanto la collocazione in fasce medio-alte di molti dei suoi protagonisti abbia influito nel determinare in ampi settori del ceto dirigente un atteggiamento minimizzante che caratterizzò anche specifici episodi giudiziari. Esemplari in tal senso possono ritenersi:

- da un lato, nella sua drammaticità, la vicenda della famiglia Donat Cattin, che vedeva riuniti al suo interno un Ministro della Repubblica e uno dei capi delle formazioni militari che attentavano al cuore dello Stato; a riprova che per ampi strati della borghesia italiana i moti studenteschi, prima, e la contestazione armata, poi, furono anche un conflitto generazionale, dove "l'uccisione della figura paterna" come via di crescita e di accesso alla maturità, perdeva il suo connotato metaforico per acquisire i caratteri di una tragica realtà quotidiana;

- dall'altro la nota sentenza dell'11 marzo 1979 con cui la Corte di assise di Torino escluse che il Gruppo della Consolata, di cui si è già detto, costituisse una banda armata, e sminuendone la pericolosità, la qualificò come una mera associazione sovversiva per la rudimentalità della sua composizione, per la carenza di mezzi, per l'inefficienza operativa. Sicché giova avvertire fin da ora (in parte anticipando il giudizio conclusivo cui la Commissione ritiene di giungere e ribadendo la scelta di metodo che la Commissione ha operato), che non è soltanto l'altalenanza della risposta (degli apparati di sicurezza) dello Stato in sé considerata a fondare un giudizio valutativo più grave, quanto piuttosto il suo inserirsi in un ben più ampio quadro di riferimento, che oggi è possibile ricostruire pur sempre su base oggettiva come esito di una riflessione complessiva che abbracci l'intero periodo 1969-84 in tutti i suoi aspetti ed insieme valorizzi dati emergenti dalla analisi del periodo anteriore.

Con il sequestro dell'onorevole Moro, la strage degli uomini di scorta, la prigionia e quindi l'uccisione dell'ostaggio, le BR raggiungono il più elevato livello di aggressività e sembrano saper rendere concreto e veritiero il loro disegno di portare un attacco al cuore dello Stato. Pure il sanguinoso esito della vicenda apre all'interno delle BR ferite e contraddizioni ed al contempo svela la sterilità dell'operazione militare nella sua incapacità di raggiungere sbocchi politici ulteriori. In realtà il risultato sperato di un riconoscimento politico viene sfiorato ma non raggiunto, in questo - e solo in questo - dovendosi ritenere efficace la scelta politica di rifiutare l'apertura della trattativa. (Secondo quanto riferito alla Commissione dall'addetto stampa di Moro, dottor Guerzoni è possibile che vi sia stato un intervento della Presidenza del Consiglio sul Pontefice perché il suo elevato appello agli "uomini delle BR" non contenesse un riconoscimento politico seppure in forma larvata). L'apparato istituzionale registra per converso una secca sconfitta, apparendo disarmato e incapace di elaborare vuoi una strategia politica, vuoi una adeguata risposta repressiva. Né vi è dubbio che la totale negatività di risultati nel contrasto al più grave degli atti terroristici del partito armato sia da collegare, come effetto a causa, a decisioni istituzionali del periodo immediatamente anteriore che appaiono inspiegabili al limite della dissennatezza. E' un giudizio che sostanzialmente è stato già espresso in sede parlamentare e che alla Commissione è consentito rafforzare sia per la maggior distanza temporale che oggi separa da quei tragici eventi, sia soprattutto per la maggiore ampiezza di ambito investigativo in cui gli episodi specifici vengono a situarsi. Già nella relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di Via Fani era infatti possibile leggere: "La Commissione non ha potuto avere risposte convincenti sul perché l'Ispettorato antiterrorismo, costituito sotto la direzione del questore Santillo il 1º giugno 1974, sia stato, nel pieno "boom" del terrorismo (gennaio 1978), disciolto, e perché non ne sia stata utilizzata l'esperienza organizzativa ed il personale addetto. [...]. L'Ispettorato antiterrorismo aveva cominciato a costruire una mappa dei movimenti eversivi e a raccogliere informazioni sui singoli presunti terroristi, in una visione unitaria del fenomeno, la sola capace di consentire un corretto apprezzamento e una lotta efficace. [...]. Gli stessi interrogativi la Commissione si è posta in ordine alle esperienze accumulate dal Nucleo antiterrorismo costituito nel maggio 1974 presso il Comando Carabinieri di Torino, che svolse un importante lavoro investigativo ai tempi del seque sto Sossi [...]". Sono perplessità che, come già accennato, possono oggi trasformarsi in una valutazione più marcatamente negativa, considerando come scelte opposte a quelle oggetto di critica determinarono con immediatezza positività di risultati. Ed infatti pochi mesi dopo l'epilogo della vicenda Moro e cioè il 9 agosto 1978 il Presidente del Consiglio Andreotti e i ministro dell'interno Rognoni e della difesa Ruffini, riuniti a Merano, conferiscono a Dalla Chiesa "compiti speciali operativi" nella lotta al terrorismo, sui quali doveva riferire "direttamente al Ministro dell'interno", con decorrenza dal 10 settembre 1978. Il generale Dalla Chiesa ricostruisce il Nucleo antiterrorismo e consegue in poche settimane un risultato di elevato livello, quando nell'autunno del 1978 le forze del Nucleo fanno irruzione nell'individuato covo milanese di via Monte Nevoso. Si tratta in realtà del quartiere generale delle BR dove vengono arrestati due dei cinque membri dell'esecutivo. L'importanza del risultato non viene colta appieno dagli organi di informazione che minimizzano l'episodio quasi che si trattasse dell'arresto di due militanti stampatori dei documenti relativi al sequestro Moro, mentre è sul contenuto di questi che si accentra l'attenzione dell'opinione pubblica, trascurando l'importanza operativa intrinseca del risultato. Ancora una volta quindi le BR denunciano una loro fragilità ed una loro incapacità a resistere veramente ad una azione repressiva condotta con la professionalità e l'efficienza propria degli apparati di sicurezza di uno Stato moderno. La contraddizione con la disarmante inefficienza che ha caratterizzato la risposta istituzionale durante la prigionia di Moro, è evidente. Parrebbe quasi che gli apparati istituzionali che non hanno saputo proteggere Moro né individuarne la prigione né liberarlo, dimostrino una improvvisa efficienza nell'individuare il luogo altrettanto segreto dove erano custodite "le carte di Moro" ed entrarne in possesso, attivando peraltro in ordine all'utilizzazione di tali documenti una vicenda oscura che si snoderà negli anni successivi e che appare oggi - almeno a livello di ipotesi giudiziarie - collegata all'omicidio dello stesso generale Dalla Chiesa. Potrebbe pensarsi che, imboccata una nuova via, ci si avvicini ad un successo finale. Ma ciò non avviene. Per circa tre anni il partito armato continua in una alternanza singolare di successi parziali e di sconfitte altrettanto parziali. Sul piano degli esiti politici alcuni omicidi appaiono addirittura controproducenti, come l'assassinio di Emilio Alessandrini, organizzato da Donat-Cattin all'inizio del 1979 e teorizzato con la singolare affermazione della necessità di colpire i magistrati riformisti perché più pericolosi dei magistrati reazionari; come l'assassinio dell'operaio Guido Rossa, che vanamente le BR tentarono di giustificare affermandone la natura preterintenzionale. Si tratta, come già per l'uccisione di Moro, di fatti che per il partito armato ebbero valenza negativa sotto il profilo propagandistico, perché posero in difficoltà il raggiungimento dell'obiettivo, pure dichiarato, di conseguire più ampi radicamenti sociali. Altri episodi costituiscono invece un indubbio successo come il sequestro del giudice D'Urso, nel corso del quale le BR riescono a piegare lo Stato alla trattativa giungendo ad ottenere che sia la stessa figlia del magistrato a leggere da una emittente radiofoni il testo di un loro comunicato accusatorio. Tuttavia, dopo poche settimane, l'inafferrabile capo delle BR, Mario Moretti, viene catturato all'esito di una banale azione di infiltrazione ad opera della pubblica sicurezza; ciò a conferma di una permanente fragilità dello stesso vertice operativo dell'organizzazione terroristica. Ma ancora una volta il colpo decisivo non viene sferrato e le BR seppur divise (si autonomizza a Milano la Brigata Walter Alasia, che aveva come punto di riferimento sociale l'Alfa Romeo; alcuni dei suoi componenti erano anche nel consiglio di fabbrica), seppur distinte (l'ala cosiddetta movimentista, che dovrebbe far capo a Senzani, che poi diventerà il partito della guerriglia, e l'ala cosiddetta militarista), e seppure prive del leader che le aveva guidate per dodici anni, il Moretti appunto, mettono a segno nel giro di pochi mesi quattro rapimenti: Sandrucci, dirigente dell'Alfa a Milano; Taliercio, dirigente del Petrolchimico; Roberto Peci, fratello di Patriz io, uno dei grandi pentiti, nell'estate del 1981; l'assessore democristiano Ciro Cirillo. In tale ultimo episodio non solo lo Stato è piegato alla trattativa ma questa ultima ha disvelato con il tempo un torbido retroscena del rapporto tra terrorismo, servizi di sicurezza e malavita organizzata. Di fatto in cambio di denaro e di reciproci favori fra la malavita e il terrorismo, Cirillo sarà rilasciato in luglio.

Ma ormai un nuovo decennio è iniziato; e la situazione sociale del Paese è profondamente mutata. La ristrutturazione industriale della fine del decennio ha profondamente mutato il mondo delle fabbriche e la stessa condizione del lavoro dipendente venendo così meno, o almeno fortemente attenuandosi, la possibilità di un radicarsi in quel mondo dell'azione politica dei gruppi estremisti e di elementi della protesta giovanile e della contestazione studentesca. Il mutamento sociale e le difficoltà esterne che ne derivavano per la realizzazione di un progetto già originariamente velleitario sono percepiti all'interno del partito armato già sul finire degli anni Settanta. Poco dopo l'attentato ad Alessandrini l'ala militarista di Prima Linea e lo stesso Donat-Cattin riconoscono che non esistono più le condizioni per la lotta armata in Italia ed emigrano in Francia. Il resto dell'organizzazione si scioglie in un convegno avvenuto a Barzio nella Pasqua del 1981 ed evolve in un "polo organizzato", una rete di protezione di militanti ricercati che daranno poi vita ai Comunisti organizzati per la liberazione proletaria (Colp). La lotta armata è dunque in una fase di declino e le operazioni delle BR, che pur proseguono, non possono essere più presentate come un attacco al cuore dello Stato. Conscia di questa difficoltà derivante dalla profonda mutazione economico-sociale che il Paese ha conosciuto, la stessa area movimentista delle BR, diretta da Senzani, tenta una nuova via di radicamento sociale in direzione del sottoproletariato meridionale urbano e sconta fatalmente, nella nuova realtà, un più intenso inquinamento da parte della criminalità organizzata.

La parabola del partito armato si chiude sostanzialmente quando, il 17 dicembre 1981, alcuni brigatisti travestiti da idraulici rapiscono il generale James Lee Dozier, responsabile logistico del settore sud-est della Nato. Da Verona lo portano senza difficoltà a Padova. E' un'operazione eclatante, perché nessun movimento guerrigliero era riuscito a sequestrare un generale americano. L'azione è quindi clamorosa, quanto confuso.

IL MISTERO CIRO CIRILLO.

Morto Ciro Cirillo, il Dc sequestrato dalle Br e rilasciato dopo una oscura trattativa con la camorra. Aveva novantasei anni: Domani i funerali, scrive il 30 luglio 2017 "La Repubblica". Se ne sono andati un uomo e un pezzo di storia che sconvolse l'Italia. È morto all'età di 96 anni l'ex presidente della Regione Campania Ciro Cirillo. L'esponente di punta della Dc fu sequestrato a Torre del Greco (Napoli) dalle Brigate Rosse il 21 aprile1981 (quando era assessore ai lavori pubblici della Campania e presidente della commissione che doveva gestite tutti gli appalti del post terremoto del 1980) per poi essere rilasciato dopo diversi giorni di prigionia in circostanze ancora oggi avvolte da molti misteri. Un rapimento che ha segnato la memoria del nostro Paese con il primo serio sospetto di trattativa tra lo Stato, le Br e la camorra di Cutolo, a tre anni dal rapimento Moro. Durante il rapimento ci fu anche un conflitto a fuoco: furono uccisi l'agente di scorta Luigi Carbone e l'autista Mario Cancello, e venne gambizzato il segretario dell’allora assessore campano all'Urbanistica, Ciro Fiorillo. L'ultima uscita pubblica di Ciro Cirillo, l'ex presidente della Regione Campania è dell'anno scorso, quando decise di festeggiare insieme a figli, nipoti e gli altri parenti i suoi 95 anni. Era il febbraio del 2016 quando convocò i suoi cari al Circolo Nautico di Torre del Greco per un pranzo al quale presero parte diversi amici politici della vecchia Democrazia Cristiana, in particolare della città vesuviana dove risiedeva. Per l'occasione fu presente anche il sindaco Ciro Borriello. I funerali di Ciro Cirillo si svolgeranno domani, lunedì 31 luglio, a Torre del Greco, alle ore 16.30 nella chiesa dei Carmelitani Scalzi a corso Vittorio Emanuele. Il rapimento Cirillo per anni è stato avvolto dal mistero. Una vicenda scomoda su cui i riflettori sono rimasti sempre bassi, fino al febbraio dell'anno scorso quando lo stesso Cirillo rilascia un'intervista alla tv svizzera italiana, per negare con decisione ogni trattativa finalizzata al suo rilascio da parte del boss ("Lo escludo, assolutamente") e allo stesso tempo per rimestare antiche accuse: "Ci fu un'istruttoria, da parte del giudice Carlo Alemi, che aveva un solo obiettivo, incastrare Antonio Gava, allora ministro dell’Interno".  Accuse  che il giudice ha prontamente ricusato, con un 'intervista all'Espresso: “Mi sembra incredibile che il dottor Cirillo abbia oggi fatto quelle affermazioni, totalmente discordanti peraltro con quanto affermò, in mia presenza ed al mio indirizzo, il 19 maggio 2008, all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, in occasione della presentazione del documentario “La trattativa” del programma Rai “La storia siamo noi”, allorché mi disse: “Anzi penso che mai come in questo momento avremmo tutti bisogno di magistrati coraggiosi e onesti come lei”. Intrecci mai chiariti e che ora con la morte di Cirillo tornano a infittirsi. Infatti in un'intervista a Repubblica, a firma di Giuseppe D'Avanzo, nel 2001 Cirillo disse di aver affidato la verità sul suo rapimento a un memoriale di una quarantina di pagine consegnato a un notaio con l'impegno di renderlo pubblico solo dopo la sua morte. Ma in una successiva intervista al Mattino ritrattò: "Dissi anche che lo avevo dato ad un notaio, che lo conservava in cassaforte. Non era vero. Ma quell'invenzione ebbe effetto, per un po' sono stato lasciato in pace dai giornalisti".

Rapimento Cirillo: le Br, Cutolo e la Dc. Così D'Avanzo raccontò la trattativa. E il suo clamoroso prezzo. L'articolo di Giuseppe D'Avanzo su Repubblica del primo febbraio 1985, di Giuseppe D'Avanzo, pubblicato su Repubblica il primo febbraio 1985. "Può dirsi sufficientemente provato che nelle trattative per il rilascio di Ciro Cirillo sono intervenuti esponenti democristiani ed esponenti dei servizi segreti". Il giudice istruttore di Napoli, Carlo Alemi, non ha dubbi. Nella lunga ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio dei brigatisti della colonna napoletana delle Br il magistrato affronta al capitolo nono "le trattative per il sequestro Cirillo". Soltanto tredici pagine, ma un rosario di testimonianze sufficienti a fargli chiedere un'ulteriore "approfondita istruttoria" per conoscere "l'esatto ruolo svolto dalla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo per il rilascio di Cirillo; l'intervento di esponenti di partiti politici che hanno fatto da tramite ed eventualmente da garanti tra le Br e Cutolo nello sviluppo della trattativa; il ruolo svolto durante i giorni del sequestro dai servizi segreti e se questo sia stato contenuto nell'ambito dei compiti istituzionali". Le tredici pagine, tuttavia, con le testimonianze dei brigatisti pentiti già disegnano lo scenario della trattativa, i suoi protagonisti, il prezzo che gli intermediari si dicevano pronti a pagare per la liberazione dell'assessore regionale Dc. E se il prezzo è clamoroso - forse fu offerta anche l'indicazione del luogo dove era custodito Patrizio Peci -, altrettanto clamoroso è l'unico nome di protagonista che salta fuori, Gava: nome sussurrato da tempo ma mai entrato finora in un'inchiesta giudiziaria. A vuotare il sacco sono stati Pasquale Aprea e Maria Rosaria Perna, i carcerieri di Cirillo nei due mesi della sua prigionia. "Nella prima decade di maggio - hanno raccontato - durante la fase in cui il sequestro andava politicamente malissimo, le Br con lo spostamento dei compagni detenuti ad Ascoli seppero che la camorra dietro pressioni di esponenti politici napoletani offriva per la liberazione di Cirillo 5 miliardi, armi a volontà, un elenco di magistrati napoletani con relativi indirizzi. Anzi si offriva di effettuare agguati ai danni di magistrati indicati dalle Brigate rosse". Antonio Chiocchi, uno dei fondatori della colonna napoletana, riferì in più occasioni ai due che "Gava era andato da Cutolo per trattare la liberazione di Cirillo presso le Brigate rosse". Silvio o Antonio Gava? Il magistrato non lo scrive. Inizialmente la trattativa si arena di fronte al rifiuto dei terroristi. Maurizio Stoccoro, un altro pentito, ha confermato di aver saputo da Giovanni Planzio, capo storico della colonna, "che Cutolo era intervenuto per sollecitare il rilascio di Cirillo in quanto alla camorra serviva che venissero allentati i posti di blocco della Polizia che ne impedivano tutti i traffici illeciti". "Cutolo ci offrì - ha raccontato Stoccoro - denaro, due o più miliardi, molte armi. Quante ne avessimo volute". Un'offerta che non interessò le Brigate rosse. L'attacco delle Br, infatti, - ha spiegato Stoccoro ai magistrati - era rivolto alla Dc proprio per dimostrare che mentre la Democrazia cristiana per Moro non aveva voluto trattare, aveva invece trattato per Cirillo". A maggio la trattativa ha una svolta. Comincia l'andirivieni di camorristi e brigatisti nel carcere di Ascoli Piceno e di Palmi. Giovanni Planzio ha detto ai giornalisti che "per Cirillo cominciarono a muoversi i servizi segreti". Con l'arrivo ad Ascoli Piceno degli uomini del colonnello Musumeci aumenta anche il prezzo offerto alle Brigate rosse. Intermediari Luigi Bosso, un delinquente comune politicizzatosi in carcere, e Sante Notarnicola. "Alle Brigate rosse - annota il giudice istruttore - viene offerto un grosso quantitativo di mitra, un elenco di carabinieri e di magistrati dell'antiguerriglia, l'indicazione del luogo in cui era custodito Patrizio Peci". Il superpentito delle Br era in quelle settimane - siamo nella primavera dell'81 - nelle mani delle squadre speciali del generale Dalla Chiesa. Chi dichiarò la disponibilità di far conoscere alle Brigate rosse il preziosissimo indirizzo? Gli omissis dell'ordinanza lasciano la domanda senza risposta. Ad avviare finalmente la trattativa fu Giovanni Senzani, il leader della colonna Napoli. Ha raccontato Maria Rosaria Aprea: "Una sera Senzani, entrando a casa, disse: "Qui ci facciamo pure i soldi". Antonio Chiocchi e Pasquale Aprea si ribellarono con asprezza al loro capo. Ma Senzani ribadì "la correttezza politica di tale richiesta". "Gli obiettivi politici - spiegò - sono stati raggiunti. La corresponsione di sussidi ai disoccupati, la smobilitazione della roulottopoli dei terremotati, la pubblicazione dei verbali di interrogatorio di Cirillo. E' giusto - conclude il criminologo - espropriare Cirillo, la sua famiglia, la Democrazia cristiana"". L'intera ricostruzione della trattativa è stata confermata da altri pentiti. Michele Galati, membro del direttivo della "colonna veneta" delle Br, nel carcere di Cuneo incontrò i brigatisti Moretti, Guagliardo, Franceschini. Il giudizio politico che espressero sulla trattativa fu lapidario. "Le Br - sostennero Moretti e Franceschini - non avevano alcun interesse ad un pagamento da parte di alcuni palazzinari napoletani ma puntarono immediatamente ad una trattativa che vedesse direttamente coinvolta la Dc". Enrico Fenzi, brigatista e cognato di Senzani, molto vicino al leader Mario Moretti, ha riferito, dal suo canto, ai giudici: "Moretti ripetè più di una volta che era venuto fuori e bisognava pur dirlo che se Cirillo non era stato ammazzato ciò era dovuto all'intervento di Cutolo". Testimonianze confermate dal maresciallo Angelo Incandela, comandante degli agenti di custodia del carcere di Cuneo: "Sì, il pentito Sanna ci tracciò tutto il quadro delle trattative intercorse tra servizi segreti, camorra e Brigate rosse al fine di ottenere la liberazione di Cirillo". E Luigi Bosso ha confermato, prima della sua morte improvvisa, che fu "Cutolo ad attribuirgli l'incarico di entrare in contatto con i brigatisti di Palmi, latore di questo messaggio: la Dc è disposta a trattare a tutti i livelli attraverso il canale di Cutolo".

E Cirillo disse a D'Avanzo: "La verità? E' dal notaio". L'assessore regionale Dc, sequestrato nel 1981 dalle Br e rilasciato dopo una trattativa che vide intermediario il boss camorrista Raffaele Cutolo, vent'anni dopo incontrò il giornalista. "Glielo dico subito, non le racconterò quello che so: non voglio farmi sparare. Ho scritto tutto in una quarantina di pagine. Dopo la mia morte si vedrà", di Giuseppe D'Avanzo, pubblicato su Repubblica il 12 aprile 2001. Ciro Cirillo, scatarrando come una locomotiva ("Mi sono raffreddato, maledizione"), viene giù con passo svelto dal piano superiore della villa bianca nel sole. Prende posto nell'angolo del divano bianco, oltre la tenda e la grande finestra c'è il mare di Napoli e, alle spalle, il Vesuvio. Ciro Cirillo, 80 anni, è vispo come un grillo. Ride, sorride, ammicca, allude, insinua, ricorda, omette, dissimula. Se il più crudo cinismo può essere bonario, Ciro Cirillo è un cinico bonario. Bonario soprattutto con se stesso. Si è appena seduto e subito la mette giù, bella chiara: "Signore mio, glielo dico subito, io non le racconterò la verità del mio sequestro. Quella, la tengo per me, anche se sono passati ormai venti anni. Sa che cosa ho fatto? Ho scritto tutto. Quella verità è in una quarantina di pagine che ho consegnato al notaio. Dopo la mia morte, si vedrà. Ora non voglio farmi sparare - a ottant'anni, poi! - per le cose che dico e che so di quel che è accaduto dentro e intorno al mio sequestro, dopo la mia liberazione...". Alle 21,45 del 27 aprile 1981 nel garage di via Cimaglia a Torre del Greco, Napoli, le Brigate Rosse sequestrano l'assessore regionale all'Urbanistica, Ciro Cirillo. Cinque persone lo attendono nell'oscurità e quando ne vengono fuori stanno già sparando. Muoiono Luigi Carbone, agente di scorta, Mario Cancello, autista. Ciro Cirillo fu prigioniero delle Brigate Rosse per ottantanove giorni. "Mi tenevano in una casetta di legno all'interno di un appartamento. C'era un lettino e un wc chimico. Ogni sera - ricorda Cirillo - arrivava il fiorentino, quel Senzani, e cominciava a soffocarmi di domande. C'era stato il terremoto, la Dc mi aveva messo alla testa della commissione tecnica per la ricostruzione e Senzani voleva da me 'i piani'. Dove tieni 'i piani'? Ce li hai a casa? Andiamo a prenderli! Come se i piani fossero già pronti. Che gli dovevo dire? Che io nemmeno volevo fare l'assessore all'urbanistica? Era vero, finii lì controvoglia, a sapere che cosa mi sarebbe successo... Dunque, quello mi interrogava e io rispondevo il meno possibile. Facevo il fesso. Tu, mi diceva Senzani, sei il punto di riferimento di questo regime e io non capivo nemmeno di quale regime parlasse. Mi diceva: noi abbiamo visto che, con l'uccisione di Aldo Moro, non abbiamo avuto il rivolgimento che ci aspettavamo e abbiamo deciso di cambiare area, obiettivo e metodo. Il metodo era di cavare i soldi di un riscatto dal mio sequestro. Cominciarono a chiedermi quanti soldi avessi. Io, di soldi, non avevo poi tanti. Sì e no, una cinquantina di milioni al Banco di Napoli. E gli amici? - mi chiedevano i brigatisti - Quanto ti possono dare gli amici politici, gli amici imprenditori? Ma quali imprenditori, dicevo io...". Negli atti, non è questa la storia. Ciro Cirillo indica ai figli gli "amici" che gli devono un favore. Per quel tale mi sono "interessato", a quell'altro ricordategli dell'appalto, a quell'altro poi ditegli di quel mio "intervento". Ciro Cirillo nella "casetta di legno" butta giù una lista di nomi. Albino Bacci, Bruno Brancaccio, Italo Della Morte, Michele Principe, presidente della Stet... Sono lunghe quelle notti nella casa di Antonio Gava sulla collina di Posillipo. Don Antonio li convoca. Gli imprenditori accorrono e si sistemano intorno al tavolo nel Cubo. Il Cubo è bianco, gigantesco, piazzato al centro del salone e protetto da due porte scorrevoli. Antonio Gava di tanto in tanto si allontana per ricevere un giornalista, per parlare con il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani e li lascià lì a fare i conti di quel che possono dare o devono dare. Tutti gli imprenditori edili napoletani che avevano partecipato al sacco della città negli Anni Cinquanta e Sessanta, legati a cappio doppio alla Dc di Antonio Gava, mettono mano al portafoglio e partecipano alla "colletta". Saranno ripagati per quel gesto di solidarietà e si taglieranno, al momento opportuno, una bella fetta nella torta della ricostruzione. Ciro Cirillo ha bevuto il suo caffè. Ora si guarda intorno soddisfatto mentre si sistema più comodamente nell'angolo del divano. "Sa che cosa mi chiedo qualche volta? Mi chiedo: a chi devi ringraziare, Ciro? Sa come rispondo? Ciro, tu non devi ringraziare nessuno perché - glielo voglio dire - quelli là, gli imprenditori mica hanno fatto grandi sacrifici. Glien'è venuto solo bene ad aiutarmi. Tanto bene e tanti affari". I soldi degli imprenditori era necessari, ma non potevano essere sufficienti. Chi avrebbe convinto i brigatisti a intascare il denaro e a lasciar libero il prigioniero? C'era un solo uomo che aveva quel potere, pensano i dorotei. Quell'uomo era in carcere ad Ascoli Piceno e si chiamava Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata. A sedici ore dal sequestro, nel carcere di Ascoli Piceno si presenta un uomo del Sisde. E' solo la prima di una lunga teoria di visite illegali, non autorizzate, segrete. Dinanzi al camorrista sfileranno spioni, camorristi latitanti, "ambasciatori" delle Brigate Rosse, "due uomini politici di livello nazionale". Cutolo fa il prezioso, si lascia pregare e implorare. Chiede sconti di pena per i suoi, per sé perizie psichiatriche per venir fuori dalla galera, vuole appalti della ricostruzione a vantaggio delle imprese che controlla e qualche miliarduccio per la mediazione. Gli dicono: "Tranquillo, entro due o tre anni uscirai...". Cutolo ricorda: "Mi è stato promesso che sarei uscito dal carcere. Mi fecero balenare la possibilità formale della scarcerazione...". Incassato il "premio" per il presente e assicurazioni per il futuro, il camorrista offre alle Br "soldi, armi e una lista di indirizzi per eseguire le condanne a morte di magistrati antiterrorismo e un elenco di esponenti delle forze dell'ordine". Quel che soltanto nel 1978 la Dc e lo Stato si erano rifiutati di accettare per uno statista del livello di Aldo Moro, decretandone - come sostiene oggi Francesco Cossiga - la morte, va in porto per Ciro Cirillo. Il riscatto venne pagato. Senzani intasca su un bus di Roma 1 miliardo e 450 milioni. Cutolo sdegnato dice di aver rifiutato la tangente. I suoi lo contraddicono: "Si mise in tasca una cifra che oscillò tra i 2 miliardi e 800 milioni al miliardo e mezzo". All'alba del 24 luglio 1981, Ciro Cirillo viene rilasciato in un palazzo abbandonato in via Stadera a Poggioreale. Ciro Cirillo non appare imbarazzato. Non c'è nessuna incertezza nella sua voce, nessun dubbio nelle sue parole. Si attende la domanda. Deve essere una domanda che in questi venti anni si sarà sentito fare mille volte. Ha imparato a fronteggiarla anche se, a quanto pare, sembra gradirla come una pernacchia. "Ora a questo punto, signore mio, lei mi chiederà: perché per Moro la fermezza e per lei la trattativa? Me la faccia. So che deve farmela. E allora me la faccio da solo perché conosco la risposta: la Dc non poteva tollerare altro sangue, non avrebbe sopportato un altro esponente di prima fila morto ammazzato dai terroristi. Così il segretario del partito Flaminio Piccoli e il mio amico Antonio Gava decisero di darsi da fare. Non creda alla chiacchiere sulla trattativa con Cutolo. Fu Cutolo a farsi avanti. Gli affari della camorra, con tutta quella polizia nelle strade, stavano andando a rotoli. E allora meglio offrire un aiuto e darci un taglio a quella storia". Ciro Cirillo dice proprio così, lo dice con una soddisfazione che gli fa luccicare gli occhi. Le Br non dissiparono il gruzzolo del riscatto. Si armarono meglio. Uccisero. Nel primo anniversario del sequestro di Cirillo, il 28 aprile 1983, ammazzarono Raffaele Delcogliano, assessore campano alla formazione professionale. Lo uccisero con il suo autista, Aldo Iermano. Il 28 luglio 1982, spararono in faccia al capo della squadra mobile di Napoli, Antonio Ammaturo e al suo autista, Pasquale Paola. Assaltarono due caserme dell'Esercito. Ci rimisero la vita un soldato di leva, Antonio Palumbo, e due agenti di polizia, Antonio Bandiera e Mario De Marco. Nella camorra per due anni si scatenò la più violenta guerra della sua storia scandita da mille morti all'anno. I rivali di Cutolo videro nel patto stretto dal camorrista con i politici e gli imprenditori una definitiva minaccia per il loro potere e affari e partirono all'attacco sterminando sistematicamente gli uomini della Nuova Camorra Organizzata, minacciando i dorotei campani per goderne dei favori, assediando gli imprenditori per sciogliere il nodo che li legava a Cutolo. "Se vuole sapere come andò dopo, glielo dico...". Ciro Cirillo è un fiume in piena. "La verità è che io sono stato umiliato, mortificato. Perché? E me lo chiede. Ero sulla cresta dell'onda. Sarei diventato ancora presidente della Regione. Avrei gestito la ricostruzione della regione. Sarei stato eletto in Parlamento. Avrei fatto il ministro. Beh, quanto meno il sottosegretario. Invece accadde che dopo la liberazione mi fecero sapere che era meglio che non mi facessi più vedere alle riunioni di partito. Nomi non ne faccio, no. Sono personaggi in auge e nomi non ne faccio. Comunque, uno di questi signori mi avvicina e mi dice: “Ciro, con la tua presenza nuoci al partito...”. Capito, a me che per un soffio non ero stato accoppato dalle Br, dicono: fatti più in là, sparisci. No, non li odio. Certo, non posso considerare i Popolari di oggi dei miei amici". Il 16 marzo 1982 l'Unità pubblica in prima pagina la notizia che per la liberazione di Cirillo erano stati coinvolti i vertici dei servizi segreti e il capo della camorra Cutolo. E' la verità sostanziale affondata dalla falsità del documento che la raccoglie. Lo scoop è l'inizio della più imponente operazione di cancellazione di prove e di morte di testimoni che abbia mai funestato un caso politico-giudiziario. Muoiono i latitanti che trattarono dentro e fuori il carcere per conto di Cutolo. Muoiono gli ufficiali dei servizi segreti che accompagnarono la trattativa. Muore l'avvocato di Cutolo che faceva da messaggero. Muore l'ambasciatore delle Brigate Rosse. Muoiono suicidi i compagni di cella del camorrista. Le Brigate Rosse si incaricano di ammazzare Antonio Ammaturo che aveva ricostruito la vicenda in un dossier spedito al Viminale e scomparso per sempre. Nonostante le difficoltà, il giudice istruttore Carlo Alemi, il 28 luglio 1988 deposita la sua ordinanza di rinvio a giudizio e scrive delle trattativa e del "patto scellerato" stretto dalla Dc con la camorra. Antonio Gava è il ministro degli Interni della Repubblica nel governo presieduto da Ciriaco De Mita. Che tuonerà: "Alemi è un giudice che si è posto fuori del circuito istituzionale" (Alemi è un uomo gentile e riservato. E lo è rimasto anche dinanzi alla persecuzione e i processi disciplinari che ha dovuto subire per quella sua indagine. Oggi è presidente del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere). E' a suo agio Ciro Cirillo quando parla del processo. "Quello non era un processo, fu un tentativo di mettere in difficoltà il mio amico Antonio Gava. Lei sa che cosa disse la sentenza? Disse: “E' stato impossibile accertare la verità”. Vede che quei quaranta fogli che ho lasciato nella cassaforte del mio notaio, prima o poi, torneranno utili?"

Chi trattò con la camorra per salvare Cirillo? Forse nessuno, scrive Paolo Comi l'1 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Il vecchio assessore democristiano è morto domenica a 96 anni. Fu al centro di un mistero mai risolto e di gigantesche polemiche. A 96 anni, domenica, è morto Ciro Cirillo, gran democristiano anni 70 in Campania. Aveva sessant’anni, il 21 aprile del 1981, quando un commando delle Br lo aspettò sotto casa, a Torre del Greco, la sera, all’ora di cena, e appena la sua auto si fermò, il commando iniziò a sparare, come si faceva in quegli anni. Restarono sull’asfalto, morti stecchiti, il suo autista e la guardia del copro, un maresciallo dei carabinieri. Mentre il suo segretario particolare, un ragazzo di trent’anni, si salvò, ma con la gamba maciullata. Lui restò illeso. I brigatisti lo sollevarono di peso, lo gettarono nel cassone d’un furgone e lo portarono nella prigione del popolo. Li guidava un certo Giovanni Senzani, che era stato un consulente del ministero di giustizia, era uno studioso, un sociologo. Ala militarista delle Br. Da quel giorno iniziarono mesi di fuoco, paragonabili forse solo ai due mesi di tre anni primi, quelli celebri del rapimento di Aldo Moro nel 1978. Diamo un’occhiata alle date che separano l’inizio di aprile all’inizio di agosto del 1981. 4 aprile, notte, una strada di periferia a Milano, al polizia intercetta Mario Moretti ed il professor Enrico Fenzi che stanno andando a trovare un esponente della mala che loro non sanno essere un confidente della questura. Moretti e Fenzi vengono bloccati, immobilizzati e disarmati. Moretti è considerato il capo assoluto delle Br, l’erede di Curcio, il cervello del sequestro Moro e anche l’uomo che ha sparato al presidente della Dc. Fenzi è uno dei leader dell’ala militare delle Br, e Moretti è in lite con lui. Fatto sta che le Br sono decapitate. Prendono il comando Barbara Balzerani, che guida i movimentisti, e, appunto, Senzani del quale abbiamo già parlato come leader dei militaristi. Però tutto si può dire meno che l’arresto di Moretti abbia indebolito l’organizzazione. Passano poco più di due settimane dal colpo a favore della polizia e Senzani risponde. 21 aprile, rapito Ciro Cirillo. 20 maggio, Porto Marghera, un commando, pare guidato da Antonio Savasta, entra in casa di un dirigente del Petrolchimico della Montedison, un certo Giuseppe Taliercio, e se lo porta via. Due settimane dopo un altro dirigente d’azienda, Renzo Sandrucci, uomo Alfa Romeo, viene sequestrato a Milano. È il 3 giugno. La settimana successiva, il 10 giugno, tocca a a Roberto Peci, che è il fratello di Patrizio Peci, il primo pentito della storia delle Br. Roberto non ha neanche 30 anni. Il suo rapimento è una vendetta trasversale. A questo punto le Brigate Rosse si trovano ad avere contemporaneamente nelle loro mani quattro prigionieri. Un giorno sì e uno no arrivano proclami, dichiarazioni, confessioni, fotografie, richieste di riscatto. E le azioni militari non si limitano alla gestione delle prigioni del popolo e agli interrogatori. Si spara, si ferisce, si uccide per strada. Negli stessi giorni dei quattro rapimenti vengono uccisi Raffaele Cinotti, Mario Cancello, Luigi Carbone, Sebastiano Vinci. Ciascuno in un giorno diverso e in un luogo diverso: tutti e quattro poliziotti. Era quello il clima in quegli anni. Non è facile crederci, magari, ma la lotta politica avveniva in questo clima qui. Eppure non prevaleva la pulsione repressiva, illiberale. Pensate che in quegli stessi anni il Parlamento approvava le leggi- Gozzini, e cioè una serie di norme, che oggi vengono considerate dai più ultraliberali, che attenuano le pene, introducono premi e semilibertà e misure alternative al carcere…

I quattro sequestri hanno esiti diversi. Il 5 luglio si conclude tragicamente il sequestro di Taliercio. L’ingegnere viene ucciso in modo barbaro. L’autopsia stabilisce che era ferito, aveva dei denti rotti e non mangiava da cinque giorni. Taliercio si era rifiutato di collaborare, probabilmente aveva mantenuto un atteggiamento di sfida. Il processo per la sua morte si concluderà con tre condanne all’ergastolo per tre brigatisti poco conosciuti, mentre il leader della colonna, il romano Antonio Savasta, che collabora con gli inquirenti, se la cava con dieci anni. Il nome di Taliercio, chissà perché, scompare dal Pantheon degli eroi di quegli anni. Non so quanti siano gli italiani che oggi, se gli chiedi a bruciapelo chi era Taliercio, sono in grado di rispondere. Temo poche centinaia. Il 23 e il 24 luglio, nel giro di poche ore, si concludono positivamente il sequestro Sandrucci e quello Cirillo. Vengono liberati tutti e due. Per tutti e due è stato pagato un riscatto. Pochi giorni dopo, il 3 agosto, la notizia atroce dell’uccisione di Roberto Peci, che ha una figlioletta di un anno, viene processato dal tribunale dei terroristi davanti a una telecamera, e poi, davanti alla telecamera, ucciso con una mitraglietta. La cassetta di questo obbrobrio viene mandata ai giornali. Di suo fratello Patrizio, che era l’obiettivo di questa spietatezza, non si saprà mai più niente. Ha cambiato nome, ha cambiato connotati – pare – con una operazione di chirurgia plastica, vive in una località sconosciuta. Ora dovrebbe avere un po’ meno di settant’anni. Di come si sia ottenuta la liberazione di Sandrucci non si sa molto e non si parla molto. La liberazione di Cirillo invece solleva un pandemonio di polemiche. Questo Cirillo è l’ex presidente della Regione, è un uomo forte della cosiddetta corrente del Golfo, cioè quella corrente democristiana che fa capo ad Antonio Gava e che è il braccio napoletano dei dorotei. Cirillo, al momento del sequestro, è l’assessore all’urbanistica della Campania e si occupa dell’immenso affare della ricostruzione dopo il terremoto del 1980. I giornali raccontano che per liberarlo, il suo partito, che appena tre anni prima non ha voluto trattare con le Br per salvare Moro, ha trattato invece, eccome, non solo con le Br ma anche con la camorra di Raffaele Cutolo che avrebbe fatto da intermediaria. Non si saprà mai se è vero. Si sa che un riscatto di un miliardo e 400 milioni di lire (cifra molto alta per quell’epoca, quando un’automobile di media cilindrata costava circa quattro-cinque milioni) è stato pagato a Roma, il 21 luglio, all’interno di un tram (il numero 19) che va dalla stazione Termini a Centocelle. I soldi li porta in un borsone un amico di Cirillo e li consegna a Giovanni Senzani in persona, che acchiappa la borsa, scende al volo da un tram e vola via con una Fiat 128 che lo aspetta alla fermata. La Dc raccolse i soldi? Il segretario democristiano Flaminio Piccoli sapeva? E Antonio Gava?

L’anno dopo l’Unità, cioè il giornale del Pci, pubblica uno scoop clamoroso: è stato il ministro Vincenzo Scotti in persona a trattare con la camorra, anzi è andato personalmente in carcere a discutere con Raffaele Cutolo. E’ una bomba atomica sulla politica italiana. Ma poche ore dopo l’uscita del giornale si scopre che il documento che accusa Scotti è falso. E’ una contraffazione realizzata da un certo Gino Rotondi (che non si saprà mai se lavorava per la camorra, o per i servizi segreti, o se era un mitomane) che la consegna a una giovanissima cronista del giornale dei comunisti. Lo scandalo a quel punto si rovescia e travolge tutti i dirigenti dell’Unità, a partire dal direttore, il giovane Claudio Petruccioli, che si dimette dopo poche ore, e persino qualche dirigente del Pci, e precisamente il vice di Berlinguer, Alessandro Natta, che si dimette anche lui dal suo incarico. Il capogruppo Giorgio Napolitano prende la parola alla Camera e chiede scusa a nome del partito e del giornale. Allora le cose andavano così, a voi verrà da sorridere ma è la verità: se un giornale pubblicava una notizia falsa (cosa che oggi avviene quasi tutti i giorni su moltissimi giornali) poi era un casino e addirittura il direttore ci rimetteva il posto. Non potevi neppure mettere in pagina delle intercettazioni un pop’ contraffatte, perché rischiavi grosso…Il caso Cirillo finì così. La Dc se la cavò. Nessuno mai seppe la verità. Recentemente Giovanni Senzani – che oggi è libero e un paio d’anni fa ha presentato un suo film, pare piuttosto bello, a Locarno – in una intervista al “Garantista” ha giurato che non ci fu nessuna trattativa né con la camorra né con la Dc. Che pagarono i parenti di Cirillo. Lui, Cirillo, una volta libero fu costretto a ritirarsi dalla politica. In un’intervista a Repubblica disse che la verità l’aveva detta a un notaio e che sarebbe diventata pubblica dopo la sua morte, Cioè ora. Poi però smentì, e disse che non c’era nessun segreto. Adesso aspettiamo un paio di giorni per vedere se esce fuori ‘ sto notaio. Altrimenti ci dovremo rassegnare all’idea che probabilmente furono davvero i parenti di Cirillo a tirare fuori il miliardo e rotti e che la Dc non c’entrava niente.

IL MISTERO DI MINO PECORELLI.

Che senso ha vietare a uno stragista i funerali della figlia? Niente permesso per i funerali della figlia a Maurizio Tramonte, condannato all’ergastolo per la strage di Piazza della Loggia, scrive Damiano Aliprandi il 21 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Ieri non ha potuto assistere al funerale della figlia di 18 anni Magda Francesca Nyczak, morta nel sonno giovedì scorso. Parliamo di Maurizio Tramonte, che sta scontando l’ergastolo per la strage di Piazza della Loggia a Brescia. Un permesso negato, quello nei confronti dell’ex informatore dei Servizi che sta scontando la condanna al carcere di Fossombrone. «Non hai mai odiato né invidiato. La tua onestà e la tua semplicità sono sempre state la tua ricchezza ed è questo che ci lasci in eredità», sono le parole di Maurizio Tramonte che sono riecheggiate ieri nella chiesa di Sant’Andrea a Concesio durante le esequie. Ha potuto mandare solo questa lettera, senza essere presente. Nel suo messaggio ha ricordato il giorno della nascita di Magda Francesca e di come «nel silenzio del sonno e senza disturbare ti sei ritrasformata nella più lucente stella». E poi: «Franci, la tua vita è stata breve ma non sei stata una meteora. Il tuo affetto, i tuoi sorrisi, la tua luce e la tua semplicità rimarranno nel mio cuore. Arrivederci tesoro mio». Una decisione, quella del permesso negato, che ha trovato disapprovazione anche da parte di Manlio Milani, presidente dell’Associazione Vittime della Strage e marito di una delle vittime. «Non condivido la decisione – ha spiegato Milani – di non concedere a Maurizio Tramonte di partecipare alle esequie di sua figlia adottiva. A un padre, come in questo caso, non può essere negata la possibilità di assistere al seppellimento della figlia». Parole, quelle del presidente dell’associazione vittime della strage che colpiscono al cuore di uno Stato diventato sempre più cinico. «Ci sono occasioni – ha concluso Milani – per compiere gesti umani che uno Stato democratico dovrebbe sempre rispettare anche nei confronti di chi ha commesso reati». Eppure anche gli ergastolani, così come anche nei confronti di chi rientra nel 41 bis, hanno il diritto al permesso di necessità. Non mancano sentenze della Cassazione, come quella riguardante un detenuto al 41 bis al quale morì un fratello, fissando il principio di diritto per cui: «Rientra nella nozione di evento familiare di particolare gravità eccezionalmente idoneo, ai sensi dell’articolo 30 secondo comma della legge 254 del 26 luglio 1975, a consentire la concessione del permesso di necessità, la morte di un fratello in conseguenza della quale il detenuto richieda la possibilità di unirsi al dolore familiare, in questo risolvendosi la sua espressa volontà di pregare sulla sua tomba, giacché fatto idoneo a umanizzare la pena in espiazione e a contribuire alla sua funzione rieducativa». Quando innescò l’ordigno di Brescia, Maurizio Tramonte aveva solo 21 anni ma già poteva contare diversi anni di militanza nel movimento neofascista di Ordine Nuovo, nato nel dicembre 1969 pochi giorni dopo la strage di Piazza Fontana a Milano. Originario di Camposampiero, paese alle porte di Padova dove era nato nel 1952, Tramonte è attivista dell’Msi sin dalla prima adolescenza. Dopo la militanza nell’estrema destra parlamentare di Ordine Nuovo a cavallo tra gli anni ‘ 60 e ‘ 70 sarebbe entrato in contatto con i settori deviati dei servizi segreti del Sid (Servizio informazione difesa), di cui diviene informatore con il nome in codice ‘ Tritone’. Con questo ruolo Tramonte avrebbe innescato l’ordigno a Brescia, mischiandosi tra la folla della manifestazione sindacale indetta quel giorno di 43 anni fa. Poco dopo la strage si trasferisce a Matera, terminando l’attività di informatore ed iniziando una serie di attività imprenditoriali che lo porteranno a guai giudiziari per bancarotta, finendo ai domiciliari all’inizio degli anni 90. Solo nel 1993, a quasi vent’anni dalla strage di Piazza della Loggia, sarà interrogato per il suo ruolo di esecutore materiale dell’attentato terroristico di Brescia. L’iter giudiziario lo vedrà imputato assieme al mandante, il neofascista Carlo Maria Maggi. Inizialmente assolto nei primi due gradi di giudizio, Tramonte sarà condannato in via definitiva nel 2015 dopo che la Cassazione aveva istruito un nuovo processo, durante il quale una complessa perizia antropologica lo aveva riconosciuto in un’istantanea scattata accanto al cadavere di una delle vittime. La sentenza che lo condanna all’ergastolo arriva nel giugno 2017. Pochi giorni prima Tramonte era andato in Portogallo attraverso la Francia e la Spagna. Viene arrestato a dicembre del 2017 a Fatima, durante una visita al Santuario. Maurizio Tramonte si dichiara però ancora innocente.

Omicidio Pecorelli, procura Roma avvia nuova indagine. I pm della capitale hanno affidato alla Digos l'incarico di svolgere nuovi accertamenti. La richiesta di riapertura era stata avanzata dalla sorella del giornalista, ucciso quasi 40 anni fa, il 20 marzo del 1979, scrive il 5 marzo 2019 La Repubblica. La procura di Roma ha avviato una nuova indagine sull'omicidio di Mino Pecorelli, il giornalista ucciso nella capitale il 20 marzo 1979. A chiedere la riapertura era stata alcune settimane fa la sorella di Pecorelli. I magistrati romani hanno affidato agli uomini della Digos l'incarico di svolgere una serie di accertamenti preliminari dopo l'istanza depositata negli uffici della Procura da Rosita Pecorelli il 17 gennaio scorso. Il legale della donna, Valter Biscotti, chiedeva ai pm di avviare nuovi accertamenti balistici su alcune armi che furono sequestrate a Monza nel 1995 ad un soggetto in passato esponente di Avanguardia Nazionale. Si tratta, tra le altre, di una pistola Beretta 765 e di quattro silenziatori artigianali. Nella richiesta finita all'attenzione dei pm si fa riferimento anche ad una dichiarazione che l'estremista di destra Vincenzo Vinciguerra fece nel 1992 all'allora giudice istruttore Guido Salvini. Vinciguerra sosteneva di aver sentito un dialogo in carcere tra due militanti di estrema destra in cui si affermava che l'uomo poi arrestato tre anni dopo a Monza aveva in custodia la pistola usata per uccidere il giornalista. Il caso Pecorelli, dal punto di vista processuale, è chiuso dal 30 ottobre 2003, quando la Cassazione assolse definitivamente Giulio Andreotti dall'accusa di essere il mandante. In primo grado, il 24 settembre del 1999, il sette volte presidente del consiglio fu assolto per non aver commesso il fatto assieme agli altri presunti mandanti Gaetano Badalamenti, Claudio Vitalone, Pippo Calò e a due imputati accusati di essere gli esecutori materiali del delitto, cioè Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera. Il 17 novembre del 2002, in appello, invece, fu confermata l'assoluzione per tutti ad eccezione di Andreotti e Badalamenti che vennero condannati a 24 anni di reclusione. Condanna che la Suprema Corte spazzò via annullando senza rinvio la sentenza di secondo grado.

L’omicidio dimenticato: Mino Pecorelli, scrive Valter Vecellio il 20 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Il giornalista viene ammazzato la sera del 20 marzo a Roma, il processo in cui sono imputati anche Andreotti e la banda della Magliana vede tutti assolti. La sera del 20 marzo di 39 anni fa, viene ucciso a Roma, in via Orazio, poco prima delle 20,40, Mino Pecorelli. È il direttore di un settimanale Osservatore Politico, da tutti conosciuto (e avidamente letto) come OP. Il lungo iter giudiziario si conclude con la piena assoluzione degli imputati, tra cui Andreotti. Il delitto Pecorelli resta senza colpevoli. Ne abbiamo scritte e dette di ogni tipo, in questi giorni, sull’Affaire Moro, profittando del 40 anniversario della strage a via Fani. In questo oceano di parole, dove tutti hanno ricordato, rievocato, raccontato, interpretato, si registrano anche dei vuoti. Uno, clamoroso – ma ci si potrà tornare, ne vale, letteralmente, la pena – la furibonda polemica che si accende in generale attorno al distorto slogan “Né con lo Stato, né con le Br”, malevolmente attribuito come paternità, a Leonardo Sciascia: che mai ha detto quelle cose e le ha pensate. Occasione- pretesto per una lacerante polemica: quel che si sostiene e scrive (e si fa) attorno alle lettere che Aldo Moro in quei 55 giorni del sequestro e prima d’essere ucciso, merita d’essere pensato e ripensato. Ma nessuno si è ricordato (e ha riconosciuto) che Sciascia con il suo L’Affaire Moro (da tanti criticato e contestato, senza neppure averlo letto, due per tutti: Eugenio Scalfari e Indro Montanelli), aveva visto giusto, e soprattutto ha avuto il torto di avere ragione. Quelle lettere erano Moro, con quello che ne consegue. Ma oggi c’è un altro clamoroso “vuoto” con cui in qualche modo occorre fare i conti. La sera del 20 marzo di 39 anni fa, viene ucciso a Roma, in via Orazio, poco prima delle 20,40, un giornalista. L’assassino, o gli assassini, lo sorprendono a bordo della sua automobile, e lo crivellano con quattro colpi di pistola. Quel giornalista si chiama Mino Pecorelli, ed è il direttore di un settimanale Osservatore Politico, da tutti conosciuto ( e avidamente letto) come OP. Chi è Pecorelli all’epoca lo sapevano tutti gli addetti ai lavori (oggi, magari un po’ meno; per dire: nelle rievocazioni dei giornalisti uccisi, il suo nome non figura mai, eppure il tesserino rosso in tasca l’aveva lui pure. E che il suo non sia stato un suicidio, è sicuro…). Negli atti processuali, Pecorelli viene così descritto: «… Era uno spregiudicato e scanzonato avventuriero della notizia. Le sue allusioni più o meno decifrabili, la sua ironia, il suo sarcasmo talvolta incisivo ed elegante, talvolta greve e becero, disegnano la traccia di una personalità complessa ma, tutto sommato, ben delineabile. La traccia di una passione civile affermata con troppo chiari accenti di sincerità per non essere autentica, anche se posta al servizio di valori e di scelte discutibili. Una passione civile nella quale sopravvive lo spirito di avventura che lo aveva portato, a sedici anni, a combattere con le truppe polacche inquadrate nell’esercito inglese. E poi, il gusto di infastidire i potenti, di svelarne le meschinità piccole e grandi, di incrinarne la facciata impeccabilmente virtuosa. Soprattutto, come abbiamo detto, una personalità ingovernabile». Per tanti, se no per tutti, Pecorelli s’era fatta fama di “ricattatore”. Il non lieve particolare, è che non è morto lasciando particolari proprietà e “beni”. Certamente avrà cercato finanziamenti e sostegni, finalizzati alla sopravvivenza della sua rivista, di cui era anche editore. Certamente avrà pubblicato documenti e “materiali” che a qualcuno conveniva fossero pubblicati e resi noti. Un do ut des che ben conosce, e quasi sempre pratica, chi per mestiere frequenta aule di tribunale e palazzi del potere. Certamente Pecorelli dispone di ottimi contatti ed “entrature” nel mondo non solo dei servizi segreti, ma di coloro che “sanno”; ha una quantità di materiali e li pubblica. Non è insomma persona “comoda” per tanti, prova ne sia che a forza di “incomodare”, finisce come è finito. Perché Pecorelli merita d’essere ricordato, e qualcuno ancora oggi si adopera perché non lo sia? In soccorso vengono ancora gli atti processuali: «La lettura della collezione di OP nel periodo marzo 1978- marzo 1979 rafforza il convincimento che grazie ai suoi collegamenti… fosse a conoscenza di inquietanti retroscena o accreditandosi dinanzi ai lettori – forse a qualcuno in particolare – quale depositario di “riservatissime” informazioni. Sta di fatto che OP è stato l’unico organo di stampa a pubblicare, nella fase del sequestro, alcune lettere di Moro ai propri familiari… Grazie alle sue indiscusse entrature negli ambienti del Viminale e della Questura di Roma era dunque riuscito a procurarsi copia di quel carteggio epistolare…». C’è tantissimo altro (e di altro interessante, e che merita di essere letto e riletto con gli occhi e il senno dell’oggi) nelle duecentomila pagine chiuse in 400 faldoni del processo Pecorelli celebrato a Perugia; un labirinto di carte meritoriamente conservato e digitalizzato nell’Archivio di Stato di Perugia: uno spaccato di Italia di “ieri” e la cui ombra ancora si profila sull’ “oggi”. Un filo d’Arianna in questo labirinto viene da un recente libro, Il Divo e il giornalista scritto a quattro mani da Alvaro Fiorucci e Raffaele Guadagno (Morlacchi editore, pp. 377, 15 euro). Fiorucci è forse il giornalista che più di ogni altro può citare a memoria quella babele di carte. Cronista prima di Paese Sera, poi di Repubblica, per anni ha retto la sede della Rai di Perugia, e in questa veste ha seguito tutte le udienze di quel tormentato processo che ha visto sul banco degli imputati Giulio Andreotti, e Claudio Vitalone “mescolati” a mafiosi del calibro di Gaetano Badalamenti e Giuseppe Calò, un Massimo Carminati all’epoca giovane militante della destra estrema, ed elementi della Banda della Magliana. Guadagno, impiegato al ministero della Giustizia, in virtù del suo lavoro ha preso parte alle attività processuali, raccolto e catalogato quel mare di carte e certamente le conosce e sa “leggerle” come pochi. Il lungo iter giudiziario, va ricordato, si conclude con la piena assoluzione degli imputati. Il delitto Pecorelli resta senza colpevoli. Assolti coloro che venivano indicati come esecutori, assolti coloro che venivano indicati come mandanti. Ma, ricorda il procuratore di allora Fausto Cardella, «le carte restano per chi voglia conoscere un pezzo della nostra storia, ancora da scrivere». Il valore del certosino lavoro dei due autori consiste in una puntuale ricostruzione di una sconcertante successione di episodi e di fatti che hanno “segnato” la nostra storia recente. Una zona oscura e buia nella quale le nostre istituzioni hanno rischiato di perdersi. Fiorucci e Guadagno le elencano, e ogni “capitolo” parla: “Il memoriale di Aldo Moro scomparso”, lo scandalo Italcasse, le banche e gli “affari” di Michele Sindona, la truffa dei petroli… Sono tutte vicende che vedono Pecorelli e la sua OP protagonista, nel senso che pubblicano e rendono note indicibili verità, che tanti avevano interesse a tenere nascoste. Sullo sfondo, la eterna strategia della tensione a fini stabilizzatrici, gli anni di piombo, la vicenda Gladio, il terrorismo rosso e lo stragismo nero, le stragi e gli attentati della Cosa Nostra, i servizi che sempre si definiscono “deviati”, ma che erano (e presumibilmente sono) appunto quelli che chiamati a svolgere lavori sporchi… Pecorelli e il suo delitto sono parte integrante, dicono i due autori, di «un melting-pot che ribolle per più di un ventennio. C’è tutto questo nella sintesi dei processi per l’omicidio di un giornalista scomodo». Il libro è stato presentato ad Assisi, nell’ambito della prima edizione di “Tra me Giallo Fest”, dicono gli osservatori che l’appuntamento è stato tra quelli che ha riscosso maggior successo. Indicativo, che a un evento dedicato al “giallo” abbia suscitato maggior interesse una storia vera che sembra inventata, rispetto a tante altre storie inventate che posson sembrare vere.

«Tirate fuori quella pistola: voglio la verità su Mino». La sorella Rosita Pecorelli, 84 anni, chiede la riapertura delle indagini sull’omicidio del giornalista, scrive Simona Musco il 18 gennaio 2019 su "Il Dubbio". «C’è un appiglio ed io mi aggrappo». Rosita Pecorelli sta lasciando Piazzale Clodio assieme all’avvocato Valter Biscotti quando, con una foto del fratello tra le mani, pronuncia queste parole. Quaranta anni dopo l’omicidio di suo fratello Mino, giornalista scomodo ucciso in circostanze mai chiarite il 20 marzo 1979, i due si sono presentati in Procura a Roma, chiedendo la riapertura del caso. Un’istanza presentata sulla base di una vecchia dichiarazione di Vincenzo Vinciguerra, ex membro dei movimenti neo- fascisti Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo – all’ergastolo per l’uccisione di tre carabinieri nella strage di Peteano del 1972 – che nel 1992 fece il nome di colui che, a suo dire, conservava l’arma di quel delitto: l’avanguardista Domenico Magnetta. Quella dichiarazione nell’immediatezza, non portò a nulla. Ma il ritrovamento di alcune armi in suo possesso, tre anni dopo, potrebbe ora portare ad una svolta nella vicenda. Quel verbale è stato rispolverato dalla giornalista Raffaella Fanelli il 5 dicembre scorso ed è proprio da un suo articolo che Rosita Pecorelli ha tratto spunto per chiedere la riapertura del caso. Si tratta di dichiarazioni risalenti al 27 marzo 1992: Vinciguerra parla di una pistola, una calibro 7.65, l’arma usata per uccidere il giornalista. «Il Tilgher – si legge nel verbale – mi disse che Magnetta (vicino a Massimo Carminati, l’ex Nar processato e assolto per l’omicidio Pecorelli, ndr) si stava comportando male in quanto gli aveva fatto sapere che o veniva aiutato ad uscire dal carcere o lui avrebbe consegnato le armi in suo possesso, fra cui la pistola che era stata utilizzata per uccidere il giornalista Mino Pecorelli». Un verbale conservato in un fascicolo sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, raccolto dal magistrato Guido Salvini, giudice istruttore negli anni di piombo. Vinciguerra fa riferimento a due avanguardisti con cui parla in carcere, tra il 10 e il 20 novembre del 1982, a Rebibbia. Si tratta di Adriano Tilgher e Silvano Falabella, con i quali parla dell’arresto di Magnetta e Carminati, avvenuto nel 1981. Si trovavano al valico del Gaggiolo quando furono fermati da una pattuglia, stavano tentando la fuga in Svizzera. L’arresto causò a Carminati la ferita che lo portò a perdere l’occhio sinistro. Magnetta, dice dunque Vinciguerra a Salvini, aveva l’arma usata per uccidere Pecorelli, una calibro 7.65 col quale venne colpito quattro volte, tre alla schiena e uno in faccia. Per ammazzarlo vennero usati proiettili marca Gevelot, molto rari sul mercato e dello stesso tipo di quelli sequestrati nell’arsenale della Banda della Magliana – alla quale Carminati era affiliato – nei sotterranei del Ministero della Sanità. Vinciguerra, conferma Salvini a Fanelli, è credibile. E quel verbale, spiega oggi l’avvocato Biscotti al Dubbio, «venne trasmesso subito a tutti i procuratori che si occupavano di terrorismo in Italia in quel periodo. Tra questi c’era Giovanni Salvi, al quale nel luglio del 1992 Vinciguerra confermò quella versione. Tutte le comparazioni fatte dalla Procura sulle armi, però, non portarono alcun risultato». Ma la storia non si ferma qui. E’ quanto accade tre anni dopo che oggi porta al deposito della richiesta di riapertura delle indagini. A Magnetta, infatti, il 4 aprile 1995 vengono sequestrate delle armi, ritrovate in un doppiofondo nel bagagliaio dell’auto: tra queste anche una semiautomatica calibro 7.65 Beretta con matricola parzialmente punzonata, una canna per pistola calibro 7.65 priva di numero di matricola e quattro silenziatori di fabbricazione artigianale. Su quelle armi, afferma Biscotti, «sicuramente non è stata fatta alcuna analisi. Quello che chiediamo noi – aggiunge – è che si vada ad individuare quella pistola e che venga fatto un confronto con proiettili agli atti del processo, che potrebbero ancora trovarsi nell’ufficio dei corpi di reato del tribunale di Monza. Una richiesta che la signora Pecorelli ha voluto presentare perché, finché avrà fiato in gola, vuole cercare di capire chi ha ucciso suo fratello. Se la comparazione fosse positiva allora questo signore dovrà dire chi gli ha dato quella pistola». Nell’articolo pubblicato dalla giornalista Fanelli sul sito Estreme conseguenze è proprio Guido Salvini a sostenere che, con molta probabilità, quel confronto balistico oggi chiesto dalla signora Pecorelli non è mai stato eseguito. «Non sapevo del sequestro di quest’arma – conferma a Fanelli – se fosse stata fatta una perizia lo saprei. Se non è stata fatta sarebbe interessante farla perché certamente c’è una corrispondenza». «Mio fratello sapeva troppe cose, era un pericolo per tutti e bisognava farlo fuori. Ho combattuto 40 anni per sapere la verità sull’omicidio di Mino e non mi arrenderò mai. Mi aspetto di avere giustizia – spiega Rosita Pecorelli, oggi 84enne – Mio fratello era tutto per me, mi ha fatto da padre, fratello e amico. Oggi – conclude – ci sono elementi per cui pensiamo ci sia qualcosa di nuovo che possa aiutare a raggiungere la verità».

IL MISTERO DELLE STRAGI. IL TRENO ITALICUS.

Strage dell’Italicus, Alberto Moravia sul Corriere di 43 anni fa: «Vogliono l’Italia in preda alla paura». Il 4 agosto 1974 una bomba esplose sul treno Italicus diretto a Monaco in prossimità di San Benedetto Val di Sambro. Della strage che causò 12 morti e 48 feriti furono accusati alcuni esponenti dell’estrema destra neofascista, ma i processi si conclusero con l’assoluzione di tutti gli imputati. Dal Corriere del 5 agosto 1974 di Alberto Moravia. Ripubblichiamo il testo che Alberto Moravia scrisse il 4 agosto 1974 sulla strage del treno Italicus. L’idea della strategia della tensione, ossia della provocazione, sistematica, torna, naturalmente, ad affacciarsi di fronte alla strage del treno Roma-Monaco. E come potrebbe essere diversamente? Certo, preferiremmo pensare all’atto assurdo di un esaltato o di un gruppo di esaltati; ma gli attentati anonimi, gli omicidi misteriosi che dal 12 dicembre del 1969 si sono seguiti in questo Paese, non possono non essere ormai ricollegabili anche dalle persone più ottimiste e fiduciose ad un disegno eversivo. Del resto durante recenti processi per falliti attentati la strategia della tensione è stata riconosciuta come una realtà, per loro positiva e necessaria, dagli stessi attentatori. Così dovrebbe essere chiaro a tutti che ogni mattina, in un luogo imprecisato d’Italia o in più di un luogo, gruppi di persone si riuniscono, calme e razionali, per escogitare via via i mezzi più atti a rovesciare le istituzioni e a creare un governo favorevole alla loro ideologia e ai loro interessi. Perché questi mezzi sono quasi unicamente violenti? Evidentemente perché, a quanto pare, si tratta di minoranze molto ristrette o addirittura di gruppi esigui, i quali sanno di certo che non potrebbero raggiungere il successo attraverso il voto politico, sola via legittima al potere in regime di democrazia. Ci troviamo, dunque, in una situazione senza precedenti, almeno in Italia. Non bisogna, infatti, dimenticare che persino il fascismo, tra le due guerre, potè, conquistare e mantenere il potere soltanto grazie ad una relativa base di massa. I gruppi eversivi ai quali bisogna attribuire la strategia della tensione sono invece addirittura senza volto. Oltre che su aiuti stranieri ammessi recentemente anche da personaggi del partito di maggioranza, ma finora mai provati, essi non possono contare che sulla già menzionata strategia, servendosene come di un detonatore per provocare interventi radicali di non meglio identificate forze dell’ordine. Anche questo, del resto non è ormai un mistero per nessuno ed è stato confermato da innumerevoli inchieste, interviste, relazioni, fughe di notizie, memoriali, eccetera. A questo punto, però, ci sembra del tutto inutile di continuare a passare in rivista le varie fasi insieme torpide e sanguinose della strategia della tensione. Esse sono chiare e non hanno bisogno di essere ulteriormente illuminate. Cerchiamo, invece, di vedere cosa è stato fatto dall’altra parte, cioè dalla parte della difesa delle istituzioni repubblicane. Siamo tentati di dire: troppo poco, anche di specificare dove la difesa è stata viva ed efficace e dove invece, fiacca e inoperante. Ma preferiamo guardare unicamente agli aspetti positivi. Ebbene, diciamolo pure, qualche cosa è stato fatto dal dicembre del 1969, anche se, naturalmente, non è stato fatto abbastanza. Il popolo italiano nel suo complesso ha resistito al canto insidioso e paralizzante delle sirene e della paura. E’ rimasto calmo e lucido, senza cadere nelle auspicate emotività e mitomanie. Questo ha permesso alla stampa, soprattutto da ultimo, di svolgere un buon lavoro, in accordo proprio con quella civiltà occidentale che mette tra i consumi più indispensabili e più diffusi quello dell’informazione. Sono stati pubblicati centinaia di articoli i quali se non altro hanno servito a definire con sufficiente precisione i lineamenti principali del disegno eversivo. Questo, bisogna ammetterlo, è stato fatto in condizioni politicamente sfavorevoli, fra le tentazioni della politica degli opposti estremismi e quella dell’unilateralità partigiana. Ad ogni modo qualche verità è pur venuta a galla, e come sempre la verità ha portato ad un risultato politico positivo, come per esempio il voto del referendum. Di conseguenza, ci lusinghiamo di pensare che, come ogni mattina, alcune persone o gruppi di persone si alzano con quest’idea: «Vediamo cosa si può fare per rovesciare le istituzioni repubblicane». Così, alla stessa ora altre persone speriamo più numerose e più forti si alzano con il pensiero opposto: «Vediamo cosa si può fare per difendere la Repubblica». L’attentato al treno Roma -Monaco vorrebbe ispirarci paura, una paura dimentica delle vittime, sollecita soltanto di noi stessi. E invece, no. Esso ci ispira la pietà indignata che non si può fare a meno di provare di fronte a chi è stato adoperato come mezzo iniquo per un fine ingiusto. E quanto alla paura, come diceva Tolstoj a proposito di un mediocre scrittore di libri terrorizzanti: «Egli vuole farci paura. E invece non riesce che a far paura a se stesso».

4 agosto 1974: la strage del treno Italicus. Italicus: segreto di Stato? Fu apposto nel 1982, ma tolto nel 1985. Nell’anniversario della strage del treno si torna a parlare delle norme che tolgono il segreto di Stato. In realtà la lenta desecretazione incide poco sulla ricerca della verità, scrive Valeria Palumbo il 4 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera.” Nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 il treno espresso 1486 “Italicus” stava viaggiando da Roma a Monaco di Baviera. Alle ore 1.23 mentre attraversava la galleria di San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna, una bomba ad alto potenziale esplose nella quinta carrozza. I morti furono 12, i feriti 44. Tra le vittime anche un giovane ferroviere di 24 anni, Silver Sirotti, che era sopravvissuto alla bomba, ma morì cercando di salvare i passeggeri dal terribile rogo che si era sviluppato. A Sirotti, già medaglia d’oro al valor civile, il 4 agosto 2016, è stato intitolato un parco a Forlì, la sua città (in via Ribolle): il sindaco e i familiari hanno partecipato alla cerimonia commemorativa. I colpevoli della strage non sono stati mai individuati, ma la Commissione parlamentare sulla loggia P2 scrisse negli atti che: «La strage dell’Italicus è ascrivibile ad un organizzazione terroristica di ispirazione neofascista o neonazista operante in Toscana»; che «la loggia P2 è quindi gravemente coinvolta nella strage dell’Italicus e può ritenersene addirittura responsabile in termini non giudiziari ma storico-politici quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale». Il processo si concluse con l’assoluzione generale di tutti gli imputati. Ma soprattutto, a differenza di altre stragi (con cui condivide piste, depistaggi e inchieste infinite e mai conclusive), per quella dell’Italicus fu effettivamente posto il segreto di Stato: a proposito di Claudia Ajello, che fu sentita parlare della strage da una tabaccaia, e che lavorava per il Sid, l’allora servizio segreto italiano. Fu rinviata a giudizio per falsa testimonianza, prima condannata e poi assolta. Ma ciò che interessa è che l’informativa chiesta dal tribunale di Bologna ai Servizi segreti conteneva alcuni omissis. Il 14 maggio 1982 il tribunale chiese una copia integrale del testo; Nino Lugaresi, allora capo del Sismi (che nel 1977 aveva sostituito il Sid), rispose che le parti mancanti erano coperte dal segreto di Stato. La questione fu girata all’allora presidente del Consiglio, il repubblicano Giovanni Spadolini, che, in settembre, confermò il segreto. Nel 1985, però, come annunziò il Corriere della Sera in prima pagina il 5 febbraio (e richiamo in quarta), il premier Bettino Craxi fece togliere il segreto sugli omissis per l’Italicus e per Piazza Fontana. Emerse che l’Ajello era infiltrata negli ambienti degli esuli greci: proprio nel 1974, a seguito della guerra per la questione di Cipro, cadde la giunta dei colonnelli greci, che, come è emerso più volte, interessavano molto i nostri servizi segreti. Questo però risultò ininfluente per la strage dell’Italicus e la faccenda finì lì. Quindi oggi non dovrebbero esistere altri documenti inediti sull’attentato al treno, oscurati dal segreto di Stato. In realtà la relativa inutilità della rimozione anticipata del segreto di Stato, voluta dal premier Mateo Renzi nella primavera del 2014, era già stata sottolineata allora. Il segreto non era già opponibile ai magistrati sui fatti di strage, di mafia e di eversione dell’ordine democratico. Con la legge 124 del 2007, che segnava l’ennesima riforma dei servizi segreti, si stabiliva che il segreto sarebbe stato a tempo e ci sarebbe stata un progressivo slittamento dei livelli di classificazione (segretissimo-segreto-riservatissimo-riservato). In realtà non sono mai stati completati i regolamenti attuativi. Fu questo che, nel 2014, gli esperti chiesero al premier, oltre alla pubblicità di dove siano gli archivi.

Italicus: una strage, un treno, tanti binari, scrivono Paolo Rastelli e Silvia Morosi su “Il Corriere della Sera” tratto da “Poche Storie” il 4 agosto 2016. Agosto. Improvviso si sente un odore di brace. Qualcosa che brucia nel sangue e non ti lascia in pace, un pugno di rabbia che ha il suono tremendo di un vecchio boato: qualcosa che urla, che esplode, qualcosa che crolla. Un treno è saltato (Claudio Lolli, “Agosto”, 1976). Attorno all’una di notte del 4 agosto 1974, all’uscita dalla galleria degli Appennini, nei pressi della stazione di San Benedetto Val di Sambro (Bologna), un ordigno ad alto potenziale esplode nella quinta vettura del treno Espresso 1486 Italicus, diretto a Monaco di Baviera. Il punto, vale la pena ricordarlo, è lo stesso dove a distanza di dieci anni, il 23 dicembre 1984, si verificherà la strage del Rapido 904 o strage di Natale, ai danni del rapido proveniente da Napoli e diretto a Milano. L’attentato dell’Italicus, che provoca la morte di dodici viaggiatori e il ferimento di circa 50 persone (se la bomba fosse esplosa in galleria, la strage sarebbe stata ben peggiore), viene rivendicato con un volantino nel quale si legge: «Abbiamo voluto dimostrare alla nazione che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi luogo, dove e come ci pare […] seppelliremo la democrazia sotto una montagna di morti». Una delle vittime, Silver Sirotti, ferroviere 25enne, era uscito incolume dall’esplosione, ma imbracciò un estintore e risalì sulla carrozza devastata salvando molte vite, prima di essere sopraffatto da fiamme e fumo. Racconta un testimone della strage: «Il vagone dilaniato dall’esplosione sembra friggere, gli spruzzi degli schiumogeni vi rimbalzano su. Su tutta la zona aleggia l’odore dolciastro e nauseabondo della morte». I due agenti di polizia che hanno assistito alla sciagura raccontano: «Improvvisamente il tunnel da cui doveva sbucare il treno si è illuminato a giorno, la montagna ha tremato, poi è arrivato un boato assordante. Il convoglio, per forza di inerzia, è arrivato fin davanti a noi. Le fiamme erano altissime e abbaglianti. Nella vettura incendiata c’era gente che si muoveva. Vedevamo le loro sagome e le loro espressioni terrorizzate, ma non potevamo fare niente poiché le lamiere esterne erano incandescenti. Dentro doveva già esserci una temperatura da forno crematorio. “Mettetevi in salvo”, abbiamo gridato, senza renderci conto che si trattava di un suggerimento ridicolo data la situazione. Qualcuno si è buttato dal finestrino con gli abiti in fiamme. Sembravano torce. Ritto al centro della vettura un ferroviere, la pelle nera cosparsa di orribili macchie rosse, cercava di spostare qualcosa. Sotto doveva esserci una persona impigliata. ‘Vieni via da lì’, gli abbiamo gridato, ma proprio in quel momento una vampata lo ha investito facendolo cadere accartocciato al suolo» (da “Gli anni del terrorismo” di Giorgio Bocca). Il 1974 è l’anno che molti storici identificano con l’inizio dei cosiddetti «anni di piombo», teatro, purtroppo, di omicidi mirati, attentati, stragi. Da Pasolini, a Moro, da Piazza della Loggia alla Stazione di Bologna. I processi instauratisi a seguito della strage sono stati caratterizzati da esiti diversi. Gli imputati, appartenenti a gruppi dell’estremismo di destra aretino, vengono dapprima assolti per insufficienza di prove, poi condannati in grado di appello e, infine, definitivamente assolti nel 1993. Uno degli imputati, Mario Tuti, si rende peraltro autore – durante le indagini sulla strage – degli omicidi del brigadiere Leonardo Falco e dell’appuntato Giovanni Ceravolo (che stavano procedendo a perquisizione nella sua casa) nonché, dopo l’arresto per tali delitti, dell’omicidio di uno degli imputati che in primo grado erano stati condannati per la strage di piazza della Loggia a Brescia, e che veniva ritenuto disposto a collaborare. Secondo la Relazione che il ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani tenne durante la seduta parlamentare di lunedì, 5 agosto 1974: I primi rilievi tecnici eseguiti dal personale della direzione di artiglieria e dai vigili del fuoco, basati anche sul ritrovamento di un fondo di sveglia con applicati due contatti, lasciano supporre che si sia trattato di un ordigno a tempo, caricato con notevole dose (tra i tre e i quattro chilogrammi) di tritolo. La Cassazione, pur confermando l’assoluzione degli estremisti di Arezzo per la strage sul treno Italicus, ha peraltro stabilito che l’area alla quale poteva essere fatta risalire la matrice degli attentati era «da identificare in quella di gruppi eversivi della destra neofascista». A simile conclusione era pervenuta anche la relazione di maggioranza della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica “Propaganda 2″ (più nota come P2), richiamata anche in elaborati della Commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi. In mezzo a tante supposte verità e spiegazioni, negli anni se ne è fatta avanti una dai tratti oscuri. La figlia di Aldo Moro (all’epoca Ministro degli Esteri del Governo Rumor), Maria Fidia Moro, ha detto che era il padre il vero obiettivo dell’attentato all’Italicus. Aldo Moro, infatti, era solito recarsi in villeggiatura a Bellamonte, in Val di Fiemme e pare avesse scelto proprio quel treno per recarvisi. Salito sul treno alla stazione Termini, venne fatto scendere da alcuni funzionari del Ministero, suoi collaboratori, a causa di alcune carte che avrebbe dovuto firmare. Ci misero un po’ e gli fecero perdere il treno. Lo scorso 22 aprile, il Governo Renzi ha tolto il segreto di Stato su tutte le stragi degli anni ’70 e ’80, Italicus compresa. 

IL MISTERO DELLE STRAGI. L’AEREO DC-9 ITAVIA.

27 GIUGNO 1980. Ustica. «Quella notte c’era una guerra. Chiedete alla Nato», scrive Giulia Merlo il 30 luglio 2016 su "Il Dubbio”. Quei fatti sono coperti dal segreto militare e ciò significa che, se gli ufficiali rivelassero ciò che è successo rischierebbero 23 anni di carcere. Sono passati 36 anni dalla notte di venerdì 27 giugno 1980, in cui l’aereo di linea DC-9 della compagnia italiana Itavia esplose e si inabissò nel braccio di mare tra le isole di Ustica e Ponza, nel mar Tirreno. Nel disastro persero la vita tutti e 81 i passeggeri, sulle cause della strage, invece, nessun tribunale ha ancora accertato la verità. Nel corso degli anni, le teorie più dibattute sono quella di un missile stranieri, contrapposta a quella dell’attentato terroristico, con un ordigno esplosivo piazzato nella toilette. Secondo la prima tesi, ad abbattere il DC-9 sarebbe stata una testata francese, destinata ad abbattere un aereo libico con a bordo Gheddafi. La seconda ricostruzione, invece, è quella avvalorata dai fantomatici documenti cui il senatore Carlo Giovanardi ha fatto più volte riferimento. Il giornalista Andrea Purgatori, che in quegli anni era inviato per il Corriere della Sera e che ha pubblicato numerose inchieste sulla strage, smentisce in modo secco la decisività di questo dossier».

Proviamo a fare chiarezza su queste carte coperte dal segreto di Stato?

«Partiamo da un dato incontrovertibile: sulla strage di Ustica non c’è mai stato il segreto di Stato. Quei fatti sono coperti dal segreto militare e ciò significa che, se gli ufficiali rivelassero ciò che è successo quella notte, rischierebbero 23 anni di carcere. Nei documenti che ha visto Giovanardi non c’è nulla che possa davvero chiarire cosa è successo».

E quindi lei cosa pensa che contengono?

«Probabilmente si tratta di dossier che ricostruiscono i rapporti opachi intercorsi in quegli anni tra l’Italia e la Libia, ma non sarebbe certo di una novità. Io penso che quelle carte siano più importanti per capire cosa è successo alla stazione di Bologna poco più di un mese dopo, sempre nel 1980».

Lei ha sempre sconfessato la tesi della bomba nella toilette. Come mai?

«Non sono io a sconfessarla, l’ordinanza di rinvio a giudizio del 1999 parla di aereo «esploso in scenario di guerra aerea». Inoltre le perizie a sostegno dell’ipotesi della bomba sono state scartate perchè i periti sono stati dichiarati infedeli dal tribunale, per connivenze con i periti dei generali coinvolti».

La pista della presenza di caccia stranieri, invece?

«Che quella notte nei cieli italiani volassero aerei non identificati è stato confermato dalla Nato. Attualmente non esiste una sentenza su quella strage, perchè l’inchiesta è ancora in corso. In sede civile, invece, la Cassazione ha condannato nel 2015 i ministeri dei Trasporti e della Difesa al risarcimento dei danni, per responsabilità nell’«abbattimento» del DC-9 e - cito testualmente - ha definito l’ipotesi del missile come causa «congruamente provata»».

C’è chi obietta che gli alti ufficiali coinvolti sono stati tutti assolti nel 2006...

«Attenzione, sono stati assolti in Cassazione dalla condanna per depistaggio, non nel processo sulle cause della strage, tuttora in corso».

L’ultimo segreto nelle carte di Moro: “La Libia dietro Ustica e Bologna”. Da Beirut i servizi segreti avvisarono: “Tripoli controlla i terroristi palestinesi”. I parlamentari della Commissione d’inchiesta: “Renzi renda pubblici i documenti”, scrive il 05/05/2016 Francesco Grignetti su “La Stampa”. Tutto nasce da una direttiva di Matteo Renzi, che ha fatto togliere il segreto a decine di migliaia di documenti sulle stragi italiane. Nel mucchio, i consulenti della commissione d’inchiesta sul caso Moro hanno trovato una pepita d’oro: un cablo del Sismi, da Beirut, che risale al febbraio 1978, ossia un mese prima della strage di via Fani, in cui si mettono per iscritto le modalità del Lodo Moro. Il Lodo Moro è quell’accordo informale tra italiani e palestinesi che risale al 1973 per cui noi sostenemmo in molti modi la loro lotta e in cambio l’Olp ma anche l’Fplp, i guerriglieri marxisti di George Habbash, avrebbero tenuto l’Italia al riparo da atti di terrorismo. Ebbene, partendo da quel cablo cifrato, alcuni parlamentari della commissione Moro hanno continuato a scavare. Loro e soltanto loro, che hanno i poteri dell’autorità giudiziaria, hanno potuto visionare l’intero carteggio di Beirut relativamente agli anni ’79 e ’80, ancora coperto dal timbro «segreto» o «segretissimo». E ora sono convinti di avere trovato qualcosa di esplosivo. Ma non lo possono raccontare perché c’è un assoluto divieto di divulgazione. Chi ha potuto leggere quei documenti, spera ardentemente che Renzi faccia un passo più in là e liberalizzi il resto del carteggio. Hanno presentato una prima interpellanza. «È davvero incomprensibile e scandaloso - scrivono i senatori Carlo Giovanardi, Luigi Compagna e Aldo Di Biagio - che, mentre continuano in Italia polemiche e dibattiti, con accuse pesantissime agli alleati francesi e statunitensi di essere responsabili dell’abbattimento del DC9 Itavia a Ustica nel giugno del 1980, l’opinione pubblica non sia messa a conoscenza di quanto chiaramente emerge dai documenti secretati in ordine a quella tragedia e più in generale degli attentati che insanguinarono l’Italia nel 1980, ivi compresa la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980». Ecco il messaggio destinato al ministro degli Interni, ai servizi italiani e a quelli alleati in cui si segnala che George Habbash, capo dei guerriglieri palestinesi del Fplp, indica l’Italia come possibile obiettivo di un’«operazione terroristica». Va raccontato innanzitutto l’antefatto: nelle settimane scorse, dopo un certo tira-e-molla con Palazzo Chigi, i commissari parlamentari sono stati ammessi tra mille cautele in una sede dei servizi segreti nel centro di Roma. Dagli archivi della sede centrale, a Forte Braschi, erano stati prelevati alcuni faldoni con il marchio «segretissimo» e portati, con adeguata scorta, in un ufficio attrezzato per l’occasione. Lì, finalmente, attorniati da 007, con divieto di fotocopiare, senza cellulari al seguito, ma solo una penna e qualche foglio di carta, hanno potuto prendere visione del carteggio tra Roma e Beirut che riporta al famoso colonnello Stefano Giovannone, il migliore uomo della nostra intelligence mai schierato in Medio Oriente. Il punto è che i commissari parlamentari hanno trovato molto di più di quello che cercavano. Volevano verificare se nel dossier ci fossero state notizie di fonte palestinese per il caso Moro, cioè documenti sul 1978. Sono incappati invece in documenti che sorreggono - non comprovano, ovvio - la cosiddetta pista araba per le stragi di Ustica e di Bologna. O meglio, a giudicare da quel che ormai è noto (si veda il recente libro «La strage dimenticata. Fiumicino 17 dicembre 1973» di Gabriele Paradisi e Rosario Priore) si dovrebbe parlare di una pista libico-araba, ché per molti anni c’è stato Gheddafi dietro alcune sigle del terrore. C’era la Libia dietro Abu Nidal, per dire, come dietro Carlos, o i terroristi dell’Armata rossa giapponese. Giovanardi e altri cinque senatori hanno presentato ieri una nuova interpellanza. Ricordando le fasi buie di quel periodo, in un crescendo che va dall’arresto di Daniele Pifano a Ortona con due lanciamissili dei palestinesi dell’Fplp, agli omicidi di dissidenti libici ad opera di sicari di Gheddafi, alla firma dell’accordo italo-maltese che subentrava a un precedente accordo tra Libia e Malta sia per l’assistenza militare che per lo sfruttamento di giacimenti di petrolio, concludono: «I membri della Commissione di inchiesta sulla morte dell’on. Aldo Moro hanno potuto consultare il carteggio di quel periodo tra la nostra ambasciata a Beirut e i servizi segreti a Roma, materiale non più coperto dal segreto di Stato ma che, essendo stato classificato come segreto e segretissimo, non può essere divulgato; il terribile e drammatico conflitto fra l’Italia e alcune organizzazioni palestinesi controllate dai libici registra il suo apice la mattina del 27 giugno 1980». Dice ora il senatore Giovanardi, che è fuoriuscito dal gruppo di Alfano e ha seguito Gaetano Quagliariello all’opposizione, ed è da sempre sostenitore della tesi di una bomba dietro la strage di Ustica: «Io capisco che ci debbano essere degli omissis sui rapporti con Paesi stranieri, ma spero che il governo renda immediatamente pubblici quei documenti».

Stragi, i palestinesi dietro Ustica e Bologna? Il centrodestra: fuori le carte, scrive giovedì 5 maggio 2016 “Il Secolo D’Italia”. Reazioni, polemiche ma anche approvazione dopo che in una interpellanza presentata in vista della celebrazione solenne il 9 maggio a Montecitorio della Giornata della memoria delle vittime delle stragi e del terrorismo, i senatori Giovanardi, Quagliariello, Compagna, Augello, Di Biagio e Gasparri, hanno chiesto al Presidente del Consiglio di rendere pubbliche le carte relative alle stragi di Ustica e della stazione di Bologna. Gli interpellanti – si legge in una nota – citano gli autorevoli interventi del 2014 e 2015, in occasione della giornata della memoria e dell’anniversario di Ustica, dei Presidenti della Repubblica Napolitano e Mattarella e dei presidenti di Camera e Senato nei quali si chiede di arrivare alla verità «pretendendo chiarezza oltre ogni convenienza» e l’intervista del 3 maggio ultimo scorso del Ministro degli esteri Gentiloni sul caso Regeni, dove afferma testualmente: «La nostra ricerca della verità è al primo posto, e non può essere cancellata da interessi e preoccupazioni geopolitiche». Gli interpellanti ricordano poi di aver potuto consultare il carteggio dell’epoca tra la nostra Ambasciata a Beirut e i Servizi segreti a Roma, relativo ai drammatici avvenimenti del 1979 e 1980, quando si sviluppò un drammatico confronto fra l’Italia da una parte e dall’altra le frange più estreme del Movimento per la liberazione della Palestina con dietro la Libia di Gheddafi ed ambienti dell’autonomia, materiale non più coperto dal segreto di Stato, ma che, essendo stato classificato come segretissimo, rende penalmente perseguibile anche dopo 36 anni la sua divulgazione. La figlia di una vittima chiede chiarezza sulle stragi: «Sconcertata, come figlia di una vittima dell’esplosione del DC9 Itavia, e come Presidente onorario dell’Associazione per la Verità sul disastro aereo di Ustica, nell’apprendere che dopo 36 anni da quella tragedia non sono ancora divulgabili documenti che potrebbero contribuire in maniera decisiva a far piena luce su quella strage», scrive Giuliana Cavazza, presidente onorario dell’associazione citata. «Lunedì sarà celebrata a Montecitorio la giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi: aggiungo la mia modesta voce a quella dei vertici istituzionali che hanno più volte sottolineato la necessità di cercare la verità al di là di ogni convenienza o calcolo politico. Mi auguro pertanto che per quella data il Presidente del Consiglio abbia già assunto la decisione di rendere noto il contenuto dei documenti che solo i membri della Commissione di inchiesta sulla morte di Aldo Moro hanno già potuto consultare». Di diverso avviso Bolognesi: «Ho letto le carte contenute nei faldoni messi a disposizione della Commissione Moro e posso affermare che su Ustica e Bologna non ci sono né segreti, né rivelazioni, né novità. I decenni passano ma i depistaggi sembrano resistere», ha detto infatti Paolo Bolognesi, deputato Pd, presidente dell’Associazione 2 agosto 1980, commentando le recenti notizie di possibili nuovi elementi sulle stragi di Ustica e Bologna contenuti nei documenti consultati dai componenti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro di cui Bolognesi fa parte. C’è poi la tesi di Zamberletti: «Torniamo indietro al 2 agosto 1980, data della strage di Bologna. Era il giorno in cui io, da sottosegretario, avrei firmato un accordo italo-maltese. L’accordo, che fu poi firmato regolarmente, prevedeva da parte italiana la garanzia militare sulla sovranità aerea e marittima di Malta. La notizia della bomba alla stazione di Bologna, che ci arrivò quando eravamo a La Valletta, mi diede subito la sensazione della vendetta contro l’Italia». È questa la verità sulle stragi di Bologna e Ustica secondo Giuseppe Zamberletti, all’epoca sottosegretario agli Esteri nel governo Cossiga, in un’intervista a La Stampa. «I libici – dice – esercitavano fino a quel momento un protettorato di fatto su Malta». Zamberletti afferma di essere stato avvertito anche dall’allora direttore del Sismi, il generale Santovito, che gli chiese di soprassedere, poiché Gheddafi considerava Malta “una cosa sua”, «il governo Cossiga però decise di andare avanti. E se oggi Malta è nella Unione europea e non in Africa, tutto cominciò quel giorno. Questi documenti che sono stati desecretati sono un punto di inizio e non di arrivo. È proprio il caso di andare avanti», dice in riferimenti all’interrogazione con cui alcuni parlamentari chiedono di rendere pubblici tutti i documenti: «Nel febbraio 1978 c’era dunque questo accordo tra italiani e palestinesi, ma che ci fossero rapporti tra Gheddafi e certe schegge palestinesi è una grande novità, di cui all’epoca non avevamo assolutamente contezza».

«Vi dico la verità su Ustica: è stata una bomba e veniva da Beirut», scrive Giulia Merlo il 2 ago 2016 su “Il Dubbio”. «Smettetela di chiedere a me di rivelare questi documenti: mi costerebbe 3 anni di carcere e la decadenza da senatore. È il governo Renzi ad avere il dovere morale di togliere il segreto sui dossier». «Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha il dovere di togliere la dizione "segretissimo" da quelle carte in modo da poterle divulgare, solo così le verità nascoste per trentasei anni verranno finalmente svelate». Non ha dubbi, il senatore Carlo Giovanardi. In qualità di membro della commissione Moro, ha avuto modo di visionare dei documenti che getterebbero nuova luce sulla tragica vicenda del volo Itavia DC-9, inabissatosi nel braccio di Mar Tirreno tra Ustica e Ponza con a bordo 81 persone, il 27 giugno del 1980.

Cominciamo dal principio: cosa è successo a bordo di quell'aereo?

«Nella toilette è esplosa una bomba, che ha provocato la caduta del velivolo e la morte di tutti i passeggeri».

Eppure molte voci sostengono che, quella notte, nei cieli italiani fosse in corso una guerriglia aerea in cui erano coinvolti caccia da guerra francesi e libici e che il volo Itavia sia stato abbattuto da un missile.

«Io mi sono interessato della questione quando ero ministro e su questi fatti ho risposto in Parlamento, sulla base delle fonti ufficiali provenienti dalla Nato e dei dossier dei nostri servizi di intelligence. Ciò che sostengo è suffragato non solo da questo, ma anche da 4000 pagine di perizie, svolte dai maggiori esperti internazionali di aereonautica. Aggiungo anche che ho letto in aula le missive personali indirizzate all'allora premier Giuliano Amato dal presidente americano Bill Clinton e da quello francese Jaques Chirac, in cui entrambi giurano sul loro onore che, durante la notte della strage, nei cieli di Ustica non volavano né aerei americani né francesi».

Gli scettici hanno sostenuto che la bomba nella toilette sia smentita dal fatto che il lavandino è stato ritrovato intatto nel relitto.

«Gli americani, in un documentario prodotto dal National Geographic, hanno preso un vecchio DC-9 e riprodotto l'esplosione, verificando che è ben possibile che il lavello non si sia rotto».

E quindi il mistero riguarda quale mano abbia piazzato la bomba. La risposta sta nelle carte da lei visionate?

«Esattamente. Si tratta di documenti che nessun magistrato ha mai potuto esaminare, su cui da due anni è caduto il segreto di Stato ma che rimangono bollati come "segretissimi" e dunque sono non divulgabili. Il carteggio fa riferimento ai rapporti tra il governo italiano e la nostra ambasciata a Beirut negli anni 1979 e 1980. Io ho potuto esaminarlo in presenza dei membri dei servizi e con la possibilità di prendere appunti, ma quei dossier contengono messaggi dalla capitale libica, alcuni datati anche 27 giugno, che annunciano vittime innocenti e parlano anche di un aereo come obiettivo del Fronte nazionale per la liberazione della Palestina, organizzazione controllata dai libici».

In questi dossier ritorna la teoria del cosiddetto "lodo Moro", ovvero il patto segreto tra Italia e filopalestinesi, che permetteva ai gruppi palestinesi di trasportare e stoccare armi nel nostro territorio a patto di non commettere attentati?

«Certo che quei documenti riguardano il "lodo Moro". E' chiaro che quell'accordo non era stato siglato in carta bollata, ma la sua esistenza è chiara e dalle carte emerge anche come Il Fronte popolare per la liberazione della Palestina lo considerasse violato nel 1979, quando il governo italiano sequestrò i missili trovati a Ortona e arrestò il militante del Fplp Abu Anzeh Saleh, poi detenuto nel carcere di Trani. Per questo minacciavano ritorsioni contro l'Italia. Tornando a Ustica, ricordo che l'unico governo a non rispondere alle rogatorie italiane è stato quello di Gheddafi».

Ustica è stata una rappresaglia libica, dunque?

«E' stato l'allora ministro Zamberletti a definirla così. Lo stesso che, proprio il 2 agosto (data della strage alla stazione di Bologna) firmava un accordo italo-maltese di assistenza militare e di estrazione petrolifera, che di fatto subentrava a quello tra Malta e la Libia. Secondo Zamberletti, Bologna e Ustica sono state entrambe un avvertimento dei libici al governo italiano e le due stragi sono legate da un filo rosso arabo-palestinese».

Rivelare questi documenti, dunque, fugherebbe qualsiasi ulteriore dubbio sull'ipotesi del missile sul volo Itavia?

«Certo. Eppure faccio notare che, ora che queste carte sono state lette e che io ne chiedo la desecretazione, la presidente dell'associazione delle vittime di Ustica, durante le commemorazioni delle stragi di quest'anno, non ha più chiesto che i dossier vengano pubblicati».

E questo che cosa significa?

«La senatrice Daria Bonfietti (che ha perso un fratello nella strage di Ustica ndr) sostiene che io abbia in mano un due di picche, invece io credo di avere un poker d'assi. I dossier che ho letto svelano la verità su quegli attentati ma, evidentemente, renderli pubblici potrebbe in qualche modo mettere in discussione i risarcimenti che si aggiungono ai 62 milioni di euro già percepiti. La Cassazione in sede civile, infatti, ha riconosciuto un risarcimento del danno di centinaia di milioni di euro all'Itavia, agli eredi Davanzali (ex presidente dell'Itavia) e alle famiglie delle vittime. Ciò nasce da una sciagurata sentenza civile di primo grado, scritta dal giudice onorario aggiunto Francesco Betticani, che teorizza appunto che ad abbattere l'aereo sia stato un missile non meglio identificato. L'appello viene vinto dall'Avvocatura di Stato che, però, commette un errore procedurale. La Cassazione allora annulla la sentenza di appello e rinvia alla Corte, la quale, però, può conoscere solo gli elementi portati dalle parti e non aggiungerne di nuovi. In questo modo è stata confermata in Cassazione civile l'assurda ipotesi del missile, definita "più probabile che no", totalmente smentita invece in sede penale».

In che modo l'ipotesi della bomba cambierebbe le carte in tavola per i familiari delle vittime?

«La risposta è semplice: se si fosse trattato di una bomba, come hanno stabilito le perizie tecniche, la responsabilità di non aver vigilato a Bologna avrebbe coinvolto anche la società Itavia e dunque il Ministero non dovrebbe risarcire le centinaia di milioni di danni. Aggiungo che a ogni famiglia delle persone decedute sono stati assegnati 200 mila euro e i 141 familiari superstiti godono dal 2004 di un assegno vitalizio mensile di 1.864 euro netti, rivalutabili nel tempo».

Che fare dunque ora?

«Innanzitutto smetterla di chiedere a me di rivelare questi documenti, cosa che mi costerebbe 3 anni di carcere e la decadenza da senatore per indegnità morale. E' il governo Renzi ad avere il dovere morale di togliere il segreto sui dossier per amore di verità, così forse - almeno - ripuliremo una volta per tutte l'immaginario collettivo su Ustica, inquinato da sceneggiati e depistaggi».

La colpevolezza dei Nar è un dogma ideologico. Le strane relazioni che intercorrevano tra l'Italia e gli arabi del Fplp, scrive il 02/08/2016 Dimitri Buffa su “Il Tempo”. Anche oggi come da 36 anni a questa parte alle 10 e 25 in punto la città di Bologna si fermerà per qualche minuto. Per commemorare gli 85 morti e i 200 feriti di un attentato che, al di là delle sentenze definitive e della colpevolezza come esecutori materiali ormai appiccicata addosso in maniera indelebile ai tre ex Nar Valerio Fioravanti, Luigi Ciavardini e Francesca Mambro, rimane ancora avvolto nel mistero. Un po’ di luce però, almeno sul movente lo può fare il libro «I segreti di Bologna», di Valerio Cutonilli e Rosario Priore, rispettivamente un avvocato e un magistrato, entrambi coraggiosi nell’andare contro corrente rispetto alla vulgata che ha voluto che questa strage fosse fascista sin dai primi istanti. Il Tempo già si era occupato di uno dei misteri di questa indagine, ossia la mancata identificazione di un cadavere e la scomparsa di un corpo di una delle vittime. Ma l’indicibile segreto di Stato che forse non sarà mai tolto, perchè è servito all’Italia a non subire più attentati da parte di terroristi palestinesi e medio orientali in genere, compresi quelli dell’Isis (toccando ferro), non è negoziabile nè rivelabile. E dopo gli anni ’70 che avevano lasciato una lunga scia di oltre sessanta morti del tutto rimossi dall’inconscio collettivo ad opera di settembre nero e altre formazioni dell’epoca, oggi se ne conosce il nome: «Lodo Moro». E colui che gli diede il nome non sapeva che un giorno, il 16 marzo 1978 ne sarebbe diventato vittima. Molte indagini infatti hanno acclarato, e il libro le elenca tutte in maniera che anche un bambino di sette anni potrebbe capire, che le armi alle Br in Italia le portarono anche i palestinesi del Fplp di George Habbash. Quel fronte popolare di resistenza palestinese di matrice marx leninista che invano nel febbraio 1978 tramite gli informatori del colonnello Stefano Giovannone, vero e proprio sacerdote della liturgia del «Lodo Moro», soffiò al Viminale della preparazione di un attentato con rapimento di un’alta personalità politica in Italia sul modello del sequestro di Hans Martin Schleyer, il presidente della Confindustria della ex Germania Ovest sequestrato nel settembre 1977 dalla Raf. Insomma se tutte le rivoluzioni finiscono per mangiarsi i propri figli il «lodo Moro» si mangiò suo padre, Aldo Moro. Il libro in questione, quindi, rivela e mette in fila tutti i segreti di Stato legati al «Lodo Moro» a cominciare dal ruolo di Carlos e di Thomas Khram e dei suoi accoliti dell’Ori, organizzazione rivoluzionaria internazionale, nella strage di Bologna, che potrebbe anche essere avvenuta per errore, cioè esplosivo in transito, cosa che spiegherebbe la mancata identificazione di almeno una delle vittime. Per non parlare degli omissis legati alle minacce di ritorsione sempre segnalate dal Sismi di Santovito, che venivano fino a tutto il luglio 1980 da parte dell’Fplp, legate alla vicenda dei missili Strela Sam 7 sequestrati qualche mese prima all’autonomo Daniele Pifano e destinati ai palestinesi. Con annessi arresto di Abu Anzeh Saleh e trattativa per farlo rilasciare dai giudici di Chieti e L’Aquila. Poi c’è la storia del trattato segreto tra Italia e Malta siglato dall’allora sottosegretario Giuseppe Zamberletti a La Valletta proprio un’ora prima della deflagrazione di Bologna. O quella dell’appoggio italiano, sottobanco, al tentato golpe contro Gheddafi fomentato dall’Egitto di Sadat, senza contare la vicenda di Ustica e via dicendo. Verità mai cercate anzi sacrificate da alcuni magistrati sull’altare della ragion di Stato. Moventi precisi, quasi certi, conosciuti da Francesco Cossiga, Giulio Andreotti, Giuseppe Zamberletti, Bettino Craxi, Lelio Lagorio e Giuseppe Santovito. Tragici segreti di Stato e insieme di Pulcinella. Ma che, per evitare che venissero fuori i nostri accordi sottobanco con i palestinesi dell’Olp e del Fplp, nonchè quelli con Gheddafi che includevano l’aiuto a scovare e uccidere i dissidenti libici in Italia, si preferì seppellire sotto i depistaggi ai danni dei Nar. Che in fondo, essendo tutti già condannati per altri omicidi e atti di terrorismo, erano dei capri espiatori perfetti, Ma oggi quando si chiede di togliere i segreti di Stato su Bologna, magari sperando di trovarci dietro chissà quale appoggio occulto della P2 di Licio Gelli, con quale onestà intellettuale si fanno questi appelli? Il «Lodo Moro» e il doppiogiochismo dell’Italia tra «la moglie americana e l’amante libica, e magari l’amichetta palestinese», per citare una felice battuta di Giovanni Pellegrino presidente della Stragi, rimarranno sempre segreti. L’Italia deve accontentarsi dei colpevoli di repertorio. Dimitri Buffa.

«Le stragi di Ustica e Bologna? Cercate in medioriente», scrive Giulia Merlo il 2 ago 2016 su “Il Dubbio”. Il 2 agosto di 36 anni fa, la stazione di Bologna venne devastata da un'esplosione che provocò 85 morti e oltre 200 feriti. Il giudice Rosario Priore racconta la sua verità e spiega il “Lodo Moro”. Che cosa è successo alla stazione Bologna, quel 2 agosto del 1980? A 36 anni dalla strage più sanguinosa del secondo dopoguerra - in cui persero la vita in un’esplosione 85 persone e ne rimasero ferite 200 - la verità processuale è stata stabilita in via definitiva e ha riconosciuto colpevoli i militanti neofascisti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, Giusva Foravanti e Francesca Mambro. Secondo l’ex magistrato Rosario Priore, titolare delle inchieste sulla strage di Ustica e autore con Valerio Cutonilli del libro I segreti di Bologna, la verità storica apre scenari completamente diversi.

Partiamo dall’inizio, perchè lei scarta la pista neofascista?

«Da magistrato rispetto la cosa giudicata, ma sul piano storico la ricostruzione presenta numerose falle, dovute probabilmente al fatto che l’istruttoria del processo è stata molto lunga, il che spesso si presta a inquinamenti di ogni genere. Gli elementi che rimandano alla pista mediorientale, invece, sono molto evidenti e in alcuni di questi mi sono imbattuto in prima persona nei processi da me istruiti».

A che cosa si riferisce?

«Principalmente alle dichiarazioni di Carlos, detto lo Sciacallo e membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Non solo, però, io credo che il primo a raccontare le cose per come andarono fu il presidente Francesco Cossiga, quando parlò di esplosione prematura».

Non si trattò di una strage voluta?

«Io credo non sia stato un atto doloso per colpire deliberatamente Bologna. La mia ipotesi è che l’esplosivo si trovasse lì perchè doveva essere trasportato dai membri del Fronte Popolare fino al carcere speciale di Trani, in cui era detenuto il militante filopalestinese Abu Anzeh Saleh».

A che cosa serviva quell’esplosivo?

«Il quantitativo fa pensare alla necessità di abbattere mura robuste, come quelle del carcere di Trani. Io credo servisse a far evadere Saleh e che sia esploso per errore a Bologna».

Era così facile per forze straniere trasportare armi ed esplosivi in territorio italiano?

«In quel periodo vigeva ancora il cosiddetto “lodo Moro”, che concedeva alle organizzazioni palestinesi il libero passaggio sul suolo italiano con armi, al fine di stoccarle e usarle successivamente, a patto che non agissero in territorio italiano. Di questo patto esistono le prove, come i depositi di armi in Sardegna e in Trentino».

Possiamo parlare di una sorta di disegno internazionale?

«In quegli anni gli attori in gioco erano molti e molto complessi. Da un lato i filopalestinesi, dall’altro gli americani e la Nato. Noi ci trovavamo nel mezzo e Aldo Moro, da politico raffinato quale è stato fino alla sua morte (nel 1978) sapeva che le regole della partita andavano capite e interpretate».

Lei ha indagato anche sulla strage di Ustica, che avvenne il 27 giugno, un mese prima della strage alla stazione, e in cui persero la vita gli 81 passeggeri del volo Itavia, che viaggiava da Bologna a Palermo. In questo caso una verità processuale chiara manca e le ipotesi rimangono molte. Lei vede un legame con la strage di Bologna?

«Io credo esista un legame generale tra i due eventi, come in tutti i fatti di quegli anni. Anche in quella situazione si riverbera il “lodo Moro”, a cui ancora si ispirava la nostra politica estera. In volo quella notte c’erano velivoli stranieri non Nato, che sorvolavano i nostri cieli con il nostro benestare, sfruttando i buchi sul controllo aereo del patto Atlantico».

Quindi lei scarta decisamente la teoria della bomba a bordo dell’aereo?

«L’ipotesi della bomba non regge. Non posso dire cosa sia successo quella notte, è possibile che si sia trattato di una cosiddetta near-collision tra il volo di linea e un altro aereo militare. Anche i radar indicano questa strada, così come il ritrovamento sui monti calabresi di un aereo da guerra libico».

Tornando ai fatti di Bologna, il suo libro ha scatenato molte polemiche e il presidente dell’associazione delle vittime Paolo Bolognesi l’ha messa in guardia dal commettere il reato di depistaggio.

«Non voglio alimentare polemiche ma trovo strane queste sue affermazioni. Lui si è battuto una vita per capire cosa sia successo a Bologna, ma io ho fatto lo stesso, con intento cronachistico. Entrambi abbiamo lo stesso obiettivo, trovare la verità».  

I MISTERI DEL VELIVOLO ITAVIA. Ustica, la firma di Pertini era falsa: l’ufficiale pilota che cercava la verità sul Dc 9 venne radiato ingiustamente. Mario Ciancarella, ex capitano che indagava sui misteri del velivolo precipitato nel 1980, venne cacciato -per indegnità - dall’Aeronautica con decreto del Quirinale nel 1983. Il tribunale 33 anni dopo: firma del presidente apocrifa. «La Difesa risarcisca», scrive Alessandro Fulloni l'11 ottobre 2016 su "Il Corriere della Sera". Un falso pazzesco. Una firma mai vergata dal presidente-partigiano Sandro Pertini. Che di quell’atto che cacciò dall’Aeronautica un suo ufficiale - se non rovinandogli la vita di certo cambiandogliela pesantemente - non sapeva nulla. La firma dell’allora Capo di Stato sul decreto di radiazione del capitano-pilota Mario Ciancarella (in prima fila nelle denunce per cercare la verità a Ustica e nella riforma, erano gli anni Settanta, dell’ordinamento militare) sottoscritta nel 1983, era apocrifa. In sintesi: «taroccata» come in un documento uscito da una stamperia fuorilegge. Firmata chissà da chi, in una notte buia del 1983. Lo ha stabilito, 33 anni dopo, il tribunale civile di Firenze e la notizia è stata rivelata dall’associazione «Rita Atria» di cui lo stesso ex ufficiale, oggi residente a Lucca dove ha aperto una libreria, è fondatore. La sentenza, spiega una nota della stessa associazione, arriva «dopo due perizie - una di parte e una disposta dal magistrato - che hanno potuto rilevare come il falso sia tanto evidente quanto eseguito con assoluta approssimazione». Non basta. Nella motivazione si legge che il ministero della Difesa è stato condannato in contumacia al pagamento delle spese processuali di 5.885 euro. È solo l’inizio di una specie di rivincita giudiziaria che vedrà l’ex pilota - «cacciato per indegnità a portare la divisa», questa fu la formula usata per radiarlo - avviare con ogni probabilità altre cause, sia in sede penale che davanti alla magistratura contabile. Ma a questo punto è il caso di fare un lungo passo indietro e arrivare alla fine degli anni Settanta, quando tutto comincia. Anni in bianco e nero, anni di piombo. Terrorismo, stragi impunite, l’ombra dei servizi deviati e della P2. Mario Ciancarella è un giovane ufficiale dell’Aeronautica, capitano pilota a Pisa, vola sugli Hercules C-130 della brigata aerosoccorritori, la 46°. Si interessa di sindacato, parola che nelle forze armate di quegli anni era impronunciabile. «Ci chiamavano i “nipotini” delle Brigate Rosse» ricorda oggi l’ex ufficiale riferendosi a quel gruppo di colleghi con cui fondò il movimento dei militari democratici. E che collaborò alla stesura della legge 382/78 - ovvero la riforma dell’ordinamento militare - soprattutto in un punto: la possibilità di disobbedire a un ordine palesemente ingiusto. Battaglia che gli valse processi, un arresto e la radiazione dall’Aeronautica. Giunta tramite ufficiale giudiziario con un atto falso, si scopre ora. Che con quella firma Pertini non c’entrasse nulla, Ciancarella l’aveva intuito subito dopo aver ricevuto la copia del decreto presidenziale. Ma questo avvenne dieci anni dopo la radiazione. E, tra l’altro, dopo la morte dello stesso ex inquilino del Colle. «Prima non era possibile avere quell’atto, non era diritto dell’interessato, mi venne spiegato». Quella firma «l’avevo vista su altre carte: era apocrifa in un modo spudorato». Trovare un avvocato disposto a portare avanti la battaglia per accertare la verità non fu semplice. «Ci ho messo 16 anni... E altri 7 per arrivare alla sentenza». Che gli ha dato ragione. Ciancarella si era interessato anche dei misteri che ruotavano attorno all’abbattimento del Dc9 Itavia a Ustica, il 27 giugno 1980. In particolare al giudice istruttore Rosario Priore il pilota raccontò di quella testimonianza drammatica raccolta poche ore dopo la sparizione dal radar del velivolo da Alberto Dèttori, il sottufficiale radarista, impiegato nella stazione radar di Poggio Ballone, trovato impiccato nel 1987. «Comandante, siamo stati noi a tirarlo giù. Siamo stati noi». «È una cosa terribile...». «Io non le posso dire nulla, perché qua ci fanno la pelle». Qualche mese prima Ciancarella era stato convocato proprio da Pertini al Quirinale insieme a Sandro Marcucci e Lino Totaro, entrambi aviatori e tra i fondatori del movimento democratico. Avevano parlato della riforma dell’ordinamento. Il presidente voleva saperne di più. «La segreteria del Quirinale mi chiamò a casa. Fissarono un appuntamento con me, io non volevo essere solo e mi presentai con i colleghi». Il presidente fu schietto e brutale «ma trasparente: parlammo circa tre ore. Ci congedò dicendoci che se quella sulla modifica dell’ordinamento militare era una battaglia giusta allora avremmo dovuto combatterla seguendo le vie istituzionali, dal confronto sindacale a quello politico ed eventualmente in aula giudiziaria, senza alcun appoggio diretto del Quirinale». Che però continuò discretamente a interpellarli, e forse a osservarli benevolmente, anche in seguito. Sino al via libera parlamentare della legge. (Questo fu il destino dei tre fondatori del movimento militari democratici: Sandro Marcucci, capitano pilota nella brigata degli aerosoccorritori, si interessò di Ustica, cercando documenti e testimonianze. Morì il 2 febbraio 1992, una domenica limpida e senza vento, precipitando a Campo Cecina, in Toscana, a bordo di un aereo anti-incendio civile: due anni fa la procura di Massa ha deciso di riaprire un’inchiesta su quell’incidente. Lino Totaro, sergente maggiore, dovette lasciare l’Aeronautica perché dichiarato instabile mentalmente. Lui oggi vive in Africa, «abbastanza serenamente». Di Mario Ciancarella si è detto.)

Ustica e l’ipocrita giustizia bifronte. A 38 anni dalla strage, per la Cassazione penale ad abbattere il Dc9 fu una bomba, per la Cassazione civile un missile. In mezzo, risarcimenti milionari, scrive Maurizio Tortorella il 26 giugno 2018 su "Panorama". Trentotto anni dovrebbero bastare, per ottenere la verità, o almeno per ottenere una sola versione accreditata (e credibile) dei fatti. E invece, nel triste anniversario del 27 giugno 1980, gli 81 poveri morti della strage di Ustica continuano a ballare un’oscena danza macabra tra due verità giudiziarie, entrambe ufficiali ma opposte. Da una parte, infatti, esiste una sentenza penale definitiva, che risale al 2006: frutto di una lunga istruttoria, di un processo durato 272 udienze con oltre 4mila testimoni, e di 11 perizie affidate a tecnici di grande valore, quella pronuncia della Cassazione ha stabilito che il 27 giugno 1980 il Dc9 dell’Itavia, precipitato nel Tirreno lungo la rotta Bologna-Palermo, non cadde per colpa di un missile ma per una bomba. Alla fine di un procedimento che aveva messo insieme 1 milione e 750 mila pagine di istruttoria, con quella decisione di 11 anni fa i supremi giudici hanno assolto dall’accusa di depistaggio i generali dell’Aeronautica militare italiana, che peraltro avevano rinunciato alla prescrizione. Dall’altra parte esiste, al contrario, un ginepraio di processi in sede civile che hanno invece avvalorato la tesi del missile. L’ultima è stata una sentenza della Cassazione, pronunciata nel giugno 2017, che ha condannato lo Stato a risarcire con altri 55 milioni di euro i familiari delle 81 vittime. All’opposto dei loro colleghi del penale, i giudici della Cassazione civile si sono convinti (a dire il vero con molte incertezze) che l’incidente del volo Itavia si verificò “a causa dell’operazione di intercettamento realizzata da parte di due caccia, che nella parte finale della rotta del Dc9 viaggiavano parallelamente a esso, di un velivolo militare nascostosi nella scia del Dc9 al fine di non essere rilevato dai radar, e quale diretta conseguenza dell’ esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l'aereo nascosto, oppure quale conseguenza di una quasi-collisione verificati tra l’aereo nascosto e il Dc9”. Il ginepraio è reso ancora più intricato dal fatto che ora la terza sezione civile della stessa Cassazione sta per pronunciarsi sulle dimensioni del risarcimento riservato all’Itavia, la compagnia proprietaria del Dc9, andata fallita dopo il disastro e stabilirà se 265 milioni di euro liquidati dalla Corte di Appello bastano o sono troppi. Il motivo di questa assurda giustizia bifronte va cercato nei suoi effetti risarcitori: infatti, se la causa riconosciuta della strage è la bomba, la responsabilità di non avere vigilato sulla sicurezza dell'aereo ricade sull'Itavia; se è un missile, invece, la responsabilità cade interamente sullo Stato italiano, che avrebbe dovuto prevenire ed evitare l'evento. Va detto che da tempo lo Stato si è fatto carico dei risarcimenti: a ogni famiglia degli 81 morti sono stati assegnati 200 mila euro (per un totale di 15,8 milioni) mentre nel 2004 i 141 familiari superstiti hanno ottenuto un vitalizio di 1.864 euro netti mensili rivalutabili, per un totale di altri 31 milioni al 31 dicembre 2014. Si stima pertanto che lo Stato spenda ancora circa 4 milioni di euro l’anno soltanto per i vitalizi. Ma all’assurdità della giustizia bifronte si aggiunge un altro assurdo, se possibile ancora più grave e politicamente rilevante. Nella scorsa legislatura, i parlamentari della commissione d’inchiesta sul caso Moro hanno scoperto l’esistenza di documenti segreti dai quali emergerebbe con chiarezza la possibilità di un coinvolgimento diretto del terrorismo palestinese nella caduta dell’aereo. Secondo quei documenti, insomma, a far cadere il Dc9 sarebbe stata una bomba che il Fronte di liberazione della Palestina avrebbe piazzato sull’aereo come mostruosa ritorsione per l’arresto di alcuni suoi militanti in Italia. Carlo Giovanardi, che fino allo scorso 4 marzo è stato senatore, ha più volte chiesto al governo di togliere il vincolo del segreto di Stato da quelle carte, senza mai nemmeno ottenere una risposta. "È davvero assurdo e vergognoso che le nostre istituzioni continuino a parlare del dovere di ricercare la verità su Ustica " dice Giovanardi “quando il primo a nasconderla è proprio il governo italiano". Quanti altri anniversari serviranno per fare cadere quella scritta “Top secret”?

Strage di Ustica, il testimone che riscrive la storia d'Italia: "Era guerra, ho visto tutto", scrive il 20 Dicembre 2017 “Libero Quotidiano”. Si riaccende lo scontro politico, dopo le novità arrivate dagli Usa, sul caso Ustica, con la nuova testimonianza su quanto avvenne il 27 giugno del 1980, la notte in cui il Dc9 Itavia, in volo da Bologna a Palermo, con a bordo 81 persone, sparì dai radar, finendo in mare. Le parole di Rian Sandlin, l’ex marinaio della portaerei Saratoga, che al giornalista Andrea Purgatori racconta di un conflitto aereo, nel Mediterraneo, tra caccia americani e libici, rilanciano, di fatto, l’ipotesi di un incidente di guerra che coinvolse il volo civile italiano. Parole che - in attesa di un interessamento della Procura di Roma - riaprono il dibattito tra chi sostiene la tesi della bomba a bordo e chi pensa che a colpire l’aereo sia stato un missile, forse alleato. Per Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione Parenti delle Vittime della strage di Ustica "il fatto che due Mig libici fossero stati abbattuti la notte di Ustica lo avevano già detto altri, ma sentirlo dire da un signore che stava sulla Saratoga, che finora gli Usa ci avevano detto stesse in rada, è una novità importante". "È chiaro che ci sono cose non dette su Ustica, ma il problema non è la verità, perché loro, al governo, sanno qual è la verità, il problema è che non vogliono raccontarla", aggiunge Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione 2 agosto: "Pensavano con la direttiva Renzi di tacitare la richiesta di verità, ma non hanno fatto il loro dovere fino in fondo, ora basta, diano le carte vere". Di cosa "vergognosa" e di "bufala gigantesca", parla invece il senatore di Idea, Carlo Giovanardi. "Sono falsità - sottolinea - già smentite da sentenze penali passate in giudicato che dicono che non c’è stata alcuna battaglia aerea, nessun missile, nessun aereo in volo". Giovanardi, non dà alcun credito alle ultime novità: "Ci sono 4mila pagine di perizie internazionali che dicono dov’era la bomba, quando è esplosa e tutti i dettagli - spiega il senatore di Idea - dall’altra, invece, abbiamo 27 versioni diverse" che accusano "gli Usa, i francesi, i libici". "Ho letto cose terrificanti in Commissione Moro - ricorda il senatore che è membro dell’organismo che indaga sulla morte del leader Dc - sui palestinesi che preparavano un terribile attentato, i documenti sono ancora segretati e Gentiloni, che abbiamo chiesto venisse a riferire, non ci risponde". "Per arrivare a chiarire rendiamo pubbliche quelle carte, in particolare il carteggio del biennio ’79-’80 dei nostri servizi da Beirut che parla delle minacce di rappresaglia da parte dei palestinesi, dopo lo stop al Lodo Moro", conclude il senatore di Idea.

Strage di Ustica, la verità del militare Usa: «Due Mig libici abbattuti dai nostri caccia la sera dell’esplosione». La nuova testimonianza ad «Atlantide», su La7. Torna l’ipotesi del volo colpito per errore, scrive Ilaria Sacchettoni il 20 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Trentasette anni dopo, una nuova testimonianza riaccende la speranza di raggiungere la verità sull’esplosione in volo del Dc-9 che uccise 81 persone sui cieli di Ustica. Brian Sandlin, all’epoca marinaio sulla Saratoga destinata dagli Usa al pattugliamento del Mediterraneo, intervistato (questa sera ad Atlantide su La7) da Andrea Purgatori, autore della prima ricostruzione sulla vicenda, racconta i fatti di cui fu testimone. È la sera del 27 giugno 1980. Dalla plancia della nave che staziona a poche miglia dal golfo di Napoli, il giovane Sandlin assiste al rientro da una missione speciale di due Phantom disarmati, scarichi. Aerei che sarebbero serviti ad abbattere altrettanti Mig libici in volo proprio lungo la traiettoria aerea del Dc-9: «Quella sera — racconta l’ex marinaio — ci hanno detto che avevamo abbattuto due Mig libici. Era quella la ragione per cui siamo salpati: mettere alla prova la Libia». È un’affermazione storica. Per la prima volta qualcuno attesta lo scenario bellico nei cieli italiani durante gli ultimi anni della guerra fredda. «Eravamo coinvolti in un’operazione Nato e affiancati da una portaerei britannica e da una francese» aggiunge Sandlin. La pista del Dc-9 vittima di un’iniziativa militare alleata nei confronti della Libia ha faticato a farsi strada. Ed è ancora alla ricerca di conferme. L’Italia di quegli anni sconta ambiguità. Le istituzioni — per evitare ritorsioni — collaboravano con Gheddafi fornendogli nomi e indirizzi degli oppositori al suo regime che si trovavano in Italia. Gli Usa invece, erano decisi a combatterlo come avverrà in futuro con altri colonnelli (tra cui Saddam Hussein): «Il capitano Flatley — prosegue Sandlin — ci informò che durante le nostre operazioni di volo due Mig libici ci erano venuti incontro in assetto aggressivo e avevamo dovuto abbatterli». L’ex marinaio della Us Navy è pronto a smentire la versione di una bomba terroristica piazzata a bordo dell’aereo Itavia. E a supportare gli approfondimenti dei magistrati della Procura di Roma, Maria Monteleone ed Erminio Amelio, sull’aereo colpito per errore durante un’azione di forza degli alleati. A 57 anni compiuti Sandlin restituisce l’atmosfera che si respirò nei giorni successivi: «Ricordo che in plancia c’era un silenzio assoluto. Non era consentito parlare, non potevamo neppure berci una tazza di caffè o fumare. Gli ufficiali si comportavano in modo professionale ma parlavano poco fra loro». La sensazione diffusa è quella di aver commesso qualcosa di enorme. Possibile che fosse proprio l’abbattimento di un aereo civile? Sandlin non ipotizza ma offre nuovi dettagli. Ma il suo silenzio in tutti questi decenni? È terrorizzato. Nel 1993 la visione di una puntata di 60 minutes (leggendario programma d’inchiesta della Cbs raccontato anche nel film Insider di Michael Mann con Al Pacino) per un attimo addormenta la paura e restituisce memoria all’ex marinaio. Sandlin, però, non trova ancora il coraggio di mettere a disposizione di altri le proprie informazioni. Un sottoufficiale prossimo alla pensione, racconta, era stato ucciso in una rapina tanto misteriosa quanto anomala. Unico ad essere colpito benché in un gruppo di bersagli possibili. Sapeva qualcosa su Ustica? La paura, spiega Sandlin, scompare nel momento in cui cambiano gli scenari internazionali e lo strapotere della Cia è ridimensionato: «Oggi non credo — dice — che possa ancora mordere». E allora l’ex marinaio della Usa Navy parla, racconta e smentisce verità ufficiali. Ad esempio quella del Pentagono sul fatto che, quella notte, i radar della Saratoga sarebbero stati spenti per non disturbare le frequenze televisive italiane. Impossibile, dice l’uomo. Mai e poi mai una nave così avrebbe potuto spegnere i radar.

Strage di Ustica. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La strage di Ustica fu un disastro aereo, avvenuto nella sera di venerdì 27 giugno 1980, quando un aereo di linea Douglas DC-9-15 della compagnia aerea italiana Itavia, decollato dall'Aeroporto di Bologna e diretto all'Aeroporto di Palermo, si squarciò in volo all'improvviso e cadde nel braccio di mare compreso tra le isole tirreniche di Ustica e Ponza, chiamata posizione Condor. Nell'evento persero la vita tutti gli 81 occupanti dell'aereo. Molti aspetti di questo disastro, a partire dalle cause stesse, non sono ancora stati chiariti. Nel corso degli anni, sulla strage di Ustica si sono dibattute principalmente le ipotesi di un coinvolgimento internazionale (in particolare francese, libico e statunitense, con una delle aviazioni militari dei tre Paesi, che avrebbe colpito per errore il DC-9 con un missile diretto al nemico), di un cedimento strutturale o di un attentato terroristico (un ordigno esplosivo nella toilette del velivolo. Nel 2007 l'ex-presidente della Repubblica Cossiga, all'epoca della strage presidente del Consiglio, ha attribuito la responsabilità del disastro a un missile francese «a risonanza e non ad impatto», destinato ad abbattere l'aereo su cui si sarebbe trovato il dittatore libico Gheddafi. Tesi analoga è alla base della conferma, da parte della Corte di Cassazione, della condanna al pagamento di un risarcimento ai familiari delle vittime, inflitta in sede civile ai Ministeri dei Trasporti e della Difesa dal Tribunale di Palermo. I procedimenti penali per alto tradimento, a carico di quattro esponenti dei vertici militari italiani, si sono conclusi con l'assoluzione degli imputati. Altri procedimenti a carico di militari (circa 80) del personale AM si sono conclusi con condanne per vari reati, tra i quali falso e distruzione di documenti. La compagnia Itavia, già pesantemente indebitata, cessò le operazioni il 10 dicembre; il 12 dicembre le fu revocata la licenza di operatore aereo (su rinuncia della stessa compagnia) e, nel giro di un anno, si aprì la procedura di fallimento. Ricostruzione cronologica dell'avvenimento.

Alle 20:08 del 27 giugno 1980 il DC-9 immatricolato I-TIGI decolla per il volo IH870 da Bologna diretto a Palermo con 113 minuti di ritardo accumulati nei servizi precedenti; una volta partito, si svolge regolarmente nei tempi e sulla rotta assegnata (lungo l'aerovia "Ambra 13") fino all'ultimo contatto radio, tra velivolo e controllore procedurale di Roma Controllo, che avviene alle 20:59.

Alle 21:04, chiamato per l'autorizzazione di inizio discesa su Palermo, dove era previsto arrivasse alle 21:13, il volo IH870 non risponde. L'operatore di Roma reitera invano le chiamate; lo fa chiamare, sempre senza ottenere risposta, anche da due voli dell'Air Malta, KM153, che segue sulla stessa rotta, e KM758, oltre che dal radar militare di Marsala e dalla torre di controllo di Palermo. Passa senza notizie anche l'orario di arrivo a destinazione, previsto per le 21:13.

Alle 21:25 il Comando del soccorso aereo di Martina Franca assume la direzione delle operazioni di ricerca, allerta il 15º Stormo a Ciampino, sede degli elicotteri Sikorsky HH-3F del soccorso aereo.

Alle 21:55 decolla il primo HH-3F e inizia a perlustrare l'area presunta dell'eventuale incidente. L'aereo viene dato per disperso.

Nella notte numerosi elicotteri, aerei e navi partecipano alle ricerche nella zona. Solo alle prime luci dell'alba, un elicottero di soccorso individua alcune decine di miglia a nord di Ustica alcuni detriti in affioramento. Poco dopo raggiunge la zona un Breguet Atlantic dell'Aeronautica, che avvista una grossa chiazza di carburante; nel giro di qualche ora cominciano ad affiorare altri detriti e i primi cadaveri dei passeggeri. Ciò conferma che il velivolo è precipitato nel mar Tirreno, in una zona in cui la profondità dell'acqua supera i tremila metri.

Le vittime del disastro furono ottantuno, di cui tredici bambini, ma furono ritrovate e recuperate solo trentotto salme. La Procura di Palermo dispose l'ispezione esterna di tutti i cadaveri rinvenuti e l'autopsia completa di 7 cadaveri, richiedendo ai periti di indicare:

causa, mezzi ed epoca dei decessi;

le lesioni presentate dai cadaveri;

se su di essi si ravvisassero presenze di sostanze tossiche e di corpi estranei;

se vi fossero tracce evidenti di ustioni o di annegamento.

Sulle sette salme di cui fu disposta l'autopsia furono riscontrati sia grandi traumi da caduta (a livello scheletrico e viscerale), sia lesioni enfisematose polmonari da decompressione (tipiche di sinistri in cui l'aereo si apre in volo e perde repentinamente la pressione interna). Nelle perizie gli esperti affermarono che l'instaurarsi degli enfisemi da depressurizzazione precedette cronologicamente tutte le altre lesioni riscontrate, ma non causò direttamente il decesso dei passeggeri facendo loro soltanto perdere conoscenza. La morte, secondo i medesimi esperti, sopravvenne soltanto in seguito, a causa di traumi fatali, riconducibili (così come la presenza di schegge e piccole parti metalliche in alcuni dei corpi) a reiterati urti con la struttura dell'aereo in caduta e, in ultima analisi, all'impatto del DC9 con l'acqua. La ricerca tossicologica dell'ossido di carbonio e dell'acido cianidrico (residui da combustione) fu negativa nel sangue e nei polmoni. Nessuna delle salme presentava segni di ustione o di annegamento. Il controllo radiografico, alla ricerca di residui metallici, risultò positivo su cinque cadaveri. Più precisamente:

nel cadavere 20 due piccole schegge nell'indice e nel medio sinistri;

nel cadavere 34 piccoli frammenti in proiezione della testa dell'omero destra e della quinta vertebra lombare;

nel cadavere 36 minuti frammenti nella coscia sinistra;

nel cadavere 37 un bullone con relativo dado nelle parti molli dell'emibacino;

nel cadavere 38 un frammento delle dimensioni di un seme di zucca e di forma irregolare nella mano destra.

La perizia ritenne di escludere, per le caratteristiche morfologiche e dimensionali, la provenienza dei minuscoli corpi estranei dall'eventuale frammentazione di involucro di un qualsiasi ordigno esplosivo.

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:26:06Z. (ora in GMT):

Roma: «870 identifichi.»

IH870: «Arriva.»

Roma: «Ok, è sotto radar, vediamo che sta andando verso Grosseto, che prua ha?»

IH870: «La 870 è perfettamente allineata sulla radiale di Firenze, abbiamo 153 in prua. Ci dobbiamo ricredere sulla funzionalità del VOR di Firenze.»

Roma: «Sì, in effetti non è che vada molto bene.»

IH870: «Allora ha ragione il collega.»

Roma: «Sì, sì pienamente.»

IH870: «Ci dica cosa dobbiamo fare.»

Roma: «Adesso vedo che sta rientrando, quindi, praticamente, diciamo che è allineato, mantenga questa prua.»

IH870: «Noi non ci siamo mossi, eh?!.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:44:08Z.

IH870: «Roma, la 870.»

Roma: «IH870 per Ponza, 127,35.»

IH870: «127,35. Grazie, buonasera.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:44:44Z.

IH870: «È la 870, buonasera Roma.»

Roma: «Buonasera 870. Mantenga 290 e richiamerà 13 Alfa.»

IH870: «Sì, senta: neanche Ponza funziona?»

Roma: «Prego?»

IH870: «Abbiamo trovato un cimitero stasera venendo... da Firenze in poi praticamente non ne abbiamo trovata una funzionante.»

Roma: «Eh sì, in effetti è un po' tutto fuori, compreso Ponza. Lei quanto ha in prua ora?»

IH870: «Manteniamo 195.»

Roma: «195. Sì, va bene. Mantenga 195, andrà un po' più giù di Ponza di qualche miglio.»

IH870: «Bene, grazie.»

Roma: «E comunque 195 potrà mantenerlo, io penso, ancora un 20 miglia, non di più perché c'è molto vento da ovest. Al suo livello dovrebbe essere di circa 100-120 nodi l'intensità.»

IH870: «Eh sì, in effetti sì, abbiamo fatto qualche calcolo, dovrebbe essere qualcosa del genere.»

Roma: «Ecco, non lo so, se vuole continuare con questa prua altrimenti accosti a destra anche un 15-20 gradi.»

IH870: «Ok. Mettiamo per 210.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:46:31Z.

IH870: «È la 870, è possibile avere un 250 di livello?»

Roma: «Sì, affermativo. Può scendere anche adesso.»

IH870: «Grazie, lasciamo 290.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:50:45Z.

Roma: «L'Itavia 870 diciamo ha lasciato Ponza 3 miglia sulla destra, quindi, quasi quasi, va bene per Palermo così.»

IH870: «Molto gentile, grazie. Siamo prossimi a 250.»

Roma: «Perfetto. In ogni caso ci avverta appena riceve Palermo.»

IH870: «Sì, Papa-Alfa-Lima lo abbiamo già inserito, va bene e abbiamo il DME di Ponza.»

Roma: «Perfetto. Allora normale navigazione per Palermo, mantenga 250, richiamerà sull'Alfa.»

IH870: «Benissimo, grazie.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:56:00Z.

IH870: «È sull'Alfa la 870.»

Roma: «Eh sì, affermativo. Leggermente spostato sulla destra, diciamo 4 miglia e comunque il radartermina. 28,8 per ulteriori.»

IH870: «Grazie di tutto, buonasera.»

Roma: «Buonasera a lei.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:56:54Z.

IH870: «Roma, buonasera. È l'IH870.»

Roma: «Buonasera IH870, avanti.»

IH870: «115 miglia per Papa-Alfa... per Papa-Romeo-Sierra, scusate. Mantiene 250.»

Roma: «Ricevuto IH870. E può darci uno stimato per Raisi?»

IH870: «Sì: Raisi lo stimiamo per gli uno-tre.»

Roma: «870 ricevuto. Autorizzati a Raisi VOR. Nessun ritardo è previsto, ci richiami per la discesa.»

IH870: «A Raisi nessun ritardo, chiameremo per la discesa, 870.»

Roma: «È corretto.»

Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:59:45Z - ultimo segnale del transponder.

Il flight data recorder (FDR) dell'aereo aveva registrato dati di volo assolutamente regolari: prima della sciagura la velocità era di circa 323 nodi, la quota circa 7 630 m (25 000 piedi) con prua a 178°, l'accelerazione verticale oscillava, senza oltrepassare 1,15 g. La registrazione del tranquillo dialogo tra il comandante Domenico Gatti e il copilota, che si raccontavano barzellette, restituito dal cockpit voice recorder (CVR), si era interrotta improvvisamente e senza alcun segnale allarmante che precedesse la troncatura.

Gli ultimi secondi dal CVR: «Allora siamo a discorsi da fare... [...] Va bene i capelli sono bianchi... È logico... Eh, lunedì intendevamo trovarci ben poche volte, se no... Sporca eh! Allora sentite questa... Gua...». La registrazione si era interrotta tagliando l'ultima parola («Guarda!»). Questo particolare potrebbe indicare un'improvvisa interruzione dell'alimentazione elettrica.

Le principali ipotesi sulle quali gli inquirenti hanno indagato sono:

il DC-9 sarebbe stato abbattuto da un missile aria-aria sparato da un aereo militare;

il DC-9 sarebbe precipitato dopo essere entrato in collisione (o in semicollisione) con un aereo militare;

sarebbe avvenuto un cedimento strutturale;

sarebbe esplosa una bomba a bordo.

A partire dalla succitata prima ipotesi, negli anni si è affermata la tesi che in zona vi fosse un'intensa attività aerea internazionale: sebbene dagli enti militari, nazionali e alleati, sino ai primi anni novanta non fosse mai giunta alcuna conferma di tali attività (che pure è stato ipotizzato possano essere state occultate), né sul relitto sia mai stato trovato alcun frammento di missile, ma soltanto tracce di esplosivo, si sarebbe determinato uno scenario di guerra aerea, nel quale il DC-9 Itavia si sarebbe trovato per puro caso mentre era in volo livellato sulla rotta Bologna-Palermo. Testimonianze emerse nel 2013 confermerebbero la presenza di aerei da guerra e navi portaerei. L'occultamento e la distruzione, di alcuni registri (Marsala, Licola e Grosseto) e di alcuni nastri radar (Marsala e Grosseto) che registrarono il tracciato del volo DC-9 IH870, a fronte delle prove prodotte da altri analoghi registri e nastri non occultabili e non distrutti (Fiumicino, Satellite russo), vengono portati a sostegno di tale ipotesi. Da testimonianze risulta che se il disastro avesse avuto cause chiare (difetto strutturale o bomba) non sarebbe stato necessario occultare e distruggere prove di primaria importanza sul volo, come è stato stabilito dalle conclusioni della sentenza nel Procedimento Penale Nr. 527/84 A G. I.. I dati di volo distrutti e recuperati da altre fonti nazionali e internazionali e l'allarme generale della difesa aerea lanciato da due piloti dell'aeronautica militare italiana potrebbero confermare la tesi accusatoria, secondo la quale l'aereo DC-9 Itavia del volo IH870, attorno al quale volavano almeno tre aerei dei quali uno a velocità supersonica, sia stato abbattuto da un aereo che volava a velocità supersonica, tesi proposta per la prima volta dall'esperto del National Transportation Safety Board, John Macidull.

Nel libro pubblicato nel 1994 The other side of deception - ISBN 0-06-017635-0 - scritto dall'ex-agente del Mossad Victor Ostrovsky, a pagina 248 si cita una conversazione tra l'autore ed un collega inglese avvenuta a fine gennaio 1990 in un albergo ad Ottawa (Canada):

"Do you believe or think or know if the Mossad may have had any involvement in what happened to Flight 103 over Lockerbie?"

I was dumbfounded. It took me several seconds to realize what the man had asked me. I responded almost automatically.

"No way".

"Why?"

"No reason. Just no way, that's all. Up to this point, every time Israel or the Mossad has been responsible for the downing of a plane, it's been an accident, and related directly to the so-called security of the state, like the shooting down of the Libyan plane over the Sinai and the Italian plane (thought to carry uranium) in 1980, killing eighty-one people. There is no way that they'd do this".

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"Credi o pensi o sai se il Mossad può essere implicato in quanto è successo al volo 103 su Lockerbie?"

Ero perplesso. Ci misi diversi secondi a realizzare quanto mi era stato chiesto. Risposi quasi automaticamente.

"In nessun modo".

"Perché?"

"Nessun motivo. Semplicemente in nessun modo, è tutto. Sino ad oggi, ogni volta che Israele o il Mossad è stato responsabile dell'abbattimento di un aereo, si è trattato di un incidente, ed in diretta relazione con la cosiddetta sicurezza di Stato, come l'abbattimento dell'aereo libico sul Sinai e l'aereo italiano (che si pensava trasportasse uranio) nel 1980, nel quale furono uccise ottantuno persone. In nessun modo avrebbero fatto una cosa simile".

Victor Ostrovsky non è mai stato interrogato dai giudici italiani in relazione ai fatti della Strage di Ustica ed alle informazioni contenute nel suo libro.

Sul caso Ustica la magistratura italiana ha condotto un'attività di indagine durata per decenni, con cospicue cartelle di atti: al processo di primo grado si giunse con due milioni di pagine di istruttoria, 4 000 testimoni, 115 perizie, un'ottantina di rogatorie internazionali e 300 miliardi di lire di sole spese processuali e quasi trecento udienze processuali. Le indagini vennero avviate immediatamente sia dalla magistratura sia dal Ministero dei Trasporti, all'epoca ministro Formica. Aprirono un procedimento le procure di Palermo, Roma e Bologna, mentre il ministro dei trasporti nominò una commissione d'inchiesta tecnico-formale diretta dal dottor Carlo Luzzatti, che però non concluse mai i suoi compiti, visto che, dopo aver presentato due relazioni preliminari, decise per l'autoscioglimento nel 1982 a causa di insanabili contrasti di attribuzioni con la magistratura. Formica finì con l'adeguarsi alla tesi prevalente, che l'aereo era precipitato per un cedimento strutturale dovuto alla cattiva manutenzione. Il 10 dicembre 1980 Itavia interruppe l'attività, mentre ai dipendenti non veniva più corrisposto lo stipendio. Il Ministero dei Trasporti il 12 dicembre 1980 revocò all'Itavia le concessioni per l'esercizio dell'attività, su rinuncia della stessa compagnia aerea. Dal 1982 l'indagine divenne, di fatto, di esclusiva competenza della magistratura, nella persona del giudice istruttore di Roma Vittorio Bucarelli. La ricerca delle cause dell'incidente, nei primi anni e senza disporre del relitto, non permise di raggiungere dati sufficientemente attendibili. Sui pochi resti disponibili, i periti rinvennero tracce di esplosivi. Nel 1982, una perizia eseguita da parte di esperti dell'aeronautica militare italiana, trovò solo C4, esplosivo plastico presente nelle bombe, come quella fatta esplodere nel successivo 1987 da agenti della Corea del Nord sul volo Korean Air 858. Nella relazione della Direzione laboratori dell'A.M. - IV Divisione Esplosivi e Propellenti (Torri) del 5 ottobre 1982 (parte I, Libro I, Capo I, Titolo III, capitolo III della sentenza ordinanza del giudice istruttore) la causa dell'incidente viene individuata nella detonazione di una massa di esplosivo presente a bordo del velivolo, in ragione della rilevata presenza su alcuni reperti di tracce di T4, e dell'assenza di tracce di TNT. La perizia dell'Aeronautica Militare venne seguita da una controperizia dell'accusa. La seconda repertazione, nel 1987, trovò T4 e TNT su di un frammento dello schienale nº 2 rosso: la perizia chimica Malorni Acampora del 3 febbraio 1987 (disposta dal giudice istruttore nel corso della perizia Blasi: Parte I, Libro I, Capo I, Titolo III, Capitolo IV, pag. 1399 e ss. della sentenza ordinanza del giudice istruttore) rileva la presenza chiara e inequivocabile sia di T4 che di TNT (sempre nel frammento dello schienale nº 2 rosso), miscela la cui presenza è tipica degli ordigni esplosivi. Queste componenti di esplosivi, solitamente presenti nelle miscele di ordigni esplosivi, hanno indebolito l'ipotesi di un cedimento strutturale, come era stato ipotizzato il 28 gennaio 1981 da una commissione nominata dal ministro dei trasporti Formica. L'acclarata presenza di esplosivi indeboliva l'ipotesi di cedimento strutturale, tanto più per cattiva manutenzione. Ciò aprì, in epoche successive, spiragli per richieste di risarcimenti a favore dell'Itavia (cui tuttavia il ministro dei Trasporti Formica aveva revocato la concessione dei servizi aerei di linea per il pesante passivo dei conti aziendali, non per il disastro). Secondo le rivelazioni di due cablogrammi (cable) (03ROME2887 e 03ROME3199) pubblicati sul sito WikiLeaks, l'allora ministro per le relazioni con il parlamento, Carlo Giovanardi, difese in Parlamento la versione della bomba, paragonandola a quella della strage di Lockerbie. Tuttavia, in un'intervista concessa ad AgoraVox Italia, Giovanardi smentì la versione dell'ambasciata statunitense, in cui si legge che lo stesso avrebbe espresso la sua volontà di "mettere a tacere" le ipotesi sulla strage di Ustica. Le parole di Carlo Giovanardi furono poi contestate dalla senatrice Bonfietti, presidente dell'Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica.

Il recupero del relitto. Nel 1987 l'allora ministro del Tesoro Giuliano Amato stanziò i fondi per il recupero del relitto del DC-9, che giaceva in fondo al mar Tirreno. La profondità di 3 700 metri alla quale si trovava il relitto rendeva complesse e costose le operazioni di localizzazione e recupero. Pochissime erano le imprese specializzate che disponevano delle attrezzature e dell'esperienza necessarie: la scelta ricadde sulla ditta francese Ifremer (Institut français de recherche pour l'exploitation de la mer, Istituto di ricerca francese per lo sfruttamento del mare), che il giudice Rosario Priore avrebbe poi ritenuto collegata ai servizi segreti francesi. Sulla conduzione dell'operazione di recupero effettuata dai DSRV della Ifremer, che portò in superficie la maggior parte della cellula dell'aeromobile, scaturirono molti dubbi, principalmente sui filmati consegnati in copia e sul fatto che l'ispezione al relitto documentata dalla ditta francese fosse davvero stata la prima. Le difficoltà tecniche, i problemi di finanziamento e le resistenze esercitate da varie delle parti interessate contribuirono a rimandare il recupero per molti anni. Alla fine due distinte campagne di recupero, nel 1987 e nel 1991, consentirono di riportare in superficie circa il 96% del relitto del DC-9; si specifica che è stato recuperato l'85% della superficie bagnata dell'aereo. Il relitto venne ricomposto in un hangar dell'aeroporto di Pratica di Mare, dove rimase a disposizione della magistratura per le indagini fino al 5 giugno 2006, data in cui fu trasferito e sistemato, grazie al contributo dei Vigili del Fuoco di Roma, nel Museo della Memoria, approntato appositamente a Bologna. Molto interesse destò nell'opinione pubblica il rinvenimento il 10 maggio 1992, durante la seconda campagna di recupero al limite orientale della zona di ricerca (zona D), di un serbatoio esterno sganciabile di un aereo militare, schiacciato e frammentato, ma completo di tutti i pezzi; tali serbatoi esterni generalmente vengono sganciati in caso di pericolo o più semplicemente in caso di necessità (come ad esempio in fase di atterraggio) per aumentare la manovrabilità dell'apparecchio. Il serbatoio fu recuperato il 18 maggio e fu sistemato a Pratica di Mare con gli altri reperti. Lungo 3 metri, per una capienza di 300 U.S. gal (1 135 litri) di combustibile, presentava i dati identificativi: Pastushin Industries inc. pressurized 300 gal fuel tank installation diagram plate 225-48008 plate 2662835 che lo indicavano quindi prodotto dalla Pastushin Aviation Company di Huntington Beach, Los Angeles, California (divenuta poi Pavco)[68] negli Stati Uniti oppure all'estero su licenza. Tale tipo di serbatoio era installabile su almeno quattro modelli di aerei: MD F-4 Phantom (in servizio nelle flotte di Stati Uniti, Israele, Germania, Grecia e Regno Unito), Northrop F-5 (in servizio nel 1980 nelle flotte di Arabia Saudita, Austria, Bahrein, Botswana, Brasile, Canada, Cile, Corea del Sud, Etiopia, Filippine, Giordania, Grecia, Honduras, India, Iran, Iran, Kenya, Libia, Malesia, Norvegia, Pakistan, Paesi Bassi, Singapore, Spagna, Sudan, Svizzera, Thailandia, Taiwan, Tunisia, Turchia, Stati Uniti, Venezuela, Vietnam del Sud e Yemen), F-15 Eagle (in servizio nelle flotte di Arabia Saudita, Giappone, Israele e Stati Uniti), Vought A-7 Corsair II (in servizio nelle flotte di Stati Uniti, Grecia, Portogallo e Thailandia). Nessuno degli aerei listati è stato impiegato nelle flotta di Francia, nazione responsabile dell'abbattimento secondo le ipotesi di Francesco Cossiga e Canal+. Gli Stati Uniti, interpellati dagli inquirenti, risposero che dopo tanti anni non era loro possibile risalire a date e matricole per stabilire se e quando il serbatoio fosse stato usato in servizio dall'Aviazione o dalla Marina degli Stati Uniti. Furono interpellate anche le autorità francesi, che risposero di non aver mai acquistato o costruito su licenza serbatoi di quel tipo; fornirono inoltre copie dei libri di bordo di quel periodo delle portaerei della Marine nationale Clemenceau e Foch.

Buona parte degli oblò del DC-9, malgrado l'esplosione, sono rimasti integri; secondo i periti, questo fatto escluderebbe che l'esplosione sia avvenuta a causa di una bomba collocata all'interno dell'aereo.

Nel 1989 la Commissione Stragi, istituita l'anno precedente e presieduta dal senatore Libero Gualtieri, deliberò di inserire tra le proprie competenze anche le indagini relative all'incidente di Ustica, che da quel momento divenne pertanto, a tutti gli effetti, la Strage di Ustica. L'attività istruttoria della Commissione determinò la contestazione di reati a numerosi militari in servizio presso i centri radar di Marsala e Licola. Per undici anni i lavori si susseguirono, interessando i vari governi del tempo e le autorità militari. Come riportato esplicitamente nelle considerazioni preliminari dell'inchiesta del giudice Priore, sin dalle prime fasi gli inquirenti mossero accuse di scarsa collaborazione e trasparenza da parte di, come definito: «soggetti che a vario titolo hanno tentato di inquinare il processo, e sono riusciti nell'intento per anni». Venne coniato il termine muro di gomma, divenuto poi il termine utilizzato per descrivere il comportamento delle istituzioni nei confronti delle ricostruzioni che attribuivano la causa del disastro aereo di Ustica ad un'azione militare. Dopo cinque mesi, infatti, venne presentata una secca ed essenziale ricostruzione da parte dei due esperti Rana e Macidull, che affermavano con certezza che si era di fronte ad un abbattimento causato da un missile. La ricostruzione non venne presa in seria considerazione dal governo presieduto dall'onorevole Francesco Cossiga, che assunse un orientamento diverso e non fu disposto a modificarlo. Il presidente della società Itavia, Aldo Davanzali, per aver condiviso la tesi del missile, fu indiziato del reato di diffusione di notizie atte a turbare l'ordine pubblico, su iniziativa del giudice romano Santacroce a cui era affidata l'inchiesta sul disastro. L'ex ministro Rino Formica, ascoltato dalla Commissione, dichiarò di ritenere verosimile l'ipotesi di un missile, già da lui sostenuta in un'intervista all'Espresso del 1988: a suo dire, a convincerlo tempestivamente che il DC-9 era stato abbattuto da un missile era stato il generale Saverio Rana, presidente del Registro Aeronautico, il quale all'indomani della sciagura, dopo un primo esame dei dati radar, avrebbe detto al ministro dei Trasporti che l'aereo dell'Itavia era stato attaccato da un caccia ed abbattuto con un missile. Per Formica, il generale Rana - nel frattempo morto per tumore - era «un compagno, un amico» nel quale aveva piena fiducia. In seguito all'intervista all'Espresso, interrogato dalla commissione parlamentare sulle stragi, Formica disse di aver parlato dopo l'incidente solo col ministro della Difesa Lelio Lagorio delle informazioni avute da Rana, anche se non era andato oltre, trattandosi non di certezze ma di opinioni ed intuizioni; ma Lagorio, il 6 luglio 1989, davanti alla stessa commissione, nel confermare che Formica gli parlò del missile, commentò: «Mi parve una di quelle improvvise folgorazioni immaginifiche e fantastiche per cui il mio caro amico Formica è famoso». Il 27 maggio 1990 i periti hanno concluso che si tratta di un missile e non di una bomba a bordo. Malgrado ciò, gli esperti dell'aeronautica militare italiana che hanno partecipato alla superperizia, in qualità di consulenti di parte, continuano a sostenere la tesi della bomba.

Anche gli inquirenti denunciarono esplicitamente che il sostanziale fallimento delle indagini fosse dovuto a estesi depistaggi ed inquinamenti delle prove, operati da soggetti ed entità molteplici, come riportano i passi introduttivi del Procedimento Penale Nr. 527/84 A G. I. «Il disastro di Ustica ha scatenato, non solo in Italia, processi di deviazione e comunque di inquinamento delle indagini. Gli interessi dietro l'evento e di contrasto di ogni ricerca sono stati tali e tanti e non solo all'interno del Paese, ma specie presso istituzioni di altri Stati, da ostacolare specialmente attraverso l'occultamento delle prove e il lancio di sempre nuove ipotesi – questo con il chiaro intento di soffocare l'inchiesta – il raggiungimento della comprensione dei fatti [...] Non può perciò che affermarsi che l'opera di inquinamento è risultata così imponente da non lasciar dubbi sull'ovvia sua finalità: impedire l'accertamento della verità. E che, va pure osservato, non può esserci alcun dubbio sull'esistenza di un legame tra coloro che sono a conoscenza delle cause che provocarono la sciagura ed i soggetti che a vario titolo hanno tentato di inquinare il processo, e sono riusciti nell'intento per anni.» (CAPO 3° Gli inquinamenti. Capitolo I Considerazioni preliminari. pag. 3.) Per questa ipotesi investigativa, assieme alle indagini per la ricerca delle cause si sovrapposero le indagini per provare quegli inquinamenti e quei depistaggi.

Tracciati radar. L'aereo DC-9 era sotto il controllo del Centro regionale di controllo del traffico aereo di Ciampino e sotto la sorveglianza dei radar militari di Licola (vicino Napoli) e di Marsala (in Sicilia). Tra le tracce radar oggetto di visione, è stata accertata la presenza di tracciati radar di numerose stazioni, civili e militari, nazionali ed internazionali.

Il registro del radar di Marsala. Animazione a velocità raddoppiata del tracciato radar, registrato dall'impianto di Ciampino, degli ultimi minuti del volo. Il DC-9 è diretto a sud e vi è un vento a circa 200 km/h verso sud-est. Si notino i due echi senza identificazione sulla sinistra: secondo alcuni periti si tratta della traccia di un aereo, secondo altri di falsi plot, errori del radar. La scritta "IH870" scompare con l'ultima risposta del transponder. Altri contatti su cui si sono concentrate le indagini sono i plot doppi dopo il disastro, sospettati di essere tracce di altri aerei in volo. Tali plot potrebbero anche essere stati determinati, si è ipotizzato, dalla struttura principale dell'aereo in caduta e da fenomeni di chaffing causati da frammenti, anche se restano i dubbi per i plot ad ovest del punto di caduta in quanto sopravvento e quindi difficilmente attribuibili a rottami che cadono nel letto del forte vento di maestrale (che proviene appunto da Nord-Ovest e spinge verso Sud-Est). Durante le indagini si appurò che il registro dell'IC, cioè del guida caccia Muti del sito radar di Marsala, aveva una pagina strappata nel giorno della perdita del DC-9. Il pubblico ministero giunse quindi alla conclusione che fosse stata sottratta la pagina originale del 27 giugno e se ne fosse riscritta poi, nel foglio successivo, una diversa versione. Durante il processo, la difesa contestò questa conclusione e affermò che la pagina mancante non sarebbe stata riferita al giorno della tragedia, ma alla notte tra il 25 e il 26 giugno. L'analisi diretta della Corte concluse che la pagina tra il 25 e il 26 era stata tagliata, come osservato dalla difesa, ma quella che riguarda la sera del 27 giugno era recisa in modo estremamente accurato, così che fosse difficile accorgersene (il particolare era infatti stato omesso all'avvocato difensore). La numerazione delle pagine non aveva invece interruzioni ed era quindi posteriore al taglio. Interrogato a questo proposito, il sergente Muti, l'IC in servizio quella sera a Marsala non fornì alcuna spiegazione («Non so cosa dirle»). La difesa riconobbe in seguito che la pagina del registro dell'IC, cioè del guida caccia Muti in servizio il 27 giugno, era stata effettivamente rimossa dal registro.

Il registro del radar di Licola. Il centro radar di Licola è il più vicino al punto del disastro. All'epoca era di tipo fonetico-manuale: nella sala operativa del sito, le coordinate delle tracce venivano comunicate a voce dagli operatori seduti alle console radar ad altri operatori, che le disegnavano stando in piedi dietro un pannello trasparente. Parallelamente tali dati venivano scritti da altri incaricati sul modello "DA 1". Il "DA 1" del 27 giugno 1980 non fu mai ritrovato.

Aeroporto di Grosseto e centro radar di Poggio Ballone. Il giudice istruttore e la Commissione stragi sono in possesso dei tracciati del radar di Grosseto: nelle registrazioni del radar dell'aeroporto di Grosseto si vedono due aerei in volo in direzione nord, sulla rotta del DC-9 Itavia. Mentre due altre tracce di velivoli, provenienti dalla Corsica, giungono sul posto alcuni minuti dopo l'orario stimato di caduta del DC-9 stesso. I nastri con le registrazioni radar del centro della Difesa aerea di Poggio Ballone sarebbero invece spariti: ne rimangono soltanto alcune trasposizioni su carta di poche tracce.

Aeroporto di Ciampino. Il radar di Ciampino quella sera registrò delle tracce che, secondo i periti interpellati dall'associazione dei parenti delle vittime, potevano essere identificate come una manovra d'attacco aereo condotta nei pressi della rotta del DC-9.

Aeroporto di Fiumicino. Il radar dell'Aeroporto di Roma-Fiumicino registrò il volo del DC-9 Itavia del 27 giugno 1980 nel lasso di tempo intercorso tra le ore 20:58 e le 21:02.

AWACS. In quelle ore, un aereo radar AWACS, un quadrireattore Boeing E-3A Sentry, dell'USAF, uno degli unici due presenti in Europa nel 1980, basati a Ramstein (Germania) dall'ottobre del 1979, risulta orbitante con rotta circolare nell'area a nord di Grosseto. Dotato dell'avanzatissimo radar 3D Westinghouse AN/APY-1 con capacità "Look down", in grado di distinguere i velivoli dagli echi del terreno, era in condizione di monitorare tutto il traffico, anche di bassa quota, per un raggio di 500 km.

Portaerei Saratoga. L'ammiraglio James Flatley al comando della portaerei USS Saratoga della US Navy, ancorata il 27 giugno 1980 nel golfo di Napoli, dopo aver inizialmente dichiarato che «dalla Saratoga non fu possibile vedere nulla perché tutti i radar erano in manutenzione», successivamente cambiò versione: disse che nonostante fossero in corso lavori di manutenzione dei radar, uno di essi era comunque in funzione ed aveva registrato «un traffico aereo molto sostenuto nell'area di Napoli, soprattutto in quella meridionale». A detta dell'ammiraglio, si videro passare «moltissimi aerei». I registri radar della Saratoga sono andati persi. Secondo altre fonti, la Saratoga non si trovava affatto in rada a Napoli il 27 giugno 1980.

Civilavia e Centro bolognese. Le stazioni radar di Civilavia e di Centro bolognese si occupavano di registrare tutti i voli nazionali ed internazionali civili, commerciali e militari, per poi procedere alla stampa e alla fatturazione dei costi di ogni passaggio aereo a ciascuna compagnia, società o autorità competente. I nastri con le registrazioni dei voli, decrittati e stampati, furono acquisiti dal giudice istruttore.

Radar russo. Nell'aprile del 1993 il generale Yuri Salimov, in forza ai servizi segreti russi, affermò di aver seguito i fatti di Ustica attraverso un radar russo basato in Libia che, con l'ausilio di un satellite, era in grado di monitorare il mar Tirreno meridionale.

Il traffico aereo. Diversi elementi portarono gli inquirenti ad indagare sull'eventuale presenza di altri aerei coinvolti nel disastro. Si determinarono con certezza alcuni punti:

In generale la zona sud del Tirreno era utilizzata per esercitazioni NATO.

Furono inoltre accertate in quel periodo penetrazioni dello spazio aereo italiano da parte di aerei militari libici. Tali azioni erano dovute alla necessità da parte dell'Aeronautica Militare Libica di trasferire i vari aerei da combattimento da e per la Jugoslavia, nelle cui basi veniva assicurata la manutenzione ai diversi MiG e Sukhoi di fabbricazione sovietica, presenti in gran quantità nell'aviazione del colonnello Gheddafi.

Il governo italiano, fortemente debitore verso il governo libico dal punto di vista economico (non si dimentichi che dal 1º dicembre 1976 addirittura la FIAT era parzialmente in mani libiche, con una quota azionaria del 13% detenuta dalla finanziaria libica LAFICO, tollerava tali attraversamenti e li mascherava con piani di volo autorizzati per non impensierire gli USA. Spesso gli aerei libici si mimetizzavano nella rete radar, disponendosi in coda al traffico aereo civile italiano, riuscendo così a non allertare le difese NATO.

Diverse testimonianze, inoltre, avevano descritto l'area come soggetta a improvvisa comparsa di traffico militare statunitense. Un traffico di tale intensità da far preoccupare piloti, civili e controllori: poche settimane prima della tragedia di Ustica, un volo Roma-Cagliari aveva deciso per sicurezza di tornare all'aeroporto di partenza; in altre occasioni i controllori di volo avevano contattato l'addetto aeronautico dell'ambasciata USA per segnalare la presenza di aerei pericolosamente vicini alle rotte civili. Più specificamente, durante la giornata del 27 giugno 1980 era segnata nei registri, dalle 10:30 alle 15:00, l'esercitazione aerea USA "Patricia", ed era poi in corso un'esercitazione italiana h. 24 (cioè della durata di ventiquattro ore) a Capo Teulada, segnalata nei NOTAM.

Durante quella sera, tra le ore 20:00 e le 24:00 locali, erano testimoniati diversi voli nell'area da parte di aerei militari non appartenenti all'aeronautica militare italiana: un quadrireattore E-3A Sentry (aereo AWACS o aereo radar), che volava da oltre due ore a 50 km da Grosseto in direzione nord ovest, un CT-39G Sabreliner, un jet executive militare e vari Lockheed P-3 Orion (pattugliatori marini) partiti dalla base di Sigonella, un Lockheed C-141 Starlifter (quadrireattore da trasporto strategico) in transito lungo la costa tirrenica, diretto a sud.

Inoltre, sembra che in quei giorni (ed anche quella sera) alcuni cacciabombardieri F-111 dell'USAF basati a Lakenheath (Suffolk, Gran Bretagna), si stessero trasferendo verso l'Egitto all'aeroporto di Cairo West, lungo una rotta che attraversava la penisola italiana in prossimità della costa tirrenica, con l'appoggio di aerei da trasporto strategico C-141 Starlifter. Gli aerei facevano parte di un ponte aereo in atto da diversi giorni, che aveva lo scopo di stringere una cooperazione con l'Egitto e ridurre la Libia, con la quale vigeva uno stato di crisi aperta sin dal 1973, a più miti consigli.

Intensa e insolita attività di volo fino a tarda sera era testimoniata anche dal generale dei Carabinieri Nicolò Bozzo presso la base aerea di Solenzara, in Corsica, che ospitava vari stormi dell'Armée de l'air francesi: ciò smentiva i vertici militari francesi, i quali avevano affermato ai magistrati italiani di non aver svolto con la loro aeronautica militare alcuna attività di volo nel pomeriggio del 27 giugno 1980.

La sera della strage di Ustica, quattro aerei volavano con lo stesso codice di transponder. Il DC-9 Itavia aveva come codice il n. 1136 e altri tre velivoli, di cui uno sicuramente militare, erano dotati dello stesso numero di riconoscimento.

Dalla perizia tecnico-radaristica risulta che trenta aerei supersonici militari, difensori e attaccanti, sorvolarono la zona di Ustica nel pomeriggio e alla sera del 27 giugno 1980, dalle 17:30 alle 21:15, per 3 ore e 45 minuti. Gli aerei militari avevano tutti il transponder spento per evitare di essere identificati dai radar. Un'esercitazione d'aviazione di marina, come ha detto l'ammiraglio James H. Flatley, nella sua prima versione e che conferma la presenza di una portaerei che raccolse i propri aerei.

Intensa attività militare. Successivamente, all'inizio dell'agosto 1980, oltre a vari relitti furono ritrovati in mare anche due salvagenti e un casco di volo della marina americana; a settembre, presso Messina, si rinvennero frammenti di aerei bersaglio italiani, che sembrano però risalenti a esercitazioni terminate nel gennaio dello stesso anno. Questi dati evidenziano che nell'area tirrenica, in quel periodo del 1980, si svolgeva un'intensa attività militare. Inoltre, benché molti di questi fatti, se presi singolarmente, appaiano in relazione diretta con la caduta del DC-9, si è notata da alcuni la coincidenza temporale dell'allarme degli F-104 italiani su Firenze, al momento del passaggio del DC-9, dell'esistenza di tracce radar non programmate che transitano ad oltre 600 nodi in prossimità dell'aereo civile, della pluritestimonianza dell'inseguimento tra aerei da caccia sulla costa calabra e, infine, delle attività di ricerca, in una zona a 20 miglia ad est del punto di caduta, effettuate da velivoli non appartenenti al Soccorso aereo Italiano.

Due aerei militari italiani danno l'allarme. Due F-104 del 4º Stormo dell'aeronautica militare italiana, di ritorno da una missione di addestramento sull'aeroporto di Verona-Villafranca, mentre effettuavano l'avvicinamento alla base aerea di Grosseto si trovarono in prossimità del DC-9 Itavia. Uno era un F-104 monoposto, con un allievo ai comandi; l'altro, un TF 104 Gbiposto, ospitava due istruttori, i comandanti Mario Naldini e Ivo Nutarelli. Alle ore 20:24, all'altezza di Firenze-Peretola, il biposto con a bordo Naldini e Nutarelli, mentre era ancora in prossimità dell'aereo civile, emise un segnale di allarme generale alla Difesa Aerea (codice 73, che significa emergenza generale e non emergenza velivolo) e nella registrazione radar di Poggio Ballone «il SOS-SIF è [...] settato a 2, ovvero emergenza confermata, ed il blink è settato ad 1, ovvero accensione della spia di Alert sulle consolles degli operatori» – in linguaggio corrente: «il segnale di allarme-SIF (Selective Identification Feature, caratteristica di identificazione selezionabile) è posizionato su 2, ossia emergenza confermata, ed il lampeggìo è posizionato su 1, ossia accensione della spia di allarme sulla strumentazione degli operatori» – quindi risulta che Naldini e Nutarelli segnalarono un problema di sicurezza aerea e i controllori ottennero conferma della situazione di pericolo. I significati di tali codici, smentiti o sminuiti di importanza da esperti dell'aeronautica militare italiana ascoltati in qualità di testi, furono invece confermati in sede della Commissione ad hoc della NATO, da esperti dell'NPC (NATO Programming Centre), i quali difatti hanno affermato nel loro rapporto del 10 marzo 1997: « Varie volte è stato dichiarato lo stato di emergenza confermata relativa alla traccia LL464/LG403 sulla base del codice SIF1 73, che all'epoca del disastro veniva usato come indicazione di emergenza. La traccia ha attraversato la traiettoria del volo del DC-9 alle 18:26, ed è stata registrata per l'ultima volta nei pressi della base aerea di Grosseto alle 18:39». L'aereo ripeté per ben tre volte la procedura di allerta, a conferma inequivocabile dell'emergenza. Né l'aeronautica militare italiana né la NATO hanno mai chiarito le ragioni di quell'allarme.

Il MiG-23 precipitato in Calabria. Il 18 luglio 1980 la carcassa di un MiG-23MS dell'Aeronautica militare libica venne ritrovato sui monti della Sila in zona Timpa delle Magare, nell'attuale comune di Castelsilano, crotonese (allora in provincia di Catanzaro), in Calabria, dalla popolazione locale. Il Giudice Istruttore ipotizzò una correlazione del fatto con la caduta del DC-9 Itavia, in quanto furono depositate agli atti delle testimonianze di diversi militari in servizio in quel periodo, tra le quali quelle del caporale Filippo Di Benedetto e dei suoi commilitoni del battaglione "Sila", del 67º battaglione Bersaglieri "Persano" e del 244º battaglione fanteria "Cosenza", che affermavano di aver effettuato servizi di sorveglianza al MiG-23 non a luglio, bensì a fine giugno 1980, il periodo cioè della caduta del DC-9 Itavia. Si teorizzò quindi che il caccia libico non fosse caduto il giorno in cui fu dichiarato il ritrovamento dalle forze dell'ordine (cioè 18 luglio), ma molto prima, probabilmente la stessa sera della strage, e che quindi il velivolo fosse stato coinvolto, attivamente o passivamente, nelle circostanze che condussero alla caduta dell'aereo Itavia. I sottufficiali Nicola De Giosa e Giulio Linguanti dissero altresì che la fusoliera del MiG era sforacchiata «come se fosse stata mitragliata» da «sette od otto fori da 20 mm» simili a quelli causati da un cannoncino. La perizia eseguita nel corso dell'istruttoria del giudice Vittorio Bucarelli fece bensì emergere elementi che vennero interpretati come coerenti con la tesi che l'aereo fosse precipitato proprio il 18 luglio: dalle testimonianze dei Vigili del Fuoco e dai Carabinieri accorsi sul luogo dello schianto e dal primo esame del medico legale si evinse che il pilota era morto da poco; il paracadute nel quale era parzialmente avvolto era sporco di sangue e il cadavere (non ancora in rigor mortis) riportava ferite in cui era visibile del sangue che iniziava a coagularsi. In aggiunta fu riportato che dai rottami del MiG usciva il fumo di un principio di incendio (subito domato dai Vigili del Fuoco). Per contro tali affermazioni vennero confutate dal professor Zurlo, che in una lettera scritta con il dottor Rondanelli e inviata nel 1981 alla sede dell'Itavia affermò che il cadavere pilota del MiG era in avanzato stato di decomposizione, tale da suggerire una morte avvenuta almeno 20 giorni prima del 23 luglio. A gennaio 2016 un’inchiesta del canale televisivo francese Canal+ addebitò la responsabilità dell'abbattimento dell'aereo Itavia ad alcuni caccia francesi impegnati in un'operazione militare sul mar Tirreno: secondo la ricostruzione proposta, un velivolo estraneo si sarebbe nascosto ai radar volando sotto il DC-9, non riuscendo però ad evitare l'intercettazione da parte dei suddetti caccia francesi, che nel tentativo di attaccarlo avrebbero inizialmente colpito per errore l'I-TIGI. Il velivolo nascosto sarebbe poi comunque stato colpito e infine sarebbe precipitato in Calabria, venendo quindi identificato col MiG caduto a Timpa delle Magare. Le ipotesi del documentario vennero però presto confutate dai documenti di anni di indagini e perizie, come dalla sentenza-ordinanza del giudice Priore. Tra le testimonianze che datano la caduta del MiG al giorno stesso della strage di Ustica, il 27 giugno, si annovera quella dell'ex caporale Filippo Di Benedetto e alcuni suoi ex commilitoni; la tesi è sostenuta dal maresciallo Giulio Linguanti e dal giudice istruttore Rosario Priore, che a sua volta trovò una serie di testimoni che riferirono di aver visto il 27 giugno 1980 due caccia che ne inseguivano un terzo, sparando con il cannoncino, lungo una rotta che da Ustica andava su Lamezia e fino a Castelsilano.

La tesi della bomba. Il giorno dopo il disastro, alle 12:10, una telefonata al Corriere della Sera annunciò a nome dei Nuclei Armati Rivoluzionari, un gruppo terrorista neofascista, che l'aereo era stato fatto esplodere con una bomba da loro posta nella toilette, da uno dei passeggeri: tal Marco Affatigato (imbarcato sotto falso nome), membro dei NAR che - invece - era in quei mesi al servizio dell'intelligence francese e che, nel settembre dello stesso anno, rientrato in Italia, venne recluso nel carcere di Ferrara. Affatigato, però, sconfessò rapidamente la telefonata: per rassicurare la madre chiese alle Digos di Palermo e di Lucca di smentire la notizia della sua presenza a bordo dell'aereo precipitato. Circa un mese dopo ci fu la strage di Bologna. In entrambi i casi, Bologna era la città in cui avrebbero colpito i NAR ma per tutti e due i casi Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, ai vertici del gruppo terrorista, smentirono un coinvolgimento dell'organizzazione negli eventi, come la smentì il colonnello Amos Spiazzi dopo aver conosciuto in carcere Marco Affatigato. Vi è quindi chi ipotizza un depistaggio nel depistaggio, ovvero che la strage di Bologna sia servita ad avvalorare la tesi della bomba dei NAR collocata all'interno dell'aereo.

La tesi della bomba avrebbe diviso anche i periti incaricati dal giudice Vittorio Bucarelli di analizzare i resti ripescati dal fondale marino: un primo momento li vide concordi all'unisono circa il missile; successivamente, due dei cinque tecnici avrebbero cambiato versione propendendo per la bomba. La bomba sarebbe stata collocata durante la sosta nell'aeroporto di Bologna, nella toilette posteriore dell'aereo. La perizia sulle suppellettili del gabinetto ritrovate ha confermato che erano intatte la tavoletta del water e il lavandino: inoltre secondo gli specialisti britannici del Dra di Halstead, nessuno dei pezzi della toilette, water e lavandino è scheggiato da residui di esplosivo. Inoltre il giudice osservò come fosse possibile collocare una bomba su un aereo partito con due ore di ritardo, avendo la certezza che sarebbe esplosa in volo, invece che a terra.

I dialoghi registrati.

Alle 20:58 di quella sera, nella registrazione di un dialogo tra due operatori radar a Marsala, seduti di fronte allo schermo radar, si sentì uno dei due esclamare: «[...] Sta' a vedere che quello mette la freccia e sorpassa!» e poco dopo anche «Quello ha fatto un salto da canguro!»

Alle 22:04 a Grosseto gli operatori radar non si accorsero che il contatto radio con Ciampino era rimasto aperto e che le loro voci venivano registrate. Nella registrazione si sente: «[...] Qui, poi... il governo, quando sono americani...»

e quindi: «Tu, poi... che cascasse...» e la risposta: «È esploso in volo!»

Alle 22:05, a Ciampino, gli operatori, parlando del radar di Siracusa, dissero: «[...] Stavano razzolando degli aerei americani... Io stavo pure ipotizzando una collisione in volo.» ed anche: «Sì, o...di un'esplosione in volo!»

I nastri telefonici e le testimonianze in aula. «Allora io chiamo l'ambasciata, chiedo dell'attaché... eh, senti, guarda: una delle cose più probabili è la collisione in volo con uno dei loro aerei, secondo me, quindi...» (27 giugno 1980, ore 22:39 locali. Dalla telefonata tra Ciampino e l'ambasciata USA). Nel 1991 gli inquirenti entrarono in possesso solo di una piccola parte dei nastri delle comunicazioni telefoniche fatte quella notte e la mattina seguente. La maggior parte di tali nastri è andata perduta, in quanto erano stati riutilizzati sovraincidendo le registrazioni. Dall'analisi dei dialoghi emerse che la prima ipotesi fatta dagli ufficiali dell'aeronautica militare italiana era stata la collisione e che in tal senso avevano intrapreso azioni di ricerca di informazioni, sia presso vari siti dell'aeronautica sia presso l'ambasciata USA a Roma. Più volte si parlava di aerei americani che "razzolano", di esercitazioni, di collisione ed esplosione, di come ottenere notizie certe al riguardo. Tutto il personale che partecipava alle telefonate venne identificato tramite riconoscimenti e incrocio di informazioni. Solo dopo il rinvenimento di quei nastri, si ammise per la prima volta di aver contattato l'ambasciata USA o di aver parlato di "traffico americano"; prima era sempre stato negato. Le spiegazioni fornite dagli interessati durante deposizioni e interrogatori contrastano comunque con il contenuto delle registrazioni o con precedenti deposizioni.

Udienza del 21 febbraio 2001: PM - «Furono fatte delle ipotesi sulla perdita del DC-9 in relazione alle quali era necessario contattare l'ambasciata americana?» Chiarotti - «Assolutamente no, per quello che mi riguardi [...] La telefonata fu fatta per chiedere se avessero qualche notizia di qualsiasi genere che interessasse il volo dell'Itavia, [...]».

Udienza del 7 febbraio 2001: capitano Grasselli - «Normalmente chiamavamo l'ambasciata americana per conoscere che fine avevano fatto dei loro aerei di cui perdevamo il contatto. Non penso però che quella sera la telefonata all'ambasciata americana fu fatta per sapere se si erano persi un aereo. Ho ritenuto la telefonata un'iniziativa goliardica in quanto tra i compiti del supervisore non c'è quello di chiamare l'ambasciata [...]».

Deposizione del 31 gennaio 1992 del colonnello Guidi: - «Ho un ricordo labilissimo anzi inesistente di quella serata. Nessuno in sala operativa parlava di traffico americano, che io ricordi. [...] pensando che l'aeromobile avesse tentato un ammaraggio di fortuna, cercavamo l'aiuto degli americani per ricercare e salvare i superstiti». Una volta fatta ascoltare in aula la telefonata all'ambasciata, Guidi affermò di non riconoscere la propria voce nella registrazione e ribadì che non ricordava la telefonata. Nel 1991 affermava: «Quella sera non si fece l'ipotesi della collisione» e ancora «Non mi risulta che qualcuno mi abbia parlato d'intenso traffico militare [...]. Se fossi stato informato di una circostanza come quella dell'intenso traffico militare, avrei dovuto informare nella linea operativa l'ITAV, nella persona del capo del II Reparto, ovvero: Fiorito De Falco». Nel nastro di una telefonata delle 22:23 Guidi informò espressamente il suo diretto superiore, colonnello Fiorito De Falco, sia del traffico americano, sia di un'ipotesi di collisione, sia del contatto che si cercava di stabilire con le forze USA. Ma nella deposizione dell'ottobre 1991, anche il generale Fiorito De Falco affermava: «[...] Guidi non mi riferì di un intenso traffico militare».

Le morti sospette secondo l'inchiesta Priore. «La maggior parte dei decessi che molti hanno definito sospetti, di sospetto non hanno alcunché. Nei casi che restano si dovrà approfondire [...] giacché appare sufficientemente certo che coloro che sono morti erano a conoscenza di qualcosa che non è stato mai ufficialmente rivelato e da questo peso sono rimasti schiacciati.» (Ordinanza-sentenza Priore, capo 4, pag. 4674).

Per due dei 12 casi di decessi sospetti permangono indizi di relazione al caso Ustica:

maresciallo Mario Alberto Dettori: trovato impiccato il 31 marzo 1987, in un modo definito dalla Polizia Scientifica innaturale, presso Grosseto. Mesi prima, preoccupato, aveva rovistato tutta la casa alla ricerca di presunte microspie. Vi sono indizi che fosse in servizio la sera del disastro presso il radar di Poggio Ballone (GR) e che avesse in seguito sofferto di «manie di persecuzione» relativamente a tali eventi. Confidò alla moglie: «Sono molto scosso... Qui è successo un casino... Qui vanno tutti in galera!». Dettori confidò con tono concitato alla cognata che «eravamo stati a un passo dalla guerra». Tre giorni dopo telefonò al capitano Mario Ciancarella e disse: «Siamo stati noi a tirarlo giù, capitano, siamo stati noi [...]. Ho paura, capitano, non posso dirle altro al telefono. Qui ci fanno la pelle». Il giudice Priore conclude: «Sui singoli fatti come sulla loro concatenazione non si raggiunge però il grado della prova».

maresciallo Franco Parisi: trovato impiccato il 21 dicembre 1995, era di turno la mattina del 18 luglio 1980, data del ritrovamento del MiG libico sulla Sila. Proprio riguardo alla vicenda del MiG erano emerse durante il suo primo esame testimoniale palesi contraddizioni; citato a ricomparire in tribunale, muore pochi giorni dopo aver ricevuto la convocazione. Non si riesce a stabilire se si tratti di omicidio.

Gli altri casi presi in esame dall'inchiesta, sono:

colonnello Pierangelo Tedoldi: incidente stradale il 3 agosto 1980; avrebbe in seguito assunto il comando dell'aeroporto di Grosseto.

capitano Maurizio Gari: infarto, 9 maggio 1981; capo controllore di sala operativa della Difesa Aerea presso il 21º CRAM (Centro Radar Aeronautica Militare Italiana) di Poggio Ballone, era in servizio la sera della strage. Dalle registrazioni telefoniche si evince un particolare interessamento del capitano per la questione del DC-9 e la sua testimonianza sarebbe stata certo «di grande utilità all'inchiesta», visto il ruolo ricoperto dalla sala sotto il suo comando, nella quale, peraltro, era molto probabilmente in servizio il maresciallo Dettori. La morte appare naturale, nonostante la giovane età.

Giovanni Battista Finetti, sindaco di Grosseto: incidente stradale; 23 gennaio 1983. Era opinione corrente che avesse informazioni su fatti avvenuti la sera dell'incidente del DC-9 all'aeroporto di Grosseto. L'incidente in cui perde la vita, peraltro, appare casuale.

maresciallo Ugo Zammarelli: incidente stradale; 12 agosto 1988. Era stato in servizio presso il SIOS di Cagliari, tuttavia non si sa se fosse a conoscenza d'informazioni riguardanti la strage di Ustica, o la caduta del MiG libico.

colonnelli Mario Naldini e Ivo Nutarelli: incidente di Ramstein, 28 agosto 1988. In servizio presso l'aeroporto di Grosseto all'epoca dei fatti, la sera del 27 giugno, come già accennato, erano in volo su uno degli F-104 e lanciarono l'allarme di emergenza generale. La loro testimonianza sarebbe stata utile anche in relazione agli interrogatori del loro allievo, in volo quella sera sull'altro F-104, durante i quali, secondo l'istruttoria, è «apparso sempre terrorizzato». Sempre secondo l'istruttoria, appare sproporzionato - tuttavia non inverosimile - organizzare un simile incidente, con esito incerto, per eliminare quei due importanti testimoni.

maresciallo Antonio Muzio: omicidio, 1º febbraio 1991; in servizio alla torre di controllo dell'aeroporto di Lamezia Terme nel 1980, poteva forse essere venuto a conoscenza di notizie riguardanti il MiG libico, ma non ci sono certezze.

tenente colonnello Sandro Marcucci: incidente aereo; 2 febbraio 1992. Marcucci era un ex pilota dell'Aeronautica militare coinvolto come testimone nell'inchiesta per la strage di Ustica. L'incidente fu archiviato motivando l'errore del pilota. Tuttavia, nel 2013 il pm di Massa Carrara, Vito Bertoni, riaprì l'inchiesta contro ignoti per l'accusa di omicidio. L'associazione antimafia “Rita Atria” denunciò che l'incidente non fu causato da una condotta di volo azzardata, come sostennero i tecnici della commissione di inchiesta, ma probabilmente da una bomba al fosforo piazzata nel cruscotto dell'aereo.

maresciallo Antonio Pagliara: incidente stradale; 2 febbraio 1992. In servizio come controllore della Difesa Aerea presso il 32º CRAM di Otranto, dove avrebbe potuto avere informazioni sull'abbattimento del MiG. Le indagini propendono per la casualità dell'incidente.

generale Roberto Boemio: omicidio; 12 gennaio 1993 a Bruxelles. Da sue precedenti dichiarazioni durante l'inchiesta, appare chiaro che «la sua testimonianza sarebbe stata di grande utilità», sia per determinare gli eventi inerenti al DC-9, sia per quelli del MiG libico. La magistratura belga non ha risolto il caso.

maggiore medico Gian Paolo Totaro: trovato impiccato alla porta del bagno, il 2 novembre 1994. Gian Paolo Totaro era in contatto con molti militari collegati agli eventi di Ustica, tra i quali Nutarelli e Naldini.

Il rinvio a giudizio. Alla luce di queste anomalie inspiegate e delle risposte, da parte del personale dei due siti radar di Marsala e Licola, ritenute insoddisfacenti, il 28 giugno 1989il giudice Bucarelli accolse la richiesta del procuratore Santacroce e rinviò a giudizio per falsa testimonianza aggravata e concorso in favoreggiamento personale aggravato, ventitré tra ufficiali e avieri in servizio il giorno del disastro. L'ipotesi accusatoria fu che i militari, con una vasta operazione di occultamento delle prove e di depistaggio, avrebbero tentato di nascondere una battaglia tra aerei militari, nel corso della quale il DC-9 sarebbe precipitato.

Telefonata anonima a Telefono Giallo. Nel 1988, l'anno prima, durante la trasmissione Telefono giallo di Corrado Augias, con una telefonata anonima qualcuno aveva dichiarato di essere stato «un aviere in servizio a Marsala la sera dell'evento della sciagura del DC-9». L'anonimo aveva riferito che i presenti come lui, avrebbero esaminato le tracce, i dieci minuti di trasmissione di cui parlavano nella puntata, dichiarando: «noi li abbiamo visti perfettamente. Soltanto che il giorno dopo, il maresciallo responsabile del servizio ci disse praticamente di farci gli affari nostri e di non avere più seguito in quella vicenda. [...] la verità è questa: ci fu ordinato di starci zitti».

Scontro aereo tra caccia. In un articolo dal titolo Battaglia aerea poi la tragedia, pubblicato dal quotidiano L'Ora il 12 febbraio 1992, il giornalista Nino Tilotta affermò che l'autore della telefonata sarebbe stato in effetti in servizio allo SHAPE di Mons, in Belgio, e che avrebbe detto in trasmissione di essere a Marsala per non farsi riconoscere. Avrebbe rivelato la sua identità rilasciando l'intervista anni dopo essere andato in pensione in quanto, come aveva affermato, non si sentiva più vincolato dall'obbligo di mantenere il segreto militare. L'articolo parlava di uno scontro aereo avvenuto tra due caccia F-14 Tomcat della US Navy ed un MiG-23 libico. Secondo questa versione, il SISMI all'epoca comandato dal generale Giuseppe Santovito avrebbe avvertito gli aviatori libici di un progetto di attaccare sul mar Tirreno l'aereo nel quale Gheddafi andava in Unione Sovietica. Sembra che i progettisti di questa azione di guerra siano da ricercare tra quelli indicati dall'ammiraglio Martini, e cioè tra francesi e americani. In seguito alla spiata del SISMI, l'aereo che trasportava Gheddafi, arrivato su Malta, tornò indietro, mentre altri aerei libici proseguivano la rotta.

Testimonianze americane. Ventiquattr'ore dopo il disastro del DC-9, l'addetto militare aeronautico americano Joe Bianckino, dell'ambasciata americana a Roma, organizzò una squadra di esperti, formata da William McBride, Dick Coe, William McDonald, dal direttore della CIA a Roma, Duane Clarridge, dal colonnello Zeno Tascio, responsabile del SIOS (servizio segreto aeronautica militare italiana) insieme a due ufficiali italiani. Il giorno successivo alla strage Joe Bianckino era già in possesso dei tabulati radar e i suoi esperti li avevano sottoposti ad analisi. John Tresue, esperto missilistico del Pentagono, affermò, durante il suo interrogatorio come testimone, che gli furono consegnate dopo la sciagura, diverse cartelle con i tabulati dei radar militari; John Tresue informò il Pentagono, che ad abbattere il DC-9 era stato un missile. Il 25 novembre 1980, John Macidull, un esperto americano del National Transportation Safety Board, analizzò il tracciato radar dell'aeroporto di Fiumicino e si convinse che, al momento del disastro, accanto al DC-9 volava un altro aereo. Macidull disse che il DC-9 era stato colpito da un missile lanciato dal velivolo che era stato rilevato nelle vicinanze, velivolo non identificato in quanto aveva volontariamente spento il dispositivo di riconoscimento (transponder). Tale aereo, secondo Macidull, attraversava la zona dell'incidente da Ovest verso Est ad alta velocità, tra 300 e 550 nodi, nello stesso momento in cui si verificava l'incidente al DC-9, ma senza entrare in collisione.

Testimonianze libiche. Nel 1989 l'agenzia di stampa libica Jana preannunciò la costituzione di un comitato supremo d'inchiesta sulla strage di Ustica: «Tale decisione è stata presa dopo che si è intuito che si è trattato di un brutale crimine commesso dagli USA, che hanno lanciato un missile contro l'aereo civile italiano, scambiato per un aereo libico a bordo del quale viaggiava il leader della rivoluzione.

La firma falsa del presidente della Repubblica. Mario Ciancarella, ex capitano che indagava sull'incidente aereo, venne cacciato dall’Aeronautica con decreto del Quirinale nel 1983. Tuttavia il decreto non era stato firmato veramente dal presidente della Repubblica Sandro Pertini, ma da un soggetto esterno che ha falsificato la sua firma. In seguito a questa scoperta, è stato richiesto il reintegro del capitano Mario Ciancarella al ministro della difesa Roberta Pinotti.

Il processo della strage di Ustica. Il processo sulle cause e sugli autori della strage in realtà non si è mai tenuto in quanto l'istruttoria relativa definì "ignoti gli autori della strage" e concluse con un non luogo a procedere nel 1999. (ref. "L'istruttoria Priore") Il reato di strage non cade comunque in prescrizione per cui, se dovessero emergere nuovi elementi relativi, un eventuale processo potrebbe essere ancora condotto. Il processo complementare sui fatti di Ustica, per la parte riguardante i reati di depistaggio, imputati a carico di alti ufficiali dell'aeronautica militare italiana, è stato invece definitivamente concluso in Cassazione nel gennaio del 2007, con una sentenza che ha negato si siano verificati depistaggi.

L'istruttoria Priore. Le indagini si conclusero il 31 agosto 1999, con l'ordinanza di rinvio a giudizio-sentenza istruttoria di proscioglimento, rispettivamente, nei procedimenti penali nº 527/84 e nº 266/90, un documento di dimensioni notevoli che, dopo anni di indagini, la quasi totale ricostruzione del relitto, notevole impiego di fondi, uomini e mezzi, escluse le ipotesi di una bomba a bordo e di un cedimento strutturale, circoscrivendo di conseguenza le cause della sciagura ad un evento esterno al DC-9. Non si giunse però a determinare un quadro certo ed univoco di tale evento esterno. Mancano tuttora, del resto, elementi per individuare i responsabili. «L'inchiesta», si legge nel documento, «è stata ostacolata da reticenze e false testimonianze, sia nell'ambito dell'aeronautica militare italiana che della NATO, le quali hanno avuto l'effetto di inquinare o nascondere informazioni su quanto accaduto». L'ordinanza-sentenza concludeva: «L'incidente al DC-9 è occorso a seguito di azione militare di intercettamento, il DC-9 è stato abbattuto, è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un'azione, che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati i confini e i diritti.»

Il processo in Corte di Assise sui presunti depistaggi. Il 28 settembre 2000, nell'aula-bunker di Rebibbia appositamente attrezzata, iniziò il processo sui presunti depistaggi, davanti alla terza sezione della Corte di Assise di Roma. Dopo 272 udienze e dopo aver ascoltato migliaia tra testimoni, consulenti e periti, il 30 aprile 2004, la corte assolse dall'imputazione di alto tradimento - per aver gli imputati turbato (e non impedito) le funzioni di governo - i generali Corrado Melillo e Zeno Tascio "per non aver commesso il fatto". I generali Lamberto Bartolucci e Franco Ferri furono invece ritenuti colpevoli ma, essendo ormai passati più di 15 anni, il reato era già caduto in prescrizione. Anche per molte imputazioni relative ad altri militari dell'Aeronautica Militare Italiana (falsa testimonianza, favoreggiamento, e così via) fu accertata l'intervenuta prescrizione. Il reato di abuso d'ufficio, invece, non sussisteva più per successive modifiche alla legge. La sentenza non risultò soddisfacente né per gli imputati Bartolucci e Ferri, né per la Procura, né infine per le parti civili. Tutti, infatti, presentarono ricorso in appello.

Il processo in Corte di Assise d'Appello, sui depistaggi. Anche il processo davanti alla Corte di Assise d'Appello di Roma, aperto il 3 novembre 2005, si è chiuso il successivo 15 dicembre con l'assoluzione dei generali Bartolucci e Ferri dalla imputazione loro ascritta perché il fatto non sussiste. La Corte rilevava infatti che non vi erano prove a sostegno dell'accusa di alto tradimento. Le analisi condotte nella perizia radaristica Dalle Mese, sono state eseguite con «sistemi del tutto nuovi e sconosciuti nel periodo giugno-dicembre 1980» e pertanto non possono essere prese in considerazione per giudicare di quali informazioni disponessero, all'epoca dei fatti, gli imputati. In ogni caso la presenza di altri aerei deducibile dai tracciati radar non raggiunge in alcuna analisi il valore di certezza e quindi di prova. Non vi è poi prova che gli imputati abbiano ricevuto notizia della presenza di aerei sconosciuti o USA collegabili alla caduta del DC-9.

Il ricorso in Cassazione (procedimento penale). La Procura generale di Roma propose ricorso per cassazione chiedendo l'annullamento della sentenza della Corte d'Appello del 15 dicembre 2005, e come effetto dichiarare che «il fatto contestato non è più previsto dalla legge come reato» anziché «perché il fatto non sussiste». La legge inerente all'alto tradimento venne infatti modificata con decreto riguardante i reati d'opinione l'anno successivo. Il 10 gennaio 2007 la prima sezione penale della Cassazione ha assolto con formula piena i generali Lamberto Bartolucci e Franco Ferri dichiarando inammissibile il ricorso della Procura generale e rigettando anche il ricorso presentato dal governo italiano.

Le dichiarazioni di Cossiga: ipotesi francese e nuova inchiesta. A ventotto anni dalla strage, la procura di Roma ha deciso di riaprire una nuova inchiesta a seguito delle dichiarazioni rilasciate nel febbraio 2007 da Francesco Cossiga. L'ex presidente della Repubblica, presidente del Consiglio all'epoca della strage, ha dichiarato che ad abbattere il DC-9 sarebbe stato un missile «a risonanza e non a impatto», lanciato da un velivolo dell'Aéronavale decollato dalla portaerei Clemenceau, e che furono i servizi segreti italiani ad informare lui e l'allora ministro dell'Interno Giuliano Amato dell'accaduto. In relazione a ciò, il giudice Priore dichiarò in un'intervista all'emittente francese France 2 che l'ipotesi più accreditata era che ci fosse un elemento militare francese.

Perizie d'ufficio e consulenze tecniche di parte. Volendo fare una breve sintesi dell'enorme numero di perizie d'ufficio e consulenze di parte, oltre un centinaio al termine del 31 dicembre 1997, possiamo ricordare: perizie tecnico-scientifiche: necroscopiche, medico-legali, chimiche, foniche, acustiche, di trascrizione, grafiche, metallografico-frattografiche, esplosivistiche, che non sono mai state contestate da alcuna parte.

Sono state essenzialmente quattro:

Stassi, Albano, Magazzù, La Franca, Cantoro, riguardanti le autopsie dei cadaveri ritrovati, durata anni, non s'è mai pienamente conclusa;

Blasi, riguardante il missile militare che ha colpito l'aereo civile, durata molti anni, è sfociata in spaccature profondissime e mai risolte;

Misiti, riguardante l'ipotesi bomba, durata più anni, è stata rigettata dal magistrato perché affetta da tali e tanti vizi di carattere logico, da molteplici contraddizioni e distorsioni del materiale probatorio da renderlo inutilizzabile ai fini della ricostruzione della verità;

Casarosa, Dalle Mese, Held, concernente la caduta del MiG-23.

Perizie d'ordine generale ovvero quelle con quesiti sulla ricostruzione dei fatti e sulle loro cause, che sono state sottoposte a critiche, contestazioni ed accuse:

radaristiche che hanno determinato documenti di parte critici e contrastati, in particolare l'interpretazione dei dati radar ovvero l'assenza o la presenza di altri velivoli all'intorno temporale e spaziale del disastro;

esplosivistica, dalle cui sperimentazioni sono state tratte deduzioni di parte a volte non coincidenti.

Le dichiarazioni di Giorgio Napolitano. L'8 maggio 2010, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo, ha chiesto la verità sulla strage di Ustica. Poco prima Fortuna Piricò, vedova di una delle vittime della strage, aveva chiesto di «completare la verità giudiziaria che ha parlato di una guerra non dichiarata, di completarla definendo le responsabilità». Una richiesta che Napolitano ha appoggiato: «Comprendo il tenace invocare di ogni sforzo possibile per giungere ad una veritiera ricostruzione di quel che avvenne quella notte». Intorno a quella strage, Napolitano ha visto «anche forse intrighi internazionali, [...] opacità di comportamenti da parte di corpi dello Stato». Poco tempo dopo, il 26 giugno 2010, in occasione del trentennale del disastro, il Presidente ha inviato un messaggio di cordoglio ai parenti delle vittime: «Il dolore ancora vivo per le vittime si unisce all'amara constatazione che le indagini svolte e i processi sin qui celebrati non hanno consentito di fare luce sulla dinamica del drammatico evento e di individuarne i responsabili... Occorre il contributo di tutte le istituzioni a un ulteriore sforzo per pervenire a una ricostruzione esauriente e veritiera di quanto accaduto, che rimuova le ambiguità e dipani le ombre e i dubbi accumulati in questi anni.». Anche in occasione del trentunesimo anniversario della strage, il 27 giugno 2011, il presidente Napolitano ha lanciato un appello perché si compia ogni sforzo, anche internazionale, per dare risposte risolutive.

Il Memorandum e le intercettazioni di Massimo Carminati. Il 2 settembre 2014, sono stati rivelati gli appunti segreti, le informative e i carteggi segreti del Ministero degli Affari Esteri, contenuti nel Memorandum che ha per oggetto la strage di Ustica in relazione alle questioni informative aperte con gli Stati Uniti. Sempre nel 2014, stando ad alcune intercettazioni emerse durante le indagini sulla cosiddetta Mafia Capitale uno dei boss della cupola mafiosa, Massimo Carminati, conversando con un suo collaboratore avrebbe affermato che «la responsabilità di Ustica era degli Stati Uniti».

Condanna in sede civile dei ministeri dell'interno e dei trasporti. Il 10 settembre 2011, dopo tre anni di dibattimento, una sentenza emessa dal giudice civile Paola Proto Pisani, ha condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti al pagamento di oltre 100 milioni di euro in favore di 42 (quarantadue) familiari delle vittime della Strage di Ustica. Alla luce delle informazioni raccolte durante il processo, i due ministeri sono stati condannati per non aver agito correttamente al fine di prevenire il disastro, non garantendo che il cielo di Ustica fosse controllato a sufficienza dai radar italiani, militari e civili (alché non fu garantita la sicurezza del volo e dei suoi occupanti), e per aver successivamente ostacolato l'accertamento dei fatti. Le conclusioni del giudice di Palermo escludono che una bomba fosse esplosa a bordo del DC-9, affermando bensì che l'aereo civile fosse stato abbattuto durante una vera e propria azione di guerra, dipanatasi senza che nessuno degli enti controllori preposti intervenisse. La sentenza individuò inoltre responsabilità e complicità di soggetti dell'Aeronautica Militare Italiana nel perpetrare atti illegali finalizzati a impedire l'accertamento della corretta dinamica dei fatti che condussero alla strage. Il 28 gennaio 2013 la Corte di Cassazione, nel respingere i ricorsi dell'avvocatura dello Stato ha confermato la precedente condanna, condividendo che il DC-9 Itavia fosse caduto non per un'esplosione interna, bensì a causa di un missile o di una collisione con un aereo militare, essendosi trovato nel mezzo di una vera e propria azione di guerra. I competenti ministeri furono dunque condannati a risarcire i familiari delle 81 vittime per non aver garantito, con sufficienti controlli dei radar civili e militari, la sicurezza dei cieli. La sentenza fu accolta favorevolmente dall'associazione dei familiari delle vittime. Il 30 giugno 2017 un ulteriore ricorso dell'avvocatura dello Stato è stato rigettato dalla Corte d'Appello di Palermo, che ha nuovamente additato a causa dell'incidente un atto ostile perpetrato da un aereo militare straniero.

Risarcimento danni all'Itavia e ai suoi dipendenti. Aldo Davanzali, anche se formalmente non per motivi direttamente correlati alla sciagura, perse la compagnia aerea Itavia, che cessò di volare e fu posta in amministrazione controllata nel 1980, con i conti in rosso, previa revoca della licenza di operatore aereo: un migliaio di dipendenti restarono senza lavoro. Probabilmente anche l'errata conclusione peritale in merito ai motivi del disastro influì sulla decisione di chiudere la società. Lo stesso Davanzali chiese allo Stato un risarcimento di 1 700 miliardi di lire per i danni morali e patrimoniali subìti a seguito della strage di Ustica, nell'aprile 2001. All'Itavia saranno infine corrisposti 108 milioni di euro, a risarcimento delle deficienze dello Stato nel garantire la sicurezza dell'aerovia su cui volava il DC-9.

Risarcimento recupero carcassa del DC-9. La Corte dei Conti richiese un risarcimento di 27 miliardi di lire a militari e personaggi coinvolti, come compenso per il recupero della carcassa del DC9.

Risarcimento vittime. La Corte di Cassazione, il 28 gennaio 2013, ha riconosciuto un risarcimento di 1,2 milioni di euro ai familiari di quattro vittime della strage di Ustica. Il giudice di Palermo, il 9 ottobre 2014, ha condannato il ministero della Difesa e il ministero dei Trasporti, a rimborsare le spese di giudizio e a risarcire con 5 637 199 euro, 14 familiari o eredi, di Annino Molteni, Erica Dora Mazzel, Rita Giovanna Mazzel, Maria Vincenza Calderone, Alessandra Parisi e Elvira De Lisi morti nella tragedia aerea di Ustica.

Ustica, sul Dc9 abbattuto la summa dei depistaggi, simbolo delle stragi italiane. Si sa tutta la verità sull'abbattimento dell'aereo Itavia in quel giugno 1980? Scrive Beppe Crespolini l'1 luglio 2017 su "Bergamo news". Le stragi ed alcuni fatti gravissimi accaduti in Italia, alludo, ad esempio, all’omicidio Moro, alle stragi di Bologna e di Brescia, sono soggetti a depistaggi e a inquinamenti di prove che allontanano la verità e lasciano in testa il dubbio che non tutto sia stato detto per coprire personaggi, istituzioni e azioni di paesi ai quali in quei giorni ed ancora oggi, non si vogliono attribuire, per convenienze politiche e strategiche, responsabilità. Connivenze di servizi segreti, di politici e interessi che volano molto al di sopra delle teste dei cittadini comuni rappresentano quella ragion di stato che piange davanti alle telecamere dopo aver condiviso la responsabilità dei morti con altre realtà e aver architettato sordide coperture agli autori dei misfatti. Vien da chiedersi se l’etica abbia mai sfiorato coloro che siedono nelle famigerate “stanze dei bottoni” o se la ragione di stato autorizzi il sacrificio di molte persone o di un solo cittadino per compiacere alleati ritenuti utili in un’ottica che a noi non è dato di comprendere. In questi giorni ricorre un nuovo triste anniversario il cui racconto sintetizzo per ragioni di cronaca, perché non venga dimenticato il dolore inflitto alle famiglie delle 81 persone che hanno perso la vita in quel lontano 27 giugno del 1980. Sono le ore 20,08 del 27 giugno 1980. Il DC9 I-TIGI della compagnia aerea Itavia scompare dall’aerovia Ambra 13. Dopo l’ultimo contatto radio, avvenuto alle 20,59 con Roma e la successiva autorizzazione ad iniziare la discesa verso Palermo, l’aereomobile non dà più segnali. I tentativi di comunicare con il comandante sono vani. Anche due aerei di Air Malta, il KM 153 e il KM 758 che seguono la stessa rotta, tentano di mettersi in contatto con il volo Itavia I-TIGI. Nessuna risposta. Alle 21,56 si alza in volo il primo elicottero Sikorski per cercare il velivolo scomparso. Nessuna traccia viene trovata. L’aeromobile è dato per disperso e solo alle prime luci dell’alba si individua l’area di mare nel quale l’aereo, o quello che resta di lui, si è inabissato. Degli 83 passeggeri, dei quali 13 bambini, ne vengono ripescati solo 38. E qui inizia la ridda delle ipotesi e delle certezze alle quali seguono regolari smentite che indicano nel cedimento strutturale del velivolo prima, e nello scoppio di un ordigno a bordo successivamente, le cause del disastro. Una figura di spicco, anche in questo caso, così come nel caso Moro, sostiene tesi che poi verranno tutte cancellate mano a mano che le indagini proseguono: Francesco Cossiga. Anche Giovanardi fu sospettato di voler mettere a tacere “l’incidente” obbedendo, probabilmente, a qualche ordine impartito da ambienti ai quali non si può che dire sì. Furono investiti più di 300 miliardi di lire in indagini e ricuperi dal mare delle parti dell’aereo e continuarono per molto tempo a sovrapporsi tesi diverse, fino a che non si arrivò ad una prima ammissione di responsabilità che attribuiva la causa del disastro ad un missile sganciato da aerei francesi di stanza in Corsica. Ma anche questa ipotesi perse di credibilità fino a che si arrivò, con estrema difficoltà, ad ammettere che l’aereo di Itavia fu abbattuto da un caccia americano durante la battaglia con un Mig libico che viaggiava sotto la pancia del DC9, nel tentativo di far rientro alla base senza che nessuno lo individuasse. Il MIG libico fu abbattuto lo stesso giorno della scomparsa dai radar del DC9 Itavia, ma non fu il MIG a causarne la distruzione, bensì uno dei due caccia americani che ingaggiò il combattimento con l’aereo libico che stava rientrando alla base dopo la manutenzione effettuata in Iugoslavia. La tesi che ormai si dà per certa è che nell’inseguimento del MIG, il caccia predator americano sia entrato in collisione con il DC9 Itavia. Pare che i nostri servizi segreti fossero tacitamente consenzienti al passaggio sul nostro territorio del MIG nel viaggio di rientro alla base. Ma anche la data dell’abbattimento del Mig, in un primo momento, fu spostata, in modo tale da non mettere in relazione i due avvenimenti. Come sempre accade in presenza di fatti di gravità assoluta, si verificarono alcuni suicidi e morti “casuali” in incidenti stradali e per infarto tra i testimoni più vicini alla verità, durante lo svolgimento delle indagini. Negli scorsi mesi è uscita una pellicola che, personalmente, ritengo molto ben realizzata e rispettosa dello svolgimento dei fatti, per quanto sia consentito ad un film. Il titolo è Ustica, per la regia di Sergio Martinelli, regista lombardo specializzato proprio nella ricerca della verità sulle cause e sulle responsabilità di persone o “entità” che hanno provocato eventi tristissimi nella nostra Repubblica. Si può ancora parlare di Repubblica quando il destino di una nazione come la nostra è talmente condizionato da parentele con realtà extra-nazionali delle quali si tutelano gli interessi? Il prezzo da pagare è il depistaggio dei fatti e la creazione di barriere che devono impedire, nella mente di chi le crea, di arrivare a capo delle responsabilità se non in tempi biblici, con difficoltà enormi e con ulteriori sacrifici di vite umane. Così, ai morti di Ustica vanno aggiunte altre vittime, vale a dire, quelle persone che, per loro sfortuna, erano in possesso della verità, ragion per cui sono state “suicidate”, nel timore che riferissero i fatti così come si erano svolti. Le logiche politiche, talora, prescindono dalla vita e dalla morte della gente. Ci sono ancora tanti casi di disastri e di stragi aperti nella nostra nazione ma temo, ahimé, che difficilmente la verità, questa grande premessa etica della vita di tutti noi, potrà venire a galla nella sua cruda e nuda essenza. L’ affermazione della verità, dovere morale di qualsiasi essere umano degno di tale nome, porterebbe a galla responsabilità di persone e di istituzioni che negandola, si sono qualificati come schiavi al servizio della menzogna, per favorire stati amici o istituzioni indegne. Quando si compiono azioni criminali, immorali e irrispettose della dignità dei cittadini e della loro sicurezza, sarebbe auspicabile che le prove venissero immediatamente prodotte. Questo eviterebbe annosi processi e dispendio di milioni di euro o di lire, moneta di quel tempo, che avrebbero potuto essere destinati al benessere della gente. Ma da noi, le verità sono tante e si confondono, perché ognuno di coloro che le professa, per amore del proprio tornaconto o per imposizione di qualche entità più forte, si rende disponibile ad assecondare con servilismo le coperture depistanti. I modi per essere ringraziati sono molti e non sempre fatti di denaro. La garanzia della conquista del potere o del suo mantenimento è più gratificante di valige di denari, colorati di rosso, quel rosso sangue che campeggia anche nella nostra bandiera.

Ustica, la contro indagine: "il testimone fu eliminato con un sabotaggio". L'incidente delle Frecce tricolore dove perse la vita un testimone della vicenda di Ustica secondo i familiari non sarebbe stato un incidente, scrive Alessandro Raffa Esperto di Cronaca su "it.blastingnews.com" e curato da Pierluigi Crivelli il 4 luglio 2017. Sono trascorsi più di 37 anni dal quel tragico 27 Giugno 1980 in cui avvenne la strage di Ustica, tuttavia diversi aspetti della vicenda non sono stati ancora chiariti, e negli anni si sono moltiplicate le voci di quanti pensano ad un coinvolgimento dei servizi segreti. Diversi casi di suicidio accaduti a personaggi legati alla vicenda a vario titolo hanno fatto ipotizzare negli anni che in alcuni casi si potesse trattare di omicidi mascherati da suicidio, e secondo quanto sostengono i familiari di un pilota morto in seguito all'incidente di Ramstein, persino la strage in oggetto non sarebbe frutto del caso, ma della necessità di eliminare un testimone scomodo.

L'incidente di Ramstein. Con questo nome viene ricordato l'incidente aereo accaduto nell'Agosto 1988 durante un'esibizione delle "frecce tricolore" presso la base Nato di Ramstein, in Germania. Secondo la versione ufficiale un errore del pilota Ivo Nutarelli provocò un incidente che coinvolse tre aerei, due dei quali precipitarono in fiamme sulla pista, mentre un terzo cadde sulla folla, provocando 67 morti e oltre 300 feriti. A distanza di 29 anni una contro indagine della famiglia di Nutarelli sostiene però che non si sia trattato di un normale incidente, ma che questo sia stato frutto di un sabotaggio. E mediante un avvocato chiedono di riaprire il caso, almeno per riabilitare la posizione del pilota incolpato di essere il responsabile dell'errore umano che portò alla tragedia.

Nutarelli era un testimone di Ustica. La sera della strage di #ustica il pilota Nutarelli insieme al collega Naldini si erano alzati in volo dalla base di Grosseto e avevano volato sulla scia del Dc 9 Itavia della strage, fino a 10 minuti prima che questo cadesse nelle acque di Ustica. Durante il volo dagli aerei dei due piloti partirono due segnali di allarme, che avrebbero dato secondo quanto ricostruito in seguito dopo aver visto altri aerei da combattimento volare negli spazi destinati ai voli civili. Secondo alcuni si sarebbe trattato di un velivolo libico, mentre secondo altri sarebbero stati aerei da guerra statunitensi o francesi. Quanto i due piloti avevano visto nei cieli lo riferirono al Colonnello Tedoldi, che alcune settimane dopo però perse la vita mentre viaggiava in automobile con la moglie ed i figli.

La contro inchiesta. Secondo l'avvocato Osnato, che segue la vicenda di Ustica per conto dei familiari delle vittime, Nutarelli ed il collega Naldini erano certamente al corrente di molteplici fatti riguardanti la strage di Ustica, cosa che trova riscontro anche nelle carte dei titolari dell'inchiesta, tuttavia il loro nome e la volontà di sentirli arrivano nell'aula del tribunale solo ad otto anni di distanza dai fatti, quando i due sono morti. Di quel volo purtroppo mancano le conversazioni radio tra i due velivoli e la base, in quanto trattandosi di un'esercitazione non erano previste conversazioni. La morte per i due piloti è arrivata due settimane dopo che i Carabinieri si erano recati alla base radar di Poggio Ballone per sequestrare i tracciati relativi al volo di Nutarelli e Naldini. E secondo l'avvocato non sarebbe un caso. "A Ramstein si è trattato di omicidio e non di un fortuito incidente", afferma senza mezzi termini.

Ustica, la Corte d'appello conferma il risarcimento da 17 milioni, scrive il 29/06/2017 “La Sicilia”. I giudici di secondo grado: "Ci fu depistaggio e il DC) fu abbattuto da un missile". Ma il depistaggio è prescritto, mentre resta in piedi l'indennizzo per "fatto illecito". Lo Stato dovrà risarcire oltre 17 milioni di euro a 29 familiari delle vittime della strage di Ustica del 27 giugno del 1980, che registrò 81 morti. E’ quanto ha stabilito, con una sentenza depositata ieri, la prima sezione civile della Corte d’Appello di Palermo rigettando l’appello che l’Avvocatura dello Stato aveva presentato contro la sentenza di condanna emessa dal Tribunale civile di Palermo nel 2011. Secondo la Corte del capoluogo siciliano, resta accertato il depistaggio delle indagini svolte all’indomani del disastro aereo del Dc9 Itavia. Il velivolo, che da Bologna era diretto a Palermo, con ogni probabilità fu abbattuto da un missile e a parere dei giudici civili di Palermo i Ministeri della Difesa e dei Trasporti non assicurarono al volo adeguate condizioni di sicurezza. Per i giudici palermitani è esclusa l’ipotesi alternativa della bomba collocata a bordo dell’aereo o di un cedimento strutturale, in linea, quindi, con lo scenario già tracciato dall’istruttoria conclusa nel '99 dal giudice Rosario Priore. (ANSA). La Corte d’Appello ha dichiarato la prescrizione del risarcimento per depistaggio, ma ha confermato il risarcimento da fatto illecito liquidando, complessivamente, in favore dei 29 familiari oltre 17 milioni e 400 mila euro di risarcimento. Alla somma dovranno essere detratti gli indennizzi già ricevuti dallo Stato.

Strage di Ustica: per la Corte d'Appello di Palermo l'aereo fu abbattuto da un missile, per il senatore Giovanardi la verità è un'altra, scrive "AvioNews" il 30 giugno 2017. E' stata depositata mercoledì 28 giugno 2017 la sentenza che conferma il risarcimento per i familiari delle vittime del DC-9 precipitato il 27 giugno 1980. (WAPA) - La prima sezione civile della Corte di Appello di Palermo ha depositato mercoledì la sentenza con cui obbliga lo Stato a risarcire con oltre diciassette milioni di Euro i familiari delle 81 vittime della strage di Ustica. Secondo i giudici l'aereo DC-9 di Itavia decollato il 27 giugno 1980 da Bologna alla volta di Palermo e precipitato nel Mar Tirreno nel tratto compreso tra le isole di Ponza ed Ustica fu abbattuto probabilmente da un missile, ed i ministeri della Difesa e dei Trasporti non garantirono la sicurezza del volo. E' stato quindi rigettato l'appello dell'Avvocatura dello Stato contro la precedente condanna emessa dal Tribunale Civile di Palermo. Anche se il segreto di Stato non permette di ricostruire l'esatta dinamica dei fatti, soddisfazione è stata espressa dagli avvocati dei familiari delle vittime. Il senatore Carlo Giovanardi ha definito invece in una nota il sistema giuridico italiano "schizofrenico" con una verità processuale in ambito penale "nella quale si afferma, dopo anni di processo e centinaia di udienze, che su Ustica non c'è mai stata nessuna battaglia aerea e meno che mai è stato lanciato un missile" diversa da quella accertata dal Tribunale civile. Per Giovanardi è necessario stabilire la verità ed identificare i mandanti e gli esecutori che avrebbero collocato una bomba a bordo del velivolo. Per questa ragione il senatore chiede che sia tolto il segreto di Stato al carteggio tra il Governo e l'ambasciata italiana a Beirut nei mesi precedenti la strage che conterrebbe rivelazioni importanti per fare luce sulle ragioni dell'accaduto. 

Ustica, altre tre condanne in appello per lo Stato: 55 milioni per risarcire i familiari delle vittime. Decisione della prima sezione civile della Corte di Appello di Palermo, che segue la prima sentenza, sempre di condanna, riguardante i ministeri di Difesa e Trasporti, scrive il 10 luglio 2017. A distanza di 37 anni esatti dalla strage di Ustica arrivano nuove sentenze secondo cui i ministeri della Difesa e dei Trasporti dovranno risarcire 45 familiari delle 81 vittime per complessivi 55 milioni di euro. È quanto ha deciso, depositando tre nuove decisioni, la Prima Sezione civile della Corte di Appello di Palermo. La strage, ricordiamolo, avvenne il 27 giugno 1980: lo scoppio in volo del Dc9 Itavia diretto da Bologna a Palermo provocò la morte di 81 persone. Lo scorso 28 giugno la stessa Corte aveva già condannato i due ministeri a risarcire altri 39 familiari dei passeggeri del Dc9 per ulteriori 17 milioni di euro. Nelle tre sentenze la Corte di Appello del capoluogo siciliano, rigettando altrettanti ricorsi dell’Avvocatura dello Stato, quantifica il danno rimandando ai motivi della sentenza emessa il 28 giugno scorso. In primo grado, nel settembre 2011, il tribunale di Palermo aveva condannato i due ministeri a risarcire oltre 100 milioni di euro a 81 familiari. Secondo la Corte d’Appello palermitana i ministeri della Difesa e dei Trasporti, innanzitutto, «avrebbero dovuto attivarsi per le opportune reazioni, per consentire ad esempio l’intercettazione del velivolo ostile al fine di garantire la sicurezza e l’incolumità di passeggeri ed equipaggio». Il tribunale, sposando le conclusioni raggiunte in primo grado - concluso nel 2011 con la condanna degli stessi ministeri - ribadisce che sulla base dei rilevamenti radar l’incidente del Dc9 Itavia si verificò «a causa dell’operazione di intercettamento realizzata da parte di due caccia, che nella parte finale della rotta del Dc9 viaggiavano parallelamente ad esso, di un velivolo militare precedentemente nascostosi nella scia del Dc9 al fine di non essere rilevato dai radar, quale diretta conseguenza dell’esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l’aereo nascosto oppure quale conseguenza di una quasi-collisione verificati tra l’aereo nascosto e il Dc9».

Incidente aereo di Ustica: la compensatio lucri cum damno, scrive Pasquale Fornaro il 6 luglio 2017. Qui la sentenza: Corte di Cassazione - sez. III civile - ord. interlocutoria n. 15534 del 22-6-2017. La società Aerolinee Itavia S.p.A. conveniva in giudizio il Ministero della difesa, il Ministero dei trasporti e il Ministero dell’interno, per sentirli condannare al risarcimento dei danni patiti a seguito della sciagura area verificatisi nel cielo di Ustica il 27 giugno 1980, in occasione della quale era andato distrutto il DC 9/10-I-TIGI di proprietà di essa attrice ed erano decedute 81 persone. L’adito Tribunale di Roma, con sentenza del novembre 2003 accoglieva la pretesa risarcitoria e condannava i Ministeri dell’interno, della difesa e dei trasporti, in solido tra loro, al pagamento della complessiva somma di euro 108.071.773,64, oltre accessori, nonché alle spese di lite. Successivamente, l’impugnazione di tale decisione da parte delle Amministrazioni soccombenti veniva accolta dalla Corte di appello di Roma con sentenza dell’aprile 2007, la quale, a sua volta, fu oggetto di ricorso per cassazione da parte della Aerolinee Itavia S.p.A., in amministrazione straordinaria, sulla base di nove motivi. Con la sentenza n. 10285 del 2009, la Corte dichiarò inammissibile il ricorso nei confronti del Ministero dell’interno e ne accoglieva i primi sette motivi nei confronti dei Ministeri della difesa e dei trasporti. A seguito di riassunzione da parte della Aerolinee Itavia S.p.A., in amministrazione straordinaria, la Corte di appello di Roma, nel contraddittorio con il Ministero dell’interno, il Ministero della difesa ed il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con sentenza resa pubblica il 27 settembre 2012, pronunciava in via definitiva sulla domanda proposta dall’attrice nei confronti del Ministero dell’interno, rigettandola con compensazione delle spese processuali dei gradi di merito e pronunciava in via non definitiva sulla domanda proposta dalla stessa società in amministrazione straordinaria nei confronti degli altri due Ministeri convenuti, rimettendo la causa sul ruolo, con separata ordinanza, per la determinazione dell’ammontare del danno.

Con sentenza definitiva resa pubblica il 4 ottobre 2013, la Corte di appello di Roma condannava il Ministero della difesa ed il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, in solido tra loro, al pagamento, in favore della Aerolinee Itavia S.p.A., della somma di euro 265.154.431,44 (di cui euro 27.492.278,56 a titolo di risarcimento del danno, euro 105.185.457,77 per rivalutazione ed euro 132.476.695,11 per interessi), oltre interessi legali dalla sentenza al saldo, oltre al pagamento dei 3/4 delle spese processuali di tutti i giudizi, con compensazione del restante 1/4.

La Corte territoriale però negava il diritto dell’Itavia a vedersi risarcito: sia il danno per la perdita dell’aeromobile, in quanto la società attrice aveva incassato un indennizzo assicurativo da parte dell’Assitalia ammontante a lire 3.800.000.000, mentre il valore del velivolo al momento del sinistro, come accertato dal c.t.u., era di lire 1.586.510.540; sia il danno conseguente alla revoca delle concessioni di volo. Ricorrevano per cassazione, pertanto, il Ministero della difesa ed il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, mentre la Aerolinee Itavia S.p.A., proponeva altresì ricorso incidentale.

La Terza Sezione Civile cui il ricorso era assegnato con ordinanza interlocutoria n. 15534/17 depositata il 22 giugno, è stato posto il quesito alle Sezioni Unite “se nella liquidazione del danno debba tenersi conto del vantaggio che la vittima abbia comunque ottenuto in conseguenza del fatto illecito, ad esempio percependo emolumenti versatigli da assicuratori privati (come nel caso di specie), da assicuratori sociali, da enti di previdenza, ovvero anche da terzi, ma comunque in virtù di atti indipendenti dalla volontà del danneggiante.

Quesito, dunque, che in sé pone anche l’interrogativo sul se la cd. Compensatio lucri cum damno possa operare come regola generale del diritto civile oppure in relazione a determinate fattispecie.

I problemi della compensatio lucri cum damno nascono al momento stesso in cui si cerca di definirla. Tale locuzione allude al principio per cui il giudice, in sede di quantificazione del risarcimento del danno dovuto dall’autore, deve tenere conto non solo del pregiudizio causato dal fatto illecito (contrattuale o extracontrattuale), bensì anche degli eventuali vantaggi che si sono venuti a creare nel patrimonio del soggetto danneggiato. E’ ben possibile, quindi, che un comportamento di per sé illecito o dannoso possa produrre effetti positivi nella sfera giuridica del danneggiato. Si pensi, ad esempio ad un sinistro stradale che abbia provocato la distruzione integrale di un autoveicolo di modesto valore. La corresponsione in toto del costo del ripristino della cosa danneggiata provocherebbe al danneggiato un vantaggio patrimoniale ulteriore rispetto al valore effettivo del bene. Pertanto, assodato che il risarcimento del danno soddisfa l’esigenza di tenere indenne il danneggiato dalle perdite subite, cioè l’esigenza di ripristinare il suo patrimonio come se l’illecito non fosse mai stato commesso, e se è inoltre vero che, per quantificare l’ammontare del risarcimento dovuto, si fa il conteggio differenziale tra la consistenza patrimoniale prima e dopo il fatto è, per forza, altrettanto vero che gli eventuali vantaggi recati alla vittima debbano al pari essere tenuti in considerazione. Ciò significa che il giudice deve “compensare” le perdite con i benefici che il fatto illecito o l’inadempimento contrattuale, abbiano determinato nella sfera giuridica della parte danneggiata, detraendo i secondi dalle prime. Di fronte, comunque, ad vuoto legislativo dottrina e giurisprudenza si sono interrogati, se e in che modo detto effetto economico vantaggioso debba essere computato in detrazione a quanto dovuto dal danneggiante a titolo di risarcimento.

In dottrina si ravvisano ben tre orientamenti diversi. Alcuni autori negano del tutto che nel nostro ordinamento esista un istituto giuridico definibile come “compensatio lucri cum damno”; altri ammettono che in determinati casi danno e lucro debbano compensarsi, ma negano che ciò avvenga in applicazione di una regola generale; altri ancora fanno della compensatio lucri cum damno una regola generale del diritto civile.

Chi aderisce al primo orientamento fa leva principalmente sulla mancanza di una regola ad hoc che definisca l’istituto e aggiunge un immancabile richiamo all’ “iniquità” di un istituto che ha l’effetto di sollevare l’autore del fatto illecito dalle conseguenze del suo operato.

Chi aderisce al secondo orientamento, invece, condivide l’affermazione secondo cui nel nostro ordinamento alcuna norma generale sancisce tale istituto ma soggiunge che il problema dell’individuazione delle conseguenze risarcibili d’un fatto dannoso è una questione di fatto, da risolversi caso per caso, e che nel singolo caso non può escludersi a priori che concause preesistenti o sopravvenute al fatto illecito consentano alla vittima di ottenere un vantaggio.

Infine chi aderisce al terzo orientamento sostiene che l’istituto della compensatio lucri cum damno è implicitamente presupposto dall’art. 1223 cc là dove ammette il risarcimento dei soli danni che siano “conseguenza immediata” dell’illecito, e che inoltre, quel principio generale è desumibile da varie leggi speciali: tra queste l’art. 1, comma 1 bis della legge 14 gennaio 1994 n. 20, o l’art. 33 comma 2 del D.P.R. 8 giugno 2011 n.327.

I contrasti, inoltre, non mancano nella stessa giurisprudenza. Essa ha sempre ritenuto esistente un istituto giuridico definibile come compensatio lucri cum damno.

Secondo un primo orientamento la compensatio opera solo quando sia il danno che il lucro scaturiscano in via “immediata e diretta” dal fatto illecito. In applicazione di tale principio è stata, pertanto, esclusa la compensatio in tutti i casi in cui la vittima di lesioni personali, o i congiunti di una persona deceduta a seguito di un illecito, avessero ottenuto il pagamento di speciali indennità previste dalla legge da parte di assicuratori sociali, enti di previdenza, come pure gli indennizzi da parte di assicuratori privati contro gli infortuni. In questi casi il diritto al risarcimento del danno trae origine dal fatto dell’illecito, mentre il diritto all’indennità scaturisce dalla legge.

Un diverso orientamento, opposto, ammette l’operatività della compensatio lucri cum damno. Se, infatti, taluni affermano che essa operi solo quando danno e lucro scaturiscano in via immediata e diretta dal fatto illecito, elevando la causa del lucro dal rango di “occasione” a quello di “causa”, si giungerebbe al risultato di detrarlo dal risarcimento.

In attesa della decisione della Suprema Corte, si può concludere affermando che la “compensatio lucri cum damno”, seppur non codificata, è istituto di creazione giurisprudenziale e dottrinale che trova la sua origine e ragion d’essere direttamente negli artt. 1223 c.c., risarcimento del danno contrattuale, e 2056 c.c. ,valutazione dei danni extracontrattuali, e costituisce il corollario necessario del principio base per cui il risarcimento del danno deve adempiere la sua funzione ripristinatoria dello status quo ante, senza che siano rimasti danni non risarciti o, in senso opposto, provocati ingiusti profitti.

Pasquale Fornaro. Laureato in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Napoli Federico 2. Specializzato nelle Professioni Legali presso l'Università degli Studi di Roma Guglielmo Marconi.

SEGRETI DI STATO/ Dal Lodo Moro alle stragi, i silenzi di un testimone scomodo. E' tornata d'attualità la vicenda del cosiddetto lodo Moro. "La Stampa" ha intervistato Bassam Abu Sharif, ma i conti non tornano. Molte le reticenze. E non solo sue, scrive Salvatore Sechi il 5 luglio 2017 su "Il Sussidiario". E' tornata d'attualità la vicenda del cosiddetto lodo Moro. Il termine indica lo scambio (una sorta di informale patto di non belligeranza) tra Aldo Moro, per conto del governo italiano, e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, un'organizzazione del terrorismo palestinese affiliata all'Olp. Il Fplp risulta legatissimo all'Unione sovietica, alla primula rossa del terrorismo Carlos, alle Cellule rivoluzionarie tedesche di Thomas Kram. Attraverso il responsabile per l'informazione, Bassam Abu Sharif (più tardi stretto collaboratore di Arafat), il Fronte intrattiene ottimi rapporti con il col. Stefano Giovannone, uomo di assoluta fiducia di Moro sulle questioni e i rapporti mediorientali. E con la sua collaborazione invia in Italia il giordano Abu Saleh Anzeh. Sarà sempre Giovannone a proteggere Abu Saleh (un finto studente nelle università di Perugia e Bologna) anche dai tentativi della questura del capoluogo emiliano e in generale del ministero dell'Interno di rimandarlo in Giordania, per antisemitismo e odio rissoso verso Israele. Come capo-centro del Sismi, da Beirut nel 1972-1981, e in quanto collegato a Moro, Giovannone ha l'incarico di vigilare sulla sicurezza delle nostre rappresentanze diplomatiche in Medio oriente. Acquisisce una conoscenza preziosa e ineguagliata dei problemi e dei dirigenti politici del Medio oriente. Morto nel 1985, dopo un calvario giudiziario in cui è stato lasciato solo dai suoi referenti politici, ai minuziosi contatti con i palestinesi di Giovannone si debbono i sette anni di pace di cui l'Italia ha potuto godere dal 1973 all'80. Da quanto emerge da diversi documenti dell'intelligence, il nostro governo gioca la carta della diplomazia parallela. Condivide l'obiettivo di dare ai palestinesi uno Stato e riconosce un vero e proprio salvacondotto per i terroristi (o estremisti arabi che li si voglia chiamare), cioè il diritto a lottare per conseguirlo anche col trasporto di armi sul nostro territorio. In cambio, il Fronte si impegna a non compiere azioni di guerra o di rappresaglia anti-israeliana all'interno delle nostre frontiere, oltre a fornire — pare — una moral suasion sui paesi arabi per la fornitura (e il prezzo) del petrolio. L'intesa si rompe nell'inverno del 1979-1980. Abu Saleh Anzeh (legatissimo ad Habbash), insieme a Daniele Pifano e ad altri tre rappresentanti romani di Autonomia vengono fermati e arrestati il 7 novembre 1979 a Ortona e condannati dai tribunali di Chieti e di Ortona, il 25 gennaio 1980, a sette anni di carcere per il trasporto di alcuni missili Sam 7 Strela di fabbricazione sovietica. Sono solo in transito da noi, ma la loro destinazione è di essere usati contro un nostro alleato, Israele. I paesi arabi reagiscono con una forte minaccia. Se Abu Saleh Anzeh non verrà immediatamente liberato (il che avverrà il 17 giugno 1981 per decorrenza dei termini di custodia), ci saranno pesanti ritorsioni contro la popolazione civile (Giovannone parla di una città o di un aeroporto). Questo è il messaggio che i nostri servizi (Ucigos e Sismi) recepiscono e diffondono. Nel giro di qualche semestre si avrà l'abbattimento nel mare di Ustica di un aereo Dc9 dell'Itavia (con la morte di 81 persone) e l'attentato alla stazione centrale di Bologna con 200 feriti e 84 morti. Il 2 settembre a Beirut scompaiono due giornalisti, Italo Toni e Graziella De Palo, che il Fplp avrebbe dovuto proteggere. Forse i due giornalisti hanno appurato troppo sui responsabili della strage di Bologna? C'è un collegamento tra i due episodi? A chiarire il clima di quel periodo la Commissione parlamentare d'inchiesta su Moro ha di recente chiamato uno dei dirigenti del Fplp, amico di Giovannone, Bassam Abu Sharif. La Stampa lo ha fatto intervistare da Francesca Paci. In realtà la sua testimonianza, che sia Fioroni sia la giornalista non hanno pensato minimamente di contestare, è poco affidabile e reticente. Vediamolo da vicino. Sharif ignora la differenza, sul piano giuridico, tra la promessa di un impegno e un "lodo". Il Fronte avrebbe concesso solo la prima, e l'Italia si sarebbe obbligata a fornire un aiuto umanitario che per la verità era in corso da anni. La mediazione svolta da Giovannone non può essere scambiata per una responsabilità istituzionale per la quale il colonnello dei carabinieri non aveva la veste né le deleghe. Sharif dice di avere contato circa un migliaio di italiani che frequentarono i corsi di addestramento militare e ideologico, e ricorda l'opzione del Fronte per il sindacato. Ma non è in grado di fare i nomi di nessuno. Non spende una parola su Rita Porena, una giornalista e ricercatrice del ministero degli Esteri che era legata a Giovannone, ma anche a lui e al responsabile dei servizi segreti di Al Fatah, Abu Iyad. Per la verità, è incomprensibile, se è ancora in vita, la mancata testimonianza di costei. Avventata mi pare la negazione di ogni rapporto tra il Fplp e le Brigate rosse. E' vero che inizialmente ci furono delle resistenze, ma le testimonianze raccolte dal giudice Mastelloni, insieme alle memorie di Mario Moretti, presso il Tribunale di Venezia mostrano che fu stabilita una collaborazione sul traffico delle armi. Suscitano ulteriori dubbi e riserve sull'affidabilità di Sharif la sua dichiarazione di non sapere nulla di quanto avvenne a Ortona, come della strage di Ustica e di quella di Bologna. Eppure Abu Saleh Anzeh, cioè una persona molto vicina ad Habbash e a Giovannone, è direttamente o indirettamente presente in tutte queste vicende. Sulla crisi dei missili del novembre 1979, quando il lodo Moro si ruppe, il silenzio di Sharif è solo reticenza. Trovo molto strano e preoccupante che il senatore Fioroni e i suoi collaboratori di centro-sinistra e di centro-destra non abbiano voluto contestare le affermazioni di questo alto dirigente del Fplp. Per quale ragione l'hanno invitato in Commissione se non avevano nulla da chiedergli?

Esclusiva mondiale, i diari segreti di Arafat: Craxi, Andreotti e i fondi neri di Berlusconi. Molte le rivelazioni del leader palestinese sull’Italia: dopo un incontro segreto con l'ex Cavaliere mentì in cambio di soldi per salvarlo da un processo. La verità sul caso Sigonella. Il giudizio su Saddam. Così viene riscritta la storia degli ultimi decenni. Ampi stralci sull'Espresso in edicola da domenica 4 febbraio, scrive Lirio Abbate il 2 febbraio 2018 su "L'Espresso". “L'Espresso” ha scoperto, in esclusiva mondiale, i diari segreti di Yasser Arafat, leader dell'Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) e poi presidente dell'Autorità nazionale palestinese. Diversi stralci dei diari sono pubblicati sull'Espresso in edicola da domenica 4 febbraio. I diari sono 19 volumi scritti in arabo a partire dal 1985 e conclusi nell'ottobre del 2004, quando Arafat ha lasciato il suo quartier generale a Ramallah, in Cisgiordania, per essere ricoverato in un ospedale di Clamart, alla periferia di Parigi dove morì un mese dopo. I diciannove volumi sono una miniera di informazioni che raccontano intese politiche, azioni di guerra e affari che fino adesso erano rimasti oscuri. La lettura del diario rivela ad esempio che Arafat aiutò Berlusconi quando questi era sotto processo per aver finanziato illecitamente il Partito Socialista di Bettino Craxi. Arafat incontrò segretamente Berlusconi nel 1998, in una capitale europea, e dopo quell'incontro decise di confermare la falsa versione data da Berlusconi ai giudici, cioè che i dieci miliardi di lire al centro del processo erano destinati non al Partito Socialista Italiano bensì all'Olp, come sostegno della causa palestinese. Non era vero, ma Arafat rivela nei diari di aver confermato pubblicamente questa versione ricevendo in cambio un bonifico. Nel diario si trovano annotati i dettagli con i numeri di conto e i trasferimenti del denaro ottenuto da Arafat. I diari rivelano inoltre la trattativa tra Arafat e l’Italia avvenuta nel 1985, quando Craxi era primo ministro e Giulio Andreotti ministro degli Esteri, durante la vicenda dell’Achille Lauro, la nave da crociera dirottata da quattro terroristi palestinesi. Arafat rivela che fu Giulio Andreotti (e non Bettino Craxi, come si era sempre creduto) a consentire al terrorista Abu Abbas di scappare in Bulgaria e di lì rifugiarsi in Tunisia. Giulio Andreotti, secondo quanto emerge dai diari del leader palestinese, ha sempre avuto un ruolo importante nelle mediazioni internazionali che hanno riguardato la Palestina e sarebbe stato spesso una sorta di mediatore nascosto tra l’Olp e gli americani. Nei diari il leader palestinese non si assume mai la responsabilità di aver commissionato un attentato. Prende atto delle stragi compiute dai palestinesi e le commenta. A lui venivano proposti gli attentati e lui si limitava a rispondere: “Fate voi”. Poi quando scoppiavano le bombe che gli erano state annunciate, il comandante sorrideva e scriveva: “Bene, bene”. Nessun attentato dell’Olp coinvolse l'Italia dopo il 1985. «L’Italia è la sponda palestinese del Mediterraneo», scrive Arafat nei suoi diari, che confermano gli accordi segreti tra Olp e governo di Roma affinché il territorio italiano fosse preservato da attentati. La lettura dei diari rivela inoltre che Arafat era fortemente contrario alla Prima Guerra del Golfo (1990-1991), scatenata dall'allora presidente dell'Iraq Saddam Hussein: «Devo schierarmi con lui, il mio popolo me lo impone», scrive Arafat, «ma ho cercato con più telefonate di farlo desistere dalla follia che sta facendo». Arafat racconta anche di aver fatto negoziazioni di pace segrete con l’allora premier israeliano Yitzhak Rabin. E dell’ex presidente israeliano Shimon Peres scrive: «Una bravissima persona: un bel soprammobile». Arafat dedica molto spazio a raccontare i suoi stretti rapporti con il dittatore cubano Fidel Castro: racconta con affetto e stima i diversi incontri con lui, fino all'ultimo avvenuto all’Avana. I diciannove volumi di cui L’Espresso fornisce gli stralci sono stati affidati a due fiduciari lussemburghesi, che dopo una lunga negoziazione hanno ceduto i documenti a una fondazione francese con la clausola che il contenuto dei diari debba essere usato solo come “documentazione di studio” e non per pubblicare libri o girare film.

Silvio Berlusconi, Yasser Arafat nei suoi diari: "Ho mentito per salvarlo", scrive il 3 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". L’Espresso pubblica i diari segreti di Yasser Arafat, leader dell’Olp. Si tratta di 19 volumi scritti in arabo a partire dal 1985 e conclusi nell'ottobre del 2004, quando Arafat ha lasciato il suo quartier generale a Ramallah, in Cisgiordania. La lettura del diario rivela ad esempio che Arafat aiutò Silvio Berlusconi quando questi era sotto processo per aver finanziato il Partito Socialista di Craxi. Arafat incontrò Berlusconi nel 1998 e dopo quell'incontro decise di confermare la falsa versione data da Berlusconi ai giudici, cioè che i 10 miliardi di lire al centro del processo erano destinati non al Partito Socialista Italiano bensì all’Olp. L’avvocato Niccolò Ghedini smentisce immediatamente: "Si tratta di materiale offerto a più persone nei tempi passati sui quali non è stato fatto nessun controllo in relazione alla verifica sull'autenticità della provenienza, della completezza e del contenuto. I fatti ivi narrati, per quanto riguarda i rapporti con il presidente Silvio Berlusconi, sono assolutamente non fondati e contraddetti dalle stesse dichiarazioni ufficiali più volte rilasciate pubblicamente dallo stesso Arafat".

Arafat e i fondi neri di Berlusconi: ecco i diari segreti. Le bugie per salvare l'ex Cav dai processi. La verità sul caso Sigonella. L’incontro con Di Pietro. Gli appunti riservati del capo palestinese. Diciannove volumi, di cui solo adesso si è appresa l’esistenza. E che l'Espresso ha letto in esclusiva, scrive Lirio Abbate il 7 febbraio 2018 su "L'Espresso". Yasser Arafat, il guerrigliero più famoso del Medio Oriente, il più celebre e misterioso protagonista della causa palestinese, ha riversato per diciannove anni i suoi pensieri più segreti nelle pagine di diciannove volumi, di cui solo adesso si è appresa l’esistenza. Li ha scritti in arabo, iniziando nel 1985. Ha continuato fino all’ottobre del 2004, un mese prima della morte. I diari rivelano tutto quello che in vita Arafat non ha detto pubblicamente. Chi ha già letto ciò che ha scritto Arafat ne ha raccontato un’ampia parte all’Espresso. I diciannove volumi sono una miniera di informazioni che raccontano intese politiche, azioni di guerra e affari che fino adesso erano rimasti oscuri. Sono appunti che rivelano ciò che faceva e pensava uno dei protagonisti del XX secolo, prima leader dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e poi presidente dell’Autorità nazionale palestinese, primo abbozzo di uno Stato che non è mai nato. Nei diari di Arafat si parla anche del nostro Paese. Ci sono molti riferimenti a Giulio Andreotti, Bettino Craxi e a Silvio Berlusconi, e soprattutto al dirottamento della nave da crociera “Achille Lauro” e alla conseguente crisi di Sigonella (1985), il più grave incidente diplomatico mai avvenuto tra Italia e Usa. Si parla poi del famoso (e fino a ieri solo ipotizzato) accordo per evitare che ci fossero attentati terroristici in Italia. Ma soprattutto nei diari si racconta del rapporto tra il leader palestinese e Berlusconi. C’è anche la rivelazione di un incontro segreto fra i due, avvenuto in una capitale europea nello stesso periodo in cui a Milano era in corso il processo nel quale il Cavaliere era imputato di aver gestito, attraverso la società offshore All Iberian, i miliardi in nero destinati dalla Fininvest al Partito socialista di Bettino Craxi.

Sono fatti poi dichiarati prescritti dal tribunale, ma di cui ora si apprendono retroscena sconosciuti. Il Cavaliere, per difendersi durante il processo, aveva indicato come beneficiario finale dei suoi dieci miliardi di lire l’Olp, a cui avrebbe fatto pervenire il denaro - come sostegno alla causa palestinese, su richiesta di Craxi - usando come mediatore Tarak Ben Ammar: produttore televisivo tunisino amico e socio di Berlusconi, oggi nel cda di Mediaset ma anche in quelli di Generali, Mediobanca, Telecom Italia e Vivendi. Tarak Ben Ammar aveva confermato questa versione, sostenendo che quei soldi erano andati a lui, legalmente, per poi essere destinati all’Olp. Quindi non erano, secondo Berlusconi e Ben Ammar, finanziamenti illeciti a Craxi. Arafat nei suoi diari racconta però una storia molto diversa. Scrive infatti di essere rimasto estremamente sorpreso nell’apprendere dai giornali che Berlusconi lo aveva finanziato: di quei dieci miliardi all’Olp non era mai arrivata nemmeno una lira. Per chiarire la vicenda, lo stesso Arafat organizza allora un incontro con Berlusconi, in un luogo segreto fuori dall’Italia, nella primavera del 1998. Il Cavaliere accetta. Sul diario si legge: «Berlusconi mi parla di Tarak Ben Hammar, ma io non lo conosco». Arafat ribadisce quindi di non aver mai ricevuto i dieci miliardi e lo dice chiaramente anche a Berlusconi. Ma il leader palestinese, contemporaneamente, apre una porta al Cavaliere: gli dice che se avesse voluto una sua dichiarazione di conferma di aver ricevuto quei soldi, da utilizzare ai fini processuali, l’avrebbe fatta. Naturalmente, in cambio di un versamento. E così è stato: la dichiarazione di Arafat in favore di Berlusconi (che quindi conferma la sua tesi difensiva) viene resa nota e pubblicata su un giornale israeliano.

L’incontro segreto rivelato da Arafat è confermato all’Espresso da personalità che erano presenti. A questa storia nel diario del leader palestinese vengono riservate dieci pagine, dove si trovano annotati i dettagli con i numeri di conto e i trasferimenti del denaro ottenuto da Arafat.

L’incontro con Di Pietro. Negli appunti c’è anche la notizia di un incontro tra Arafat e Antonio Di Pietro, nel 1998. L’ex magistrato arriva a Gaza nello stesso periodo in cui è in corso il processo All Iberian a Milano. E Arafat scrive nel suo diario: «Non ho potuto dire nulla a Di Pietro perché avevo già un accordo personale con Berlusconi». Contattato dall’Espresso, Di Pietro oggi dice: «Non era una rogatoria e non ero lì per All Iberian. In quel periodo avevo già lasciato la magistratura. È vero, ho incontrato Arafat, ma il motivo lo tengo per me». E poi aggiunge: «In quel periodo ero sotto attacco dall’area di Berlusconi». Facendo riferimento a quello che scrive il leader palestinese l’ex magistrato spiega: «So bene a cosa si riferisce Arafat negli appunti. Ripeto, l’ho visto e ci ho pure parlato a lungo. Abbiamo anche pranzato insieme e con noi c’erano altre quattro persone».

Il caso Sigonella. I diari rivelano poi la trattativa tra Arafat e l’Italia avvenuta nel 1985, quando Craxi era presidente del Consiglio, durante e dopo la vicenda dell’Achille Lauro, la nave da crociera dirottata da quattro terroristi palestinesi. Durante il sequestro della nave il governo italiano cerca di risolvere la vicenda contattando Arafat. Il quale invia sull’Achille Lauro un suo uomo, Abu Abbas, indicandolo come mediatore. Dopo pochi giorni i quattro dirottatori e Abu Abbas portano la nave in Egitto e rilasciano i passeggeri: ma uno di loro - l’americano Leon Klinghoffer, di origini ebraiche - era stato ucciso e gettato in mare. Secondo gli accordi, i terroristi sarebbero dovuti andare in Tunisia, con un aereo e un salvacondotto, sempre in compagnia di Abu Abbas. Venuti a conoscenza della morte di Klinghoffer, però, gli americani fanno alzare in volo i loro caccia e costringono l’aereo in cui i cinque si trovano ad atterrare nella base Nato di Sigonella, in Sicilia. Qui, dopo una lunga trattativa, i quattro terroristi si consegnano alle autorità italiane. Ma gli americani vogliono anche l’arresto di Abu Abbas, considerandolo un terrorista al pari dei quattro. Gli italiani si rifiutano di consegnarlo, al punto da circondare l’aereo con i carabinieri. E consentono così ad Abu Abbas di scappare in Bulgaria e di lì rifugiarsi prima in Tunisia poi a Gaza. Chi ha letto gli appunti di Arafat rivela che la linea dura del governo italiano verso le pretese americane sarebbe stata decisa non da Craxi - come si è sempre creduto - ma da Andreotti, che era in contatto diretto con Arafat. Sarebbe stato Andreotti a imporre di fatto a Craxi di fermare gli americani e di rispettare gli accordi presi con Arafat. Del resto Andreotti, secondo quanto emerge dai diari del leader palestinese, aveva sempre avuto un ruolo importante nelle mediazioni internazionali che hanno riguardato la Palestina e sarebbe stato spesso una sorta di “mediatore nascosto” tra l’Olp e gli americani. Nei diari il leader palestinese non si assume mai la responsabilità di aver commissionato un attentato o un omicidio. Prende atto delle stragi compiute dai palestinesi e le commenta. Chi lo ha conosciuto e gli è stato al fianco per diversi anni conferma all’Espresso che Arafat «non ha mai ordinato un attentato. A lui venivano proposti e lui si limitava a rispondere: “Fate voi”. Poi quando scoppiavano le bombe che gli erano state annunciate, il comandante sorrideva e diceva: “bene, bene”». Ma nessun attentato dell’Olp coinvolse il nostro Paese. «L’Italia è la sponda palestinese del Mediterraneo», scrive Arafat. E per questo doveva essere preservata da attacchi.

Il triangolo Gelli, Berlusconi, Craxi. Parlando di Craxi, Berlusconi e Licio Gelli, il capo dell’Olp racconta nei suoi appunti una storia che li vede tutti e tre collegati tra loro. Si tratta di una vicenda dei primissimi anni Ottanta, quando Roberto Calvi - allora presidente del Banco Ambrosiano e uomo di Licio Gelli - ha bisogno di un passaporto nicaraguense. Per procurarglielo, Gelli si sarebbe rivolto a Berlusconi (membro della sua loggia, la P2) e il Cavaliere a sua volta avrebbe chiesto aiuto all’amico Bettino Craxi. Il quale avrebbe investito della questione Arafat, ritenuto in grado di procurare un passaporto del Nicaragua. Ci sono anche alcuni aneddoti che Arafat riporta nei suoi appunti e collegati alle visite ufficiali in Italia. Ad esempio, il 5 aprile 1990 il capo dell’Olp arriva a Roma con un volo proveniente da Parigi. Deve incontrare, tra gli altri, il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. Arafat scrive nel diario che quando arriva al Quirinale il capo del protocollo gli fa togliere il cinturone con la pistola, quello che lui portava sempre con sé. Arafat racconta che a quel punto i pantaloni erano troppo larghi e gli cadevano. Per questo si presentò davanti a Cossiga tenendoli stretti con le mani, evitando una brutta figura istituzionale. Al Capo dello Stato disse: «Mi scusi signor Presidente, non è colpa mia ma del suo ambasciatore...», quello che gli aveva fatto togliere il cinturone. Anche il giorno della consegna del Premio Nobel per la Pace, il comandante palestinese scrive che il programma della cerimonia ha avuto un ritardo a causa della sua divisa militare che comprendeva la pistola. Il 17 luglio 1990 Arafat, che per lungo tempo era stato single (e mai erano apparse donne nella sua vita) sposa Suha Tawil. Lui confida sul diario: «Come faccio a sposarmi con Suha? Io sono già sposato con la Palestina ed il suo popolo».

L’amicizia con Fidel. Arafat dedica poi molto spazio a raccontare i suoi rapporti con il dittatore cubano Fidel Castro, fino all’ultimo incontro avvenuto all’Avana. Quasi coetanei, i due avevano in comune anche la militanza guerrigliera e i principali nemici, cioè Stati Uniti e Israele. Entrambi, inoltre, amavano le uniformi, portavano la barba e avevano il carisma del leader capace di suscitare grandi speranze e aspettative nei propri popoli. Oltre che a Cuba, Castro e Arafat si erano incontrati spesso alle riunioni dei Paesi non allineati e ai funerali dei vecchi leader sovietici, dai quali entrambi avevano ricevuto sostegno politico e un fiume di rubli negli anni della Guerra Fredda. Le pagine dei diari raccolgono poi il disagio e lo sfogo del capo palestinese quando deve appoggiare Saddam Hussein, durante la prima guerra del Golfo (1990-1991). Così scrive Arafat: «Devo schierarmi con lui: il mio popolo me lo impone. Ma ho cercato con più telefonate di farlo desistere dalla follia che sta facendo». Arafat racconta quindi di negoziazioni di pace, segrete, con l’allora premier Yitzhak Rabin, mentre dell’ex presidente israeliano Shimon Peres scrive: «Una bravissima persona: un bel soprammobile». I diciannove volumi sono stati affidati a due fiduciari lussemburghesi, che dopo una lunga negoziazione hanno terminato la cessione dei documenti a una fondazione francese con la clausola che il contenuto dei diari debba essere usato solo come “documentazione di studio” e non per pubblicare libri o girare film. Il carico di testimonianza che lascia Arafat è pesante. E non sarà facile, per molti, accettare le conseguenze delle rivelazioni contenute nelle pagine di questo diario.

I diari di Arafat, ecco i nuovi dettagli segreti. Mentre emergono nuovi inediti particolari, l’Anp apre un’inchiesta sul nostro scoop, scrive Lirio Abbate il 14 febbraio 2018 su "L'Espresso". I diari che il leader dell’Olp Yasser Arafat ha lasciato in eredità alla storia, i cui primi stralci sono stati pubblicati in esclusiva mondiale sull’ultimo numero dell’Espresso, ci mostrano il volto di un comandante temuto da molti ma innamorato del suo popolo. Nelle pagine dei diciannove volumi che solcano i fatti dal 1985 all’ottobre del 2004 c’è la storia di una tragedia, quella palestinese, vista con gli occhi di un uomo che scrive di vivere e resistere per la sua gente. E negli appunti ricorre spesso una frase: «Il mio più grande amore è la Palestina». Aver rivelato l’esistenza di questi diari e una parte del loro contenuto (stralci che L’Espresso ha pubblicato dopo averli riscontrati) ha mandato su tutte le furie il nipote del defunto leader palestinese, Nasser al-Kidwa, oggi presidente della Yasser Arafat Foundation (Yaf). Al-Kidwa ha scritto in un nota che Arafat «effettivamente ha lasciato dei diari nei quali ha segnato le sue osservazioni sugli eventi politici incorsi durante la sua lunga lotta, ma questi diari sono in possesso della Yaf e nulla di essi è stato ceduto». Kidwa ha assicurato che la fondazione «farà presto una revisione di tutti i contenuti dei diari e, dopo aver preso una decisione politica in merito, li svelerà al pubblico». Ma una parte delle memorie del leader palestinese sono, evidentemente, sfuggite al controllo del nipote. Tanto che l’Autorità palestinese ha deciso di aprire un’inchiesta per scoprire come sia avvenuta la fuga di notizie. I fiduciari che hanno in custodia gli appunti del leader dell’Olp rivelano anche altri punti del manoscritto. In particolare sui rapporti con Papa Giovanni Paolo II e alcune delle loro conversazioni private, durante gli incontri in Vaticano. Chi è stato accanto al leader palestinese conferma che Arafat «scriveva i suoi pensieri e quel che gli dicevano i suoi interlocutori su un quadernetto grande come il palmo d’una mano, da cui non si separava mai». E in questi lunghi anni c’è stato qualcuno vicino al leader che si è preso cura di conservare questi quadernetti. Dagli appunti, come ha rivelato L’Espresso, emergono incontri segreti, fra cui quello con Silvio Berlusconi, e il versamento di somme di denaro per ottenere una dichiarazione che avrebbe dovuto proteggere il Cavaliere dal processo per i fondi neri della società off shore All Iberian, in cui era imputato insieme a Bettino Craxi. Un favore a Berlusconi? Di sicuro, negli effetti. Ma nelle intenzioni «potrebbe essere stato anche un tentativo di salvare Craxi, che si era speso tanto per la Palestina», dice Luisa Morgantini, ex vice presidente del Parlamento europeo, impegnata per la difesa della Palestina e tra le fondatrici della rete internazionale delle “Donne in nero contro la guerra e la violenza”, che conosceva bene il capo dell’Olp e ne era amica. «La falsa dichiarazione di Arafat (aveva confermato la versione del Cavaliere, secondo la quale i fondi al centro del processo erano una donazione all’Olp e non un finanziamento illecito al Psi, Ndr) può essere quindi stato un atto di amicizia e di riconoscenza», aggiunge Morgantini. L’ex europarlamentare sostiene che «questi gesti di generosità facevano parte della personalità di Arafat», quindi «non credo che alla base ci sia stato uno scambio di favori. In fondo Craxi aveva fatto tanto per Arafat». Morgantini aggiunge che il suo amico Arafat invece «non aveva rispetto per Berlusconi. Ma se l’obiettivo era quello di salvare Craxi, allora potrebbe essersi reso disponibile a risolvere il problema». Ricevendo in cambio versamenti dal Cavaliere o no? «Non lo so. Ma non ho mai visto Arafat circondato dal lusso o dalla ricchezza. Conduceva una vita parca e i soldi li usava per la politica o per donarli a chi ne aveva di bisogno. Per se non teneva nulla e viveva in abitazioni modeste». Eppure era considerato uno degli uomini più ricchi del mondo... «Non so se nascondesse il denaro. Certo viveva in maniera molto sobria», risponde Morgantini. La celebrità mondiale di Yasser Arafat è durata a lungo. Sono stati pochi gli uomini politici a riuscire ad occupare, come ha fatto lui fino alla sua morte avvenuta nel novembre 2004 a Parigi, le prime pagine dei giornali e gli schermi televisivi. Occorre partire da lontano, nel dicembre 1968 quando il settimanale americano “Time” gli ha dedicato la copertina: allora, per la maggior parte dell’opinione pubblica occidentale Arafat era solo un capo terrorista e il portavoce d’una oscura organizzazione, Al Fatah, che aveva giurato la distruzione di Israele. L’aspetto esteriore dell’uomo contribuiva a questa immagine: con la “kefiah” araba o un berretto militare, mal rasato, gli occhi nascosti dietro lenti scure, un abito cachi pieno di tasche, portava sempre una pistola alla cintura o un mitra a tracolla. Tuttavia chi lo conosceva nell’intimità sostiene che queste apparenze erano ingannevoli. Lontano dai media, senza niente in capo e vestito normalmente, quell’ometto grassottello e calvo - dicono i suoi amici di un tempo - era un conversatore gioviale e un capo generoso. Paradossalmente, il comandante conosceva solo superficialmente le questioni militari e non era abile con la pistola. I suoi aggiungono anche che era un uomo sensibile al punto da singhiozzare quando fu proiettato per lui un documentario sul massacro di Sabra e Chatila del settembre 1982. E, secondo i testimoni che gli sono stati accanto, le lacrime gli spuntavano anche quando parlava delle sventure del suo popolo. Ad ascoltare i suoi amici, Arafat non era né un estremista né un sognatore. Sapeva, come del resto emerge anche dai diari, che bisognava trovare un modus vivendi con gli israeliani. Già nel 1968 diceva: «Se gli ebrei e i palestinesi potessero unirsi, il Medio Oriente entrerebbe nell’età dell’oro. Il genio, le risorse naturali e intellettuali dei nostri due popoli basterebbero a vincere l’egoismo, la corruzione e la doppiezza della maggior parte dei regimi arabi». Arafat aveva accumulato sconfitte senza mai disperare e anche nei momenti più difficili mostrava fiducia. Leggeva con attenzione i giornali e le sintesi della stampa internazionale che gli veniva fornita dai suoi collaboratori. E approfittava dei pochi momenti liberi per giocare a scacchi o guardare cartoni animati su videocassette. Il poeta palestinese Mahmoud Darwish ha sintetizzato così la figura di Arafat: «La sua politica non sempre è stata giusta. Lo critichiamo e talvolta lo giudichiamo con severità. Ma lui è il simbolo della nostra identità, della nostra unità e delle nostre aspirazioni nazionali».  

Totò, Peppino, Arafat e Berlusconi. L’esclusiva “mondiale” dell’Espresso sui “diari” di Arafat non torna. I testi non li ha visti nessuno, le date ballano, i testimoni smentiscono. Controinchiesta di Luciano Capone del 7 Febbraio 2018 su “Il Foglio”. La notizia, annunciata già da sabato pure su Repubblica, tradotta anche in inglese, era davvero clamorosa: “L’Espresso ha scoperto, in esclusiva mondiale, i diari segreti di Yasser Arafat, leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e poi presidente dell’Autorità nazionale palestinese”. L’impressione era che quella di Lirio Abbate fosse l’inchiesta giornalistica dell’anno, o forse anche del secolo, vista l’importanza dal punto di vista storico e politico che può essere contenuta nei diari “segreti” di uno dei leader più importanti e controversi – questa è la formula di rito – della seconda metà del Novecento. Pareva strano che, di tutto ciò che di interessante c’è stato nella vita personale e politica di Arafat, l’anticipazione degli “ampi stralci” riguardasse un episodio giudiziario della vita di Silvio Berlusconi. E anche la storia, in realtà, non tornava molto: l’idea che nel 1998 Arafat si fosse incontrato in segreto con Berlusconi per chiedergli soldi in cambio di una falsa testimonianza nel processo “All Iberian” sul finanziamento illecito al Psi di Bettino Craxi appariva ben più bizzarra della storia di “Ruby nipote di Mubarak”. E la parte più inverosimile, naturalmente, è il fatto che un personaggio storico si descriva nel suo diario personale come un taglieggiatore o un corrotto. Ma se ci sono i documenti originali, se la grafia è quella di Arafat, c’è poco da discutere.

Pareva strano che, di tutto ciò che di interessante c’è stato nella sua vita, Arafat parlasse di un processo di Silvio Berlusconi. Dopo la pubblicazione, domenica, dell’“esclusiva mondiale” però il mondo ha ignorato l’esclusiva. Nessun grande giornale internazionale in questi giorni ha ripreso l’inchiesta giornalistica dell’anno. E per un semplice motivo: i “diari segreti” di Arafat sono talmente segreti che non ce li ha neppure l’Espresso. Il settimanale non solo non li ha pubblicati, ma non li ha neppure mai visti. L’inchiesta non ha alla base un documento scritto, ma è il frutto, almeno finora, della tradizione orale. Un aedo incontra Lirio Abbate e gli narra il contenuto dei diari segreti: “Chi ha già letto ciò che ha scritto Arafat ne ha raccontato un’ampia parte all’Espresso”, scrive il giornalista. Inoltre, oltre a non sapere chi sia la fonte orale, quale ruolo abbia e come sia entrato in possesso di questo prezioso materiale storico, non si capisce questi diari da dove provengano e dove siano adesso di preciso: “I diciannove volumi sono stati affidati a due fiduciari lussemburghesi – scrive il settimanale – che dopo una lunga negoziazione hanno terminato la cessione dei documenti a una fondazione francese con la clausola che il contenuto dei diari debba essere usato solo come “documentazione di studio” e non per pubblicare libri o girare film”. E qui la faccenda si fa già abbastanza evanescente. Il problema è che non solo non vengono resi noti i nomi dell’aedo e dei fiduciari lussemburghesi, che in qualche modo avrebbero prelevato da Ramallah e dal controllo dell’Anp i diciannove volumi, ma neppure il nome di questa fondazione francese che ora li custodisce. Eppure se l’obiettivo è mettere a disposizione questi “diari segreti” per lo studio, gli storici – che si fidano più dei documenti originali rispetto ai racconti – per studiare questi benedetti diari dovrebbero quantomeno sapere dove si trovano. In Francia, dove sarebbe questa fondazione che possiede le memorie del leader palestinese, i giornali hanno completamente ignorato la notizia. Silenzio totale sull’esclusiva mondiale.

Aiuta a inquadrare la possibile origine di questi presunti e invisibili “diari segreti” la versione dell’onorevole Niccolò Ghedini, l’avvocato di Silvio Berlusconi: “Alcuni mesi orsono – ha dichiarato – un tizio ha avvicinato me e una persona vicina al presidente Berlusconi, dicendo di essere in possesso di questi diari di Arafat in cui c’erano scritte cose compromettenti su Berlusconi, ma che avrebbe potuto distruggerli in cambio di denaro”. L’avvocato capisce che la cosa non è proprio limpida quando l’interlocutore, proveniente da ambienti “variegati” dice di poter fornire solo una traduzione in francese e si rifiuta di mostrare l’originale dei diari in arabo per valutarne la genuinità, e interrompe le comunicazioni. Convinto di essere di fronte a uno dei tanti falsi diari di personaggi storici che di tanto in tanto circolano, liquida tutto con un suo “mavalà”. Ora vede riemergere l’identico racconto orale come esclusiva inchiesta giornalistica: “Il settimanale l’Espresso pubblica con grande risalto stralci degli asseriti diari di Arafat. – scrive Ghedini in una nota – Il materiale in questione è stato offerto a più persone nei tempi passati e alle richieste di verifica della autenticità della provenienza, della completezza e del contenuto non è stato possibile alcun controllo”. L’avvocato smentisce il contenuto di ciò che è riportato e spiega tutto con la battaglia politica: “E’ sintomatico, che tale materiale in circolazione già da tempo e mai ritenuto di reale interesse appaia, guarda caso su l’Espresso, proprio a pochi giorni dalla consultazione elettorale”. Anche la Yasser Arafat Foundation, che possiede i veri diari del leader palestinese e non ha ancora deciso se pubblicarli o meno dopo averli revisionati e ripuliti, ha preso le distanze e annunciato querele: “Quello che l’Espresso ha pubblicato riguardo a ciò che sono stati definiti come i diari di Yasser Arafat è illegale e viola l’etica giornalistica”, ha dichiarato il presidente della fondazione Nasser al Kidwa che è il nipote di Arafat (davvero, non come Ruby).

Nella copertina su Ilaria Capua il documento era vero, ma le accuse false. I diari ricordano l’(inesistente) intercettazione di Crocetta. Ma quella di Ghedini, si dirà, è la naturale reazione di una persona che è il legale del Cav. e uno dei più importanti dirigenti di Forza Italia. Il punto è che, in termini molto simili, è la stessa identica posizione che ha preso l’ambasciatore di Palestina in Italia: “L’articolo dell’Espresso sostiene di basarsi su un presunto diario di Yasser Arafat, senza essere in grado di dimostrarne l’effettiva esistenza. Si tratta di un articolo che vuole mettere in cattiva luce il leader e simbolo della lotta nazionale del popolo palestinese – scrive l’ambasciatore Mai Alkaila – Chiediamo ai media e all’Espresso in particolare di essere scrupolosi nella verifica delle fonti prima della divulgazione delle loro notizie; e di non coinvolgere la questione palestinese in discussioni politiche accese dalla campagna elettorale”. Se già a questo punto i diari de relato di Arafat somigliano più a una patacca che a una rivelazione mondiale, è entrando nei dettagli che molte cose non tornano. L’Espresso scrive che nelle sue memorie Arafat parla di un incontro segreto con Berlusconi, avvenuto in una capitale europea, nello stesso periodo in cui a Milano era in corso il processo All Iberian nel quale Berlusconi era imputato per aver finanziato in maniera illecita il Psi di Craxi. Un processo in cui Berlusconi verrà condannato in primo grado e poi prosciolto per prescrizione. Ebbene, una versione della difesa era che i circa 10 miliardi di lire contestati non erano finiti nelle casse del Psi, ma erano andati su richiesta di Craxi all’Olp di Arafat attraverso la mediazione del produttore televisivo tunisino, e amico di Berlusconi, Tarak Ben Ammar. Niente finanziamento illecito a Craxi, quindi. Questa è la versione finora confermata da tutte le parti in causa, ma a cui non credettero i giudici di primo grado.

L’Espresso ora dice che nei suoi presunti diari Arafat scrive che questa storia è falsa, quei soldi non sono mai arrivati all’Olp. “Per chiarire la vicenda, lo stesso Arafat organizza allora un incontro con Berlusconi, in un luogo segreto fuori dall’Italia, nella primavera del 1998. – scrive il settimanale – Il Cavaliere accetta. Sul diario si legge: ‘Berlusconi mi parla di Tarak Ben Hammar, ma io non lo conosco’”. A quel punto il leader palestinese fa una proposta-ricatto a Berlusconi: “Gli dice che se avesse voluto una sua dichiarazione di conferma, da utilizzare ai fini processuali, l’avrebbe fatta. Naturalmente in cambio di un versamento. E così è stato: la dichiarazione di Arafat in favore di Berlusconi (che quindi conferma la sua tesi difensiva) viene resa nota e pubblicata su un giornale israeliano” (quale? E quando?). Sono molte le cose che non tornano nella vicenda. L’Espresso scrive che nel diario ci sono “i dettagli con i numeri di conto e i trasferimenti del denaro ottenuto da Arafat”, ma non pubblica nessuno di questi dettagli, non dice neppure quanto sarebbe costata questa falsa testimonianza. Ma la cosa più banalmente sorprendente è che questa testimonianza non esiste. “Arafat non è mai apparso nel processo – dice al Foglio il professor Ennio Amodio, all’epoca avvocato di Berlusconi nel processo All Iberian – Ho letto questa notizia con stupore, nel processo non si è mai parlato di questa vicenda, non so da dove salti fuori”. Arafat non ha testimoniato? “Ma si figuri”. E’ mai stata usata qualche sua intervista nella difesa? “No, è una notizia che non è mai emersa, me la ricorderei”.

“Mesi fa un tizio mi ha avvicinato, voleva soldi in cambio della distruzione di questi asseriti diari”, dice Niccolò Ghedini. L’altro aspetto che non torna è uno dei pochi virgolettati di Arafat, tra l’altro con un errore di trascrizione del nome di Ben Ammar: “Berlusconi mi parla di Tarak Ben Hammar, ma io non lo conosco”. Appare un’affermazione singolare. Ben Ammar è sì un amico di Berlusconi, ma da prima è un amico dei palestinesi. Tra i due è l’imprenditore maghrebino che conosce Arafat, non il Cavaliere. Ben Ammar proviene da un’importante famiglia tunisina: è il nipote del padre della patria Bourghiba (davvero, non come Ruby). Il padre, Mondher Ben Ammar, è stato ambasciatore tunisino in Italia e in mezza Europa e poi ministro del governo per una decina d’anni. Sua sorella e zia di Tarak, Wassila Ben Ammar, era la moglie del presidente Bourghiba e ha avuto un ruolo di primo piano nella politica tunisina: aveva una forte influenza su Bourghiba e fu la principale artefice nel 1982, dopo la guerra in Libano, del trasferimento di Arafat e del quartier generale dell’Olp in Tunisia, paese che ospiterà il centro delle operazioni palestinesi per una decina di anni. Il Foglio ha provato a contattare Tarak Ben Ammar, per sentire la sua versione sulla ricostruzione dell’Espresso: “Sono attualmente a Los Angeles. Comunque è fake news”, è la sua risposta. L’altro dettaglio riguarda l’incontro con Berlusconi organizzato da Arafat “in un luogo segreto fuori dall’Italia, nella primavera del 1998” in cui sarebbe stato raggiunto l’accordo economico in cambio della falsa testimonianza. Ora, c’è da dire che realmente Berlusconi ha visto Arafat nella primavera del 1998, ma non era all’estero e nient’affatto in segreto: si sono incontrati il 12 giugno 1998 a Roma durante il viaggio di Arafat in Italia. Il leader palestinese incontrò papa Giovanni Paolo II, poi il leader di Forza Italia all’Excelsior, il leader dei Ds Massimo D’Alema e anche l’allora presidente del Consiglio Romano Prodi. E se l’accordo fosse avvenuto in quella occasione? Appare improbabile, visto che ormai il processo All Iberian era chiuso: il 2 giugno, dieci giorni prima, il pm Francesco Greco aveva iniziato la requisitoria. E in ogni caso la testimonianza di Arafat in quel processo non c’è mai stata. Un altro punto con diverse incongruenze in questo diario di Arafat in cui si parla prevalentemente di Berlusconi, è il triangolo con Craxi e Gelli (c’è sempre Licio Gelli in qualche documento segreto e scottante). L’Espresso scrive che chi ha letto il diario di Arafat dice che Arafat nelle sue memorie parla di una vicenda che li vede collegati. “Roberto Calvi – allora presidente del Banco Ambrosiano e uomo di Licio Gelli – ha bisogno di un passaporto nicaraguense. Per procurarglielo, Gelli si sarebbe rivolto a Berlusconi – riporta l’Espresso – e il Cavaliere a sua volta avrebbe chiesto aiuto all’amico Bettino Craxi. Il quale avrebbe investito della questione Arafat, ritenuto in grado di procurare un passaporto del Nicaragua”. In questa specie di fiera dell’est del passaporto la prima cosa che non si capisce è cosa dovesse farsene Calvi di un passaporto nicaraguense (non esattamente un passepartout), la seconda è se poi l’abbia mai ricevuto. Ci sono poi, nella ricostruzione, due cose abbastanza inverosimili: la prima è che il segretario del Psi si mettesse a trafficare passaporti falsi in prima persona e la seconda è che il leader dell’Olp fosse consapevole di tutta la trafila. Ricordiamo che questi sono i diari di Arafat e quindi se è lui a scrivere la vicenda dovrebbe essere andata così, con Craxi che chiama e dice: “Ciao Yasser sono Bettino, mi ha detto Silvio Berlusconi, a cui l’ha chiesto Licio Gelli, che Roberto Calvi gli ha chiesto la cortesia di procurargli un passaporto falso del Nicaragua. Che dici, me ne procuri uno?”. C’è poi un problema di date, che non tornano. L’Espresso scrive che la vicenda del passaporto nicaraguense di Calvi è dei “primissimi anni Ottanta”. Calvi muore nel giugno 1982, quindi è prima. Nel marzo 1981 viene scoperta la lista degli appartenenti alla P2, da quel momento Gelli è latitante e verrà arrestato l’anno successivo, quindi i “primissimi anni Ottanta” è prima del 1981. Resta solo il 1980, ma non si capisce bene cosa debba farsene Calvi di un falso passaporto nicaraguense visto che è a piede libero. Tra l’altro, per la cronaca, quando il 18 giugno 1982 il presidente del Banco Ambrosiano viene trovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra, nelle sue tasche viene trovato un passaporto falso a nome “Gian Roberto Calvini” e non è del Nicaragua (viste le sue conoscenze e frequentazioni, di certo non c’era bisogno di scomodare Gelli, Berlusconi, Craxi e Arafat per un documento falso).

“Ciao Yasser sono Bettino, mi ha detto Silvio che Licio Gelli gli ha detto che Calvi cerca un passaporto falso del Nicaragua. Ne hai uno?” Nel caso dell’Espresso non si può dire che l’inchiesta si basi su un documento falso, semplicemente perché il documento non c’è proprio. E’ quindi, questa dei “diari di Arafat”, una faccenda diversa rispetto all’“inchiesta” sui “trafficanti di virus” (sempre di Lirio Abbate) che ha disintegrato Ilaria Capua. In quel caso il documento era vero, ma le accuse false. Ed è anche diverso dallo scoop, sempre dell’Espresso, sul resoconto delle spese sostenute dal Vaticano per il rapimento di Emanuela Orlandi. In quel caso il documento era tarocco, ma esisteva. I “diari di Arafat” ricordano piuttosto l’intercettazione di Crocetta su Borsellino, quando l’Espresso chiese le dimissioni del presidente della Sicilia dopo aver pubblicato un’intercettazione che non esiste.

IL MISTERO DELLE STRAGI. MILANO. PIAZZA FONTANA.

Guido Salvini: «La guerra tra pm ha fermato la verità su piazza Fontana». Intervista al magistrato che ha indagato sulla strage del 12 dicembre del ’69, scrive Rocco Vazzana il 20 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". «Senza la “guerra tra magistrati” che io ho solo subito gli esiti di quei processi sarebbero stati diversi e la verità completa». A quasi cinquant’anni dalla strage di Piazza Fontana, Guido Salvini, ex giudice istruttore nel processo di Milano, ripercorre gli anni in cui la democrazia rischiò di sbriciolarsi sotto le bombe.

In tutto questo tempo si sono svolti tre processi, sono stati individuati due colpevoli, gli ordinovisti Franco Freda e Giovanni Ventura, ma nessuna condanna è stata mai pronunciata. Come è possibile?

«Aggiungo a Freda e Ventura Carlo Digilio che è stato dichiarato colpevole di concorso della strage per aver preparato l’ordigno ma già in Corte d’Assise ha avuto la prescrizione in quanto collaboratore. Ciò che ha danneggiato queste indagini, e in generale le indagini sulle stragi, è stata la frammentazione dei processi. Perché le collaborazioni e le testimonianze sono arrivate in tempi diversi, in un arco temporale lungo più di trent’anni. In questo modo nessun processo ha potuto utilizzare tutte le prove esistenti, ognuno ne ha utilizzato solo una parte. Se oggi, per fare un’ipotesi metagiudiziaria fosse possibile celebrare un processo mettendo insieme tutte le prove raccolte sino ad oggi probabilmente quelli che sono stati imputati sarebbero condannati».

Perché il processo fu spostato a Catanzaro?

«Con la giustificazione dell’ordine pubblico. Il Procuratore capo di Milano e poi la Cassazione stabilirono che a Milano vi era il rischio di scontri di piazza fra gruppi opposti. La sede scelta però era troppo distante. L’unico precedente paragonabile, da questo punto di vista, è stato il processo per il disastro del Vajont, che fu trasferito a L’Aquila, un luogo praticamente irraggiungibile per i valligiani. Sono decisioni che ledono il diritto di partecipare delle persone offese. E l’obiettivo credo che fosse quello che in un’aula così distante si annacquassero testimonianze imbarazzanti per lo Stato. A Catanzaro l’istruttoria fu anche resa difficile dalla distanza dello scenario delle indagini, tutti i testimoni erano in Veneto. Eppure il giudice istruttore di allora, Emilio Ledonne, fece un ottimo lavoro con il filone che portò al rinvio a giudizio di Delle Chiaie e Facchini, anche se poi assolti nel 1988. E fu Ledonne a individuare, già all’epoca, come esplosivista del gruppo “zio Otto”, anche se allora non fu identificato in Carlo Digilio, l’uomo che 15 anni dopo diventerà con me l collaboratore di giustizia per la strage. Anche se nessuno ha scontato delle pene, però, le indagini non sono state affatto inutili. Le sentenze dicono che la strage di Piazza Fontana è stata organizzata lì in Veneto, dalle cellule di Ordine Nuovo. Su quanto avvenuto si sa praticamente tutto e la paternità politica è indiscussa».

Perché lei definisce il 12 dicembre una strage “incompleta”: cinque attentati e una sola strage?

«Quel giorno è senza dubbio accaduto qualcosa di strano. Perché gli attentati di Milano e Roma erano stati preceduti da 17 episodi simili dall’inizio del 1969. Erano attentati dimostrativi che erano stati tollerati perché servivano a stabilizzare il quadro politico: c’era Rumor che spingeva per mantenere un monocolore con l’appoggio solo dei socialdemocratici, che si era separati dal Psi, i socialisti e le sinistre andavano isolate e l’asse del governo spostato a destra».

Fino a quel momento, la strategia “dimostrativa” è condivisa da vari gruppi dell’estrema destra, compreso il Fronte nazionale di Junio Valerio Borghese…

«Senza dubbio, il Fronte nazionale in quel 1969 si sta preparando a una sterzata istituzionale: stringe rapporti col mondo imprenditoriale, Piaggio per citarne uno, attiva propri civili e militari in tutto il Paese e rappresenta una forza non trascurabile della destra reazionaria italiana. Borghese si era rivolto anche all’ambasciatore americano a Roma Graham Martin prospettandogli il suo progetto, senza ricevere in cambio un pieno consenso ma una risposta evasiva. Gli Stati Uniti non comprendevano bene la reale forza del Fronte. L’Italia non era la Grecia, dove gli americani erano certi che nel 1967 il golpe sarebbe riuscito poiché la struttura democratica era molto più debole».

Ma il 12 dicembre finisce la fase “dimostrativa” perché a prendere in mano la situazione è un altro gruppo: Ordine Nuovo.

«Quello che accade il 12 dicembre non doveva essere molto diverso da ciò che era accaduto nei mesi precedenti. Si alza però il tiro, si scelgono due città importanti come Milano e Roma e si punta su obiettivi facilmente confondibili: le banche, dunque il capitalismo, e la patria, con gli attentati all’Altare della patria. Attentati quindi attribuibili tranquillamente all’estrema sinistra. È presumibile che questi cinque attentati contemporanei dovessero rimanere gravi ma nell’alveo degli attacchi dimostrativi, ma a un certo punto Ordine Nuovo deve aver pensato che fosse arrivato il momento dell’assalto finale alla democrazia. E ha trasformato la bomba della banca Milano in una strage. Prendendo di sorpresa anche le forze di destra più moderate che fino a quel momento avevano visto di buon occhio la strategia “stabilizzatrice” di azioni solo dimostrative».

Perché Ordine Nuovo decide di accelerare all’improvviso?

«È stata quasi certamente una scelta dei diretti esecutori. Il fatto che ci sia stato un momento in cui la strategia cambia repentinamente è testimoniato dall’allora vice presidente del Consiglio Paolo Emilio Taviani, uno politico che sapeva e sa quello dice. Taviani ha testimoniato davanti a noi di aver appreso allora da alti funzionari dei Servizi che un avvocato e agente del SID, Matteo Fusco Di Ravello, stava partendo da Roma per Milano per fermare l’attentato perché si era capito che avrebbe provocato una strage. E questo finale non faceva parte del piano “morbido” di stabilizzazione. Ma quando Fusco arrivò all’aeroporto sentì alla radio: “Esplode una caldaia a Milano” e capì che ormai non poteva far nulla. E c’è un dettaglio molto umano, che rende credibile questo racconto: l’avvocato ha una reazione istintiva, si attacca al telefono per sentire la figlia che si trova in albergo a Milano in piazza della Scala, cioè davanti alla Banca Commerciale dove era stata piazzata la seconda bomba. La ragazza è una militante di estrema sinistra che partecipa attivamente alla vita politica. La figlia è stupita da tanta apprensione e ne chiede il motivo. La risposta è quasi un dramma di famiglia: “Perché è successo qualcosa di grosso e non sono riuscito a impedirlo”. La figlia di Fusco lo ah testimoniato davanti a noi».

Perché gli attentati contemporanei avvenuti a Roma, uno alla Bnl e due all’Altare della Patria, non provocano vittime?

«Chi ha piazzato la bomba alla BNL ha avuto probabilmente un’esitazione e ha abbandonato l’ordigno in un sottopassaggio dove ha causato solo feriti. Me se la bomba fosse stata deposta come a Milano nel salone la storia e le conseguenze di quel giorno sarebbero completamente diverse Per due giorni dopo infatti, il 14 dicembre era stata da tempo convocata una manifestazione nazionale della destra a Roma, organizzata dal MSI, ma a cui avevano aderito tutte le sigle di destra, compreso Ordine Nuovo. L’avevano battezzata “Appuntamento con la nazione”. Se gli attentati romani fossero andati a segno con vittime quella manifestazione sarebbe stato il pretesto per scatenare una specie guerra civile, assalti alle sedi dei PCI, reazioni della sinistra, morti strada e di conseguenza la dichiarazione dello stato di emergenza».

Lei ha detto che quel 12 dicembre accadde troppo e troppo poco allo stesso tempo. Cosa intendeva?

«Troppo per chi pensava ad attentati dimostrativi che servivano solo a mantenere alta la tensione, troppo poco perché sarebbe servita una seconda strage per mettere in ginocchio la democrazia. Per capire quei fatti bisogna anche inserire i fatti italiani in un contesto internazionale ben preciso. Nel febbraio del ‘ 69 Nixon arriva in visita a Roma. È l’occasione per chiedere al Presidente Saragat di impedire l’avvicinamento dei comunisti al governo. Saragat, il più filo atlantico dei socialdemocratici, concorda. E se guardiamo con attenzione alla stagione più calda della strategia della tensione, quella con le sue le stragi più gravi, notiamo che va dal 1969 al 1974, un periodo di tempo che coincide esattamente con la presidenza Nixon, con Kissinger al suo fianco. Sono anni in cui è ancora pensabile intervenire in quel modo nella politica dei Paesi europei. In Italia accadono Piazza Fontana, la strage alla Questura Piazza della Loggia, la strage di Gioia Tauro, i fatti di Reggio Calabria e una lunga serie altri attentati. Tutto ciò che accade dopo è più difficile da capire. Per intenderci, già Bologna è meno interpretabile».

Un ruolo chiave, da un punto di vista processuale, lo ha giocato il collaboratore Digilio…

«Il racconto di Digilio ruota attorno al casolare ai Paese, vicino a Treviso, in cui lui, Zorzi, Ventura, Pozzan avevano la loro santabarbara: armi, esplosivi e anche una stampatrice per il materiale di propaganda. Lì avevano preparato gli ordigni. È un casolare in campagna che per lungo tempo non si è riusciti a rintracciare».

Perché non è stato trovato?

«È stata la conseguenza di chi credeva di poter fare tutto da solo. Attorno a quel casolare ruotava la credibilità della testimonianza di Digilio. La Procura di Milano decise, senza neanche avvisarmi, di fotocopiare un po’ di atti del processo di Catanzaro e non si accorse che in mezzo a quel materiale c’era l’agenda di Ventura, in cui c’era traccia del casolare raccontato da Digilio. E quando il casolare venne finalmente trovato dalla Procura di Brescia, anni dopo, il processo di piazza Fontana era già finito. La Procura di Milano non si è accorta di nulla, si è fatta sfuggire la prova regina. Se avessero guardato quell’agenda ci sarebbero state sicuramente le condanne».

Una sbadataggine in buona fede?

«Per presunzione. Volevano fare tutto da soli, senza collaborare con me che ero il Giudice Istruttore e seguivo quelle indagini da anni. Anzi, hanno occupato il loro tempo ad attaccarmi, chiedendo al CSM di farmi trasferire da Milano con una serie di pretesti. Invece di privilegiare il gioco di squadra hanno creato un clima di guerra tra magistrati che ha favorito solo gli ordinovisti».

Quanto hanno contribuito i Servizi a confondere le acque nel corso dei vari processi?

«Se c’è un dato certo nella storia di piazza Fontana è la copertura del SID. Perché le condanne al gen. Gianadelio Maletti e al cap. Antonio Labruna, benché modeste, sono comunque definitive. Condannati per aver fatto fuggire all’estero Pozzan e Giannettini due personaggi decisivi».

La politica ha avuto un ruolo?

«I governi dell’epoca hanno a lungo negato che Giannettini fosse un agente del Sid. Lo hanno ammesso solo nel 1977, quindi molto tardi. E’ chiaro i vertici dello Stato sapevano chi fosse Giannettini e che era l’elemento di collegamento con la cellula di Padova. È questo uno degli elementi che la fanno definire quella una strage di Stato».

Un anno fa ci disse di aspettare ancora le scuse da parte di Francesco Saverio Borrelli per averle “fatto la guerra” con esposti al Csm per cacciarla via da Milano. Sono arrivate?

«No. Borrelli fa parte di quelle persone che pensano di non sbagliare mai. E ricordo che il trasferimento per un magistrato equivale alla morte civile: via dalla propria città, via dalle proprie indagini e anche via dalla propria famiglia. A me quegli anni hanno cambiato la vita. Forse lui non se ne ricorda nemmeno».

Ma perché quell’astio da parte della Procura?

«Per invidia, perché ero arrivato dove loro non erano riusciti. Un po’ lo stesso problema che si presentò con Felice Casson».

Che accadde con Casson?

«La mia indagine, pur considerando Gladio una grande scoperta per la ricostruzione della storia d’Italia dagli anni ‘50 in poi, aveva comunque rifiutato l’idea sposata da Casson secondo cui Gladio aveva commesso le stragi. Quando, con il mio lavoro, questa ipotesi, viene esclusa per concentrarsi sugli ordinovisti veneti che operavano nel suo “cortile di casa”, certo a Venezia questo non fu molto gradito. Perché a venir meno non era solo un filone d’indagine ma anche una ricostruzione che aveva dato grande credito politico. Tanto è vero che due ordinovisti in un’intercettazione telefonica dicono: “Quel giudice di Milano ha tolto a Casson il pane di bocca”».

IL MISTERO DELLE STRAGI. LA STAZIONE DI BOLOGNA.

Strage di Bologna, le “bizzarre indagini” su Cavallini e il tragico precedente istriano, scrive domenica 10 febbraio Massimiliano Mazzanti su Secolo d’Italia. La Procura generale del Tribunale di Bologna non s’accorge – indagando sui fantomatici rapporti tra Gilberto Cavallini e Licio Gelli – di scadere quasi nel ridicolo, imponendo ai Carabinieri di ascoltare “a sit” – sommarie informazioni testimoniali – addirittura il figlio dell’ex-militante dei Nar. Giusto per inquadrare al meglio le dimensioni delle cose, si sta parlando di una persona che nacque proprio nell’estate del 1980 e che aveva solo tre anni, quando il padre fu arrestato. Un ragazzo, quindi, che è cresciuto senza aver rapporti diretti col genitore, almeno fino alla maggiore età, essendo stato quest’ultimo detenuto in forme “dure” o “speciali” per buona parte dei 36 anni scontati. Ora, già la sola idea di andare a perquisire la casa di Flavia Sbrojavacca – la donna che nell’80 era compagna di Cavallini -, al fine di trovarvi oggi riscontri degli eventuali rapporti “finanziari” tra Gelli e l’ex-Nar si è dimostrata per lo meno bizzarra; ma pensare che di questi rapporti potesse in qualche modo esserne al corrente il figlio, appunto, riduce questo secondo troncone delle nuove inchieste a poco più di una barzelletta. Se la generale serietà e tragicità della materia non lo impedisse, la notizia odierna dovrebbe essere liquidata con ironia, commentando col dovuto sarcasmo il fatto che a qualche magistrato sia baluginata l’idea che “papà Cavallini”, dovendo ricostruire dopo anni di detenzione un rapporto col figlio, gli parlasse del “buon zio Licio che tanto provvede alla famiglia”. Ricordando come l’unica traccia finora mostrata di questi possibili denari transitati dalle casse della Cia a quelle della P2 e, da qui, a quelle dell’eversione spontaneista, sia un’annotazione dello stesso Cavallini in cui la frase <3.500.000 IN franchi svizzeri> viene curiosamente cambiata e letta in <3.500.000 DI franchi svizzeri> – perché è fondamentale ipotizzare un finanziamento demoniaco di almeno qualche milione di dollari, non potendo seriamente pensare che qualcuno si sia prestato a uccidere 85 persone per un migliaio di “verdoni” o poco più -, più che alle investigazioni, si è appunto alla commedia degli equivoci. D’altro canto, non è stato qualche fazioso commentatore delle vicende processuali bolognesi, ma colleghi magistrati a bollare le ipotesi che legherebbero Gelli a Cavallini, la Strage di Bologna ad altre, determinate oscure pagine della Repubblica degli anni ’70 e ’80, come <bizzarrie logico-giuridiche>. Però, evidentemente, ciò che è “bizzarro” per la Procura della Repubblica, non lo è altrettanto per la Procura generale. E questo non contribuisce certamente ad accrescere il tasso di fiducia del cittadino comune nell’istituzione giudiziaria italiana. Per altro, in questo strano tentativo di creare “collegamenti” e “paralleli” storici nelle vicende terroristiche italiane, la giornata odierna ne suggerisce uno che, di norma, si tende a dimenticare. Bombe che vengono innescate e fatte esplodere ad agosto tra la gente; decine e decine di morti; la mano dei servizi segreti; il giornale “l’Unità” e il Pci che denunciano a gran voce le responsabilità delle strutture militari atlantiche, prima; oscure “trame neofasciste”, poi. Ovviamente, non si sta parlando della Strage di Bologna o di un’altra di quelle degli anni ’70, non ostante la curiosa ricorrenza degli eventi e delle circostanze; bensì, della strage di Vergarola, del 18 agosto 1946, con cui l’Ozna, i servizi segreti jugoslavi di Tito, assassinarono 65 istriani, spingendo crudelmente gli abitanti di Pola – non ancora assegnata alla neonata repubblica comunista – a dare il via al tragico e drammatico esodo. Già, la prima strage indiscriminata della storia italiana post-bellica fu certamente una strage comunista, compiuta da mani straniere e “inquinata” nell’individuazione delle responsabilità dalla stampa “rossa” italiana. Un bel precedente, no?

Strage di Bologna, il figlio smentisce il pentito. E adesso? Incriminiamolo… Sotto accusa adesso è Gilberto Cavallini. Esclusi tutti gli indizi che potrebbero scagionare i fascisti, scrive Paolo Delgado il 20 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Da mesi, nel silenzio dei media e nel disinteresse generale, è in corso a Bologna l’ennesimo processo per la strage alla stazione del 2 agosto 1980. L’imputato è Gilberto Cavallini, oggi di 67 anni, 28 all’epoca della strage. Cavallini era un militante dei Nar in un certo senso anomalo. Aveva qualche anno in più dei giovanissimi militanti dei primi Nar, i fratelli Fioravanti, Alessandro Alibrandi, Franco Anselmi. Veniva da Milano, mentre il nucleo dei Nar era formato di fatto da un gruppo di giovani neofascisti per lo più amici e quasi tutti di Roma- Monteverde. Cavallini, in carcere per l’assassinio a Milano dello studente di sinistra Gaetano Amoroso, a Milano nel 1976, era evaso, latitante aveva raggiunto Roma e si era aggregato al gruppo dei primi Nar. La differenza fondamentale è nei legami che, a differenza dei romani, manteneva con il vecchio fascismo veneto di Ordine nuovo, col quale i romani non avevano invece alcun rapporto. Il processo in sé, come quasi tutto quello che riguarda la strage di Bologna, ha aspetti paradossali. Cavallini infatti è già stato processato e condannato per lo stesso reato ma con altra imputazione, banda armata. Nel 2017 è stato rinviato a giudizio anche per concorso in strage. Tra le altre cose a Cavallini è stato ed è contestato l’aver fornito a Valerio Fioravanti e Francesca Cavallini documenti falsi. Un capo d’accusa bizzarro in sé, dal momento che il supertestimone sul quale si basò di fatto la condanna dei due raccontava appunto di avergli procurato quei documenti falsi. Di fatto il processo a Cavallini si è rapidamente trasformato in un carrozzone nel quale è entrato di tutto: l’omicidio di Valerio Verbano, avvenuto sei mesi prima della strage, quello di Piersanti Mattarella, 7 mesi antecedente la strage, i nessi eventuali con le stragi dei primi anni ‘ 70. In compenso la corte ha deciso di non occuparsi della pista palestinese. Il presidente Michele Leoni ha respinto la richiesta di audizione di Carlos, al secolo Ilich Ramirez Sanchez, uno dei più noti terroristi internazionali degli anni ‘ 70. Carlos, una quindicina di anni fa, aveva a sorpresa dichiarato che alla stazione di Bologna, il 2 agosto 1980, era presente un militante vicino alla sua organizzazione, il tedesco Thomas Kram, membro delle Rz. Dal momento che Kram alla stazione c’era davvero non si capisce perché in un processo a spettro così ampio rifiutare di ascoltarlo e la giustificazione ufficiale, la “reticenza” di Carlos, non aiuta. In realtà si tratta di una scelta precisa: quella di escludere ogni segnale che non porti verso il neofascismo di quei tempi. La mole di elementi, che non è affatto probante ma neppure trascurabile a priori, emersi in questi anni, viene infatti liquidata derubricando il lodo Moro a “diceria”. Nonostante il medesimo lodo, che sarebbe secondo i sostenitori della pista palestinese all’origine della strage, sia invece stato ammesso ormai da una ressa di fonti, sia italiane che palestinesi. In realtà, a esaminare nei particolari le udienze, alcuni elementi nel processo sono emersi: in senso opposto alla condanna dei Nar. Uno degli elementi sui quali si basava l’accusa era infatti l’omicidio del neofascista siciliano Francesco Mangiameli a opera di Fioravanti e Giorgio Vale (altro militante dei Nar poi ucciso) un mese dopo la strage. Secondo i giudici di Bologna quell’omicidio era conseguenza della strage: i Nar volevano mettere a tacere un testimone. Nella panoplia di assurdità e contraddizioni che costella i processi per la strage del 2 agosto, nel processo per quell’omicidio, svoltosi a Roma e non a Bologna, il delitto viene spiegato con motivazioni opposte a quelle messe nero su bianco nelle motivazioni della sentenza bolognese. L’esecuzione sarebbe stata decisa per motivi che avevano a che vedere solo con il progetto di far evadere Pierluigi Concutelli e in particolare al ‘ furto’ dei fondi messi a disposizione dai Nar per quell’impresa a opera di Mangiameli. La moglie del siciliano, che all’epoca dell’omicidio era uno dei leader di Terza posizione, ha confermato in aula che i dissapori tra il marito e la coppia dei Nar era questione di soldi. Allo stesso modo, è stata dimostrata l’evanescenza delle due supertestimoni citate nel libro ‘ colpevolista’ di Riccardo Bocca Tutta un’altra strage. Ma è inutile sperare che queste contraddizioni abbiano qualsiasi peso in un processo come questo. Il cui clima è illustrato come meglio non si potrebbe dall’ ‘ incidente’ che rischia di costare a Stefano Sparti, figlio del pentito di cui sopra, il rinvio a giudizio per falsa testimonianza. Stefano Sparti, che all’epoca aveva 11 anni, aveva dichiarato, come a suo tempo la madre, la nonna e la Colf, che il 4 agosto suo padre non poteva aver incontrato a Roma Fioravanti e Mambro per i documenti falsi dal momento che si trovava a Cura di Vetralla. Più tardi Stefano Sparti ha anche raccontato che il padre, sul letto di morte, gli aveva confessato di aver mentito ‘ perché non potevo fare altro’. Nell’interrogatorio, Sparti ha parlato di una visita di Cristiano Fioravanti, appena uscito di prigione, nella casa di Cura di Vetralla dicendosi sicuro che si trattasse del 2 agosto. In realtà la visita di Cristiano Fioravanti avvenne il 3 agosto e la confusione dell’allora undicenne Stefano Sparti dipende dal fatto che il suo ricordo si basa sui servizi televisivi dedicati alla strage, che in realtà proseguirono per giorni e comunque l’equivoco non incide neppure superficialmente sugli aspetti rilevanti della sua testimonianza. Ciò nonostante è stato iscritto nel registro degli indagati per falsa testimonianza, come non accadde, nei processi contro Fioravanti e Mambro per il falsario De Vecchi, che materialmente aveva costruito, secondo Sparti, i falsi documenti. Per anni De Vecchi aveva sostenuto che nessuno dei due documenti era per una donna. Quando cambiò versione e disse che uno dei due documenti era per la Mambro si giustificò così: «Mi era stato chiesto se erano per una donna, mica se erano per la Mambro». Erano i processi per la strage di Bologna, il punto più basso raggiunto dalla giustizia italiana. E ancora lo sono.

Strage di Bologna, il processo Cavallini: pietra tombale sui segreti della Repubblica, scrive Gabriele Paradisi il 24 febbraio 2019 su Il Dubbio. Perché al processo Cavallini l’avvocato dello Stato e i legali della parte civile si sono opposti all’acquisizione di alcuni documenti? Nell’ultima udienza del processo sulla strage del 2 agosto 1980, che vede Gilberto Cavallini sul banco degli imputati, il presidente della Corte d’Assise di Bologna Michele Leoni ha rigettato l’istanza della difesa che chiedeva di acquisire il carteggio tra la nostra Ambasciata a Beirut e i Servizi segreti a Roma, nel periodo 1979 – 1980 ed in particolare le informative redatte dal capocentro del Sismi a Beirut, colonnello Stefano Giovannone. Giovannone era il garante per l’Italia del cosiddetto “lodo Moro”, quell’accordo segreto, oggi riconosciuto pacificamente dagli storici, tra il nostro governo e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina che dal 1972- 1973, a fronte di una ampia indulgenza nei confronti dei commando palestinesi che utilizzavano il territorio italiano come libero transito e deposito di armi, manteneva il nostro Paese esente da azioni terroristiche. Su quei documenti venne apposto il segreto di Stato nel 1984 dall’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, su richiesta di Giovannone nell’ambito del procedimento penale sulla scomparsa in Libano il 2 settembre 1980 dei due giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo. Nell’agosto 2014, trascorsi 30 anni, il segreto è decaduto, ma immediatamente è stata ripristinata la classifica di segreto e segretissimo, facendo tornare di fatto quei documenti indisponibili alla consultazione. Gli stessi membri dell’ultima Commissione bicamerale d’inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, che poterono prenderne visione sommariamente, vennero messi al corrente che rischiavano una pena fino a tre anni di carcere in caso di divulgazione. Nell’ambito di un procedimento penale per terrorismo e strage, la magistratura può richiedere anche atti sottoposti a segreto di Stato, era quindi nella possibilità della Corte di Bologna togliere finalmente, una volta per tutte, quel velo ormai inaccettabile e permettere di far luce su ciò che poté accadere nel nostro Paese negli anni di piombo, sotto l’oscura coltre protettiva di quella “diplomazia parallela”. Perché quei documenti potrebbero essere utili anche per la strage di Bologna del 2 agosto 1980? Lo schema della cosiddetta “pista palestinese”, sostiene che il “lodo” fu rotto con il sequestro, nel novembre 1979, di due missili e con l’arresto del responsabile per l’Italia dell’Fplp Abu Anzeh Saleh, garante dell’accordo per i palestinesi. In quei mesi a cavallo tra 1979 e 1980, si susseguirono le minacce di ritorsione da parte dell’Fplp. Testimonianze documentali – la deposizione del generale Silvio Di Napoli davanti al giudice Carlo Mastelloni, nonché documenti ritrovati negli archivi della Stasi, la polizia politica della Ddr – dimostrano che il Fronte prese contatti in quei drammatici giorni con il terrorista venezuelano Carlos, il cui gruppo compiva le azioni più sanguinose per conto dei palestinesi. La notte tra il 1° e il 2 agosto 1980, un uomo di Carlos “esperto di esplosivi”, il tedesco Thomas Kram era indiscutibilmente a Bologna e nel corso dell’inchiesta della Procura, che ha vagliato questa pista dal 2005 al 2014, non ha saputo in alcun modo giustificare il motivo di quella sua inquietante presenza, costringendo i magistrati bolognesi a scrivere nella richiesta di archiviazione che su di lui permaneva un “grumo residuo di sospetto”. La strage alla stazione fu dunque la sanzione dell’Fplp? Non è nemmeno del tutto vero che il carteggio da Beirut sia interamente secretato. Per un caso fortuito e inspiegabile, un paio di quelle informative sono emerse e chiunque può leggerle senza incorrere nei rigori della legge. Si trovano negli atti, liberamente consultabili da qualunque cittadino, del procedimento penale sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974. È sufficiente riportare un breve passaggio dell’informativa datata 12 maggio 1980 per capire quanto sarebbe utile disporre dell’intero carteggio. In essa il “Maestro”, così era chiamato Giovannone, riferiva che qualora le “Autorità italiane” non avessero soddisfatto le richieste del Fronte – liberazione di Saleh e restituzione o indennizzo dei missili – «la maggioranza della dirigenza e della base dell’Fplp intende riprendere – dopo sette anni – la propria libertà d’azione nei confronti dell’Italia, dei suoi cittadini e dei suoi interessi con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti». Sono ormai trascorsi quattro decenni da quella stagione drammatica e pare inspiegabile che sia ancora così forte la resistenza degli enti erogatori che mantengono di fatto tale documentazione inaccessibile. Quali segreti indicibili nascondono quelle pagine? Perché al processo Cavallini l’avvocato dello Stato e i legali della parte civile si sono opposti all’acquisizione di quei documenti? Perché chi ha il potere di chiederli evita di farlo?

Bomba prima della strage di Bologna: i fascisti volevano annientare la giunta rossa di Milano. Un’inchiesta dell’Espresso in edicola da domenica 20 gennaio ricostruisce l’intera strategia della destra neofascista culminata nell’eccidio del 2 agosto 1980. I terroristi neri erano pronti ad uccidere anche il giudice di Piazza Fontana. E per depistare usarono la sigla dei killer di ultrasinistra di Acca Larentia, scrive Paolo Biondani il 18 gennaio 2019 su "L'Espresso". La strage di Bologna doveva essere preceduta e seguita, nell'arco di pochissimi giorni, da un altro attentato sanguinario e dal clamoroso omicidio di un giudice eroe della democrazia. Un'autobomba a Milano, programmata per colpire e annientare la storica giunta di sinistra. E un agguato con armi da guerra per eliminare il magistrato veneto che scoprì la pista nera su piazza Fontana. L'Espresso, nel numero in edicola da domenica 20 gennaio ricostruisce l'intera strategia della destra neofascista che è culminata nella strage di 85 innocenti alla stazione di Bologna. L'inchiesta giornalistica, che ha recuperato molti documenti che sembravano perduti di storiche istruttorie dei giudici di Milano, Roma e Bologna, documenta che l'attentato del 2 agosto 1980, il più grave nella storia italiana, era inserito in un piano politico-criminale ancora più folle e cruento. Con personaggi che dai lontani anni di piombo tornano a incombere sul presente. Due giorni prima della strage di Bologna, alle 1.55 della notte tra il 29 e 30 luglio 1980, a Milano esplode un’autobomba davanti a Palazzo Marino. L’ingresso del Comune di Milano viene devastato pochi minuti dopo la fine della prima lunga seduta del consiglio che ha eletto la nuova giunta di sinistra. Per Milano è la prima autobomba. Le cronache segnalano che al momento del boato molti consiglieri hanno appena lasciato il palazzo, mentre il sindaco, Carlo Tognoli, è ancora nel suo ufficio, con la luce accesa: la Fiat 132 imbottita di esplosivo è stata parcheggiata sotto la sua finestra, davanti al portone verso piazza San Fedele. Il messaggio politico è spaventoso: i terroristi volevano annientare la giunta rossa di Milano. L’attentato, che ferisce un passante, non diventa una carneficina perché scoppia solo uno dei tre carichi di esplosivo: sei chili di polvere da mina, stipati in un tubo di piombo. Altri otto chili, collocati in un secondo tubo e in una tanica, vengono scaraventati all’esterno senza deflagrare. L'autobomba del 1980 a Milano, oggi dimenticata, è rimasta impunita. Le successive indagini, ricostruite dall'Espresso, dichiarano però accertata la matrice di estrema destra che punta sui Nar, la stessa organizzazione terroristica di Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, i tre condannati in via definitiva per la strage di Bologna. L'attentato di Milano fu eseguito da loro complici, rimasti ignoti, come attacco preparatorio dell'eccidio del 2 agosto. L'inchiesta dell'Espresso ricostruisce anche il successivo, sofisticato depistaggio: l'autobomba di Milano fu rivendicata con una sigla di ultrasinistra, che era stata utilizzata in precedenza una sola volta, a Roma, dal commando di terroristi rossi che il 7 gennaio 1978 uccisero due giovanissimi militanti del Movimento sociale, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, davanti alla sede del partito in via Acca Larentia. Un terzo ragazzo di destra, Stefano Recchioni, morì nei successivi scontri con i carabinieri. Il vergognoso eccidio di Acca Larentia è rimasto totalmente impunito. Ma le indagini successive hanno dissolto ogni dubbio sulla matrice politica: una mitraglietta usata per sparare ai giovani missini fu sequestrata nel 1998 in un covo delle Brigate rosse. Per l’autobomba di Milano, su un opposto fronte politico, anni di istruttorie giudiziarie disegnano un quadro analogo: nessun condannato a livello individuale, ma una montagna di indizi a carico dei Nar, la destra neofascista romana, allevata e protetta dalla P2. Uno dei principali sospettati per l'attentato esplosivo del 30 luglio 1980, Gilberto Cavallini, vide archiviare quell'accusa per insufficienza di prove. Già condannato in via definitiva per omicidio e per banda armata con Mambro e Fioravanti, oggi Cavallini è il quarto terrorista dei Nar sotto processo per la strage di Bologna. I documenti giudiziari recuperati dall'Espresso completano il quadro con un ultimo piano omicida, fallito solo perchè i terroristi neri ebbero un incidente d'auto. Dopo l’autobomba di Milano e la strage di Bologna, ai primi di agosto del 1980 i Nar erano pronti ad ammazzare Giancarlo Stiz, il giudice veneto che scoprì la pista nera su piazza Fontana: indagini che, nonostante mille depistaggi, hanno portato alla condanna definitiva dei neonazisti Franco Freda e Giovanni Ventura per 16 attentati del 1969 (comprese otto bombe sui treni). 

C’è una pista araba per la strage alla stazione di Bologna? Scrive Paolo Delgado il 2 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Trentasette anni dopo la bomba alla stazione di Bologna, cioè la più sanguinosa strage nella storia d’Italia, oggi si ripeteranno puntualissime le polemiche che accompagnano da sempre la commemorazione. Stavolta nel mirino ci sarà la stessa procura di Bologna, fortemente criticata per aver archiviato l’inchiesta sui mandanti della strage. E’ opportuno ricordare che, secondo una sentenza definitiva ma giudicata quasi ovunque non credibile, non sono ancora stati individuati né i mandanti, né il movente, né gli esecutori materiali della strage. Ci sono tre condannati, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, ma come “anelli intermedi”: quelli che avrebbero organizzato, su mandato non si sa di chi, l’attentato poi realizzato non si sa da chi per non si sa quali ragioni. Si può scommettere che nella polemica sui mandanti non una parola verrà dedicata alla denuncia che il quotidiano romano Il Tempo porta avanti, inascoltato, da una settimana. Il direttore Gian Marco Chiocci ha rivelato che esistono delle note dell’allora capo dei servizi segreti in Medio Oriente Stefano Giovannone, capocentro Sismi a Beirut e già uomo di fiducia di Aldo Moro. Le informative, ancora secretate dal Copasir, potrebbero secondo Chiocci gettare una luce tutta diversa sulla strage e sui suoi mandanti. Le note di Giovannone sono state visionate dai parlamentari della commissione Moro, ma senza il permesso di fotocopiarle né di diffonderne i contenuti. Prima di entrare nel merito degli appunti del vero ideatore del famoso Lodo Moro, quello che consentiva alle organizzazioni palestinesi di usare di fatto l’Italia come base in cambio dell’impegno a non colpire obiettivi italiani ( a meno che, segnalava però Cossiga, non avessero rapporti con Israele: il che, secondo l’ex presidente picconatore, escludeva dall’accordo gli ebrei), bisogna chiarire perché quelle note sono importanti e fino a che punto costituiscono un elemento valido per l’individuazione della verità sulla strage del 2 agosto 1980. A rendere particolarmente interessante quel documento è prima di tutto proprio il fatto che siano note di pugno di Giovannone. Non si trattava infatti di un agente dell’Intelligence come tanti: “Stefano d’Arabia”, com’era soprannominato, era senza dubbio la persona che nello Stato italiano conosceva meglio, più a fondo e più da vicino le organizzazioni palestinesi, nei confronti delle quali provava una assoluta simpatia. Il secondo elemento d’interesse è la stessa scelta di mantenere il segreto su quelle note del 1979- 80 a destare curiosità e sospetti: cosa giustifica, a quasi quarant’anni di distanza, tanta prudenza? Allo stesso tempo va chiarito che gli appunti di Giovannone non indicano affatto con certezza una responsabilità palestinese nella strage. In compenso confermano al di là di ogni dubbio che le indagini trascurarono deliberatamente una pista e scelsero, non sulla base di elementi concreti ma al contrario ignorando i soli elementi concreti a disposizione, di seguire solo quella neofascista. L’antefatto è noto ma conviene riassumerlo. Nella notte tra il 7 e l’8 novembre tre autonomi romani del collettivo di via dei Volsci furono arrestati a Ortona mentre trasportavano per conto dei palestinesi due lanciamissili Sam- 7 Strela di fabbricazione sovietica. Giovannone si mobilitò immediatamente, poche ore dopo l’arresto, per cercare invano di risolvere l’incidente, evidentemente molto preoccupato per qualcosa, anzi per qualcuno, che non potevano certo essere i tre autonomi. Si trattava infatti Abu Anzeh Saleh, ufficialmente studente a Bologna, in realtà responsabile militare del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina in Europa. Saleh, che aveva chiesto ai tre autonomi di occuparsi del trasporto, senza chiarire di cosa si trattasse, fu arrestato pochi giorni dopo. Qualche settimana fa l’allora dirigente dell’Fplp Abu Sharif, nel corso dell’audizione di fronte alla Commissione Moro, ha rivelato che proprio Saleh era il dirigente palestinese a cui lo Stato italiano si era rivolto, dopo il sequestro di Moro, chiedendo un intervento dell’Olp a favore della liberazione dell’ostaggio. I rapporti stretti tra Giovannone e Saleh sono confermati dall’interessamento del potente colonnello perché al palestinese, espulso nel ‘ 74, fosse consentito il ritorno e il soggiorno in Italia. La preoccupazione di Giovannone era comprensibile e fondata. Sin dal ‘ 73 era in vigore l’accordo con il Fronte, come con altre organizzazioni palestinesi, che avrebbe dovuto mettere Saleh al riparo da ogni rischio d’arresto. Il colonnello aveva capito al volo che, con tre autonomi italiani di mezzo e nel clima dell’epoca, ottenere la scarcerazione del palestinese sarebbe stato molto difficile. Era ben consapevole di quanta irritazione ciò avrebbe comportato nei vertici dell’Fplp, allora fortemente influenzato dalla Libia, e quanto fosse di conseguenza alto il rischio di una reazione violenta. Pochi giorni dopo gli arresti, Giovannone accenna, nelle informative ancora secretate, a una lettera inviata al premier italiano Cossiga da Arafat, evidentemente preoccupatissimo per i sospetti di collusione tra palestinesi e terrorismo italiano. Nella lettera, mai consegnata a Cossiga per l’intervento del responsabile dell’Olp in Italia Nemer Hammad, Arafat attribuiva alla Libia ogni responsabilità per il trasporto dei lanciamissili. In dicembre Giovannone accenna per la prima volta a una divisione tra falchi e colombe ai vertici dell’Fplp e del conseguente rischio di dure rappresaglie ove l’Italia non mantenesse i propri impegni con il Fronte. In concreto, senza la liberazione di Saleh e la restituzione dei lanciamissili. Il colonnello torna a registrare la possibilità di rappresaglie e di iniziative punitive nei confronti dell’Italia nei primi mesi del 1980, dopo che il 25 gennaio tutti gli imputati erano stati condannati in primo grado a sette anni. In aprile Giovannone riporta le preoccupazioni dello stesso leader dell’Fplp George Habbash, che si dice pressato dall’ala estremista del Fronte favorevole alla rappresaglia. Nella stessa occasione il responsabile dei servizi segreti italiani in Medio Oriente specifica che l’eventuale attentato sarebbe commissionato a un’organizzazione esterna all’Olp, quella di Carlos con il quale, aggiunge Giovannone, l’area dura dell’Fplp ha appena preso contatti. L’esecuzione, prosegue la nota, sarebbe probabilmente affidata a elementi europei, per non ostacolare il lavoro diplomatico in vista del riconoscimento dell’Olp da parte dell’Italia. In maggio Giovannone cita apertamente un ultimatum, con scadenza il 16 maggio, dopo il quale la maggioranza sia dei vertici che della base del Fronte è favorevole a riprendere la piena libertà d’azione in Italia, se nel frattempo non ci sarà stata la liberazione di Saleh. Il colonnello afferma anche che, secondo le sue fonti, a premere per un’azione violenta è la Libia, principale sostegno del Fronte ma che, in ogni caso, nulla succederà prima della fine di maggio. La fase più pericolosa è invece considerata l’avvio del processo d’appello, il 2 luglio. Nelle settimane seguenti il governo italiano fa sapere di essere pronto a prendere in considerazione la condizione di Saleh, ma non quella dei tre autonomi italiani, e di essere disponibile a indennizzare i palestinesi per i due lanciamissili sequestrati. Il 29 maggio però la Corte d’Appello dell’Aquila respinge la richiesta di scarcerazione di Saleh e le fonti di Giovannone alludono a due possibili ritorsioni: un dirottamento aereo oppure l’occupazione di un’ambasciata. Ma è lo stesso capocentro del Sismi, in giugno, a sottolineare che gli siano stati segnalati obiettivi falsi allo scopo di coprire quelli e a ipotizzare un attentato “suggerito” dalla Libia all’Fplp ma non rivendicato per evitare di creare problemi all’Olp. L’ultimo appunto è di fine giugno. Giovannone dice di essere stato informato sulla scelta del Fronte di riprendere a muoversi in piena libertà, cioè senza più offrire le garanzie previste dal Lodo Moro e afferma di aspettarsi «reazioni particolarmente gravi» se l’appello non rovescerà la sentenza di condanna. Il processo però viene subito rinviato fino a ottobre. Le comunicazioni di Giovannone si fermano qui, ma l’11 luglio il direttore dell’Ucigos prefetto Gaspare De Francisci mette in allarme con una nota riservata il direttore del Sisde Giulio Grassini in merito a possibili ritorsioni da parte dell’Fplp. Né l’informativa di Giovannone né i molti altri elementi che potrebbero indicare una pista libicopalestinese per la strage sono tali da permettere di arrivare a conclusioni credibili, come troppo spesso ha cercato di fare negli ultimi anni uno stuolo di investigatori dilettanti. Ma il punto non è sostituirsi agli inquirenti. È, più semplicemente, chiedersi perché, che, con elementi simili a disposizione, gli investigatori abbiano deciso, sin dalle prime ore dopo l’attentato, di seguire tutt’altra pista.  

2 AGOSTO 1980. Bologna, il buco nero della strage alla stazione. 36 anni dopo, Bologna si prepara ad accogliere i famigliari delle vittime e le commemorazioni. Per non dimenticare l'atto terroristico che provocò 85 vittime. La dinamica e i mandanti, nonostante i processi e le condanne, non sono mai stati chiariti, scrive Michele Sasso l'1 agosto 2016 su “L’Espresso”. La più grande strage italiana in tempo di pace. Ottantacinque morti, più di duecento feriti. Il 2 agosto 1980, un giorno d’estate di un Paese che esiste solo nella memoria, è diventato un tutt’uno con la strage di Bologna. È un sabato quel 2 agosto di 36 anni fa. Le ferie estive che svuotano le città del Nord sono appena iniziate. Chi ha scelto il treno deve passare necessariamente per Bologna, scalo-cerniera per raggiungere l’Adriatico o puntare verso Roma. La stazione è affollatissima dalle prime ore del mattino. I voli low cost arriveranno sono trent’anni dopo. Dopo la bomba alla stazione, che provocò 85 morti, il nostro settimanale preparò un numero speciale e mise in copertina la riproduzione di un quadro di Renato Guttuso, realizzato apposta per l'occasione. Guttuso dette all'opera lo stesso titolo dell'incisione di Francisco Goya Il sonno della ragione genera mostri ed aggiunse la data della strage, 2 agosto 1980, unico riferimento al fatto specifico, vicino alla firma dell'autore. La tavola originale è esposta nel Museo Guttuso. Raffigura un mostro con sembianze da uccello e corpo di uomo, denti aguzzi, occhi sbarrati e di fuoco, che tiene un pugnale nella mano destra e una bomba a mano nella sinistra, e colpisce alcuni corpi morti o morenti, sopra i quali sta a cavalcioni Alle 10 e 25 però il tempo si ferma: 23 chili di tritolo esplodono nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione ferroviaria. Le lancette del grande orologio, ancora oggi, segnano quel tempo e quella stagione di morte e misteri. Un boato, sentito in ogni angolo della la città, squarcia l'aria. Crolla l'ala sinistra dell'edificio: della sala d'aspetto di seconda classe, del ristorante, degli uffici del primo piano non resta più nulla. Una valanga di macerie si abbatte anche sul treno Ancona-Basilea, fermo sul primo binario. Pochi interminabili istanti: uomini, donne e bambini restano schiacciati. La polvere e il sangue si mischiano allo stupore, alla disperazione e alla rabbia. Tanta rabbia per quell’attentato così mostruoso e vile che prende di mira turisti, pendolari, ferrovieri. Perché nessuno anche in quei primi istanti ha mai dubitato sulla matrice terroristica della strage: l'odore dell'esplosivo era inconfondibile. Cominciò quel giorno una delle indagini più difficili della storia giudiziaria italiana. Un iter che ha portato a cinque gradi di giudizio, alla condanna all'ergastolo degli ex Nar Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, e a quella a trent'anni di Luigi Ciavardini. Con un corollario di smentite, depistaggi e disinformazione. Resta la verità giudiziaria della pista neofascista e la strategia della tensione ma rimangono senza nomi i mandanti. I responsabili dei depistaggi, invece, come stabilito dai processi, sono Licio Gelli, P2, e gli ex 007 del Sismi Francesco Pazienza, Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte. Il giorno dei funerali, il 6 agosto, «non era possibile determinare quante persone fossero presenti», come scrisse Torquato Secci, che quel giorno perse il figlio e poi diventò il presidente dell’associazione tra i familiari delle vittime della strage. Non tutte le vittime ebbero, però, il funerale di Stato: solo sette le bare presenti in chiesa in mezzo alle quali camminò il presidente della Repubblica Sandro Pertini, giunto insieme a Francesco Cossiga, presidente del Consiglio dei ministri. Fuori dalla chiesa, la gente in piazza iniziava a contestare le autorità. Solo Pertini e il sindaco di Bologna, Zangheri, ricevettero degli applausi. Ancora prima dei funerali si svolsero manifestazioni in Piazza Maggiore a testimonianza delle immediate reazioni della città. Un moto di indignazione e dolore scosse l’intero Paese. L'Espresso uscì la settimana successiva con un numero speciale: in copertina un quadro a cui Renato Guttuso ha dato lo stesso titolo che Francisco Goya aveva scelto per uno dei suoi 16 Capricci: «Il sonno della ragione genera mostri». Trentasei anni dopo, con l’eredità di ombre, depistaggi e la strategia della tensione per controllare il Paese, si rinnova il ricordo collettivo e personale della strage. Bologna si prepara a rinnovare l’impegno con la “giornata in memoria delle vittime di tutte le stragi”, organizzata dall’associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto che tenne viva la memoria e la spinta civile durante l’intero processo.

Come a sinistra si racconta sempre un'altra storia.

La strage di Bologna: l’intervista di Gianni Barbacetto al giudice Mastelloni. Ad ogni anniversario della strage di Bologna spuntano le rivelazioni su nuove piste e nuovi responsabili per la bomba. Piste e responsabili che spesso si sono rivelati sbagliati o, peggio, dei depistaggi. L'ultimo libro sulla bomba alla stazione: il saggio uscito per Chiarelettere di Rosario Priore e Valerio Cutonilli "I misteri di Bologna". L’1 agosto 2016 sul Fatto Quotidiano Gianni Barbacetto (autore tra gli altri del libro "Il grande vecchio" sulle stragi e sui segreti italiani) intervista il giudice Carlo Mastelloni, che nel passato aveva indagato sul disastro di Argo 16 e sui contatti tra Br e Olp per lo scambio d'armi. Diversamente da Priore, Mastelloni ha pochi dubbi sull'origine della bomba e sui responsabili: sono stati i neofascisti dei Nar, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Quest'intervista cancella la tesi dei due autori del libro. E' la più grave delle stragi italiane: 85 morti, 200 feriti. È anche l’unica con responsabili accertati, condannati da sentenze definitive: Valerio Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini. Esecutori materiali appartenenti ai Nar, i Nuclei armati rivoluzionari. La strage di Bologna del 2 agosto 1980, ore 10.25, è anche l’unica per cui sono state emesse sentenze per depistaggio: condannati due uomini dei servizi segreti, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, e due faccendieri della P2, Licio Gelli e Francesco Pazienza. I depistaggi: fanno parte della storia delle indagini sull’attentato di Bologna (come di tutte le stragi italiane, a partire da piazza Fontana) e arrivano fino a oggi, dopo che sono passati 36 anni. Malgrado le sentenze definitive che attribuiscono la responsabilità dell’attentato ai fascisti nutriti dalla P2, sono continuamente riproposte altre spiegazioni, fantasmagoriche “piste internazionali”. La pista palestinese, più volte presentata in passato, anche da Francesco Cossiga, torna alla ribalta oggi aggiornata dal magistrato che ha indagato sulla strage di Ustica, Rosario Priore. Continua a resistere la pervicace volontà di non guardare le prove raccolte in anni d’indagini e allineate in migliaia di pagine di atti processuali, per inseguire le suggestioni evocate da personaggi pittoreschi e depistatori di professione. Del resto Fioravanti e Mambro, che pure hanno confessato decine di omicidi feroci, continuano a proclamare la loro innocenza per la strage della stazione: non possono e non vogliono accettare di passare alla storia come i “killer della P2”. La definizione è di Vincenzo Vinciguerra, protagonista dell’altra strage italiana per cui c’è un responsabile condannato, quella di Peteano. Ma Vinciguerra ha denunciato se stesso e ha orgogliosamente rivendicato l’azione di Peteano come atto “di guerra politica rivoluzionaria” contro uomini dello Stato in divisa. Su Bologna, sulle 85 incolpevoli vittime, sui 200 feriti, invece, 36 anni dopo restano ancora all’opera i dubbi, le menzogne, i depistaggi. Non ha dubbi: “Cominciamo a mettere le cose al loro posto: la matrice neofascista della strage di Bologna è chiara”. Carlo Mastelloni è dal febbraio 2014 procuratore della Repubblica a Trieste. Non dà credito alla pista internazionale per l’attentato: il giudice Rosario Priore, in un libro scritto con l’avvocato Valerio Cutonilli, spiega la strage con una pista palestinese. “Non l’ho mai condivisa”, dice Mastelloni. In estrema sintesi, secondo i sostenitori di questa ipotesi, la Resistenza palestinese avrebbe compiuto la strage come ritorsione per l’arresto nel novembre 1979 di Abu Saleh, uomo del Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), componente radicale dell’Olp di Yasser Arafat, fermato in Italia con tre missili terra-aria tipo Strela insieme a Daniele Pifano e altri due esponenti dell’Autonomia romana. La strage come vendetta per la rottura da parte italiana del cosiddetto “Lodo Moro”, cioè dell’accordo di libero transito in Italia dei guerriglieri palestinesi, in cambio della garanzia che sul territorio italiano non avrebbero compiuto attentati. “Quella pista”, ricorda Mastelloni, “si basa sul fatto che a Bologna la notte prima della strage era presente Thomas Kram; tuttavia, all’elemento certo di quella presenza si è aggiunto il nulla indiziario”. Kram è un tedesco legato al gruppo del terrorista Carlos, lo Sciacallo. Nuovi documenti, ancora secretati perché coinvolgono Stati esteri, sono stati di recente acquisiti dall’attuale Commissione parlamentare d’inchiesta sull’assassinio di Aldo Moro: proverebbero che gli accordi con la Resistenza palestinese hanno tenuto almeno fino all’ottobre dell’80, assicura lo storico Paolo Corsini, che ha potuto leggere quelle carte in qualità di componente dell’organismo parlamentare. Racconta Mastelloni: “Quando il vertice del Sismi (il servizio segreto militare erede del Sid) dopo l’arresto di Pifano e degli altri fu costretto a rivelare la persistenza del Lodo Moro a Francesco Cossiga – che già ne era stato sommariamente informato attraverso le lettere inviate da Moro prigioniero nella primavera 1978 – questi andò su tutte le furie. Soprattutto dopo aver appreso che il transito dei missili era stato accordato al capo dell’Fplp George Habbash dal colonnello del Sid Stefano Giovannone”. La furia di Cossiga, i contatti di Giovannone. In quei mesi Cossiga era presidente del Consiglio. “Appunto. E si arrabbiò moltissimo. Di qui l’atteggiamento furioso di Habbash che rivendicò i missili e la copertura datogli “dal governo italiano” che lui evidentemente identificava in Giovannone, capocentro Sismi a Beirut. Conosco un po’ la personalità di Cossiga: gli piacevano assai certi intrighi internazionali e poi credeva di avere le stesse capacità strategiche di Moro. Per questo è assai facile che il Lodo abbia tenuto fino a tutto il 1980, almeno fino alla conclusione del mandato di Cossiga. È però da escludere che di fronte a una strage come quella di Bologna il Lodo Moro potesse essere idoneo a coprire il fatto. Mi si deve poi spiegare quale utilità avrebbe mai conseguito il Kgb – che aveva avuto alle sue dipendenze Wadi Haddad fino al 1978, così come nella sua orbita si trovava Habbash e lo stesso Arafat capo dell’Olp – colpendo la rossa Bologna”. Cossiga arrivò a dire, in un’intervista al Corriere del giugno 2008, che la strage fu la conseguenza un transito di esplosivo finito male. “Non è assolutamente plausibile. L’esplosivo usato per l’attentato poteva esplodere solo se innescato, non per altri fattori accidentali. La strage fu causata dalla deflagrazione di una valigia riempita con circa 20 chili di Compound B, esplosivo di fabbricazione militare in dotazione a istituzioni come la Nato”. Priore sostiene che l’Fplp di Habbash aveva una così forte influenza su Giovannone e, tramite questi, sul governo italiano, da pretendere che le nostre autorità rifiutassero a statunitensi e israeliani di esaminare i missili Strela sequestrati. “Il dottor Habbash è stato un capo carismatico ma, francamente, penso che i nostri alleati non avessero bisogno di analizzare gli Strela che già conoscevano. Le rivelo che spesi ogni energia –tante missive di richiesta allo Stato maggiore dell’esercito – per avere notizia dei missili sequestrati e poi inviati agli organi tecnici dell’Esercito. Dove si trovavano? Silenzio. Mi fu poi detto nel 1986, dal generale Vito Miceli, che erano stati spediti agli americani per le analisi”. L’ipotesi è che il destinatario ultimo dei missili sequestrati fosse niente di meno che il terrorista Carlos, che stava progettando un’azione clamorosa, un attentato contro i leader egiziano Sadat. “Lo escludo. Nel 1979, Carlos già da anni era stato espulso dal circuito di Fplp. Penso che quei missili fossero in transito e che gli autonomi arrestati si sarebbero dovuti limitare a trasportarli, probabilmente fino al confine svizzero. Si trovava infatti in Svizzera quella che io chiamo la testa del motore, e cioè la centrale del terrorismo palestinese. Mi pare che proprio in quel periodo a Ginevra fosse in programma un’importante conferenza internazionale cui doveva partecipare Henry Kissinger, da anni obbiettivo del Fplp. Carlos aveva assunto il comando dell’organizzazione poi chiamata Separat, vicina ai siriani, e quindi all’Unione Sovietica. Escludo perciò che Carlos avesse bisogno proprio dei due missili di Habbash così come escludo che quest’ultimo si mettesse nelle mani di Carlos per compiere un attentato eclatante nella rossa Bologna”. È dunque solida, da un punto di vista giudiziario, la matrice fascista della strage di Bologna. “Sì. Ricordiamoci innanzitutto il luogo e il contesto: agli inizi degli anni Ottanta, Bologna era ancora la capitale simbolica del Pci. Finiti gli anni del compromesso storico e degli accordi con la Dc, Enrico Berlinguer riposizionò il Partito comunista all’opposizione”. Tanti i testimoni che parlano di Giusva. Responsabile della strage, per la giustizia italiana, è il gruppo dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari di Valerio Giusva Fioravanti. “Lo provano le testimonianze di militanti di primo piano dei Nar: da Cristiano Fioravanti a Walter Sordi, da Stefano Soderini a Luigi Ciavardini. Ma decisiva appare nel contesto della strage la vicenda dell’omicidio Mangiameli. Francesco Ciccio Mangiameli, leader nazionale di Terza Posizione, fu indicato dal colonnello Amos Spiazzi nell’agosto del 1980 come coinvolto nell’attentato. Nel settembre dello stesso anno, Mangiameli venne eliminato dai fratelli Fioravanti, Francesca Mambro e Giorgio Vale a Roma, dopo essere stato attirato in una trappola. Omicidio inspiegabile, se non con il pericolo che ‘Ciccio’ rivelasse quello che sapeva sulla strage di Bologna”.  Giusva Fioravanti e Francesca Mambro erano stati a Palermo, da Mangiameli, nel mese di luglio 1980, per pianificare l’evasione di Pierluigi Concutelli, capo militare di Ordine nuovo. “Sì. Ed è proprio per paura di quanto avevano appreso durante quel viaggio in Sicilia che Giusva era deciso a eliminare anche la moglie e la bambina di Mangiameli. Questo lo ha raccontato il pentito Cristiano Fioravanti, fratello di Giusva”. Cristiano Fioravanti è un personaggio drammatico, grande accusatore del fratello Giusva. È un personaggio credibile? “Certamente sì. In diverse confidenze fatte nel carcere di Palianolo si evince dalle dichiarazioni di Sergio Calore e Raffaella Furiozzi – e in parziali confessioni rese alla Corte d’assise di Bologna, poi ritrattate ma solo su fortissime pressioni del padre dei fratelli Fioravanti, Cristiano ha additato il fratello come responsabile della strage che, nelle intenzioni, non avrebbe dovuto assumere dimensioni così devastanti”. In aggiunta c’è la testimonianza di Massimo Sparti. “Ed è molto importante. Sparti parla di una richiesta urgente di documenti falsi per Francesca Mambro avanzata da un Valerio Fioravanti molto preoccupato che la ragazza fosse stata riconosciuta alla stazione di Bologna. Inoltre, è assolutamente certo che Giusva e Francesca volevano eliminare Ciavardini per aver fatto incaute rivelazioni il 1° agosto alla fidanzata. Stefano Soderini era già stato mobilitato per l’eliminazione del giovane, allora minorenne e ferito in uno scontro a fuoco durante un’azione dei Nar. Non le pare abbastanza per considerare definitiva la matrice fascista della strage?”. Alcuni ritengono però che in tutta la vicenda processuale sia apparsa indeterminata, se non assente, la figura dei mandanti e la motivazione profonda per la strage. “Resta un buco di ricostruzione storica. Ma nessuno può levarmi dalla testa che le continue e pervicaci campagne volte ad accreditare l’innocenza degli attentatori materiali neofascisti non hanno avuto altro esito – anche dopo la sentenza definitiva della Cassazione – che allontanare ancora di più la ricerca dei mandanti e dei loro scopi”. Oggi resta intoccabile quella grande lapide (“Vittime del terrorismo fascista”) all’interno della stazione, con i nomi degli 85morti di Bologna. “Sì, e aggiungo una cosa: quella lapide è tuttora scomoda per parecchi ambienti”.

Strage di Bologna, la mano dei Servizi segreti: i documenti inediti sull'Espresso. Nuovi elementi rivelano le complicità dello Stato e il ruolo di Licio Gelli nell'attentato che il 2 agosto del 1980 è costato la vita a 85 innocenti. Ve li raccontiamo nel numero in edicola da domenica 29 luglio, scrivono Paolo Biondani e Giovanni Tizian il 27 luglio 2018 su "L'Espresso". Il capo della P2, i finanziamenti e il misterioso documento “Bologna”. Le protezioni che i servizi hanno fornito ai terroristi neri coinvolti nella strage e un secondo covo rimasto finora segreto. L'ombra di Gladio sulle sul curriculum criminale del quarto neofascista sotto processo con l'accusa di essere uno degli esecutori. Insomma, sulla bomba del 2 agosto 1980 alla stazione dei treni di Bologna che ha ucciso 85 innocenti, i misteri sono ancora molti. Conosciamo gli esecutori, ma non i nomi degli ideatori politici. Per questo attentato, il più sanguinario, c’è un processo in corso contro un terrorista di destra accusato di essere il quarto complice, dopo i tre stragisti già condannati. E c’è una nuova indagine, ancora aperta, sui mandanti occulti. A 38 anni dalla strage, L’Espresso in edicola a partire da domenica 29 luglio, pubblicherà un ampio servizio esclusivo sull’attentato: con tutte le sentenze e altri documenti, finora inediti, che disegnano la stessa trama nera, una strage di Stato. La mano di alcuni uomini dei servizi fedeli non alla Costituzione ma a Licio Gelli, il fondatore della loggia segreta P2. Prendiamo, per esempio, Valerio Fioravanti, il terrorista di destra condannato in via definitiva come esecutore materiale dell’attentato alla stazione. Vito Zincani, il giudice istruttore della maxi-inchiesta sulla strage, ricorda bene le vecchie carte ora ritrovate da L’Espresso: «Fioravanti aveva rubato un’intera cassa di bombe a mano, modello Srcm, quando faceva il servizio militare a Pordenone. Era stato ammesso alla scuola ufficiali quando risultava già denunciato e implicato in gravi reati. Per capire come avesse fatto, abbiamo acquisito i suoi fascicoli. E negli archivi della divisione Ariete abbiamo trovato un documento dell’Ufficio I, cioè dei servizi militari: indicava proprio Fioravanti e Alessandro Alibrandi come responsabili del furto delle Srcm. Quelle bombe sono state poi utilizzate per commettere numerosi attentati. Sono fatti accertati, mai smentiti». C'è poi l'imputato del nuovo processo di Bologna, Gilberto Cavallini. Al centro di un caso ancora più inquietante. Il mistero di una banconota spezzata. Il 12 settembre 1983 i carabinieri perquisiscono a Milano un covo di Cavallini. Tra le sue cose, elencate nel rapporto, il reperto numero 2/25: una mezza banconota da mille lire, con il numero di serie che termina con la cifra 63. Tra migliaia di atti ufficiali dell’organizzazione Gladio,la famosa rete militare segreta anticomunista, L'Espresso ha recuperato le foto di banconote da mille lire, tagliate a metà, e i fogli protocollati che spiegano a cosa servivano: erano il segnale da utilizzare per accedere agli arsenali, per prelevare armi o esplosivi, in particolare, dalle caserme in Friuli. Su una foto si legge il numero di una mezza banconota: le ultime due cifre sono 63. Le stesse delle mille lire spezzate di Cavallini. Infine il ruolo del Gran Maestro della P2: Licio Gelli, morto nel 2015, senza aver scontato neppure un giorno di carcere per il depistaggio ordito dopo la strage di Bologna. A suo carico, oggi, emergono nuovi fatti, su cui indaga la Procura generale nel filone sui mandanti. E che L'Espresso è in grado di rivelare: tra le sue carte dell’epoca sequestrate a Gelli ora emerge un documento classificato come «piano di distribuzione di somme di denaro». Milioni di dollari usciti dalla Svizzera proprio nel periodo della strage e dei depistaggi, tra luglio 1980 e febbraio 1981. Il documento ha questa intestazione: «Bologna - 525779 XS». Numero e sigla corrispondono a un conto svizzero di Gelli. Altre note, scritte di pugno da Gelli, riguardano pacchi di contanti da portare in Italia: solo nel mese che precede la strage, almeno quattro milioni di dollari. A chi erano destinati quelle somme indicate nel documento “Bologna”? Paolo Bolognesi, il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto 1980, è convinto di una cosa: «Mani esterne hanno sempre lavorato contro la verità. Esiste ancora un pezzo delle nostre istituzioni che rema in direzione contraria alla verità».

Bologna, quando mettere le bombe era un modo per far politica, scrive Paolo Delgado il 3 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Da Piazza Fontana al massacro della stazione di Bologna, una lunga scia di sangue e di misteri di Stato durata 11 anni. È stata la più sanguinosa e feroce di tutte: 85 vittime, il crimine più orrendo nella storia della Repubblica. Eppure quella di Bologna è stata una strage “fuori stagione”: la si potrebbe definire inattesa, se il termine non suonasse sinistro, e dunque difficilmente comprensibile. La vera stagione delle stragi, quella in cui le bombe esplodevano con frequenza oggi inimmaginabile anche se fortunatamente non tutte mietevano vittime, era iniziata nel 1969 e si era prolungata sino al 1974. Per rendere l’idea di cosa s’intenda basti dire che solo le Sam, Squadre azione Mussolini, attive soprattutto a Milano e nel nord, firmarono in quei cinque anni un’ottantina di attentati esplosivi. Per convenzione si data l’esordio della tremenda “stagione delle stragi” al 12 dicembre 1969, quando alle 16.37 del pomeriggio una bomba esplose nel salone della Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, a Milano. L’attentato uccise subito 13 persone, altre quattro non sopravvissero alle ferite. I feriti furono 83. Una seconda bomba, nella sede milanese della Banca commerciale italiana, in piazza della Scala, non esplose. A Roma, nelle stesse ore, i botti furono tre: una bomba nel sottopassaggio di via Veneto, una di fronte all’Altare della Patria in piazza Venezia e un’altra all’ingresso del Museo del Risorgimento, nella stessa piazza. Nella capitale i feriti furono 16. Le esplosioni si verificarono tutte nell’arco degli stessi 53 minuti. Lo shock fu immenso e il seguito peggiorò le cose: la morte in questura dell’anarchico Pino Pinelli precipitato non si saprà mai come dal balcone della Questura di Milano nella notte tra il 15 e il 16 dicembre, le false accuse contro gli anarchici, i depistaggi e le reticenze dello Stato, la scoperta del coinvolgimento di un neofascista arruolato e poi fatto fuggire all’estero dai servizi segreti, Guido Giannettini, “l’agente Zeta”, la farsa di un processo spostato da Milano, sede naturale, a Catanzaro nel quale sfilarono uno dopo l’altro gli uomini del potere muti e reticenti. Ma in quel 12 dicembre 1969 la stagione del sangue era iniziata già da mesi, il 25 aprile, con una bomba al padiglione Fiat della fiera di Milano, nessuna vittima, molti feriti. Poi, il 9 agosto, nel pieno dell’esodo estivo, otto ordigni scoppiarono su altrettanti treni. Le bombe del 12 dicembre furono le prime a uccidere, non a esplodere. La cosiddetta “strategia della tensione” avrebbe fatto nei cinque anni successivi 113 vittime in 4.584 attentati. Le stragi propriamente dette falciarono in quegli anni 50 persone. Secondo un luogo comune diffuso quanto infondato la sola strage di cui si conoscono almeno gli esecutori è quella di Bologna, arrivata sei dopo la fine della “strategia della tensione”. È un’idea sbagliata per molti motivi: prima di tutto esistono enormi dubbi, diffusi anche tra i magistrati che si sono occupati di stragi e di neofascismo sulla effettiva colpevolezza dei condannati per quella strage, i militanti dei Nar Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. In secondo luogo, anche limitandosi alla in questo caso molto discutibile verità giudiziaria, i condannati non sarebbero né gli ideatori né gli esecutori materiali del massacro ma solo una sorta di “anello intermedio”. Infine e soprattutto i colpevoli per la strage di piazza Fontana sono stati individuati, i neofascisti Franco feda e Giovanni Ventura, anche se non condannati. Essendo stati già assolti in via definitiva in precedenti processi non potevano infatti essere riprocessati, e in ogni caso ventura è del frattempo deceduto. Piazza Fontana è una strage impunita, non più misteriosa. Ne seguirono parecchie. Il 22 luglio 1970, nel pieno della rivolta di Reggio Calabria, la più lunga rivolta urbana di tutto l’Occidente dal dopoguerra in poi, della quale anche per insipienza della sinistra avevano preso le redini i neofascisti, una esplosione sui binari provocò il deragliamento di un treno a Gioia Tauro: sei morti. Il 31 maggio un’autobomba uccise tre carabinieri a Peteano, in provincia di Gorizia. Reo confesso il neofascista Vincenzo Vinciguerra. Il 17 maggio 1973, un anarchico sospetto però di legami con vari servizi segreti qua e là per il mondo e con l’estrema destra, tirò una bomba nel cortile della Questura di Milano nel corso della commemorazione del commissario Luigi Calabresi, ucciso l’anno precedente: quattro morti, 40 feriti. Il 28 maggio 1974 la bomba di piazza della Loggia a Brescia, esplosa nel corso di una manifestazione sindacale antifascista, uccise otto persone. Quest’anno è diventata defiitiva la condanna per gli ordinovisti veneti Carlo maria Maggi. Pochi mesi dopo, il 4 agosto, l’attentato al treno Italicus fece 12 vittime e ne ferì 105. Che queste stragi, come molti altri attentati, rientrino nella stessa cornice è praticamente certo. Si trattava di una strategia di infiltrazione nei gruppi dell’estrema sinistra, di provocazione e di innalzamento costante della tensione con al termine il miraggio del golpe codificata dai teorici della guerra non convenzionale, molti dei quali si erano incontrati nel noto convegno svoltosi nel maggio 1965 all’Hotel Parco dei Princìpi a Roma, organizzato dall’Istituto di studi militari Pollio, appunto sulle strategie di “guerra rivoluzionaria e non convenzionale”. Ma parlare di identica cornice non implica affatto una regia comune o l’esistenza di un’unica centrale. È al contrario probabile che ciascuna strage risponda a logiche, circostanze e anche organizzatori diversi, sia pure nell’ambito dello stesso progetto di massima e degli stessi ambienti politici. Sono peraltro leciti dubbi anche sulla omogenietà tra l’ultimo attentato, quello dell’Italicus, e quelli precedenti. Altrettanto discutibile il coinvolgimento diretto dello Stato. L’idea che a organizzare le stragi fossero i governi o i vertici dei servizi segreti dell’epoca, largamente diffusa negli ambienti di sinistra dell’epoca, è fantapolitica venata di paranoia. Molto più probabilmente tra i servizi segreti e gli ambienti neofascisti sussisteva un rapporto in cui ciascuno dei due soggetti pensava di poter usare e manipolare l’altro. Certamente, nel clima della “guerra non convenzionale”, i neofascisti furono usati in funzione di infiltrati provocatori, ma gli stessi neofascisti pensavano di sfruttare la postazione ai loro fini, tutt’altro che coincidenti con quelli dei servizi stessi. La strage di Bologna cade però in una fase tutta diversa. In pochi anni il mondo e l’Europa erano cambiati: caduti i regimi fascisti in Spagna, Portogallo e Grecia, caduta l’amministrazione Nixon negli Usa, ogni pur tenue rapporto sospettabile si connivenza con l’estrema destra era stato tagliato. Per innalzare la tensione, in un Paese dove ferimenti e omicidi politici erano non per modo di dire all’ordine del giorno, non c’era certo bisogno e neppure ci si trovava di fronte a un’insorgenza sociale o politica “di sinistra” tale da giustificare un ritorno alla strategia della tensione. È vero che alcune bombe erano tornate a esplodere prima di quella tremenda di Bologna nel 1979 ma erano rimaneggiate in modo tale da fare solo rumore. Poche settimane prima della strage un ordigno era stato rinvenuto a palazzo dei Marescialli, sede del Csm, proprio nel giorno del raduno degli alpini nella stessa piazza Indipendenza. La strage fu evitata perché il timer non funzionò, ma l’artificiere del Movimento popolare rivoluzionario Emanuele Macchi, che firmò l’attentato, ha sempre sostenuto di aver modificato la bomba proprio per non farla esplodere. Dal momento che lo stesso Mpr era responsabile anche dei precedenti attentati a Roma, in ciascuno dei quali gli ordigni erano stati rimaneggiati in modo da renderli di fatto inoffensivi è probabile che Macchi non menta. Senza entrare in particolari, anche il contesto indica la strage di Bologna come sostanzialmente diversa da quelle precedenti e probabilmente da inquadrarsi più nel quadro delle tensioni internazionali, in particolare sullo scenario mediorientale, che in una sanguinosa “coda” della strategia della tensione. Il 23 dicembre 1984 un altro treno, il Rapido 904, fu squassato da un’esplosione. In quella passata poi alla storia come “la strage di natale” perirono 17 persone e i feriti si contarono a centinaia. Non fu una bomba politica e neppure legata a terrorismo internazionale. Quella del dicembre 1984 non fu l’ultima bomba della serie iniziata nel 1969 ma il primo anello di una nuova catena di sangue, le stragi mafiose. Serviva, secondo l’impianto dell’accusa, a distogliere l’attenzione dalle deposizioni dei primi grandi pentiti di mafia ed era stata organizzata, sempre stando alle condanne, da Pippo Calò, il boss di Cosa nostra che viveva a Roma. Ma il mandante, Totò Riina, è stato assolto tre anni fa. Un simile attentato era anomalo per gli usi di Cosa nostra, indicava però un cambio di strategia che si sarebbe dispiegato solo sei anni dopo, con le stragi di Capaci e via D’Amelio e poi con gli attentati dinamitardi di Roma, Firenze e Milano. La strategia della guerra aperta contro lo Stato.

LA VERITÀ SULLA BOMBA. Strage di Bologna, le carte segrete sui palestinesi. I telex dei nostri 007 a Beirut rimasti nascosti per quasi 30 anni. Parlavano di ritorsione palestinese per la rottura del "Lodo Moro", scrive Gian Marco Chiocci il 28 Luglio 2017 su "Il Tempo". È giusto continuare a nascondere ai cittadini quanto accadde nel nostro paese nell’estate del 1980? A distanza di tanti anni, oggi che il regime di Gheddafi si è dissolto nel nulla e molti dei protagonisti politici italiani dell’epoca sono passati ad altra vita, sussistono esigenze di segretezza sul legame che legherebbe il terrorismo palestinese alla strage alla stazione di Bologna? Stando ai documenti del centro-Sismi di Beirut relativi al biennio ‘79-80 custoditi incredibilmente ancora sottochiave al Copasir verrebbe da dire di sì visto che la verità documentale stravolgerebbe completamente - e capovolgerebbe - la verità giudiziaria passata in giudicato. Verità giudiziaria, per quanto riguarda la pista palestinese, archiviata a Bologna dopo l’apertura di un’inchiesta a seguito di notizie rimaste coperte per più di vent’anni. Ma a 37 anni dal mistero dell’esplosione di Bologna escono dunque altre prove, clamorose, sulla «pista palestinese» opportunamente occultata dal nostro Stato e dai nostri servizi segreti per una indicibile ragion di Stato. Pista che si rifà alla ritorsione, più volte minacciata dai terroristi arabi, per la rottura del «Lodo Moro» (l’accordo fra i fedayn e l’Italia a non compiere attentati nel nostro Paese in cambio del transito indisturbato delle armi dei terroristi). Roba da far tremare i polsi. Seguiteci con attenzione e annotate i continui riferimenti alla città di Bologna. Tutto ha inizio nel novembre 1979 quando i carabinieri, a Ortona, in Abruzzo, sequestrano alcuni missili terra-aria «Strela» di fabbricazione sovietica. I militari arrestano i tre esponenti dell’autonomia operaia romana che quei razzi custodiscono all’interno dell’auto. Seguendo la traccia dei missili i magistrati abruzzesi arrestano a Bologna Abu Anzeh Saleh, rappresentante in Italia dell’organizzazione terroristica Fplp (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina). Questo Saleh viene «individuato» e descritto già nella commissione Mitrokhin che indagava sulle spie del Kgb in Italia. Saleh risulta essere il dirigente della rete logistica palestinese in Italia. In alcune interviste Saleh ha confermato il suo ruolo rivoluzionario negando qualsiasi ruolo dei palestinesi con la strage di Bologna (lo stesso ha fatto, lo scorso 26 giugno, in commissione Moro Nassam Abu Sharif, già braccio destro di Arafat, ricordando che Saleh fu la persona contattata dai Servizi italiani il giorno dopo il sequestro Moro per chiedere che l’Olp mediasse con le Brigate Rosse per ottenere la liberazione del leader democristiano). Insomma, un personaggio cruciale, nevralgico, questo Saleh. Sconosciuti sono i risvolti internazionali della vicenda raccontata nei documenti ancora top secret in parlamento che Il Tempo è oggi in grado di rivelare. Il palestinese Saleh era persona protetta dal Sismi in ottemperanza all’accordo segreto di cui sopra. Con le manette dei carabinieri all’arabo residente a Bologna, l’accordo segreto fra Italia e Palestinesi, il cosiddetto «lodo Moro» era da considerarsi violato. A parte il governo in carica e l’intelligence a Beirut nessuno poteva immaginare che quell’arresto a Ortona rappresentava l’inizio della fine. Dietro il transito di quei missili c’era Gheddafi, il partner intoccabile della disastrata economia italiana che proprio in quel periodo aveva stretto una pericolosa alleanza con l’Urss. In ossequio alla ragion di Stato e all’accordo, il ruolo della Libia nella vicenda fu tenuto accuratamente nascosto, così come non venne mai identificato il giovane extraparlamentare di Bologna che aveva accompagnato il palestinese Saleh a Ortona nelle ore successive al sequestro delle armi. Perché quel ragazzo bolognese scomparve nel nulla? E perché i fatti occultati riguardavano e riguarderanno anche in seguito sempre Bologna? Il Sismi diretto dal generale Santovito sapeva bene che, dopo l’arresto di Saleh, i vertici dell’Fplp chiesero a un loro militante di restare in Emilia per mantenere i contatti con un terrorista del famigerato gruppo Carlos, dal nome del super terrorista venezuelano che intorno a se aveva raggruppato la crema criminale del terrorismo arabo marxista-leninista. Chi era il basista in Emilia di Carlos “lo Sciacallo” e perché non è stato mai localizzato il suo covo? I vertici palestinesi – stando ai telex top secret del novembre 1979 - temevano che, a distanza di un anno dall’omicidio Moro, potesse emergere la prova delle collusioni dell’ala oltranzista dell’Olp con il terrorismo italiano. La dirigenza dell’Fplp era spaccata. La parte vicina ai paesi arabi filosovietici (Siria e Libia), indispettita dal voltafaccia italiano, respinse l’invito alla prudenza dell’ala «moderata» e più violenta e reclamò un’azione punitiva. Poco prima del Natale 1979, esattamente il 18 dicembre, l’Fplp minacciò una rappresaglia contro il nostro paese. Le nostre «antenne» del Sismi a Beirut, legatissime al Fplp come peraltro confermato lo scorso 2 luglio alla Stampa dall’allora responsabile dell’informazione Abu Sharif («io personalmente siglai l’accordo con l’Italia attraverso il colonnello del Sismi Giovannone a Beirut») lanciarono drammatici Sos. Nelle carte si fa cenno a un interlocutore del Fplp (...) che minacciava durissime rappresaglie qualora finisse per essere formalizzato il rifiuto dell’Italia all’impegno preso con il Lodo. Saleh in cella è il prezzo dello strappo letale, Roma è disposta a pagarlo? Stando sempre alle corte riservate lo 007 Giovannone, o chi per lui, da Beirut insiste a non giocare col fuoco. Da gennaio a marzo le minacce salgono di livello. Arriviamo al 14 aprile 1980. Habbash, leader del Fplp, spiffera agli agenti segreti italiani che l’ala moderata del Fronte fa sempre più fatica a frenare lo spirito di vendetta contro Roma che alligna nell’anima più irriducibile del suo gruppo. Anche l’idea di rivolgersi ad Arafat cade nel vuoto perché non sarebbe in grado – così riportano le note coperte dal sigillo del segreto– di prevenire un attentato affidato a «elementi estranei al Fplp», comunque coperti da una «etichetta sconosciuta». Ma chi sono questi «estranei»? Quale sarebbe questa sigla non conosciuta? I servizi italiani lo fanno capire di lì a poco allorché annotano la presenza del ricercatissimo «Carlos lo Sciacallo» proprio a Beirut accostandola alla possibilità che proprio a Lui e al suo gruppo internazionale venga affidato l’attentato in Italia. Dunque i documenti tuttora segreti riscontrerebbero le dichiarazioni rese anni e anni fa al giudice Mastelloni da tale Silvio Di Napoli, all’epoca dirigente del Sismi preposto alla ricezione die messaggi cifrati provenienti dal centro Sismi di Beirut. Quando il capo degli 007 a Beirut, Giovannone, informa il direttore Santovito che il Fplp, preso atto della condanna di Saleh, ha subito contattato Carlos, in Italia scatta l’allarme rosso. I servizi tricolori di Beirut ribadiscono ancora come la sanguinaria ritorsione può essere compiuta da «elementi non palestinesi» o «probabilmente europei» per non creare problemi al lavorio politico-diplomatico per l’imminente riconoscimento della casa madre della causa palestinese: l’Olp di Araf. Sono giorni gonfi di tensione. A metà maggio scade l’ultimatum del Fronte. Il Sismi scrive al comando di Forte Braschi che la dirigenza del Fplp è pronta, dopo 7 anni di non belligeranza, a riprendere le ostilità contro il Paese non più amico, contro i suoi cittadini, contro gli interessi italiani nel mondo «con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti». La fonte del colonnello Giovannone confessa che è la Libia, ormai sponsor principale del Fplp, a premere. L’Italia, col sottosegretario Mazzola, è in bambola. Prende tempo con vane e finte promesse su Saleh. In un documento dove si ribadisce il ruolo istigatore di siriani e libici, la ritorsione del Fplp viene data per certa ed imminente. E’ l’inizio della fine. Il Sismi in Libano scrive che non si può più fare affidamento sulla sospensione delle azioni terroristiche in Italia decisa nel ‘73. Secondo i documenti ancora coperti dal segreto, insomma, la nostra intelligence fa sapere della decisione del Fplp di vendicarsi a seguito del mancato accoglimento del sollecito per lo spostamento del processo di Saleh. Mancano due mesi alla strage alla stazione di Bologna. Luglio passa veloce, i contatti dei nostri servizi col Fplp si fanno via via più radi. Non c’è più feeling.Ogni canale viene interrotto. E’ il silenzio. Spettrale. Inquietante. Prolungato. Sino alla mattina del 2 agosto quando una bomba devasta la sala d’aspetto della stazione di Bologna: 80 morti, 200 feriti. La più grave strage dal dopoguerra. E’ stato Carlos? Sono stati i palestinesi? Tantissimi indizi portano a pensarlo ma nessuno di questi vedrà mai la luce per oltre trent’anni, i magistrati mai verranno messi a conoscenza di questi clamorosi carteggi all’indomani dello scoppio nelal sala d’aspetto di Bologna. Fatto sta, per tornare a quel 1980, che l’estate successiva alla strage Saleh tornerà libero su decisione della Cassazione dopo le ennesime pressioni del Sismi sui magistrati abruzzesi. E non sembra poi un caso se fu proprio il capo dei servizi segreti dell’Olp, a cui gli oltranzisti del Fplp erano affiliati, a organizzare con l’avallo del Sismi uno scientifico depistaggio sulla strage di Bologna, e non è ovviamente un caso se la base del depistaggio fu proprio Beirut. Ma chi e come si prestò a sviare le indagini? La memoria giudiziaria ci riporta a Rita Porena, giornalista free lance, in seguito identificata come anica personale del capocentro Sismi a Beirut, collaboratrice remunerata, che riuscì a intervistare proprio a Beiurut un leader dell’Olp il quale, poco dopo la strage di Bologna, disse che noi loro campi di addestramento (frequentati assiduamente da brigatisti rossi) erano stati individuati ed espulsi dei neofascisti che progettavano e organizzavano un gravissimo attentato in Italia. Fu quella di Beirut la prima «rivelazione» (falsa) sulla pista neofascista, pista orchestrata da quello Stefano Giovannone da tutti considerato, anche con una certa ammirazione, il migliore e più fedele custode del Lodo Moro anche dopo la morte del politico che diede il nome al lodo segreto. Mettetela come vi pare ma l’escalation delle minacce e degli ultimatum sovrapposti alla coincidenza temporale della strage di Bologna non danno scampo a una ipotesi alternativa, che invece – all’epoca - diventa l’unica da seguire: perché la strage - si è detto per anni - è per sua natura fascista. «Fascista» senza alcuna prova, indizio, risconto. Dunque, senza alcun plausibile motivo (o forse i motivi erano ben chiari a chi non voleva rendere noto il risultato prodotto da un accordo che ci avrebbe delegittimato per sempre come Paese sponsor dei terroristi nemici di Israele che insanguinavano l’Europa) le indagini vengono indirizzate sugli ambienti neofascisti. Nessuna spia, a poche ore dalla bomba e nemmeno nelle settimane e nei mesi (e negli anni) a venire, si prenderà la briga di avvisare mai i magistrati di Bologna delle minacce palestinesi, dell’ingiustificata presenza a Bologna del gruppio Carlos, del ruolo delicatissimo di Saleh. Sulla scia dell’Olp anche il Sismi si attiverà per depistare l’inchiesta. Lo farà in mille modi, usando personaggi e storie diverse. Ma i documenti tuttora inaccessibili del Sismi, di cui Il Tempo ha scoperto l’esistenza, rivelano lo scenario di crisi conosciuto dalle nostre autorità e taciuto ai magistrati, e oggi consentono una lettura del depistaggio molto più grave e realistica anche perché solo dopo 20 anni, e per un caso fortuito (attraverso la ricerca dei consulenti della Mitrokhin) si è scoperta la presenza (sempre nascosta) a Bologna, il giorno della strage, di un certo Thomas Kram, che i servizi della Stasi, gli 007 della Germania Est, indicavano come membro del già citato gruppo terroristico di Carlo lo Sciacallo. Per la cronaca Kram era entrato nell’inchiesta sulla «pista palestinese», poi archiviata a Bologna nel 2015. Oggi gli unici che si ostinano a negare l’importanza di quelle carte sembrerebbero quelli strenuamente contrari alla loro divulgazione. Curioso paradosso. Ma ai giudici bolognesi non può essere opposto alcun veto perché le indagini per il reato di strage non lo consentono. Basterebbe una semplice richiesta al Copasir per illuminare a giorno il buio della strage del 2 agosto. Il buon senso porta ad augurarsi che sia la procura di Bologna a chiedere di sua iniziativa il carteggio esplosivo. La politica, per una volta, raddrizzi la schiena e non speculi per interesse. Lo deve agli 80 morti e ai familiari delle vittime che vogliono davvero la verità. Molti, già da 37 anni, con il loro silenzio si sono fatti compici degli assassini. Molti altri si sono messi a posto la coscienza sostenendo di non saperne abbastanza. Ora Il Tempo gli sta fornendo i necessari riscontri necessari. D’ora in poi, chi non agisce, è complice.

Libri. “I segreti di Bologna”: perché sulla strage la verità è ancora lontana, scrive il 2 agosto 2018 Francesco Filipazzi su Barbadillo. In occasione del 2 agosto, ogni anno vengono riaperte vecchie ferite e proposte nuove letture di quella che è stata la strage più grave del dopoguerra italiano, la Strage di Bologna. La verità giudiziaria, fra depistaggi, silenzi e manomissioni, è notevolmente carente e nel corso degli anni la sentenza finale, che condanna i terroristi neofascisti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, è stata messa più volte in discussione, sotto molti aspetti. Un paio d’anni fa fece invece scalpore un libro, scritto dal magistrato in pensione, Rosario Priore, insieme a Valerio Cutonilli, dal titolo “I segreti di Bologna”. Il filo conduttore del volume, ampiamente contestato dall’associazione dei Famigliari delle Vittime e da molta parte della stampa, tanto che qualcuno arrivò ad ipotizzare una denuncia per il reato di depistaggio, è legato all’ipotesi della “pista palestinese”. Questo filone di indagine non è stato molto battuto dalla magistratura bolognese, ma al contrario rinverdito negli anni da inchieste parlamentari, da Francesco Cossiga, ai tempi presidente del Consiglio e dagli interrogatori del terrorista Carlos, legato al gruppo palestinese Fplp e ai servizi segreti della Germania est. Il volume in sé è molto interessante e ha il pregio di non proporre una soluzione incontestabile al mistero di Bologna. Anzi, riguardo all’esplosione del 2 agosto, vengono valutate tutte le ipotesi ma non viene mai sentenziato che la strage è necessariamente di matrice palestinese. Semplicemente viene presentata una serie di fatti, verificati, che hanno preceduto l’attentato. Ciò che del libro appare estremamente interessante, a parere nostro, è in realtà tutta la ricostruzione dei rapporti intercorsi negli anni ’70 fra servizi italiani, gruppi palestinesi, mondo arabo, Libia, Brigate Rosse e altri gruppi della sinistra extraparlamentare. In sostanza gli autori spiegano in modo piuttosto dettagliato, avvalendosi di informative dei servizi e documenti giudiziari, la ragnatela di rapporti e contatti che hanno animato alcuni capitoli fra i più importanti della Guerra Fredda. Una guerra in gran parte segreta, di cui ancora oggi non sappiamo tutto. La narrazione dei fatti parte dal caso dei “missili di Ortona”. La notte fra il 7 e l’8 novembre 1979 dei militanti di Autonomia Operaia vengono fermati dalle Forze dell’Ordine italiane mentre trasportano dei missili Strela, di fabbricazione sovietica. La situazione è poco chiara ed iniziano le indagini, che portano all’arresto di un militante palestinese, a Bologna. Quella che sembrerebbe una normale azione di polizia diventa però una crisi internazionale. I missili infatti sono del Fplp, un gruppo piuttosto importante nel terrorismo internazionale legato alla causa palestinese, che infatti nei mesi successivi ne rivendica la proprietà e ne chiede la restituzione, in base agli accordi presi fra l’organizzazione e l’Italia. Ma quali accordi? Qui esplode il bubbone. L’atlantista Italia, per evitare attentati e ritorsioni, avrebbe infatti intrattenuto rapporti e preso accordi con i terroristi palestinesi (all’epoca peraltro non integralisti islamici ma di ispirazione piuttosto socialista e marxista) per far sì che questi potessero transitare in Italia senza problemi, trasportando anche armi e munizioni. L’accordo è noto con il nome di Lodo Moro. Nel libro vengono quindi ricostruiti tutti i retroscena, presentati attori e circostanze dello stesso. L’affaire Ortona dunque sarebbe stata una rottura dell’accordo stesso da parte dell’Italia, per volere di Cossiga. Il Fplp iniziò quindi a minacciare ritorsioni. In questo clima di tensione, con i servizi in allerta per il pericolo di un attentato dinamitardo, arriva il 2 agosto con relativa strage. Certo, la strage per ipotesi potrebbe essere attribuita senza troppi problemi al Fplp, o al massimo al gruppo del terrorista Carlos, noto bombarolo legato sia al Fplp che ai servizi della Germania Est. Il libro però non manca di mettere in dubbio questa ricostruzione sotto il profilo della volontarietà dell’azione. L’esplosione sarebbe da attribuire ad un passaggio di armi destinate ai gruppi terroristici che ruotano attorno all’Olp, ma un errore umano avrebbe provocato la detonazione. Questa pare di capire, è la versione più accreditata secondo gli autori, i quali però, come già detto, non danno una risposta definitiva. In generale il volume è un tentativo di spiegare le dinamiche, talvolta perverse, che hanno mosso la politica internazionale dell’Italia negli anni ’70. Una politica fatta talvolta di doppiezze ed equilibrismi, che se studiata in modo corretto aiuta a capire anche gli sviluppi successivi della geopolitica mediterranea. Riguardo la strage, certamente vengono aggiunti elementi interessanti al quadro globale nel quale avvenne, ma la ricerca della verità completa è ancora piuttosto lunga ed ardua. Va inoltre sottolineato che la “pista palestinese” proprio di recente è stata esclusa dal nuovo capitolo processuale aperto di recente, riguardante il ruolo di Gilberto Cavallini.

Strage di Bologna, ecco (tutte) le fake news dell’Espresso, scrive Massimiliano Mazzanti lunedì 30 luglio 2018 su "Il Secolo D’Italia". Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo: Caro direttore, purtroppo, un quotidiano non gode dello stesso statuto comunicativo di una trasmissione satirica televisiva e, per tanto, non è lecito in alcun modo lasciarsi andare al turpiloquio che, nel caso delle “rivelazioni” sui rapporti Gelli-Servizi deviati-Nar-Cavallini dell’Espresso di domenica sarebbe l’unico linguaggio adatto per ribattere adeguatamente alle fake news propalate ai lettori di quel giornale. Tre, sostanzialmente, le tesi lanciate dal settimanale e riprese – inopinatamente senza commenti o analisi – da diversi quotidiani, tra i quali quelli con la cronaca di Bologna: Cavallini era in possesso di un “pass” speciale per accedere agli arsenali segreti di “Gladio”; i “servizi segreti” aiutarono Valerio Fioravanti ad accedere al corso Auc dell’Esercito; i “servizi” aiutarono in ogni modo i Nar, occultando la matrice fascista della strage di Bologna.

Il “pass” di Cavallini. Dopo l’arresto, nel corso della perquisizione, la Polizia ritrovò a Cavallini, tra una miriade di altre cose, una banconota strappata da mille lire e ne repertò il ritrovamento. Per anni quel pezzo di carta non ha significato nulla, mentre oggi, su segnalazione dell’Associazione familiari delle vittime, quel mezzo foglietto potrebbe essere l’indizio che collega l’imputato nel nuovo processo per la bomba alla stazione niente meno che a “Gladio”. Infatti, tra la vasta documentazione giudiziaria accumulata sulla struttura segreta della Nato, ci sarebbero anche parecchie banconote spezzate da mille lire, la cui funzione sarebbe stata quella di certificare l’appartenenza alla “rete” del soggetto che, presentandosi a un arsenale segreto con una metà del biglietto di banca, sarebbe stato identificato tramite la perfetta coincidenza di quella stessa metà con l’altra conservata dai custodi delle armi. Ora, non solo non è certo che gli “armieri” di “Gladio” utilizzassero proprio questo sistema, ma anche quando così fosse stato, nel caso di Cavallini, due circostanze non tornano proprio. In primo luogo, negli anni del terrorismo, la banconota da mille lire era quella con riprodotto il profilo di Giuseppe Verdi e contraddistinta da una sequenza alfa-numerica di tre lettere e sei numeri; ora a Cavallini è stata trovata una banconota con le due cifre finali “63” e, pare, tra le tante che farebbero parte della documentazione “Gladio” ce ne sarebbe anche una con le due cifre finali “63”; curiosamente, però, gli autori dello “scoop” non citano le lettere della seria che sole potrebbero associare la banconota di Cavallini alla serie eventuale di “Gladio”. Non bisogna essere Sherlock Holmes per capire che, se di una cifra di 6 numeri, si prende in considerazione quella formata dagli ultimi due, si riducono a 99 le possibilità di trovare una coincidenza ed è facile che, confrontando una banconota (quella di Cavallini) con tante o tantissime (quelle di “Gladio”) si trovi anche il fatidico “63”. In secondo luogo, proprio quella banconota – e anche l’avventurosa interpretazione che ne hanno dato le parti civili – è da quasi due anni nella disponibilità dei pubblici ministeri che hanno rinviato a giudizio Cavallini, i quali, però, non solo non l’hanno ritenuta utile per il processo in corso, ma la scartarono come prova nelle indagini preliminari del secondo troncone delle nuove investigazioni per la strage – quelle così dette “sui mandanti” -, al termine delle quali chiesero appunto l’archiviazione (non ottenuta perché la Procura generale ha deciso di avocare questa seconda inchiesta). Forse, in questa decisione dei pm di Bologna ha avuto non poco peso un particolare evidentemente sfuggito ai grandi giornalisti de “L’Espresso”: le mezze-banconote repertate nelle inchieste su “Gladio” – inchieste, detto per inciso, che non hanno portato alla luce alcunché di illegale commesso da questa struttura Nato – sono appunto, come si diceva, quelle con Verdi; mentre a Cavallini fu trovato un mezzo biglietto della serie dedicata a Marco Polo ed entrato in circolazione nel 1982. Insomma, per quanto è dato conoscere, la possibilità di collegare Cavallini a “Gladio” sulla base di quella banconota è pari a zero.

Fioravanti ufficiale grazie ai “servizi segreti”. L’altro mirabile “scoop” dell’Espresso è costituito dal fatto che Fioravanti, nel 1977, fu ammesso, durante il servizio di Leva, al Corso Allievi ufficiali, non ostante i reati di cui si sarebbe macchiato prima di partire per il servizio militare. Ora, “Giusva” partì per la Scuola di Cesano nell’aprile del ’77, a 19 anni e, per quanto avesse qualche denuncia alle spalle, non era gravato da alcun precedente passato in giudicato, mentre era pur sempre l’ex-attore di successo di un noto sceneggiato televisivo. È tanto difficile pensare che qualcuno – un maresciallo “fan” dei <Benvenuti>, un ufficiale “amico di famiglia” e non necessariamente i “servizi segreti” – abbia “spinto” un po’ la richiesta del ragazzo di fare la Leva in una condizione migliore rispetto a quella ordinaria? Per altro, a volerla ragionare tutta, questa vicenda, andrebbe rilevato un altro particolare, che balza agli occhi, leggendo lo “scoop” de “L’Espresso”, quando su questa materia viene richiamato il sodalizio di Fioravanti e Alessandro Alibrandi. Nel 1977 la Sinistra parlamentare ed eversiva – con un particolare ardore da parte di Lotta continua – sollevò una interminabile e vastissima polemica contro Antonio Alibrandi, padre di Alessandro e magistrato in quel di Roma, per il così detto “Processo degli 89”, coi quali il giudice tentò di mettere un freno a un tentativo di inquinamento delle Forze armate da parte dei movimenti eversivi “rossi”. Ad Alibrandi padre fu riservato – da parte di Lotta continua e non solo, anche da parte del Pci – esattamente lo stesso trattamento usato con Luigi Calabresi e che portò, come si ricorderà, all’assassinio del commissario di Polizia per mano degli stessi capi di Lc. Ciò non solo può spiegare, in relazione ai Nar, almeno parte dell’involuzione radicale del figlio Alessandro – pur sempre un ragazzo che vede il padre aggredito sguaiatamente dal “sistema” di cui faceva parte e che avrebbe dovuto tutelarlo -; ma, in relazione ai fatto oggi contestati a Fioravanti, il “Processo agli 89” testimonia semmai del clima di pesante timore di essere infiltrato da forze ostili – queste sì, innegabilmente, finanziate e addestrate da una potenza straniera, l’Urss, dalle Br al Pci, come ha dimostrato Valerio Riva – in cui operava l’Esercito. E che in questo “clima” si soprassedesse sui “nei” dei ragazzi di destra arruolati nella Leva è a dir poco scontato e tutt’altro che significativo.

L’asse Servizi deviati-Nar. Infine, a pochi giorni dalla celebrazione del 2 agosto, per quanto scomodo risulti, bisogna rimarcare ancora una volta quanto sia falsa e stucchevole questa vera e propria leggenda dei “servizi deviati” che aiutarono i Nar a occultare le loro responsabilità sulla strage di Bologna. A poche ore dallo scoppio della bomba, esattamente alle 21.30 del 2 agosto, quando ancora inquirenti e investigatori – cioè: forze di polizia e magistrati – non erano neanche sicuri che si fosse trattato di un attentato, il prefetto Italo Ferrante diramò una richiesta di investigazioni in tutta Italia a carico di qualsiasi estremista di destra. Alle 11 del giorno dopo, con un secondo telegramma, lo stesso Ferrante precisò meglio i confini degli accertamenti da fare, citando anche i nomi di Mario Tuti, Luciano Franci e Piero Malentacchi. Ne giorni successivi – non ostante polizia e magistrati brancolassero sostanzialmente nel buio – la “pista nera” prese sempre più corpo: come, se non proprio in base alle “veline” dei servizi segreti, gli unici “titolati” a formulare accuse e ipotesi senza doversi curare troppo delle formalità e degli indizi? Fu questo il depistaggio? Semmai, anche se nessuno sembra volersene ricordare, i “servizi” che cercarono di indirizzare altrove le indagini non furono quelli “deviati” e “nostrani”, bensì quelli francesi, tedeschi, americani e di “mezza Europa” che, come scrissero all’epoca i giornali, si riunirono a Bologna per indagare congiuntamente, sollevando l’irritazione degli inquirenti bolognesi e degli “spioni” italiani. I “servizi”, “deviati” o meno, piaccia o no a Paolo Bolognesi, in quei primi giorni di indagine fecero senz’altro sopra a tutto e solo due cose: nascosero la presenza di Thomas Kram a Bologna la notte tra l’1 e il 2 agosto e intervennero evidentemente sulle redazioni giornalistiche il 5 agosto affinché non si desse alcuna importanza al comunicato dettato all’Ansa – e pubblicato solo dal Giornale d’Italia -, con cui il “Fronte popolare per la Liberazione della Palestina” ammetteva le proprie responsabilità. Curioso, no? I “servizi deviati” ebbero la possibilità – negli istanti fatidici dell’immediato dopo-attentato – di segnalare la presenza a Bologna di un noto terrorista straniero e, qualche giorno dopo, di indicare per loro stessa ammissione i responsabili della strage e, al contrario, per “proteggere” i Nar, indirizzarono le indagini sul “terrorismo nero”. Evidentemente, nella redazione de L’Espresso e pur troppo non solo lì, lo spazio per le comiche non è ancora finito.

STRAGE DI BOLOGNA: I DEPISTAGGI E L’ONESTÀ INTELLETTUALE. Scrive Dimitri Buffa l'1 agosto 2018 su L’Opinione. Prepariamoci, da domani per un’intera giornata si tornerà a parlare di un terribile episodio di 38 anni prima, la strage di Bologna. E si tornerà a parlare dei depistaggi, dei mandanti politici, della Loggia P2. Parole che viaggiano da anni senza alcuna onestà intellettuale. E senza alcuna logica che non sia quella ideologica. Nella città felsinea, inoltre, si prevedono le solite sceneggiate fatte di manifestazioni condite con fischi alle autorità politiche e con declamazioni a effetto. Tutto si vedrà e sentirà, come da 38 anni a questa parte, tranne un qualcuno che – a mo’ di imitatore di quel bambino che esclamò: “il Re è nudo” – si erga e dichiari, una volta per tutte, che di quella strage, al di là di una sentenza passata in giudicato che consegna alla storia tre colpevoli di repertorio, Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e l’allora minorenne Luigi Ciavardini (più un quarto in dirittura d’arrivo, Gilberto Cavallini, protagonista suo malgrado di un ennesimo processo fotocopia fuori tempo massimo), noi non sappiamo nulla. Anzi, non vogliamo saperlo. E che i depistaggi ci furono, eccome se si furono, sebbene tutti ai danni di coloro che poi sarebbero stati condannati, ossia lo stato maggiore degli ex Nar, è cosa certa. Ma le vittime furono proprio quei “ragazzini” – all’epoca – pieni di rabbia esistenziale e di desiderio di vendicarsi contro tutto e tutti e quindi facili a essere incastrati fin da subito nelle manovre di depistaggio del Sismi della P2, come a sinistra amano tuttora chiamarlo. E a parte la storia arcinota del finto ritrovamento, il 13 gennaio del 1981, sul treno Taranto-Milano di armi ed esplosivo analogo a quello usato a Bologna, ci furono anche due vere e proprie esecuzioni ai danni di esponenti dell’estrema destra (più un tragico caso di scambio di persona in un ulteriore episodio) che nel piano di depistaggio ordito dal Sismi – preoccupatissimo che venisse fuori il cosiddetto Lodo Moro a favore dei terroristi palestinesi e arabi in Italia o le manovre di Gheddafi nel Mediterraneo – dovevano da morti essere incolpati della strage. Il primo fatto risale al 6 gennaio del 1981. Alcuni uomini della Digos stanno appostati vicino all’abitazione dell’ex militante Nar, Pierluigi Bragaglia – a via Vallombrosa, a Roma in zona Cortina d’Ampezzo – che possiede una Renault 5 rossa. Poche ore prima era stato ucciso Luca Pierucci, militante di quello stesso gruppo armato, perché considerato un delatore. Arriva una Renault 5 dello stesso modello e colore di quella di Bragaglia – oggi rifugiato riconosciuto come tale in Brasile proprio come l’ex leader dei proletari armati per il comunismo Cesare Battisti – gli uomini della Digos aprono il fuoco ma uccidono la ventottenne Laura Rendina che stava sul sedile posteriore. In macchina c’erano due coppie appena tornate dal ristorante. Nessuna traccia di Bragaglia. La caccia ai Nar – con ogni mezzo e con ogni modalità – era cominciata ufficialmente all’inizio di settembre del 1980 quando vennero spiccati i mandati di cattura ai danni di tutti loro proprio per la strage di Bologna. La manovra orchestrata dal depistaggio del Sismi era di far uccidere tutti quelli possibili per poi incolparli da morti. Manovra che se non era riuscita con Bragaglia, e a rimetterci la vita fu una povera donna innocente, andò in qualche maniera “meglio” con Pierluigi Pagliai e con Giorgio Vale. Pagliai, localizzato in Bolivia dal Sismi il 5 ottobre 1982, era un militante neofascista della vecchia guardia. Riparato in Sudamerica come tanti suoi camerati. Cinque giorni dopo viene ucciso da una calibro 22 con le mani alzate davanti alla chiesa “Nuestra Señora de Fátima” di Santa Cruz de la Sierra. Tornerà cadavere in Italia sullo stesso Dc9 dell’Alitalia che aveva portato il commando. Il 5 maggio di quello stesso terribile anno, il 1982, Giorgio Vale, un ventenne di Terza posizione, veniva crivellato di colpi a Roma nella casa “covo” di via Decio Mure 43 al Quadraro. Naturalmente alla stampa parlarono prima di “suicidio” e poi di conflitto a fuoco, ma ben presto venne fuori che Vale non aveva sparato neanche un colpo mentre chi aveva fatto irruzione ne aveva esplosi quasi un centinaio, uno solo dei quali mortale, alla tempia dello stesso giovane terrorista. La strage che “doveva essere fascista” per ordine dei servizi segreti militari che dovevano coprire il Lodo Moro e i patti coi gruppi armati terroristi palestinesi in Italia (che qualche giorno dopo l’esecuzione di Pagliai, il 9 ottobre 1982, avrebbero ucciso un bambino di due anni, Stefano Gaj Taché, davanti alla Sinagoga di Roma) era stata certamente depistata. Ma le vittime del depistaggio erano stati proprio i militanti della destra eversiva.

Strage di Bologna, i giudici escludono Carlos dai testi: la “pista palestinese” resta fuori dal processo a Cavallini. Secondo la Corte d'Assise, l’indagine bis archiviata nel 2015 è stata esaustiva e non ha trascurato nulla. No anche alla deposizione dell’ex senatore Carlo Giovanardi. Ammessi invece Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, le tre persone condannate in via definitiva che tutte le parti hanno chiesto di ascoltare, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 4 aprile 2018. Niente “pista palestinese” nell’ultimo processo sulla strage di Bologna. Lo hanno deciso i giudici della corte d’Assise del capoluogo emiliano, escludendo i testimoni indicati dalla difesa di Gilberto Cavallini, l’ex Nar accusato a 38 anni di distanza di concorso nella strage del 2 agosto 1980. Per sostenere l’ipotesi alternativa della verità giudiziaria, i legali dell’ex estremista nero volevano ascoltare alcuni testimoni: tra tutti anche Ilich Ramirez Sanchez alias ‘Carlos‘, il terrorista detenuto in Francia. Secondo la Corte, l’indagine bis archiviata nel 2015 è stata esaustiva e non ha trascurato nulla. No anche alla deposizione dell’ex senatore Carlo Giovanardi. Ammessi invece Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, le tre persone condannate in via definitiva che tutte le parti hanno chiesto di ascoltare. L’ipotesi dell’accusa – il pool di pm è coordinato dal procuratore capo Giuseppe Amato – è che Cavallini abbia partecipato alla preparazione della strage, fornendo ai condannati supporto e covi in Veneto. L’ex Nar, oggi sessantacinquenne, sconta il massimo della pena per alcuni omicidi politici, tra cui quello del giudice Mario Amato, poche settimane prima della strage di Bologna. Fu l’ultimo della banda di terroristi a essere catturato, a Milano, nel settembre 1983 e fu condannato per banda armata nello stesso processo che portò all’ergastolo Mambro e Fioravanti, mentre Ciavardini, minorenne nel 1980, ebbe una condanna a 30 anni. La rilettura delle migliaia di pagine di atti processuali definisce secondo l’accusa un ruolo più preciso di Cavallini nella preparazione della bomba nella sala d’aspetto di seconda classe che devastò un’ala dello scalo bolognese. Al processo deporrà anche a Carlo Maria Maggi, ex leader di Ordine Nuovo, mentre non è stat ammessa la deposizione di Roberto Fiore, il leader di Forza Nuova indicato dalle parti civili. Non è stata ammessa neanche la testimonianza dei feriti o dei parenti delle vittime, perché, in sostanza, l’oggetto delle loro testimonianze è agli atti. Intanto prosegue il percorso dell’inchiesta della Procura generale sui mandanti dopo l’avocazione del fascicolo con l’avvio di una rogatoria in Svizzera. per verificare gli eventuali movimenti per diversi milioni di dollari che, prima dell’eccidio, sarebbero partiti da un conto bancario elvetico aperto riconducibile al maestro venerabile della Loggia P2 Licio Gelli.

Chi ha compiuto la strage di Bologna? Scontro in Aula. Frassinetti (FdI) nega la matrice neofascista: il centrosinistra insorge, ma tanti studiosi seguono piste alternative, scrive il 2 agosto 2018 "In Terris". La Camera dei Deputati si è trasformata stamattina in qualcosa di simile a un saloon del far west. Ad accendere la miccia dello scontro, dopo il minuto di silenzio per ricordare le vittime della strage di Bologna, l'intervento della deputata Paola Frassinetti (FdI), la quale si è fatta interprete di un sentimento diffuso presso molti storici, giornalisti e gente comune, ossia che la matrice neofascista dell'attentato sia per nulla scontata, nonostante le sentenze passate in giudicato. Secondo l'onorevole, “la verità non s’è ancora affermata. I veri colpevoli non sono stati ancora condannati. Bisognerebbe avere il coraggio di dire che i giudici a Bologna sono sempre stati prigionieri di logiche idelogiche-giudiziarie con lo scopo non di ricercare la verità ma di riuscire, a tutti i costi, ad arrivare alla conclusione che la matrice fosse nera per ragione di Stato”. E ancora ha proseguito la deputata di FdI: "Bisognerebbe avere lo stesso coraggio del presidente Cossiga quando nel 1991 ebbe l'onestà di ammettere che si era sbagliato e che la strage non era addebitabile ad ambienti di estrema destra chiedendo anche scusa".

I tumulti in Aula. Dai banchi di Pd e Leu le parole sono apparse come un'eresia. Fin da subito molti deputati hanno reagito con urla e strepiti. Ha preso la parola Pier Luigi Bersani, ex segretario del Pd e oggi deputato Leu, il quale ha ricordato che le stragi non riuscirono a privare l'Italia della democrazia. “Attorno a noi c’erano solo bombe – ha concluso tra gli applausi del centrosinistra – ma quegli attentati non riuscirono a portarci dove volevano”. L'intervento di Bersani ha però accentuato lo scontro. Giovanni Donzelli (FdI) ha fatto un accorato discorso rivolto al deputato di Leu. “Se qualcuno pensa che c’è una forza democraticamente eletta che ha causato le stragi deve dirlo, sarebbe come se io accusassi la forza politica di Bersani di aver rapito Moro”, ha attaccato Donzelli, scatenando ulteriori polemiche. Sulla vicenda, intervistato dall'Ansa, ha detto la sua anche Paolo Bolognesi, presidente dell'Associazione dei familiari delle vittime della Strage di Bologna: "La loro fortuna è di essere deputati, perché altrimenti sarebbero denunciati per depistaggio. L'immunità di parlamentari li salva dall'accusa".

I dubbi sulla matrice neofascista. Il tema della matrice della strage di Bologna tiene banco da trentotto anni, quanti sono passati dall'esplosione alla stazione. Nel corso del tempo si è diffusa l'idea che esista su quell'evento una verità storica diversa da quella processuale, anche da persone di sinistra. Tra queste Rossana Rossanda, cofondatrice de Il Manifesto, che in un'intervista del 2008 al Corriere della Sera affermò: "Ci sono molti conti che non tornano", disse, chiedendosi quale – a differenza di quella di Piazza Fontana dove "il quadro neofascista è plausibile" - sia la logica politica della strage. Una pista seguita da storici e giuristi è quella palestinese, cui ha accennato anche la Frassinetti nel suo intervento di oggi alla Camera sottolineando che "il nuovo processo iniziato a Bologna in Corte di Assise a marzo è un'altra occasione perduta" perché "invece di approfondire la pista che porta a verificare l'ipotesi dell'esistenza di una ritorsione del terrorismo palestinese...". Ne parlò un anno fa in un'intervista ad In Terris l'avvocato romano Valerio Cutonilli, che scrisse insieme al giudice Rosario Priore Strage all’Italiana (ed. Trecento) e I segreti di Bologna (ed. Chiarelettere).

2 agosto, l’alfabeto della strage di Bologna. Angela e Zangheri, il bus, Cavallini, l’orologio e i misteri: non basta un vocabolario per l’orrore e i segreti, scrive Gianluca Rotondi il 2 agosto 2018 su "Il Corriere della Sera".

Angela Fresu. La vittima più giovane del massacro. Aveva appena tre anni quel 2 Agosto 1980. Era con la madre Maria, 24 anni, emigrata dalla provincia di Sassari e impiegata in una fabbrica di confezioni a Empoli. Stava andando con due amiche e la figlioletta in vacanza al Lago di Garda. Erano insieme nella sala d’aspetto della stazione quando la deflagrazione le spazzò via. Si salvò solo una delle amiche. Al nome di Maria Fresu è legata un’anomalia che ha alimentato teorie, complotti e sospetti. Del corpo della ventiquattrenne non fu trovata traccia, se non, a distanza di tempo, un lembo di pelle. Come se si fosse disintegrata, ipotesi ritenuta assai improbabile da alcuni esperti.

Bene Carmelo. Le parole dell’indimenticato attore e drammaturgo risuonarono dalla torre Asinelli la sera del 31 agosto del 1981, nel primo anniversario della strage, quando davanti a migliaia di bolognesi declamò alcune letture della Divina Commedia. Dedicò quell’interpretazione struggente non alle vittime del massacro, ma ai tantissimi feriti che riuscirono a sopravvivere. L’evento fu accompagnato da polemiche e divisioni, anche in Rai, che ne impedirono la trasmissione. L’amministrazione comunale volle invece fortemente rispondere al terrorismo con la cultura.

Cavallini. L’ultimo dei Nar ad arrendersi e a finire a processo, 38 anni dopo l’attentato, con l’accusa di aver dato supporto logistico a Mambro e Fioravanti per commettere l’eccidio. Secondo la Procura fornì covi e mezzi in Veneto, lui 65 anni, sepolto dagli ergastoli ma in semilibertà, sarà interrogato dopo l’estate.

Desecretazione. Insieme ai mandanti del massacro, resta uno dei nodi che hanno segnato questi 38 anni. Nonostante promesse e impegni dei governi, di qualsiasi colore, non si è mai arrivati alla compiuta desecretazione degli atti custoditi negli archivi di Stato. Nemmeno la direttiva Renzi ha scalfito il muro eretto in questi anni, con archivi solo parzialmente aperti e molti altri rimasti inaccessibili insieme ai tanti segreti sulla stagione dell’eversione e sul grumo di poteri che anche negli apparati dello Stato hanno depistato o addirittura favorito le stragi.

Esplosivo. Quello nascosto in una valigetta e usato per compiere la strage è ancora oggi oggetto di analisi. Secondo gli atti giudiziari dei processi celebrati in questi anni, il 2 Agosto ‘80 furono usati 23 chili di esplosivo, circa 5 di una miscela di tritolo e T4 e 18 di nitroglicerina a uso civile. Nel processo in corso contro Gilberto Cavallini, accusato di concorso nella strage, il presidente della Corte d’Assise Michele Leoni ha disposto una nuova perizia sull’esplosivo per via dei dubbi sollevati nell‘appello bis sulla reale composizione dell’ordigno.

Fioravanti e Mambro. Gli ex neofascisti ragazzini dei Nar condannati con sentenza passata in giudicato insieme a Luigi Ciavardini si sono sempre dichiarati innocenti per Bologna mentre hanno confessato decine tra omicidi e rapine commessi con il gruppo armato di estrema destra. Recentemente hanno testimoniato entrambi nel processo all’ex compagno d’armi Cavallini.

Gelli. Il venerabile maestro capo della loggia massonica P2, già condannato per calunnia aggravata dalle finalità di depistaggio sulla strage e scomparso nel 2015, viene ritenuto dall’Associazione dei familiari il grande burattinaio che non sviò solo le indagini ma fu tra i mandanti e finanziatori della strage, il punto di raccordo tra servizi deviati e neofascisti arruolati per destabilizzare il Paese.

Innocentisti. Non sono pochi coloro che hanno a più riprese sostenuto che la verità sul 2 Agosto non sia quella cristallizzata nelle sentenze, peraltro rimaste monche quanto a mandanti e finanziatori. Tra loro figurano intellettuali, scrittori e magistrati che non hanno mai creduto alla verità giudiziaria e anzi hanno invitato a seguire piste alternative, finora rimaste prive di riscontri.

Lo Sciacallo. Ilich Ramirez Sanchez, meglio noto come Carlos, è un terrorista di origine venezuelano condannato in Francia per diversi attentati commessi col suo gruppo Separat. In più occasioni ha sostenuto di avere informazioni preziose sulla strage. Inizialmente accusò Cia e Mossad, poi i servizi segreti americani attraverso Gladio.

Mandanti. Il buco nero del 2 Agosto. La Procura in questi anni ha aperto e archiviato i fascicoli nati dagli esposti dei familiari per arrivare ai mandanti che ordinarono la strage. Di recente la Procura generale ha avocato a sé l’inchiesta che ora punta dritto su coloro che avrebbero finanziato i terroristi neri. L’inchiesta ruota attorno al documento intitolato «Bologna– 525779 – X.S.» e relativo a un conto aperto da Licio Gelli alla Ubs di Ginevra, proveniente dal fascicolo del processo per il crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Per l’Associazione da quel conto sarebbero usciti milioni di dollari serviti a finanziare il massacro.

Neofascisti. Tra le ipotesi oggetto della nuova inchiesta, anche il finanziamento da parte della massoneria in favore di elementi dell’estremismo nero veneto, per esempio alla galassia di Ordine Nuovo di Carlo Maria Maggi, condannato in via definitiva per la strage di piazza della Loggia, a Brescia.

Orologio. Fermo alle 10,25, è uno dei simboli della strage alla stazione insieme all’autobus 37. Tornò in funzione dopo l’esplosione ma successivamente fu di nuovo bloccato, un fermo-immagine, ora eterno, per ricordare per sempre l’ora esatta della strage e coltivare la memoria.

Pista palestinese. È la pista alternativa(archiviata)alla verità codificata dai processi uscita dalla commissione Mitrokhin. Una strada sulla quale si è a lungo indagato senza successo e che vedeva nella rottura del Lodo Moro, l’immunità per l’Italia dagli attentati e il libero passaggio dei terroristi mediorentali nel Paese, la ragione del massacro a Bologna.

Quadro. Quindici giorni dopo la strage, l’Espresso pubblicò in copertina un quadro a cui Renato Guttuso diede lo stesso titolo che Francisco Goya aveva scelto per uno dei suoi 16 Capricci: «Il sonno della ragione genera mostri». Guttuso aggiunse solo la data del 2 Agosto 1980.

Risarcimenti. Li chiedono ininterrottamente da anni i familiari delle vittime e dei feriti. Alcune promesse sono state mantenute ma non tutte. Restano i vuoti sugli indennizzi e le pensioni.

Servizi. La mano degli apparati deviati dello Stato, dei gruppi di potere occulto che insieme a massoneria ed eversione nera avrebbero commissionato e depistato le indagini. È questo secondo i familiari delle vittime l’ultimo tassello per comporre il puzzle di quella stagione di terrore.

Trentasette. L’autobus divenuto il simbolo del massacro. Un bus di linea che dopo l’esplosione venne utilizzato per trasportare i cadaveri all’obitorio e permettere alle ambulanze di assistere i feriti. Quest’anno torna in moto per la prima volta e accompagnerà il corteo fino alla stazione.

Ustica. La tragedia del Dc 9 è stata più volte accostata alla strage, come se ci fosse un legame tra i due eventi e una unica matrice, quella libico-palestinese dietro i due attentati. Ma l’ipotesi emersa secondo alcuni dalla commissione Moro e che si fonderebbe su un patto, violato dall’Italia con i fedayn arabi, non ha mai trovato riscontri.

Vittime. Bambini, studenti, intere famiglie, pensionati, vacanzieri e lavoratori. Ottantacinque morti e più di duecento feriti che ancora chiedono verità e giustizia. I loro parenti sono di nuovo tornati in Tribunale a distanza di 38 anni nel processo a carico di Cavallini.

Zangheri. I compagno professore, il sindaco della strage, infonde coraggio alla città ferita a morte e pretende risposte. «Non arretreremo» dice in una piazza Maggiore gremita e attonita, con a fianco il presidente della Repubblica Pertini.

Le voci della strage. Stazione di Bologna. Due giovanissimi cameramen arrivano sul luogo dell'attentato e documentano l'inferno: polvere, sangue, disperazione, rabbia e stupore. Quaranta minuti choccanti nel documentario di History Channel. Online su L'Espresso i minuti iniziali, con le prime registrazioni della sala operativa e il sonoro originale dei soccorritori, scrive Gianluca De Feo il 30 luglio 2007 su "L'Espresso". Erano passati pochi minuti e nessuno riusciva a capire. Perché sembrava incredibile. Il boato era stato sentito in ogni angolo della la città. Poi per pochi secondi il silenzio. Ma le voci che lo avevano seguito parlavano di tanti morti: una decina, forse trenta. Una cifra impensabile: trenta morti alla stazione, nel cuore di Bologna, nei giorni dell'esodo d'agosto. Tutti correvano verso la piazza dilaniata: baristi con il grembiule addosso, cameriere con la divisa di una volta, operai in tuta blu, carabinieri con la cravatta da cerimonia. Per coprire i corpi travolti nel parcheggio dei taxi usavano le tovaglie. E subito l'incredibile diventava vero: i cadaveri erano decine. Alla fine saranno 85. Quella mattina del 2 agosto 1980, pochi minuti dopo le 10.25 nella piazza della Stazione arrivarono anche Enzo Cicco e Giorgio Lolli, meno di quarant'anni in due. Arrivarono di corsa, prima delle ambulanze. Da poche settimane i due ragazzi avevano cominciato a collaborare come cameramen per Punto Radio Tv, storica emittente nata da un'idea di Vasco Rossi e poi acquistata dal Pci. Le loro immagini documentano l'incredibile: la polvere, il sangue, la disperazione, la rabbia. Ma soprattutto lo stupore per quell'attentato così mostruoso che aveva sepolto turisti, pendolari, ferrovieri, baristi, ferrovieri. Perché nessuno anche in quei primi istanti ha mai dubitato sulla matrice della strage: l'odore dell'esplosivo era inconfondibile.

Adesso, 27 anni dopo, History Channel trasmette integralmente i quaranta minuti girati da Cicco e Lolli. "L'Espresso" anticipa i minuti iniziali, con le prime registrazioni della sala operativa e poi il sonoro originale dei soccorritori. Un filmato choccante, che costringe lo spettatore a immergersi tra le rovine e i suoni di quel dramma; tutto sembra uscire da un'atmosfera irreale. Pochi urlano e lo fanno solo per cercare di dare un ordine a quei soccorsi fatti solo di buona volontà; i più sembrano parlare a bassa voce, quasi sussurrare, come se l'enormità della tragedia gli avesse tolto il respiro. C'è chi piange, senza riuscire a fermarsi. E una folla crescente di persone che sente il bisogno di fare qualcosa, affrontando a mani nude quella montagna che ha preso il posto della sala di aspetto inghiottendo 85 vite. Da quella di Angela Fresu, che a ottobre sarebbe andata all'asilo, a quella di Luca Mauri, che forse aveva già comprato la cartella per la prima elementare; da Marina Trolese, di sedici anni che lotterà invano per dieci giorni, a quella di Antonio Montanari, che di anni ne aveva 86 e aveva già visto due guerre prima di venire massacrato da una guerra mai dichiarata.

History Channel ha mandato in onda questo documento alle 10.25, nell'orario esatto dell'esplosione. È un filmato che costringe a entrare nella polvere, obbligando ogni spettatore a fare i conti con la ferita più profonda nella storia della Repubblica: oggi come allora, le immagini tolgono il fiato. E spingono solo a chiedere: perché?

Strage di Bologna, la memoria divisa. I familiari (anche) contro i magistrati. La contestazione annunciata. Gelo con la Procura dopo lo stop all’inchiesta sui mandanti dell’esplosione del 2 agosto 1980 nella sala d’aspetto della stazione che causò 85 morti e duecento feriti, scrive Marco Imarisio il 1 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". L’autobus della linea 37, matricola 4030, tornerà per la prima volta in piazza Medaglie d’oro. Quella mattina divenne un simbolo, della tragedia, dei soccorsi, di una città che cerca di reagire fin da subito. Gli autisti tolsero i montanti e i corrimano per consentire l’ingresso delle barelle, e fissarono delle lenzuola ai finestrini, per impedire la vista dei corpi feriti, mutilati, oltraggiati. Non tornò più in servizio, per rispetto delle vittime. Non è mai stato formalmente dismesso, per rispetto della propria storia. Oggi, 37 anni dopo la strage, uscirà dal capannone di via Bigari, dove è stato conservato e curato come una reliquia laica, e verrà portato davanti alla stazione.

Lo strappo del 2005. Ci sarà il 37, memoria della Bologna che seppe resistere e rimase in piedi, per quanto colpita. Mancherà il resto, la concordia istituzionale, la condivisione del ricordo. Quest’anno come non mai. Succede spesso, il 2 agosto ha talvolta fatto più notizia per la contestazioni che per l’esercizio delle memoria. Nulla, neppure una apparenza di quiete, è stato più come prima dopo il 2005, quando gli abituali fischi contro gli esponenti del governo divennero bordate, lunghe quanto il discorso dell’allora vice primo ministro Giulio Tremonti e capaci di oscurarlo. Da allora non parla più nessuno, o quasi. È stato inventato lo spazio mattutino tra le mura del Comune, per ridare la voce alla politica nazionale, che nel momento più importante, l’unico che davvero conta, il corteo da piazza Nettuno alla stazione, il comizio alle 10.10 del presidente dell’Associazione familiari delle vittime seguito dal minuto di silenzio e dal discorso del sindaco, è sempre stata costretta all’anonimato e al silenzio, accompagnato dal rumore di fondo dei fischi.

L’attacco al governo. Ma questa volta si è passati alle parole. Che spesso sono pietre, per definizione e contenuto. «Il governo si è comportato in maniera assurda e truffaldina nei confronti delle vittime. I suoi rappresentanti in piazza e sul palco non sono graditi. Non li vogliamo accanto a noi». Paolo Bolognesi, il deputato Pd che dal 1996 è il volto dell’Associazione familiari, ci è andato pesante. Il suo canone prevede da sempre dichiarazioni roboanti. Ma per questo 2 agosto ha scelto lo scontro frontale, in polemica con il suo segretario Matteo Renzi, che da presidente del Consiglio promulgò la direttiva per rendere pubbliche le carte sugli anni della strategia della tensione, con il sottosegretario Claudio De Vincenti che lo scorso anno, alla cerimonia «privata» in Comune promise che tutto sarebbe stato risolto entro l’anniversario del 2017. «Invece continuano a fare il gioco delle tre carte. Ancora lo scorso maggio ho chiesto alla presidenza del Consiglio la lista degli iscritti alla Gladio nera. Mi è stato risposto che c’è un problema di privacy. Sembra che la verità interessi solo a noi».

I dubbi sui mandanti. Il bersaglio inedito degli strali di Bolognesi e dell’Associazione è la magistratura. Fino a oggi l’asse tra i familiari e i magistrati aveva retto seppur con difficoltà alle scosse del tempo e al paradosso di un processo per strage chiuso a differenza di molti altri con colpevoli accertati, i terroristi neri Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini, ma che ha lasciato dietro di sé una scia di dubbi e illazioni su chi davvero avesse progettato quella atrocità. La ferita non si rimargina mai, come le feroci discussioni, eufemismo, tra chi inneggia a quella sentenza contro gli allora giovani neofascisti dei Nuclei armati rivoluzionari e chi insiste a dire che è sbagliata, che quei «ragazzini» non c’entrano, e dietro l’esplosione c’è il terrorismo medio-orientale, la Libia o qualche intrigo internazionale. Il gelo con la procura è sceso a marzo, dopo la richiesta di archiviazione dell’inchiesta sui mandanti e l’invio per competenza a Roma del filone che riguarda l’eventuale partecipazione all’attentato dell’ex Nar Gilberto Cavallini. Non si è mai sciolto, anzi.

Il testo del discorso. E qui di parole ne sono bastate poche, tante quante lo slogan scelto per il manifesto della commemorazione di quest’anno: La storia non si archivia, la forza della verità non si può fermare, la giustizia faccia la sua parte. Il messaggio è arrivato forte e chiaro al procuratore capo Giuseppe Amato, che ne ha preso atto. «Non credo che la nostra presenza possa riscuotere un apprezzamento», ha detto, seguito a ruota dal procuratore aggiunto Valter Giovannini, che rappresenta la memoria storica della procura bolognese. «Sono d’accordo con la non partecipazione alla commemorazione in stazione». La mediazione del sindaco Virginio Merola, che invece appoggia le ragioni della protesta contro il governo, ha strappato ai magistrati la promessa di una presenza in Comune, in quella che si presenta come una vera e propria riserva indiana degli ospiti sgraditi. Bolognesi ha fatto un altro strappo non inviando il testo del suo discorso a sindaco e prefetto, come invece accade ogni anno da 37 anni. Si annunciano sorprese. Era quasi meglio quando c’erano i fischi.

Strage di Bologna, l’articolo di Enzo Biagi: «Quante trame di vita su quei binari». Il 2 agosto 1980 una bomba esplose alla stazione di Bologna, nel più grave atto terroristico avvenuto in Italia nel dopoguerra. I morti furono 85. Questo è il pezzo che Enzo Biagi scrisse sul «Corriere della Sera». Ripubblichiamo il testo che Enzo Biagi scrisse il 2 agosto 1980 sulla strage alla stazione di Bologna. "Nell’aria bruciata d’agosto, si è alzata una nuvola di polvere sottile, ha invaso il piazzale, sul quale mi sono affacciato tante volte. Bastava la voce dell’altoparlante, con quegli inconfondibili accenti, per farmi sentire che ero arrivato a casa. Adesso la telecamera scopre l’orologio, con le lancette ferme sui numeri romani: le dieci e venticinque. Un attimo, e molti destini si sono compiuti. Ascolto le frasi che sembrano monotone, ma sono sgomente, di Filippini, il cronista della TV, costretto a raccontare qualcosa che si vede, a spiegare ragioni, motivi che non si sanno: lo conosco da tanti anni, e immagino la sua pena. Dice: «Tra le vittime, c’è il corpo di una bambina». Mi vengono in mente le pagine di una lettura giovanile, un romanzo di Thornton Wilder, «Il ponte di San Louis Rey», c’era una diligenza che passava su un viadotto, e qualcosa cedeva, precipitavano tutti nel fiume, e Wilder immaginava le loro storie, chi erano, che cosa furono. Quell’atrio, quelle pensiline, il sottopassaggio, il caffè, le sale d’aspetto che odorano di segatura, e nei mesi invernali di bucce d’arancio, mi sono consuete da sempre: con la cassiera gentile, il ferroviere che ha la striscia azzurra sulla manica, che assegna i posti, e mentre attendiamo mi racconta le sue faccende, quelle del suocero tedesco che vuol bere e di sua moglie che dice di no, e la giornalaia, che scherza: «Ma come fa a leggere tutta questa roba?», e vorrei sapere qualcosa, che ne è stato di loro, e li penso, ma non so pregare. Si mescolano i ricordi: le partenze dell’infanzia per le colonie marine dell’Adriatico, i primi distacchi, e c’erano ancora le locomotive che sbuffavano, i viaggi verso Porretta per andare dai nonni, e le gallerie si riempivano di faville, e bisognava chiudere i finestrini, e una mattina, incolonnato, mi avviai da qui al battaglione universitario, perché c’era la guerra. Ritornano, con le mie, le vicende della stazione: quando, praticante al «Carlino», passavo di notte al Commissariato per sapere che cos’era capitato, perché è come stare al Grand Hotel, ma molto, molto più vasto, gente che va, gente che viene, e qualcuno su quei marciapiedi ha vissuto la sua più forte avventura: incontri con l’amore, incontri con la morte. Passavano i treni oscurati che portavano i prigionieri dall’Africa, che gambe magre avevano gli inglesi, scendevano le tradotte di Hitler che andavano a prendere posizione nelle coste del Sud, e conobbi una Fraulein bionda in divisa da infermiera alla fontanella, riempiva borracce, ci mettemmo a parlare, chissà più come si chiamava, com’è andata a finire. Venne l’8 settembre, e davanti all’ingresso, dove in queste ore parcheggiano le autoambulanze, si piazzò un carro armato di Wehrmacht; catturavano i nostri soldati, e li portavano verso lo stadio, che allora si chiamava Littoriale. Un bersagliere cercò di scappare, ma una raffica lo fulminò; c’era una bimbetta che aveva in mano la bottiglia del latte, le scivolò via, e sull’asfalto rimase, con quell’uomo dalle braccia spalancate, una chiazza biancastra. Cominciarono le incursioni dei «liberators», e volevano sganciare su quei binari lucidi che univano ancora in qualche modo l’Italia, ma colpirono gli alberghi di fronte, qualche scambio, i palazzi attorno, le bombe caddero dappertutto, e vidi una signora con gli occhialetti d’oro, immobile, composta, seduta su un taxi, teneva accanto una bambola, pareva che dormisse, e l’autista aveva la testa abbandonata sul volante. «Stazione di Bologna», dice una voce che sa di Lambrusco e di nebbia, di calure e di stoppie, di passione per la libertà e per la vita, quando un convoglio frena, quando un locomotore si avvia. Per i viaggiatori è un riferimento, per me un’emozione. Ecco perché mi pesa scrivere queste righe, non è vero che il mestiere ti libera dalla tristezza e dalla collera, in quella facciata devastata dallo scoppio io ritrovo tanti capitoli dell’esistenza dei mici. «Stazione di Bologna»: quante trame sono cominciate e si sono chiuse sotto queste arcate di ferro. Quanti sono stati uccisi dallo scoppio, o travolti dalle macerie: cinquanta, sessanta, chissà? Credere al destino, una caldaia che esplode, un controllo che non funziona, una macchina che impazzisce, qualcuno che ha sbagliato, Dio che si vendica della nostra miseria, e anche l’innocente paga? Anche quei ragazzi nati in Germania che erano passati di qui per una vacanza felice, ed attesa, il premio ai buoni studi o al lavoro, una promessa mantenuta, un sogno poetico realizzato: «Kennst Du das Land, wo die Zitronen bluhen?», lo conosci questo bellissimo e tremendo Paese dove fioriscono i limoni e gli aranci, i rapimenti e gli attentati, la cortesia e il delitto, dovevano pagare anche loro? Forse era meglio vagheggiarlo nella fantasia. Ci sono genitori che cercano i figli; dov’erano diretti? Perché si sono fermati qui? Da quanto tempo favoleggiavano questa trasferta? E le signorine del telefono, già, che cosa è successo alle ragazze dal grembiule nero che stavano dietro il banco dell’interurbana: chi era in servizio? Qualcuna aveva saltato il turno? Che cosa gioca il caso? Poi, l’altra ipotesi, quella dello sconosciuto che deposita la scatola di latta, che lascia tra le valigie o abbandonata in un angolo, magari per celebrare un anniversario che ha un nome tetro, «Italicus», perché vuol dire strage e un tempo «Italicus» significava il duomo di Bolsena, le sirene dei mari siciliani, i pini di Roma, il sorriso delle donne, l’ospitalità, il gusto di vivere di un popolo. Non mi pare possibile, perché sarebbe scattato l’inizio di un incubo, la fine di un’illusione, perché fin lì, pensavamo, non sarebbero mai arrivati. «Stazione di Bologna», come un appuntamento con la distruzione, non come una tappa per una vacanza felice, per un incontro atteso, per una ragione quotidiana: gli affari, i commerci, le visite, lo svago. Come si fa ad ammazzare quelle turiste straniere, grosse e lentigginose, che vedono in ognuno di noi un discendente di Romeo, un cugino di Caruso, un eroe del melodramma e della leggenda, che si inebriano di cattivi moscati e di sole, di brutte canzoni? Come si fa ad ammazzare quei compaesani piccoli e neri, che emigrano per il pane e si fermano per comperare un piatto di lasagne, che consumano seduti sulle borse di plastica? Come si fa ad ammazzare quei bambini in sandali e in canottiera che aspettano impazienti, nella calura devastante, la coca cola e il panino e non sanno che nel sotterraneo, non lo sa nessuno, c’è un orologio che scandisce in quei minuti la loro sorte? Vorrei vedere che cosa contengono quei portafogli abbandonati su un tavolo all’istituto di medicina legale: non tanto i soldi, di sicuro, patenti, anche dei santini, una lettera ripiegata e consumata, delle fotografie di facce qualunque, di quelle che si vedono esposte nelle vetrine degli «studi» di provincia: facce anonime, facce umane, facce da tutti i giorni. Dicono i versi di un vero poeta, che è nato da queste parti e si chiama Tonino Guerra: «A me la morte / mi fa morire di paura / perché morendo si lasciano troppe cose che poi non si vedranno mai più: / gli amici, quelli della famiglia, i fiori / dei viali che hanno quell’odore / e tutta la gente che ho incontrato / anche una volta sola». Sono facce che testimoniano questa angoscia, ma nessuno ha potuto salvarle. «Stazione di Bologna». D’ora in poi non ascolteremo più l’annuncio con i sentimenti di una volta; evocava qualcosa di allegro e di epicureo, tetti rossi e mura antiche, civiltà dei libri, senso di giustizia, ironia, rispetto degli altri, massi, anche la tavola e il letto, il culto del Cielo e il culto per le buone cose della Terra. Ora, ha sapore di agguato e di tritolo. Perché il mondo è cambiato e in peggio: i figli degli anarchici emiliani li battezzavano Fiero e Ordigno, quelli dei repubblicani Ellero e Mentana, quelli dei socialisti Oriente e Vindice, quelli dei fascisti Ardito e Dalmazia, una gli insegnavano a discutere a mensa imbandita. Si picchiavano anche, si sparavano, talvolta, ma il loro ideale era pulito e non contemplava l’agguato: Caino ed Erode non figuravano tra i loro maestri. «Stazione di Bologna»: si può anche partire, per un viaggio senza ritorno".

L'Associazione delle vittime: «Lo Stato non vuole la verità sulla strage di Bologna». «Se si sapessero come sono andate veramente le cose si innescherebbe un effetto a catena che a molti farebbe paura» afferma il presidente Paolo Bolognesi. Sulle polemiche dopo l'archiviazione dell'indagine sui mandanti: «Anche noi abbiamo il diritto di critica, non parliamo solo in tribunale», scrive Federico Marconi l'1 agosto 2017. «L’Italia non ha mai fatto i conti con il proprio passato. È una costante: è stato così per il fascismo, lo è oggi per la strategia della tensione. Ci sono ancora dei grumi, delle situazioni e degli apparati che non si possono assolutamente svelare. Se così fosse ci sarebbe un effetto a catena che a molti farebbe paura». Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione delle vittime della strage di Bologna e deputato Pd, non si nasconde dietro frasi di circostanza quando si parla dell’attentato che il 2 agosto 1980 sconvolse Bologna e l’Italia. La bomba che scoppiò quel giorno alla stazione fece 85 morti e oltre 200 feriti: la più grande strage che l’Italia abbia conosciuto in tempo di pace. Nonostante lacune nelle indagini e depistaggi di cui furono responsabili dirigenti del Sismi, dopo un tormentato iter giudiziario sono stati individuati i responsabili dell'eccidio: nel 1995 la Cassazione ha condannato in via definitiva all’ergastolo Francesca Mambro e Giusva Fioravanti, membri del gruppo di estrema destra Nuclei Armati Rivoluzionari.

Presidente Bolognesi, dopo 37 anni si continuano ancora a cercare i mandanti della strage.

«Ancora non sappiamo tutta la verità e ci impegneremo fino a che non verrà fatta. Abbiamo cercato una sponda negli ultimi governi, e in un primo momento sembrava che l’avessimo trovata: nel 2015 è stato stipulato un accordo per la digitalizzazione degli archivi con il Ministero della Giustizia e quello dei Beni Culturali. Questa è una metodologia di indagine e di analisi che permetterebbe di fare chiarezza sui mandanti della strage. La digitalizzazione viene però osteggiata, boicottata, con tutte le motivazioni più incredibili. Nei tre anni successivi all’accordo non è stata digitalizzata una pagina. Dopo i miei reclami è stato fatto un comunicato congiunto in cui si diceva che gli archivi non possono essere divulgati per ricerche di natura giudiziaria, una cosa totalmente assurda. Ma questi sono messaggi che vogliono rassicurare qualcuno che è un po' preoccupato, sicuramente non i familiari delle vittime. Poi c'è la direttiva Renzi (con cui nel 2014 è stato deciso di declassificare i documenti riguardanti le stragi, ndr), che tante speranze aveva dato alle associazioni: ma gli unici che vogliono che funzioni sono i familiari delle vittime, non certo gli apparati dello Stato».

Quali difficoltà ci sono in questa partita che si gioca negli archivi?

«Innanzitutto abbiamo un blocco costante e metodico da parte degli apparati dello Stato. Sembrerà incredibile, ma sia dal Ministero della Difesa che dal vecchio Ministero dei Trasporti sono spariti gli archivi. Incredibile ma vero, il Ministero della Difesa dal 1980 al 1986 non ha nulla che riguardi i voli e le navi che attraversavano l'Italia e il Tirreno. Ma se non si trovano questi archivi fai qualcosa, fai un'inchiesta per capire dove sono andati a finire. Nessuno però fa una piega: questo dei documenti è l’ultimissimo dei loro problemi».

Per quale motivo ci sono ancora tutte queste resistenze da parte dello Stato?

«Perché evidentemente ci sono situazioni e apparati che non possono essere svelati. Nell'ambito della direttiva Renzi ultimamente ho chiesto i nomi degli appartenenti ai Nuclei Armati di Difesa dello Stato, la cosiddetta Gladio Nera, che molto probabilmente è implicata in questi attentati e non solo. Mi è stato risposto che non me li potevano dare per ragioni di privacy».

A marzo la Procura di Bologna ha archiviato l’indagine su Licio Gelli come mandante e finanziatore della strage. Non avete risparmiato critiche ai procuratori bolognesi.

«La procura deve ricordarsi che anche le vittime hanno il diritto di critica, non parliamo solo in tribunale. L'archiviazione è stata fatta su una serie di “non indagini” che lasciano perplessi. Sul finanziamento di Gelli agli stragisti si sono basati su una relazione del 1984, non su elementi più recenti o sulle acquisizioni che noi abbiamo presentato, che non sono stati neanche guardate. C'è anche una perla nella richiesta di archiviazione: i pm scrivono che Mambro e Fioravanti erano degli “spontaneisti”. Questo vuol dire non tenere nemmeno conto della sentenza del 1995 con cui i due membri dei Nar sono stati condannati. Questa cosa ci lascia molto perplessi. Noi abbiamo presentato un dossier di mille pagine, la procura ha chiesto l'archiviazione a cui ci siamo opposti e a ottobre vedremo cosa deciderà il Gip. Poi se il fascicolo verrà archiviato vedremo quali parti si potranno sviluppare per far riaprire il processo».

Dopo tutte questi attacchi a governo e procura, in che clima si svolgeranno le manifestazioni per l’anniversario della strage?

«Bologna è una città estremamente democratica, i cittadini hanno avuto sempre un comportamento esemplare nei confronti di chiunque abbia partecipato alla commemorazione. Non c'è stato nessun ministro, neanche nei momenti più delicati, che sia stato contestato durante il corteo o le manifestazioni. Può darsi che qualche volta, mentre parlavano dal palco, siano stati fischiati. Ma questo per altre ragioni, come per le promesse non mantenute».

Nonostante si siano individuati i responsabili della strage, periodicamente si torna a parlare della “pista palestinese” (secondo cui la bomba è stata una ritorsione dell’Olp per la rottura del Lodo Moro, ndr). Per quale motivo?

«La “pista palestinese” non porta da nessuna parte. Riportarla agli onore della cronaca fa parte di operazioni per confondere le idee alla gente, per fargli uscire dalla testa personaggi come Francesca Mambro e Giusva Fioravanti. I due responsabili della strage, condannati a 8 ergastoli per i loro 98 omicidi, hanno già finito di scontare la pena. Sembra una grande barzelletta, ma è quello che ha fatto lo Stato italiano. È una sorta di do ut des».

Può spiegarsi meglio?

«C’è un silenzio eccezionale da parte dello Stato nei confronti di questi personaggi. Non dico che dovrebbero essere in galera, ma almeno non dovrebbero aver finito di scontare la pena dopo tutto il sangue che hanno versato. Inoltre è appurato come abbiano continuato ad avere frequentazioni poco limpide. Mambro e Fioravanti, durante il periodo di liberà condizionale, avevano contatti con Gennaro Mokbel, uomo della Banda della Magliana e grande riciclatore di soldi sporchi. Addirittura c'è un’intercettazione telefonica di Mokbel in cui dice che “liberare quei due dalla galera” gli è costato un milione e duecentomila euro. È incredibile che nessuno abbia indagato su queste situazioni. Mambro e Fioravanti erano in libertà condizionale e doveva essere sospesa immediatamente: per evitare, come poi è successo, che avessero contatti con malavitosi. Per Mambro e Fioravanti si è mosso il mondo della Banda della Magliana, non so che si vuole di più: probabilmente avrebbero dovuto fare un’altra strage affinché lo Stato li rispedisse in galera».

Giovanni Lindo Ferretti e la stage di Bologna: furono o no i fascisti?, scrive il 2/08/2017 Chiara Comini. Avvenne il 2 agosto del 1980 alle 10.25 l’esplosione, causata da una bomba, che provocò la morte di 85 persone e 200 i feriti. Oggi, dopo 37 anni dalla strage, Giovanni Lindo Ferretti lancia una provocazione. Ferretti, noto per essere stato il cantate del gruppo musicale CCCP Fedeli alla linea, nato nell’Emilia degli anni Ottanta, in un intervista rilasciata a Repubblica dichiara: “Non concordo con il pensiero della maggioranza dei bolognesi, non credo che l’attentato del 2 agosto sia opera di fascisti italiani. Mi dispiace non essere in sintonia con la mia città, quella in cui ho vissuto di più. Quando è successo il 2 agosto io ero ancora un bolognese di adozione, ma io non ci ho mai creduto”. Continua affermando: “In quel momento i palestinesi avevano dei problemi con lo Stato italiano e il fatto che non siano state fatte indagini su tre o quattro personaggi in quei giorni a Bologna mi convince oltremisura. Se almeno si fossero fatte le indagini…”. Secondo Ferretti sarebbe più plausibile la pista, allora archiviata, definita “Lodo Moro”, o “Lodo Palestinese”: il patto tra servizi segreti italiani e la dirigenza palestinese per evitare attentati in Italia. Solo negli ultimi anni si sono iniziate a scoprire le carte, ammettendo l’effettiva esistenza dell’accordo, allora considerato una tesi complottista. Un documento segreto, emerso anni fa grazie a Enzo Raisi, datato 17/02/1978 e pubblicato nel 2015 dal Quotidiano nazionale, prova l’esistenza del Lodo Moro. Raisi il 2 agosto 1980 era nei pressi della stazione, in procinto di partire per il servizio militare. Da quel giorno si è assiduamente dedicato alla ricerca della verità. La sua convinzione è che la strage sia stata opera dei palestinesi in combutta con Carlos, un terrorista internazionale famoso anche con il nome di “Sciacallo”. Non è da sottovalutare che tra la fine del 1979 e l’inizio del 1980, fosse stato arrestato e condannato il responsabile del Fronte per la liberazione della Palestina in Italia. Nel libro “Ustica storia e controstoria”, scritto dall’on. Eugenio Baresi, possiamo leggere: “Fra il sette e otto novembre 1979, in un casuale controllo – ricorda Baresi – vengono sequestrati missili antiaerei a membri dell’Autonomia romana e ad un palestinese, Abu Anzeh Saleh, […], rappresentante in Italia del Fronte per la liberazione della Palestina (FPLP). La Procura di Chieti con assoluta e inusuale velocità perviene ad un’immediata condanna il 25 gennaio del 1980. Il responsabile del FPLP in Italia, arrestato e condannato, è residente da anni a Bologna”. La strage della stazione di Bologna, pertanto, si collocherebbe in uno scenario intrecciato di fatti avvenuti in quegli anni che la collegherebbero dall’omicidio di Aldo moro e all’aereo di Ustica, che Baresi considera un “avvertimento non capito”. L’ordigno a Bologna sarebbe stato il secondo avvertimento. Ferretti conclude la sua dichiarazione a La Repubblica dicendo: “Tutte le persone che conosco e a cui voglio bene non lo vogliono nemmeno sentire. Questa città si è fatta un punto di onore nel rivendicare una necessità di antifascismo militante 50 anni dopo l’epopea fascista e ha avuto un’occasione meravigliosa”. Resta il fatto che questa ipotesi, dopo quasi quarant’anni dalla tragedia, grazie a documenti allora secretati, ha iniziato a prendere sempre più forma.

La provocazione di Giovanni Lindo Ferretti: "La strage di Bologna? Non furono i fascisti". Le parole del musicista sull'attentato del 2 agosto in stazione, che provocò 85 morti e 200 feriti: "Mi spiace ma la penso diversamente dai bolognesi, credo alla pista palestinese", scrive Emanuela Giampaoli l'1 agosto 2017 su “La Repubblica”. "Non concordo con il pensiero della maggioranza dei bolognesi, non credo che l’attentato del 2 agosto sia opera di fascisti italiani". Lo dice Giovanni Lindo Ferretti, ex CCCP ed ex CSI, da anni ormai ritiratosi sull’Appennino tosco emiliano, sceso sotto le Torri per inaugurare al Museo della Musica la mostra della fotografa Federica Troisi "Illumina le tenebre", dedicata agli abitanti dell'enclave serba di Velika Hoca in Kosovo, alla quale il musicista partecipa con una serie di testi e di brani musicali. Parole che suonano come una provocazione alla vigilia dell’anniversario della strage, quando la città è pronta a ricordare ancora una volta la sua ferita più profonda e a raccogliersi intorno ai suoi morti. "Mi dispiace non essere in sintonia con la mia città, quella in cui ho vissuto di più. Quando è successo il 2 agosto io ero ancora un bolognese di adozione, ma io non ci ho mai creduto". A convincere il cantante e scrittore è il cosiddetto lodo palestinese, una pista archiviata che in ambito giudiziario contrasta con le sentenze, la matrice neofascista e le condanne definitive di Mambro e Fioravanti. "In quel momento i palestinesi avevano dei problemi con lo Stato italiano e il fatto che non siano state fatte indagini su tre o quattro personaggi in quei giorni a Bologna mi convince oltremisura. Se almeno si fossero fatte le indagini…". Confessa che sono anni che ha smesso di parlare di queste cose. "Tutte le persone che conosco e a cui voglio bene non lo vogliono nemmeno sentire. Questa città si è fatta un punto di onore nel rivendicare una necessità di antifascismo militante 50 anni dopo l’epopea fascista e ha avuto un’occasione meravigliosa".

IL MISTERO DELLE STRAGI MAFIOSE. PALERMO, MILANO, FIRENZE, ROMA.

MISTERI E DEPISTAGGI DI STATO.

Via D'Amelio, la relazione dell'Antimafia regionale: "Dietro il depistaggio i complici di Cosa nostra". La commissione denuncia "omissioni e reticenze" di magistrati, esponenti dei servizi segreti e vertici della polizia. Fiammetta Borsellino: Inaccettabile che alcuni pm si siano sottratti alle audizioni". Di Matteo: "Altri dovrebbero vergognarsi, non io", scrive Salvo Palazzolo il 19 dicembre 2018 su "La Repubblica". "Mai una sola investigazione giudiziaria e processuale ha raccolto tante anomalie, irritualità e forzature, sul piano procedurale e sostanziale, come l'indagine sulla morte di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta". È pesante l'atto d'accusa della commissione regionale Antimafia, presieduta da Claudio Fava. "Mai alla realizzazione di un depistaggio concorsero tante volontà, tante azioni, tante omissioni come in questo caso. Mai gli indizi seminati, in corso di depistaggio, furono così numerosi e così ignorati al tempo stesso come nell'indagine su via D'Amelio". Per l'Antimafia, "la stessa mano non mafiosa che accompagnò Cosa nostra nell'organizzazione della strage potrebbe essersi mossa, subito dopo, per determinare il depistaggio". Nel presentare la relazione, il presidente Fava parla di "concorso di responsabilità che va oltre l'ex procuratore di Caltanissetta Tinebra e l'ex capo della squadra mobile La Barbera e chiama in causa magistrati, vertici dei servizi segreti e della polizia di Stato". La relazione parte dalle domande di Fiammetta Borsellino, che era presente alla conferenza stampa di Fava. "Non è accettabile che magistrati come Ilda Boccassini, Nino Di Matteo e la signora Palma, si siano sottratti alle audizioni della commissione regionale antimafia. E' una vergogna". Così dice la figlia del giudice Paolo: "Lo trovo moralmente inaccettabile e non giustificabile". Di Matteo aveva chiesto di essere sentito dalla commissione nazionale antimafia. E oggi dice: "Gran parte della mia vita è stata ed è dedicata alla ricerca della verità. Dovrebbero vergognarsi altri, non io". Poi spiega: "Non ho ritenuto di accettare l’invito per l’audizione innanzi a una commissione regionale antimafia che non ha i poteri e le competenze per potersi occupare di un argomento così delicato e complesso". Interviene Fava: "Vorrei tranquillizzare il pm Di Matteo. Le competenze ci sono". Per il presidente Fava, "è certo il ruolo che il Sisde ebbe nell'immediata manomissione del luogo dell'esplosione e nell'altrettanto immediata incursione nelle indagini della Procura di Caltanissetta, procurando le prime note investigative che contribuiranno a orientare le ricerche della verità in una direzione sbagliata. E' certa la consapevolezza (ma anche l'inerzia) che si ebbe nell'intera procura di Caltanissetta (il procuratore capo, il suo aggiunto, i suoi sostituti) sull'irritualità di quella collaborazione fra inquirenti e servizi segreti, assolutamente vietata dalla legge". "Certa è anche l'irritualità dei modi ("predatori", ci ha detto efficacemente un pm audito in Commissione) attraverso cui il cosiddetto gruppo Falcone-Borsellino condizionò le indagini, omise atti e informazioni, fabbricò e gestì la presunta collaborazione di Vincenzo Scarantino e degli altri cosiddetti pentiti. Certo, infine, ripetiamo - prosegue Fava - il contributo di reticenza che offrirono a garanzia del depistaggio - consapevolmente o inconsapevolmente - non pochi soggetti tra i ranghi della magistratura, delle forze di polizia e delle istituzioni nelle loro funzioni apicali. Ben oltre i nomi noti dei tre poliziotti, imputati nel processo in corso a Caltanissetta, e dei due domini dell'indagine (oggi scomparsi), e cioè il procuratore capo Tinebra e il capo del gruppo d'indagine Falcone-Borsellino, Arnaldo La Barbera".

Fava: “Depistaggio Borsellino opera anche dei magistrati”. La relazione choc sulla strage di via D’Amelio, scrive Damiano Aliprandi il 20 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". «La sensazione è che il depistaggio sulla strage di via D’Amelio sia il concerto di contributi di reticenza offerti – consapevolmente o inconsapevolmente – a tutti i livelli istituzionali, che hanno attraversato la magistratura e le forze dell’ordine». A dirlo è il Presidente della Commissione Regionale Antimafia Claudio Fava, che ha presentato in conferenza stampa i risultati della commissione d’inchiesta sulla strage di via D’Amelio. All’incontro con la stampa era presente, seduta nell’ultima fila, anche Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso in via D’Amelio. Claudio Fava ha quindi presentato il rapporto che trasmetterà per conoscenza alle Procure di Caltanissetta e Messina, quest’ultima competente per quanto riguarda possibili indagini nei confronti dei magistrati, protagonisti dei primi due processi ai quali – secondo le motivazioni del Borsellino Quater – «le numerose oscillazioni e ritrattazioni» di Scarantino avrebbero dovuto consigliare «un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle sue dichiarazioni, e una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienza maturate nel contrasto alla criminalità organizzata, e incentrate su quello che veniva giustamente definito il metodo Falcone». Claudio Fava, durante la conferenza, non solo ha ricalcato le motivazioni del Borsellino Quater, ma è entrato nei dettagli. «Si decise di credere in modo quasi apodittico – ha affermato il Presidente della Commissione Antimafia Fava – che fosse la mafia a costringere Scarantino a ritrattare. Per cui si sceglie di credere alla ritrattazione della ritrattazione». Due sono le conclusioni raggiunte. «La prima – ha spiegato Fava è il dubbio forte che la stessa mano che ha lavorato per condurre questo depistaggio possa avere accompagnato anche gli esecutori della strage del 19 luglio 1992. Se vi è stata una continuità, non è riferibile solo alla costruzione e all’esecuzione della strage ma anche nel depistaggio». Poi c’è la seconda conclusione. «Questo depistaggio – prosegue Fava – è stato possibile per un concorso di responsabilità che va oltre i tre imputati al dibattimento di Caltanissetta e i due ‘ domini’ dell’inchiesta il procuratore di Caltanissetta, Gianni Tinebra e il capo della Mobile, Arnaldo La Barbera, che non ci sono più. La sensazione è che oggettivamente alcune forzature processuali e investigative hanno favorito il depistaggio. Una luce su questo avviene soltanto nel 2008, con le dichiarazioni del pentito Spatuzza». Claudio Fava, però, non si ferma qui. In sostanza afferma che il depistaggio proviene da lontano. Afferma che Paolo Borsellino, nonostante lo chiedesse in più occasioni, non fu convocato dalla Procura di Caltanissetta, in merito a ciò che aveva scoperto sulla motivazione dell’uccisione di Giovanni Falcone. Quindi “menti raffinatissime” che hanno adoperato fin da subito. Va da sé pensare, dunque, che tali menti avrebbero operato ben prima della presunta trattativa Stato – mafia, che secondo la Procura di Palermo sarebbe avvenuta a cavallo tra la strage di Capaci e Via D’Amelio. Fava ricorda, riferendo dettagli dell’audizione del maresciallo Canale, che non sia affatto vero che Borsellino fu convocato da Caltanissetta per il 20 luglio 1992. Sappiamo che Borsellino aveva molto a cuore l’indagine su mafia- appalti e – come ha anche ricordato recentemente Antonio Di Pietro – riteneva che fosse una probabile causa che portò alla strage di Capaci. «Se non ci fossero state alcune di queste sottovalutazioni, omissioni, forzature – un giudice ha definito l’attività di La Barbera predatoria -, la conclusione è che di questo depistaggio si sarebbe potuto sapere ben prima che parlasse Spatuzza», ha detto Fava. «Forse per la prima volta ha concluso – alcune domande sono state formulate a chi non le aveva mai ricevute. A questi magistrati per esempio è stato chiesto com’è che nessuno si sia stupito della pervasività dei servizi segreti nelle prime ore delle indagini, sapendo che erano contrarie alla legge». Nelle conclusioni della relazione si parla espressamente del ‘ contributo di reticenza’ offerto – consapevolmente o inconsapevolmente – da magistrati e figure apicali delle istituzioni e delle forze dell’ordine. L’inchiesta svolta dalla commissione presieduta da Fava scaturisce dalle domande di Fiammetta Borsellino. Troveranno finalmente risposta?

La Strategia dell'Inganno - 1992-93. Le bombe. I tentati golpe. La guerra psicologica in Italia. Libro di Stefania Limiti. Un racconto appassionante e documentato sui tre aspetti chiave che hanno contraddistinto la stagione delle bombe e delle stragi in Italia:

Un inquietante pericolo golpista: il golpe Nardi, una vicenda solo in apparenza boccaccesca – ne parlò la moglie e amante di due stimati ufficiali, ma non si trattò solo di un gioco a sfondo erotico; l’assalto alla Rai di un gruppo di mercenari su ordine della Cia, alcuni dei quali per la prima volta hanno dato all’autrice testimonianze inedite sui fatti.

Gli scandali del Sismi e del Sisde che resero le strutture dei servizi segreti in Italia più instabili di quanto lo fossero ai tempi della P2: uomini che entravano in stanze riservate senza nessuna documentazione, personaggi che si muovevano nell’ombra come Gianmario Ferramonti.

Lo stragismo, ovvero la manipolazione di gruppi criminali mafiosi come metodo utile alla destabilizzazione del potere.

Documentazione e testimonianze inedite su fatti meno conosciuti degli anni delle bombe in Italia: l’assalto alla sede Rai di Saxa Rubra, il Golpe Nardi e altre vicende dimenticate che lasciarono con il fiato sospeso l’Italia. Una nuova lettura delle stragi in Italia (via Fauro a Roma, Palestro a Milano, Georgofili a Firenze) che nella ricorrenza dei 25 anni solleverà curiosità e interesse. Una nuova e originale lettura del potere in Italia, orchestrato attraverso una costante opera di destabilizzazione, una successione di inganni, una vera guerra psicologica. 

L'AUTRICE – Stefania Limiti è nata a Roma ed è laureata in Scienze politiche. Giornalista professionista, ha collaborato con varie testate, in particolare con il settimanale «Gente», su temi di attualità e di politica internazionale. Inoltre ha lavorato per «l'Espresso», «Left», «La Rinascita della Sinistra» e «Aprile». Si è dedicata negli ultimi due anni alla ricostruzione di pezzi ancora oscuri della nostra storia attraverso la lettura delle sentenze giudiziarie e interviste ai protagonisti: il risultato di questo lavoro giornalistico viene presentato nelle pagine seguenti. Segue con molta attenzione la questione palestinese e ha scritto "I fantasmi di Sharon" (Sinnos, 2002), nel quale ricostruisce la strage nei campi profughi di Sabra e Shatila e le responsabilità libanesi e israeliane, e «Mi hanno rapito a Roma» (Edizioni L'Unità, 2006) sulla vicenda del sequestro da parte del Mossad di Mordechai Vanunu, che mise l'Italia sotto i riflettori del mondo intero nel 1986. Inoltre ha realizzato un'inchiesta sul dossier di Bob Kennedy sull'assassinio del presidente degli Stati Uniti dal titolo "Il complotto. La controinchiesta segreta dei Kennedy sull'omicidio di JFK" (Nutrimenti, 2012). Con Chiarelettere ha pubblicato "L'Anello della Repubblica" (2009), più volte ristampato.

«La strategia dell'inganno», storia della guerra non convenzionale in Italia, scrive Ciro Manzolillo Martedì 16 Maggio 2017 su “Il Mattino”. Il periodo più nero della nostra Repubblica. La grande crisi di sistema che colpì l'Italia tra il 1992 e il 1993 e che trovò soluzione nella nascita della cosiddetta Seconda Repubblica, è segnata da eventi tragici dai risvolti ancora non chiari e chiariti.

Il cosiddetto golpe Nardi, l'assalto alla sede Rai di Saxa Rubra, le stragi di Milano, Firenze, Roma quelle mafiose di Palermo, il blackout a Palazzo Chigi e, in mezzo, Tangentopoli, gli scandali del Sismi e del Sisde, la fine dei partiti storici, la crisi economica.

La sequenza degli avvenimenti di questo biennio viene ricostruita su documenti e con dovizia di dettagli nel volume appena uscito per Chiarelettere «La strategia dell'inganno» della giornalista Stefania Limiti. Secondo l’autrice: «Tutti questi fatti portano il segno di una grande opera di destabilizzazione messa in pratica anche con la collaborazione delle mafie e con l'intento di causare un effetto shock sulla popolazione, creando un clima di incertezza e di paura e disgregando le nostre strutture di intelligence».

Stefania Limiti dalle sue pagine cerca di dimostrare come centinaia di testimonianze, processi hanno offerto le prove che in Italia è stata combattuta una guerra non convenzionale a tutto campo e sotterranea. Furono azioni coordinate? E se sì da chi? Non lo sappiamo. Di certo tutte insieme, in un contesto di destabilizzazione permanente, provocarono un ribaltamento politico generale. Un golpe ideologico a tutti gli effetti.

DAL TESTO – "Le stragi sul continente, quindi, sono concepite e realizzate per diffondere una campagna di terrore. Cosa nostra deve aver ritenuto che la capitolazione dello Stato sarebbe stata più facile colpendo indistintamente la popolazione e le opere d'arte. Gli attentati sono programmati fuori dalla Sicilia e non prendono di mira uomini rappresentativi dello Stato: l'Italia era fin troppo abituata a quello schema, s'indignava, è vero, ma non ne era più spaventata. Il nuovo piano punta a seminare il panico, gli obiettivi sono anonimi e hanno un messaggio eloquente per chi possiede la giusta chiave di lettura."

La strategia dell’inganno – Stefania Limiti. Scrive il 6 luglio 2017 Giuseppe Licandro su Excursus.org". Tra il marzo 1992 e l’aprile 1994, l’Italia fu sconvolta da una lunga serie di attentati di matrice mafiosa che, terrorizzando la gente, accentuò la crisi dei partiti della Prima Repubblica iniziata con Tangentopoli. La stagione terroristica cominciò con l’assassinio di Salvo Lima (12 marzo ’92) e continuò col tentato omicidio di Maurizio Costanzo (14 maggio ’92) e gli attentati che uccisero Giovanni Falcone (23 maggio ’92) e Paolo Borsellino (19 luglio ’92). Seguirono poi la strage di Firenze (27 maggio ’93), l’esplosione di varie bombe a Milano e a Roma (27-28 luglio ’93), l’omicidio di Don Pino Puglisi a Palermo (15 settembre ’93) e due falliti attentati, uno allo stadio Olimpico di Roma (31 ottobre ’93), l’altro a Formello contro Salvatore Contorno, mafioso pentito (14 aprile ’94). Gli attacchi cessarono a metà del 1994, poiché ­ Cosa Nostra trovò nuovi referenti politici, ma fu anche indebolita dall’arresto dei boss più violenti (Leoluca Bagarella, Filippo e Giuseppe Graviano, Salvatore Riina). Nello stesso periodo si svolse la controversa trattativa tra Stato e mafia, con i Corleonesi che pretesero la revisione del maxiprocesso, l’abolizione dell’ergastolo e del II comma dell’articolo 41-bis del Codice Penale (che ha introdotto il carcere duro per i capimafia), ma alla fine ottennero solo concessioni minori (nel novembre 1993 il governo Ciampi revocò il 41-bis a 143 mafiosi). Dietro le quinte operarono probabilmente “menti raffinatissime” che, sfruttando scandali e stragi, affrettarono il passaggio alla Seconda Repubblica, come sostiene la giornalista Stefania Limiti nell’interessante saggio La strategia dell’inganno. 1992-93. Le bombe, i tentati golpe, la guerra psicologica in Italia (Chiarelettere, pp. 256, € 16,90).

Nella prima parte del libro l’autrice parla della deception, la tecnica usata per ingannare l’opinione pubblica e influenzare le classi dirigenti, raccontando due strane storie avvenute proprio nel tragico 1993: il colpo di stato organizzato dal pilota aeronautico calabrese Giovanni Marra; le trame eversive denunciate da Donatella Di Rosa. Su input forse di “amici americani”, Marra cercò di allestire un piccolo esercito per occupare la sede romana Rai di Saxa Rubra, ma il golpe abortì sul nascere, poiché il Servizio di Informazione per la Sicurezza Democratica (Sisde) sventò il complotto e ne arrestò l’ideatore, che patteggiò una pena minima, dichiarando di aver orchestrato un bluff come «strategia di conquista amorosa» della fidanzata, mentre gli altri complici furono scagionati. La Limiti, però, ritiene che il finto golpe di Saxa Rubra servisse «a far credere all’imminenza di colpo di Stato e alla sua concreta possibilità di realizzarsi», per screditare le istituzioni. L’altra grottesca vicenda riguardò un ipotetico golpe «programmato per la fine del 1993 e gli inizi del 1994», nel quale sarebbero stati coinvolti – tra gli altri − i generali Goffredo Canino, Luigi Cantone e Franco Monticone, il tenente colonnello Aldo Michittu, il terrorista tedesco Friedrich Schaudinn, il neofascista Gianni Nardi: quest’ultimo, tuttavia, risultava morto in un incidente stradale avvenuto in Spagna nel 1976. A denunciare la trama eversiva, nell’ottobre 1992, fu Donatella Di Rosa – moglie di Michittu, che confermò le accuse – la quale, secondo l’autrice, era «un agente destabilizzatore […] invischiata negli ambienti eversivi». La donna confessò (ma poi smentì) di essere stata l’amante di Monticone e parlò di un grosso giro di denaro servito per comprare armi e addestrare i mercenari. Nell’ottobre 1993, la Procura di Firenze fece riesumare il corpo di Nardi, sepolto nel cimitero di Palma di Majorca, ma la perizia stabilì che si trattava proprio del cadavere del neofascista. La bizzarra vicenda si sgonfiò e i due coniugi furono arrestati e condannati con l’accusa di calunnia e autocalunnia con finalità eversive. L’autrice è convinta che «le denunce dei Michittu erano fatte ad arte», perché le rivelazioni contenevano insieme «fatti veri, informazioni poco credibili e notizie totalmente false». Lo scandalo servì forse per impaurire e distrarre l’opinione pubblica, mentre «altri ambienti erano molto impegnati a ricostituire un tessuto politico adatto all’Italia nel nuovo ordine mondiale».

La seconda parte de La strategia dell’inganno è dedicata alle pratiche poco ortodosse messe in atto dai cosiddetti “servizi segreti deviati” per depistare le indagini, spiare, intimidire o sopprimere personaggi scomodi. Viene, innanzi tutto, tracciata una breve cronistoria dell’intelligence nostrana a partire dal 1949, quando fu costituito il Servizio Informazioni Forze Armate (Sifar). Nello stesso periodo fu creato anche l’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni, che in seguito divenne Servizio di Sicurezza. Dopo il colpo di stato minacciato nel 1964 dal comandante dell’Arma dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo (il “Piano Solo” che coinvolse anche il presidente della Repubblica Antonio Segni, costretto a dimettersi), il Sifar fu sciolto e nel 1966 nacque il Servizio Informazioni Difesa (Sid), operativo fino al 1977, che fu implicato nella “strategia della tensione”. Proprio nel 1977 ci fu la prima riforma dei servizi segreti italiani, con la costituzione del Servizio Informazioni e Sicurezza Militare (Sismi) e del già citato Sisde. Le due agenzie investigative furono subito infiltrate dalla loggia massonica Propaganda 2, diretta da Licio Gelli: s’iscrissero, infatti, alla P2 sia il primo direttore del Sismi Giuseppe Santovito, sia quello del Sisde Giulio Grassini. Forse non fu casuale il fatto che, nel marzo 1978, le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro e lo tennero in ostaggio per 55 giorni prima di ucciderlo, senza che l’intelligence nostrana riuscisse a liberarlo, nonostante fosse stata probabilmente individuata la prigione di via Montalcini a Roma. Agli inizi degli anni Novanta, sebbene fosse stato costituito il Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza (Cesis) per vigilare su Sismi e Sisde, l’intelligence italiana si trovò impreparata di fronte alle stragi mafiose. Si prospettò, dunque, una nuova riforma dei servizi, che però fu completata solo nel 2007, con la creazione dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna (Aisi) e dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna (Aise). Nel 1990, Giulio Andreotti − presidente del Consiglio − iniziò la ristrutturazione dei servizi di sicurezza, cercando di «buttare giù i vecchi apparati», che furono poi coinvolti anche nello scandalo dei fondi neri, grazie ai quali vari funzionari del Sisde erano riusciti a «procurarsi cospicui e improvvisi arricchimenti». La parte più retriva dell’intelligence reagì e fece trapelare notizie riservate in merito all’esistenza di un grande quantità di denaro, accumulata «attraverso accantonamenti di somme erogate al servizio». Antonio Galati, funzionario del Sisde, dichiarò che «dal 1982 al 1992 ogni ministro dell’Interno (con l’eccezione di Amintore Fanfani) aveva ricevuto 100 milioni al mese, soldi presi tra quelli accantonati dal servizio». Nell’inchiesta giudiziaria furono coinvolti noti esponenti della Democrazia Cristiana come Antonio Gava, Nicola Mancino, Oscar Luigi Scalfaro e Vincenzo Scotti. Il 3 novembre 1993, Scalfaro − presidente della Repubblica − tenne un discorso televisivo nel quale denunciò un complotto contro le istituzioni democratiche. In seguito, la Procura di Roma archiviò le accuse «ipotizzando la liceità delle donazioni di denaro». Nei servizi di sicurezza erano allora attivi molti “agenti di influenza”, esperti in “operazioni coperte” che erano finalizzate «ad “aggredire” il paese d’interesse, carpendone i segreti […] o influenzandone il processo decisionale». In questa tipologia di persone la Limiti fa rientrare, oltre a Gelli, due nomi di minore importanza: Aldo Anghessa e Gianmario Ferramonti. Il primo, funzionario del Cesis, divenne celebre per il mancato arresto e la successiva fuga dall’Italia del terrorista Schauddin nel 1992. Il secondo, imprenditore informatico, nel 1991 affiancò Umberto Bossi alla guida della Lega Nord (di cui fu anche tesoriere), pilotando la conversione a destra del movimento leghista che determinò nel 1994 la nascita del Polo delle Libertà.

La terza parte del saggio è dedicata alla “strategia della tensione” che ancora una volta sconvolse l’Italia tra il 1992 e il 1994 e che, secondo l’autrice, rientrava nelle tecniche di “guerra non convenzionale” largamente usate durante la Guerra Fredda «per contrastare l’avanzata delle forze comuniste e progressiste». Stefania Limiti denuncia, in particolare, le cosiddette covert actions, cioè le operazioni coperte della Cia, consentite dal National Security Act, un documento del 1947 che riconosce agli Usa il diritto «di influenzare politicamente, economicamente e militarmente Stati esteri». Un esempio di “operazione coperta” si ebbe negli anni Sessanta in Laos, dove fu combattuta una guerra segreta contro i comunisti locali, attraverso l’«uso dei mercenari, omicidi mirati e, soprattutto, addestramento di eserciti locali». Le covert actions sono continuate anche dopo la caduta del Muro di Berlino, come dimostra l’omicidio, avvenuto a Bad Homburg nel novembre 1990, del banchiere tedesco Alfred Herrhausen, che intendeva costruire un’Europa unita senza interferenze da parte della Banca Mondiale. L’attentato fu rivendicato dalla Rote Armee Fraktion (Raf), ma in seguito le dichiarazioni di un terrorista pentito – Siegfrid Nonne – e di un ex agente della Cia – Fletcher Prouty – misero in dubbio l’autenticità della rivendicazione, lasciando trasparire l’ennesima covert action.

Nel 1987, cambiandole proprie simpatie politiche, Cosa Nostra decise «di abbandonare la Dc e dirottare i consensi verso il Psi». I Corleonesi divennero sempre più aggressivi, attaccando apertamente le istituzioni, soprattutto dopo la costituzione della Direzione Investigativa e della Procura Nazionale Antimafia. Dietro gli attentati dei primi anni Novanta, tuttavia, non ci furono solo gli uomini di Riina: nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio, infatti, emersero «anomalie rispetto agli schemi comportamentali tradizionali di Cosa Nostra». Proprio questi attentati determinarono l’approvazione da parte del Parlamento del II comma dell’articolo 41-bis del Codice Penale, che andava contro gli interessi dei mafiosi. Secondo le dichiarazioni fornite da vari pentiti e collaboratori (Filippo Barreca, Giovanni Brusca, Salvatore Cangemi, Pietro Carra, Francesco Di Carlo, Antonino Giuffrè, Luigi Ilardo, Nino Lo Giudice, Gaspare Spatuzza), nelle stragi mafiose ci sarebbero state numerose interferenze da parte dei servizi segreti deviati. Alcuni testimoni hanno parlato della partecipazione a vari delitti di mafia di Giovanni Aiello, un ex poliziotto (noto anche come “Faccia di mostro” a causa di una grossa cicatrice che gli deturpava il volto), indicato da Lo Giudice come colui che avrebbe «fatto saltare in aria Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta». Un ruolo importante lo avrebbe svolto anche Paolo Bellini, «un estremista di destra che ha passato la vita a fare l’agente provocatore», il cui apporto fu determinante nell’attentato contro la Galleria degli Uffizi a Firenze. Alla strategia terroristica fornì il proprio contributo anche la ‘ndrangheta, coinvolta «nel progetto politico che puntava alla separazione delle regioni meridionali dal resto del Paese». Non mancarono, del resto, i misteri e le stranezze: alcune della azioni criminali furono rivendicate da una fantomatica organizzazione, la Falange Armata; nel luogo dal quale i killer avevano fatto saltare in aria la macchina di Falcone, fu ritrovato il biglietto da visita dell’agente del Sisde Lorenzo Narracci; l’autobomba esplosa contro l’automobile di Costanzo in via Fauro fu parcheggiata davanti a una sede del Sisde; vari testimoni indicarono la presenza di una enigmatica donna negli attentati di via Fauro, Firenze e Milano. Riguardo alla mancata esplosione dell’autobomba allo stadio Olimpico di Roma, il procuratore antimafia Pietro Grasso ritenne plausibile «l’ipotesi che la strage dell’Olimpico fosse stata fatta fallire di proposito da qualcuno all’interno di Cosa Nostra», perché stavano emergendo nuove forze politiche (come Forza Italia) che avevano stabilito «un rapporto privilegiato con l’ala moderata di Cosa Nostra». 

La Procura di Firenze, in verità, indagò sui possibili mandanti politici delle stragi, in particolare su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, considerati come i nuovi interlocutori di Cosa Nostra, ma l’inchiesta si chiuse nel 1998 con l’archiviazione perché non c’erano elementi sufficienti per suffragare le ipotesi investigative. Stefania Limiti, concludendo la sua attenta disamina del traumatico passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, ritiene che a trarre vantaggio dal terrorismo mafioso furono proprio le forze più conservatrici: «Le stragi intimidiscono le istituzioni, disorientano le forze politiche, generano uno spazio pubblico di caos. E creano gli uomini d’ordine ai quali la massa si affida, invocando la ghigliottina».

La strage di Milano, Firenze, Roma, 27 luglio 1993: tre bombe, dieci morti e il dubbio che non sia stata solo mafia. Un anno dopo l'uccisione di Falcone e Borsellino e due mesi dopo la strage di via dei Georgofili, quello del 27 luglio è il momento più buio della Repubblica. E dalle nuove carte emergono molti nuovi dettagli, scrive Lirio Abbate il 18 luglio 2018 su "L'Espresso". Una ragazza bionda e un uomo scendono da una Fiat Uno parcheggiata vicino al Padiglione d’arte contemporanea a Milano. È il 27 luglio del 1993. Manca meno di un’ora a mezzanotte. Dall’automobile da cui si stanno allontanando a piedi esce del fumo. I due non hanno paura per quello che si lasciano alle spalle, ma di una pattuglia di vigili urbani che va loro incontro in via Palestro. Temono di essere scoperti. E così giocano d’anticipo: richiamano l’attenzione di uno dei due vigili, Alessandro Ferrari, a cui danno l’allarme per il pennacchio di fumo. Poi la bionda e il suo compagno si allontanano in fretta, facendo cadere in trappola l’agente della polizia municipale e mandandolo così a morire. Il fumo arriva infatti da una miccia accesa che innesca quasi cento chili di tritolo sistemati sul sedile posteriore della Uno. Che esplode, provocando una strage. Sono cinque i morti. È il primo botto della serata. Sì, perché in quella sera di venticinque anni fa, pochi minuti dopo una notte in cui esplodono altre due bombe, quasi in contemporanea, non solo a Milano ma anche a Roma, in punti diversi: a piazza San Giovanni in Laterano (danneggiando la Basilica e il Palazzo Lateranense) e pochi minuti dopo all’esterno della chiesa di San Giorgio al Velabro. Si pensò anche a un tentativo di golpe. Fu questa almeno la sensazione dell’allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi, a capo di un governo tecnico di transizione. Ciampi temeva che stesse per accadere qualcosa di oscuro per la tenuta democratica del Paese. Per Ciampi si poteva concretizzare il pericolo di un colpo di Stato che nasceva dall’eccezionalità di quegli avvenimenti, compresa l’interruzione delle linee telefoniche di Palazzo Chigi nella notte tra il 27 ed il 28 luglio 1993: un evento che mai prima di allora si era verificato, tanto che l’allora presidente del Consiglio non riuscì a comunicare con i suoi collaboratori o con gli apparati di sicurezza. Un black-out che ancora oggi nessuno ha spiegato. Fu una notte convulsa. Ciampi, parlando poi con i magistrati che hanno indagato sulle stragi, spiegò di «ricordare perfettamente che convocai, in via straordinaria, il Consiglio Supremo di Difesa. Di questa convocazione venne informato anche il Presidente della Repubblica (Oscar Luigi Scalfaro, ndr). Ricordo che, in un clima di smarrimento generale, nel corso di quella riunione qualcuno avanzò l’ipotesi dell’attentato terroristico di origine islamica. Altri, tra cui certamente il Capo della Polizia Vincenzo Parisi, escludevano la fondatezza di quella pista avanzando l’ipotesi della matrice mafiosa». Sì, era stata la mafia. I boss di Cosa nostra dell’area corleonese continuavano ad alzare il tiro contro lo Stato, piazzando bombe davanti ai simboli dell’arte, del patrimonio culturale e della Chiesa, nel tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale del Paese. E uccidendo chi si trovava nei paraggi. Le testimonianze raccolte all’epoca dagli investigatori e le indagini avviate anche con il contributo di collaboratori di giustizia, alcuni dei quali si sono autoaccusati di quelle stragi, portano però a considerare l’ipotesi che non sia stata solo la mafia. Che in quegli attacchi di Cosa nostra vi fossero anche elementi esterni all’organizzazione. Uno dei misteri riguarda proprio la donna bionda uscita dall’auto piena di esplosivo in via Palestro, il 27 luglio. Anche i testimoni di via dei Georgofili a Firenze (27 maggio dello stesso anno) parlano della presenza di una donna bionda; e lo stesso è riferito dai testimoni dell’attentato di via Fauro a Roma, quello contro Maurizio Costanzo (14 maggio). Questa signora bionda all’epoca ha meno di trent’anni e di lei esiste un identikit. Tra i numerosi testimoni di via Palestro ce n’è uno che ricorda molto bene la donna, vestita di scuro, accanto alla pattuglia di vigili. L’ha vista parlare con loro. I collaboratori di giustizia invece non hanno mai confermato il coinvolgimento di donne in queste stragi. L’attacco allo Stato aveva una doppia finalità. La prima era orientare la politica in Sicilia verso una prospettiva indipendentista, coltivata come una forma di ricatto nei confronti dei partiti a Roma, che avevano tradito le aspettative della Cupola, prima la Dc e poi il Psi. Il quasi analfabeta Leoluca Bagarella si era dato da fare per formare un nuovo partito politico, “Sicilia Libera”, che avrebbe dovuto far eleggere candidati appartenenti a Cosa nostra. Il secondo obiettivo era una dimostrazione di forza attraverso azioni eclatanti che avrebbero avuto risalto internazionale. In un Paese già scosso, sul piano politico e istituzionale, dalle indagini su Tangentopoli, quelle bombe erano un tentativo di destabilizzare ulteriormente le strutture democratiche. Il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, a conferma del messaggio terroristico che si doveva diffondere con le bombe, ha detto ai pm di essere stato incaricato di imbucare a Roma, subito prima degli attentati del 27 luglio, alcune buste indirizzate al Corriere della Sera e al Messaggero contenenti una lettera anonima, in cui era scritto: «Tutto quello che è accaduto è soltanto il prologo, dopo queste ultime bombe, informiamo la Nazione che le prossime a venire verranno collocate soltanto di giorno ed in luoghi pubblici, poiché saranno esclusivamente alla ricerca di vite umane. P.S. Garantiamo che saranno a centinaia». Restano quindi, anche 25 anni dopo, molte domande. Ci fu un contributo di soggetti esterni a Cosa nostra, ci furono mandanti esterni alla mafia? I clan, attraverso quel programma di azioni criminali dirette a sconvolgere dalle fondamenta l’ordine pubblico, hanno voluto in qualche modo intervenire in un vuoto della politica nazionale per agevolare l’ascesa o la permanenza al potere di soggetti con cui poter interagire in modo proficuo, ristabilendo un rapporto a difesa e protezione degli interessi mafiosi? E quel rapporto era riconducibile a uno scambio che avrebbe dovuto prevedere da una parte un appoggio elettorale e dall’altra qualche intervento abrogativo delle norme contro la criminalità organizzata, come il 41bis per i boss in carcere? Sì, guardando a venticinque anni fa restano ancora tanti gli interrogativi. E tra questi c’è il mistero della mancata strage dello stadio Olimpico a Roma nel gennaio 1994, quando i fratelli Graviano volevano massacrare centinaia di carabinieri impegnati nel servizio d’ordine di una partita di calcio. Il telecomando non funzionò e l’attentato per fortuna fallì. L’episodio può essere letto come l’atto conclusivo di una campagna stragista, che, per le modalità e gli obiettivi avrebbe raggiunto un effetto terroristico-eversivo eccezionale. La decisione di non mettere più bombe dopo quel fallimento era forse una conseguenza dell’evoluzione della politica nazionale? Oppure è legato all’arresto dei fratelli Graviano avvenuto a Milano poche settimane dopo il fallito attentato? Che rapporto c’era tra l’originaria pianificazione di questa strage e il progetto politico, in qualche modo concretamente attuato alla fine del 1993, di dar vita al partito di Cosa nostra, “Sicilia Libera”, con caratteristiche autonomiste e indipendentiste? E perché poi si abbandonò questo progetto per concentrare i voti su vecchie conoscenze, magari transitate verso nuove formazioni politiche come Forza Italia? Il giudice per le indagini preliminari di Firenze che aveva archiviato l’indagine sui mandanti esterni alle stragi in cui erano indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri (riaperta nei mesi scorsi dalla procura) ha scritto: «Le indagini svolte hanno consentito l’acquisizione di risultati significativi solo in ordine all’avere Cosa nostra agito a seguito di input esterni». Chi diede questi input? E perché? Le sentenze, fondate sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, hanno suggerito una parola chiave: “trattativa”. Questa “trattativa” emerge per la prima volta in una sentenza della corte d’assise di Firenze che ha condannato nel giugno del 1998 i boss, mettendo un punto fermo sull’interpretazione da dare a quella tragica stagione di bombe. I 10 morti e 95 feriti complessivi (e i danni al patrimonio artistico) costituiscono l’altissimo prezzo che il Paese ha dovuto pagare ad una strategia messa in atto dagli “specialisti” di Cosa nostra, ma forse pianificata in ambienti collocati al di sopra del sottoscala dove si riuniva la “cupola” composta da Provenzano, Riina, Bagarella e soci. Certo è che dopo il 1994 la campagna terrorista di Cosa nostra finisce. Una campagna che la mafia aveva portato avanti nel tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale del Paese, come ha detto il pubblico ministero Gabriele Chelazzi nel processo ai responsabili di quegli attentati del ’93. Resta ancora il dubbio sui veri fini delle azioni, sui veri mandanti. Purtroppo, in molti casi le rivelazioni dei collaboratori di giustizia, le inchieste e i processi hanno chiarito solo in parte i fatti. Un quarto di secolo non è ancora bastato per riempire le caselle ancora vuote e ricostruire la verità che non può essere solo giudiziaria ma anche politica.

Il mistero mai risolto della Falange Armata dietro le bombe del '93. 25 anni fa, con la strage di via dei Georgofili, e gli attentati a Roma e Milano, iniziava la seconda fase terroristica di Cosa Nostra. La storia mai chiarita della sigla oscura che la rivendicava, scrive Federico Marconi il 25 maggio 2018 su "L'Espresso". Sono passati 25 anni da quando duecento chili di esplosivo devastarono il centro di Firenze. Era da poco passata l’una di notte del 27 maggio 1993 quando esplose la bomba posizionata all’interno di un Fiorino bianco parcheggiato in una piccola e stretta stradina chiusa al traffico, via dei Georgofili. L’esplosione costò la vita a cinque persone, 48 rimasero ferite. Crollò la Torre dei Pulci, la Galleria degli Uffizi e il Corridoio Vasariano furono gravemente danneggiati insieme a decine di opere d’arte. Nei concitati minuti successivi all’esplosione, mentre i soccorritori cercavano di salvare le persone residenti nella via, si pensò che la tragedia fosse dovuta ad una fuga di gas. Ma bastò poco per capire che si trattava di un attentato, simile a quello di due settimane prima nel centro di Roma, a via Fauro, dove un’autobomba era scoppiata al passaggio della macchina di Maurizio Costanzo. «Qui a Firenze vedo gli stessi segni. La deformazione delle lamiere, le condizioni delle pareti, tutto uguale» affermava ai cronisti presenti il direttore della Protezione Civile Elveno Pastorelli. «È terrorismo indiscriminato» tuonavano i procuratori fiorentini Pier Luigi Vigna e Gabriele Chelazzi. Poco dopo mezzogiorno la prima rivendicazione con una telefonata alle redazioni Ansa di Firenze e Cagliari: «Qui Falange Armata. Gravissimo errore continuare a negare, confondere e mistificare da parte degli organi investigativi e inquirenti le nostre potenzialità politiche e militari. Eccovene un’altra testimonianza». Oggi sappiamo chi sono i responsabili delle bombe sul continente. Da Totò Riina in poi, tutta la cupola mafiosa è stata condannata come responsabile di quella strategia della tensione che sconvolse l’Italia all’inizio degli anni ’90. Stava finendo un’epoca, il potere di Cosa Nostra era fiaccato non solo dalle inchieste giudiziarie della procura di Palermo, ma anche dalla fine del mondo della Guerra Fredda e dalla scomparsa dei referenti politici che avevano permesso e protetto l’ascesa criminale della mafia siciliana. E mentre i boss trattavano con pezzi dello Stato, com’è stato appurato dalla sentenza del tribunale di Palermo del 20 aprile, seminavano sangue, paura, terrore, per alzare la posta in gioco. Sono ancora molti i misteri che avvolgono quella drammatica stagione della storia del nostro Paese. E uno di questi riguarda la Falange Armata: una sigla terroristica che ha rivendicato tutte le bombe mafiose del ’92-’93, ma anche omicidi, rapine, attentati in tutto il Paese. Di tutto e di più. Tanto che, contando le sole rivendicazioni, avremmo di fronte una tra le più temibili organizzazioni terroristiche della storia italiana.

25 ANNI DI RIVENDICAZIONI. La prima rivendicazione della Falange Armata è datata 27 ottobre 1990. Alle 12.20 la redazione bolognese dell’Ansa riceve la telefonata di un uomo con un forte accento straniero: intesta alla “Falange Armata Carceraria” la responsabilità dell’omicidio di Umberto Mormile. L’educatore carcerario del carcere di Opera era stato ucciso l’11 aprile 1990 a Carpiano, nel milanese, freddato da sei colpi di pistola sparati da due sicari della ndrangheta. La sua condanna a morte era stata firmata dai boss della potente cosca calabro-lombarda Domenico e Rocco Papalia. Mormile fu ucciso per aver negato un permesso al boss, che all’epoca era solito tenere colloqui con uomini dei servizi segreti. E furono proprio questi a indicare a Papalia la sigla con cui rivendicare l’attentato: «Antonio Papalia, parlò con i servizi che, dando il nulla osta all’omicidio Mormile, si raccomandarono di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro stesso indicarono. Ecco la risposta alla domanda che mi avete fatto con riferimento alla rivendicazione “Falange Armata” dell’omicidio Mormile» ha dichiarato il collaboratore di giustizia Vittorio Foschini il 26 aprile 2015. Dopo la prima telefonata ne seguirono decine e decine. Il 5 novembre 1990, la Falange rivendica l’omicidio a Catania degli industriali Francesco Vecchio e Alessandro Rovetta. Nel corso della chiamata all’Ansa di Torino, il telefonista anonimo fa riferimento anche all’operazione del 10 ottobre a via Monte Nevoso a Milano, in cui furono ritrovate – 11 anni dopo la prima perquisizione – nuove pagine del memoriale e delle lettere di Aldo Moro: «Moretti e Gallinari sanno molto di più e così pure i servizi segreti». All’inizio del 1991 viene rivendicata la strage del Pilastro, a Bologna, in cui persero la vita tre carabinieri. L’attentato fu uno dei tanti per cui furono condannati i membri della banda della Uno bianca e che insanguinarono l’Emilia a cavallo tra anni ’80 e ’90. Vengono minacciati poi nuovi attentati al presidente della Repubblica Francesco Cossiga, al direttore generale degli Istituti di pena Nicolò Amato, al giornalista Giuseppe D’Avanzo, alle redazioni de la Repubblica e l’Espresso. Sono annunciate nuove scottanti rivelazioni sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980: ma non verranno mai diffuse. Il 14 agosto viene rivendicato l’omicidio del giudice Scopelliti, il 6 ottobre quello dell’avvocato Fabrizio Fabrizi a Pescara, il 22 l’uccisione del maresciallo dei vigili urbani di Nuoro Francesco Garau. Il 3 novembre Falange Armata si intesta anche la responsabilità dell’attentato alla villa di Pippo Baudo: ««Il significato politico che abbiamo inteso conferire all’azione condotta ai danni della villa del signor Baudo a Santa Tecla, ritenevamo che almeno lui, uomo di spettacolo, ma anche di politica, non sarebbe dovuto risultare del tutto incomprensibile, così com’è apparso» afferma all’Ansa il solito telefonista anonimo. Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 Falange Armata fa propri gli attentati dinamitardi presso il commissario di Polizia di Bitonto, in Puglia, presso la sede del Comune di Taranto e una bomba sulle ferrovie salentine. La sigla rivendica poi tutti gli attentati eccellenti del ’92 - l’omicidio di Salvo Lima e del maresciallo Giuliano Guazzelli, le bombe di Capaci e via D’Amelio - e le stragi di Firenze, Roma e Milano del 1993. Tra gennaio e dicembre del 1994 viene rivendicato il duplice omicidio vicino Reggio Calabria degli appuntati dei carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo, e altri due attentati a pattuglie di militari che riescono fortunatamente a salvarsi. Aumentano nel tempo le minacce: al neo presidente della Repubblica Scalfaro a quello del Senato Spadolini, al capo della Polizia Parisi e ai giudici Di Pietro e Casson. E poi tanti politici: Mario Segni, Claudio Martelli, Achille Occhetto e Massimo D’Alema, Silvio Berlusconi, Alessandra Mussolini e Umberto Bossi, definito nelle telefonate «utilissimo buffone [...] pagliaccio finto, ma provvidenziale». Il 20 dicembre del 1994 il segretario del Carroccio riceve anche una lettera minatoria: «Se il governo che tutti noi – tu compreso – abbiamo voluto salterà, la nostra rappresaglia non avrà limiti». Il governo è quello eletto in primavera, con premier Silvio Berlusconi. Le telefonate continuano anche nella seconda metà degli anni ’90, dopo la fine della strategia stragista di Cosa Nostra. Sempre minacce e rivendicazioni: come il furto di due Van Gogh e un Cezanne dalla Galleria di Arte Moderna di Roma o il ritrovamento di un’autobomba davanti al Palazzo di Giustizia di Milano nel 1998. O ancora l’omicidio di Massimo D’Antona nel 1999. Con il nuovo millennio le chiamate si diradano fino a terminare: nemmeno una tra il 2003 e il 2014. L’ultima minaccia è del 24 febbraio di quell’anno in una lettera arrivata al carcere milanese di Opera e indirizzata al capo dei capi, Totò Riina: «Chiudi quella maledetta bocca. Ricorda che i tuoi familiari sono liberi. Per il resto stai tranquillo, ci pensiamo noi».

LE DUE MAPPE CHE COINCIDONO. Ma chi erano i falangisti? Il fascicolo aperto dalla Procura di Roma dopo le prime telefonate, seguito dal pm Pietro Saviotti, è stato archiviato, mentre l’unica persona accusata di essere uno dei telefonisti anonimi, l’operatore carcerario Carmelo Scalone, è stato protagonista di una controversa vicenda giudiziaria. Dopo l’arresto del 1993, Scalone fu condannato nel 1999 in primo grado a tre anni di reclusione, prima di essere scagionato da tutte le accuse in Appello e Cassazione: ricevette anche un indennizzo di 35 mila euro dallo Stato per ingiusta detenzione. Calò poi il silenzio sulla Falange Armata. Fino al 2015, quando è stato chiamato a testimoniare al processo sulla trattativa Stato-Mafia Francesco Paolo Fulci. Diplomatico di lunga data, Fulci è stato il capo del Cesis, l’organismo di coordinamento tra il servizio segreto civile e militare, dal maggio 1991 all’aprile 1993. L’ambasciatore era stato fortemente voluto dall’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti per gestire una fase delicata della vita dei Servizi, travolti dagli scandali dei fondi neri del Sisde e dalla comunicazione dell’esistenza di Gladio. Fulci stesso finì nel mirino della Falange Armata, da cui fu ripetutamente minacciato. Per questo fece condurre alcuni accertamenti: «Chiesi a Davide De Luca (analista del Cesis, ndr) di verificare da dove partivano questi messaggi della Falange Armata» ha dichiarato Fulci di fronte ai giudici di Palermo, «lui venne da me con l’aria preoccupata portando due mappe: da dove partivano le telefonate e dove erano le sedi periferiche del Sismi. Le due mappe erano sovrapponibili». Subito dopo la strage di via Palestro del 27 luglio 1993, Fulci consegnò al comandante generale dei Carabinieri Federici, una lista di quindici ufficiali e sottoufficiali del servizio segreto militare, «per scagionare i servizi da ogni accusa». I quindici nomi erano di alcuni appartenenti alla VII divisione del Sismi, quella incaricata di gestire i rapporti con quella Gladio di cui a inizio degli anni ’90 era stata svelata l’esistenza. La VII divisione era composta da un gruppo di super agenti, gli Ossi (Operatori Speciali Servizio Italiano), addestrati ad operazioni di guerra non ortodossa e all’uso di esplosivi. Per questo, sempre ai giudici di Palermo, Fulci dirà: «Mi sono convinto che tutta questa storia della Falange Armata faceva parte di quelle operazioni psicologiche previste dai manuali di “Stay Behind” (nome di Gladio, ndr)» Gladio però era stata smantellata nel 1990, come è possibile che fosse dietro la Falange Armata? «Sarà stato qualche nostalgico», l’opinione dell’ex ambasciatore.

COSA NOSTRA, NDRANGHETA E SERVIZI SEGRETI. La scorsa estate si sono di nuovo accesi i riflettori su questa organizzazione misteriosa grazie alla Procura di Reggio Calabria e all’inchiesta “Ndrangheta stragista”, con la quale sono stati individuati come mandanti degli attentati contro i carabinieri del 1994 i boss calabresi Antonio e Rocco Santo Filippone e il siciliano Giuseppe Graviano. La vicenda era stata riportata al centro delle investigazioni da un atto di impulso della procura nazionale antimafia firmato dal magistrato Gianfranco Donadio. Sono proprio i Graviano, legati alle ndrine tirreniche, a chiedere ai Filippone di partecipare alla strategia stragista voluta da Totò Riina per garantire gli interessi mafiosi in quel periodo di passaggio della vita politica italiana che si sarebbe concluso con le elezioni del 28 marzo 1994. I tre attentati, che costeranno la vita a due carabinieri, furono rivendicati dalla Falange Armata. E nelle pagine dell’ordinanza di custodia, firmata dai procuratori Federico Cafiero De Raho e Roberto Lombardo, è scritto che dietro alla sigla si celava «un gruppo – o forse più di un gruppo – di soggetti che aveva pianificato, fin dagli albori, in modo attento e meticoloso, una utilizzazione strumentale ai propri fini della sigla terroristica in esame che aveva inventato e dato (anche, ma per nulla esclusivamente) in “sub-appalto” ad entità criminali e mafiose»: «La Falange Armata utilizzava le stragi e i gravissimi delitti commessi da altri per rivendicarli (o farli rivendicare con tale sigla), per circonfondersi di un alone di misterioso terrorismo, in grado di atterrire, intimidire, condizionare e perseguire, per questa via, proprie finalità». Finalità che non erano né economiche, né ideologiche, ma politiche, «espressione di una sordida lotta per il potere». E i soggetti che stavano dietro Falange Armata erano «inseriti in delicati apparati dei gangli statali». Cosa Nostra decise di utilizzare la sigla Falange Armata nell’estate del 1991, durante le riunioni di Enna, in cui si pianificò la strategia del terrore per dare uno scossone allo Stato. Uno dei testimoni, Filippo Malvagna, ricorda: «Furono i corleonesi – ed in particolare Totò Riina – a dire, ad Enna, che tutti gli attacchi allo Stato dovessero essere rivendicati “Falange Armata”». Ma come nel caso dell’omicidio Mormile, anche in questo caso fu un entità esterna a suggerire a Cosa Nostra di utilizzare la Falange Armata per rivendicare le stragi. «L’idea di rivendicare minacce, attentati, delitti contro figure istituzionali con la sigla Falange Armata» scrivono i magistrati reggini «è stata il parto di alcuni appartenenti a strutture deviate dello Stato». Le stesse strutture già citate dall’ambasciatore Fulci: «Il loro nucleo era costituito da una frangia del Sismi e segnatamente, da alcuni esponenti del VII reparto [...] che avevano operato per anni agli ordini di Licio Gelli». Lo stesso Gelli che in quegli anni tramava con mafiosi ed estremisti di destra al progetto delle leghe meridionali, sul modello del Carroccio padano, per chiedere l’indipendenza del Sud dal resto del Paese. Mafiosi, ndranghetisti, agenti speciali dei servizi segreti: il mistero ancora avvolge la Falange Armata, l’organizzazione senza appartenenti che rivendicava gli attentati di tutti.

Lo Stato “contro natura”. L’indagine della Dda di Reggio Calabria (ri)svela il matrimonio tra apparati statali marci e mafie, scrive il 31 luglio 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". La natura del genere umano è progredire, sperimentare e inventare ciò che può migliorare la vita stessa, aiutato in ciò, oltre che dall’intelligenza, il dialogo ed il confronto, anche dalla scienza e, per chi crede, dalla fede. E’ così da sempre in tutti i campi e in ogni settore della vita. A volte lo Stato si comporta contro natura. A volte la magistratura si comporta contro natura. E, contro natura, si comporta anche la libera informazione il cui compito dovrebbe (lo è sempre meno) condire la crescita della società, inseguendone i difetti ed esaltandone i pregi. Inutile girarci attorno: mi riferisco – da ultimo ma solo da ultimo – all’indagine della Procura di Reggio Calabria che ha ripreso, ampliandola e dandole rinnovata forza la precedente indagine Mammasantissima (ma sarebbe più corretto dire tutto ciò che è confluito nel procedimento Gotha) e Sistemi criminali del 1998 in quel di Palermo avviata da Roberto Scarpinato e proseguita da Antonio Ingroia che il 21 marzo 2001 dovette chiederne l’archiviazione giocoforza. Ebbene, cosa ci dicono in estrema sintesi queste indagini: che le mafie non sono più (per quel che mi riguarda non sono mai state) coppola e lupara ma evoluti sistemi criminali che trovano ed offrono una sponda alle parti spurie e marcie dello Stato. Un matrimonio di interessi – non certo di amore – che può essere sublimato e far raggiungere un intenso orgasmo ai copulatori, quando le mafie diventano un sol corpo ed una sola anima con lo Stato deviato. Ora, senza allontanarci tanto da questo esempio terra-terra, le indagini a cui ho fatto riferimento ci raccontano in maniera plastica che lo Stato va contro natura quando, anziché progredire, migliorare, evolvere, ha delle componenti marce che lo ancorano allo status quo.

Volete un esempio? Ve lo faccio subito. A pagina 19 dell’ordinanza firmata dal Gip Adriana Trapani, che ha accolto e valorizzato la tesi della Dda reggina – capo della Procura Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e, dalla Dna, il sostituto procuratore nazionale Francesco Curcio, che hanno ricostruito la “Cosa unica”, che entra in azione quando lo Stato deve essere prima destabilizzato e poi stabilizzato – si legge una cosa molto ma molto interessante. «Così come per Cosa Nostra il procedere del maxi processo verso le condanne definitive era stato il preoccupante annuncio dell’inizio di un declino inarrestabile – si legge testualmente nel provvedimento – così per alcuni settori di tali apparati, lo smantellamento di Gladio (autunno 1990) era stato, per alcuni esponenti degli apparati di sicurezza e i loro sodali, ma sarebbe meglio parlare dei manovratori di costoro (vedremo come si giungerà ad individuare in non identificati appartenenti della 7 Divisione del Sismi e nel residuo, ma pervicace, piduismo gelliano il nucleo di tali forze), il segnale di un intollerabile ridimensionamento del proprio potere. Insomma, le mafie e le descritte schegge infedeli di apparati statali, sembravano accomunati, in quegli anni, ad uno stesso destino: i nuovi equilibri geo-politici stavano mutando i meccanismi di un sistema in cui erano prosperate. La loro sopravvivenza era quindi legata alla necessità di impedire che quei cambiamenti travolgessero quel sistema. Insomma, entrambe, cercavano il mantenimento dello status quo. Inteso, però, non attraverso la conservazione, al posto di comando, degli stessi uomini e delle stesse formazioni politiche (che, anzi si intendeva liquidare perché non più utili e spendibili), ma al contrario, attraverso l’ennesima applicazione dell’eterno adagio gattopardesco, “per cui si deve cambiare tutto affinché nulla cambi”. Si dovevano rinnovare del tutto le rappresentanze politiche, affinché, quelle oramai logore della prima Repubblica, fossero sostituite da nuovi partiti e nuovi uomini che continuassero a garantire l’egemonia mafiosa nelle regioni meridionali. E mentre le stragi e la strategia della tensione sarebbero stati un perfetto acceleratore di questo finto ricambio, le mafie, non senza il contributo di altre e diverse forze occulte (come si vedrà in dettaglio, sia paramassoniche piduiste che della destra eversiva) preparavano, attraverso il leghismo meridionale (che si saldava a quello settentrionale) la finta-nuova classe politica etero diretta, che aveva la precipua mission di garantire ‘ndrangheta, Cosa Nostra e le altre mafie». Che le mafie abbiamo come solo e unico obiettivo “sociale” quello di cristallizzare e conservare lo status quo è ovvio quanto lo è la genialità del calcio dipinto per 25 anni da Francesco Totti. Le mafie vivono e prosperano in un perimetro di regole che non cambiano o, se cambiano, è solo per agevolarne il cammino di corruzione e sopraffazione. Che una parte dello Stato, invece, ancori le proprie radici a quelle delle mafie per mantenere quello status quo che legittima gli uni e gli altri in un nodo mortale per la democrazia, lo trovo contro natura. Chi la pensa diversamente alzi la mano ma sappia che domani (e per tutta la settimana) aggiungerò nuovi elementi e riflessioni.

Stato “contro natura”. La Dda di Reggio Calabria svela la piaga purulenta all’interno dei servizi segreti: la Falange Armata, scrive l'1 agosto 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". Cari lettori di questo umile e umido blog, da ieri vi sto raccontando quando e come lo Stato, la magistratura e l’informazione vanno contro la propria natura che è quella di far evolvere una società, garantirne la giustizia e assicurare la conoscenza dei fatti. Lo faccio prendendo spunto dall’ultima e fondamentale indagine della Procura di Reggio Calabria (capo della Procura Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e, dalla Dna, il sostituto procuratore nazionale Francesco Curcio), che hanno ricostruito la “Cosa unica”, che entra in azione quando lo Stato deve essere prima destabilizzato e poi stabilizzato. Tutto deve cambiare affinché nulla cambi, scrive testualmente la Gip Adriana Trapani che ha firmato l’ordinanza contro Rocco Santo Filippone (‘ndrangheta) e Giuseppe Graviano (Cosa nostra). Ieri ci siamo fermati al matrimonio tra mafie e apparati dello Stato marcio per garantire lo status quo. Nulla di più logico per le mafie. Nulla di più aberrante e contro natura per lo Stato. Ci siamo (sof)fermati sulla 7ma Divisione del Sismi che, secondo le indagini reggine, era avvinto come l’edera ai residui del piduismo “gelliano”. Ma cos’era ‘sta 7ma Divisione del Sismi? Si trattava della Divisione dell’ex servizio di sicurezza che manteneva i collegamenti operativi con Gladio, il gruppo che aveva creato la sedicente Falange Armata. Breve inciso: Gladio era un’organizzazione paramilitare clandestina italiana di tipo stay-behind (“stare dietro”, “stare in retroscena”) promossa dalla Nato e organizzata dalla Cia per contrastare un’ipotetica invasione dell’Europa da parte della ex Unione Sovietica e dei paesi aderenti al Patto di Varsavia. Venne svelata bel ’90 ufficialmente da Giulio Andreotti che parlò di una struttura di informazione, risposta e salvaguardia. La Falange Armata, invece, ve la descrivo con le conclusioni alle quali giunge il Gip Trapani: «… la Procura condensa le proprie conclusioni in merito alla ideazione e all’utilizzo della sigla Falange Armata, inizialmente adottata da Cosa Nostra per nascondere la sua presenza dietro le azioni stragiste. Le ragioni dell’utilizzo di tale sigla miravano ad impedire che gli attentati fossero immediatamente ricondotti alle mafie. Se così fosse stato, le condizioni per ricattare lo Stato non ci sarebbero più state, in quanto si sarebbe trattato di un ricatto palesemente firmato. Attraverso un mirato approfondimento e richiamando i dati sopra esposti, la Procura conclude collegando tale sigla ai servizi deviati, in quanto ideata ed utilizzata da appartenenti infedeli ai Servizi di Sicurezza, sia per regolare conti interni ai servizi stessi, sia per essere messa a disposizione, inizialmente in funzione di depistaggio, delle azioni criminali eseguite delle organizzazioni mafiose. Significativa, in tal senso, è la vicenda sopra esaminata di Paolo Fulci. Filoni d’indagine — autonomi e distinti — su Cosa Nostra, sulla ‘ndrangheta e sul Sismi consentono, pertanto, di giungere a tale conclusione».  Quindi qui abbiamo già uno Stato “contro natura” sviscerato da alcuni magistrati e avallato da un giudice terzo ma torniamo alla 7ma Divisione del Sismi, dalla quale eravamo partiti. Per farlo torniamo a quel nome appena accennato sopra, quello di Paolo Fulci, ex ambasciatore che era stato, dopo una lunga e brillante carriera in diplomazia, Segretario generale del Cesis – organismo di controllo e coordinamento dei due servizi d’informazione “operativi” dell’epoca (il Sisde ed il Sismi) – fra il maggio 1991 e aprile 1993 e poi, della Dna. La Procura di Reggio Calabria ha dapprima acquisito la lunga deposizione, che aveva ad oggetto proprio la Falange Armata, resa da Fulci alla Dda di Palermo il 4 aprile 2014 e poi ha acquisito un articolato carteggio, composto da informative della Digos e documenti forniti all’aurorità giudiziaria dai servizi d’informazione e dal Cesis sul medesimo oggetto. La deposizione di Fulci alla Dda di Palermo fu particolarmente lunga. Fulci, poco dopo avere informato (in modo non dettagliato) il Comandante dell’Arma dei carabinieri dell’epoca e, ben più sommariamente, i suoi referenti politici – vale a dire i Presidenti del Consiglio in carica e quelli che gli avevano dato il mandato (il Presidente Giulio Andreotti con l’avallo dell’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga) – dopo che nell’aprile 1993 lasciò l’incarico si recò a svolgere funzioni diplomatiche oltreoceano. Vennero poi sentiti, il suo capo-gabinetto – generale Nicola Russo – e altri collaboratori, dalla Digos di Roma su delega della locale Procura. In buona sostanza, emerse che Fulci, dopo accertamenti interni fatti svolgere da personale di sua fiducia, avesse richiesto, al comandante generale dei Carabinieri di dare impulso ad attività d’indagine su circa 15 funzionari del Sismi, che prestavano servizio presso il nucleo Ossi, una sorta di gruppo di elite della Divisione del Sismi, in quanto a suo giudizio probabili o possibili appartenenti alla sedicente Falange armata (che pure aveva minacciato Fulci), una sorta di struttura occulta dei servizi deviati che svolgeva una campagna di “intossicazione”, disinformazione e aggressione ad esponenti istituzionali, che si poneva in continuità con la politica piduista dei vecchi apparati Sid/Sifar. Il generale Russo, in particolare — che non aveva partecipato alle attività di accertamento in questione, promosse da Fulci, si legge testualmente nel provvedimento firmato dal Gip Trapani — in via generale, nel corso della escussione del 3 luglio 1993 alla Digos di Roma, ribadì che Fulci legava le attività di minaccia, rivendicazione ed intimidazione della Falange, al tentativo di infangare e intimorire tutti i soggetti di rilievo istituzionale o pubblico che avevano evidenziato perplessità sulla cd Operazione Gladio individuando, anche legami fra, questa e la P2. Nel corso delle successive indagini, venivano approfonditi ulteriori aspetti e profili dei collegamenti Falange/7ma Divisione derivanti da quelle che erano state le dichiarazioni di Fulci. Ma questo lo leggeremo domani.

Stato “contro natura”. Nella stagione stragista Licio Gelli aveva in mano le mafie e i servizi deviati. Potevano vivere Falcone e Borsellino?  Scrive il 2 agosto 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". Cari lettori di questo umile e umido blog, da ieri vi sto raccontando quando e come lo Stato, la magistratura e l’informazione vanno contro la propria natura che è quella di far evolvere una società, garantirne la giustizia e assicurare la conoscenza dei fatti. Lo faccio prendendo spunto dall’ultima e fondamentale indagine della Procura di Reggio Calabria (capo della Procura Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e, dalla Dna, il sostituto procuratore nazionale Francesco Curcio), che hanno ricostruito la “Cosa unica”, che entra in azione quando lo Stato deve essere prima destabilizzato e poi stabilizzato. Tutto deve cambiare affinché nulla cambi, scrive testualmente la Gip Adriana Trapani che ha firmato l’ordinanza contro Rocco Santo Filippone (‘ndrangheta) e Giuseppe Graviano (Cosa nostra). Abbiamo fin qui analizzato il matrimonio tra mafie e apparati dello Stato marcio per garantire lo status quo. Va ora segnalato un dato di eccezionale rilievo che va ben al di là delle stesse coraggiose dichiarazioni dell’ex ambasciatore Fulci in quanto acquisito in epoca successiva alla cessazione dalla carica al Cesis dello stesso. Come evidenziato in una informativa del Servizio Antiterrorismo, non solo – e non tanto – vi era coincidenza fra le sedi periferiche del Sismi e le celle da cui provenivano le telefonate della Falange Armata ma addirittura da una attenta e scrupolosa ricognizione dei pernottamenti in albergo dei soggetti segnalati da Fulci stesso (appartenenti, come detto, alla 7ma Divisione – Ossi -) risultava che anche da un punto di vista temporale vi era coincidenza fra i soggiorni di molti di costoro e il giorno in cui dalla cella della località ove si trovavano, erano partite le minacce falangiste. Lo stesso servizio Antiterrorismo, infine, nella nota segnalava come fosse evidente, con riferimento alle minacce subite da Fulci della Falange Armata, ancora prima che prendesse servizio al Cesis e ancora prima che fosse nota la sua nomina, la riconducibilità delle minacce in questione ad appartenenti ai servizi. Secondo la Procura di Reggio Calabria e il giudice Trapani che ha firmato l’ordinanza, c’è un altissimo grado di probabilità che la Falange Armata fosse una sigla riconducibile ai cosiddetti servizi deviati. Tre filoni d’indagine – autonomi e distinti – su Cosa Nostra, sulla ‘ndrangheta e sul Sismi consentono di giungere alla stessa conclusione. Il filone investigativo sul Sismi consente di precisare che la struttura deviata si annidava all’interno della 7ma Divisione (scolta nel 1993) del Sismi. Si trattava della Divisione che si occupava di Gladio e che, non diversamente dalle mafie, vedeva messa in discussione la sua mission nel nuovo periodo storico che si andava ad aprine nei primi anni Novanta. «Non sappiamo chi, all’interno di tale divisione abbia in concreto operato a tale fine, ma le tracce processuali che si aveva il dovere di seguire portano fino a quella porta», si legge nel provvedimento. Questi soggetti, legati alle vecchie strutture dei servizi in mano a Licio Gelli, che non a caso tutelavano, concordarono – fra il 1990 ed il 1991 – con le principali mafie, Cosa Nostra, ‘ndrangheta, l’utilizzo della sigla Falange Armata nella rivendicazione di efferati delitti e stragi. Come sappiamo, negli anni successivi, ci sarebbero state sia le stragi che le rivendicazioni. Il contatto e l’accordo in questione era parallelo a quello storico che vedeva, ancora una volta, protagonisti Gelli e le mafie, nel lancio delle cosiddette liste autonomiste e andava oltre. Gli elementi indiziari convergenti consentano infatti di tracciare un legame fra Gelli e la strategia stragista nel suo complesso. Per ora mi fermo ma domani si prosegue.

Parla l’avvocato dei boss: «Ecco i misteri di via D’Amelio che non conoscete». La guerra intestina tra Riina e Provenzano, il depistaggio di Vincenzo Scarantino, le lacune delle inchieste. E la domanda più inquietante: fu davvero una 126 ad esplodere in via D’Amelio? Il racconto dell’avvocato Rosalba Di Gregorio a Manuel Montero su “Fronte del Blog” il 30 agosto 2014. Dal suo ufficio i boss sono passati in massa. Il primo fu Giovanni Bontate, fratello di Stefano, alias il Principe di Villagrazia e gran capo di Cosa Nostra prima che i Corleonesi lo ammazzassero dando vita alla seconda guerra di mafia. Poi ci furono i Vernengo e Francesco Marino Mannoia. E ancora Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, Michele Greco detto il Papa della mafia. E ora Bernardo Provenzano, Binnu u tratturi. Dallo speciale osservatorio che si è costruita, l’avvocato Rosalba Di Gregorio ha potuto raccontare così l’ “altra faccia” delle stragi. E lo ha fatto con Dina Lauricella nel libro non a caso intitolato “Dalla parte sbagliata” (Castelvecchi), un volume che rappresenta un pugno nello stomaco per chi (quasi tutti, in verità) ritiene il 41bis un regime di detenzione degno di una società civile: ne narra gli orrori da Guantanamo, le inutili crudeltà, le indescrivibili pressioni fisiche e psicologiche. Fatte anche su chi, come abbiamo scoperto di recente, ci è finito dentro per quasi vent’anni da innocente: i sette malcapitati trascinati al 41bis dal falso pentito di via D’Amelio, Vincenzo Scarantino. Ma il libro fa molto di più: mette a nudo le pecche dei pentiti, chi tra loro confessa a rate lunghissime, chi di volta in volta aggiunge, sottrae e corregge le versioni senza mai pagarne il conto. Col rischio che raccontino storie molto lontane dalla realtà. Ma è proprio sulla vicenda di Scarantino che il legale può illuminarci, dato che, alcuni di quei malcapitati innocenti, li difendeva lei.

Lei dice che si vedeva subito che le dichiarazioni di Scarantino erano una farsa.

«L’unico riscontro che esisteva alle sue parole era la 126 esplosiva che uccise Paolo Borsellino e la sua scorta. Tutto il resto erano cose surreali. Spiegò che la decisione di uccidere il magistrato era avvenuta in casa di un uomo, tale Giuseppe Calascibetta, intorno al 25 giugno 1992, a cui parteciparono capi di Cosa Nostra di qualsiasi grado, cosa già di per sé impossibile. Ma incredibile è il fatto che fu creduto quando disse di averlo sentito perché lui, che doveva aspettare fuori, ad un certo punto, avendo sete, entrò a prendere in frigorifero una bottiglia d’acqua. Anziché fermarsi o cacciarlo o qualsiasi altra iniziativa, proprio allora tutti avrebbero parlato dell’attentato da fare in via D’Amelio. Ci sarebbe da ridere se non fosse una tragedia. E il guaio è che è il meno».

Cioè?

«Scarantino raccontò le modalità con cui era stato affiliato, una specie di rimpatriata tra amici, finita al ristorante. Non era incredibile solo la narrazione, ma proprio lui, che aveva rapporti con una transessuale, cosa che un uomo d’onore non avrebbe fatto mai. Non riuscivo a credere che i magistrati lo ritenessero attendibile. E infatti non lo era. Ma quando raccontò delle torture subite per farlo confessare nessuno gli diede retta, anzi…»

Lei scrive che voi avvocati foste accusati dai giudici di cambiare le carte in tavola, per usare un eufemismo…

«Fosse solo questo. I pm Anna Palma e Nino Di Matteo ci denunciarono due volte per il caso Scarantino. La prima volta quando scoprimmo l’esistenza di tre confronti che altri pentiti avevano avuto con lui, confronti a lungo negati dai pm. Quando ne chiedemmo l’acquisizione da un altro procedimento, dissero che non servivano. Noi li denunciammo per falso, loro per calunnia. Tutto archiviato. La seconda volta accadde, quando Scarantino ritrattò la sua confessione in aula: due legali furono accusati di essere le menti occulte a disposizione di Cosa Nostra che lo avevano convinto a cambiare idea. Un’altra fesseria, archiviata per buona sorte. Oggi sappiamo che Scarantino davvero era un poveraccio, uno che di mafia non sapeva nulla, neurolabile riformato dal servizio di leva, le cui confessioni erano studiate a tavolino e per arrivare alle quali subì un trattamento orrendo nel carcere di Pianosa».

Cosa sappiamo della strage di via D’Amelio?

«Praticamente dopo tre processi non sappiamo granchè. Non si sa quando avvenne, se avvenne, una riunione deliberativa per deciderne la morte. Non sappiamo il movente. Non sappiamo da dove fu azionato il telecomando esplosivo. Non sappiamo quanti parteciparono, perché ognuno conosceva un segmento delle azioni. Non sappiamo neppure come faceva Cosa Nostra a sapere dell’arrivo di Borsellino proprio quella domenica. Le nuove indagini stanno cercando di far luce, ma sono penalizzate di ventidue anni. E da vari elementi che agli atti non si trovano».

E quelli che hanno partecipato?

«Dicono tutti di aver preso ordini da Salvatore Biondino, di solito definito l’autista di Riina, in realtà il reggente del mandamento di S.Lorenzo, il cui capomandamento Giuseppe Giacomo Gambino, era stato arrestato».

La 126 esplosiva. Nel libro lei esprime dubbi sul fatto che sia stata davvero quella l’arma usata in via D’Amelio.

«Guardi, sulla copertina del libro c’è una foto un po’ ridotta rispetto a quella che ho qui nel mio ufficio, scattata dal palazzo di fronte a quello della sorella del giudice Borsellino. È stata fatta la mattina del 20 luglio 1992. La strada è deserta. Eppure dopo le 13,30 venne recuperato lì, di fianco alla Croma che c’è sulla foto senza nulla intorno, il motore della 126, una cosa da 80 kg, non roba piccola, mi spiego? Ho chiesto di acquisire tutti i filmati e le foto del 19 luglio, il blocco motore non appare da nessuna parte. Nessuno lo vede questo motore, 80 kg che regge in tre processi. Noi sappiamo però quattro cose. La prima è che un pentito, Giovan Battista Ferrante, disse che loro l’esplosivo l’avevano piazzato in un fusto ricoperto da 200 litri di calce e non nella 126. La seconda è che il consulente di parte Ugolini chiese in aula come mai non fosse stato repertato un grosso frammento “stampato” sul cratere dell’esplosione. La terza è che la scientifica di Palermo riempì 60 sacchi della pattumiera con tutto ciò che era stato trovato a terra, ma senza mettere a verbale reperto per reperto inviandole a Roma, a disposizione solo dell’Fbi. La quarta la raccontò Scarantino in aula al momento di ritrattare la confessione. Disse che, quando era sotto protezione, godeva della compagnia sostanziale e inspiegabile dei poliziotti del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino. E ricordò che uno di loro gli aveva spiegato come in realtà la 126 fosse stata fatta esplodere in una discarica e i pezzi poi portati lì per incolpare gli imputati. Naturalmente fu giudicata “ridicola” la sua affermazione. Però…».

Però?

«Ci sarebbe una quinta cosa, un’agenzia Ansa scomparsa».

Prego?

«Un’ora dopo la strage uscì un’agenzia nella quale si diceva che grazie ad una felice intuizione investigativa si era scoperto che la causa dell’esplosione era stata un’autobomba 126. Un’ora dopo! Ne feci copia, una per me e una da depositare. La mattina successiva entrai in ufficio ed entrambe erano sparite. L’agenzia sull’archivio Ansa oggi non c’è. D’altra parte c’era confusione. Il pm di turno fu avvisato della strage alle 18,40, quando sulla scena del crimine era entrato l’universo mondo. Solo un quarto d’ora dopo l’area fu recintata. Nel frattempo, mentre in via D’Amelio si addensavano centinaia e centinaia di persone, la polizia aveva capito che l’autobomba era una 126. Non me lo spiegherò mai».

Lei non crede dunque alla ricostruzione di Spatuzza?

«Certo, ma Spatuzza racconta solo del furto della 126. Ciò che accadde una volta consegnata l’auto non può saperlo e infatti non lo dice, perché fu fatto allontanare da Palermo».

Non ritiene valido neppure il teorema Buscetta sull’unitarietà e l’aspetto verticistico di Cosa Nostra.

«Con queste ultime sentenze su via D’Amelio sappiamo che il mandamento della Guadagna, quello di Pietro Aglieri, con le stragi del ’92 e ‘93 non c’entrava nulla. E non poteva che essere così, perché ad Aglieri Riina aveva chiesto di ammazzare uno dei parenti di Totuccio Contorno, condannato a morte dai Corleonesi. Ma Aglieri, quando aveva visto la vittima con il bimbo in braccio si era rifiutato di ucciderlo. Lo riferì a Provenzano e lui fu d’accordo. Ma Aglieri non entrò più nelle grazie di Riina. Fu Borsellino a dire che Riina e Provenzano erano due pugili che si guardavano in cagnesco. Si trattava di un gruppo non più unitario nelle idee e nel metodo. Io l’ho constatato in diverse sentenze, con assoluzioni del gruppo di Provenzano rispetto a fatti in cui quelli di Riina erano stati condannati. Con Riina c’erano Brusca, Graviano e Spatuzza, non Provenzano. D’altra parte il pentito Giuffrè disse che già nel 1989 Riina gli aveva chiesto a che ora Binnu uscisse di casa. Evidentemente perché lo voleva ammazzare».

L’agenda rossa di Borsellino che fine può aver fatto?

«Guardi, intanto Arnaldo La Barbera, il capo della mobile di Palermo e poi del gruppo Falcone-Borsellino, qualche giorno dopo la strage disse che l’ “agenda telefonica” di Borsellino molto probabilmente era andata distrutta nell’esplosione e che non era stata ritrovata. Un’agenda che il sostituto procuratore Ignazio De Francisci diceva essere importantissima. Poi sappiamo che l’agenda marrone era stata ritrovata e, dalla testimonianza del pm dell’epoca Fausto Cardella al Borsellino quater sappiamo che anche l’ “agenda telefonica” è stata infine trovata. Ed era nella borsa di Borsellino apparsa, non si sa come, proprio nell’ufficio di La Barbera. Ecco, intanto sappiamo questo, che La Barbera fosse o meno il collaboratore dei servizi segreti col nome di Rutilius. Ma se per via D’Amelio i misteri sono ancora moltissimi, non è che per la strage di Capaci noi si sappia poi moltissimo».

Cioè?

«Neppure lì sappiamo molto sulla riunione deliberativa per ammazzarlo. Nel senso che una sentenza di Catania che riuniva stralci delle stragi di Capaci e di via D’Amelio colloca la riunione tra il novembre e il dicembre del 1991, basandosi sulle dichiarazioni del pentito Nino Giuffrè. Giuffrè raccontò che nell’occasione si erano ritrovati tutti i capi. E Riina, avendo avuto notizie che il maxiprocesso non sarebbe stato cassato, disse che era arrivata l’ora della resa dei conti. E che era venuto il tempo di ammazzare Lima, Falcone e Borsellino. A marzo, aveva dunque mandato a Roma Gaspare Spatuzza e altri per pedinare Falcone e poi ammazzarlo per vendetta. Senonchè, alla fine, il gruppo era stato chiamato indietro da Biondino perché bisognava fare la strage di Capaci. Come si passa dalla vendetta con un colpo di pistola alla strage di Capaci? Chi, quando, dove, come e perché lo ha deciso? Non si sa».

Riina: mi fece arrestare Provenzano. Avrebbe confidato queste parole al poliziotto Bonafede nel 2013. E sul bacio di Andreotti: «Lei mi vede a baciare quell’uomo? Però sono sempre stato andreottiano», scrive “Il Corriere del Mezzogiorno” il 30 giugno 2016. La cattura, la presunta trattativa e il leggendario bacio ad Andreotti. Al processo Stato-Mafia piombano, e sono sempre macigni, le parole di Totò Riina. Utili per una serie di riscontri. In particolare, vengono riportate le confidenze che Riina avrebbe fatto al poliziotto Michele Bonafede nel carcere milanese di Opera. «A me mi hanno fatto arrestare Bernardo Provenzano e Ciancimino e non come dicono i carabinieri» avrebbe detto l’ex Capo dei capi all’agente il 21 maggio 2013. L’episodio, ricordato oggi dal poliziotto durante il processo Stato-mafia, confermerebbe quanto detto dal figlio di Ciancimino, Massimo, che per primo ha parlato del ruolo del padre e del capomafia di Corleone nella cattura di Riina. Al boss i carabinieri sarebbero arrivati grazie all’indicazione del covo segnata da Provenzano nelle mappe catastali fattegli avere dal Ros attraverso Vito Ciancimino. L’udienza si sta svolgendo nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. «Ma è vera la storia del bacio ad Andreotti?» gli chiese poi l’agente. «Appuntato, lei mi vede a baciare Andreotti? - rispose il boss - Le posso solo dire che era un galantuomo e che io sono stato dell’area andreottiana da sempre». Su un’altra frase del boss, raccolta da Bonafede e da un altro agente, Francesco Milano, il 31 maggio 2013 mentre si recavano nell’aula per le videoconferenze del carcere («Io non ho cercato nessuno, erano loro che cercavano me»), in aula sono emerse due versioni discordanti. Bonafede ricorda che il boss avrebbe aggiunto «per trattare», mentre Milano ha riferito che il capomafia disse in siciliano stretto: «Il non cercai a nuddu (nessuno,ndr), furono iddi (loro, ndr) a cercare a mia (a me, ndr)». Senza aggiungere altro, né spiegare il contesto. «Io sono stato 25 anni latitante in campagna - avrebbe riferito a Bonafede, come scritto dall’agente nella relazione di servizio - senza che nessuno mi cercasse, come è che sono responsabile di tutte queste cose? Nella strage di Capaci mi hanno condannato con la motivazione che essendo il capo di Cosa Nostra non potevo non sapere. Lei mi ci vede a confezionare la bomba di Falcone?». Poi il padrino avrebbe aggiunto: «Brusca non ha fatto tutto da solo. Lì c’era la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l’agenda del giudice Paolo Borsellino. Perché non vanno da quello che aveva in mano la borsa e non si fanno dire a chi ha consegnato l’agenda? In via D’Amelio c’entrano i servizi che si trovano a Castello Utveggio e che dopo cinque minuti dall’attentato sono scomparsi, ma subito si sono andati a prendere la borsa».

Massacri e pizzini, muore Provenzano il padrino dei misteri. Latitante per 43 anni, guidò i corleonesi e trattò con la politica, scrive Francesco La Licata il 13/07/2016 su "La Stampa". Con Bernardo Provenzano scompare l’ultimo padrino «Old style»: il capo, cioè, che preferisce comandare più con la persuasione che col pugno di ferro. Non che non fosse in grado di fare male a chi «deviava», anzi. Solo che lui amava accreditarsi come persona ragionevole. E allora potrebbe trovare una spiegazione la sfilza di nomignoli, anche contraddittori, che il boss si è meritato durante la sua lunga carriera.  Il nome che gli rimarrà per sempre è Binnu, diminutivo di Bernardo usato nel Corleonese. Gli amici, i familiari lo hanno sempre chiamato così. Per i sudditi era obbligatorio il don e perciò «don Binnu». Da giovane aveva un temperamento forte e, dunque, non era famoso per le doti di saggezza che gli verranno riconosciute nella maturità. No, lui era famoso come «Binnu ‘u tratturi», per la straordinaria determinazione con cui spianava gli avversari. Nel 1958 aveva 25 anni e, ricordano alcuni pentiti, «sparava come un Dio». Allora, appena tornato dal servizio militare con una lettera di esenzione per inadeguatezza fisica, preferì imbracciare le armi per combattere la guerra privata contro l’esercito del vecchio Michele Navarra, medico, segretario politico della dc e capomafia. Il suo comandante era Luciano Liggio, l’amico del cuore Totò Riina. Il sangue scorreva tra i vicoli di Corleone, Binnu compì veri «atti di valore» e durante un’azione pericolosa rimase ferito alla testa. In ospedale disse che non capiva: «Stavo camminando e ho sentito qualcosa che mi ha colpito al capo». Finì sotto processo con tutti gli altri, Riina compreso, ma al dibattimento di Bari arrivò il «liberi tutti». Ci furono altri morti, ma Binnu si era fatto ancora più furbo e quando lo cercarono era già uccel di bosco. Primavera 1963: ebbe inizio in quella data la lunga latitanza di Provenzano, conclusa a Montagna dei cavalli (Corleone, naturalmente) l’11 aprile del 2006, 43 anni dopo. Clandestinità dorata, attenzione. Perché Binnu si è sempre mosso a suo piacimento: andava a Cinisi, regno di don Tano Badalamenti, perché lì «filava» con Saveria, l’amore della sua vita e la madre dei suoi due figli, Angelo e Francesco. In clandestinità si sono sposati, Binnu e Saveria: rito religioso celebrato da preti compiacenti, matrimonio non registrato, situazione regolarizzata dopo la sua cattura. Una volta preso, gli venne chiesto se fosse coniugato e lui rispose: «Col cuore sì, per la legge no. Ma presto regolarizzerò questa situazione». E così fu: la «messa a posto» avvenne in carcere. Binnu è un maestro della clandestinità: ha abitato a Palermo, a Bagheria, a Corleone; ha girato la Sicilia in lungo e largo, è riuscito a farsi operare alla prostata in una clinica specializzata di Marsiglia, ottenendo persino il rimborso delle spese mediche dalla Asl. Ha viaggiato in barca, dentro un’auto nascosta all’interno di un furgone e nessuno lo ha mai scoperto. Teneva riunioni della cupola nei casolari di campagna e selezionava attentamente gli amici che chiedevano udienza. Con la maturità è cambiato il carattere. L’ultima volta che viene visto in azione come «’u tratturi» era il dicembre del 1969, anno della strage di viale Lazio. Lui, Totò Riina e un gruppo di «corleonesi» massacrano l’odiato Michele Cavataio e i suoi amici: quattro morti, ma muore anche Calogero Bagarella, fratello di Leoluca, luogotenente e cognato di Totò Riina. Quella volta Provenzano finisce Cavataio colpendolo alla testa col calcio della pistola che gli si era inceppata e poi tenta di dargli fuoco. Eccesso di ferocia? Anche di calcolo, visto che si sapeva che Cavataio teneva una lista scritta delle famiglie di Cosa nostra e i relativi adepti. Ecco, quel biglietto andava distrutto. Un lungo periodo di anonimato, poi si saprà agevolato, in qualche modo, dai carabinieri, precede la comparsa dell’«altro» Binnu: l’uomo riflessivo, il principe della mediazione, l’esecutore della «volontà di Dio». Il freddo calcolatore, l’uomo d’affari e, quindi, «’u ragiuniere», affidabile anche per certe istituzioni tolleranti. Il dispensatore di appalti e affari che - al chiuso degli uffici della Icre di Bagheria, un’impresa di proprietà del boss Nardo Greco - pianificava la spartizione dei lavori pubblici ottenuti tramite le sue amicizie politiche. Già, la politica. A differenza di Riina (che non vantava grandi amici), Provenzano un buon protettore, e addirittura complice, lo aveva. Era Vito Ciancimino, democristiano, sindaco e assessore al Comune di Palermo. Erano amici d’infanzia, i due. Racconterà poi Massimo Ciancimino, figlio del sindaco mafioso, che Binnu aveva una vera e propria adorazione per Vito. Si erano conosciuti da piccoli, a Corleone, quando Provenzano (terzo di sette figli) pativa la fame e Vito non gli negava biscotti e una tazza di latte. Da grandi erano rimasti amici: Binnu gli dava del lei e lo chiamava «ingegnere» anche se era soltanto geometra, l’altro gli dava del tu, imponeva la via politica e garantiva l’arricchimento dell’intera consorteria mafiosa attraverso i soldi pubblici. Ma quando Binnu e Vito «correvano» insieme, già una rete di complicità girava intorno a loro. Racconterà Massimo che il padre finì per diventare una specie di anello di congiunzione fra rappresentanti delle Istituzioni (che ambivano di stare a contatto con mafiosi e affaristi) e il vertice di Cosa nostra. Siamo nel periodo delle stragi e della svolta terroristica imposta da Totò Riina. Binnu non l’ha mai condivisa perché convinto, saggiamente, che «non si può fare la guerra allo Stato». Ma poteva esprimere soltanto pareri, visto che il momento delle decisioni spettava al capo, a Totò Riina. Raccontava il pentito Nino Giuffrè che «Provenzano a Riina spesso discutevano e non erano d’accordo, ma non si alzavano dal tavolo se non avevano raggiunto un accomodo». Chissà, forse alla vigilia delle stragi di Falcone e Borsellino, nel 1992, Binnu era riuscito ad ottenere dal capo la possibilità di tirar fuori i familiari. Sarà per questo che donna Saveria, nella primavera di quell’anno, improvvisamente torna a Corleone, riapre la casa degli avi ed esce ufficialmente dalla clandestinità, insieme coi figli che, così, assumono una vera forma. Finiscono di essere dei fantasmi per entrare nell’anagrafe del comune di Corleone, seppure offrendo pochi scampoli di verità sulla loro trascorsa latitanza. È il momento più difficile di Cosa nostra. Riina deve affrontare il suo popolo e convincerlo che non tutto è perduto con quella maledetta sentenza del maxiprocesso voluto da Falcone e Borsellino. Promette che sarà posto rimedio a quella batosta e che i «traditori politici» avranno quello che si meritano. Scatta la rappresaglia: la mafia uccide Ignazio Salvo, il deputato dc Salvo Lima, uccide Giovanni Falcone in quel modo eclatante e, soltanto 57 giorni dopo, mette in scena il bis con l’attentato a Paolo Borsellino. Questo, a sentire i collaboratori di giustizia e le risultanze di importanti indagini, è quanto imposto dalla «linea Riina», con la prudente astensione di Provenzano. Anzi, con l’opposizione sotterranea di Binnu. Così raccontano primattori e comparse dell’indagine che è già sfociata nel processo sulla «trattativa Stato-mafia». Una sceneggiatura che consegna addirittura l’immagine di un Binnu collaboratore dei carabinieri (e quindi risparmiato e tenuto libero), nel tentativo di garantire una pax mafiosa e fermare la follia stragista di Totò Riina, che avrebbe portato anche all’eliminazione fisica di alcuni politici considerati «traditori» rispetto alle promesse fatte e non mantenute. Ma questo è un capitolo ancora aperto e foriero di grandi attriti politico-istituzionali. Ha già provocato feroci discussioni e divisioni un dibattimento che annovera tra gli imputati mafiosi del calibro di Provenzano e Riina, politici come Mannino, poi assolto, Dell’Utri e gli alti ufficiali dei carabinieri Mori e Subranni. Tutti accusati di aver condotto una vera e propria trattativa sulla base anche di richieste ufficiali della mafia, ufficializzate nel cosiddetto «papello», cioè un elenco di benefici (tra l’altro l’alleggerimento del carcere duro, l’abolizione dell’ergastolo, della legge sui pentiti e sul sequestro dei beni ai mafiosi) consegnato allo Stato italiano (attraverso i carabinieri) da Vito Ciancimino, con la «benedizione» di don Binnu. Tutto ciò, ovviamente, ha appannato il prestigio di Provenzano. I suoi amici (in particolare il boss Matteo Messina Denaro) gli hanno addirittura rimproverato poca cautela nella gestione della comunicazione attraverso i suoi famigerati «pizzini». E non si può negare che qualche problema l’ha creato la scoperta dei duecento e più bigliettini trovati nel suo covo di Montagna dei cavalli. Ma quando è stato preso, don Binnu, era già votato alla «pensione». Non era più «u tratturi» e neppure «u ragiunieri»: forse si ritrovava ancora nei panni del vecchio mediatore, nell’intento di poterla sfangare e tramontare senza l’onta e il marchio del collaboratore. I pizzini, infatti, ci lasciano l’immagine che gli è più congeniale. L’eterno «moderato» che proprio se deve ordinare l’esecuzione di qualcuno lo fa congiungendo le mani sul petto e sussurrando: «Sia fatta la volontà di Dio».

Le Iene Show. Puntata del 22 novembre 2016. Matteo Viviani ha intervistato l’ex agente dei servizi segreti noto come Agente Kasper. L’uomo ha ripercorso con la Iena la sua carriera nell’intelligence, le sue esperienze da infiltrato e le operazioni internazionali a cui ha preso parte nel corso della sua vita.

LE BRIGATE ROSSE.

Le Brigate rosse. 40 anni fa: poteri occulti e lunga scia di sangue, scrive il 16 marzo 1978 Valter Vecellio su “la Voce dell'isola". Al terrorismo tutto l’Italia paga un pesantissimo tributo: in 20 anni almeno 428 morti, 14 mila atti di violenza politica. Cosa resta di quegli anni? È materia di amara riflessione per tutti. Di certo i terroristi sparano, uccidono, vengono usati da poteri occulti e settori deviati dello Stato. Qualcuno magari pensava davvero di colpire al cuore l’odiato potere. Ma qui non è più cronaca; diventa storia. 16 marzo di 40 anni fa: è il giorno in cui le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro e uccidono i cinque uomini della scorta. Moro è il protagonista di una politica scomoda, impasto di prudenza e di audacia: 55 giorni dopo lo uccidono. Uno scempio di umanità che segna l’apice del terrorismo rosso, ma anche l’inizio della sua irreversibile crisi. Al terrorismo l’Italia paga un pesantissimo tributo: in 20 anni almeno 428 morti, oltre 1.000 feriti, almeno 14 mila gli atti di violenza politica.

Come inizio prendiamo il 12 dicembre 1969, la strage di piazza Fontana a Milano: una bomba collocata nella Banca Nazionale dell’Agricoltura,17 morti. Il paese precipita in un buio periodo di violenza. Una follia di cui sono vittime forze dell’ordine, magistrati, politici, sindacalisti, cittadini comuni. Ne ricordiamo alcuni episodi. Il commissario Calabresi: per la magistratura vittima di un gruppo di fuoco di Lotta Continua; il rogo di Primavalle: aderenti a Potere Operaio incendiano la casa di un dirigente missino, tra le fiamme muoiono i due figli di 22 e 8 anni. Poi le stragi fasciste, nel 1974 a Brescia, piazza della Loggia, e al treno Italicus; in quell’anno le Brigate Rosse rapiscono il giudice Mario Sossi.

Virgilio Mattei, 22 anni, figlio di Mario Mattei, segretario locale del Movimento Sociale Italiano, ucciso nel rogo di Primavalle (Roma) insieme al fratellino di 8, da aderenti a Potere Operaio il 16 aprile 1973.

Virgilio Mattei, 22 anni, figlio di Mario Mattei, segretario locale del Movimento Sociale Italiano, ucciso nel rogo di Primavalle (Roma) insieme al fratellino di 8, da aderenti a Potere Operaio il 16 aprile 1973.

Ogni giorno un agguato, un delitto. Tra le prime vittime due magistrati, Francesco Coco, assassinato dalle Brigate Rosse; Vittorio Occorsio, ucciso dai fascisti di Ordine Nuovo; sempre le Brigate Rosse uccidono il vicedirettore della Stampa, Carlo Casalegno. Il culmine con l’assassinio di Moro. Poi, come se qualcuno abbia detto: basta. Inizia la parabola discendente, non meno sanguinosa: le Brigate Rosse uccidono tra gli altri Guido Rossa, Emilio Alessandrini, Valerio Verbano, Mario Amato. E secondo la magistratura porta la firma della destra estrema la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980: 85 morti, oltre 200 feriti.

La strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, 85 morti, oltre 200 feriti: per la magistratura la firma è della destra estrema.

1980, strage di Bologna. Cosa resta di quegli anni? E’ materia di amara riflessione per tutti. Di certo i terroristi sparano, uccidono, vengono usati da centri di potere occulti e settori deviati dello Stato. Qualcuno di loro magari pensava davvero di colpire al cuore l’odiato potere. Ma qui non è più cronaca; diventa storia.

La storia, dunque. Quel 16 marzo a via Fani, questa forse è una delle poche cose sicure, si scrive una delle pagine più buie e tragiche della nostra storia recente. Le Brigate Rosse pensano di colpire mortalmente il cuore dello Stato. Indubbiamente si blocca una politica sgradita sia a Est che a Ovest, che mette in discussione equilibri nazionali e internazionali raggiunti quarant’anni prima. Il muro di Berlino era ancora ben solido. Al tempo stesso, uccidendo Moro le Brigate Rosse segnano anche l’inizio della loro fine. Prima, erano le Brigate Rosse cosiddette “storiche”: quelle dei Renato Curcio, delle Mare Cagol, degli Alberto Franceschini. Ingozzati di nozionismo marxisticheggiante mal digerito, il mito di una Resistenza ora e sempre salvifica e purificatrice. Prima semplici, simbolici, sequestri come quello, nel 1973, di Ettore Amerio, capo del personale della FIAT Mirafiori. Poi, un anno dopo, a Padova la svolta: quando uccidono due militanti del Movimento Sociale. Poi, ecco le Brigate Rosse di Mario Moretti, con solidi e anche sordidi contatti con l’Est europeo, movimenti palestinesi estremisti, ambienti inquinati da servizi segreti di ogni tipo. Su Moretti da sempre gravano sospetti mai del tutto fugati, da parte dei suoi stessi compagni. È lui che gestisce in prima persona l’affaire Moro. Ancora oggi ci si interroga su chi lo abbia ispirato, sui “suggeritori” occulti. C’è anche un “dopo” Moretti, che possiamo identificare con Giovanni Senzani. E’ l’ideologo terrorista che gestisce il rapimento di Ciro Cirillo, che vede coinvolti in una oscura trattativa gli immancabili servizi segreti e la camorra di Raffaele Cutolo; lo stesso anno in cui, a Verona, viene rapito il generale americano James Lee Dozier, liberato da un blitz dei NOCS. Sono gli anni del declino delle Brigate Rosse. Un declino, lungo, doloroso, scandito sempre da rapimenti, attentati, sangue, morti; ma ormai è evidente che non servono più a nessuno. Il delitto Moro è uno spartiacque anche per loro: il sogno di colpire al cuore il Potere dello Stato si è rivelato solo un incubo, cementato da inganni e stupidità.

Caso Moro. I brigatisti rossi? Figli dell’Italia dell’odio antifascista e resistenziale, scrive il 19 marzo 2018 Mario Bozzi su Barbadillo e Secolo d’Italia. Il quarantesimo anniversario del massacro di Via Fani, con il sequestro di Aldo Moro, leader della Dc, da parte delle Brigate Rosse, ha confermato, oggi come ieri, un oggettivo ritardo culturale nell’interpretazione delle cause della stagione del terrorismo. A leggere certe ricostruzioni si ha quasi l’impressione che gli autori del massacro della scorta e del rapimento fossero venuti da un altro pianeta e non fossero invece i figli legittimi dell’Italia dell’epoca, di ben chiare ascendenze storiche e ideologiche. Al di là dei “misteri insoluti”, su cui ci si è soffermati nelle diverse ricostruzioni offerte in questi giorni (il numero dei partecipanti all’azione, il luogo della prigionia, i “depistaggi”, il ruolo di soggetti stranieri, ecc…) esistono alcuni fattori “certi” che erano alla base del sequestro Moro e dell’esperienza terroristica del decennio settanta.

Ascendenze e connivenze culturali. A legittimare ideologicamente l’operato dei terroristi era la visione dello Stato-nemico, prodotto dell’antagonismo di classe e strumento di sfruttamento della classe oppressa (Lenin), ed il nuovo radicalismo marxista-leninista, frutto delle esperienze guerrigliere in America Latina e nel Vietnam. La “visione” era in fondo simile a quella dei Partiti Comunisti “legalitari” (l’instaurazione della “dittatura del proletariato”), diversa la strada per raggiungere il potere. A difendere questo quadro d’assieme è il sostanziale asservimento della cultura italiana alla logica egemonica di stampo gramsciano, ma fatta propria da Togliatti.  Riviste, case editrici, università sono state il “brodo di coltura” di questa doppia verità: in apparenza pluralista ed aperta al dialogo, in realtà alimentata dalle aspettative rivoluzionarie di stampo marxista-leninista: “I filosofi hanno soltanto ‘interpretato’ variamente il mondo, ora si tratta di ‘trasformarlo’” (Marx). “Il terrorismo è una forma di azione militare che può essere utilmente applicata o addirittura rivelarsi essenziale in certi momenti della battaglia” (Lenin).

La continuità antifascista. L’appello  mitico alla Resistenza non è solo dettato dal cosiddetto “pericolo stragista”, quanto soprattutto dall’idea di una rivoluzione antifascista incompiuta e  di un suo ulteriore sviluppo  sulla strada della liberazione socialista dallo sfruttamento e dall’ oppressione capitalista, fino al passaggio – segnalato da Alberto Franceschini, cofondatore, con Renato Curcio, delle Brigate Rosse – delle armi usate durante la Resistenza ai “nuovi partigiani”: un passaggio reale e simbolico, che, durante gli Anni Cinquanta-Sessanta,  era stato ideologicamente  rappresentato  – all’interno del Partito Comunista – da Pietro Secchia, vicesegretario del partito dal 1948 al 1958,   e poi da Pietro Longo, segretario dal 1964 al 1972,  il quale, ancora nel 1970, arriva a scrivere (su “l’Unità”) di una “nuova Resistenza”, in grado di realizzare nel nostro paese  “ … una nuova decisiva avanzata democratica, liberandolo da ogni subordinazione all’imperialismo americano, dalla arretratezza e dalla miseria”.

L’ambiguità politica. Sia la Dc che il Partito Comunista hanno giocato per anni sulla politica degli “opposti estremisti”, dei “compagni che sbagliano”, delle “sedicenti Brigate Rosse”, favorendo così la crescita del terrorismo armato, che non a caso  – secondo una coerente  logica “antifascista” – aveva iniziato colpendo un sindacalista della Cisnal (Bruno Labate, sequestrato il 12 febbraio 1973, a Torino e sottoposto ad un “processo proletario”) e  due  militanti missini (Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, uccisi durante l’ assalto delle Br alla sede del Msi di Padova nel  giugno 1974). C’è una complicità (morale) e una sottovalutazione (politica) dietro l’emergere delle Brigate Rosse, che chiamano in causa la principale forza di governo dell’epoca ed il maggiore partito comunista dell’occidente. Ad unirli non c’era solo la strategia del “compromesso storico” quanto l’idea di un possibile abbraccio tra cattolicesimo e marxismo, ben analizzato da Augusto Del Noce, il quale all’epoca denunciava il cosiddetto “progressismo cristiano”, autentica quinta colonna nel campo cattolico e moderato, culturalmente disarmato e quindi pronto a qualsiasi compromesso. Il “trauma” provocato dal sequestro di Moro (1978) e poi dall’assassinio (1979) dell’operaio comunista Guido Rossa da parte delle Br, obbligherà sia la Dc che il Pci a superare la fase dell’ambiguità politica per cogliere i tratti reali del fenomeno terroristico nel nostro paese. Ma fu certamente una presa d’atto tardiva, visti i grandi costi umani degli “anni di piombo”. Su un manifesto, che all’epoca fece scalpore, diffuso dal Fronte della Gioventù, c’era scritto “Moro: chi semina vento raccoglie tempesta”. Dopo quarant’anni – al di là di ogni retorica rievocazione – anche da lì bisogna partire per cogliere il senso di quella stagione, pervasa dall’odio ideologico e dalla tempesta che ne seguì e che travolse tutta l’Italia, con la sua lunga striscia di sangue. Per fissarne le responsabilità reali. Per non dimenticare.

RILETTURA CRITICA DELLA STORIA DELLE BRIGATE ROSSE E DEL RAPIMENTO DI ALDO MORO.

Moro e «i fasti del 40ennale»: il post che fa litigare gli ex Br. L’ex terrorista Balzerani: «Chi mi ospita?». Etro: «Vergogna, ci vediamo all’inferno», scrive Fabrizio Caccia il 15 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Brigatisti contro. A due mesi dall’anniversario di via Fani, 16 marzo 1978, il giorno del sequestro di Aldo Moro e dell’eccidio della sua scorta, compare un post su Facebook: «Chi mi ospita oltre confine per i fasti del 40ennale?». Il tono sembra ironico. Chi scrive, però, non è una persona qualunque: è Barbara Balzerani, l’ex «Primula Rossa» delle Br, che in via Fani quel giorno c’era, anche se non sparò. Il post sul profilo Fb della Balzerani è del 9 gennaio e proprio ieri, poco prima d’essere cancellato, viene letto da un altro ex brigatista, Raimondo Etro, che reagisce male e scrive a sua volta una lettera aperta («Signora Barbara Balzerani, mi rivolgo a lei...») per «chiederle di tacere semplicemente in nome dell’umanità verso le vittime, inclusi quelli caduti tra noi...». La missiva viene inviata per conoscenza a poche altre persone, tra cui Giovanni Ricci, figlio di Domenico, l’appuntato dei carabinieri che in via Fani guidava l’auto dove viaggiava Aldo Moro e l’onorevole dem Gero Grassi, membro della commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto Moro, che più tardi gli risponderà: «Grazie. Bravo!». Anche Etro, però, non è uno qualunque: a lui furono affidate in custodia le armi di via Fani, una settimana dopo la strage: «C’erano un kalashnikov, una mitraglietta, alcune pistole - ricorda l’uomo parlando col Corriere - Le ebbi, mi pare, da Morucci o Casimirri, le tenni in casa di mia madre per un po’, vicino piazza Mazzini...». Oggi ha 61 anni e vende libri e francobolli su eBay, ma si è fatto 16 anni di carcere per il concorso nella strage di via Fani (partecipò nei mesi precedenti soltanto alla preparazione) e nell’omicidio del giudice Riccardo Palma («La mattina del 14 febbraio 1978 - racconta - c’ero anch’io insieme a Prospero Gallinari, Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri. Ma la mia pistola, diciamo, s’inceppò...»). La lettera aperta alla sua ex compagna di lotta è durissima. Etro, tra l’altro, scrive: «Dopo avere letto il suo commento su Facebook nel quale – goliardicamente dice lei – chiede di “essere ospitata oltre confine per i fasti del quarantennale”.... avendo anch’io fatto parte di quella setta denominata Brigate rosse...provo vergogna verso me stesso...e profonda pena verso di lei, talmente piena di sé da non rendersi neanche conto di quello che dice». C’è un passaggio, poi, piuttosto inquietante: «Per nascondere di avere agito per conto e per fini che con la cosiddetta rivoluzione proletaria non avevano nulla a che fare lei nega addirittura l’evidenza. Non voglio entrare nel merito delle chiacchiere “chi c’era o chi non c’era in via Fani, infiltrazioni, depistaggi o altro”. Mi limito a dire semplicemente: “ci hanno lasciati fare”....». Etro ha rotto da tempo coi “compagni” e col suo passato e anche la Balzerani, che compirà giusto domani 69 anni, oggi è una libera cittadina che scrive libri, avendo finito di scontare la sua pena nel 2011. Ma mai pentita nè dissociata. E nella lettera Etro la incalza: «Le Brigate rosse hanno rappresentato l’ultimo fenomeno di un’eresia politico-religiosa che nel tentativo maldestro di portare il Paradiso dei cristiani sulla terra...ha creato l’Inferno...Inoltre lei dimentica che chi le permette di parlare liberamente...è proprio quello Stato che noi volevamo distruggere...così pregni di quella stessa schizofrenia che al giorno d’oggi affligge i musulmani che da una parte invidiano il nostro sistema sociale, dall’altra vorrebbero distruggerlo». E la chiusa è altrettanto drammatica: «Il silenzio sarebbe preferibile all’ostentazione di sè, per il misero risultato di avere qualche applauso da una minoranza di idioti che indossano la sciarpetta rossa o la kefiah. Ci rivedremo all’Inferno».

La «postina» del sequestro che si dissociò in carcere. Il ritratto di Adriana Faranda, scrive il 3 Febbraio 2016 "Il Tempo". Fu tra i dirigenti della colonna romana delle Br che organizzò ed eseguì il rapimento Moro. Adriana Faranda, 66 anni, entrò a far parte delle Brigate Rosse con l’allora suo compagno Valerio Morucci nell'autunno 1976. Si distaccò dall’organizzazione per contrasti sulle scelte strategiche nel gennaio 1979. Arrestata il 30 maggio di quell’anno con Morucci, durante gli anni ottanta si è dissociata dal terrorismo e ha beneficiato in seguito delle riduzioni di pena previste dalla legge. È uscita dal carcere nel 1994.

Inizialmente la Faranda entra in Potere Operaio, nel 1970 sposa Luigi Rosati (all'epoca dirigente di PotOp): dalla loro unione nasce nel 1971 la figlia Alexandra Rosati. Nel 1973 con Bruno Seghetti, Morucci e altri fu tra i fondatori del gruppo estremistico Lotta Armata Potere Proletario, poi l’adesione alle Bierre. Con Mario Moretti, Prospero Gallinari, Seghetti, Morucci, Germano Maccari e Barbara Balzerani organizzò il sequestro di Aldo Moro. Durante i drammatici 55 giorni del sequestro fece la «postina». Insieme con Morucci si oppose all'omicidio del politico e questo la portò all'uscita dall'organizzazione, che lasciò per tentare di creare con Morucci e altri una nuova formazione di lotta armata, il Movimento Comunista Rivoluzionario (MCR) . Era però stata riconosciuta dopo il rapimento dello statista come colei che aveva acquistato le finte uniformi usate per compiere l'agguato di via Fani e fu in seguito arrestata a Roma nel maggio 1979 insieme al Morucci e a Giuliana Conforto. Fu tra i promotori del movimento della «dissociazione».

A Mosca la verità sulla morte dello statista. Stretti legami tra le Br e gli agenti del KGB. Antonio Selvatici "Nel luglio del 1977 c’è stato un incontro tra le Br e il KGB a Mosca": sono gli archivi dell’Est che parlano, scrive il 17 Marzo 2015 Il Tempo. "Nel luglio del 1977 c’è stato un incontro tra le Br e il KGB a Mosca": sono gli archivi dell’Est che parlano. La nuova inchiesta voluta dai familiari delle vittime di via Fani ed ora sulla scrivania del Procuratore generale presso la corte di Appello del Tribunale di Roma Antonio Marini riguardante il rapimento di Aldo Moro e l’uccisione degli uomini della scorta non può e non deve concentrarsi solamente su quanto in quegli anni è accaduto in Italia. Il recinto del terrorismo era più ampio. Allora, quando la fumante P38 era un simbolo ed uno strumento di morte gli investigatori per cercare di arginare il fenomeno non si sono molto concentrati sulle ricerche oltre confine. Ora, dopo la caduta del Muro e la conseguente apertura degli archivi, sappiamo che uomini delle Brigate Rosse hanno avuto frequenti rapporti sia con altri gruppi terroristici, sia con agenti dell’Est comunista, sia con uomini del Pci conviti che la Resistenza del dopoguerra li «aveva traditi» non compiendo l’atto finale. Negli anni passati «sprovincializzare» le inchieste del terrorismo degli Anni di Piombo poteva significare affrontare o scontrarsi con noti ostacoli ideologici. Oggi i tempi sono cambiati. Sarebbe quindi un buon gesto se gli investigatori italiani che indagano per conto del procuratore Antonio Marini ritrovassero il testo di una richiesta di rogatoria internazionale partita da un reparto speciale della polizia di Praga che chiedeva a Roma delucidazioni riguardanti la mitraglietta Skorpion: la micidiale arma utilizzata per ammazzare Aldo Moro. Sembra proprio che gli investigatori d’Oltralpe fossero riusciti a mappare il percorso della Skorpion.

IL PCI SAPEVA? Cinque giorni prima che Aldo Moro venisse ucciso il noto dirigente del Pci Giorgio Amendola consigliò a Vladmir Koucky, l’allora ambasciatore cecoslovacco in Italia, di essere prudenti nel trafficare con i terroristi italiani. Era una questione di possibile imbarazzo politico: se si fosse venuto a sapere che un Paese amico trafficava con i terroristi rossi italiani, la cosa avrebbe creato difficoltà in casa Pci. Già nella primavera del 1976 il dirigente del Pci Salvatore Cacciapuoti si recò a Praga per comunicare ai cecoslovacchi che due brigatisti avevano raccontato al loro legale che erano stati addestrati in Cecoslovacchia. La figlia Alba di Salvatore Cacciapuoti ha successivamente confermato l’accaduto: «mio padre era stato incaricato da Enrico Berlinguer di denunciare al governo cecoslovacco l’appoggio del suo servizio segreto alle Brigate rosse».

LE BRIGATE ROSSE NELL’ARCHIVIO STASI DI BERLINO. I documenti custoditi negli sterminati archivi suggeriscono scenari poco considerati. Ad esempio, un documento della Stasi ci dice che nel settembre del 1978 si tenne a Dubrovnik in Jugoslavia il «Congresso segreto internazionale» dove erano presenti i rappresentanti di alcune organizzazioni terroristiche tra cui Settembre nero, FPLP di Wadi Haddad, le RAF e, naturalmente, le Brigate Rosse. Un altro documento: «nel luglio del 1977 c’è stato un incontro fra le Br e il Kgb a Mosca». Gli uomini della Stasi raccoglievano informazioni sui brigatisti italiani. Alcuni di loro (Renato Curcio, Lauro Azzolini, e Barbara Balzerani) sono intestatari di schede che ho potuto visionare. Su alcune di queste (allora non si usava il computer) vi è una nota, talvolta vergata a penna altre scritta a macchina, il cui testo è chiaro: «Album di amici sul terrorismo internazionale». Tale album è un elenco di terroristi compilato dal Kgb in forma di libro. Ma allora, chi era amico di chi? Poi un mistero, vi è un documento scomparso. È quello dell’«Archivio Moro» che troviamo citato nel retro della scheda di Valerio Morucci.

BRIGATE ROSSE E CARLOS. Lo stesso archivio di Berlino suggerisce anche che Giorgio Bellini «in base alle nostre conoscenze manterrebbe un collegamento continuativo con Carlos per conto delle Brigate Rosse». Carlos, vale a dire Ilich Ramìrez Sànchez, noto terrorista internazionale una volta a capo del gruppo «Separat», oggi è detenuto in Francia dove sta scontando l’ergastolo. Ed a Bettola, piccolo paese dell’Appennino piacentino noto per essere il luogo in cui è nato Pier Luigi Bersani, ha vissuto per molti anni sotto falso nome Antonio Expedito Carvalho Perera, poi riconosciuto come un fiancheggiatore di Carlos.

BRIGATE ROSSE, OLP E ARMI. Sappiamo che le Brigate Rosse venivano rifor nite di armi dai palestinesi. Non dimentichiamo i rapporti tra Mario Moretti e Abu Iyyad, la collaborazione è stata così descritta in un testo di terrorismo internazionale: «l’Olp consegna armi alle Br; membri delle Br hanno il permesso di addestrarsi nei campi palestinesi in Medio Oriente; l’Olp offre assistenza ai membri Br fuggitivi; le Br immagazzinano armi in Italia perché possono essere usati dall’Olp; le Br parteciperanno ad attacchi contro individui israeliani in Italia». Il 9 marzo 1982, durante un’udienza del processo al rapimento del generale americano James Lee Dozier, il brigatista Antonio Savasta ammise: «il rappresentante dell’Olp chiarì che il contatto con noi era stato richiesto per costruire un fronte di lotta contro Israele da noi, e con la Raf, in Germania. In seguito a ciò l’Olp ci inviò armi e esplosivo plastico». 

«Per il Comunismo, Brigate Rosse» analisi storica di un fenomeno italiano. Rilettura critica della storia delle BR e del rapimento di Aldo Moro. Un approfondimento di Roberto Bartali. “Nel rileggere 18 anni di lotta armata in Italia ci si accorge che ogni tanto, qua e là, rimangono dei buchi neri nel terrorismo rosso, buchi coperti anche di segreti, spesso inconfessabili, di chi contro quella stagione di utopie rivoluzionarie e sanguinarie ha esercitato l'arma della repressione in nome dello Stato, ma anche di chi a Sinistra ha assistito alla gestazione ed alla nascita del fenomeno BR. A parziale conferma di ciò e nella stessa direzione del mio pensiero - per quanto sarebbe comprensibile se a qualcuno sembrasse inopportuno fare della mera dietrologia con quanto affermato da un ex terrorista - vanno le parole di Patrizio Peci, primo "pentito" delle Brigate rosse: "Lo stato allora [agli inizi dell'attività brigatista] - poi non più - ti lasciava gli spazi per poter sperare nella vittoria [...] lo stato poteva avere interesse a lasciare spazio alla lotta armata. Interessi velati, e magari contrapposti, ma certamente tesi a creare confusione. Altrimenti la lotta al terrorismo sarebbe stata più immediata e aspra. Ci avrebbero stroncato subito, come hanno fatto quando gli è parso il momento". Il fatto è che non ritengo ammissibile parlare di dietrologia quando in ballo ci sono anche dei morti ammazzati, ma soprattutto quando perfino a distanza di 25-30 anni dagli accadimenti continuano ad emergere nuovi frammenti di verità fino ad ora nascoste. Analizzando la storia della folle epopea brigatista, ci si accorge che sono presenti con una certa costanza degli accadimenti "particolari", delle coincidenze strane, così prodigiosamente tempestive, da far supporre - pur nella scarsità di prove certe - degli interventi esterni ben mirati in una determinata direzione. Non possiamo però esimerci dall'aprire una finestra su una certa parte della Sinistra italiana, ed in modo particolare su quell'area "dura" che dal 25 Aprile 1945 (ma forse sarebbe meglio far risalire il tutto alla c.d. "Svolta di Salerno") non ha mai smesso di sognare la rivoluzione. Un grigio alone di mistero e di 'indicibilità' avvolge ancora certi aspetti degli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale ed in particolare gli avvenimenti che riguardano l'evoluzione di quella che fu Resistenza una volta finita la guerra. Basti pensare alle violente polemiche che il volume scritto da Pansa (Il sangue dei vinti) ha provocato. Questo ha probabilmente due ordini di ragioni: il primo concerne il fatto che la Resistenza, in quanto elemento decisivo e fondante della Repubblica, ha assunto e continua ad avere -per certi aspetti giustamente- un alone di mito. Il partigiano che combatte per la libertà dal nazi-fascismo fa parte della storia, del costume e del sentire comune della maggior parte degli Italiani. Il mito del partigiano è dunque un elemento fondamentale dell'Italia post-fascista anche perchè aiuta -se così si può dire- a "ripulire" gli italiani dalla macchia costituita dal diffuso sostegno al regime di Mussolini e -perchè no- da quel brusco cambio di alleanze (che per taluni fu un vero tradimento o, come la chiama Elena Aga Rossi, una "morte della Patria") che fu l'8 Settembre. Il secondo aspetto che non consente una tranquilla trattazione dell'argomento "Resistenza dopo la fine della Resistenza" è invece decisamente meno nobile, e riguarda direttamente la storia del PCI, un partito che -è bene ricordarlo- ebbe poi un ruolo fondamentale nella sconfitta del terrorismo nostrano, ma che dall'immediato dopo-guerra ha mantenuto un reale dualismo al proprio interno: un lato ufficiale fieramente democratico, l'altro nascosto e con delle mai dome velleità insurrezionali. Detto per inciso, per 50 anni hanno convissuto all'interno del PCI due anime frontalmente contrapposte, e se è vero che l'ala dura che faceva riferimento a Pietro Secchia venne pesto messa in minoranza, è anche vero che soldi provenienti da Mosca sono continuati ad arrivare in Via delle Botteghe oscure fino a tempi relativamente recenti (vedere pubblicazioni di Victor Zaslavsky), e che una parte del PCI ha continuato ad avere con il blocco sovietico un atteggiamento di "vicinanza" nonostante i vari allontanamenti e strappi che via via il partito ufficialmente faceva dal PCUS. Non possiamo, in qualità di ricercatori, esimerci dal sottolineare come almeno 2000 uomini dalla fine della guerra sono passati dai campi di addestramento in Cecoslovacchia, e di questi una buona parte era costituita da ex partigiani che si erano macchiati di crimini nel dopoguerra e che per sfuggire alla giustizia italiana erano stati fatti scappare in quel paese con l'aiuto del PCI. Non possiamo non notare come già nel '52 il Sifar avesse scoperto che questi uomini frequentavano corsi di addestramento al sabotaggio, psicologia individuale e di massa, preparazione di scioperi e disordini di piazza, l'uso delle armi; come trasmissioni in lingua italiana provenissero da Praga (Radio Italia Oggi) con il preciso scopo di fornire una controinformazione comunista e che gli stessi uomini che gestivano le trasmissioni avevano teorizzato una insurrezione rivoluzionaria per il 1951 (abortita per una fuga di notizie che allarmò, e non poco, i nostri servizi segreti); come l'addestramento di giovani comunisti italiani sia proseguito fino a tutti gli anni '70, quindi ben dopo il seppur pesante strappo operato dal PCI dopo la fine della 'Primavera di Praga'. La domanda che ci si deve porre, in relazione all'argomento di questa pubblicazione, riguarda dunque i rapporti che le Brigate Rosse possono aver avuto con l'area dei Secchiani e con l'Stb (servizio segreto cecoslovacco) nei loro 15 anni di storia, se quel passaggio simbolico di armi dalle mani dei vecchi partigiani alle nascenti BR di cui parla Franceschini non nasconda in realtà anche un passaggio di contatti ed aiuti con i paesi di oltrecortina e con la Cecoslovacchia in primis, se con la morte di "Osvaldo" Feltrinelli nelle BR siano confluiti solo i membri dei suoi GAP o anche tutta la rete di contatti internazionali che l'editore-guerrigliero aveva. La storia la si scrive leggendo gli avvenimenti a 360°, senza paraocchi politici o ideologici, così se è corretto considerare l'influenza che gli USA, la CIA, certi ambienti filo-atlantici e l'area neo-fascista hanno avuto nella storia repubblicana, è anche corretto considerare la fazione che ad essi era contrapposta, comprese le eventuali 'macchie'; non per infangare ma per studiare a fondo, per capire. Tutto il percorso evolutivo delle Br è caratterizzato, a cominciare dai suoi albori, dalla presenza di infiltrati di varia natura; ciò, se non fosse abbondantemente provato da riscontri e testimonianze, risulterebbe inoltre perfino facile da ipotizzare alla luce del fatto che forze di varia natura erano riuscite ad insinuarsi con successo già negli ambienti più "caldi" del periodo storico che della lotta armata fu un po' la culla: il '68. E' da considerare che già nell'estate 1967 la CIA aveva promosso la "Chaos Operation" per contrastare il movimento non violento e pacifista americano che si batteva per i diritti civili e contro la guerra del Vietnam. Quindi aveva deciso di estenderla su scala internazionale, in particolare in Europa, per contrastare anche il movimento studentesco-giovanile del vecchio continente, inquinandone gli assunti anti-autoritari e non violenti. L'operazione consisteva anche nell'infiltrazione, a scopo di provocazione, nei gruppi di estrema sinistra extraparlamentare (anarchici, trotzkisti, marxisti-leninisti, operaisti, maoisti, castristi) in Italia, Francia, Germania Occidentale con l'obbiettivo di accrescerne la pericolosità inducendo ad esasperare le tensioni politico-sociali con azioni aggressive, così da determinare un rifiuto dell'ideologia comunista e favorire spostamenti "a destra" (secondo la logica di "destabilizzare per stabilizzare"). In tale direzione - dunque una conferma di quanto detto - va anche un rapporto dedicato alla contestazione studentesca datato Febbraio 1971 e redatto in forma riservata proprio nell'ambito della "Operazione Chaos" dall'Ufficio Affari riservati del Viminale: "almeno all'origine si deve rilevare la spinta di qualche servizio segreto americano [alludendo alla CIA] che ha finanziato elementi estremisti in campo studentesco". Un ulteriore dato interessante lo ritroviamo nella lettura del resoconto sulla riunione del coordinamento delle forze di polizia che si tenne a Colonia il 19 Gennaio 1973 e dedicata al problema dell'infiltrazione nei gruppi terroristici Br e RAF e nei gruppi della sinistra extraparlamentare. Risulta infatti evidente che l'intendimento dei vari servizi segreti non era quello di predisporre semplici confidenti o informatori ma anche veri e propri terroristi, in grado di arrivare al vertice del gruppo da infiltrare. E che dire delle strane "premonizioni" avute dall'allora capo del SID, Miceli, nel 1974? Egli, interrogato innanzi al giudice tamburino nel settembre di quell'anno dichiarò con una inquietante lungimiranza: "Ora non sentirete più parlare di terrorismo nero, ora sentirete parlare soltanto di quegli altri". Alla luce di ciò, non appare sconvolgente scoprire che le infiltrazioni all'interno delle Br cominciarono piuttosto presto. La prima talpa di cui si hanno notizie certe fu Marco Pisetta; già compagno di Renato Curcio e di Mara Cagol alla libera università di Trento, grazie alla sua testimonianza (il suo memoriale, che sosterrà essergli stato ispirato direttamente da uomini dei servizi segreti, fornirà una prima e importante fonte, anche cronologica, di dati sulla nascita della Br) il 2 Maggio 1972 venne individuata la principale base milanese delle Br, in Via Boiardo, ed arrestato un primissimo nucleo di brigatisti. Ma all'interno delle Br l'Ufficio Affari Riservati del Viminale era riuscito ad infiltrare un altro agente, ed anzi era stato proprio questo - nome di battaglia "Rocco" - a prelevare materialmente il giudice Sossi insieme ad Alfredo Bonavita per portarlo alla così detta "Prigione del Popolo". Francesco Marra, questo il nome di battesimo di "Rocco", era un paracadutista addestratosi in Toscana e in Sardegna all'uso delle armi e con una sorta di specializzazione nella pratica delle "gambizzazioni" (della quale faranno ampio ricorso le Br nel corso degli anni) prima di entrare nelle Brigate Rosse; in seguito, a differenza di Pisetta, la doppia identità di Marra non è venuta alla luce, ed il suo nome è rimasto fuori da tutti i processi, stranamente coperto anche dal brigatista Alfredo Bonavita dopo il suo pentimento. Per sua stessa ammissione, Marra si era infiltrato nelle Br per conto del brigadiere Atzori, braccio destro del Generale dei Carabinieri Francesco Delfino. Tra gli avvenimenti "strani" della vita delle Br è impossibile non menzionare anche l'infiltrazione da parte dei Carabinieri di Silvano Girotto, la terza infiltrazione all'interno del gruppo nei suoi primi quattro anni di vita, un'ulteriore defayans della banda di Curcio e compagni che dimostra come a confronto con l'esperienza ed il mestiere del servizio di sicurezza dello stato - o quantomeno di parte di esso - le prime Brigate Rosse possano essere tranquillamente definite come "Tupamaros all'amatriciana". Reso noto dai rotocalchi come "Frate Mitra", Girotto era un ex francescano con dei trascorsi - a dire il vero poco chiari - di guerrigliero in Bolivia ma che tra le forze extraparlamentari (Lotta Continua in primis) godeva di una fama di tutto rispetto, e che riuscì a far catturare in un sol colpo due capi storici delle Brigate Rosse del calibro di Alberto Franceschini e Renato Curcio, l'8 Giugno 1974. Come racconta lo stesso Franceschini "Frate mitra appena rientrato in Italia cercò subito di entrare in contatto con le Br [...] si fece precedere da alcune lettere dei dirigenti del Partito Comunista di Cuba in cui si attestava di essere addestrato alla guerriglia e vantò rapporti anche con i Tupamaros. La cosa non poteva non interessarci". Dopo alcuni tentennamenti i brigatisti si fecero convincere ad incontrare Girotto, e durante il terzo incontro, a Pinerolo, la trappola dei Carabinieri scattò inesorabile. I lati oscuri riscontrabili in merito a questo arresto sono diversi: anzi tutto bisogna fare riferimento ad una telefonata ricevuta dalla moglie dell'avvocato - con note simpatie brigatiste - Arrigo Levati che mise in preallarme l'organizzazione sui rischi di quell'ultimo appuntamento. Da più parti, ivi compresi i diretti interessati, si ipotizza che gli autori di quella telefonata furono gli agenti del Mossad, il servizio segreto israeliano, da sempre interessato alle attività delle Br per via dell'instabilità che la loro azione terroristica avrebbe potuto portare ad un governo - quello italiano, appunto - che da tempo stava seguendo una linea in politica estera definibile come filo-araba. A confermare questa ipotesi ci sono i racconti degli stessi terroristi, (Moretti e Peci) i quali affermano che già nel 1974 il Mossad si era fatto vivo con l'organizzazione offrendo armi e denaro, in più, per rompere la loro iniziale diffidenza, gli posero - come si suole dire - su di un piatto d'argento l'indirizzo del nascondiglio del "traditore" Pisetta, che era stato portato dalla polizia italiana in Germania. Alla luce di questi elementi non ritengo impossibile dare credito alla veridicità di questa ipotesi, una congettura che, tra le altre cose, è condivisa sia da Giorgio Bocca sia - però solo indirettamente - dal Generale Delfino, ma che non cambia l'interessante realtà delle cose: attorno alle Br ruotavano, fin dall'inizio, tutta una serie di interessi particolari, anche molto differenti tra loro. E' un fatto, comunque, che la telefonata di avvertimento ci fu veramente, e fu lo stesso Moretti ad essere incaricato di darsi da fare per cercare di rintracciare Curcio prima dell'appuntamento con Girotto; una ricerca che però si rivelò vana, come altrettanto vane e poco convincenti sono - a mio modesto parere - le spiegazioni fornite da Moretti per giustificare il suo fallimento in quella occasione. E poi, come ha scritto Franceschini, pur conoscendo ora e luogo dell'appuntamento arrivò con un'ora di ritardo, quando eravamo già stati arrestati". Come afferma sempre Franceschini: "Quella era la seconda volta che i servizi di sicurezza avrebbero potuto arrestare tutti i brigatisti e porre fine all'esperienza delle Br [...] noi avevamo concordato con Girotto di dare vita a una scuola di addestramento, da lui diretta, alla cascina Spiotta, dove nel giro di un mese tutti gli appartenenti all'organizzazione, un po' alla volta, avrebbero partecipato ad un breve corso di addestramento. Se chi lo aveva infiltrato avesse chiesto a Girotto di continuare a stare al gioco dopo un mese sarebbe stato in grado di far arrestare non solo me e Curcio, ma tutti i brigatisti. E il fatto che questo non sia avvenuto è la riprova che l'organizzazione delle Br poteva tornare comoda per qualcuno delle alte sfere dei servizi di sicurezza e del potere". Si deve fare menzione anche del vertice che i dirigenti delle Br avevano avuto giorni prima a Parma, una riunione durante la quale era stato deciso di estromettere Moretti dal "Comitato Esecutivo" per via dell'intransigenza dimostrata durante la trattativa per la liberazione di Sossi. Questa dato va tenuto presente allorché alcuni osservatori - e Sergio Flamigni tra tutti - ritengono che Mario Moretti non abbia volutamente rintracciato Curcio e Franceschini il giorno del loro arresto. L'ipotesi si accredita maggiormente se si considerano altre due (chiamiamole così) "stranezze": prima di tutto il fatto che se i Carabinieri avessero aspettato solamente qualche ora in più sarebbero stati in grado di annientare tutta la dirigenza delle Brigate Rosse arrestando, appunto, anche Moretti. La seconda cosa bizzarra è che nonostante durante le proprie esposizioni davanti alla "Commissione Moro" il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa abbia parlato chiaramente di foto scattate a tutti i brigatisti durante i primi incontri con Frate Mitra (e Moretti era presente al 2° di quegli incontri), le foto segnaletiche su Moretti non comparvero mai al processo di Torino contro il "nucleo storico" delle Br, ed in più egli non sarà coinvolto in nessuna inchiesta giudiziaria prima del caso Moro. Insomma, le sue foto segnaletiche erano note alle forze di polizia almeno quanto la sua identità, però - misteriosamente - non fecero la loro apparizione ufficiale se non molto più tardi. La conclusione cui si vuole arrivare, e che appare tanto perfida per lucidità quanto logica, è che per un motivo o per un altro le forze dell'ordine lasciarono volutamente in libertà Mario Moretti, in modo che egli potesse riorganizzare le Br a modo suo, seguendo cioè una logica di spietata "militarizzazione", base di partenza necessaria per una svolta sanguinaria del gruppo. Proprio come voleva il Mossad. Per correttezza vanno menzionate altre ipotesi plausibili circa il mancato avvertimento di Curcio da parte di Moretti: la prima va obbligatoriamente in contro a quanto raccontato dallo stesso Moretti, e secondo la quale lui avrebbe profuso il massimo impegno nella ricerca dei suoi compagni di avventura, ma solo il caso avrebbe influito negativamente sulla sua caccia. L'altra ipotesi che mi viene di fare, in vero trascurata dagli altri osservatori, è che Moretti abbia di sua volontà evitato di avvertire della trappola il duo Franceschini-Curcio in virtù dell'estromissione dal Comitato Esecutivo impostagli nella riunione di Parma. E' - la mia - un'ipotesi che, volendo considerare anche l'aspetto umano della storia, collegando quindi il tutto al risentimento personale ed all'ambizione di Moretti, si pone a cavallo tra chi sostiene la completa mala fede del futuro leader del gruppo e chi invece si dice convinto delle sue buone intenzioni. In direzione opposta si va invece considerando un altro fatto. Nella riunione di Parma, infatti, erano state altre le cose interessanti al vaglio delle Br, e di ciò parla lo stesso Renato Curcio nel suo libro-intervista "A viso aperto". Raccontando la storia della sua prima cattura, Curcio dice che Mario Moretti, che doveva avvertirlo del pericolo che correva, "non ritiene necessario agire subito perché sa che io e Franceschini stiamo lavorando a un certo libricino in una casa di Parma e che da quel posto non mi sarei mosso fino a sabato notte o domenica mattina". Alla domanda di Scialoja " Di che libricino si trattava?", Curcio rispose: " Avevamo compiuto un'incursione negli uffici milanesi di Edgardo Sogno impadronendoci di centinaia di lettere e elenchi di nomi di politici, diplomatici, militari, magistrati, ufficiali di polizia e dei carabinieri [insomma tutta la rete delle adesioni al cosiddetto "Golpe bianco" preparato dall'ex partigiano liberale con l'appoggio degli americani ]. Giudicavamo quel materiale esplosivo e lo volevamo raccogliere in un documento da rendere pubblico. Purtroppo avevamo tutto il malloppo con noi al momento dell'arresto e così anche quella documentazione preziosa finì in mano ai carabinieri. Qualche anno dopo, al processo di Torino, chiesi al presidente Barbaro di rendere noto il contenuto del fascicolo che si trovava nella mia macchina quando mi arrestarono e lui rispose imbarazzato: "Non si trova più" [...] Qualcuno deve averlo trafugato dagli archivi giudiziari ". Sarebbe interessante invece sapere qualcosa di più su quella sparizione. Anche in questo caso, l'intervento provvidenziale dell'infiltrato Girotto, oltre ad arrestare Franceschini e Curcio, servì a recuperare delle carte "imbarazzanti", dello stesso tipo dei memoriali e dei resoconti dell'interrogatorio di Moro nella Prigione del popolo... A questo punto un'altra supposizione nasce spontanea: l'arresto di Pinerolo da parte dei Carabinieri scattò in quanto essi sapevano della enorme pericolosità delle carte cadute in mano delle Br e dunque dovevano recuperarle in ogni modo? In questa ipotesi altri due scenari si aprono innanzi a noi: col primo si considera che fu dunque merito di quell'arresto "urgentemente anticipato" se Moretti ed il resto delle Br si salvarono dalla cattura. Il secondo considera poi la sicurezza con la quale i Carabinieri, arrestando Curcio e Franceschini, agirono al fine di trovare - assieme a loro - i fogli in questione. In questo caso chi altro della Direzione Strategica - se non Moretti - era a conoscenza del fatto che quelle carte erano proprio in viaggio per Pinerolo (e dunque può aver fatto una "soffiata")? Quella di Moretti è dunque una figura centrale nell'analisi del fenomeno Br, in primis perché ha vissuto quasi l'intera avventura del gruppo [girando - tra le altre cose - impunemente per lo stivale durante il rapimento Moro nonostante fosse il nemico pubblico n°1], poi perché a lui è legata la gestione del rapimento di Aldo Moro, apoteosi di quelle "coincidenze" particolari di cui adesso parleremo. E' da sottolineare come nel 1970 Nel 1970 un gruppo fuoriuscito dal CPM e composto, oltre che da Moretti, da Corrado Simioni, Prospero Gallinari, Duccio Berio e Vanni Mulinaris, andò a creare una struttura "chiusa e sicura", superclandestina che potesse entrare in azione, come racconta Curcio, "...quando noi, approssimativi e disorganizzati, secondo le loro previsioni saremmo stati tutti catturati". Dopo poco tempo il gruppo (fatti salvi Moretti e Gallinari) si trasferì a Parigi dove, sotto la copertura della scuola lingue Hyperion, agiva - secondo alcuni - come una vera centrale internazionale del terrorismo di sinistra. I contatti tra Moretti e il Superclan continuarono nel corso degli anni 12, ed è singolare sia il fatto che a gestire il rapimento Moro fu proprio il duo Moretti-Gallinari, lo stesso che rappresentò nel corso degli anni l'ala più militarista e sanguinaria delle Br, sia che la stessa scuola aprì un ufficio di rappresentanza a Roma in via Nicotera 26 [nello stesso edificio dove avevano sede alcune società di copertura del SISMI] poco prima del rapimento del leader DC per poi chiuderla immediatamente dopo, nell'estate del '78. Sulla "questione Moretti" Franceschini parla chiaro: " Non ho sempre pensato che Moretti fosse una spia ", " La prima persona che mi ha detto questo è stato Renato [Cucio, ndr.]. Era nel 1976 alle Carceri Nuove di Torino e Curcio era stato da poco arrestato per la seconda volta: Il dubbio era nato proprio dalla dinamica del suo arresto. Dai sospetti di Curcio ebbe origine un'inchiesta interna fatta da Lauro Azzolini e Franco Bonisoli, i quali aprirono un'istruttoria che però non portò ad alcun risultato", ma un'altra inchiesta era già stata aperta "da Giorgio Semeria ", che già dall'esterno aveva avuto il sospetto "che Mario fosse una spia per una serie di cose avvenute a Milano". Franceschini racconta anche, che dopo il suo arresto (nel 1974) fu interrogato dal giudice Giancarlo Caselli che gli mostrò le foto degli incontri con frate Mitra "Le foto in cui c'ero io - dice Franceschini - e una foto con Moretti indicato con un cerchietto. Mi chiese se lo conoscevo e risposi di no. Lui si mise a ridere e mi disse: "Se non lo conosce, almeno si ponga il problema del perché l'operazione è stata fatta quando c'era lei e non quando c'era quella persona" ". Riporto questa testimonianza perché trovo doveroso completare il quadro, ad ogni modo non è difficile ipotizzare che usando quelle parole il giudice Caselli avesse avuto in mente, in qual momento, altre mire; resta comunque il fatto che alcune di quelle foto non sono più state trovate. Da citare infine una frase pronunciata dal Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa di fronte alla Commissione Moro: "...le Brigate rosse sono una cosa, le Brigate rosse più Moretti un'altra ". Prima di passare oltre mi è sembrato quantomeno doveroso citare l'ex capo dell'ufficio "D" del SID Generale Maletti, ed in particolare una sua intervista rilasciata al settimanale Tempo nel giugno 1976 in merito alle Br: "Nell'estate del 1975 [...] avemmo sentore di un tentativo di riorganizzazione e di rilancio [...] sotto forma di un gruppo ancora più segreto e clandestino, e costituito da persone insospettabili, anche per censo e cultura e con programmi più cruenti [...] questa nuova organizzazione partiva col proposito esplicito di sparare, anche se non ancora di uccidere [...] arruolavano terroristi da tutte le parti, e i mandanti restavano nell'ombra, ma non direi che si potessero definire "di sinistra" ". Il culmine delle "stranezze" inerenti le Brigate rosse lo ritroviamo però nel rapimento dell'On. Moro. I 55 drammatici giorni del sequestro dello statista DC furono segnati fin dall'inizio da una serie incredibile di "coincidenze". Iniziamo col dire che quella mattina del 16 Marzo 1978, giunta in via Fani l'auto di Aldo Moro (una normalissima "auto blu", incredibilmente non blindata se consideriamo il periodo e l'importanza del personaggio) e quella della scorta vengono bloccate da un commando delle Brigate Rosse che apre il fuoco. In pochi istanti fu la strage: vengono uccisi gli agenti Iozzino, Ricci e Rivera, Francesco Zizzi, gravemente ferito, morirà poco dopo, il maresciallo Leonardi viene freddato mentre girato su di un fianco cerca di far da scudo all'onorevole. Aldo Moro venne prelevato a forza e trascinato in una FIAT 128 blu scuro targata "Corpo Diplomatico" che in breve si dileguò. Il trasbordo del presidente DC - secondo la testimonianza diretta di un'involontaria spettatrice dell'accaduto - avvenne piuttosto lentamente, una calma quasi surreale visto ciò che era appena accaduto. Intanto al numero 109 di Via Fani, un altro fortuito spettatore - Gherardo Nucci - scatta dal balcone di casa una dozzina di foto della scena della strage a pochi secondi dalla fuga del commando; dopo i primi scatti il Nucci sente il rumore delle sirene e vede arrivare sul posto un auto della polizia seguita poi da altre. Di quelle foto, consegnate quasi subito alla magistratura inquirente dalla moglie, non si saprà più nulla; qualche "manina" le ha fatte sparire. A tale proposito è da sottolineare come quelle foto, che evidentemente avevano immortalato qualcosa (o meglio qualcuno) di importante, furono al centro di strani interessamenti da parte di un certo tipo di malavita, la 'drangheta calabrese, di cui avremo modo di parlare in seguito e che ad una prima analisi sembrerebbe un'intrusione completamente fuori luogo trattandosi di terrorismo di sinistra, dunque politico. Ecco, ad esempio, uno stralcio delle intercettazioni telefoniche effettuate sull'apparecchio di Sereno Freato, "uomo ombra" di Moro, nel caso specifico egli stava parlando con l'On. Benito Cazora, incaricato dalla DC di tenere i rapporti con la malavita calabrese per cercare di avere notizie sulla prigione di Moro:

Cazora: "Un'altra questione, non so se posso dirtelo".

Freato: "Si, si, capiamo".

Cazora: "Mi servono le foto del 16, del 16 Marzo".

Freato: "Quelle del posto, lì?"

Cazora: "Si, perchè loro... [nastro parzialmente cancellato]...perchè uno stia proprio lì, mi è stato comunicato da giù".

Freato: "E' che non ci sono... ah, le foto di quelli, dei nove?"

Cazora: "No, no ! dalla Calabria mi hanno telefonato per avvertire che in una foto presa sul posto quella mattina lì, si individua un personaggio... noto a loro".

Freato: "Capito. E' un pò un problema adesso".

Cazora: "Per questo ieri sera ti avevo telefonato. Come si può fare?"

Freato: "Bisogna richiedere un momento, sentire".

Cazora: "Dire al ministro".

Freato: "Saran tante!"

Traspare lampante dunque la preoccupazione di certi ambienti malavitosi calabresi, le foto scattate dalla terrazza di casa Nucci avrebbero potuto portare gli inquirenti su di un sentiero piuttosto pericoloso sia per la persona loro "cara", sia per la precisa ricomposizione dello scenario di quella tragica mattina. Ecco poi un altro singolare accadimento: lo stesso giorno dell'eccidio di via Fani alle ore otto di mattina la notizia che stava per essere compiuta un'azione terroristica ai danni di Moro fu diffusa da un'emittente radiofonica, Radio Città Futura, da parte del suo animatore Renzo Rossellini. Poiché non si può pensare ad una divinazione, né appare credibile che si trattasse della conclusione di un ragionamento politico collegato agli avvenimenti parlamentari che nella stessa giornata sarebbero avvenuti (l'inizio del dibattito alla Camera dei deputati sulla fiducia al governo di solidarietà nazionale), non resta che concludere che, nonostante la rigida compartimentazione di tipo militare che caratterizzava le Br (il famoso "cubo di acciaio" di cui ha parlato tra gli altri anche Prospero Gallinari) da qualche crepa le notizie sulla preparazione dell'agguato fossero filtrate nell'area magmatica degli ambienti dell'Autonomia Romana (con cui Rossellini era in contatto), che oggi sappiamo fossero stati abbondantemente infiltrati da parte delle forze dell'ordine. Tra l'altro la sede della radio era distante pochi passi da quella del "Collettivo di Via dei Volsci", sede storica dell'Autonomia romana. Lo stesso Rossellini il 4 ottobre '78 dichiarò in una intervista al quotidiano francese Le Matin (ma successivamente apparve anche su "Lotta Continua") che: "spiegavo che le Br avrebbero in tempi molto ravvicinati, poteva anche essere lo stesso giorno, compiuto un'azione spettacolare, e tra le ipotesi annunciavo anche la possibilità di un attentato contro Moro". Successivamente Rossellini smentì il contenuto dell'intervista, l'annuncio quel 16 Marzo era però stato ascoltato da diversi testimoni, casualmente non dal Centro di ascolto dell'Ucigos (che registrava ed ascoltava tutte le radio private...) che incredibilmente interruppe la registrazione dalla 8,20 alle 9,33. Un'altra cosa che salta subito agli occhi è la particolarità della data scelta dalle Br per portare a termine l'azione, un giorno simbolo per tutti i nemici del c.d. Compromesso Storico. Le testimonianze dei brigatisti dissociati, anche su questa scelta, non fanno alcuna chiarezza: Valerio Morucci - uno dei componenti del gruppo di fuoco - riferendo sull'accaduto ha affermato in più di un'occasione che quello in pratica era solo un tentativo, e che nel caso l'auto di Moro quella mattina non fosse giunta, le Br avrebbero aspettato anche il mattino dei giorni seguenti. Di fatto però la sera prima dell'agguato vennero squarciate le gomme del fioraio che ogni mattina sostava in Via Fani, e ciò rende sicuro che l'azione fosse stata programmata per il 16 Marzo. Come però le Br potessero essere sicure del passaggio di Moro e della sua scorta da quella via proprio quella mattina, alla luce del fatto che il percorso veniva cambiato tutte le mattine, resta tutt'oggi un mistero. Compiuta la strage e sequestrato Moro i terroristi riuscirono a dileguarsi grazie ad una sorprendente coincidenza: una volante della polizia stazionava come ogni mattina in Via Bitossi nei pressi del giudice Walter Celentano, luogo dove stavano per sopraggiungere le auto dei brigatisti in fuga; proprio qualche istante prima dell'arrivo dei brigatisti, un ordine-allarme del COT (centro operativo telecomunicazioni) fece muovere la pattuglia. In via Bitossi era parcheggiato il furgone con la cassa di legno sulla quale sarebbe stato fatto salire Moro. Un tempismo perfetto. I brigatisti avevano la certezza che quella volante si sarebbe spostata? L'unica certezza cui possiamo fare appello per questa circostanza è che tra i reperti sequestrati a Morucci dopo il suo arresto verrà trovato un appunto recante il numero di telefono del commissario capo Antonio Esposito (affiliato alla P2...), in servizio guarda caso proprio la mattina del rapimento. Secondo il racconto degli esecutori, il commando brigatista, una volta effettuato un cambio di auto nella già citata Via Bitossi, con il sequestrato chiuso in una cassa contenuta in un furgone guidato da Moretti e seguito da una Dyane al cui volante era Morucci, fa perdere le proprie tracce. Le Br per portare a termine il sequestro del segretario del maggior partito politico italiano e fronteggiare eventuali posti di blocco fecero uso solamente di due auto, veramente strano se si considera che per rapire Valeriano Gancia le stesse Br ne avevano usate tre. I dubbi si fanno insistenti se si pensa che, sempre secondo il racconto fatto dai terroristi, il trasbordo dell'On. Moro sul furgone che doveva portarlo nel covo-prigione di Via Montalcini avvenne in piazza Madonna del cenacolo, una delle più trafficate e per giunta piena zeppa di esercizi commerciali a quell'ora già aperti, mentre il furgone che doveva ospitare il rapito (e del quale, al contrario delle altre auto usate, non verrà mai ritrovata traccia) era stato lasciato privo di custodia, in modo tale che se qualcuno avesse parcheggiato in doppia fila, le Br avrebbero compromesso tutta l'operazione. Adriana Faranda in merito a questo particolare - anche di fronte alla Commissione stragi - ha risposto che in caso di contrattempi di questo tipo Moretti avrebbe portato il prigioniero alla prigione del popolo con l'auto che aveva in quel momento, un'affermazione alla quale non mi sento di credere visto l'inutile pericolo che i brigatisti avrebbero corso e considerando che, come hanno più volte dimostrato dimostrato, non erano affatto degli sprovveduti. Non è però difficile ipotizzare che i brigatisti vogliano coprire qualche altro compagno che magari non stato ancora identificato. Poco dopo la strage un tempestivo black-out interruppe le comunicazioni telefoniche in tutta la zona tra via Fani e via Stresa, impedendo così le prime fondamentali chiamate di allarme e coprendo di fatto la fuga delle Br. Secondo il procuratore della Repubblica Giovanni de Matteo - ma anche per gli stessi brigatisti - l'interruzione venne provocata volontariamente, tutto il contrario di quanto sostenuto dall'allora SIP, che attribuì il blocco delle linee al " sovraccarico nelle comunicazioni ". Su questo punto i brigatisti hanno affermato che il merito di tale interruzione era da attribuirsi a dei "compagni" che lavoravano all'interno della compagnia telefonica. Però coincidenza volle che il giorno prima (il 15 Marzo alle 16:45) la struttura della SIP che era collegata al servizio segreto militare (SISMI), fosse stata posta in stato di allarme, proprio come doveva accadere in situazioni di emergenza quali crisi nazionali internazionali, eventi bellici e...atti di terrorismo. Una strana premonizione visto che era giusto il giorno prima del rapimento di Moro. Un mistero inerente al giorno del rapimento riguarda poi la sparizione di alcune delle borse di Moro. Secondo la testimonianza di Eleonora Moro, moglie del defunto presidente, il marito usciva abitualmente di casa portando con se cinque borse: una contenente documenti riservati, una di medicinali ed oggetti personali; nelle altre tre vi erano ritagli di giornale e tesi di laurea dei suoi studenti. Subito dopo l'agguato sull'auto di Moro vennero però rinvenute solamente tre borse. La signora Moro in proposito ha delle precise convinzioni: " I terroristi dovevano sapere come e dove cercare, perché in macchina c'era una bella costellazione di borse ". Nonostante l'enorme quantità di materiale brigatista sequestrato negli anni successivi all'interno delle numerose basi scoperte, delle due borse di Moro non è mai stata rinvenuta traccia, un fatto di rilievo se si considera soprattutto il contenuto dei documenti che il presidente portava con se. Corrado Guerzoni, braccio destro dell'onorevole Moro, ha affermato che con ogni probabilità quelle borse contenevano anche la prova che il coinvolgimento del presidente DC nello scandalo Lockheed era stato frutto di una "imboccata" fatta dal segretario di stato americano, Kissinger. Un punto, questo, da tenere molto in considerazione, come suggerito dalle tesi del Partito Operaio Europeo. Questo delle borse scomparse (e dei documenti da esse contenute...) è un punto sul quale l'alone di mistero tarda a scomparire, tant'è che nea relazione del presidente della Commissione stragi del Luglio '99, il senatore Pellegrino continua ad indicarlo come di cruciale importanza. Chi era veramente presente quella mattina in via Fani? Le Commissioni parlamentari hanno ormai confermato, tanto per riportare alcuni nomi alquanto "particolari", che quella mattina alle nove, in via Stresa, a duecento metri da via Fani, c'era un colonnello del SISMI, il colonnello Guglielmi, il quale faceva parte della VII divisione (cioè di quella divisione del Sismi che controllava Gladio...). Guglielmi, che dipendeva direttamente dal generale Musumeci - esponente della P2 implicato in vari i depistaggi e condannato nel processo sulla strage di Bologna - ha confermato che quella mattina era in via Stresa, a duecento metri dall'incrocio con via Fani, perché, com'egli stesso ha detto: " dovevo andare a pranzo da un amico ". Dunque, benché si possa definire quantomeno "singolare" presentarsi a casa di un amico alle nove di mattina per pranzare, sembra addirittura incredibile che nonostante a duecento metri di distanza dal colonnello ci fosse un finimondo di proiettili degno di un film western, egli non sentì nulla di ciò che era avvenuto ne tanto meno poté intervenire magari solo per guardare cosa stesse accadendo. Ma il particolare più inquietante è che il Guglielmi non era un gladiatore qualsiasi, bensì colui che nel campo di addestramento sardo di Capo Marragiu si occupava dell'addestramento delle truppe per le azioni di comando... A dire il vero l'incredibile presenza a pochi metri dal luogo della strage di Guglielmi è stata rivelata solo molti anni dopo l'accaduto, nel 1991, da un ex agente del SISMI - Pierluigi Ravasio - all'On. Cipriani, al quale lo stesso confidò anche che il servizio di sicurezza disponeva in quel periodo di un infiltrato nelle Br: uno studente di giurisprudenza dell'università di Roma il cui nome di copertura era "Franco" ed il quale avvertì con mezz'ora di anticipo che Moro sarebbe stato rapito. Ad ogni modo resta il dato di fatto, perché ormai appurato, che la mattina del rapimento di Aldo Moro un colonnello dei Servizi segreti si trovava nei pressi di via Fani mentre veniva uccisa la scorta e rapito il presidente della DC e in più lo stesso ha taciuto questo importante fatto per più di dieci anni. Per la verità oggi sappiamo anche che alcune precise segnalazioni su di un possibile attentato a Moro erano pervenute ai Servizi segreti, per esempio un detenuto della casa circondariale di Matera aveva segnalato che "è possibile il rapimento di Moro"; la soffiata venne riferita alla locale sezione dei Servizi, ma, secondo quanto riferito dal generale Santovito (P2) essa giunse al SISMI centrale solamente a sequestro già avvenuto. È quantomeno singolare che una segnalazione così precisa, e che avrebbe dovuto riguardare una personalità così importante per la vita politica del paese, abbia seguito un iter burocatico così lento invece di attivare immediatamente delle efficaci procedure di controllo. Evidentemente, e la presenza di Guglielmi in Via Fani lo dimostra, all'interno dei Servizi c'è chi aveva dato credito alla soffiata, ma invece di prevenire era andato a controllare lo svolgimento dei fatti. Del resto il collega di Guglielmi, da cui l'agente segreto si sarebbe dovuto recare per pranzo, interrogato, ha confermato che egli si era effettivamente presentato nella sua abitazione ma ha anche dichiarato che non era da lui atteso, perchè non era affatto programmato un pranzo. L'ultima clamorosa novità inerente il fatto che qualcuno, negli apparati dello Stato, sapeva che le Brigate Rosse volevano rapire Moro è emersa - a dire il vero qualche anno fa - dall'oceano del web, in un sito costruito da un ex agente segreto del Sid, Antonino Arconte. Nome in codice G.71, Arconte faceva parte di una struttura riservatissima, la Gladio delle centurie, che aveva compiti operativi oltre confine: trecento uomini superaddestrati, che si muovevano all'interno delle strategie della Nato. Arconte, sardo di Cabras, raccontò la sua storia di soldato e di 007 sul suo sito geocities.com/Pentagon/4031). Arruolatosi nel 1970 a soli 17 anni, partecipò a una selezione per entrare nei corpi speciali dell'Esercito. Passò poi al Sid (Servizio informazioni della Difesa), allora guidato dal generale Vito Miceli. Così cominciò la sua avventura in un mondo sotterraneo e silenzioso, muovendosi per tutto il mondo con la copertura di uomo di mare della marineria mercantile. Intervistato Arconte, l'agente G.71, parlò di una sua missione in Medio Oriente, che si intrecciò con la tragedia di Aldo Moro. Ecco cosa disse: "Partii dal porto della Spezia il 6 marzo 1978, a bordo del mercantile Jumbo Emme. Sulla carta era una missione molto semplice: avrei dovuto ricevere da un nostro uomo a Beirut dei passaporti che avrei poi dovuto consegnare ad Alessandria d'Egitto. Dovevo poi aiutare alcune persone a fuggire dal Libano in fiamme, nascondendole a bordo della nave. Ma c'era un livello più delicato e più segreto in quella missione. Dovevo infatti consegnare un plico a un nostro uomo a Beirut. In quella busta c'era l'ordine di contattare i terroristi islamici per aprire un canale con le Br, con l'obiettivo di favorire la liberazione di Aldo Moro". E qui, ecco il mistero: il documento è del 2 marzo '78 e viene consegnato a Beirut il 13. Moro verrà rapito dalle Br il 16. Cioé, nel mondo sotterraneo degli 007 qualcuno si mosse per liberare il presidente della Dc, prima del rapimento. Quindi, si sapeva che Moro sarebbe stato sequestrato. Recentemente una perizia ha confermato che il documento "a distruzione immediata" che è stato fornito da Arconte è originale. Insomma, Gladio sapeva, e con buon anticipo, che Moro stava per essere rapito. Ma torniamo alla mattna della strage. Come ormai accertato anche in sede parlamentare, un tiratore scelto addestratissimo armato di mitra a canna corta, risolse gli aspetti più difficili e delicati della difficile operazione: con una prima raffica, sparata a distanza ravvicinata, colpì i carabinieri Leonardi e Ricci seduti nei pressi di Moro, lasciando però illeso l'onorevole DC. Fu un attacco militare di estrema precisione: la maggioranza dei colpi (49 su di un totale di 93 proiettili ritrovati dalle forze dell'ordine) sparata da una sola arma, un vero e proprio "Tex Willer" descritto dai testimoni (tra i quali un esperto di armi, il Lalli) come freddo e di altissima professionalità. Gli esperti hanno sempre concordato sul fatto che non poteva essere un autodidatta delle Br; nessuno dei membri del commando aveva una capacità tecnica di sparare come quello che alcuni testimoni hanno definito appunto "Tex Willer" ed invece, secondo le perizie, praticamente tutti i colpi letali furono sparati da uno solo dei membri del commando. A ciò si somma il fatto che, secondo una perizia depositata in tribunale, in Via Fani non si sparò solamente da un lato della strada (quello cioè dove si trovavano i quattro brigatisti i cui nomi sono ormai noti), mentre tale ricostruzione è sempre stata negata dai diretti interessati. L'azione, definita degli esperti come "un gioiello di perfezione, attuabile solo da due categorie di persone: militari addestrati in modo perfetto oppure da civili che si siano sottoposti ad un lungo e meticoloso addestramento in basi militari specializzate in azioni di commando", risulta veramente straordinaria se si pensa che, come ha testimoniato Adriana Faranda (anch'ella in azione quel giorno): "gli addestramenti all'uso delle armi da parte dei brigatisti erano estremamente rari perché era considerato pericoloso spostarsi fuori Roma". La stessa Faranda ha però recentemente aggiunto che: " ...era convinzione delle Brigate rosse che la capacità di usare un'arma non era tanto un presupposto tecnico ma piuttosto di volontà soggettiva, di determinazione, di convinzione che si metteva nel proprio operato". Insomma, una - poco credibile - apologia del "fai da te" a dispetto dell'estrema difficoltà dell'azione. Nata quasi venti anni fa dal lavoro di Zupo e Recchia autori del libro "Operazione Moro", la figura di del superkiller è stata ripresa, acriticamente in tutte le successive inchieste. Zupo e Recchia affermano: " Il lavoro da manuale è stato compiuto essenzialmente da due persone una delle quali spara 49 colpi l'altra 22 su un totale di 91 [...] il superkiller quello dei 49 colpi, quasi tutti a segno, quello che ha fatto quasi tutto lui, viene descritto con autentica ammirazione dal teste Lalli anche lui esperto di armi". La perizia balistica identifica sul luogo dell'agguato 91 bossoli sparati da 4 armi diverse. Ed effettivamente 49 bossoli si riferiscono ad un'arma e 22 ad un'altra. Occorre però notare che più volte la perizia mette in evidenza la parzialità delle risultanze data la vastità del campo d'azione e la ressa creatasi subito dopo il fatto: " Non è da scartarsi nella confusione del momento, che curiosi abbiano raccolto od asportato bossoli, o che essi calpestati o catapultati da colpi di scarpa od altro siano rotolati in luoghi ove poi non sono stati più trovati (ad esempio un tombino) ed infine che i bossoli proprio non siano caduti a terra perché trattenuti dentro eventuali borse, ove era trattenuta l'arma che sparava ". Bisogna quindi precisare che 91 non sono i colpi sparati, ma soltanto i bossoli ritrovati sul terreno. Tenendo presente che i colpi sparati potrebbero essere molti di più dei 91 bossoli ritrovati, il fatto che 49 colpi sono stati sparati da un'unica arma acquista un valore del tutto relativo. Se dai bossoli, poi, si passa all'analisi dei proiettili, il dato diventa ancor più aleatorio. La perizia, infatti, afferma: " I proiettili ed i frammenti di proiettili repertati sono relativamente molto pochi, un quarto circa dei proiettili che si sarebbero dovuti trovare in relazione al numero dei bossoli. Non tutti i proiettili, e forse la maggior parte, nello stato come sono, abrasi, dilaniati, deformati e scomposti sono utili per definire le caratteristiche della presumibile arma". Quanto poi all'affermazione dei 49 colpi quasi tutti a segno le risultanze balistiche dicono: " Nei cadaveri in particolare a fronte di almeno 36 ferite da armi fuoco sono stati repertati soltanto 13 proiettili calibro 9 mm 8 di cui sparati da un'arma e 5 da un'altra ". Come si può notare quindi è cosa certa, ed emerge dalla perizia, la presenza in Via Fani di un terrorista che esplode un numero veramente rilevante di colpi. L'altro elemento che è servito per creare la figura del superkiller è l'ormai famosa testimonianza del benzinaio Lalli che afferma: " Ho notato un giovane che all'incrocio con Via Fani sparava una raffica di circa 15 colpi poi faceva un passo indietro per allargare il tiro e sparava in direzione di un'Alfetta [...] L'uomo che ha sparato con il mitra, dal modo con cui l'ha fatto mi è sembrato un conoscitore dell'arma in quanto con la destra la impugnava e con la sinistra sopra la canna faceva in modo che questa non s'impennasse inoltre ha sparato con freddezza e i suoi colpi sono stati secchi e precisi". Lalli parla quindi di una persona esperta nel maneggiare le armi, nulla può chiaramente dire sulla precisione del killer. Ma è veramente indecifrabile questo personaggio che maneggia così bene le armi? Nella sua dichiarazione, Lalli assegna all'esperto sparatore un posto ben preciso: " egli è situato all'incrocio con Via Stresa ". Secondo le ricostruzioni quella posizione è occupata da Valerio Morucci. Perché allora ci sono dubbi sull'identità del brigatista? Evidentemente Morucci potrebbe anche possedere le qualità "tecniche" indicate dal Lalli. Per sincerarcene diamo uno sguardo alla sua "carriera": Morucci entra in Potere Operaio all'inizio degli anni settanta, come responsabile del servizio d'ordine ed è tra i primi a sollecitare una militarizzazione del movimento. Nel febbraio del 1974 è arrestato dalla polizia svizzera perché in possesso di un fucile mitragliatore e cartucce di vario calibro. Alla fine del 1976, al momento dell'entrata nelle Br, devolve all'organizzazione diverse pistole, munizioni, e la famosa mitraglietta skorpion, già usata nel ferimento Theodoli, ed in seguito utilizzata per uccidere Moro. Come componente della colonna romana delle Br partecipa a quasi tutti gli attentati che insanguinano Roma nel 1977. Infine, quando insieme con la Faranda esce dalle Br, pur essendo ormai un isolato senza concrete prospettive militari, decide di riprendersi le proprie armi. Un vero arsenale formato da pistole, mitra e munizioni rinvenuto in casa di Giuliana Conforto al momento del suo arresto, il 29 Maggio 1979. A conferma del rapporto quasi maniacale che Morucci ha con le armi ci sono moltissime testimonianze di compagni brigatisti. Carlo Brogi, un militante della colonna romana nel processo Moro afferma: " Morucci aveva con le armi un rapporto incredibile, anche perché, come lui stesso mi ha detto, molte delle armi che aveva portato via le aveva portate lui nell'organizzazione provenendo dalle F.A.C. e che queste armi erano il risultato d'anni di ricerche per modificarle, per trovare i pezzi di ricambio, insomma erano sue creature. Pertanto per lui separarsene era un insulto a tutto il suo lavoro". Credo che, viste le caratteristiche di Morucci, affermare che fosse in grado di maneggiare correttamente un fucile sia davvero il minimo. Però Morucci - ed è stato confermato più volte anche in Commissione stragi - ha affermato che il suo mitra si inceppò dopo 2 o 3 colpi. Dunque egli non può essere il super killer e probabilmente è anche sbagliata la ricostruzione fatta circa la posizione dei vari brigatisti in Via Fani; se a ciò si aggiunge il fatto che nessuno degli altri membri del commando aveva una preparazione da "commando", la domanda sorge spontanea: ma allora chi era il "Tex Willer" ? I "misteri" sull'azione militare non sono però finiti. In via Fani, dei 93 colpi sparati contro la scorta dell'onorevole Moro, furono raccolti trentanove bossoli sui quali il perito Ugolini, nominato dal giudice Santiapichi nel primo processo Moro, disse quanto segue: " Furono rinvenuti colpi ricoperti da una vernice protettiva che veniva impiegata per assicurare una lunga conservazione al materiale. Inoltre questi bossoli non recano l'indicazione della data di fabbricazione ". In effetti vi era scritto "GFL", Giulio Fiocchi di Lecco, ma il calibro non veniva indicato - come normalmente fanno invece le ditte costruttrici - e nemmeno la data di fabbricazione di quei bossoli. Il perito affermò che " questa procedura di ricopertura di una vernice protettiva veniva usata per garantire la lunga conservazione del materiale. Il fatto che non sia indicata la data di fabbricazione è un tipico modo di operare delle ditte che fabbricano questi prodotti per la fornitura a forze statali militari non convenzionali ". Alla luce di tali rilievi, mi chiedo come sia potuto accadere che in via Fani fossero usati proiettili di questo tipo. In ogni caso, sarebbe interessante sapere come mai questo tipo di proiettili finirono nelle mani delle Brigate rosse e di quel commando che assassinò la scorta di Aldo Moro. Un altro ragionamento poi avvalora la tesi del killer estraneo alle Brigate rosse. Per quale ragione i terroristi del gruppo di fuoco indossavano delle divise dell'ALITALIA? Quello fu effettivamente un accorgimento abbastanza singolare, talmente strano da richiamare l'attenzione dei passanti anziché distoglierla. La spiegazione che viene da trovare risiede nel fatto che forse non tutti i brigatisti del commando si conoscevano fra loro, così la divisa serviva appunto al reciproco riconoscimento, in pratica per non spararsi a vicenda. Una conferma dunque della teoria del Killer "esterno". Ma chi poteva essere questo killer professionista? Due persone piuttosto ben informate, Renato Curcio e Mino Pecorelli, in merito a tale questione hanno parlato di "occasionali alleati" delle Br; gruppi legati alla delinquenza comune che avrebbero per l'occasione "prestato" alcuni uomini per portare a termine quella strage. E quale luogo migliore delle carceri italiane avrebbe potuto fungere da punto di incontro da due realtà tanto diverse? E' infatti al loro interno che si parlò molto del sequestro (o comunque di un attentato) di un'alta personalità politica, tanto che il SISMI ne era stato debitamente informato in tempo utile [un detenuto comune, Salvatore Senese, informò il 16 febbraio 1978 appunto il SISMI che le Brigate rosse stavano progettando un simile sequestro]. Il riferimento che Mino Pecorelli fa sul suo giornale "OP" a Renato Curcio non appare quindi casuale, perché proprio lui potrebbe aver rappresentato il tramite ideale fra i suoi compagni liberi e gli ambienti malavitosi ai quali chiedere temporaneo soccorso. Certi indizi puntano direttamente in Calabria. Di questo parere sembra essere oggi anche Francesco Biscione che afferma: " probabilmente allorché Moretti costituì la colonna romana delle Brigate rosse (fine 1975) aveva già rapporti (viaggi in Sicilia e in Calabria) o con settori criminali o con compagni dell'area del partito armato in grado di metterlo in contatto con segmenti del crimine organizzato ". E ricorda tre episodi che potrebbero costituire un serio indizio in tal senso: " La presenza del Moretti è accertata - scrive - a Catania il 12 dicembre 1975 (insieme con Giovanna Currò, probabile copertura di Barbara Balzerani) presso l'hotel Costa e il 15 dicembre presso il Jolly hotel. Il 6 febbraio 1976 Moretti ricomparve nel Mezzogiorno con la sedicente Currò, a Reggio Calabria presso l'hotel Excelsior. Oltre al fatto che non sono mai state chiarite le finalità dei viaggi - prosegue Biscione - questa circostanza sembra possedere un altro motivo di curiosità: i viaggi, o almeno il secondo di essi avvennero all'insaputa del resto dell'organizzazione tant'è che quando l'informazione venne prodotta in sede processuale suscitò lo stupore di altri imputati ". Il terzo è stato rivelato da Gustavo Selva: dopo la conclusione del sequestro di Aldo Moro " nel luglio 1978 venne arrestato il pregiudicato calabrese, Aurelio Aquino, e trovato in possesso di molte banconote segnate dalla polizia perché parte del riscatto del sequestro Costa operato dalle Br ". E' ovvio che con quei soldi le Br potrebbero aver pagato alla 'ndrangheta qualche partita di armi, ma anche il "prestito" di un killer professionista. Il forte sospetto resta dunque intatto. Da valutare, infine, con la dovuta cautela, l'appunto di Mino Pecorelli ritrovato dopo la sua morte fra le sue carte: " Come avviene il contatto Mafia-Br-Cia-Kgb-Mafia. I capi Br risiedono in Calabria. Il capo che ha ordito il rapimento, che ha scritto i primi proclami B.R., è il prof. Franco Piperno, prof. fis. univ. Cosenza "; anche volendo considerare tutto questo una mera illazione si può comunque, in questo caso, concordare con Francesco Biscione che considera come l'appunto si riferisce ad un'ipotesi ricostruttiva che connette gli indizi riguardanti l'esistenza in Calabria di un terminale decisivo, sebbene di incerta definizione, dell'intera operazione del sequestro Moro. In questo modo trova una logica spiegazione la probabile presenza in via Fani di un killer di "alta professionalità", un professionista che il pentito calabrese Saverio Morabito ha indicato in Antonio Nirta, detto "due nasi" per la sua capacità di usare la lupara, anche se alcune testimonianze più recenti puntano invece il dito contro Agostino De Vuono, anch'egli calabrese ed esperto tiratore tutt'oggi latitante; l'incorgnita comunque resta. Le teorie e le supposizioni sul nome del Killer lasciano però il tempo che trovano di fronte ai fatti: quella mattina del 16 Marzo 1978 le Brigate rosse vennero aiutate, e da più parti, a compiere un'azione troppo più grande delle loro capacità. Ed anche Alberto Franceschini continua ad esternare forti dubbi in merito. Ultima particolarità da annotare riguardo alla tragica giornata del 16 Marzo 1978 è una deposizione di Nara Lazzarini, segretaria di Licio Gelli, fatta nel 1985 al processo Pazienza-Musumeci; la Lazzarini ha ricordato infatti che la mattina della strage di Via Fani il Gran Maestro della P2 ricevette la visita di due persone all'Hotel Excelsior di Roma, e durante il colloquio a Gelli sfuggirono le seguenti parole: " Il più è fatto ". Può non voler dire nulla, è però una testimonianza attendibile e come tale la riporto. E' ormai "verità processuale" (il che non vuol dire che sia verità) che Aldo Moro sia stato tenuto prigioniero, per tutti i 55 giorni del sequestro, nell'appartamento all'interno 1 di via Montalcini 8, nel quartiere Portuense, a Roma. Un primo accenno ad una prigione di Moro era comparsa in un fumetto pubblicato all'inizio di giugno del 1979 dal primo numero di "Metropoli", periodico dell'Autonomia operaia. Nel fumetto (disegni di Beppe Madaudo, sceneggiatura di Melville, pseudonimo usato da Rosalinda Socrate) la tavola con l'interrogatorio di Moro era preceduta da una didascalia che diceva: " Mentre a via Fani cominciano le indagini, nella stanza interna di un garage del quartiere Prati comincia l'interrogatorio di Moro ". Interrogato, Madaudo disse di aver ricalcato il disegno da "Grand Hotel". Certo è che in quel fumetto saltavano fuori notizie allora sconosciute, segno evidente che gli ambienti dell'Autonomia non erano poi così male informati. Dopo la versione disegnata, il primo a parlare della prigione dello statista DC è stato il pentito Patrizio Peci, che ha raccontato però di aver appreso che Moro fu tenuto nascosto nel retrobottega di un negozio poco fuori Roma. La versione di Peci venne in seguito smentita da Antonio Savasta, catturato il 28 gennaio 1982 alla fine del rapimento Dozier. Il Savasta cominciò subito a collaborare e disse di aver saputo che Moro venne tenuto prigioniero in un appartamento di proprietà di Anna Laura Braghetti. All'inizio l'attenzione degli inquirenti si concentrò sull'appartamento che era stato del padre in via Laurentina 501, ma poco dopo le indagini si orientarono su via Montalcini, una casa acquistata nel giugno 1977 per 50 milioni circa, e dove Anna Laura Braghetti si era trasferita nel dicembre dello stesso anno. Due anni dopo anche Valerio Morucci e Adriana Faranda hanno confermato che Moro trascorse tutta la sua prigionia nell'appartamento abitato non solo dalla Braghetti ma anche da Prospero Gallinari, e frequentato da Mario Moretti e da - ma lo si è saputo molto dopo - Germano Maccari, il fantomatico "Ingegner Altobelli". Prima cosa bizzarra è il fatto che il 5 luglio 1980 il giudice Ferdinando Imposimato apprese che l'UCIGOS, nell'estate 1978, aveva svolto indagini sulla Braghetti e via Montalcini. L'appunto sulle indagini gli venne consegnato il 30 Luglio, ma era in forma anonima e non conteneva i nomi di chi aveva svolto le indagini. Sempre a tale proposito, nel febbraio 1982 sul quotidiano "La Repubblica" Luca Villoresi scrisse: " Sono passati pochi giorni dalla strage di via Fani quando alla polizia arriva una prima segnalazione, forse una voce generica, forse una soffiata precisa [...] ma all'interno 1 di via Montalcini 8 gli agenti non bussano ". Nel 1988 si venne poi a sapere che verso la metà di luglio 1978, pochi mesi dopo il sequestro, l'avv. Mario Martignetti (che sembra lo avesse saputo da una coppia di suoi parenti) segnalò all'On. Remo Gaspari che una Renault 4 rossa come quella in cui le Br lasciarono il cadavere di Moro era stata vista in via Montalcini 8 nel periodo del rapimento ed era scomparsa dopo la morte di Moro. Gaspari informò il ministro Rognoni il quale attivò le indagini subito affidate all'UCIGOS. In seguito, l'ispettrice dell'UCIGOS incaricata del caso ha riferito che dalle indagini era emerso che, fino al giugno 1978, con la Braghetti abitava un uomo che si faceva chiamare Ingegner Altobelli. L'ispettrice disse anche che, ritenendo che una perquisizione a due mesi dalla morte di Moro avrebbe dato esito negativo e avrebbe insospettito la Braghetti, preferì farla pedinare per cercare di arrivare ad Altobelli o scoprire se frequentava gruppi eversivi. I pedinamenti durarono fino alla metà di Ottobre ma ebbero risultati negativi perché la Braghetti usciva puntualmente per recarsi al lavoro e al ritorno a casa faceva cose normali. Il 16 ottobre 1978, un appunto dell'UCIGOS informò la magistratura che gli inquilini dell'interno 1 non destavano sospetti. I pedinamenti e le richieste di informazioni sul suo posto di lavoro (di cui la Braghetti viene a sapere) spinsero però la terrorista ad entrare in clandestinità e a lasciare (il 4 ottobre '78) l'appartamento, che nel frattempo aveva venduto ad una signora (moglie del segretario particolare dell'ex ministro Ruffini). Nell'agosto 1978 la Braghetti ebbe un'accesa disputa con l'ex inquilino dell'appartamento, Gianfranco Ottaviani, che aveva mantenuto la disponibilità della cantina; la Brigatista scardinò la porta della cantina e l'ex inquilino chiamò immediatamente la polizia. Per una lite banale la brigatista rischiò così un pericoloso intervento della polizia. Ma invece proprio quella lite venne usata dall'UCIGOS per spiegare che la Braghetti e Altobelli, che risultava trasferito in Turchia da qualche mese per motivi di lavoro, non erano sospettabili, perché altrimenti avrebbero evitato la lite con l'intervento del 113. Solo nel 1993 si è arrivati alla vera identità del così detto "quarto uomo", Germano Maccari, che sembra proprio essere quell'ing. Altobelli a cui erano intestate le utenze di luce e gas, come lui stesso ammette nel 1996. Stranamente l'individuazione di Maccari avvenne proprio lo stesso giorno in cui trapelarono dalla stampa le dichiarazioni di Saverio Morabito secondo il quale Antonio Nirta, killer della mafia calabrese e confidente del generale dei carabinieri Francesco Delfino, era stato " uno degli esecutori materiali del sequestro dell'on. Aldo Moro " . Molto interessante mi è parsa una circostanza apparsa nel suo recente libro "Il delitto Moro" da Francesco Biscione, e riguardante il fatto che nelle immediate vicinanze di via Montalcini, a pochi passi dal covo delle Br, abitavano numerosi esponenti della Banda della Magliana. L'elenco è molto dettagliato: " In via G. Fuggetta 59 (a 120 passi da via Montalcini) abitavano Danilo Abbruciati, Amelio Fabiani, Luciano Mancini; in via Luparelli 82 (a 230 passi dalla prigione del popolo) abitavano Danilo Sbarra e Francesco Picciotto (uomo del Boss Pippo Calò); in via Vigna due Torri 135 (a 150 passi) abitava Ernesto Diotallevi, segretario del finanziere P2ista Carboni); infine in via Montalcini al n°1 c'era Villa Bonelli, appartenente a Danilo Sbarra ". In effetti la "Prigione del Popolo" era situata proprio nel quartiere romano della Magliana, una zona notoriamente controllata in modo capillare da quel particolare tipo di malavita collegato, come poi si è saputo con certezza, a settori dei servizi segreti, alla P2 e all'eversione nera. Se davvero Aldo Moro è stato tenuto nel territorio della Banda della Magliana per tutto il periodo del sequestro, appare altamente improbabile che la malavita della zona non ne fosse venuta a conoscenza. Ma lo Stato si stava dando da fare per rintracciare la "Prigione del Popolo"? Ad un osservatore inesperto i numeri sembrerebbero dire di si. Dalla relazione della Commissione Moro emerge che dal 16 marzo al 10 maggio '78 vennero attuati 72.460 posti di blocco di cui 6.296 nella sola Roma; effettuate 37.702 perquisizioni domiciliari di cui 6.933 nelle case dei cittadini della capitale; controllate 6.413.713 persone (cioè circa un italiano ogni 10) impegnando ogni giorno 13.000 uomini delle forze dell'ordine con l'ausilio di 2.600 automezzi. Questa enorme mobilitazione non portò apparentemente a nulla, anzi, nel periodo del rapimento Moro le Br commisero 2 omicidi, 6 ferimenti, 5 incendi di auto ed un attentato contro una caserma dei Carabinieri. Come ha affermato il Procuratore generale di Roma Pascalino: «Tante volte si fanno azioni dimostrative per tranquillizzare la popolazione [...] non posso spiegarlo, non sta a me spiegare perchè si prferì fare operazioni di parata anzichè ricerche. E in quei giorni si fecero operazioni di parata». Però non ho usato il termine "apparentemente" a caso: nonostante tutto le forze di polizia il 3 aprile '78 era riuscita a fermare o individuare molti personaggi legati o vicini alle Br. Tanto per fare alcuni nomi importanti si potrebbero citare Valerio Morucci, Adriana Faranda, Bruno Seghetti. Incredibilmente però queste operazioni di controllo non ebbero alcun seguito di indagine. Per quanto riguarda la gestione del rapimento, il campo si ristringe, diminuiscono drasticamente le prove e di contro aumenta il numero di indizi e deduzioni logiche possibili. Due avvenimenti accaduti il 18 aprile segnarono a mio avviso gli sviluppi successivi del rapimento proprio in questa direzione: la misteriosa scoperta del covo di via Gradoli ed il quasi contemporaneo ritrovamento del falso comunicato n°7. La scoperta di una base delle Br in Via Gradoli avvenne in un modo casuale ma alquanto strano: i pompieri furono chiamati dagli inquilini dei piani inferiori per una perdita d'acqua dall'appartamento dove andava a dormire il leader delle Br, Mario Moretti (colui che interrogò Aldo Moro). L'ipotesi che ho cercato di avvalorare - come sempre tra mille difficoltà e poche prove certe - è che quel covo, sia stato "bruciato" da qualcuno [servizi segreti? Un infiltrato? Oppure dei brigatisti contrari all'uccisione di Moro?] grazie al trucchetto della doccia rivolta verso il muro per permettere a chi di dovere di recuperare le carte di Moro riguardanti la P2, Gladio e tutto ciò che era probabilmente contenuto nelle sue borse scomparse nonché le confessioni fatte dal presidente alle Br. Un'altra teoria riguarda il fatto che la scoperta del covo di via Gradoli fu in qualche modo pilotata dallo stesso Moretti per indurre un certo stato d’animo nell'organizzazione, per forzare la mano con i propri compagni e farli convincere che non c'era più tempo. Comunque sia, il tutto venne fatto in modo assai rumoroso per permettere agli inquilini di essere informati per tempo dalla TV e poter così continuare a gestire il rapimento. Serviva però un diversivo, qualcosa che distogliesse l'attenzione generale dal covo; ecco che lo stesso giorno "qualcuno" fece ritrovare il falso comunicato N°7, quello dove si sosteneva che il cadavere di Aldo Moro si trovava in fondo al Lago della Duchessa. Allo stesso tempo questa doppia operazione ha probabilmente segnato in modo decisivo il rapimento, nel senso che questo era un chiaro avvertimento rivolto alle stesse Br: "Guardate che possiamo prendervi quando vogliamo, che non vi venga in mente di far concludere il sequestro in un modo differente da quello indicato dal falso comunicato perché potreste pagarlo caro...". Dunque mentre il comunicato arrivava al Viminale, i vigili del fuoco arrivavano in via Gradoli: le due messinscene che procedettero in perfetta sincronia, due "sollecitazioni" fatte affinché il sequestro si concludesse rapidamente e nella maniera più idonea. Nello stesso comunicato - oltre a suggerire ai brigatisti quale fosse l'epilogo più opportuno del rapimento - si trovano infatti dei precisi "segnali" che dovevano indirizzare le Br in tale direzione, come l'accenno alla morte di Moro mediante suicidio, proprio come era accaduto ai capi della RAF in Germania nel carcere di Stammheim. Non è affatto credibile poi che l'appartamento di Via Gradoli 96 sia stato lasciato da Moretti e Barbara Balzerani nelle condizioni in cui è stato descritto nei verbali della polizia: bombe a mano sparse sul pavimento, un cassetto messo in bella mostra sul letto e contenente una pistola mitragliatrice, documenti e volantini disseminati ovunque [proprio come se qualcuno avesse messo sottosopra il covo per cercare qualcosa...]. E pare perfino incredibile che le forze dell'ordine si siano comportate in un modo così "rumoroso" (volanti giunsero a sirene spiegate e immediatamente si formò una piccola folla di curiosi e giornalisti) subito dopo la scoperta del covo, quando invece dopo il ritrovamento della base di Robbiano di Mediglia avevano atteso con la massima discrezione il rientro dei terroristi arrestandoli uno dopo l'altro. A mio avviso, l'occulta regia della duplice manovra del 18 Aprile poté procedere liberamente all'interno del covo predisponendo una messinscena, allo stesso tempo diffuse un comunicato falso ma "tecnicamente" verosimile, chiaro segnale di una perfetta conoscenza dei retroscena del sequestro e di come le Br e Moretti lo stessero conducendo. Appare comunque quantomeno bizzarra anche la scelta (effettuata da Moretti nel 1975) di Via Gradoli come luogo adatto a stabilirvi un covo delle Br, e non un covo qualsiasi, ma il primo e principale punto di riferimento dei brigatisti a Roma, abitato nell'ordine da Franco Bonisoli, Carla Brioschi, Valerio Morucci, Adriana Faranda, Mario Moretti e Barbara Balzerani ma noto anche ad altri brigatisti. La bizzarria risiede nel fatto che via Gradoli era una strada stretta e circolare, lunga seicento metri e con un solo accesso-uscita sulla via cassia; dopo un breve tratto rettilineo di appena cento metri la strada disegnava un circuito di mezzo chilometro e ritornava al breve tratto "obbligatorio", dal quale si poteva agevolmente controllare gli spostamenti di tutti gli abitanti della via, l'esatto opposto, dunque, delle normali cautele adottate normalmente dai brigatisti. Caso vuole poi che al n° 89 di via Gradoli, nell'edificio che fronteggiava - dalla parte opposta della strada - il civico 96 con il covo delle Br, abitava il sottufficiale dei Carabinieri Arcangelo Montani, agente del SISMI. Ma i servizi segreti non si limitavano solamente a controllare la via, via avevano addirittura stabilito un proprio ufficio; di questo un ex militante di Potere operaio aveva avvisato le Br, ma esse, una volta localizzato con precisione quell'ufficio, decisero incredibilmente di mantenere ugualmente il covo in quella strada. Tornando ai giorni del rapimento, una delle possibili implicazioni logiche che la scoperta "accidentale" del covo comportò fu quella di far diventare anche la prigione di via Montalcini piuttosto insicura, dunque è possibile - anzi, assai probabile - che Moro sia stato portato velocemente in un altro covo-prigione. Le carte di Moro all'interno del covo "bruciato" furono forse ritrovate, ma probabilmente non nella loro totalità, e la cosa dovette suscitare le ire degli interessati, tant'è vero che - ma qui forse le mie ipotesi diventano troppo fantasiose - chi nel corso degli anni ne è stato probabilmente in possesso è stato in qualche modo eliminato (Pecorelli e Dalla Chiesa, tanto per fare due nomi). Con il duplice messaggio del 18 Aprile, rivolto chiaramente al vertice Br, la gestione del sequestro entrò in una nuova fase; non c'era altro tempo, le Brigate rosse non avevano più la possibilità di proseguire la "campagna di primavera" da loro progettata ma dovevano piegarsi a delle volontà indiscutibilmente superiori: apparati "deviati" dello stato ed il loro occasionale "braccio destro", la "Banda della Magliana" cui apparteneva Chichiarelli. Come vedremo, molti indizi ci indirizzano proprio in questo sentiero. Ma esiste un'altra ipotesi da valutare. Come sostenuto dal recente volume 'Il Misterioso intermediario' di Fasanella e Rocca: "A lasciare aperta la doccia potrebbe essere stato lo stesso Moretti. E usando la logica capovolta, che spiega molti episodi di queste trame occulte, se ne può comprendere anche il perché. Il capo brigatista si era impossessato della gestione del sequestro, esautorando di fatto i compagni. Forse voleva che ai militanti giungesse il messaggio che a Roma non c'era più nessun nascondiglio sicuro, visto che era stata scoperta perfino la base del capo; e che di conseguenza, bisognava affrettarsi a portare Moro fuori città". Ma se il 18 Aprile '78 fu la data dalla quale cambiò materialmente la gestione del rapimento, il momento in cui venne presa - e da più parti - la decisione di intervenirvi direttamente fu con ogni probabilità immediatamente successiva, e precisamente quando venne resa nota la prima lettera di Moro a Cossiga, in cui sollecitava la trattativa con le Br invocando la ragion di stato e non motivi umanitari. Quella lettera doveva restare segreta e nelle intenzioni di Moro doveva servire ad aprire un canale diretto per la trattativa. Invece Mario Moretti la allegò al comunicato numero 3 delle Br, in cui si annunciava che il processo a Moro stava continuando " con la piena collaborazione del prigioniero ", e la fece recapitare ai giornali. A quel punto probabilmente si attivarono molti servizi segreti: quelli occidentali per proteggere gli eventuali segreti rivelati da Moro, quelli orientali per carpirli. I primi promettendo salvacondotti ai brigatisti; i secondi aiuti e appoggi alla rivoluzione. Una conferma che la base Br di Via Gradoli 96 - "centrale operativa" del sequestro Moro - fosse nota a molti si ebbe pochi giorni dopo il rapimento di Moro, quando cinque agenti del commissariato "Flaminio Nuovo", guidati dal maresciallo Domenico Merola perquisirono appunto gli appartamenti di via Gradoli 96. Durante il primo processo, Merola racconta che l'ordine era venuto, la sera prima dell'operazione, dal commissario Guido Costa. " Non mi fu dato l'ordine di perquisire le case. - dice il maresciallo ai giudici - era solo un'operazione di controllo durante la quale furono identificati numerosi inquilini, mentre molti appartamenti furono trovati al momento senza abitanti e quindi, non avendo l'autorizzazione di forzare le porte, li lasciammo stare, limitandoci a chiedere informazioni ai vicini. L'interno 11 fu uno degli appartamenti in cui non trovammo alcuno. Una signora che abitava sullo stesso piano ci disse che li' viveva una persona distinta, forse un rappresentante, che usciva la mattina e tornava la sera tardi ". " Fui io a disporre i controlli dei mini appartamenti della zona - conferma il vice questore Guido Costa - in seguito ad un ordine impartito dal questore, che allora era Emanuele De Francesco. L'esito dell'operazione fu negativo ". La data della mancata perquisizione del covo è il 18 marzo 1978, due giorni dopo il rapimento, almeno secondo la relazione informativa scritta da Merola e consegnata da De Francesco ai giudici solo nel 1982, perché fino a quel momento non era stato possibile trovarla. Nell'estate del 1978, il giornalista Sandro Acciari scrisse sul "Corriere della sera" che tra il 16 e il 17 marzo, alla segreteria del ministero dell'Interno era arrivata una segnalazione anonima dell'esistenza di un covo delle Br in via Gradoli e che il ministro Cossiga aveva incaricato il capo della polizia Parlato di disporre perquisizioni nella zona. Parlato, interrogato dal giudice Achille Gallucci aveva smentito questo fatto. Nel 1982, al processo, Acciari disse di aver appreso la notizia, a livello di indiscrezione, negli ambienti del palazzo di giustizia, e di avere avuto conferma da Luigi Zanda, all'epoca addetto stampa del ministro dell'Interno Cossiga. Acciari ha precisato però di aver saputo in seguito dallo stesso Zanda che nella loro conversazione telefonica ci fu un equivoco, perché Zanda credeva che Acciari si riferisse alla vicenda della seduta spiritica in cui emerse il nome "Gradoli". Anche il giornalista Mino Pecorelli, ucciso un anno dopo in circostanze ancora oscure, e anche lui presente nelle liste della P2, scrisse sul numero del 25 aprile 1978 del suo settimanale "OP": " Nei primi dieci giorni dopo il sequestro di Moro, in seguito ad una soffiata preziosa, via Gradoli e in modo speciale lo stabile numero 96 erano stati visitati ben due volte da squadre di polizia. Ma davanti alle porte degli appartamenti trovati disabitati, i poliziotti avevano desistito. Avevano bussato doverosamente anche alla porte dell'appartamentino-covo e non ricevendo l'invito ad entrare se n'erano andati ". Prima di procedere oltre mi preme sottolineare quanto affermato da Flamigni sulle fonti di Pecorelli (già affiliato alla P2 ma ai tempi del rapimento 'dissociato'): "la rete informativa e le fonti di Pecorelli durante i 55 giorni del sequestro Moro risulteranno documentate dalle agende del giornalista. Vi erano annotati contatti, telefonate e incontri [...] soprattutto con appartenenti ai servizi segreti: dal P2ista Umberto D'Amato (esperto di intelligence, consigliere del ministro dell'interno e capo della Polizia), a Vito Miceli (ex capo del SID, affiliato alla P2) dal generale Maletti (P2) al capitano Labruna (P2) al capitano d'Ovidio (P2)". Ma c'erano anche incotri con i magistrati Infelisi e DeMatteo, con avvocati, con politici di varie forze politiche, con il venerabile maestro Licio Gelli. Le informazioni a sua disposizione erano dunque sempre di primissima mano. Tra le vicende inusuali accadute durante i 55 giorni del rapimento Moro è da menzionare - se non altro per il nome dei presenti - anche quella del 2 aprile 1978. Nella casa di campagna di Alberto Clò a Zappolino, alle porte di Bologna, si riunì un gruppo di professori universitari con tanto di mogli e bambini. Erano presenti l'ex presidente del Consiglio Romano Prodi con la moglie Flavia, Alberto, Adriana, Carlo e Licia Clò, Mario Baldassarri e la moglie Gabriella, Francesco Bernardi, Emilia Fanciulli. Secondo i racconti, per allentare la noia di una giornata di pioggia, a qualcuno dei partecipanti venne la bizzarra idea di tenere una seduta spiritica. I partecipanti avrebbero quindi evocato gli spiriti di don Luigi Sturzo e Giorgio La Pira chiedendo loro dove si trovasse la prigione di Aldo Moro. Gli spiriti - incredibilmente - formarono le parole Bolsena-Viterbo-Gradoli e indicarono anche il numero 96. Secondo i racconti dei partecipanti, fu proprio il terzo nome ad incuriosirli, tanto da prendere un atlante per controllare se esistesse una località chiamata Gradoli. Il 4 aprile, a Roma per un convegno, Prodi parlò di questa indicazione a Umberto Cavina, capo ufficio stampa della DC, che la trasmise a Luigi Zanda, addetto stampa del ministro dell'Interno, il quale fece un appunto per il capo della polizia, Giuseppe Parlato. Parlato ordinò di perquisire la zona lungo la statale 74, nel piccolo tratto in provincia di Viterbo, in località Gradoli, casa isolata con cantina. Il rastrellamento della zona viene effettuato il 6 aprile, senza risultati. Nel luglio 1982, al processo, Eleonora Moro, moglie di Aldo Moro, ha raccontato che, quando venne a sapere della seduta spiritica (in quell'occasione, la signora Moro dice però che l'indicazione Gradoli venne fuori " due o tre giorni dopo il rapimento " e questo contrasta con la data indicata per la seduta spiritica), riferì " la cosa all'on. Cossiga e ad un funzionario che credo fosse il capo, il responsabile delle indagini, ma non ricordo come si chiamasse. Chiesi loro - continua la signora Moro - se erano sicuri che a Roma non esistesse una via Gradoli e perché avessero pensato subito, invece, al paese Gradoli. Mi risposero che una tale via non c'era sulle pagine gialle della città. Ma quando se ne andarono da casa, io stessa volli controllare l'elenco e trovai l'indicazione della strada. In seguito mi dissero che erano stati a vedere in quella zona, ma avevano trovato solo alcuni appartamenti chiusi. Si giustificarono dicendo che non potevano sfondare le porte di ogni casa della strada ". Il giorno dopo Giovanni Moro, figlio di Aldo, conferma che fu Cossiga a sostenere che via Gradoli non esisteva nello stradario di Roma. Cossiga ha però escluso di essere lui la persona che negò l'esistenza di via Gradoli. Nel 1995, la relazione sulle stragi e il terrorismo presentata dal presidente della commissione parlamentare Giovanni Pellegrino sostenne che l'indicazione di Gradoli era filtrato negli ambienti dell'Autonomia bolognese e il riferimento alla seduta spiritica non era altro che un trasparente espediente di copertura della fonte informativa. A parziale conferma di ciò sta anche la testimonianza di Giulio Andreotti che, davanti alla Commissione, ha detto: " non credo alla storia di Gradoli a cui si arrivò con la seduta spiritica. Quell'indicazione venne dall'Autonomia operaia di Bologna. Non lo si disse per non dover inguaiare qualcuno ". Pochi giorni dopo, Bettino Craxi intervenne sul caso Moro sostenendo che " nessuno può credere alla tesi della seduta spiritica dal momento che le notizie su via Gradoli si seppero da ambienti legati strettamente all'organizzazione terroristica. Gli stessi che ci diedero notizie anche di via Montalcini ". " Gradoli - ha confermato in quei giorni l'avv. Giancarlo Ghidoni, difensore di molti esponenti dell'autonomia bolognese - era una parola che nell'ambiente di Autonomia Operaia si sussurrava. L'organizzazione all'epoca del sequestro Moro premeva perché lo statista non fosse ucciso e fosse liberato. L'Autonomia era molto preoccupata, voleva che cessassero certe attività, convinta che il fucile stesse sopravanzando la testa, e che certe cose andassero a danno della sinistra rivoluzionaria [...] Una persona, di cui non posso ovviamente rivelare il nome, mi disse: "Hanno detto che Moro è a Gradoli. Intendeva proprio il paesino del viterbese dove andarono a cercare Moro, non la via romana con lo stesso nome. Evidentemente le informazioni che aveva erano parziali" ". Infine, da una nota della DIGOS del 19 agosto 1978, che riprende un appunto precedente dell'UCIGOS, risulta che via Gradoli era sotto controllo già in epoca precedente al sequestro Moro per la segnalazione nella strada della ripetuta presenza di un furgone Volkswagen di proprietà di Giulio De Petra, militante di Potere Operaio, il cui numero telefonico era nell'agenda di Morucci. Le cose non devono però sorprendere; in effetti Valerio Morucci era ritenuto un valido appoggio "militare" da parte di tutte l'ala dura dell'ormai disciolto Potere Operaio, pochi però sanno che egli agiva d'intesa con Piperno e Pace svolgendo il ruolo di cerniera tra le Br e l'Autonomia nell'ambito della progettata unificazione di tutte le organizzazioni armate, al fine di rendere praticabile " l'irlandizzazione della capitale ". Nel 1997 l'on. Enzo Fragalà, chiedendo l'audizione di Prodi in commissione parlamentare d'inchiesta sulle stragi e il terrorismo, ha detto: " in via Gradoli vi erano quattro interni 11, due civici 96 con due scale ciascuna. Vi furono indicazioni diverse fra DIGOS e commissariato Flaminio Nuovo sulle scale da perquisire; vi sono legami di società intestatarie di alcuni interni 11 e altre società collegate con il ministero dell'Interno e con il Sisde; all'interno del covo Br fu ritrovato il numero di telefono dell'immobiliare Savellia, società di copertura del Sisde; perché non si é indagato sui mini-appartamenti di via Gradoli 96 e 75 intestati all'ex capo della polizia Parisi e sui rapporti tra Domenico Catracchia, già amministratore del palazzo, e lo stesso Parisi ? ". All'Immobiliare "Savellia" era intestato anche un palazzo in via di Monte Savello (vicino al ghetto ebraico e a via Caetani), di cui c'erano tracce in un appunto di Moretti. L'8 marzo 1998, l'ex deputato socialista Falco Accame, criticando la mancata attuazione del "piano Paters", segnalò l'appartamento di via Gradoli come riconducibile alla società immobiliare Savellia, società di copertura del SISDE. Secondo Accame, come per Fragalà, " i mini appartamenti di via Gradoli, numeri 96 e 75, erano intestati all'ex capo di polizia ". Attualmente l'Immobiliare Savellia risulta di proprietà del Sovrano Ordine di Malta. In Via Gradoli i servizi segreti italiani disponevano però anche di un ufficio; la cosa venne riferita alle Br da un'ex militante di Potere Operaio, ma nonostante questo, i brigatisti decisero di mantenere ugualmente il loro covo in quella strada, in barba a qualsiasi legge della logica e della sicurezza (tanto più che nella stessa via Gradoli c'era anche un covo frequentato da estremisti di destra) 46. Anche questo fatto risulta essere piuttosto strano. C'è però un'altra pista da seguire: c'era qualcuno che all'interno delle Brigate rosse riteneva talmente sbagliata l'operazione in progetto da tentare di farla fallire avvertendo in anticipo le forze istituzionali ? Un'ipotesi da fare è che all'interno delle Brigate rosse vi fosse un partito della trattativa che mirava alla salvezza della vita di Moro e che questo gruppo, oltre a discutere per tentare di far maggioranza sulla propria opinione, abbia messo addirittura lo Stato sulle tracce, per esempio, del covo di via Gradoli. Infatti, scoprire quel covo avrebbe significato arrivare subito a Moretti. Ed a via Gradoli fu mandata per ben tre volte la Polizia ed addirittura fu fatta arrivare a Prodi ed a Clò l'indicazione "Gradoli", che poi fu mistificata con la famosa seduta spiritica di cui tutti sappiamo. E' vero che vi era questo partito della trattativa (altrimenti detto "ala Movimentista") all'interno delle Brigate rosse il quale, ritenendo politicamente disastrosa l'uccisione di Moro, tentò in tutti i modi di far scoprire il covo di via Gradoli, alla fine addirittura col telefono della doccia in cima ad un manico di scopa messo contro il muro per far allagare l'appartamento di modo che, visto che non se ne poteva più di uno Stato che non riusciva a scoprire il covo, fossero almeno i pompieri ad arrivarvi, trovando sul muro steso il drappo delle Brigate rosse e sul tavolo tutte le armi affinché fosse chiarissima l'indicazione che si trattava proprio di un covo dei terroristi? E' bene ricordare che la porta del covo non era stata scassinata e inoltre che per motivi di sicurezza, era abitudine dei brigatisti non avere più di due chiavi di ogni covo, dunque siccome Via Gradoli 96 era in quel periodo frequentata solo da Moretti e da Barbara Balzerani, è logico supporre che solamente loro avessero le chiavi. Questa spiegazione è supportata - ovviamente - dalla Faranda, cioè da colei che (assieme a Morucci) potrebbe essere l'artefice di un tale piano essendo il duo notoriamente contro un epilogo tragico del rapimento Moro. Dagli atti del processo "Metropoli" traspare (a mio avviso perfino in modo un pò eccessivo) che Morucci e Faranda erano pedine in mano a Piperno, leader dell'Autonomia, e guarda caso è proprio dalle file dell'Autonomia che provenivano tutti i "messaggi" a favore degli inquirenti (da quello di Radio città futura a quello emerso nella seduta spiritica di Prodi). Dunque Morucci e la Faranda, nel periodo di circa due mesi in cui lo avevano abitato, avevano fatto delle copie della chiave che apriva il covo di Via Gradoli ? Furono loro ad architettare il tutto ? E' una possibilità, è in quanto tale la riporto, però oggettivamente non mi sento di dargli troppo peso, anche e soprattutto in considerazione della "coincidenza" temporale con il ritrovamento del falso comunicato n° 7, vero punto di svolta del sequestro. A dire il vero c'è un'altra possibilità, cioè che effettivamente il nome Gradoli sia stato fatto saltar fuori proprio come riferimento al paesino di Gradoli -sito nella zona di Bolsena- e poi effettivamente rastrellato da circa 2000 agenti, perché l'operazione di polizia in quel paese serviva a dare l'allarme agli occupanti di via Gradoli che, infatti, dopo poco abbandonarono il covo. A questa ipotesi mi sento di rispondere che in questo caso i brigatisti avrebbero certamente evitato di abbandonare il covo con tutto il materiale che vi è stato poi ritrovato, armi e documenti in primis, e poi la perquisizione del paesino è un pò troppo antecedente. A questo punto sorge però spontanea un'altra domanda: a Moretti e alla Balzerani deve aver fatto piuttosto paura sentire che la polizia stava perlustrando un posto con lo stesso nome della via ove si recavano a dormire, questo però solo usando la logica, una logica che gli avrebbe dovuto suggerire di abbandonare velocemente quel covo, un logica che invece non li ha guidati, se è vero com'è vero che i due brigatisti hanno dormito in quell'appartamento fino alla sera precedente la sua scoperta. Come potevano essere sicuri che la polizia non sarebbe arrivata e avrebbe messo sotto sopra anche la Via Gradoli dopo il paesino Gradoli del Viterbese ? Fu incoscenza o certezza ? L'8 maggio 1978, alla vigilia dell'uccisione di Aldo Moro: il Corriere della Sera pubblicò in prima pagina un articolo, firmato da Sandro Acciari e Andrea Purgatori, che parlava di elenchi trovati nel covo Br di via Gradoli, scoperto il 18 aprile. Gli elenchi di cui si parlava sarebbero stati due: uno contenente nomi di politici, militari, industriali e funzionari di enti pubblici, l'altro di esponenti della DC a livello regionale, provinciale e comunale. L'articolo rendeva noti anche alcuni dei nomi contenuti nel primo elenco: Loris Corbi, Beniamino Finocchiaro, Michele Principe, Publio Fiori. Del secondo elenco era citato solo Girolamo Mechelli (ferito in un attentato il 26 aprile 1978), la cui presenza nelle liste venne però smentita dalla DIGOS, che così confermò implicitamente l'esistenza degli elenchi. Il giorno dopo, il 9 maggio, mentre tutti i giornali si occupavano della vicenda, il Corriere della sera pubblicò un altro articolo sullo stesso argomento e vennero fatti anche i nomi di Gustavo Selva e dell'on. Giacomo Sedati (DC). Il 10 maggio i giornali furono completamente occupati dalla notizia dell'avvenuta uccisione di Moro, verificatasi il 9, e quindi la serie di rivelazioni si interruppe. Naturalmente questi elenchi, trovati in un covo Br, vennero ritenuti una "schedatura" di potenziali vittime di attentati, un'ipotesi rafforzata dal fatto che Fiori era già stato ferito in un agguato, il 2 novembre 1977. Nel 1978 però erano ancora sconosciuti gli elenchi dei presunti iscritti alla P2 [ poi trovati dalla Guardia di Finanza a Castiglion Fibocchi nel 1981 ] e nessuno poteva far caso ad un qualsiasi legame esistente tra quei nomi. Solo adesso possiamo notare infatti che, a parte Sedati, i nomi delle altre cinque persone (su sei), Corbi, Principe, Finocchiaro, Fiori e Selva comparivano anche nelle liste della P2, composta, in effetti, soprattutto da politici, militari, industriali e funzionari di enti pubblici, come l'elenco trovato in via Gradoli. E' una coincidenza un po' strana, soprattutto se si pensa che la stessa mattina del 18 aprile, giorno della scoperta del covo di via Gradoli, "qualcuno" architettò il falso comunicato del lago della Duchessa. Il falso comunicato, preparato da Toni Chichiarelli (falsario legato alla banda della Magliana) e tutto ciò che logicamente ne sarebbe seguito, sembra dunque essere stato organizzato anche per distrarre l'attenzione generale dal materiale ritrovato in via Gradoli. Se però questo materiale si trovava in via Gradoli insieme ad un elenco di iscritti e funzionari locali della DC, è probabile che provenisse da quelle famose borse di Moro che sembrano non esser mai state ritrovate (i brigatisti - o meglio Gallinari che ne fu incaricato - hanno detto di aver bruciato tutte le carte di Moro) e che poteva contenere informazioni su apparati dei servizi segreti paralleli e altre organizzazioni di sicurezza allora sconosciute (Gladio, P2, ecc...). Assolutamente incredibile - anche a detta della Commissione Moro - fu poi il ritardo con il quale venne studiato il materiale ritrovato all'interno del covo di Via Gradoli: un'analisi attenta avrebbe infatti permesso alle forze di polizia di arrivare facilmente alla tipografia Triaca di Via Foà, ove le Br stampavano tutto il loro materiale e dove lo stesso Moretti spesso passava. Le forze di pubblica sicurezza giunsero all'individuazione della tipografia soltanto dopo la conclusione del rapimento di Aldo Moro. Obbligatorio adesso fare un excursus sulla figura del falsario Toni Chichiarelli, colui che scrisse il falso comunicato n°7, ed a questo proposito nulla mi è sembrato meglio delle parole con cui il defunto On. Cipriani argomentò le sue scoperte di fronte alla Commissione Parlamentare: " Toni Chichiarelli è un personaggio romano legato alla banda della Magliana, con tutto ciò che ne consegue: conosciamo infatti i collegamenti della banda della Magliana con la mafia, con la destra eversiva e con i servizi segreti, in particolare con la persona del generale Santovito che guarda caso faceva parte di uno dei comitati di crisi. Toni Chichiarelli era anche in contatto con un informatore, un agente del Sisde, tale Dal Bello, un personaggio di crocevia anche con la malavita romana, con i servizi segreti e la banda della Magliana. Toni Chichiarelli interviene nella vicenda Moro dimostrando di essere un personaggio assai addentro alla vicenda stessa (questo è quanto scrive il giudice Monastero che ha condotto l'istruttoria sull'assassinio di Toni Chichiarelli), come dimostrano due episodi. Il primo, che è stato chiarito, è il seguente: Toni Chichiarelli è l'autore del comunicato n.7, il falso comunicato del Lago della Duchessa; ed è anche l'autore del comunicato n.1 in codice, firmato Brigate rosse-cellula Roma sud. Toni Chichiarelli fece trovare un borsello su un taxi, all'interno di questo borsello erano contenuti alcuni oggetti che facevano capire che lui conosceva dal di dentro la vicenda Moro. Fece trovare infatti nove proiettili calibro 7,65 Nato, una pistola Beretta calibro 9 (e si sa che Moro è stato ucciso da undici colpi, dieci di calibro 7,65 e uno di calibro nove); fece trovare dei fazzoletti di carta marca Paloma, gli stessi che furono trovati sul cadavere di Moro per tamponare le ferite; fece trovare quindi una serie di messaggi in codice, e una serie di indirizzi romani sottolineati; fece trovare dei medicinali e anche un pacchetto di sigarette, quelle che normalmente fumava l'onorevole Moro; inoltre un messaggio con le copie di schede di cui farà ritrovare poi l'originale in un secondo episodio. Vi è un secondo aspetto. Dopo la rapina della Securmark, ad opera della banda della Magliana con Toni Chichiarelli come mente direttiva, quest'ultimo fa trovare - lo scrive il giudice Monastero - una busta contenente un altro messaggio con gli originali di quattro schede riguardanti l'on. Ingrao ed altri personaggi. Questa volta, come dicevo, ci sono gli originali: si tratta di schede relative ad azioni che erano state programmate e previste; fa trovare però anche un volantino falso di rivendicazione delle Brigate rosse. Il giudice poi scrive: "Si rinveniva una foto Polaroid dell'onorevole Moro apparentemente scattata durante il sequestro". Viene eseguita una perizia di questa foto, e si rileva che non si tratta di un fotomontaggio. Come sappiamo, delle Polaroid non si fanno i negativi; è quindi una foto originale di Moro in prigione che Chichiarelli, dopo l'episodio del borsello, fa ritrovare in questo secondo messaggio, con le schede originali che riguardano Pietro Ingrao, Gallucci, il giornalista Mino Pecorelli, che sarà in seguito ucciso, e l'avvocato Prisco ". Anche volendo ignorare buona parte delle coincidenze riscontrate e tutte le deduzioni fattibili, resta intatta una domanda: come mai ad un certo punto del rapimento Moro si iniziano a trovare tracce che portano direttamente alla Banda della Magliana ? Il bello è che la pista legata a questa feroce banda romana non si esaurisce, ma riguarda anche la morte di Aldo Moro. Ai miei occhi, infatti, è sempre stata poco credibile la versione raccontata dalle Br secondo la quale Moretti, che aveva discusso con il presidente DC per 55 lunghi giorni, con una freddezza fuori dal normale comunica al prigioniero che verrà liberato, poi gli spara a sangue freddo con due armi differenti perché la prima si inceppa, poi sale sulla Renault rossa e porta il cadavere dello statista fino a Via Caetani, poi non contento va a scrivere il comunicato conclusivo del rapimento. No, riesce veramente difficile credere a questa novella di un Moretti "superuomo". La verità forse è altrove, anche per altri motivi. Vediamo dunque cosa dicono gli appunti di Luigi Cipriani sul come venne ucciso il presidente della Democrazia cristiana: " Degli 11 colpi i primi due [sono stati sparati] col silenziatore, gli altri quando era già morto. Perché questo rituale? Dopo i primi due colpi Moro ha agonizzato per 15 minuti. Solo i primi due colpi hanno lasciato tracce sulla Renault, Moro è stato ucciso in macchina e portato altrove ? ". A conferma dei dubbi evidenziati dai quesiti che si poneva Cipriani, Francesco Biscione ha scritto: "...laddove la comune versione dei brigatisti lasciava trasparire una falla che nasconde verosimilmente una menzogna è nella narrazione delle modalità con cui l'ostaggio sarebbe stato ucciso ". Non è il solo che, a posteriori, si affianca a Luigi Cipriani. Nella sentenza del cosiddetto Moro-quinquies gli stessi magistrati giudicanti non possono esimersi dall'evidenziare il loro scetticismo sulla versione fornita dai brigatisti rossi sottolineando, ad esempio, l'impossibilità da parte dei carcerieri di " ritenere in anticipo che l'on. Moro, chiuso in una cesta da dove poteva avere una discreta percezione della situazione ambientale, non essendo né narcotizzato né imbavagliato, avrebbe continuato remissivamente a tacere senza chiedere aiuto nemmeno lungo il tragitto per le scale fino al box, pur percependo voci come quella della Braghetti. Non si comprende - scrivono ancora i magistrati - come i brigatisti abbiano accettato un simile e gratuito rischio quando avrebbero potuto facilmente evitarlo ad esempio uccidendo l'on. Moro nella sua stessa prigione e trasportandolo poi da morto; ed incredibile sembra il fatto che si sia programmata l'esplosione di una serie di colpi, quanti risultano dalle perizie, in un box che si apriva nel garage comune degli abitanti dello stabile, essendo noto che anche i colpi delle armi silenziate producono rumori apprezzabili che potevano essere facilmente percepiti da persone che si trovassero a passare, così come furono distintamente percepiti dalla Braghetti ". Alle condivisibili considerazioni dei giudici del quinto processo Moro, dobbiamo aggiungere il rilievo che i colpi sparati con il silenziatore furono soltanto due. E gli altri 9, esplosi senza il silenziatore, non li ha avvertiti nessuno? Ne erano così certi i brigatisti rossi Mario Moretti e Germano Maccari ? E, infine, perché lasciare Aldo Moro agonizzante per altri 15 lunghissimi minuti, come conferma la perizia medico-legale, senza che un rantolo, un gemito, un grido disperato sia veramente uscito dalla bocca di un uomo morente e ferito ? In conclusione, " anche su questo punto, la versione delle Brigate rosse non sta in piedi, o almeno zoppica fortemente [...] un uomo che, senza essere narcotizzato, senza essere legato ed imbavagliato, si fa infilare in una cesta, deporre nel portabagagli di un'auto, ricevere nel corpo due pallottole che lo lasciano in vita per altri 15 minuti; e in tutto questo tempo non tenta la disperata reazione di chi non ha più nulla da perdere, effettivamente non è credibile ". La passività di Aldo Moro, se mai ci fu, può trovare solo logica e coerente spiegazione in due fattori: il luogo dove si trovava, solitario, dove il suo urlo disperato si sarebbe perso nel silenzio; il numero dei suoi uccisori, tale da scoraggiarne a priori ogni tentativo di fuga o reazione violenta 51. " Un testimone - scriveva Cipriani - vide una Renault rossa presso la spiaggia di Fregene col posteriore aperto. La perizia sulla sabbia dei pantaloni di Moro confermò che il litorale corrisponde a quello. Sabbia trovata in molte parti dei vestiti, calze, scarpe e sul corpo compreso bitume e sulle ruote della Renault. Sul battistrada - concludeva Cipriani - fu trovato un frammento microscopico di alga analogo ad altro rinvenuto sul corpo ". E gli accertamenti ulteriori confermano pienamente questa realtà: " Le risultanze tecniche - ricorda Biscione - riguardano innanzitutto la sabbia e i frammenti di flora mediterranea trovati nelle scarpe, negli abiti e sul corpo di Moro, come pure sulle gomme e sui parafanghi dell'auto di Moretti rinvenuta in via Caetani. Le tracce sugli abiti e sulle scarpe lascerebbero pensare ad una permanenza o ad un passaggio presso il litorale romano (la perizia giudica quel tipo di sabbia proveniente da una zona compresa tra Focene e Palidoro) ". Mario Moretti e compagni, quindi, affermano il falso, come asseriva giustamente perentorio Luigi Cipriani nei suoi appunti: " Savasta e Morucci mentono [o forse non sono a conoscenza della verità ndr.] dicendo che la sabbia era un depistaggio...". Concorda con l'ex parlamentare di Democrazia Proletaria anche Francesco Biscione, il quale scrive: " ...lascia fortemente perplessi la machiavellica spiegazione di Morucci (confermata da Moretti e ribadita anche dalla Braghetti nel corso del processo Moro-quater) secondo la quale ai primi di maggio 1978 alcuni militanti [la Faranda e la Balzerani] furono incaricati di andare a reperire sulle spiagge del litorale laziale acqua marina, sabbia, catrame, parti di piante da mettere sui vestiti e sotto le scarpe di Moro per depistare le indagini successive al ritrovamento del cadavere...". Quali vantaggi si proponessero di ricavare i brigatisti facendo credere agli inquirenti ed all'opinione pubblica di aver custodito Aldo Moro sul litorale laziale piuttosto che in un appartamento al centro di Roma ? A mio parere nessuno. C'è poi la testimonianza di Pierluigi Ravasio, ex carabiniere-paracadutista, ex addetto all'ufficio sicurezza interna della VII sezione del Sismi a Roma, che venne resa allo stesso Luigi Cipriani. L'ex agente del Sismi e componente delle Stay-behind affermò che "il suo gruppo indagò sul caso Moro e venne a conoscenza del fatto che Moro era tenuto dai malavitosi e riferito ciò ai superiori, le indagini vennero fermate, il loro gruppo sciolto ed i componenti dispersi, mentre i rapporti che quotidianamente venivano compilati furono bruciati...". Francesco Biscione, pur con cautela, non può fare a meno di rilevare che " se si pensa che nel maggio 1991, allorché fu raccolta l'intervista, era pressoché sconosciuto il ruolo svolto durante il sequestro di Moro dalla banda della Magliana, si è portati a dubitare che le parole di Ravasio siano frutto di pura fantasia (semmai, per una certa brutalità nei riferimenti si sarebbe indotti a credere che egli fosse a conoscenza di questa vicenda non per averla vissuta in prima persona, bensì per averne avuto notizia da altri)...". Che il racconto di Pierluigi Ravasio sia quantomeno credibile lo dimostrano non solo il preciso riferimento fatto alla presenza del colonnello Camillo Guglielmi, suo diretto superiore al Sismi, in via Fani il 16 marzo 1978, quanto soprattutto le tracce di sabbia e bitume trovate sui vestiti, il corpo di Aldo Moro e la Renault rossa sulla quale venne poi trasportato in via Caetani. Bisogna anche rilevare, a favore della veridicità di quanto narrato dall'ex agente del Sismi, che le sue dichiarazioni, divulgate da Cipriani, caddero in un momento in cui l'intervento della malavita nel sequestro Moro veniva dato per certo, un fatto ormai acquisito ma datato ad operazione di prelievo avvenuta e considerato cessato, a seguito delle pressioni esercitate dai nemici politici dell'esponente democristiano prigioniero, entro i primi giorni di aprile del 1978. Anche il "premio" concesso ai delinquenti della Magliana dallo Stato e dai suoi apparati è perfettamente verosimile: " Come ricompensa per il rapimento e la gestione del caso Moro - ha raccontato Ravasio - il Sismi consentì alla banda di compiere alcune rapine impunemente. Una avvenne nel 1981 all'aeroporto di Ciampino, quando i malavitosi travestiti da personale dell'aeroporto sottrassero da un aereo una valigetta contenente diamanti provenienti dal Sudafrica. Una seconda avvenne nei pressi di Montecitorio dove furono aperte molte cassette di sicurezza e da alcune, appartenenti a parlamentari, furono sottratti documenti che interessavano il Sismi ". Fatti che ci riportano alla rapina alla Brink's Securmark ed a quella strana rivendicazione che ebbe con tutta probabilità il valore di un avvertimento allo Stato perché non perseguisse i suoi autori. Un solo punto, nel racconto di Pierluigi Ravasio, suscita perplessità ed interesse insieme: la pretesa che il sequestro fu organizzato e gestito da " ex detenuti e malavitosi ", dal suo inizio alla sua conclusione. Sappiamo, viceversa, che i brigatisti rossi in via Fani c'erano, come furono presenti durante tutte le fasi dell'operazione, eliminazione fisica di Aldo Moro compresa, sebbene su questo punto la verità venne presumibilmente esposta in forma criptica, da un ex appartenente alle Stay-behind che, con le sue rivelazioni, si era già esposto molto alle reazioni ed alle rappresaglie dello Stato. Dunque c'è un tassello che non ha ancora trovato la sua collocazione ufficiale, è il tassello determinante, quello che da solo sarebbe in grado di spiegare ciò che è rimasto di totalmente oscuro - ma non di insolubile - nel sequestro di Aldo Moro: i brigatisti rossi guidati da Mario Moretti, furono obbligati a cedere il loro ostaggio con tutta la documentazione da lui prodotta nei giorni della prigionia, agli "amici" della banda della Magliana ? Ha fondamento concreto questa intuizione di Luigi Cipriani, poggiata su indizi concreti e da lui esposta di fronte alla commissione parlamentare ? Cipriani aveva individuato in Antonio Chichiarelli la figura chiave per comprendere la reale dinamica del sequestro di Aldo Moro e del suo omicidio. Il mio personale punto di vista è che probabilmente ci fu un passaggio di mano dalle Br alla banda della Magliana, e che le altre organizzazioni malavitose (Mafia, Camorra, la banda di Francis Turatello), che all'inizio del rapimento erano state "attivate" dal mondo politico per ritrovare Moro, ad un certo punto - dopo aver fatto il loro compito - vennero bloccate. E di questo fatto sono sicuri perfino i membri della Commissione parlamentare d'inchiesta. D'altronde lo dimostrano le molte testimonianze: durante i 55 giorni le organizzazioni malavitose si erano mobilitate - affiancando le polizie ufficiali - nella ricerca del leader DC su precisa richiesta dei vari esponenti politici dell'ex "scudo crociato". Dopo poche settimane, improvvisamente, Mafia, Camorra e ndrangheta si ritirarono, lasciando ai loro emissari nella capitale il compito di compiacere la volontà del potere politico. Dai primi di Aprile, la parola d'ordine divenne quella lanciata, senza mezzi termini a Francesco Varone, a casa di Frank Coppola: " Quell'uomo deve morire ". Probabilmente, una volta certe delle sorti di Moro, le cosche ritirarono i loro scagnozzi. " Un'accurata lettura - ricorda Francesco Biscione - di documenti giudiziari quali intercettazioni telefoniche e altri riscontri ha consentito al giudice Giovanni Salvi di stabilire che attorno al 10 aprile cessò del tutto l'attivazione di Cosa nostra ". A conferma di questo percorso, narrato a più riprese anche da alcuni pentiti, si aggiunge poi la testimonianza di Raffaele Cutolo che riferisce come Nicolino Selis gli disse che, del tutto casualmente, era venuto a conoscere la collocazione del covo nel quale era tenuto sequestrato Aldo Moro. A dire di Nicolino Selis - racconta Cutolo - la prigione del parlamentare democristiano si trovava nei pressi di un appartamento che egli teneva come nascondiglio per eventuali latitanze. Dopo aver proposto l'ubicazione della "prigione del popolo" ad alcuni esponenti della DC, l'ex boss della camorra si sentì dire: " Fatti gli affari tuoi ". Dunque siamo in possesso di un paio di indizi che indicano la strada indicata all'inizio del ragionamento. A questo punto del discorso si inserisce perfettamente anche la domanda posta da Michela Cipriani, moglie del defunto deputato di Democrazia Proletaria: " Perché [ parlando delle Br ] non svelare e gestire politicamente il memoriale-bomba che parlava fra l'altro di Stay behind e che costituiva il maggior risultato politico conseguito dalla lotta armata? ". Eppure, nel terzo comunicato del 29 marzo 1978, i brigatisti avevano annunciato trionfanti che l'interrogatorio di Aldo Moro "...prosegue con la completa collaborazione del prigioniero. Le risposte che fornisce chiariscono sempre più le linee controrivoluzionarie che le centrali imperialiste stanno attuando [...] proprio sul ruolo - prosegue il comunicato - che le centrali imperialiste hanno assegnato alla DC, sulle strutture e gli uomini che gestiscono il progetto controrivoluzionario, sulla loro interdipendenza e subordinazione agli interessi imperialisti internazionali, sui finanziamenti occulti, sui piani economici-politici-militari da attuare in Italia [...] il prigioniero politico Aldo Moro ha cominciato a fornire le sue illuminanti risposte. Le informazioni che abbiamo così modo di reperire, una volta verificate, verranno rese note al movimento rivoluzionario che saprà farne buon uso nel prosieguo del processo al regime che con l'iniziativa delle forze combattenti si è aperto in tutto il paese ". Quindi nella primissima fase del rapimento le Br, di fronte ad un Moro che gli raccontava situazioni cui probabilmente non osavano nemmeno sperare, cantano vittoria. Poi però - incredibilmente - si assistette ad un repentino cambio di rotta. Un'allucinante retromarcia delle Br si nota - è bene dirlo - già nel comunicato n°6 del 15 aprile 1978, prima quindi che venisse inviato ai brigatisti - come afferma nel suo libro Francesco Biscione - il messaggio del 18 Aprile che di fatto imponeva loro di uccidere Aldo Moro. Mario Moretti ed i suoi compagni informarono infatti che: " l'interrogatorio di Aldo Moro è terminato. Rivedere trenta anni di regime democristiano, ripercorrere passo passo le vicende che hanno scandito lo svolgersi della controrivoluzione imperialista nel nostro paese, riesaminare i momenti delle trame di potere, da quelle pacifiche a quelle più sanguinarie, con cui la borghesia ha tessuto la sua offensiva contro il movimento proletario, individuare attraverso le risposte di Moro le responsabilità della DC, di ciascuno dei suoi boss, nell'attuazione dei piani voluti dalla borghesia imperialista e dei cui interessi la DC è sempre stata massima interprete, non ha fatto altro che confermare delle verità e delle certezze che non da oggi sono nella coscienza di tutti i proletari...". La deduzione che viene da fare è che evidentemente a Moretti, attraverso chissà quali canali, erano già giunte pressioni di una certa entità, interferenze tali da far tremare la dirigenza delle Br. I brigatisti fecero dunque intendere in modo esplicito che Aldo Moro aveva parlato di tutto e di tutti, però conclusero in una forma oscura: " Non ci sono segreti che riguardano la DC, il suo ruolo di cane da guardia della borghesia, il suo compito di pilastro dello Stato delle multinazionali, che siano sconosciuti al proletariato..." 60. Ma il messaggio per la DC, lo Stato ed i suoi apparati istituzionali era lampante: Mario Moretti ed i brigatisti rossi che hanno gestito il sequestro Moro informavano che non avrebbero rivelato niente di quanto appreso. " Non ci sono segreti che riguardano la DC " scrissero, quindi " cosa mai si potrà dire al proletariato che già non sappia ? ". Alla luce del memoriale ritrovato nel 1990 a Milano, nel covo di Via Montenevoso, e dello studio compiuto da Biscione [agli atti processuali], sappiamo che non era certamente così. Esaminando in dettaglio le dichiarazioni contraddittorie rese dai brigatisti su questo specifico punto si giunge alla conclusione che, con molta furbizia, alcuni di loro possono aver mantenuto segreti il memoriale ed il suo contenuto per poi usarlo come merce di scambio quando se ne fosse presentata la necessità nell'ambito di una futura trattativa in campo giudiziario. Ed il trattamento carcerario riservato ad alcuni di loro dal 1987 in poi (ad esempio a Mario Moretti e Barbara Balzerani) avvalorava questa ipotesi: per quanto non sia poco il tempo che hanno passato in prigione, si deve convenire che è molto poco rispetto a quanto avrebbero dovuto effettivamente trascorrere. Salta agli occhi per esempio la differenza tra un Moretti che si è fatto a malapena 20 anni di carcere essendo condannato a più ergastoli per vari reati di sangue, ed un Franceschini che si è fatto poco meno pur non avendo mai sparato un solo colpo di pistola. Forse la differenza l'hanno fatta proprio quei segreti sul caso Moro che Moretti, tacendo, ha posto a suo favore sul piatto della "bilancia giudiziaria" ? Come non sottolineare poi la mancanza delle registrazioni degli interrogatori di Moro. I nastri registrati - che avrebbero fatto conoscere meglio l'andamento dei colloqui e lo sviluppo delle strategia posta in essere da Moro - non si sono mai trovati; i brigatisti affermano di aver distrutto il tutto per motivi di sicurezza, ma questa affermazione appare assai poco credibile. Poiché si da per acquisito che ad interrogare lo statista DC fu Moretti, e poiché Moretti si era già esposto, bruciandosi, con la lunga telefonata fatta alla famiglia del sequestrato, non ha alcun senso nascondere la voce dell'interrogante per impedirne una eventuale identificazione, a meno che gli interrogatori non siano stati fatti da una persona del tutto diversa (ancora sconosciuta ed importante, dunque da proteggere) dai brigatisti finora noti. La presenza insistente della malavita, impegnata a gestire il sequestro di Aldo Moro rivestendo il duplice ruolo di fiancheggiatore dello "Stato sotterraneo" (che lo voleva morto) e dei brigatisti rossi che non sapevano più cosa fare, può essere provata dal comunicato n°7 del 20 aprile 1978 che " appare allo stesso tempo - scrive Biscione - l'ultimo della prima serie ed il primo della seconda... - perché - [...] iniziava da parte delle Brigate rosse l'offensiva sulla trattativa: il rilascio del prigioniero Aldo Moro può essere preso in considerazione solo in relazione alla liberazione dei prigionieri comunisti. La DC dia risposta chiara e definitiva se intende percorrere questa strada; deve essere chiaro che non ce ne sono altre disponibili; seguiva l'ultimatum: 24 ore di tempo per una risposta a partire dalle ore 15 del 20 aprile ". Erano passati solo due giorni dal comunicato del lago della Duchessa, redatto da Toni Chichiarelli ed ispirato, scrivono gli stessi brigatisti su indicazione di Aldo Moro " da Andreotti ed i suoi complici ", ed i carcerieri del presidente della Democrazia cristiana abbandonano l'alta politica e passano al concreto : " Il comunicato n°7 è anche il primo - rileva Biscione - che non porta in chiusura lo slogan consueto "portare l'attacco allo Stato imperialista", ma "libertà per tutti i comunisti imprigionati" ". Un segnale preciso a quanti in carcere attendevano che si realizzasse lo scopo primario dell'operazione Moro: la liberazione dei detenuti ed allo stesso tempo un modo per tenere buoni i membri del nucleo storico. Dunque la minaccia venne recepita da Moretti, il quale rivolse anch'egli un messaggio rassicurante ai detenuti, non solo comunisti ma anche malavitosi. Avevano - ed in questo ha probabilmente ragione Biscione - indubbiamente compreso, insieme al resto, l'ordine di uccidere Aldo Moro, ma sottolineavano l'inutilità del gesto se questo fosse stato eseguito senza avere ottenuto almeno la scarcerazione dei detenuti, divenuta l'obiettivo primario di un sequestro che aveva invece prodotto, sul piano politico, frutti eccezionali come la confessione del presidente della Democrazia cristiana su fatti e misfatti del sistema di potere italiano. Considerato però che di questa confessione i brigatisti non avrebbero mai potuto fare uso, ed avendo pubblicamente annunciato questa loro rinuncia, la scarcerazione di un numero ragionevole di detenuti avrebbe permesso loro di salvare le apparenze e di riportare un simulacro di vittoria restituendo vivo Aldo Moro. Da qui la cancellazione, in tutta fretta, dello slogan " portare l'attacco al cuore dello Stato imperialista " con l'unico che potesse avere un significato per coloro che stavano in galera, " libertà per tutti i comunisti imprigionati ". Così nel comunicato n°8 le Br chiesero la liberazione di 13 detenuti, in questo modo venne segnata, definitivamente, la sorte di Aldo Moro, e per motivi opposti a quelli che gli storici ufficiali ritengono. Questi ultimi, difatti, sono convinti che " l'insostenibile richiesta dello scambio tredici contro uno, rendeva ancor più fioca la voce già flebile e minoritaria dei sostenitori della trattativa. Che il significato del comunicato n°8 fosse l'attestazione di una posizione nuova che, contrariamente a varie ragionevoli aspettative, manifestava che si stava andando verso l'esecuzione dell'ostaggio fu dunque - conclude Biscione - una considerazione abbastanza diffusa ". Secondo i calcoli dei brigatisti, fissando in tredici il numero dei liberandi, davano prova di quella ragionevolezza che li avrebbe condotti a condurre, finalmente, una trattativa riservata e diretta con la Democrazia cristiana per poi stabilire con Piazza del Gesù un accordo di cui solo una parte avrebbe avuto pubblicità; l'altra parte avrebbe dovuto rimanere segreta, uno di quegli scambi "all'italiana" destinati ad essere taciuti per sempre da entrambe le parti. Qualcuno potrebbe essere indotto a pensare che quella compiuta da Mario Moretti e dai suoi compagni (la richiesta di uno scambio 13 ad 1) sia stata una mossa per chiudere ogni possibilità ad ogni altra probabile trattativa e, quindi, poter procedere all'esecuzione di Aldo Moro scaricandone ogni responsabilità sulla Democrazia cristiana. Così probabilmente non fu, e per convincersene è sufficiente riascoltare la telefonata che, con totale e stupefacente imprudenza, un Mario Moretti al colmo dell'agitazione nervosa, fece a casa della famiglia Moro il 30 Aprile 1978: " Solo un intervento diretto, immediato, chiarificatore e preciso di Zaccagnini può modificare la situazione " dice Mario Moretti che usa un tono giustificatorio " sa, una condanna a morte non è una cosa sulla quale si possa prendere alla leggera [...]". "Non possiamo fare altrimenti...", conclude un Moretti che appare nella posizione di chi subisce una decisione, non l'assume e tanto meno la impone. Egli si rivolse alla famiglia forse perché credeva che Eleonora Moro potesse contare qualcosa, dimostrò di essere informato sui movimenti che i congiunti del presidente avevano fatto, a riprova che riteneva la "carta umanitaria" essenziale, perché era l'ultima cosa che gli è rimasta in mano essendo stato costretto a rinunciare all'altra, la più importante, quella decisiva: le rivelazioni di Moro su uomini e fatti. L'ultimo tentativo lo fece, per loro conto, Daniele Pifano che incontrò il rappresentante del Procuratore generale Pietro Pascalino, il sostituto procuratore Claudio Vitalone, e gli propose lo scambio di uno contro uno, un detenuto magari malato contro Aldo Moro e, ricevuto un rifiuto, ripiegò sul suggerimento della "soppressione delle norme restrittive dei colloqui dei carcerati con i familiari". Ma ormai la questione Moro era irrimediabilmente arrivata al capolinea. Lo "Stato parallelo" non si era esposto in prima persona ma aveva fatto ricorso ad un altro tipo di "occasionali alleati", la spietata Banda della Magliana cui Tony Chichiarelli era legato. Ciò venne confermato anche dall'on. Benito Cazora, recentemente scomparso: " ...recentemente - scriveva Luigi Cipriani - il senatore Cazora ha confermato al magistrato romano che sta indagando sulle trattative condotte durante il sequestro Moro, che si ebbe coscienza del fatto che il presidente della DC fosse "custodito" dalla Banda della Magliana ". L'ex parlamentare di Democrazia proletaria poté così legittimamente avere una ulteriore e definitiva conferma della sua tesi e di quanto aveva dichiarato il 14 settembre 1978 al quotidiano Repubblica il senatore democristiano Giovaniello, molto vicino ad Aldo Moro ed alla sua famiglia: " Quando sapemmo che Moro stava per essere affidato a criminali comuni per il terribile atto conclusivo, facemmo le cose più impensabili per arrivare prima degli altri, ma senza fortuna ". Nel sequestro di Aldo Moro fu dunque un livello di potere occulto, e non Mario Moretti ed i suoi compagni, a stabilire tempi e modalità della prigionia e, infine, della sua morte. Lo stesso Stato che Aldo Moro conosceva come debole, insicuro, pronto a compromessi di ogni sorta, aveva improvvisamente risposto con una fermezza ed una decisione fino ad allora sconosciute; il destino dello statista DC era segnato, questo lui lo capì bene, come traspare evidente dalle sue ultime lettere, pesantissime quanto profetiche nei confronti di un partito - la DC - che pensava di conoscere come nessun altro. Durante il sequestro era accaduto qualcos'altro di molto, troppo, pericoloso: Aldo Moro stava parlando di tutto e tutti: delle trattative segrete per la nascita del centro-sinistra, del tentativo di golpe di De Lorenzo, della strage di P.zza Fontana, del ruolo della DC nella strategia della tensione, della riforma dei servizi segreti, dell'affare "Lockeed", dei piani anti-guerriglia previsti per il nostro paese dalla NATO, del sistema di potere e di sostentamento economico del colosso democristiano. Il rischio che queste verità venissero alla luce in quegli anni era veramente pesante, un rischio troppo elevato per i sostenitori e gli oltranzisti dell'alleanza atlantica, gli unici effettivi artefici della politica interna italiana. Fu così, il presidente della Democrazia cristiana si ritrovò schiacciato dalla forza delle due superpotenze, dei loro alleati e dalle loro reciproche paure, ansie dalle quali vennero liberate dalle "ignare" Brigate rosse proprio con il sequestro. " L'agguato di via Fani, l'eccidio della scorta ed il sequestro dell'onorevole Moro, lo scenario tragico dei luoghi della strage appena consumata, la rivendicazione e i successivi comunicati delle Br, la prigionia di Moro in un luogo sconosciuto e il processo cui questi veniva sottoposto, gli appelli sempre più pressanti e drammatici dell'ostaggio, il disconoscimento ufficiale della loro "autenticità", il rifiuto della trattativa, la sterile polemica che si aprì tra i fautori di questa e i sostenitori della fermezza, l'immane mobilitazione dell'apparato istituzionale di sicurezza, l'avvitarsi della vicenda verso il suo tragico epilogo, il macabro rinvenimento della salma di Moro in un luogo centrale della capitale dello Stato, equidistante dalle sedi dei due maggiori partiti presenti in Parlamento, le dimissioni del Ministro dell'Interno: queste furono le tessere che composero il mosaico visibile degli eventi, dove il delitto Moro, valutato come fatto storico, apparve come il momento di maggiore intensità offensiva del partito armato e, specularmente, come il momento in cui lo Stato si rivelò più impotente nel dare risposta appena adeguata all'aggressione eversiva ". Questo il parere espresso dalla Commissione Stragi durante l'ultima legislatura, un giudizio che pur non apparendo del tutto asettico, certamente non si lascia andare a nessun tipo di accusa diretta. E' esistito dunque (e, data la portata degli indizi, è proprio sotto gli occhi di tutti) un "lato oscuro", una sorta di mondo sotterraneo e parallelo a quello ufficiale che ha operato incessantemente sia lungo la vita delle Br, sia - e con maggiore visibilità ed incidenza - nei 55 giorni del rapimento di Aldo Moro. Anche la commissione parlamentare [della XII legislatura] sul caso Moro, pur con tutte le sue consuete e dovute cautele, è giunta ad affermare ad esempio che: " le nuove acquisizioni consentono di ritenere certo o almeno altamente probabile (come già affermato in alcune delle relazioni di minoranza della Commissione Moro, in particolare quella dell'onorevole Sciascia) il carattere intenzionale di almeno alcune delle omissioni, di almeno alcune delle inerzie che contribuirono al tragico epilogo della vicenda Moro ". O ancora che: "...inizialmente la criminalità organizzata si era attivata e sia stata attivata dall'esterno per favorire la liberazione di Moro: e che tale intervento si arrestò per valutazioni interne alla criminalità organizzata e per input esterni probabilmente coincidenti. Analogamente impressionante è la convergenza di indicazioni verso un intreccio fitto - e non ancora pienamente disvelato - di ambigui rapporti che legarono in ambito romano uomini di vertice delle organizzazioni mafiose e della criminalità locale al mondo di uno oscuro affarismo, ad esponenti politici, ad appartenenti alla Loggia P2, a settori istituzionali, in particolare dei servizi segreti ". Le Br che avevano progettato il sequestro di Aldo Moro con il ferreo convincimento che il mondo politico italiano avrebbe implorato pietà per la sua vita, si erano con ogni probabilità ritrovati nella condizione opposta: loro a cercare di salvare l'ostaggio ed il mondo politico - o almeno una parte di esso - a livello sotterraneo, a pretendere la sua morte senza condizioni. E con ogni probabilità quelle "15 gocce di Atropina", come citava un appunto rinvenuto in Via Gradoli e scritto da Mario Moretti, servirono alle Br per anestetizzare Moro e portarlo via dal covo prigione di Via Montalcini; forse proprio per consegnarlo alla Banda della Magliana. Sebbene - come sempre - manchino le prove per dimostrare che anche l'assassinio di Aldo Moro sia da far rientrare tra le interferenze attuate in Italia dal c.d. "oltranzismo atlantico", è certamente un dato di fatto che nel 1978, poco dopo l'assassinio di Aldo Moro, l'auspicato intervento del capitalismo occidentale e dei suoi investimenti avvenne massiccio. Le autorità monetarie consentirono a numerose banche Usa di aprire filiali nel nostro paese (Manifactures Hannover trust, Inrving trust Company, Wells fargo) con relativi sportelli (Security pacific). Alcune banche estere, tedesche americane e svizzere, dirottano i risparmi dei loro clienti verso la borsa di Milano. Tutti i titoli azionari - compresi quelli delle industrie decotte - subirono aumenti rilevanti: le Montedison salirono del 102%, le SNIA del 60,8%, Acqua marcia del 70,8%, Rinascente del 95,2%, le Fiat aumentarono del 40,5% superando per la prima volta le tremila lire. Un vero pompaggio di ottimismo nel capitalismo italiano, proprio nel momento in cui i governi di unità nazionale entravano in crisi e l'assassinio di Moro rimetteva in moto le forze della destra DC. Anche questa fu una semplice coincidenza ? Mino Pecorelli, già nell'ottobre del 1978, aveva scritto che il ministro dell'Interno, Francesco Cossiga, sapeva tutto: " perché non ha fatto nulla ? [...] Il ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire più in alto. E qui sorge il rebus - ironizzava Pecorelli - quanto in alto ? magari sino alla loggia di Cristo in Paradiso?..." . A chi si riferiva il direttore di "OP" ? Manco a dirlo anche su questo punto le opinioni degli osservatori divergono: " non paiono esservi dubbi sul fatto - si affretta a scrivere Francesco Biscione - che la "loggia di Cristo in Paradiso" alla quale il ministro si sarebbe rivolto per avere lumi sul da farsi fosse la P2 ". Stefano Fratini -sul suo sito internet- afferma invece che " Mino Pecorelli si riferiva a quella che egli stesso definiva la "Loggia vaticana", una loggia massonica di cui possedeva un elenco di nomi di cardinali ed alti dignitari ecclesiastici, completo di numero di matricola e data di iniziazione (nel numero di "OP" del 12 settembre 1978 Pecorelli pubblicò un elenco di affiliati alla loggia vaticana fra i quali, per limitarci ad un esempio, compariva il nome del cardinale Sebastiano Baggio, indicato come "Seba, numero di matricola 85/2640 e data di iniziazione il 14 agosto 1957"). Loggia o non loggia, il riferimento alle gerarchie ecclesiastiche è trasparente; inequivocabile dunque il fatto che anche dal Sacro Soglio qualcuno impose ad un Papa forse troppo debole l'avallo alla condanna di Aldo Moro". Difficile dire chi abbia ragione; a far pendere la bilancia dalla parte delle tesi di Fratini stanno tuttavia alcune frasi scritte da Aldo Moro e presenti più di una volta tra le 93 lettere manoscritte ritrovate nel 1990 nel covo di via Monte Nevoso a Milano [mentre le Br ne fecero recapitare solo 30 durante il sequestro]. "La chiave è in Vaticano", scrisse infatti lo statista DC, e di nuovo: " il Papa ha fatto un pò pochino...". Concludo ancora con le parole dell'informatissimo Mino Pecorelli: "L'agguato di Via Fani porta il segno di un lucido superpotere. La cattura di Moro rappresenta una delle più grosse operazioni politiche compiute negli ultimi decenni in un paese industriale integrato nel sistema occidentale. L'obiettivo primario è senz'altro quello di allontanare il PCI dall'area di potere nel momento in cui si accinge all'ultimo balzo. Perchè è comunque interesse delle due superpotenze mondiali mortificare l'ascesa del PCI, cioè del leader dell'eurocomunismo, dl comunismo che aspira a diventare democratico e democraticamente governare un paese industriale. Ciò non è gradito agli americani [...] e ancor meno è gradito ai sovietici [...] Ancora una volta la logica di yalta è passata sulle teste delle potenze minori. e' Yalta che ha deciso Via Mario Fani". Teorie, illazioni, supposizioni, castelli accusatori privi di fondamenta per la loro quasi totalità direbbe un giurista. Tutta la ricostruzione della storia delle Br, come ho cercato di mostrare, è costellata da precise interferenze . Emerge limpida una sola verità: non si hanno certezze. La realtà è ancora là, tutta da dimostrare. E' vero, esiste - ed è alquanto palese - un preciso sentiero indicato dagli indizi che ho riscontrato, però le prove certe e documentabili permangono in numero troppo esiguo per poter emettere delle sentenze, per avvalorare una tesi in modo definitivo. L'avventura brigatista, ed in questo concordo con la Commissione Gualtieri, non può e non deve considerarsi ancora materia per gli storici, ciò almeno fino a quando i dati a nostra disposizione non consentiranno di colmare i diversi vuoti di conoscenza che riguardano l'azione delle Br e quella dello Stato (ma soprattutto di chi ha agito nel nome suo...). Dalla morte di Aldo Moro sono passati 25 anni, sono stati fatti cinque processi (ed un sesto è in preparazione), i cosiddetti 'anni di piombo' sono finiti, la classe politica che in quegli anni governava l'Italia è stata spazzata via dall'esplosione di quel fenomeno giudiziario passato alla storia come "tangentopoli", molti dei brigatisti che parteciparono all'"Operazione Friz" hanno dichiarato come conclusa ed irripetibile l'esperienza della lotta armata e delle Brigate rosse, eppure di tanto in tanto emergono nuovi fatti, prove non emerse prima d'ora, testimonianze sconosciute o sottovalutate che costringono di volta in volta gli studiosi a riscrivere la storia e la magistratura ad aprire nuove indagini. L'ultima sconvolgente novità è emersa recentemente grazie alle rivelazioni di Antonino Arconte, ex agente segreto (nome in codice G71 VO 155 M, cioè agente della struttura Gladio, anno addestramento 1971, Marina Militare, Volontario numero 155) appartenente alla "Seconda Centuria Lupi" della struttura Stay Behind. Lo stesso Arconte definisce la struttura di intelligent di cui faceva parte come 'Gladio delle Centurie', gruppo appartenente ad un servizio segreto di cui si ignorava perfino l'esistenza, il SIMM (Servizio Informazioni Marina Militare) che aveva compiti operativi solo all'estero. Uomini super-addestrati che si muovevano all'interno delle strategie della Nato ed in linea con modelli operativi ispirati a quelli della CIA. Analizzando il racconto di Arconte, emerge come la 'Gladio delle Centurie' fosse una struttura ben diversa da quella 'Gladio' la cui esistenza venne svelata in Parlamento da Giulio Andreotti il 2 agosto 1990: non una rete di agenti ideata per fronteggiare una possibile invasione da parte delle truppe del Patto di Varsavia, ma una struttura informativa e operativa che agiva esclusivamente oltre confine, veri e propri reparti irregolari operanti fuori da quanto previsto dalla Costituzione e al di fuori della dipendenza dal Capo dello Stato, che, per l'Art. 87 della Costituzione, è il Capo delle Forze Armate.Arconte ha raccontato come i primi giorni di Marzo 1978 ricevette l'ordine di partire per una missione in Medio Oriente con il compito di " ricevere da un nostro uomo a Beirut dei passaporti che avrei poi dovuto consegnare ad Alessandria D'Egitto. Dovevo poi aiutare alcune persone a fuggire dal Libano in fiamme. Ma c'era un livello più delicato e più segreto in quella missione. Dovevo consegnare un plico a un nostro uomo a Beirut ". Si imbarcò così il 6 Marzo dal porto di La Spezia sul mercantile 'Jumbo Emme'. A Beirut Arconte incontrò l'agente G-219 e una volta tornati sulla nave gli consegnò il plico; al suo interno vi era un foglio di carta azzurra firmato dal capitano di vascello Remo Malusardi della X Divisione "S.B." (Stay Behind) della direzione del personale del Ministero della Marina e conteneva un 'ordine a distruzione immediata'. Il documento porta la data del 2 marzo 1978, e cioè 14 giorni prima del rapimento dell'On. Moro e dell'uccisione della sua scorta, ed ordinava ai "gladiatori" di prendere contatti con i movimenti di liberazione nel vicino Oriente, perché questi intervenissero sulle Brigate Rosse, ai fini della liberazione di Moro. Contravvenendo agli ordini l'agente G-219 non distrusse il foglio e lo conservò fino a quando, verso i primi di luglio del 1995, decise di consegnarlo proprio ad Arconte durante un incontro avvenuto ad Olbia. Mario Ferraro venne trovato impiccato a casa sua, a Roma, un mese dopo questo incontro. L'ordine a distruzione immediata, autenticato dal notaio Angozzi, di Oristano, è stato recentemente sottoposto ad una perizia per verificarne l'autenticità. La risposta del perito è stata: " Il documento di Arconte è compatibile con l'epoca dei documenti di raffronto ", quindi dimostra che ambienti dei sevizi segreti erano al corrente del sequestro Moro prima che avvenisse, e anziché dare l'allarme si predisponevano a iniziative legate allo scenario del dopo-sequestro. Il ministro della Difesa non ha risposto alle interpellanze parlamentari (una delle quali del senatore Giulio Andreotti) sulla vicenda, nonostante sia trascorso un anno dalla loro presentazione e nonostante ripetuti solleciti. Come dicono gli inglese "The story continues...". Ma fino a quando non si riuscirà a fare piena luce sui lati oscuri, finché continueranno ad esistere dubbi e ad emergere nuove verità sulla 'Prima Repubblica' questa continuerà a gettare un'ombra sul presente, e non ci potrà essere una vera transizione verso la "Seconda Repubblica".”

BRIGATE ROSSE E RISCRIZIONE DELLA STORIA: LE VERITA' NEGATE.

Macchiarini e il primo sequestro-lampo delle Br. L'ex dirigente della Sit Siemens «processato» nel 1972: fu il primo atto dei terroristi rossi, scrive Stefano Zurlo, Giovedì 13/09/2018, su "Il Giornale". Un nome diventato simbolo: Idalgo Macchiarini. La sua foto, con due pistole premute sulle guance e un cartello appeso al collo con la stella a cinque punte, segna la storia del terrorismo italiano e l'incipit delle Brigate rosse. Era il 3 marzo 1972 e il sequestro lampo del dirigente della Sit Siemens durò venti minuti di orologio, ma quei venti minuti segnano il primo capitolo degli anni di piombo e il debutto sulla scena della prima generazione di terroristi: Renato Curcio e la sua donna Mara Cagol che successivamente sarebbe stata uccisa in un conflitto a fuoco con le forze dell'ordine, Alberto Franceschini, Mario Moretti, l'unico capo che sarebbe sgusciato sempre fra retate e arresti, avrebbe condotto sei anni più tardi, nel 1978, l'interrogatorio del prigioniero Aldo Moro e sarebbe stato ammanettato solo nel 1981. Tre componenti miscelate all'ombra della Madonnina: i duri di Reggio Emilia, fuoriusciti dalla Fgci, come Franceschini che non avevano mai abbandonato il sogno della rivoluzione che il partito Comunista con la svolta di Salerno aveva progressivamente mandato in soffitta; gli studenti di sociologia di Trento, come Curcio; e gli operai reclutati a Milano, alla Sit Siemens, come Moretti. L'atto di fondazione è un pranzo in una trattoria in provincia di Reggio Emilia, nell'agosto 1970 e a cui partecipano un'ottantina di militanti, provenienti da Sinistra proletaria e dal Collettivo politico metropolitano. È l'onda lunga del Sessantotto: nascono le formazioni della sinistra radicale, ma c'è anche chi punta dritto verso la lotta armata. Già il 14 agosto alla Sit Siemens compaiono i primi volantini, ma si tratta di gesti da educande al confronto con la mattanza che seguirà negli anni successivi. La prima azione importante è proprio il rapimento di Macchiarini, scomparso qualche giorno fa a Imperia dopo essere rientrato nell'anonimato. Lo rilasciano quasi subito. E nel volantino di rivendicazione lo definiscono «un cane rognoso», per poi concludere con un motto che risuonerà cupo infinite volte nella stagione degli omicidi seriali: «Colpirne uno per educarne cento». La forza della formazione viene sottovalutata, anche se i primi arresti arrivano già nel '72 grazie all'infiltrato Marco Pisetta. C'è un pregiudizio culturale che impedisce di leggere la realtà per quello che è: a sinistra ritengono le Br sedicenti, fascisti travestiti o manovrati da indecifrabili poteri forti. Ci vorrà l'onestà intellettuale di Rossana Rossanda, che conierà l'immagine suggestiva dell'album di famiglia, per scoprire l'ovvio. Ma con grave ritardo. Intanto, il servizio d'ordine di Lotta continua, uno dei gruppi più dinamici della sinistra a sinistra del Pci, si militarizza e va verso il partito armato: è la genesi di Prima linea, l'altra grande sigla dell'eversione tricolore. Vengono da Lc Ovidio Bompressi e Leonardo Marino che il 17 maggio 1972, a Milano, uccidono il commissario Luigi Calabresi. Le Br vanno avanti con i sequestri e le azioni dimostrative ma il sangue resta un tabù. Fino al 17 giugno 1974 quando ammazzano Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, prime croci di una Spoon River interminabile che si concluderà solo alla fine degli anni Ottanta; con nuove fiammate dopo il Duemila.

IL CASO CIRILLO LA TRATTATIVA STATO-BR-CAMORRA. Fermate quel giudice, scrive Tullio Pironti Editore. Carlo Alemi. Presentazione di Luigi Necco Prefazione di Franco Roberti.

«Generalmente, questo tipo di trattative non lascia traccia; in questo caso però, grazie a un magistrato coraggioso e tenace, il giudice Carlo Alemi, disponiamo di informazioni assai precise a proposito delle ambigue trattative che si svolsero tra il potere e la mafia allo scopo di salvare il Cirillo». Jacques de Saint-Victor

«A dodici anni dal sequestro una sentenza sposa in pieno le conclusioni di Alemi. La trattativa c’è stata, l’hanno condotta i politici e i soldi per pagare il riscatto non sono stati il frutto di una spontanea offerta di amici e parenti di Cirillo». Bruno De Stefano

«Carlo Alemi, unico magistrato inquirente che ha osato sospettare dei notabili democristiani, uscendo dal circuito costituzionale (come dirà il Presidente del Consiglio Ciriaco De Mita in pieno Parlamento per controbattere alle richieste di dimissioni del Ministro dell’Interno Antonio Gava) finisce davanti al Consiglio Superiore della Magistratura. […] La Procura della Repubblica, che al contrario non sospetta nulla, al processo di primo grado sulla trattativa è rappresentata dal sostituto procuratore Alfonso Barbarano, il quale si oppone a qualsiasi richiesta degli avvocati mirante ad approfondire i retroscena della liberazione di Cirillo». Marisa Figurato

«Sulle trattative, sui rapporti con la camorra, sulla partecipazione dei politici, nessuno di loro dice nulla, a parte: “non ricordo”, “ho rimosso”. […]  E rischia anche lui, il dottor Alemi. Dopo il primo processo alle BR napoletane vuole andare più a fondo sulle trattative, sul coinvolgimento di Cutolo e anche su quello di eventuali politici». Carlo Lucarelli

«È provato che, in occasione del sequestro Cirillo, vi sono stati fatti di gravissima degenerazione e deviazione dei nostri Servizi di Sicurezza». Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta del Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi [Presidenza del senatore Libero Gualtieri, 4 ottobre 1984]

«Per quanto riguarda il giudice Carlo Alemi, l’Italia dovrebbe essere orgogliosa di aver avuto servitori dello Stato così tenaci e indipendenti. La vicenda Cirillo la dice lunga sulla solitudine che alcuni magistrati italiani hanno dovuto sopportare per tentare di fare giustizia. Speriamo che finalmente Alemi trovi il tempo di scrivere le sue memorie e raccontarci, sciolto da altri vincoli, tutto ciò che non ha potuto scrivere negli atti giudiziari». Isaia Sales

«La sentenza istruttoria del giudice Carlo Alemi si segnala per il suo coraggio civile e per aver messo in luce, pur all’interno di rigide regole processuali, contraddizioni e lacune delle versioni ufficiali sui fatti, complicità e distrazioni dell’apparato statale, pesanti compromissioni della DC nazionale e campana in tutta la storia». Nicola Tranfaglia

È la sera del 27 aprile del 1981 quando Ciro Cirillo, assessore regionale ai Lavori Pubblici della Regione Campania, viene sequestrato nel garage di casa, a Torre del Greco, da un commando di cinque uomini appartenenti alle Brigate Rosse, capeggiati da Giovanni Senzani. Nel conflitto a fuoco che segue perdono la vita l’agente di scorta di Cirillo, il brigadiere Luigi Carbone, l’autista Mario Cancello, e viene gambizzato Ciro Fiorillo, segretario dell’assessore. Ex presidente della Regione, democristiano “doroteo” molto vicino ad Antonio Gava, Cirillo è uno degli uomini politici più addentro ai meccanismi del potere; da qualche mese, inoltre, è diventato presidente della Commissione incaricata di gestire gli appalti del post-terremoto del 1980. Lo Stato annuncia la linea dura: come già per Aldo Moro tre anni prima, non tratterà con le BR. Cirillo verrà rilasciato dopo 89 giorni di prigionia, all’alba del 24 luglio, in un palazzo abbandonato di via Stadera, a Poggioreale. La liberazione era stata annunciata il giorno prima da un comunicato, in cui i rapitori dichiaravano che a sobbarcarsi l’onere del riscatto - un miliardo e 450 milioni di lire - era stata la Democrazia Cristiana, suscitando un enorme scandalo, nonché l’immediata smentita da parte dei familiari, che si assunsero la totale responsabilità di quel pagamento. La stessa liberazione fu costellata da episodi controversi, come quello per cui Cirillo, invece di essere tradotto in Questura, come da disposizioni della magistratura, venne portato a casa, dove vano sarà il tentativo di interrogatorio da parte dell’allora pubblico ministero di Napoli Libero Mancuso, causa stato di semincoscienza ascrivibile a choc - salvo poi colloquio personale, a porte chiuse, con Antonio Gava e Flaminio Piccoli, esponenti di spicco del partito. Fin da subito emersero dubbi anche in merito alla cifra pagata per il riscatto: si vociferava, infatti, che l’ammontare fosse stato pattuito grazie all’intercessione della camorra, cui sostanzialmente si doveva il merito del rilascio, e che la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo - il più sanguinario capo camorra dell’epoca - ne avesse incassato almeno una metà: la somma sarebbe stata messa insieme da un gruppo di imprenditori edili, “amici” della DC - legati a doppio filo a Cirillo per questioni di appalti - e i “colloqui”, tanto con funzionari dei Servizi Segreti che con esponenti politici, si sarebbero svolti direttamente nell’“allegro” carcere di Ascoli Piceno, in cui era detenuto ‘o Professore, per il tramite di faccendieri senza scrupoli. Inizia così quella che il presidente emerito Giorgio Napolitano ha definito «una delle pagine più nere dell’esercizio del potere nell’Italia democratica»: il sequestro è destinato infatti a divenire uno dei più clamorosi casi politici e giudiziari degli anni bui della Repubblica Italiana. A indagare sul caso Cirillo è il magistrato Carlo Alemi che, in qualità di giudice istruttore, diventa protagonista di alcune delle vicende più oscure e sanguinose degli anni di piombo, conoscendo e interrogando i personaggi più ambigui implicati nelle intricate trame della politica, della malavita organizzata, del terrorismo rosso e dei Servizi Segreti, fino a divenire, suo malgrado, inconsapevole agnello sacrificale. Gli elementi che si intrecciano nella sua ricostruzione sono tanti: fatti di cronaca nera, crimini mafiosi, ipotesi investigative, tentativi di depistaggi da parte di organi dello Stato, sparizione di documenti, misteri irrisolti, testimonianze scottanti, raggiri politici, Servizi deviati. È Alemi l’autore della straordinaria istruttoria condotta sul caso, affidatagli il 1° settembre del 1981 e conclusasi il 28 luglio del 1988, con il deposito della sentenza-ordinanza di 1.534 pagine destinata a fare Storia, un J’Accuse che scatenerà una vera e propria tempesta politica in Parlamento: c’è stata mediazione politica da parte di esponenti della DC, così come ci sono stati contatti e intercessioni con i brigatisti per il tramite di Servizi Segreti e Nuova Camorra Organizzata. Vengono chieste le dimissioni di Gava, divenuto intanto, con il nuovo governo De Mita, ministro degli Interni; il Presidente del Consiglio lo difende, respingendo al mittente le accuse, attaccando violentemente Alemi per le sue «opinioni indebitamente espresse e illazioni» e asserendo che il giudice ha abusato delle procedure, «ponendosi così fuori dal circuito costituzionale». L’esito dell’istruttoria, che Carlo Alemi portò avanti, con coraggio e ostinazione, mettendo a rischio la sua stessa vita, tra minacce di morte - il suo nome figurava nell’agenda della “Primula Rossa” Barbara Balzerani - scorte negate, procedimenti per diffamazione e commissioni d’inchiesta - portò alla comminazione di 30 ergastoli. La sua ordinanza è diventata nel tempo oggetto di studio tanto nelle forze dell’ordine che nelle università italiane e negli atenei stranieri, in quanto documentazione preziosissima atta a testimoniare e ricostruire la storia dell’organizzazione terroristica nota con il nome di Brigate Rosse. Oggi, magistrato in pensione, per la prima volta e in esclusiva, il narratore d’eccezione della trattativa Stato-BR-camorra per la liberazione di Ciro Cirillo parla e racconta, svelando, in pagine dure e toccanti a un tempo, tra ricordi intimi e analisi storiche lucide e rigorose, chi effettivamente vi prese parte, per conto di chi e per quali motivi si siano mossi i Servizi Segreti e perché lo Stato, diversamente da quanto fece con Aldo Moro, trattò con i brigatisti.

Carlo Alemi nasce ad Addis Abeba, in Etiopia, nel 1941. Magistrato di lungo corso, noto in particolare per le indagini sulle Brigate Rosse, sulla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e sul sequestro Cirillo, nonché per quelle legate all’incendio della raffineria dell’Agip e alla dichiarazione di insolvenza della Banca di credito campano del noto faccendiere Gianpasquale Grappone, ha chiuso la sua carriera come presidente del Tribunale di Napoli.

Sul caso Cirillo parla Carlo Alemi. Ieri qui si è parlato della cattura del camorrista Pasquale Scotti dopo trent’anni di latitanza e di come oggi potrebbe dare la sua versione sulla vicenda del rapimento e soprattutto della liberazione dell’assessore campano Ciro Cirillo, rapito dalle BR nel 1981 e liberato dopo una trattativa, scrive Massimo Bordin il 29 Maggio 2015 su "Il Foglio". Ieri qui si è parlato della cattura del camorrista Pasquale Scotti dopo trent’anni di latitanza e di come oggi potrebbe dare la sua versione sulla vicenda del rapimento e soprattutto della liberazione dell’assessore campano Ciro Cirillo, rapito dalle BR nel 1981 e liberato dopo una trattativa, in quel caso ci fu davvero, con molti punti oscuri. Il magistrato che se ne occupò, Carlo Alemi, allora giudice istruttore napoletano, oggi in pensione, è stato intervistato due giorni fa dal Mattino. Ha rievocato la vicenda che effettivamente vide interagire camorra di Raffaele Cutolo e servizi segreti con le brigate rosse e i politici locali. Faccenda delicata, facilissima ai depistaggi e a ricostruzioni romanzate. Se Scotti dovesse parlare è essenziale la massima professionalità dei PM. Alemi è la memoria storica dell’inchiesta. Ieri ha spiegato al giornalista del Mattino che per il sequestro venne richiamato in servizio il generale Santovito, capo del SISMI, che era stato allontanato due anni prima per lo scandalo P2. Solo che la scoperta degli elenchi di Gelli e il conseguente allontanamento di Santovito risalgono al 1981, poche settimane prima del sequestro dell’assessore campano. Cominciamo malissimo.

Morto Cirillo. Giudice Alemi: ''Tutto chiaro per me, lo Stato trattò con la Camorra'', scrive il 31 Luglio 2017 Stella Cervasio su "La Repubblica" (Antimafia Duemila). Carlo Alemi fu giudice istruttore di un caso con uno strascico lungo trent'anni, su cui si riaccendono i riflettori dopo la scomparsa ieri all'età di 96 anni di Ciro Cirillo. Alemi ascolta, poi dice con sicurezza: "Un caso chiaro, per me. È la prima volta che l'intervento della camorra in una trattativa con lo Stato è stata riconosciuta nella sentenza di II grado e in Cassazione, negli atti delle Commissioni parlamentari sui servizi segreti e sulla camorra".

C'era anche il terrorismo, in quella trattativa per il rilascio del politico. Senzani, capo del commando brigatista che lo rapì aveva lavorato nel Centro servizi culturali, a pochi passi dalla casa di Cirillo.

"Senzani fu indicato come infiltrato dei servizi segreti nelle Br ed è stato condannato anche per il sequestro Cirillo".

L'ex assessore dc però ha continuato a negare che ci sia stata una trattativa.

"L'ha scritto nel libro "Io, Cirillo e Cutolo" anche il suo segretario e sindaco di Giugliano Giuliano Granata che erano andati in carcere a parlare con il boss. In quel libro ha scritto anche cose che a me aveva assolutamente negato".

Che cosa resta di oscuro, allora, in questa vicenda?

"Ciò che non è emerso ancora è il vero contenuto delle trattative che ci sono state tra Cutolo e lo Stato. L'ex presidente dell'Avellino, Antonio Sibilia, interrogato dai magistrati per altre vicende disse che il business della ricostruzione post-terremoto era partito dopo il sequestro Cirillo".

Fu rapito per il piano della ricostruzione?

"Se non si fosse bruciato, Cirillo avrebbe gestito tutta la ricostruzione post terremoto. Dopo il rapimento non glielo hanno più consentito, si era ampiamente esposto nella ricostruzione. Avrebbe gestito i miliardi degli appalti. Galasso lo dichiara quando viene arrestato. Non ci sono dubbi neanche sul fatto che sia intervenuta la camorra".

Chi poteva essere al corrente di tutto?

"Secondo me Raffaele Russo è una figura che è emersa poco in quella vicenda e che invece ha partecipato a molte riunioni che si tenevano nell'ufficio di Gava. Fu citato nelle deposizioni da Savarese, il gestore dell'hotel Le Axidie di Vico Equense, che aveva gestito la raccolta di soldi. Il grosso del denaro venne dai costruttori, se si fa due più due si possono collegare facilmente l'affare ricostruzione e gli imprenditori".

Cirillo dichiarò che la sua vicenda servì per incastrare Gava e questo le valse la definizione di toga rossa e anche un procedimento disciplinare.

"Rossa? Io però la giornalista dell'Unità l'ho arrestata per il falso. Non è stato facile lavorare in quegli anni: ricordo che avevo il telefono sotto controllo. Agli amici che mi chiedevano quando finiva l'inchiesta dicevo "la chiudo presto, non è emerso nulla". Forse per questo mi hanno lasciato stare".

Che cosa ricorda di Cirillo?

"Da lui e dai familiari nessuna collaborazione. C'erano disposizioni che venivano dall'alto. Ai magistrati che dovevano incontrarlo appena rilasciato, Libero Mancuso e Carmine Pace fu impedito di vederlo, ma lui si era incontrato con Gava e con Piccoli. Io lo interrogai e lui mantenne una posizione negatoria. In seguito ha sostenuto che ero un comunista che voleva sfidare la Dc. Ma quando lo incontrai per la presentazione al Suor Orsola del servizio di Giovanni Minoli "La storia siamo noi" sul caso Cirillo mi definì "un giudice onesto e corretto, ce ne vorrebbero tanti come lui". Qualche anno dopo però è tornato alla vecchia tesi: ha detto che volevo fregare la Dc".

Come lo ricorda, chi era il vero Cirillo?

"Era l'uomo di fiducia di Gava. In quella trasmissione di Minoli avevo rilasciato un'intervista dettagliata ma l'hanno quasi completamente tagliata. Mi dissero che Gava aveva accettato di partecipare se fossero state accorciate le mie frasi".

Il giudice Alemi: "Nel mio libro i segreti della trattativa Stato-camorra. Cirillo serviva vivo alla Dc". Intervista a "Repubblica" su quanto accadde per la liberazione dell'ex assessore sequestrato dalle Br, scrive Dario Del Porto il 24 giugno 2018 su "La Repubblica". «Se lo Stato ha trattato una volta con la criminalità organizzata, come è accaduto per Ciro Cirillo, significa che può essere successo altre volte. E siccome nulla è veramente cambiato da allora, non possiamo escludere che accada di nuovo», dice Carlo Alemi, il magistrato che ha indagato sul rapimento e la successiva liberazione dell’allora potentissimo assessore regionale democristiano ai Lavori pubblici. Il 27 aprile del 1981, un commando delle Brigate Rosse composto da cinque persone agli ordini di Giovanni Senzani, dopo aver ucciso l’agente di scorta Luigi Carbone e l’autista Mario Cancello, neutralizzò Cirillo per rinchiuderlo in una “prigione del popolo”. Ma a differenza di quanto accaduto tre anni prima con Aldo Moro, il 24 luglio successivo, l’ostaggio fu rilasciato. «Le sentenze della Corte d’Appello e della Cassazione hanno sancito che ci fu una trattativa», sottolinea Alemi, all’epoca giudice istruttore, poi presidente del tribunale di Napoli, che ha scritto per Pironti un libro dal titolo inequivocabile: «Il caso Cirillo. La trattativa Stato-Br-camorra», che sarà presentato martedì alle 17 all’Istituto studi filosofici.

Perché ha aspettato 37 anni per raccontare la sua verità sul caso Cirillo, presidente Alemi?

«Mi sembrava doveroso lasciare la magistratura, prima. Non sono d’accordo con quei colleghi che scrivono libri quando ancora i procedimenti sono in corso. Ciò nonostante, non avrei mai scritto questo libro senza le insistenze di Luigi Necco (recentemente scomparso n.d.r.) un giornalista che aveva vissuto da cronista quegli anni, venendo anche ferito alle gambe dalla camorra. Necco mi aveva più volte invitato a raccogliere le mie memorie di quella vicenda e mi ha assistito nella scrittura».

Chi trattò per liberare Cirillo?

«Lo Stato. E non mi si venga a dire che quei soggetti non rappresentavano lo Stato: gli attori di questa vicenda erano ai vertici dell’amministrazione pubblica, dei servizi segreti, del ministero della Giustizia, del partito che aveva la maggioranza relativa in Parlamento».

Perché Moro fu ucciso, mentre Cirillo tornò a casa?

«Cirillo gestiva la ricostruzione post terremoto, dunque serviva vivo alla Dc. Nessuno, invece, voleva che Aldo Moro rimanesse in vita. Non il suo partito, non gli americani e neppure i socialisti, che a parole erano per la trattativa ma temevano il compromesso storico».

Il boss della camorra Raffaele Cutolo che ruolo ebbe?

«Quello di intermediario».

In cambio di cosa?

«Aveva ricevuto promesse ben precise: la liberazione anticipata o almeno la dichiarazione di infermità mentale e favori per i camorristi detenuti».

Il patto però non fu mantenuto.

«Innanzitutto perché il documento pubblicato dall’Unità, attribuito ai Servizi ma risultato falso, in cui si riferiva di una visita nel carcere di Ascoli Piceno di Francesco Patriarca, Antonio Gava e Vincenzo Scotti, fece saltare tutto. E poi perché al Quirinale c’era Sandro Pertini, un presidente di straordinaria autonomia e autorevolezza».

Molti attori di questa storia sono morti, come Gava e lo stesso Cirillo. Restano altri misteri insoluti?

«L’omicidio del dirigente della squadra mobile Antonio Ammaturo. È una bruttissima pagina per il nostro Paese. Basti pensare che, fra i documenti scomparsi durante le indagini, figura la relazione sul caso Cirillo che Ammaturo aveva trasmesso ai suoi superiori. Manca anche la copia che il commissario aveva consegnato al fratello, a sua volta vittima di uno strano incidente di caccia».

Cosa ha rappresentato per lei questa indagine?

«Un impegno difficilissimo, portato avanti nonostante una totale mancanza di collaborazione da parte di chi aveva indagato, di chi avrebbe dovuto testimoniare, e nell’isolamento dei colleghi, tranne uno: Raffaele Bertoni. Ho dedicato il libro a mia moglie, perché mi ha aiutato a proteggere la privacy e la serenità della mia famiglia. Al tempo stesso però ho ricevuto attestati di stima da parte di tante persone, alcune anche insospettabili».

Ad esempio?

«Mentre il Mattino diretto da Pasquale Nonno mi attaccava violentemente, mi arrivò la lettera di un brigatista: “Giudice - diceva - leggendo quello che scrivono, sono contento di essere stato arrestato da lei”».

Cirillo, il sequestro e la trattativa Stato-camorra: tutti i segreti degli anni di piombo», scrive Domenica 30 Luglio 2017 Il Mattino. «Il processo sul mio rapimento fu fatto all’ombra di Antonio Gava. Nel senso che i magistrati che si occupavano del mio caso in realtà volevano coinvolgere soprattutto lui. La verità su quella vicenda? È quella che ho ripetuto in tutti questi anni». Lucido come sempre, così, nel giorno del suo 95esimo compleanno, Ciro Cirillo ricordò una della pagine più oscure della storia della Repubblica italiana. Più volte Cirillo raccontò di avere saputo che per la sua liberazione fu pagato un riscatto di un miliardo e 450 milioni di lire. Ma dell’accordo Stato-camorra, con il supporto dei servizi segreti e il coinvolgimento - per alcuni decisivo - di Raffaele Cutolo, ha sempre escluso categoricamente l’esistenza: «La verità - ripeteva - l’ho detta in tutti questi anni. Ogni altra trattativa posso escluderla». Da allora, dal giorno della liberazione, Cirillo lasciò il mondo della politica: «È stata una delle cose più brutte dell’intera vicenda legata al mio sequestro da parte della Br», ripeteva spesso. Ma, con orgoglio, rivendicava: «Chi parlava di una politica ‘marcia’ in quel periodo oggi dovrebbe essersi ricreduto. Nell’attuale vita politica c’è purtroppo un'evidente influenza da parte della magistratura, che spesso finisce con il condizionare l’elettorato. Ricordo quando fui indagato perché, da presidente della Provincia, si riteneva che non avessi vigilato in maniera corretta sul presunto inquinamento del Lago d’Averno. Nonostante la chiara tesi del mio avvocato, che non era un iscritto al partito, il giudice di primo grado ci fece capire che dovevo essere condannato. E così fu. E sapete come finì? Fui assolto in Appello».

Br-camorra, il giudice Carlo Alemi: "Cirillo mente ancora". Dopo 35 anni dal sequestro l'esponente Dc esclude contatti tra Stato, Br e camorra. Il magistrato Carlo Alemi che indagò sul caso: “Affermazioni incredibili, totalmente discordanti con quanto stabilito dai processi”, scrive Gianmaria Roberti il 25 febbraio 2016 su "L'Espresso". Chiamatela rimozione, un processo freudiano che spinge in soffitta le verità più indigeste. Accade per i passaggi inconfessabili della storia nazionale, molti ancora coperti dal segreto di Stato. La rimozione – o l’alterazione della verità dei fatti – si è riproposta in questi giorni a proposito del caso Cirillo ovvero per quel drammatico episodio in cui le istituzioni dello Stato riconobbero nella camorra un interlocutore di pari grado, chiedendo l'aiuto di Raffaele Cutolo, il più sanguinario capo camorra dell’epoca. Avvenne nel 1981, per il rapimento di Ciro Cirillo, assessore Dc ai lavori pubblici della Campania e presidente della commissione che doveva gestite tutti gli appalti del post terremoto del 1980. Una vicenda seppellita nel capitolo delle storie più imbarazzanti. Al punto che anche oggi è difficile accendere i riflettori. Cirillo fu sequestrato il 21 aprile da un commando delle Br guidato da Giovanni Senzani, durante un assalto in cui vennero uccisi l'autista e un agente di scorta. I brigatisti lo liberarono il 24 luglio di quell'anno dietro il pagamento di un riscatto da 1,5 miliardi di lire. E si parlò di altri 1,5 miliardi finiti alla camorra. Nel mezzo, si avverò il copione in cui lo Stato e l’antistato si siedono allo stesso tavolo per negoziare. Eppure all'inizio di febbraio di quest’anno il 95enne Ciro Cirillo sente il bisogno di riemergere dall'oblio a cui si era autoconsegnato per 35 anni. Ma lo fa per negare ogni trattativa finalizzata al suo rilascio, con la mediazione del boss. "Lo escludo, assolutamente", ha dichiarato in un'intervista alla tv svizzera italiana. E riattizzando il fuoco di antiche accuse, aggiunge: "Ci fu un'istruttoria, da parte del giudice Carlo Alemi, che aveva un solo obiettivo, incastrare Antonio Gava, allora ministro dell’Interno". Di nuovo salta fuori il nome dello scomparso leader del grande centro. E, come in un gioco di specchi, queste parole fanno rompere il riserbo a chi condusse l'inchiesta, il magistrato Alemi per anni perseguitato per la sua coerenza e per la fedeltà al principio di legalità. Il segretario democristiano De Mita lo bollò in pieno Parlamento come “giudice al di fuori dal circuito costituzionale". Il quotidiano della Dc definì il suo lavoro diffamazione a mezzo giudice. A rischio della vita Alemi seguì con ostinazione e provò la pista del patto tra esponenti dello Stato, Br e Nuova camorra organizzata. Un'intesa raggiunta col frenetico andirivieni di funzionari dei servizi, di camorristi latitanti, di esponenti Dc e della massoneria come Francesco Pazienza nel carcere di Ascoli Piceno, dove il boss era detenuto. Da magistrato in pensione Alemi ne parla ora con “l’Espresso”: “Mi sembra incredibile - dice - che il dottor Cirillo abbia oggi fatto quelle affermazioni, totalmente discordanti peraltro con quanto affermò, in mia presenza ed al mio indirizzo, il 19 maggio 2008, all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, in occasione della presentazione del documentario “La trattativa” del programma Rai “La storia siamo noi”, allorché mi disse: “Anzi penso che mai come in questo momento avremmo tutti bisogno di magistrati coraggiosi e onesti come lei”. Non credo possa essere considerato “onesto” un magistrato che utilizza il proprio lavoro per “danneggiare un partito politico”. “Mi sembra di tornare – racconta Alemi – ai giorni in cui subivo attacchi di ogni sorta ed ero dipinto come il giudice comunista che utilizzava il proprio lavoro per distruggere la Democrazia Cristiana. Per tali false affermazioni, il direttore del Mattino dell’epoca, fu condannato per diffamazione nei miei riguardi. Il procedimento disciplinare "tempestivamente" attivato nei miei confronti dal Ministro della Giustizia si concluse con il riconoscimento della totale correttezza del mio operato. Eguale sorte ebbe il procedimento per diffamazione attivato nei miei confronti dall’onorevole Scotti. Le conclusioni della mia istruttoria, secondo cui c’era stata una trattativa con le Br e la Nco, da parte dei massimi esponenti dei Servizi e del Ministero, oltre che di esponenti politici Dc, sono state pienamente confermate oltre che dalla sentenza di appello - confermata in Cassazione - anche dalle due commissioni di inchiesta parlamentare che hanno indagato sulla vicenda. Che il partito Dc abbia partecipato alla trattativa con il consenso, o quanto meno "con l’avallo" dei massimi esponenti del partito - l’allora segretario Flaminio Piccoli e l’onorevole Gava -, difatti, non l'ha affermato solo il giudice Alemi, ma - aggiunge il magistrato - lo ha confermato la sentenza definitiva del processo che ha concluso per la “sostanziale verità dell’affermazione, secondo cui la Dc aveva trattato con le Br per Cirillo con l’intermediazione della camorra di Cutolo”. Insomma non fu Cutolo a ricattare o minacciare, furono i ras della Balena Bianca a cercarlo per agganciare i brigatisti. Nei documenti parlamentari la realtà è consacrata già nel 1984 dal comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza, presieduto dal senatore Libero Gualtieri, e nel 1993 dalla commissione antimafia con la presidenza di Luciano Violante. La relazione Violante, approvata dalla commissione, sanciva che “la negoziazione, decisamente smentita nei primi tempi, è oggi riconosciuta senza infingimenti”. Nelle audizioni a Palazzo San Macuto il prefetto Parisi e il generale Mei, ai vertici dei servizi all'epoca dei fatti, ammisero la trattativa. Lo stesso fece Vincenzo Scotti, ministro degli Interni della Dc nei primi anni '90, però negando di avervi partecipato. “L’onorevole Scotti e la Democrazia Cristiana – ricorda Alemi – avevano querelato l'Unità per la vicenda del falso documento del Viminale, in cui si attestavano le visite a Cutolo in carcere dello stesso Scotti e del senatore Patriarca. Ma se a Scotti i giudici diedero ragione, al partito no, arrivando ad assolvere il direttore Petruccioli dal reato di diffamazione ed a condannare il partito Dc alle spese del procedimento. Pertanto quel documento, falso nella forma, fu ritenuto veritiero nella sostanza”. Raffaele Cutolo, memore di quelle promesse mai mantenute, in un'intervista a Repubblica l'anno scorso tornò a lanciare sinistri messaggi dalla cella del 41 bis. “Rifiutò ancora una volta di fornire la sua versione dei fatti, assumendo che, se avesse parlato, avrebbe potuto far ballare mezzo Parlamento, anche perché molti di quelli che oggi sono ai vertici delle istituzioni sono o tuttora protagonisti oppure eredi e promanazione di quelli che allora chiesero il suo aiuto. Se usa questo linguaggio, certo - riflette Alemi - si rivolge a personaggi attivi ai suoi tempi e operativi anche oggi. Ma, evidentemente, nessuno ha interesse a scoprire chi essi siano e quali i reali termini della trattativa, che ha sicuramente costituito una delle pagine più sporche nella vita della nostra Repubblica”. Pagine che a molti fa comodo dimenticare.

ALEMI: "SONO VIVO PER MIRACOLO", scrive Giovanni Marino il 24 settembre 1994 su "La Repubblica". "Cosa provo adesso? Amarezza e soddisfazione. Penso con amarezza a quello che ho dovuto subire per aver lavorato correttamente. Sono stato attaccato a tutti i livelli per esser arrivato troppo in alto. Così andavano le cose in quell' Italia, sicuramente oggi gli stessi attacchi non avrebbero la virulenza e la protervia di allora. Ma provo anche soddisfazione perchè, senza l'apporto della procura, con un contributo assai limitato e spesso inquinato delle forze dell'ordine, tra depistaggi, testimoni uccisi, improvvisamente morti oppure pressati affinchè negassero pure l'evidenza, io sono comunque riuscito a ricostruire la vicenda Cirillo esattamente così come oggi i molti pentiti e le investigazioni dei colleghi ricostruiscono. La mia inchiesta, vecchia ormai di sei anni, trova pieno riscontro oggi. Sei anni dopo...". Carlo Alemi, il coraggioso pioniere del caso Cirillo, l'antesignano di Di Pietro, si gode con equilibrio e persino con un po' di timidezza la sua grande e definitiva vittoria. Sì, il giudice Carlo Alemi, il “perseguitato”, aveva visto giusto nella sua contrastata indagine sul sequestro (' 81) di Ciro Cirillo, all' epoca assessore dc, liberato a tre mesi dal rapimento dopo una trattativa proibita tra dorotei, br, servizi segreti e camorristi. Adesso la nuova inchiesta della procura di Napoli smentisce, nero su bianco, i molti che attaccarono Alemi con bordate terrificanti. Alemi ha vinto. Dall' ufficio di capo della procura circondariale di Caserta il giudice racconta il ' suo' caso Cirillo. Procuratore Alemi, il caso Cirillo è costellato da omicidi, morti ' naturali' troppo improvvise per essere credibili; ha mai temuto per la sua vita? "Onestamente io mi ritengo fortunato di essere vivo. Il primo successo dell'inchiesta è poter raccontare ancora queste cose. A volte si può morire perchè qualcuno distorce la tua immagine e ti dipinge come un giudice non imparziale". Sembra proprio il suo caso... "Sono stato dipinto come un pazzo. Qualche procuratore andava a dire in giro che ero folle, qualcun altro diceva che ero spinto dal mio comunismo e volevo solo screditare la democrazia cristiana". Lei è comunista o lo è mai stato? "Non ero comunista ma per reazione alle accuse mi sarebbe venuta voglia di diventarlo". Quali segni ha lasciato nel giudice Alemi il caso Cirillo? "Nel corso dell'indagine ho fatto esperienze professionali, umane e morali indimenticabili. Purtroppo per molto tempo non ho avuto il riconoscimento della bontà del mio lavoro, l'unico che mi interessava". Come si sentì quando il presidente del Consiglio Ciriaco De Mita in pieno parlamento la definì un giudice fuori dal circuito costituzionale? "Era tutto così irreale quel 5 agosto ' 88 quando lessi sui giornali l'esternazione del presidente. Ero in vacanza, sul litorale Domitio e mi sembrò di leggere cose e riferimenti che riguardavano un'altra persona, non me. Non pensavo che si sarebbe mai arrivato a quei livelli". Ci racconti tutti i bastoni tra le ruote di quell' inchiesta scomoda. "Rischiamo di far notte. Cito qualche episodio, significativo del clima. Un pentito racconta di un incontro tra un boss e un politico in un ristorante romano, La Conchiglia. Chiedo agli investigatori di verificare l'esistenza del ristorante, di fornirmi l'indirizzo. Per otto anni mi hanno detto che quel ristorante non esisteva. Invece esisteva, era ben visibile e persino conosciuto... e poi, un altro episodio: la commissione sui servizi segreti conclude i suoi lavori sul caso Cirillo e la consegna alla presidenza del Consiglio; vengo a sapere che oltre alla relazione approvata ne esiste un'altra, del presidente Gualtieri con frasi non trasfuse nel lavoro conclusivo della commissione. La chiedo all' onorevole Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio, con una lettera ufficiale inviata a Palazzo Chigi. Attendo per sei mesi: nessuna risposta. Sollecito e dalla presidenza del Consiglio replicano: “Qui non è arrivato niente”. Chiedo alla Digos come sia possibile e loro mi portano il riscontro che cercavo: quella lettera è arrivata, eccome se è arrivata...". Qualche altro depistaggio... "In breve posso ricordare i registri del carcere di Ascoli Piceno regolarmente manomessi, il poliziotto della stradale che mi ha strappato davanti agli occhi, ai miei occhi, il rapporto sul ritrovamento di Cirillo". Cosa accadde con quel rapporto? "Come risulta dall' indagine, Cirillo fu ritrovato dalla polizia stradale. Ma poi quell' auto fu ' accerchiata' dalle volanti del funzionario Biagio Giliberti che si presero Cirillo e lo riportarono a casa. Il risultato fu che per tre giorni Cirillo vide tutti, a cominciare dai massimi vertici dc, tranne i magistrati. Di questo ' accerchiamento' , proprio con queste parole, parlava il rapporto del poliziotto della stradale. Ma quando lo convocai e gli chiesi di mostrarmelo lui, prontissimo, lo fece in mille pezzettini davanti a me, esterrefatto. Di più: tentò di ingoiarli e solo quando gli feci presente che stava commettendo un'omissione gravissima, mi diede quei frammenti". Ha letto cosa dicono oggi i magistrati su Antonio Gava? "Posso dire che già dalla lettura dei miei atti, della mia inchiesta, emergeva con chiarezza il ruolo primario di Antonio Gava nelle trattative con Cutolo per la liberazione di Cirillo". Perchè i capi dc volevano Cirillo libero a tutti i costi e ad ogni costo? "Attenzione, il processo racconta che il primo intervento fatto su Cutolo puntava a far terminare in fretta il sequestro: con Cirillo o morto o libero". L' importante era fare in fretta... "Sì, era importante perchè da un lungo sequestro temevano sarebbe potuta derivare una lunga confessione di Cirillo alle BR su ciò che sapeva della Dc. Un pericolo da evitare ad ogni costo". E' stato scoperto tutto sul caso Cirillo? "No, appena il dieci per cento della verità. Il nodo resta il dopo terremoto. E' lì che bisogna insistere".

La strana storia del professor Senzani e del sequestro dell’assessore Cirillo, scrive Francesco Damato il 30 Agosto 2017 su "Il Dubbio". A un mese dalla morte dell’ex amministratore Dc rapito dalle Br non è venuto alla luce nessun memoriale segreto, come aveva promesso. Così resta il mistero. A un mese ormai dal 30 luglio, giorno della morte di Ciro Cirillo, l’assessore regionale campano della Dc sequestrato dalle brigate rosse fra il 27 aprile e il 24 luglio del 1981, e liberato dopo una misteriosa trattativa in cui fu coinvolta, a dir poco, la camorra guidata in carcere da Raffaele Cutolo, si può forse scrivere che egli non ha davvero lasciato memoriali o altro a qualche notaio. Lo aveva annunciato dopo la liberazione, fra le polemiche politiche e le indagini giudiziarie, per poi smentire, cioè per ripensarci. Sulle minacce hanno forse prevalso le promesse agli amici altolocati del suo partito, alquanto malmessi nella esposizione mediatica per avere violato con lui quella cosiddetta linea della fermezza, cioè di rifiuto di ogni cedimento al terrorismo, che tre anni prima era costata la vita ad Aldo Moro. La cui tragica scomparsa, preceduta dalla strage della sua scorta, aveva portato alla fine della politica di cosiddetta solidarietà nazionale col Pci di Enrico Berlinguer e a quella che Carlo Donat-Cattin, molto amico del presidente democristiano, definì “l’infarto della Democrazia Cristiana”. Esponente del potente gruppo di Antonio Gava – che a sua volta deteneva l’azione d’oro, diciamo così, della segreteria del partito detenuta da Flaminio Piccoli – l’assessore Cirillo aveva tra le mani, nel momento in cui fu sequestrato, la ricostruzione dell’Irpinia e delle altre zone meridionali danneggiate dal terremoto del 1980: quello che aveva mandato su tutte le furie, per i ritardi e altri pasticci dei soccorsi, il presidente della Repubblica Sandro Pertini. Forse le Brigate rosse non avevano pensato proprio a quei lavori di ricostruzione quando decisero di mettergli le mani addosso. Ma ci pensò la camorra, più lesta dello Stato nel controllo del territorio e probabilmente nell’individuazione del covo brigatista in cui il sequestrato era stato rinchiuso. Pertanto le Brigate rosse, avventuratesi in una zona off limits con una imprudenza che si erano risparmiate in una regione, per esempio, come la Sicilia, dovettero fare i conti anche con i camorristi per portare avanti e chiudere la loro avventura. Furono pagati per la liberazione, versati di notte a Roma su un tram al regista del sequestro in persona, Giovanni Senzani (poi condannato per questo ad uno degli ergastoli accumulati) un miliardo e mezzo di lire. Eppure Senzani, che vive ormai in piena e legittima libertà dal 2010, ha sempre smentito che dietro quel pagamento ci fosse stata qualche trattativa in cui fossero state coinvolte Brigate rosse, Democrazia Cristiana e camorra. Nelle Brigate rosse Senzani aveva assunto ruoli apicali dopo la cattura a Milano, proprio in quel 1981, di Mario Moretti che nel 1978 aveva diretto a Roma il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro – e del compagno di idee e di lotta Enrico Fenzi. Di cui peraltro Senzani era cognato, avendone sposato la sorella. Oltre al sequestro Cirillo, toccò a Senzani gestire, nello stesso anno, il rapimento ma poi anche l’esecuzione, con altra condanna, di Roberto Peci, che pagò la colpa di essere fratello di Patrizio, il terrorista pentito che aveva permesso di sgominare mezza organizzazione sotto gli incalzanti interrogatori del generale Carlo Alberto dalla Chiesa e del magistrato Gian Carlo Caselli. In uno scenario quasi esoterico che si ritrova navigando tranquillamente per internet, il povero Roberto Peci fu trattenuto dai suoi aguzzini per 55 giorni e ucciso con undici colpi d’arma di fuoco: 55 quanti erano stati i giorni di prigionia di Aldo Moro, tre anni prima, e 11 quanti i colpi sparati contro l’inerme presidente della Dc processato dal fantomatico tribunale del popolo delle Brigate rosse. È curiosa davvero la storia di questo Senzani: una storia che ho avuto la sfortuna di incrociare personalmente con una vertenza giudiziaria finita anche all’esame dell’ultima commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e sull’assassino di Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni. Siamo a cavallo fra il 2000 e il 2001. Dalla commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi incompiute, presieduta dal senatore Giovanni Pellegrino, dei Democratici di sinistra, arrivano voci clamorose sul ruolo che avrebbe svolto Senzani anche nel sequestro di Moro, tre anni prima dei fatti terroristici che gli avrebbero procurato processi e condanne. Mi avvicina in Transatlantico, a Montecitorio, l’amico Nicola Lettieri, sottosegretario democristiano all’Interno all’epoca del rapimento del presidente del suo partito, e mi confida la sua inquietudine ritenendo che durante il sequestro proprio Senzani, da lui ritenuto quanto meno consulente del Ministero della Giustizia come criminologo, anche se lo stesso Senzani definirà pure questa una fandonia in una intervista del 2014 al Garantista, fosse stato contattato dal Viminale per aiutare politici e funzionari a interpretare i comunicati delle Brigate rosse. Tracce di questa presunta consulenza tuttavia non si trovano fra le carte del Viminale. Me lo escluse, su richiesta formulatagli personalmente, anche Francesco Cossiga, ministro dell’Interno all’epoca dei fatti. Vengono invece fuori dalla commissione di Pellegrino altri fatti, come una deposizione del magistrato toscano Tindari Baglioni, occupatosi di terrorismo a Firenze. Che, invitato a dire se il sequestro Moro fosse stato possibile più per la debolezza dello Stato che per la forza delle Brigate rosse, risponde che entrambi avevano in comune un consulente, appunto Senzani. Del quale viene riferito alla stessa commissione che la Procura di Firenze chiese l’arresto dopo il fermo di un giovane armato che abitava presso di lui. Il capo della Digos locale, sempre secondo il racconto alla commissione, chiese prudenza trattandosi di un collaboratore dello Stato, comunque arrestato nel 1979, ma per soli cinque giorni, come dallo stesso Senzani ricordato poi nella già citata intervista del 2014 al Garantista. Egli comparirà solo due anni dopo quel breve arresto sulla scena del terrorismo con i sequestri di Roberto Peci e di Ciro Cirillo. Che in quella stagione tuttavia, come ha ricordato sul Dubbio Paolo Comi, non furono gli unici due rapiti dalle Brigate rosse o affini. Furono prelevati dai terroristi anche il povero Giuseppe Taliercio, del polo petrolchimico della Montedison a Mestre, trovato poi ucciso, e Renzo Sandrelli dell’Alfa Romeo, fortunatamente sopravvissuto.

Quando la Commissione stragi conclude i propri lavori, nel finale della legislatura 1996- 2001, prendendo la decisione di inviare un rapporto alla Procura di Roma per chiedere praticamente un’indagine sul ruolo di Senzani nel sequestro Moro, ed esce anche un libro- intervista del presidente Pellegrino, pieno di riferimenti allo stesso Senzani, scrivo un articolo sul Giornale diretto da Maurizio Belpietro per auspicare un chiarimento sulla vicenda. Senzani, in regime allora di semilibertà, dichiaratosi sempre estraneo – ripeto – al sequestro Moro e alla sua gestione, si sente diffamato non dalla Commissione stragi, dai magistrati da essa ascoltato o dal suo presidente ma curiosamente da me. E mi denuncia. La solerte Procura di Monza manda immediatamente agenti della Polizia giudiziaria al Giornale per rilevare la mia identità e mi comunica già dopo un paio di mesi, a maggio, la chiusura delle indagini, senza mai interrogarmi e – temo – senza neppure leggere o solo sfogliare il libro intervista di Pellegrino e quant’altro. L’udienza dal giudice per le indagini preliminari, finalizzata al rinvio a giudizio, viene fissata per i primi giorni di luglio, ma salta per qualche errore di notifica e viene rinviata a pochi giorni prima di Natale.

L’avvocato del Giornale, cui naturalmente ho provveduto ad inviare tutta la documentazione raccolta, compresi alcuni verbali delle audizioni della Commissione stragi segnalatimi dallo stesso presidente, rimane colpito dai tempi dell’inchiesta giudiziaria, rapidissimi come una freccia rossa dei giorni nostri. Prende – presumo – i suoi contatti, assume le informazioni del caso e, sentendo puzza di misteriosi interventi, anche in relazione al rapporto della Commissione stragi inviato alla Procura di Roma, che in effetti dopo qualche anno archivierà i dubbi e le sollecitazioni degli inquirenti parlamentari, mi consiglia di chiudere la vicenda patteggiando. E così avviene, immagino con soddisfazione di Senzani e dell’accusa.

Anche Paolo Comi, pur non conoscendo forse la mia disavventura, nella rievocazione del sequestro di Ciro Cirillo ha giustamente e prudentemente scritto di Senzani sul Dubbio con una certa cautela, da me condivisa dopo l’esperienza avuta, ricordandone certamente il ruolo, d’altronde sanzionato in sede giudiziaria e definitiva, ma anche riportandone le smentite già ricordate ad una gestione delle trattative per il rilascio dell’assessore democristiano estesa alla Dc, alla camorra, ai servizi segreti e a quant’altro.

Eppure lo storico boss della camorra Raffaele Cutolo si è personalmente e ripetutamente vantato della collaborazione chiestagli e da lui concessa a pezzi importanti della Dc e dello Stato, intesi questi ultimi come servizi segreti, per arrivare alla liberazione di Cirillo. E non credo proprio che lo avesse fatto a titolo di generosità e di patriottismo, non essendo la camorra, in nessuna delle sue ramificazioni, un’associazione né benefica né patriottica. Anch’essa evidentemente riteneva di poterne trarre vantaggio, come poi si capì con la spartizione degli appalti per la ricostruzione delle zone della Campania danneggiate dal terremoto del 1980. Non mancarono d’altronde inchieste giudiziarie sul ruolo della camorra nella gestione del sequestro Cirillo, con grossi e inquietanti tentativi di depistaggio. Il più clamoroso dei quali fu certamente il falso dossier passato ad una giornalista dell’Unità che chiamava in causa, fra gli altri, il democristiano Enzo Scotti, soprannominato Tarzan nel partito per la facilità con cui passava da una corrente all’altra e destinato a diventare dopo molti anni ministro dell’Interno. Il giornale del Pci dovette scusarsi e il suo direttore Claudio Petruccioli dimettersi. Allora il giornalismo era una cosa seria, o più seria di adesso, e si usava fare così. Che era poi il modo più efficace anche per limitare i danni del depistaggio, evitando che si parlasse troppo a lungo non delle indagini sul sequestro Cirillo ma dell’infortunio del giornale del principale partito di opposizione.

Chi trattò con la camorra per salvare Cirillo? Forse nessuno, scrive Paolo Comi l'1 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Il vecchio assessore democristiano è morto domenica a 96 anni. Fu al centro di un mistero mai risolto e di gigantesche polemiche. A 96 anni, domenica, è morto Ciro Cirillo, gran democristiano anni 70 in Campania. Aveva sessant’anni, il 21 aprile del 1981, quando un commando delle Br lo aspettò sotto casa, a Torre del Greco, la sera, all’ora di cena, e appena la sua auto si fermò, il commando iniziò a sparare, come si faceva in quegli anni. Restarono sull’asfalto, morti stecchiti, il suo autista e la guardia del copro, un maresciallo dei carabinieri. Mentre il suo segretario particolare, un ragazzo di trent’anni, si salvò, ma con la gamba maciullata. Lui restò illeso. I brigatisti lo sollevarono di peso, lo gettarono nel cassone d’un furgone e lo portarono nella prigione del popolo. Li guidava un certo Giovanni Senzani, che era stato un consulente del ministero di giustizia, era uno studioso, un sociologo. Ala militarista delle Br. Da quel giorno iniziarono mesi di fuoco, paragonabili forse solo ai due mesi di tre anni primi, quelli celebri del rapimento di Aldo Moro nel 1978. Diamo un’occhiata alle date che separano l’inizio di aprile all’inizio di agosto del 1981. 4 aprile, notte, una strada di periferia a Milano, al polizia intercetta Mario Moretti ed il professor Enrico Fenzi che stanno andando a trovare un esponente della mala che loro non sanno essere un confidente della questura. Moretti e Fenzi vengono bloccati, immobilizzati e disarmati. Moretti è considerato il capo assoluto delle Br, l’erede di Curcio, il cervello del sequestro Moro e anche l’uomo che ha sparato al presidente della Dc. Fenzi è uno dei leader dell’ala militare delle Br, e Moretti è in lite con lui. Fatto sta che le Br sono decapitate. Prendono il comando Barbara Balzerani, che guida i movimentisti, e, appunto, Senzani del quale abbiamo già parlato come leader dei militaristi. Però tutto si può dire meno che l’arresto di Moretti abbia indebolito l’organizzazione. Passano poco più di due settimane dal colpo a favore della polizia e Senzani risponde. 21 aprile, rapito Ciro Cirillo. 20 maggio, Porto Marghera, un commando, pare guidato da Antonio Savasta, entra in casa di un dirigente del Petrolchimico della Montedison, un certo Giuseppe Taliercio, e se lo porta via. Due settimane dopo un altro dirigente d’azienda, Renzo Sandrucci, uomo Alfa Romeo, viene sequestrato a Milano. È il 3 giugno. La settimana successiva, il 10 giugno, tocca a a Roberto Peci, che è il fratello di Patrizio Peci, il primo pentito della storia delle Br. Roberto non ha neanche 30 anni. Il suo rapimento è una vendetta trasversale. A questo punto le Brigate Rosse si trovano ad avere contemporaneamente nelle loro mani quattro prigionieri. Un giorno sì e uno no arrivano proclami, dichiarazioni, confessioni, fotografie, richieste di riscatto. E le azioni militari non si limitano alla gestione delle prigioni del popolo e agli interrogatori. Si spara, si ferisce, si uccide per strada. Negli stessi giorni dei quattro rapimenti vengono uccisi Raffaele Cinotti, Mario Cancello, Luigi Carbone, Sebastiano Vinci. Ciascuno in un giorno diverso e in un luogo diverso: tutti e quattro poliziotti. Era quello il clima in quegli anni. Non è facile crederci, magari, ma la lotta politica avveniva in questo clima qui. Eppure non prevaleva la pulsione repressiva, illiberale. Pensate che in quegli stessi anni il Parlamento approvava le leggi-Gozzini, e cioè una serie di norme, che oggi vengono considerate dai più ultraliberali, che attenuano le pene, introducono premi e semilibertà e misure alternative al carcere…I quattro sequestri hanno esiti diversi. Il 5 luglio si conclude tragicamente il sequestro di Taliercio. L’ingegnere viene ucciso in modo barbaro. L’autopsia stabilisce che era ferito, aveva dei denti rotti e non mangiava da cinque giorni. Taliercio si era rifiutato di collaborare, probabilmente aveva mantenuto un atteggiamento di sfida. Il processo per la sua morte si concluderà con tre condanne all’ergastolo per tre brigatisti poco conosciuti, mentre il leader della colonna, il romano Antonio Savasta, che collabora con gli inquirenti, se la cava con dieci anni. Il nome di Taliercio, chissà perché, scompare dal Pantheon degli eroi di quegli anni. Non so quanti siano gli italiani che oggi, se gli chiedi a bruciapelo chi era Taliercio, sono in grado di rispondere. Temo poche centinaia. Il 23 e il 24 luglio, nel giro di poche ore, si concludono positivamente il sequestro Sandrucci e quello Cirillo. Vengono liberati tutti e due. Per tutti e due è stato pagato un riscatto. Pochi giorni dopo, il 3 agosto, la notizia atroce dell’uccisione di Roberto Peci, che ha una figlioletta di un anno, viene processato dal tribunale dei terroristi davanti a una telecamera, e poi, davanti alla telecamera, ucciso con una mitraglietta. La cassetta di questo obbrobrio viene mandata ai giornali. Di suo fratello Patrizio, che era l’obiettivo di questa spietatezza, non si saprà mai più niente. Ha cambiato nome, ha cambiato connotati – pare – con una operazione di chirurgia plastica, vive in una località sconosciuta. Ora dovrebbe avere un po’ meno di settant’anni. Di come si sia ottenuta la liberazione di Sandrucci non si sa molto e non si parla molto. La liberazione di Cirillo invece solleva un pandemonio di polemiche. Questo Cirillo è l’ex presidente della Regione, è un uomo forte della cosiddetta corrente del Golfo, cioè quella corrente democristiana che fa capo ad Antonio Gava e che è il braccio napoletano dei dorotei. Cirillo, al momento del sequestro, è l’assessore all’urbanistica della Campania e si occupa dell’immenso affare della ricostruzione dopo il terremoto del 1980. I giornali raccontano che per liberarlo, il suo partito, che appena tre anni prima non ha voluto trattare con le Br per salvare Moro, ha trattato invece, eccome, non solo con le Br ma anche con la camorra di Raffaele Cutolo che avrebbe fatto da intermediaria. Non si saprà mai se è vero. Si sa che un riscatto di un miliardo e 400 milioni di lire (cifra molto alta per quell’epoca, quando un’automobile di media cilindrata costava circa quattro- cinque milioni) è stato pagato a Roma, il 21 luglio, all’interno di un tram (il numero 19) che va dalla stazione Termini a Centocelle. I soldi li porta in un borsone un amico di Cirillo e li consegna a Giovanni Senzani in persona, che acchiappa la borsa, scende al volo da un tram e vola via con una Fiat 128 che lo aspetta alla fermata. La Dc raccolse i soldi? Il segretario democristiano Flaminio Piccoli sapeva? E Antonio Gava? L’anno dopo l’Unità, cioè il giornale del Pci, pubblica uno scoop clamoroso: è stato il ministro Vincenzo Scotti in persona a trattare con la camorra, anzi è andato personalmente in carcere a discutere con Raffaele Cutolo. E’ una bomba atomica sulla politica italiana. Ma poche ore dopo l’uscita del giornale si scopre che il documento che accusa Scotti è falso. E’ una contraffazione realizzata da un certo Gino Rotondi (che non si saprà mai se lavorava per la camorra, o per i servizi segreti, o se era un mitomane) che la consegna a una giovanissima cronista del giornale dei comunisti. Lo scandalo a quel punto si rovescia e travolge tutti i dirigenti dell’Unità, a partire dal direttore, il giovane Claudio Petruccioli, che si dimette dopo poche ore, e persino qualche dirigente del Pci, e precisamente il vice di Berlinguer, Alessandro Natta, che si dimette anche lui dal suo incarico. Il capogruppo Giorgio Napolitano prende la parola alla Camera e chiede scusa a nome del partito e del giornale. Allora le cose andavano così, a voi verrà da sorridere ma è la verità: se un giornale pubblicava una notizia falsa (cosa che oggi avviene quasi tutti i giorni su moltissimi giornali) poi era un casino e addirittura il direttore ci rimetteva il posto. Non potevi neppure mettere in pagina delle intercettazioni un pop’ contraffatte, perché rischiavi grosso…Il caso Cirillo finì così. La Dc se la cavò. Nessuno mai seppe la verità. Recentemente Giovanni Senzani – che oggi è libero e un paio d’anni fa ha presentato un suo film, pare piuttosto bello, a Locarno – in una intervista al “Garantista” ha giurato che non ci fu nessuna trattativa né con la camorra né con la Dc. Che pagarono i parenti di Cirillo. Lui, Cirillo, una volta libero fu costretto a ritirarsi dalla politica. In un’intervista a Repubblica disse che la verità l’aveva detta a un notaio e che sarebbe diventata pubblica dopo la sua morte, Cioè ora. Poi però smentì, e disse che non c’era nessun segreto. Adesso aspettiamo un paio di giorni per vedere se esce fuori ‘ sto notaio. Altrimenti ci dovremo rassegnare all’idea che probabilmente furono davvero i parenti di Cirillo a tirare fuori il miliardo e rotti e che la Dc non c’entrava niente.

Rapimento Cirillo: le Br, Cutolo e la Dc. Così D'Avanzo raccontò la trattativa. E il suo clamoroso prezzo. L'articolo di Giuseppe D'Avanzo su Repubblica del primo febbraio 1985. "Può dirsi sufficientemente provato che nelle trattative per il rilascio di Ciro Cirillo sono intervenuti esponenti democristiani ed esponenti dei servizi segreti". Il giudice istruttore di Napoli, Carlo Alemi, non ha dubbi. Nella lunga ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio dei brigatisti della colonna napoletana delle Br il magistrato affronta al capitolo nono "le trattative per il sequestro Cirillo". Soltanto tredici pagine, ma un rosario di testimonianze sufficienti a fargli chiedere un'ulteriore "approfondita istruttoria" per conoscere "l'esatto ruolo svolto dalla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo per il rilascio di Cirillo; l'intervento di esponenti di partiti politici che hanno fatto da tramite ed eventualmente da garanti tra le Br e Cutolo nello sviluppo della trattativa; il ruolo svolto durante i giorni del sequestro dai servizi segreti e se questo sia stato contenuto nell'ambito dei compiti istituzionali". Le tredici pagine, tuttavia, con le testimonianze dei brigatisti pentiti già disegnano lo scenario della trattativa, i suoi protagonisti, il prezzo che gli intermediari si dicevano pronti a pagare per la liberazione dell'assessore regionale Dc. E se il prezzo è clamoroso - forse fu offerta anche l'indicazione del luogo dove era custodito Patrizio Peci -, altrettanto clamoroso è l'unico nome di protagonista che salta fuori, Gava: nome sussurrato da tempo ma mai entrato finora in un'inchiesta giudiziaria. A vuotare il sacco sono stati Pasquale Aprea e Maria Rosaria Perna, i carcerieri di Cirillo nei due mesi della sua prigionia. "Nella prima decade di maggio - hanno raccontato - durante la fase in cui il sequestro andava politicamente malissimo, le Br con lo spostamento dei compagni detenuti ad Ascoli seppero che la camorra dietro pressioni di esponenti politici napoletani offriva per la liberazione di Cirillo 5 miliardi, armi a volontà, un elenco di magistrati napoletani con relativi indirizzi. Anzi si offriva di effettuare agguati ai danni di magistrati indicati dalle Brigate rosse". Antonio Chiocchi, uno dei fondatori della colonna napoletana, riferì in più occasioni ai due che "Gava era andato da Cutolo per trattare la liberazione di Cirillo presso le Brigate rosse". Silvio o Antonio Gava? Il magistrato non lo scrive. Inizialmente la trattativa si arena di fronte al rifiuto dei terroristi. Maurizio Stoccoro, un altro pentito, ha confermato di aver saputo da Giovanni Planzio, capo storico della colonna, "che Cutolo era intervenuto per sollecitare il rilascio di Cirillo in quanto alla camorra serviva che venissero allentati i posti di blocco della Polizia che ne impedivano tutti i traffici illeciti". "Cutolo ci offrì - ha raccontato Stoccoro - denaro, due o più miliardi, molte armi. Quante ne avessimo volute". Un'offerta che non interessò le Brigate rosse. L'attacco delle Br, infatti, - ha spiegato Stoccoro ai magistrati - era rivolto alla Dc proprio per dimostrare che mentre la Democrazia cristiana per Moro non aveva voluto trattare, aveva invece trattato per Cirillo". A maggio la trattativa ha una svolta. Comincia l'andirivieni di camorristi e brigatisti nel carcere di Ascoli Piceno e di Palmi. Giovanni Planzio ha detto ai giornalisti che "per Cirillo cominciarono a muoversi i servizi segreti". Con l'arrivo ad Ascoli Piceno degli uomini del colonnello Musumeci aumenta anche il prezzo offerto alle Brigate rosse. Intermediari Luigi Bosso, un delinquente comune politicizzatosi in carcere, e Sante Notarnicola. "Alle Brigate rosse - annota il giudice istruttore - viene offerto un grosso quantitativo di mitra, un elenco di carabinieri e di magistrati dell'antiguerriglia, l'indicazione del luogo in cui era custodito Patrizio Peci". Il superpentito delle Br era in quelle settimane - siamo nella primavera dell'81 - nelle mani delle squadre speciali del generale Dalla Chiesa. Chi dichiarò la disponibilità di far conoscere alle Brigate rosse il preziosissimo indirizzo? Gli omissis dell'ordinanza lasciano la domanda senza risposta. Ad avviare finalmente la trattativa fu Giovanni Senzani, il leader della colonna Napoli. Ha raccontato Maria Rosaria Aprea: "Una sera Senzani, entrando a casa, disse: "Qui ci facciamo pure i soldi". Antonio Chiocchi e Pasquale Aprea si ribellarono con asprezza al loro capo. Ma Senzani ribadì "la correttezza politica di tale richiesta". "Gli obiettivi politici - spiegò - sono stati raggiunti. La corresponsione di sussidi ai disoccupati, la smobilitazione della roulottopoli dei terremotati, la pubblicazione dei verbali di interrogatorio di Cirillo. E' giusto - conclude il criminologo - espropriare Cirillo, la sua famiglia, la Democrazia cristiana"". L'intera ricostruzione della trattativa è stata confermata da altri pentiti. Michele Galati, membro del direttivo della "colonna veneta" delle Br, nel carcere di Cuneo incontrò i brigatisti Moretti, Guagliardo, Franceschini. Il giudizio politico che espressero sulla trattativa fu lapidario. "Le Br - sostennero Moretti e Franceschini - non avevano alcun interesse ad un pagamento da parte di alcuni palazzinari napoletani ma puntarono immediatamente ad una trattativa che vedesse direttamente coinvolta la Dc". Enrico Fenzi, brigatista e cognato di Senzani, molto vicino al leader Mario Moretti, ha riferito, dal suo canto, ai giudici: "Moretti ripetè più di una volta che era venuto fuori e bisognava pur dirlo che se Cirillo non era stato ammazzato ciò era dovuto all'intervento di Cutolo". Testimonianze confermate dal maresciallo Angelo Incandela, comandante degli agenti di custodia del carcere di Cuneo: "Sì, il pentito Sanna ci tracciò tutto il quadro delle trattative intercorse tra servizi segreti, camorra e Brigate rosse al fine di ottenere la liberazione di Cirillo". E Luigi Bosso ha confermato, prima della sua morte improvvisa, che fu "Cutolo ad attribuirgli l'incarico di entrare in contatto con i brigatisti di Palmi, latore di questo messaggio: la Dc è disposta a trattare a tutti i livelli attraverso il canale di Cutolo".

“ARMI E BAGAGLI” DI ENRICO FENZI. Il racconto dall’interno del terrorismo italiano, scrive Francesco Vannutelli il 15 febbraio 2016. Nel 1987 uscì per l’editore genovese Costa & Nolan Armi e bagagli, un libro fondamentale per capire quello che erano state le Brigate rosse negli anni immediatamente precedenti, tra i più complicati nella breve storia della Repubblica italiana. A scriverlo era stato Enrico Fenzi, un’esponente della colonna genovese che aveva deciso di raccogliere in forma narrativa i ricordi degli anni della lotta armata, tratteggiando quello che è uno dei più interessanti quadri d’insieme dall’interno degli anni di piombo in Italia. Oggi questa opera importantissima torna in libreria grazie a Egg edizioni. Enrico Fenzi, sulla sua pagina Wikipedia è definito in apertura come «ex terrorista e storico della letteratura italiana». Come studioso, è ritenuto tra i massimi di Dante e Petrarca (nel 2008 ha pubblicato la monografia Petrarca per Il Mulino). Come terrorista, è stato un esponente della colonna genovese delle Brigate rosse, il nucleo terroristico fondato direttamente da Mario Moretti e Rocco Micaletto che nel giugno del 1976 fu co-responsabile, insieme al comitato esecutivo centrale, del primo omicidio di natura puramente politica delle BR: l’assassinio del giudice Francesco Coco e di due uomini della sua scorta. Tra il 1975 e il 1981, il nucleo ligure fu responsabile di una serie di attività tra le quali sei omicidi e quindici ferimenti. La colonna genovese fu, tra le sei divisioni delle Brigate rosse (le altre avevano sede a Milano, Torino, nel Veneto, a Roma e a Napoli), una delle più organizzate sul piano dell’azione militare e delle più coese dal punto di vista ideologico, con l’attenzione della lotta rivolta quasi esclusivamente alla questione operaia. «Che avveniva nelle fabbriche? Quello era il grande continente sconosciuto, e la meta di tutti i nostri andirivieni», è l’interrogativo che pone Fenzi, che mostra la tendenza costante della colonna alla ricerca di un programma che «permettesse di entrarci, in quel continente desiderato e irraggiungibile». Solo che nelle fabbriche non c’era più un terreno in cui far fiorire un discorso. «I giovani operai arrabbiati di qualche anno prima erano spariti», e le misure estreme che i brigatisti provarono ad adottare, incluso l’omicidio dell’operaio e sindacalista Guido Rossa, si rivelarono essere, il più delle volte, delle armi a doppio taglio. Il sistema non veniva ferito, il movimento perdeva di consenso tra gli operai, e non bastavano i goffi tentativi di spiegazione (nel volantino di rivendicazione dell’omicidio di Rossa si legge chiaro «È stato un errore») per riavvicinare la colonna alla classe operaia genovese.

Enrico Fenzi entrò nelle Brigate rosse a quarant’anni, con una carriera solida di docente universitario già avviata. Da molti è stato considerato uno degli ideologi del movimento. All’interno della colonna conservò in verità una posizione marginale, mantenendo soprattutto contatti personali con alcuni degli esponenti di spicco. Il ruolo di ideologo che la cronaca gli ha attribuito in base alla sua posizione di intellettuale lo ha sempre rifiutato. Per sé, ha sempre rivendicato il ruolo di militante semplice, di «manovale», come si è voluto definire parlando con Sergio Zavoli nel programma La notte della Repubblica. Non ha mai partecipato alla stesura di documenti brigatisti, anzi ha ammesso di averli letti raramente. Ha preso parte a una sola azione violenta, facendo da copertura a Luca Nicolotti, Francesco Lo Bianco e Alberto Franceschini durante il ferimento di Carlo Castellano, dirigente del gruppo Ansaldo ed esponente del Partito Comunista Italiano. Per il resto, ha distribuito volantini. Dagli anni Ottanta scelse la strada della clandestinità dopo essere stato inquisito e assolto dall’accusa di banda armata (Carlo Alberto Dalla Chiesa parlò di «ingiustizia che assolve», commentando la sentenza). La sua adesione nacque dalla visione del mondo capitalistico come un «dinosauro morente» contro il quale sentiva la «necessità minuziosa e concreta della lotta armata». La vera radice della sua visione politica l’ha trovata dopo gli anni della militanza nel Sartre della Critica della ragione dialettica, quello che vede «l’uomo come avvenire dell’uomo» e rivendica il ruolo del gruppo rivoluzionario in azione come unico in grado di riappropriarsi della totalità. È in questa prospettiva che inquadra l’azione terroristica come un modello in grado di ricomporre «i frammenti del presente, per riappropriarsene alla luce di una totalità integralmente attualizzata». Il brigatista come lo Spirito Assoluto di Hegel, come tentativo di realizzare «il progetto e la verità della Storia». Per Fenzi, le Brigate rosse sono state il momento terminale del comunismo italiano come movimento che ha attraversato nella realtà locale le fasi storiche dell’intera vicenda politica globale. «La sconfitta delle Brigate rosse ha avuto, qui da noi, lo stesso valore e lo stesso senso che avrà vent’anni dopo, emblematicamente, il crollo del muro di Berlino. Non solo: per le sue caratteristiche l’esperienza italiana è stata per molti aspetti un’esperienza centrale, perché in essa gli elementi della tradizione comunista sono arrivati al loro capolinea». Armi e bagagli non pretende di essere una giustificazione ideologica degli anni della militanza: «non c’è rimedio a ciò che è stato fatto […], il male compiuto ridicolizza le pretese delle parole». Per questo, Fenzi rivendica a più riprese per la sua opera la natura «dichiaratamente narrativa». «È un libro, non un atto di autocoscienza». Comunque l’autore la voglia vedere, la profondità di un’analisi così acuta e dettagliata, che intreccia la storia con la riflessione politica in una forma che sa accompagnarsi anche con la narrazione più letteraria, è la linfa di un documento fondamentale per comprendere il passato e vedere anche al presente. Alla casa editrice Egg va il merito di aver riproposto Armi e bagagli in questa nuova versione.

La dannazione perpetua del prof. Fenzi. Dalle Br si è dissociato 31 anni fa. Eppure, invitato oggi a partecipare a una Lectura Dantis, è stato attaccato per il suo passato, scrive il 16 aprile 2013 "Il Corriere della Sera”. Cosa facciamo de La resurrezione di Lazzaro o del Davide con la testa di Golia dipinti da Caravaggio “dopo” avere ammazzato Ranuccio Tomassoni in una rissa seguita a un fallo durante una partita di pallacorda? Li bruciamo? E dei saggi scritti da Enrico Fenzi “dopo” essere entrato nelle Br, dalle quali si è dissociato 31 anni fa, che facciamo: li mandiamo al rogo? Anche se hanno titoli tipo Petrarca e l’eternità del mondo: appunti per un commento al De ignorantia, Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla “montanina” di Dante (Rime, 15) o L’ermeneutica petrarchesca tra libertà e verità? Per carità, nessun paragone tra il grande pittore milanese e il docente universitario genovese. Ma le responsabilità penali e le opere pittoriche o letterarie sono cose diverse. E se è insopportabile ascoltare ogni tanto degli ex terroristi di destra e di sinistra discettare di politica magari dando pure qualche lezioncina, e se è assolutamente comprensibile che i familiari delle vittime si levino a urlare “ma stattene zitto, almeno: taci!”, è impossibile essere d’accordo con la condanna eterna, nei secoli dei secoli, di chi ha sbagliato, si è riconosciuto colpevole e ha pagato senza pietire sconti. Per carità, massima solidarietà umana con le sofferenze di chi ha subito un lutto irrimediabile per mano di commandos delle Brigate Rosse, di Prima Linea, dei Nar… Ma sconcerta leggere quanto ha detto Valerio Vagnoli, preside di un istituto alberghiero, scagliandosi contro l’invito a Enrico Fenzi a una “Lectura Dantis” organizzata dalla Società Dantesca Italiana, con Vittorio Sermonti: «Provo fastidio a vedere delle personalità che hanno partecipato a dare all’Italia lo spettacolo degli anni di inferno del terrorismo, elevarsi al ruolo di educatori, occupare cattedre e aule universitarie, o leggere uno dei poeti che sulla libertà non ha detto delle banalità». Era il 1982 quando Enrico Fenzi si dissociò dalla lotta armata. L’anno in cui veniva ucciso Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Spadolini festeggiava a Palazzo Chigi la vittoria della Nazionale ai Mondiali di calcio e in Libano veniva compiuto il massacro di Sabra e Shatila. E mancavano vent’anni all’assassinio Br di Marco Biagi. Era tantissimo tempo fa. Come ha scritto giustamente Giulia Fenzi, la figlia minore, il dantista «è stato tanti anni in carcere e in un Paese in cui pochissimi pagano per quello che hanno fatto, ha pagato il suo debito non solo con la detenzione ma anche, com’è ovvio, con difficoltà di ogni genere, e noi con lui. Bene, è giusto. Chi sbaglia paga, ma poi c’è, o ci dovrebbe essere, il fine pena». Lo ha scritto sul Corriere anche Katia Malavenda, che come avvocato specializzata nel diritto d’informazione conosce bene il tema del diritto all’oblio e ha spiegato come quello di “rifarsi una vita, senza che il passato, oramai definitivamente archiviato, continui a condizionare il presente” è un diritto che “va riconosciuto a tutti, ma proprio a tutti, in particolare a chi, dopo il clamore, ha scelto di non esporsi, ma non per questo ha rinunciato a vivere. E allora, come la mettiamo con la damnatio perpetua che sembra inseguire alcune categorie di soggetti, fra cui Enrico Fenzi, la cui vicenda è solo uno spunto di riflessione?”. Nessuno oserebbe contestare il diritto che un galeotto tornato in libertà dopo avere scontato la sua pena possa tornare a fare il falegname, l’idraulico, il fabbro, il sarto o il giardiniere. Nessuno. Perché dunque uno studioso di Dante e Petrarca con 61 saggi classificati nell’indice di ricerca delle biblioteche italiane (neppure uno di politica) dovrebbe smettere di occuparsi di Dante e Petrarca o essere addirittura rimproverato di volere “leggere uno dei poeti che sulla libertà non ha detto delle banalità”? Non è mica Cesare Battisti, il professor Fenzi. Non è un assassino che non ha mai pagato e rifiuta di chiedere perdono e accusa la giustizia italiana e invoca malintese solidarietà militanti. È uno studioso che ha passato la vita intera, compreso il periodo in clandestinità (“Avevo preso l’impegno con l’Utet per fare l’introduzione a un’opera di Dante. Una cosa importante. Passato alla latitanza mi chiesi: cosa faccio, tiro il bidone? Finii il lavoro da clandestino e lo spedii”) a leggere e studiare. E si beccò 18 anni di carcere pur avendo partecipato direttamente a un solo atto di sangue, il ferimento alle gambe del dirigente dell’Ansaldo Carlo Castellano: «Credo che avessero deciso di coinvolgermi per una forma di battesimo. Come a dire “ora sei dei nostri”. Se ci ripenso adesso non mi ci vedo: cosa ci facevo lì?». Commise un gesto terribile? Certo. Se n’è pentito? Sì, da oltre tre decenni. Ha pagato? Sì. È stato un “cattivo maestro”? Difficile da sostenere: «No, quello non lo sono mai stato. Non lo dico né come un merito né come un demerito. Io sono del tutto alieno da ogni attività di indottrinamento. Non ho mai convinto nessuno a entrare nelle Br. Caso mai ho detto a tanta gente: lascia perdere. E poi l’indottrinamento si fa scrivendo di politica…». Lui ha sempre scritto di Petrarca. Guai a dimenticare. Ma è giusto tenere le persone inchiodate per tutta la vita agli errori, confessati, del passato?

Fenzi: "Sulle Br la luce deve venire dall'alto". Per la prima volta del suo arresto nel blitz del '79 contro la colonna genovese, il professore parla in pubblico a Palazzo Ducale. E rimette in campo le responsabilità mai chiarite, scrive Donatella Alfonso il 10 dicembre 2013 su "La Repubblica". Enrico Fenzi PER dire che no, non sono le carte giudiziarie a raccontare la vera storia delle Br Enrico Fenzi, chiama in causa Alessandro Manzoni e la sua Pentecoste, ritrovando -  per la prima volta in pubblico -  il suo essere, prima di tutto, un italianista di valore, com'era fino a quel 17 maggio del '79 in cui fu arrestato nel blitz contro la colonna genovese delle Br. Perché la luce deve venire dall'alto, spiega Fenzi, dissociato e poi condannato a 18 anni di carcere totalmente scontati, intervenendo al Minor Consiglio del Ducale in chiusura della presentazione, con Gad Lerner, del libro di Andrea Casazza "Gli imprendibili", dedicato appunto alla colonna genovese. Una luce interiore che deve venire dall'alto, insomma: come quella della Pentecoste. E quindi, rilancia Fenzi, dai segreti di quello stato che si voleva colpire al cuore, e dai rapporti internazionali: perché "le cose vere sono tutte da dire" a partire "da quella famosa barca carica di armi: erano quattro tonnellate, ce le aveva date l'Olp", e ci furono pressioni dei servizi perché "io incastrassi l'onorevole Mancini". Da dove farla arrivare, questa luce? E poi, da fronte diverso, ma ancora a insistere verso uno stato responsabile della solitudine dei magistrati e di tante pagine oscure è il figlio di De Vita, presidente della Corte d'Appello che decise la scarcerazione della XXII Ottobre per liberare Sossi, poi fermata da Coco. Quella luce, manzoniana o meno che sia, si accenderà mai?

Terrorismo a Genova. Enrico Fenzi e il rapimento Sossi: sangue e memoria, scrive Franco Manzitti il 10 dicembre 2013 su "Blitz Quotidiano". Enrico Fenzi, prima d’ora non aveva mai parlato in pubblico a Genova della sua storia brigatista, della sua militanza nel partito armato negli “anni di piombo”, dei suoi processi, della sua condanna, della sua dissociazione, di quel che erano gli uomini della “stella a cinque punte”, che avevamo tenuto in scacco lo Stato, rapito e ucciso Aldo Moro, il presidente della Dc. Enrico Fenzi era stato inghiottito prima dal carcere duro, dai processi a suo carico, dalla condanna definitiva a 18 anni, poi dal suo pentimento che non c’era mai stato, poi dal silenzio e dalla mimetizzazione nei caruggi di Genova, da dove era partita la sua “banda armata” e dove era tornato “dopo”, come antiquario, poi come ristoratore, sempre come professore, ex docente alla Facoltà di Lettere, esperto di Dante e Francesco Petrarca, ex maestro, anzi bollato per sempre come “cattivo maestro” di una generazione sessantottina e poi “rivoluzionaria”. E di colpo, in fondo a uno dei saloni storici del Palazzo Ducale genovese, in fondo al pubblico, alla fine della presentazione di un libro sulla colonna genovese delle Br, è spuntato in piedi Enrico Fenzi, il “professore”, oggi quasi settantacinquenne e ha chiesto di parlare, il maglione scuro, il volto pallido, la voce un po’ emozionata per commentare quella storia appena raccontata sulle Br di cui aveva fatto parte. “E’ la prima volta che parlo in pubblico di questo” – ha annunciato davanti a duecento persone, all’autore del libro, Andrea Casazza, giornalista del “Secolo XIX” e agli altri relatori di quella presentazione, Gad Lerner, Giuliano Galletta, critico letterario, anche lui giornalista de “Il Secolo XIX “ e Cesare Manzitti, avvocato, difensore di imputati coinvolti in quei lontani processi anni Settanta-Ottanta, quando Genova era in cima alle cronache del terrorismo. Il libro è intitolato “Gli imprendibili” e lo ha stampato la casa editrice “Derive e Approdi”, un tomo di 500 pagine, che per la prima volta cerca di ricostruire la storia di quella colonna Br che rapì Mario Sossi e uccise il procuratore della Repubblica Francesco Coco e la sua scorta e giustiziò altri servitori dello Stato di polizia e carabinieri e l’operaio e sindacalista dell’Italsider Guido Rossa, che aveva denunciato un “postino” dei terroristi, sequestrò e gambizzò e tenne in scacco Genova per quasi un decennio nel segreto più impenetrabile, svelato solo quando i primi pentiti squarciarono il velo del terrore. Enrico Fenzi era uno di questi “imprendibili”, anche se a Genova era stato già arcinoto, un “maestro” della “rivoluzionaria” Facoltà di Lettere, uno di quelli che esaminava gli studenti a gruppi e fiancheggiava politicamente le ali più estreme dei partiti, allora chiamati extraparlamentari. E anche se era incappato in un blitz rimasto famoso, perché catturò nel 1979 una quindicina di presunti brigatisti rossi, caduti nelle maglie dei carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, poi tutti assolti in primo grado nel famoso processo che lo stesso generale avrebbe bollato come l’ “ingiustizia che assolve”, aveva fatto carriera nel partito armato, fino alla sua cattura a Milano, insieme con uno dei killer di Aldo Moro, il terribile Mario Moretti. Si alza e parla quasi quaranta anni dopo tutto questo, dopo il sangue, la morte, il terrore, gli equivoci di Genova, della sinistra, degli album di famiglia del Pci, le catture e i processi, Enrico Fenzi “perchè deve levarsi qualche sassolino dalle scarpe” e vuole dire la sua verità, davanti a quel pubblico “informato sui fatti”, ma lontano anni luce da quel tempo, perchè oggi siamo in un altro tempo, truce come quello, ma macchiato di altri colori. “Non è vero che mi è stato perdonato tutto “- incomincia Fenzi con il suo tono da ex professore che alza la voce per la prima volta – sono stato condannato a 18 anni e ne ho scontati diciassette, di cui sette più tre in galera e gli altri con altre misure. Ho pagato abbondantemente, ma non sono mai stato reintegrato nel mio lavoro e non mi sono mai stati restituiti i diritti civili”. Fenzi ha un tono duro, ma quasi non rivendicativo, come di chi vuole uscire da una cappa di buio che lo ha coperto per questi quaranta anni in cui il mondo è cambiato, ma lui è rimasto sotto la cappa di una specie di condanna permanente, dopo essere uscito dalle Br, come se ne può uscire senza essersi pentito, ma da dissociato critico, capovolto rispetto a come era entrato nella clandestinità, nella lotta armata, a fianco dei killer, di quelli che sparavano, uccidevano e gambizzavano per fare la rivoluzione. Troppo tempo è passato e Fenzi in quel salone dove il ricordo difficile da ricostruire della colonna genovese delle Br, quella sgominata nel 1980, in quell’appartamento di via Fracchia, sulle alture di Oregina, dove sempre gli uomini del generale dalla Chiesa, con le chiavi della casa consegnate dal pentito numero uno, Patrizio Peci, entrarono sparando con i fucili a pompa attraverso i muri e “seccando” Riccardo Dura, il capo colonna di 29 anni e Anna Maria Ludmann, l’ineccepibile professorina di 32, e Lorenzo Betassa di 25 anni e Roberto Panciroli di 28, “gli imprendibili”, di cui mai si era conosciuto il nome e il volto, malgrado sparassero e uccidessero da anni, appunto Enrico Fenzi in quel salone sembra una icona del passato, crocefisso alla sua colpa, ma anche a una memoria che non si può cancellare, seppure collocata in un altro mondo. Passato e sepolto. Ci ha provato l’autore del libro a spiegare il suo grande sforzo di ricostruire quegli anni e quei protagonisti, quella storia attraverso gli atti processuali e le testimonianze e gli intrighi delle inchieste spericolate e delle sentenze conclusive. E gli hanno detto che il suo non è un libro di storia, ma il documento preciso, perfino minuzioso, di una vicenda raccontata da un cronista che tenta una cronaca trenta anni dopo i fatti. Fenzi non ci sta del tutto a quella ricostruzione, a quei commenti, che approva, ma che vuole in parte rettificare, perchè la storia va messa a posto e lui sta zitto da quasi tutta la vita. Era un quarantenne allora, nel 1979, quando i carabinieri gli puntarono i fari addosso e uno dei primi rapporti di polizia lo descrive così come Andrea Casazza riporta nel suo libro: “Fenzi Enrico, 40 anni, è alto un metro e settanta, è di media corporatura, è praticamente calvo nella parte anteriore del cranio, ha i capelli grigi, lunghi, un po’ arricciati, sul collo e arruffati sopra le orecchie e non ha inflessioni dialettali, parla in perfetto italiano con scioltezza e proprietà, veste in maniera sportiva (jeans e pantaloni di velluto, mocassini tubolari, magliette tipo Lacoste) è professore di italiano all’Università di Genova, è nativo di Bardolino( Verona), è separato dalla moglie Chelli Maria Grazia, è stato più volte perquisito.” Non ci sta del tutto Fenzi, perchè la storia delle Br di cui tutti hanno scritto e tutti hanno parlato e straraccontato “non si può fare solo attraverso la cronaca giudiziaria, la storia di quello che sono state le Br nessuno l’ha mai scritta.”

Ecco nella sala un po’ attonita del palazzo Ducale, nel giorno in cui i “forconi” bloccano la città, con una rivoluzione così diversa da quella di quaranta anni prima imposta dalle Br, un nucleo armato fatto di poche decine di persone (così si racconta negli “Imprendibili), ecco che il prof torna in cattedra, con tono sommesso, sofferente: “Un sassolino dalle scarpe proprio vorrei levarmelo, perché sono diventato io, Fenzi, l’ombrello sotto il quale si sono protetti tutti, tra catture e processi. Va bene, mi sono dissociato, ma non ho aggiunto nulla a quello che gli altri raccontavano sulle Br, cento, duecento volte. Ero il più vecchio, ero un professore e mi hanno usato così…. ma la storia non è solo quella che è stata ricostruita a questo modo….”

E allora quale sarà questa storia da risistemare? Fenzi elenca anche un po’ polemico e quasi sfuggente quello che la cronaca giudiziaria non può sistemare, non può storicizzare: “ Mi hanno minacciato in cella che non avrei visto il giorno dopo se non ignoravo quel particolare a cui loro tenevano……hanno nascosto una pistola in casa mia per accusarmi nel processo del blitz…….ci sono verità che sono rimaste sepolte, mentre veniva distrutta la colonna veneta delle Br e si liberava il generale americano Doziere i brigatisti catturati venivano torturati con un sistema anche legalizzato e tutti si pentivano e parlavano e la colonna genovese veniva scoperchiata dalle rivelazioni di Bozzo e Cristiani…..che avevo di più da dire io, da aggiungere…..”

Sono veramente pezzi di storia questi sassolini che Fenzi si leva dalle sue scarpe di oggi, di uno che oramai da decenni è “fuori” e ha tentato invano una risalita? “Avete raccontato di quello yactht che era partito da Tripoli del Libano e aveva portato sull’Adriatico quattro tonnellate di armi non solo per la colonna genovese, ma per tutte le colonne italiane: quella barca era dello Olp di Arafat.”

Fenzi mescola la storia con la “sua” storia. “Ho testimoniato, ho aiutato Giuliano Naria [il brigatista accusato erroneamente di avere ucciso Francesco Coco, il Pg di Genova l’8 giugno del 1976], ho aiutato Sergio Adamoli,[il figlio del famoso sindaco comunista della Genova anni Cinquanta]. Che avevo da aggiungere? Per come mi sono comportato ho dovuto scontare più anni di carcere di quelli che mi spettavano.”

La penultima parola del prof delle Br è per Francesco Berardi, il “postino” che faceva propaganda dentro all’Italsider, distribuendo volantini Br e che, una volta “beccato”, aveva fatto il suo nome agli inquirenti e che finì suicida, impiccato in cella nel supercarcere di Cuneo. Fenzi ci tiene forse a dimostrare in pubblico che non ha mai avuto nulla contro quella figura piccola e tragica del postino, anche se fu Berardi a tirargli dietro i segugi di Dalla Chiesa, dopo l’omicidio di Guido Rossa, giustiziato per avere deposto in udienza contro lo sciagurato postino. “Lui si è veramente giocato la vita e non possso dimenticarlo.”.

L’ultima parola di Fenzi è, invece, una citazione letteraria e come non poteva essre diversamente per un professore dalla carriera troncata che ogni volta che tenta di riemergere, magari in un convegno sul Petrarca, di cui continua ad essere uno studioso fine e raffinato, viene subito censurato da chi non dimentica? La citazione è per “Pentescoste”, la poesia di Alessandro Manzoni, che invoca la luce che cada sui “vari color”.

Per quest’uomo, oramai anziano, spezzato ma resistente al tempo, al logorio dei processi, delle accuse, al peso di una storia cancellata dalla memoria, ma ancora in grado di fare male, ogni volta che riemerge con la sua caterva di lutti e di sofferenze, quella sulla luce è una invocazione che il pubblico, arrivato a seguire la presentazione del libro, accoglie con una specie di timido applauso. In quella sala ci sono molti reduci di un tempo macerato dai ricordi, con i famigliari delle vittime, silenziosi, con i compagni di strada nelle frange di Autonomia Operaia, di Lotta Continua, dei gruppi border line, tra l’estremismo verbale dei partiti extra e il partito veramente armato, con i cronisti dell’epoca, con un pubblico genovese, quasi sperduto in quella memoria. E così, dopo lo sfogo del professore, chi arriva a spingere le spine nelle ferite di questa lunga memoria mezza perduta, mezza irrisolta?

Arriva il figlio di un alto magistrato dell’epoca, Beniamino De Vita, che fu indirettamente vittima di quel terrorismo, quando, da presidente della Corte d’Assise d’Appello, durante il sequestro del magistrato Mario Sossi, emise un provvedimento che consentiva di liberare i cosidetti “nonni delle stesse Br,” gli esponenti della banda XII Ottobre, condizione richiesta per non giustiziare lo stesso Sossi. “Sono il figlio di un magistrato che è stato lasciato solo dallo Stato davanti al ricatto dei terroristi” – racconta, questo figlio, che esce da un’ombra molto più assoluta di quella da cui è risbucato Fenzi. Anche questa è una testimonianza che arriva non solo fuori tempo massimo, ma come da un altro mondo, oggi quasi extraterrestre, perchè rievoca uno scontro, quello tra il terrorismo e i giudici che è seminato di croci in un cimitero dimenticato. Altro che i match berlusconiani con i giudici! Fuori dal Palazzo Ducale, dove queste memorie muovono antichi brividi, ci sono i rimbombi della nuova rivoluzione, quella dei Forconi. Che hanno bloccato la città, paralizzato il suo traffico, fatto tremare i palazzi con le bombe carte.

"A Genova in via Fracchia fu un'esecuzione", rivelazioni sulla strage Br legata al Caso Moro. «A Riccardo Dura spararono un unico colpo alla nuca. Non andò come dissero i carabinieri». Così rivela all'Espresso Luigi Grasso, autore della denuncia che ha riaperto l'inchiesta sull'irruzione del 1980 nel covo genovese delle Br. Un blitz che interessa anche alla Commissione Moro: nell'appartamento sarebbero stati nascosti documenti del presidente Dc. Ma nei rapporti successivi all'operazione non ve ne è traccia, scrive Federico Marconi il 29 agosto 2017 su "L'Espresso". Un esposto presentato alla Procura della Repubblica di Genova riapre le indagini sull'irruzione dei carabinieri nel covo delle Brigate rosse di via Fracchia, trentasette anni dopo il blitz in cui persero la vita quattro esponenti della colonna genovese delle Brigate rosse. Sul covo genovese delle Br si stanno concentrando anche le indagini della Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e l'uccisione di Aldo Moro: nell'archivio brigatista sarebbero stati tenuti documenti relativi alla prigionia dello statista ucciso il 9 maggio 1978.

IL BLITZ. Il 28 marzo 1980, poco dopo le quattro del mattino, i carabinieri del nucleo speciale antiterrorismo del generale Dalla Chiesa entrarono nell’appartamento al primo piano di un palazzo nel quartiere Oregina di Genova. «I carabinieri, fatti segno a colpi di arma da fuoco, hanno reagito prontamente, sostenendo un violento conflitto nel corso del quale i quattro occupanti dell’appartamento, tre uomini e una donna, sono rimasti uccisi, mentre un sottufficiale dell’Arma è rimasto ferito» riporta il comunicato del comando generale che venne diffuso al termine dell’operazione. I quattro brigatisti uccisi erano Annamaria Ludmann, proprietaria dell’appartamento, Lorenza Betassa, Pietro Panciarelli e Riccardo Dura, l’assassino del sindacalista Guido Rossa. Come scritto nel comunicato dell'Arma, i brigatisti avrebbero aperto il fuoco dopo l'irruzione, ferendo il maresciallo Benà ad un occhio. Solo allora i carabinieri avrebbero sparato, uccidendo i quattro. Ma per Luigi Giuseppe Grasso quella notte le cose non andarono così. Per questo lo scorso 11 agosto ha presentato un esposto in procura, con cui denuncia «l’omicidio volontario, non so se anche premeditato, di Riccardo Dura». L’Espresso ha contattato Grasso, classe 1947, sfortunato protagonista di un errore giudiziario negli anni ‘80. Venne arrestato dal nucleo antiterrorismo il 17 maggio 1979 con l’accusa di essere una delle menti delle Br genovesi: nel 1984 fu condannato a tre anni di carcere per “partecipazione a banda armata” . Dopo un lungo iter giudiziario, Grasso è stato risarcito dallo Stato italiano per la sua ingiusta reclusione. E fu proprio nel corso di questa vicenda che, nel gennaio 2000, riuscì a mettere le mani sul fascicolo riservato di via Fracchia. «L’azione di via Fracchia era una perquisizione disposta dal magistrato Di Noto al fine di “acquisire nuovi o ulteriori elementi” a carico mio e degli altri presunti brigatisti arrestati nel maggio del ‘79» afferma Grasso all’Espresso «si doveva perquisire un appartamento sospetto, dato il processo che si sarebbe aperto una quindicina di giorni dopo». E proprio per ciò che è scritto nel mandato di perquisizione che Grasso riesce a ottenere il fascicolo su via Fracchia: «Ancora ricordo il commento del responsabile dell’archivio del Tribunale.  “C’è stata un’esecuzione”, mi disse non appena leggemmo i documenti».

L'ESPOSTO. L’esecuzione fu quella di Riccardo Dura. «Come riporta l’autopsia, è stato ucciso da un unico colpo di rivoltella alla nuca, a una distanza tra trenta centimetri e un metro, dall’alto verso il basso. Non aveva nessun graffio, contusione, né proiettile di fucile nel corpo» prosegue Grasso. Sul corpo del brigatista non ci sono colpi di mitragliamento «come invece ci sono sugli altri tre, la cui agonia deve essere stata straziante. Non escludo che, per quanto terribile sia solo immaginarlo, gli spari che li hanno raggiunti in testa siano stati dei “colpi di grazia”». Nelle quattro pagine dell’esposto, che l'Espresso ha potuto leggere, vengono indicati altri elementi che contrastano con la versione ufficiale del blitz del 28 marzo. Come il ferimento del Maresciallo Benà. «Il foglio di ricovero del carabiniere indica le sei del mattino, un’ora e mezza dopo l’inizio del blitz. Alle cinque e mezza viene avvertito il chirurgo oculistico dell’Ospedale San Martino, dove viene portato da un’auto dei carabinieri» si legge nella denuncia «Il ferimento del carabiniere avvenne evidentemente più tardi e in altro modo. Lo sparo, secondo i rapporti, sarebbe partito dalla pistola del brigatista Lorenzo Betassa, frontalmente. Ma il foro d’entrata non corrisponde: il proiettile entra da dietro. È stato fuoco amico, forse nel trambusto seguito al terribile evento». «I carabinieri hanno detto di aver sfondato la porta dell’appartamento. Alcuni giornalisti hanno scritto invece che i carabinieri avevano avuto le chiavi da Patrizio Peci e Rocco Micaletto (due capi delle Br che hanno collaborato con la giustizia, ndr). Per me le cose non sono andate in nessuno dei due modi» afferma Grasso all’Espresso «non è credibile che i brigatisti dormissero senza una sentinella in un appartamento “caldo”, né che non avessero la porta serrata. Magari quella notte la porta è stata aperta a qualcuno di conosciuto, di cui ci si poteva fidare». A sostegno di questa ipotesi, nell’esposto sono riportati alcuni eventi: «Le sorelle di A. R., un mio conoscente, che vivevano nel quartiere Oregina, avrebbero udito delle grida “Traditore, traditore” di una voce di donna». E ancora: «Il 1 gennaio del 2000 andai al bar Guarino di Castelletto con delle persone. Mentre conversavano, indicarono una persona, e dissero “lui è l’unico che si è salvato in via Fracchia”. A tal proposito, la moglie di Guido Rossa ha raccontato di un uomo portato via dall’appartamento, coperto da un giaccone».

LE INDAGINI DELLA COMMISSIONE MORO. Sull’operazione di via Fracchia sta indagando anche la Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Le morti dei quattro Br, infatti, potrebbero essere collegate al rapimento e all'uccisione dello statista. Nell’archivio che i brigatisti tenevano nell’appartamento sarebbero stati trovati manoscritti e registrazioni del presidente della Dc durante i 55 giorni di prigionia. Lo scorso 26 aprile è stato ascoltato il colonnello Michele Riccio, a capo del blitz del 28 marzo 1980, che ha dichiarato: «Siamo arrivati all’appartamento su indicazione di Patrizio Peci e di un altro brigatista arrestato. Abbiamo fatto degli scavi nel giardino da cui è uscito fuori parte dell’archivio brigatista». Ma nei documenti delle indagini, il giardino non è mai indicato. Il 19 giugno è stato sentito anche il giudice Luigi Carli, che si è occupato del fascicolo di via Fracchia: «Durante riunioni con i giudici torinesi, ho sentito parlare del ritrovamento delle carte di Moro». Neanche di queste c’è traccia nei rapporti. «Le audizioni che abbiamo svolto in Commissione hanno fatto chiarezza sul ritrovamento di buste di documenti nell'appartamento di via Fracchia che non risultavano negli atti successivi alla perquisizione» dichiara all'Espresso Giuseppe Fioroni, presidente della Commissione Moro «non si può ancora avere la certezza assoluta che queste carte riguardassero Moro, nonostante il giudice Carli abbia riferito che ne sentì chiaramente parlare nel corso di una riunione con i colleghi di Torino». La commissione si sta occupando anche del possibile coinvolgimento della colonna genovese delle Br nel sequestro Moro: «Ci sono alcuni elementi emersi che fanno riferimento a forti collegamenti tra Mario Moretti (capo della colonna brigatista che rapì e uccise il presidente Dc, ndr) ed esponenti di Genova. Ma al momento non mi è possibile dire più di questo» aggiunge Fioroni. «Non mi interessa sapere cosa è stato trovato nell’appartamento» conclude Grasso «la mia denuncia si riferisce solo alle anomalie nell’uccisione di Dura e nel ferimento del maresciallo Benà. Al colonnello Riccio, che aveva guidato le operazioni, andrebbe chiesto cosa è veramente successo. Lui conosce gli uomini che erano con lui quella notte e chi e perché ha sparato. Fu attacco di nervi? Una disobbedienza? Un ordine?».

Se un ricercatore vuole riscrivere la storia d'Italia. Il terrorismo come un "cold case", scrive Paolo Guzzanti, Lunedì 28/08/2017, su "Il Giornale". Si riapre il lungo e ancora inedito dossier sui cosiddetti «anni di piombo», vale a dire lo scontro angoscioso e sanguinoso fra Stato e terroristi comunisti che si erano dati il nome di «brigatisti rossi» con la riapertura dell'indagine su quel che avvenne nel «covo» di via Fracchia a Genova dove quattro membri delle Brigate rosse (fra cui una donna, Annamaria Ludman proprietaria dell'appartamento) furono uccisi dai corpi speciali del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. L'inchiesta è stata riaperta dal procuratore di Genova Francesco Cozzi su denuncia di Luca Grasso, un ricercatore universitario che ha ottenuto e studiato il rapporto dell'allora capitano Michele Riccio che guidò l'assalto nella notte del 28 marzo 1980. Grasso sostiene che almeno uno dei brigatisti uccisi, Riccardo Dura, non morì durante lo scontro a fuoco ma fu giustiziato inerme con un colpo alla nuca. Bisogna avere non meno di cinquantacinque anni avere memoria di quel sanguinosissimo scontro voluto dal generale Calo Alberto dalla Chiesa, poi barbaramente trucidato a Palermo con sua moglie Emanuela Setti Carraro, quando era prefetto del capoluogo siciliano dove custodiva documenti mai più rintracciati sui legami fra Brigate rosse e servizi dello Stato, nella sua cassaforte. Quello di via Fracchia fu l'episodio che mise fine alle attività delle Brigate rosse le quali di fatto si arresero poco dopo in seguito al fallito rapimento del generale americano James Lee Dozier, liberato dopo quarantacinque giorni di prigionia nel gennaio del 1982. A portare i carabinieri nel covo di via Fracchia fu il primo grande pentito della banda armata delle Brigate rosse, Patrizio Peci, il cui fratello Roberto fu fucilato da un vero plotone d'esecuzione brigatista, esecuzione che fu filmata e diffusa in tempi in cui ancora non esisteva internet. Il caso del pentimento di Patrizio e dell'assassinio per rappresaglia di Roberto Peci, costituì uno degli atti finali di una guerriglia cominciata all'inizio degli anni Settanta con il rapimento del giudice Mario Sossi e che insanguinò l'Italia per oltre un decennio, con un'ecatombe di servitori dello Stato e giornalisti, assassinati a freddo per il valore simbolico delle loro morti. La più famosa delle vittime fu Aldo Moro, il segretario della Democrazia cristiana che avrebbe dovuto di lì a poco essere eletto presidente della Repubblica, rapito e trucidato nel bagagliaio di una Renault nel maggio del 1978 dopo quaranta giorni di interrogatori mai rivelati. L'irruzione dei corpi speciali in via Fracchia, in cui rimase ferito il maresciallo Rinaldo Benà, si concluse con un bilancio mai visto prima nella lunga lotta fra Stato e brigatisti rossi: i quattro terroristi furono uccisi nell'appartamento in cui avevano il loro covo e domicilio: fu una strage che tutta l'opinione pubblica considerò un avvertimento ai brigatisti ancora attivi per far sapere che lo Stato aveva deciso di colpire senza fare più prigionieri. Il ricercatore universitario Luca Grasso ha lavorato per molto tempo sul rapporto ancora segreto sui fatti di via Fracchia e si è rivolto alla magistratura chiedendo di indagare sulle vere circostanze dell'uccisione di Riccardo Dura che, secondo quanto risulta dai documenti esaminati sarebbe stato giustiziato con un colpo alla nuca e dunque deliberatamente assassinato. Il procuratore di Genova Francesco Cozzi ha dichiarato «un atto dovuto» la riapertura dell'inchiesta.

Genova, 37 anni dopo procura apre inchiesta per omicidio sulla morte di Riccardo Dura. Nel blitz nel covo delle Br in via Fracchia fu ucciso con un solo colpo alla nuca. L'esposto di un assistente universitario all'epoca arrestato e poi prosciolto e risarcito. Il procuratore: "Un atto dovuto l'apertura del fascicolo", scrive il 27 agosto 2017, "La Repubblica". A 37 anni di distanza dal blitz genovese nel covo Br di via Fracchia in cui vennero uccisi dai carabinieri quattro brigatisti rossi la procura della repubblica di Genova, in seguito alla presentazione di un esposto denuncia di un cittadino, ha aperto un fascicolo per omicidio "in danno di Riccardo Dura", uno dei terroristi uccisi. "Un atto dovuto", come spiega all'Ansa il procuratore di Genova Francesco Cozzi nel confermare l'apertura del fascicolo. Che aggiunge: "Adesso valuteremo modi e tempi di eventuali accertamenti". A presentare l'esposto nei giorni scorsi, come scrive il Secolo XIX che stamane ha anticipato la notizia, è stato Luigi Grasso, ricercatore universitario che nel 1979 venne accusato di terrorismo e negli anni successivi completamente prosciolto. "Quello di Dura è stato un omicidio volontario, venne ucciso con un solo colpo alla nuca" si legge nell'esposto presentato da Grasso. L'eventuale inchiesta sarà affidata dai magistrati ai poliziotti dell'antiterrorismo. Grasso alla decisione di presentare l'esposto è arrivato dopo una ricerca personale negli archivi giudiziari che gli ha permesso di ottenere il fascicolo di via Fracchia: in cui c'è la ricostruzione dei fatti spiegata da Michele Riccio, l'allora capitano che guidò l'assalto, uomo di fiducia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa al quale era stato affidato il compito di condurre la battaglia contro le Br. Dalla lettura di quei fatti Grasso è arrivato alla conclusione che l'uccisione del brigatista Riccardo Dura è un omicidio volontario. Grasso aveva già manifestato i suoi dubbi su via Fracchia 19 anni fa durante la presentazione di un libro di Enrico Fenzi, docente universitario arrestato e condannato per episodi legati alla stagione brigatista. ''La vera luce sulla colonna genovese delle Brigate rosse non è stata ancora fatta - disse Grasso prendendo la parola - Il blitz del 17 maggio del '79 in cui vennero arrestati Enrico Fenzi e altre 16 persone è stato frutto di una finta inchiesta messa in atto per favorire il permanere a Genova della colonna brigatista, poi sgominata nell' 80 in via Fracchia dagli uomini del generale Dalla Chiesa''. Grasso enunciò la sua tesi nel corso del dibattito sul libro ''Armi e bagagli'' di Enrico Fenzi, svoltosi a Genova nel convento di Santa Maria di Castello. Grasso venne arrestato insieme al professore genovese, poi prosciolto e risarcito dallo Stato per riparare all' errore giudiziario (venne arrestato anche per il delitto Coco) nei suoi confronti. ''La vera realtà - sostenne Grasso - è che Enrico, io e gli altri siamo stati arrestati non come brigatisti, ma per depistare le indagini. Contesto perciò quanto scritto da Fenzi nel suo libro, che considero un buon romanzo, ma senza validità storica''. A queste parole Fenzi, fino a quel momento tra il pubblico, puntualizzò: ''A Grasso dico solo che non è mai appartenuto alle Bierre, che è stato perciò condannato ingiustamente. Nel libro ho raccontato le cose che ho vissuto io''.

Irruzione di via Fracchia. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La cosiddetta irruzione di via Fracchia, o strage di via Fracchia, fu un sanguinoso episodio degli anni di piombo avvenuto a Genova in un appartamento in via Umberto Fracchia 12 nella notte del 28 marzo 1980. Grazie alle informazioni fornite dal militante delle Brigate Rosse Patrizio Peci, arrestato nel febbraio 1980 a Torino, i carabinieri del generale Carlo Alberto dalla Chiesa poterono individuare l'importante base dell'organizzazione terroristica e organizzare di notte un'irruzione all'interno dell'appartamento. L'azione si concluse con un violento conflitto a fuoco che provocò la morte dei quattro brigatisti presenti, tre militanti clandestini delle colonne genovese e torinese e la giovane proprietaria dell'appartamento, oltre al ferimento del maresciallo dei carabinieri Rinaldo Benà. Le modalità dell'irruzione e l'esatta dinamica dei fatti rimasero non del tutto chiari e suscitarono polemiche, facendo sorgere dubbi sull'operato dei carabinieri e sull'effettiva necessità di uccidere tutti i brigatisti sorpresi nell'appartamento. L'irruzione di via Fracchia ebbe conseguenze decisive a Genova e provocò il rapido collasso della pericolosa organizzazione brigatista presente nella città che, a partire dal 1976, si era resa protagonista di una lunga e cruenta serie di attentati contro magistrati, politici, dirigenti industriali e forze dell'ordine.

Le Brigate Rosse, dopo aver esteso la loro attività inizialmente a Milano e Torino, avevano sequestrato a Genovanella primavera del 1974 il magistrato Mario Sossi; una vera colonna brigatista tuttavia non venne costituita fino al 1976 dopo l'intervento nella città di due importanti e capaci militanti dell'organizzazione, Mario Moretti e Rocco Micaletto. Fu a Genova che i brigatisti organizzarono e portarono a termine per la prima volta un attentato mortale uccidendo l'8 giugno 1976 il giudice Francesco Coco e i due uomini della sua scorta[3]. La nuova colonna genovese delle Brigate Rosse si caratterizzò subito per la dura efficienza clandestina, per la rigida compartimentazione e per il suo costante tentativo di sviluppare la propaganda e il proselitismo all'interno delle grandi fabbriche della città, cercando di ottenere l'adesione alla lotta armata delle frange estremistiche operaie ed entrando in aspro conflitto con la potente struttura organizzativa del PCI. I principali dirigenti della colonna organizzarono a Genova una struttura particolarmente rigida, con una dura disciplina tra i militanti e con una buona capacità militare, che fu in grado di potenziare progressivamente la sua attività terroristica senza cedimenti e senza che le forze dell'ordine riuscissero a individuare e arrestare i componenti né fermarne l'azione. I militanti clandestini più importanti erano persone completamente sconosciute agli inquirenti, come Riccardo Dura "Roberto" personalità estremamente radicale dalla violenta carica ideologica, mentre alcuni dei componenti principali della colonna, Rocco Micaletto "Lucio" e Luca Nicolotti "Valentino", erano dirigenti particolarmente determinati trasferitisi temporaneamente da Torino. Mentre dal punto di vista dell'efficienza militare la colonna genovese per quattro anni a partire dal 1976 dispiegò una continua e crescente attività terroristica con un impressionante numero di ferimenti e omicidi, dal punto di vista politico i brigatisti non riuscirono a scardinare la predominante influenza del PCI sulla forte base operaia delle grandi fabbriche e del porto. La esasperata conflittualità dei brigatisti contro il PCI giunse al punto di provocare attacchi dell'organizzazione contro dirigenti dell'industria di stato legati al partito e soprattutto fu una delle cause principali dell'attentato contro il sindacalista comunista Guido Rossa che, accusato di delazione all'interno dell'Italsider, venne ucciso nel gennaio 1979 in via Fracchia, nei pressi della sua abitazione in via Ischia, da un nucleo armato guidato da Riccardo Dura.

Nonostante il sostanziale rifiuto da parte della base operaia delle istanze estremistiche delle Brigate Rosse e il conseguente loro crescente isolamento, i brigatisti della colonna genovese continuarono nell'inverno 1979-1980 a moltiplicare gli attacchi sempre più cruenti che colpirono le cosiddette "strutture dell'apparato repressivo dello stato" e in particolare i carabinieri; a dicembre 1979 e gennaio 1980 quattro militari dell'Arma vennero uccisi in due sanguinosi agguati, a Sampierdarena e in via Riboli, da gruppi di fuoco dell'organizzazione. Mentre le altre colonne brigatiste, soprattutto a Torino e Milano, erano sottoposte alla sempre più efficace pressione delle forze dell'ordine che aveva provocato la cattura di numerosi militanti e la scoperta di basi dell'organizzazione, le Brigate Rosse genovesi mantenevano la loro capacità di attacco e non davano segni di cedimento militare; nessun importante membro della colonna era stato catturato e i brigatisti disponevano di basi sicure all'interno della città. La situazione dei brigatisti, in particolare a Torino, era divenuta così critica, a causa dell'azione di contrasto delle forze di polizia, che due militanti della colonna torinese, Lorenzo Betassa "Antonio" e Piero Panciarelli "Pasquale", avevano abbandonato la città e si erano trasferiti a Genova, ritenuto centro ancora relativamente sicuro. Fu quindi proprio a Genova che le Brigate Rosse organizzarono, nel dicembre 1979, un'importante riunione della "Direzione Strategica" con la partecipazione di militanti di tutte le colonne attive in Italia. L'incontro si svolse in un ampio appartamento al piano terra di un edificio in via Umberto Fracchia 12 nel quartiere Oregina, di proprietà di Annamaria Ludmann "Cecilia", trentaduenne militante regolare non clandestina dell'organizzazione, che contemporaneamente alla sua attività nella lotta armata aveva mantenuto la sua vita apparentemente normale di impiegata presso una scuola svizzera, il centro culturale Galliera. In precedenza nel suo appartamento in via Fracchia, ritenuto assolutamente sicuro, la Ludmann aveva ospitato numerosi militanti clandestini della colonna tra cui Micaletto e Nicolotti. Alla riunione della "Direzione Strategica" in via Fracchia 12 nell'appartamento della Ludmann parteciparono tutti i clandestini più importanti dell'organizzazione: per la colonna milanese Mario Moretti e Barbara Balzerani "Sara", per il Veneto Vincenzo Guagliardo "Pippo" e Nadia Ponti "Marta", per la colonna genovese Dura, Nicolotti e Francesco Lo Bianco "Giuseppe", per la colonna romana Bruno Seghetti "Claudio", Maurizio Iannelli e Antonio Savasta "Diego". Da Torino arrivarono in via Fracchia, oltre a Lorenzo Betassa, i due dirigenti più esperti rimasti della colonna, Rocco Micaletto e Patrizio Peci "Mauro".

Genova 28 marzo 1980. Antefatti. Patrizio Peci, "Mauro", il brigatista della colonna di Torino che decise di collaborare con i carabinieri, fornendo precise indicazioni su basi e militanti delle Brigate Rosse. Il 19 febbraio 1980 a Torino, in Piazza Vittorio, i carabinieri del generale Carlo Alberto dalla Chiesa arrestarono prima Patrizio Peci e quindi Rocco Micaletto; anche se Peci nelle sue memorie ritiene che la cattura avvenne per un caso fortuito, in realtà i carabinieri da alcuni mesi avevano individuato e controllato i due importanti dirigenti della colonna torinese. Dopo alcune settimane di detenzione, Patrizio Peci prese la sorprendente e inattesa decisione di collaborare con i carabinieri; il brigatista ebbe anche un colloquio con il generale dalla Chiesa, quindi incominciò a fornire al colonnello Nicolò Bozzo, uno dei principali collaboratori del generale, informazioni dettagliate sulla struttura dell'organizzazione, le sue basi, i suoi militanti e i responsabili degli attentati di cui era a conoscenza. Egli era soprattutto informato sulle vicende delle Brigate Rosse a Torino ma, avendo partecipato alla "Direzione Strategica" del dicembre 1979 a Genova, ricordava anche sommariamente il luogo dove si era svolta quella riunione. Peci avrebbe riferito al colonnello Bozzo che, dopo essere giunto alla stazione di Genova, era stato accompagnato su un autobus da due brigatisti fino a un appartamento al piano terreno lungo una strada in salita il cui nome, via Fracchia, egli ricordava in quanto lo collegava con un personaggio dell'attore Paolo Villaggio. Peci ricordava inoltre che l'appartamento era gestito da una donna. Altre fonti hanno supposto che Peci accompagnò direttamente i carabinieri in un sopralluogo dello stabile e confermò la presenza di una base delle Brigate Rosse. Secondo il colonnello Bozzo invece le informazioni di Peci furono confermate anche da precedenti indizi raccolti sulla possibile presenza di un "covo" brigatista, in base alle testimonianze fornite dopo l'assassinio di Guido Rossa avvenuto l'anno prima nella stessa via. Dopo l'individuazione dell'appartamento, la base brigatista venne sorvegliata per alcuni giorni dagli uomini delle forze dell'ordine; in origine l'irruzione all'interno avrebbe dovuto essere affidata agli agenti dell'UCIGOS e l'azione venne pianificata per la notte del 27 marzo, ma infine il generale dalla Chiesa intervenne e ottenne che l'operazione fosse affidata ai carabinieri che erano stati sanguinosamente colpiti dai brigatisti nei mesi precedenti. L'irruzione in via Fracchia sarebbe stata effettuata la notte del 28 marzo in connessione e contemporaneamente con una operazione globale antiterrorismo in tutta l'Italia settentrionale condotta dai carabinieri sulla base delle importanti e precise informazioni fornite da Peci, la cui delazione, iniziatasi da alcuni giorni, era stata mantenuta strettamente segreta. La sera di giovedì 27 marzo Annamaria Ludmann venne osservata rincasare intorno alle ore 19:00, e subito dopo arrivarono altri due giovani sconosciuti; Peci aveva descritto le caratteristiche generali dell'appartamento e aveva evidenziato come fosse adibito anche a deposito di armi ed esplosivi e vi fossero disponibili attrezzature per la fabbricazione di targhe contraffatte. Egli non era a conoscenza di chi fossero gli occupanti abituali della base oltre alla giovane proprietaria, ma i carabinieri ritennero che l'appartamento ospitasse parecchi militanti particolarmente pericolosi dell'organizzazione. Il generale dalla Chiesa riferirà nel maggio 1980 che non si pensava di trovare la Ludmann all'interno dell'abitazione, mentre si ipotizzava che fossero presenti due latitanti e due "regolari". In effetti sembrerebbe evidente che i carabinieri ignoravano chi fossero i brigatisti presenti nella base e che l'irruzione venne effettuata in fretta senza una preliminare e accurata preparazione come era previsto dalle tecniche investigative del nucleo antiterrorismo del generale. Secondo Michele Riccio, che fu l'ufficiale dei carabinieri che diresse l'irruzione, l'azione venne affrettata soprattutto per coordinarla con le previste operazioni contro le Brigate Rosse in Piemonte che erano in corso di svolgimento; egli inoltre avrebbe preferito attendere il primo mattino per arrestare prima la Ludmann all'uscita dall'appartamento; sarebbe stato il generale dalla Chiesa in persona a ordinare l'assalto in piena notte.

L'irruzione secondo la relazione dei carabinieri. L'edificio n. 12 di via Umberto Fracchia comprendeva diciassette appartamenti in totale; l'interno 1, la base delle Brigate Rosse di proprietà di Annamaria Ludmann, si trovava nel seminterrato a cui si accedeva, dopo aver raggiunto, salendo sette scalini, l'androne di ingresso, discendo una rampa di dodici scalini. Nella stanza del seminterrato si trovavano due porte, una che dava accesso a cinque cantine e una, quella di sinistra, che era la porta d'ingresso dell'appartamento; sul campanello c'era la scritta "Corrado Ludmann", il padre deceduto di Annamaria. L'appartamento, ampio circa 120 metri quadrati, era composto da un ingresso, un lungo e stretto corridoio e sei stanze che si aprivano sul corridoio: la cucina, la sala da pranzo, il bagno, una camera da letto, un ripostiglio e sulla sinistra in fondo al corridoio, un salone; il locale disponeva anche di un giardino, a cui si accedeva dalla cucina e dalla sala da pranzo, che conduceva alla parte posteriore dell'edificio. L'appartamento, situato sotto il livello del suolo e senza vie d'uscita alternative, era ubicato in uno spazio ristretto e non si prestava facilmente a un'irruzione di sorpresa; il rischio di un conflitto a fuoco era elevato in caso di resistenza dei brigatisti. Il colonnello Bozzo affidò la direzione dell'operazione al capitano Michele Riccio il quale ebbe a disposizione il personale del nucleo operativo della Legione carabinieri di Genova; gli uomini incaricati dell'irruzione circondarono preliminarmente in forze tutta la zona equipaggiati con giubbotti antiproiettile, pistole mitragliatrici Beretta M12 e caschi protettivi; vennero messe a disposizione anche armi pesanti tra cui un fucile a pompa Benelli in grado di frantumare le pareti divisorie dell'appartamento; essendo possibile una resistenza con le armi dei brigatisti e quindi uno scontro a fuoco venne anche predisposta la presenza di due ambulanze. All'operazione prese parte anche personale dei carabinieri in borghese del nucleo antiterrorismo. Nel cuore della notte del 28 marzo 1980, sotto una pioggia torrenziale con tuoni e lampi, alcuni abitanti dello stabile videro delle ombre muoversi intorno all'edificio; l'irruzione, secondo la relazione ufficiale ebbe luogo alle ore 04:30 nel buio e con una densa foschia. La notte del 28 marzo 1980 in via Fracchia 12, interno 1 si trovavano, oltre ad Annamaria Ludmann, i due brigatisti clandestini provenienti da Torino, Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli, e Riccardo Dura che era il principale dirigente della colonna genovese e da alcuni mesi era anche uno dei componenti del Comitato Esecutivo dell'organizzazione, insieme con Mario Moretti e Bruno Seghetti. Dura generalmente abitava in via Zella 11 a Rivarolo nell'insospettabile appartamento abitato da Caterina Picasso, una simpatizzante delle Brigate Rosse di 73 anni. Successivamente ai fatti si ipotizzò che i tre clandestini si fossero riuniti quella notte in via Fracchia per preparare un imminente attentato contro l'ingegnere dell'Ansaldo Giobatta Clavarino, forse previsto per la mattina successiva. Il 4 aprile 1980 la Procura della Repubblica di Genova emise un comunicato in cui era riportato il resoconto ufficiale dell'Arma riguardo l'irruzione e i fatti accaduti. Secondo i carabinieri, il nucleo operativo, equipaggiato in assetto da guerra, entrò nella palazzina, discese le scale, raggiunse la porta d'ingresso dell'appartamento e intimò ripetutamente agli occupanti di aprire. Dall'interno dell'appartamento sarebbero giunte manifestazioni verbali di pronta collaborazione non seguite da fatti concreti, quindi gli uomini delle forze dell'ordine avrebbe colpito la porta che si sarebbe aperta dando accesso al corridoio che, immerso nell'oscurità, non permise di vedere bene. I carabinieri richiesero la resa a cui i brigatisti avrebbero risposto di rinunciare alla resistenza e dichiarando di essere disarmati. L'ingresso dell'appartamento: è visibile sul pavimento la macchia di sangue causata dal ferimento del maresciallo Rinaldo Benà, sulla sinistra si vedono le braccia e parte della testa del cadavere di Riccardo Dura. Subito dopo tuttavia dal fondo del corridoio venne esploso un colpo di pistola da uno dei terroristi che colpì il maresciallo Rinaldo Benà, di 41 anni, che era entrato per primo oltre il portone e che, forse per vedere meglio, aveva sollevato la visiera del casco protettivo. Il maresciallo venne seriamente colpito al volto e cadde a terra. I carabinieri aprirono quindi il fuoco dall'ingresso con le pistole mitragliatrici e subito dopo il brigatista che aveva sparato fu abbattuto; a questo punto il capitano Riccio intimò di nuovo la resa e vennero scorti due uomini e una donna che si muovevano carponi lungo il corridoio; grazie all'impiego di un faro a disposizione degli uomini del nucleo operativo, i carabinieri poterono illuminare la scena e vedere i terroristi di cui uno armato di pistola e la donna con una bomba a mano. I carabinieri riaprirono il fuoco con tutte le armi a disposizione contro i brigatisti lungo il corridoio che vennero tutti uccisi. Il racconto del colonnello Bozzo non si discosta dalla relazione originaria dei carabinieri; secondo l'ufficiale i brigatisti finsero di collaborare, ma nel momento in cui il maresciallo Benà entrò egli venne colpito da un proiettile sparato dal corridoio; i colleghi, credendolo morto, scatenarono un violento fuoco con le pistole mitragliatrici e con il fucile a pompa, uccidendo tre uomini. Il capitano Riccio diede ordine di cessare il fuoco ma, alla luce di una torcia, venne individuata una donna che strisciava sul pavimento con una bomba a mano; quindi si riprese a sparare uccidendo anche l'ultima terrorista. L'azione sarebbe durata in tutto nove minuti. Infine si dispone del resoconto del capitano Michele Riccio che guidò l'irruzione; anche secondo questa ricostruzione i carabinieri avrebbero intimato di aprire la porta, quindi, non ottenendo risposta, forzarono le serrature ed entrarono; dal corridoio uno degli occupanti sparò un colpo di pistola che ferì il maresciallo Benà. I carabinieri aprirono il fuoco e "iniziò l'inferno"; dopo tre minuti di fuoco con i mitra e il fucile a pompa, gli uomini dell'Arma incominciarono a perlustrare l'abitazione. Riccio aggiunge il particolare singolare che poco dopo squillò il telefono dell'appartamento, si sarebbe trattato di un altro brigatista della colonna genovese, Livio Baistrocchi, che chiamava per l'appuntamento del mattino. Rispose il capitano ma il terrorista riattaccò subito. L'operazione era terminata; i carabinieri provvidero a sbarrare l'accesso allo stabile e ordinarono alle persone che abitavano negli altri appartamenti, che erano fortemente impressionati dal violento conflitto a fuoco, di rimanere chiusi in casa; alle ore 06:55 il sostituto procuratore della Repubblica di Genova, Filippo Maffeo, dopo essere stato accompagnato all'interno dell'appartamento dai carabinieri, firmò il processo verbale di sopralluogo. Il maresciallo Rinaldo Benà fu trasportato in ospedale; la grave ferita al capo causò la perdita di un occhio ma il sottufficiale sopravvisse. Dagli atti processuali relativi ai fatti di via Fracchia, resi noti da un quotidiano genovese il 29 marzo 1980 e ripresi da altre testate giornalistiche il 26 gennaio 2000, il sottufficiale dei carabinieri sarebbe stato ricoverato alle ore 06:00 del mattino, quindi circa sessanta minuti più tardi dell'orario riportato dalla versione ufficiale delle autorità. Il chirurgo di turno sarebbe stato svegliato alle ore 05:30 e chiamato in servizio per visitare il ferito e sottoporlo a intervento chirurgico, che poi sarebbe stato effettuato fra le otto e mezzogiorno. La circostanza del richiamo in servizio del chirurgo all'alba del 28 marzo sarebbe confermata dal foglio di ricovero, reso pubblico venti anni dopo i fatti insieme con il resto degli atti giudiziari.

Diffusione delle notizie e identificazione dei brigatisti. Le prime notizie dei cruenti fatti di Genova vennero diffuse dall'agenzia ANSA che, allertata dal comando generale dei carabinieri, comunicò alle ore 06:53 che "quattro presunti terroristi sono stati uccisi in un conflitto a fuoco con i carabinieri... nella sparatoria è rimasto ferito anche un sottufficiale dell'Arma. Le persone morte sono tre uomini e una donna"; entro le ore 07:42 l'agenzia diramò altri due comunicati che indicavano con precisione l'ora ufficiale dello scontro a fuoco e il luogo esatto a Genova dell'irruzione dei carabinieri. Alle ore 09:00 il comando generale dei carabinieri diffuse un comunicato ufficiale in cui descriveva rapidamente le operazioni antiterrorismo in corso a Torino, Genova e Biella e parlava in termini generali del conflitto a fuoco di via Fracchia dovuto a "colpi di arma da fuoco" da parte dei terroristi a cui i carabinieri avevano "reagito prontamente". Per molti giorni questo rimase l'unico resoconto ufficiale proveniente dall'Arma; il cordone di sicurezza attorno all'edificio rimase molto stretto, fu proibito l'ingresso ai giornalisti; nel primo giorno le persone raccolte all'esterno poterono vedere solo le quattro bare in legno dei brigatisti trasportate fuori dal palazzo e due pulmini dei carabinieri che furono stipati di sacchi neri e pacchi contenenti il materiale trovato all'interno dell'abitazione. Anche il personale della DIGOS giunto sul posto venne fermato e fu impedita ogni interferenza della Questura nelle indagini. Secondo la documentazione del processo verbale del sostituto procuratore della Repubblica e la relazione del capitano Riccio, dopo lo scontro a fuoco nell'appartamento, i carabinieri trovarono i corpi di quattro persone. Procedendo dalla porta di accesso, videro per primo il cadavere di un uomo di corporatura robusta con baffi, vestito con slip e maglietta a maniche corte rossa, disteso ventre a terra tra l'ingresso e l'inizio del corridoio, apparentemente senza armi; sotto la testa, ruotata verso destra, una grande chiazza di sangue. Subito dopo lungo il corridoio c'era il cadavere di un altro uomo ventre a terra con slip e canottiera blu, la testa, sotto di cui si allargava un'altra chiazza di sangue, rivolta verso il pavimento; a livello del tronco fu repertata una pistola Beretta 81. Il terzo cadavere era quello di una donna che giaceva riversa trasversalmente rispetto al corridoio, con le gambe che si trovavano all'ingresso della stanza ripostiglio; la donna indossava un maglione avana, sottoveste e slip rosa, scarpe di corda; accanto alla testa vennero individuati un paio di occhiali da vista e una bomba a mano, dal capo si estendeva una grande chiazza di sangue. Infine il quarto cadavere si trovava alla fine del corridoio; si trattava di un altro uomo che giaceva disteso supino longitudinalmente al corridoio con le gambe che arrivavano fino all'ingresso della camera da letto. Questo individuo, di alta statura e con barba, era vestito; indossava maglione di lana e pantaloni, una scarpa era calzata al piede destro mentre l'altra si trovava vicino al piede sinistro; anche in questo caso c'era una vasta chiazza di sangue sotto il capo e la parte superiore del torace; venne repertata accanto al piede sinistro una pistola Browning HP con colpo in canna percosso ma non esploso. Inizialmente i carabinieri parvero all'oscuro dell'identità dei quattro brigatisti uccisi; il primo giorno venne divulgato solo il nome della donna, Annamaria Ludmann, l'insospettabile figlia del capitano di lungo corso Corrado Ludmann, proprietario deceduto dell'appartamento; un personaggio minore della colonna genovese del tutto sconosciuto agli inquirenti, ritenuto solo una militante "legale" unicamente impegnata a gestire l'abitazione e a metterla a disposizione dei clandestini[39]. Anche il 29 marzo non furono diffuse notizie precise sui nomi degli altri brigatisti e i carabinieri diedero l'impressione di aver agito senza adeguate informazioni preliminari; furono invece le Brigate Rosse che diffusero un comunicato di commemorazione dei militanti uccisi scritto personalmente da Mario Moretti[40]. Nel comunicato le Brigate Rosse esaltavano le qualità dei quattro "militanti rivoluzionari", "avanguardie" decise a "imbracciare il fucile e combattere"; essi venivano identificati con i nomi di battaglia: "Roberto", "operaio marittimo" e "dirigente dall'inizio della costruzione della colonna", "Antonio", operaio Fiat, tutti e due membri della "Direzione Strategica"; "Cecilia", "donna proletaria", e "Pasquale", operaio della Lancia di Chivasso. Nel volantino si accusavano i carabinieri della loro morte; essi "dopo essersi arresi, erano stati trucidati". Il comunicato concludeva minacciosamente: "niente resterà impunito". Nei giorni seguenti i carabinieri, pur permanendo un'atmosfera di riserbo e incertezza, riuscirono a identificare altri due brigatisti e fornirono alla stampa i nomi di Lorenzo Betassa, "Antonio" secondo il volantino diramato dall'organizzazione, e di Piero Panciarelli, "Pasquale". Il primo, l'uomo ritrovato parzialmente vestito in fondo al corridoio, non era affatto ricercato dalle forze dell'ordine, nonostante facesse parte secondo le stesse Brigate Rosse della "Direzione Strategica"; egli venne identificato anche grazie alla carta d'identità ritrovata sul corpo che riportava i suoi dati anagrafici reali. Il secondo, Piero Panciarelli, era relativamente più conosciuto ma non era ritenuto un militante di primo piano; era ricercato dalla metà del 1978 e considerato coinvolto negli attentati più gravi compiuti dall'organizzazione a Torino e a Genova. I carabinieri inoltre diramarono un comunicato con il lungo e dettagliato elenco della grande quantità di armi e materiali trovati all'interno dell'abitazione di via Fracchia: cinque pistole, due pistole mitragliatrici Sterling, un fucile Franchi, 2.000 cartucce, due granate Energa, due mine anticarro; esplosivo al plastico; macchine per scrivere, registratori, un riproduttore fotografico, drappi con la stella delle Brigate Rosse, materiale per la falsificazione di documenti, patenti e carte d'identità contraffatte, targhe di auto rubate, materiale propagandistico dell'organizzazione, infine un elenco con oltre 3.000 nominativi di persone verosimilmente individuate come possibili obiettivi della formazione terroristica. Rimase invece ancora sconosciuta l'identità del quarto brigatista ucciso, "Roberto", l'uomo caduto all'inizio del corridoio, descritto dalle Brigate Rosse nel loro comunicato in termini altamente elogiativi e indicato come un dirigente di primo piano della colonna genovese e un membro della "Direzione Strategica". Gli inquirenti non sembrarono in grado di identificarlo e anche l'eventualità, diffusa per breve tempo, che si trattasse di Luca Nicolotti si rivelò completamente infondata. Furono infine le stesse Brigate Rosse che il 3 aprile rivelarono con una telefonata il nome del quarto militante, Riccardo Dura; l'anonimo parlò di "macabra propaganda" e minacciò rappresaglie contro giudici, carabinieri e giornalisti. Riccardo Dura era un personaggio sconosciuto agli inquirenti, solo nel mesi successivi grazie alle informazioni fornite da Patrizio Peci e da altri brigatisti catturati e collaboranti, si appresero dettagliate informazioni sul suo ruolo importante, sulla sua partecipazione a gravissimi fatti di sangue, sulla sua personalità aggressiva e dominante all'interno della colonna genovese.

Aspetti controversi della vicenda. Perizia balistica e conclusioni giudiziarie. I carabinieri continuarono a bloccare l'accesso all'appartamento anche dopo l'identificazione dei quattro brigatisti; la magistratura emise un primo comunicato il 5 aprile insieme con la relazione ufficiale dell'Arma emessa il giorno precedente con la descrizione degli eventi accaduti in via Fracchia. Solo l'8 aprile i magistrati poterono entrare di nuovo nell'appartamento seguiti finalmente anche dai giornalisti, che furono fatti entrare uno per volta ed ebbero a disposizione tre minuti di tempo in totale per osservare il luogo del drammatico scontro a fuoco[48]. La visita non chiarì tutti i dubbi e al contrario alcuni particolari riscontrati sollevarono perplessità sulla ricostruzione dei carabinieri. I giornalisti riportarono nei loro resoconti la presenza di fori di proiettili sul pianerottolo, ad alcuni decimetri da terra, nell'ingresso e all'inizio del corridoio, alti fino quasi al soffitto; nella relazione dei carabinieri non si faceva cenno di scontro a fuoco sul pianerottolo e si parlava di colpi sparati verso persone che avanzavano carponi quasi strisciando. Fu rilevato che la porta di accesso all'appartamento non sembrava presentare segni evidenti di effrazione, a differenza della porta esistente tra ingresso e corridoio che invece apparve forzata. Inoltre ad alcuni cronisti non sembrò chiaro come i carabinieri fossero potuti entrare nell'edificio attraverso il portone principale dotato di una serratura; venne ventilata la possibilità che essi avessero le chiavi d'ingresso dello stabile[49]. Infine sorsero dubbi anche sull'effettivo responsabile del ferimento del maresciallo Rinaldo Benà che risultò colpito da un proiettile calibro 9 mm, un tipo utilizzato anche dalle armi in dotazione ai carabinieri. Per chiarire i particolari dello scontro a fuoco il Procuratore della Repubblica di Genova richiese l'8 aprile, dopo aver riportato la relazione dei carabinieri, "indagini peritali di carattere medico-legale e balistico" che vennero espletate e permisero di accertare con precisione quali e quante armi avevano sparato nella notte del 28 marzo 1980. Venne quindi stabilito che tra le armi rinvenute all'interno dell'appartamento, tutte perfettamente funzionanti, aveva sparato solo la pistola Browning HP rinvenuta accanto ai piedi di Lorenzo Betassa che aveva esploso un proiettile; questa pistola presentava inoltre una cartuccia inesplosa all'interno della camera di scoppio. Tra le armi in dotazione ai carabinieri avevano sparato tre pistole mitragliatrici Beretta M12 che avevano esploso in totale 44 proiettili e un fucile da caccia calibro 12 da cui erano stati esplosi cinque proiettili. I 44 proiettili esplosi dai tre mitra M12 si suddividevano tra un'arma che aveva sparato 28 colpi e le altre due che avevano sparato otto colpi ciascuno. Nel corpo di Piero Panciarelli infine venne riscontrato un proiettile calibro 38 special "utilizzabile da rivoltella a tamburo"; l'impiego anche di questa arma era peraltro stato segnalato nel rapporto dei carabinieri. Dopo le perizie balistiche e medico-legali, le conclusioni definitive della magistratura genovese giunsero il 29 febbraio 1984; dopo aver riepilogato la ricostruzione ufficiale dei carabinieri che non si discostava da quella presentata il 4 aprile 1980, il Procuratore della Repubblica descrisse le ferite riscontrate dai periti sui corpi dei quattro brigatisti, di cui si confermava l'ora del decesso intorno alle 04:00. Riccardo Dura era stato colpito al capo da un solo proiettile mortale che era penetrato dalla regione occipitale dal dietro in avanti; Piero Panciarelli aveva subito ferite mortali encefaliche e toracico-addominali causate da quattro colpi penetrati in direzione cranio-caudale. Annamaria Ludmann aveva ricevuto "gravissime lesioni cranio-encefaliche e toraco-addominali" a seguito di numerosi colpi di arma da fuoco, tra cui alcuni da proiettili multipli, sparati da distanza superiore a trenta centimetri, penetrati principalmente da dietro in avanti. Infine Lorenzo Betassa era stato raggiunto da numerosi proiettili singoli e multipli con lesioni mortali "cranio-encefaliche, polmonari, cardiache ed epatiche", con direzione da dietro in avanti, dall'alto in basso, da sinistra a destra. Dopo questa accurata descrizione, il magistrato trasse le sue conclusioni: partendo dall'assunto che i carabinieri "all'atto dell'irruzione nell'appartamento di via Fracchia 12/1 stavano agendo legittimamente nell'ambito dei poteri loro riconosciuti", si considerava che il comportamento di Lorenzo Betassa che "fraudolentemente", dopo aver dichiarato la volontà di arrendersi, aveva esploso un colpo di pistola ferendo gravemente il maresciallo Benà, aveva reso inevitabile, a causa dell'immediata necessità, l'uso delle armi da fuoco da parte dei carabinieri per superare la resistenza della parte avversa. La presenza di almeno tre carabinieri nello spazio angusto dell'ingresso, teoricamente esposti al fuoco dei terroristi dal corridoio, rese la situazione di grave e "incombente" pericolo per la vita degli uomini delle forze dell'ordine che quindi non poterono che contrapporre "una reazione adeguata e proporzionata all'offesa ricevuta". Il magistrato ritenne pienamente giustificato, dopo l'uccisione di Betassa, anche il successivo impiego delle armi da parte dei carabinieri che, di fronte alla presenza di altri brigatisti che avanzavano armati carponi lungo il corridoio nell'oscurità, tra cui la donna con una bomba a mano, ebbero la "fondata convinzione di trovarsi nuovamente in imminente pericolo di vita". Dopo aver ritenuto che la perizia avesse confermato sostanzialmente la relazione dei carabinieri, evidenziando le traiettorie dei colpi sui corpi prevalentemente da dietro in avanti e dimostrando che i quattro "terroristi furono colpiti a distanza, mentre due di essi procedevano carponi e con la testa abbassata", il magistrato concluse quindi, non essendo "emersi né ravvisabili estremi di reato", con la richiesta di archiviazione definitiva di tutto il procedimento.

La versione dei brigatisti. La sanguinosa irruzione di via Fracchia provocò grande emozione nelle file dei brigatisti e anche nell'ambiente dell'estremismo giovanile; si manifestarono reazioni di odio e propositi di vendetta. Fin dall'inizio, come risulta dal documento diffuso il 29 marzo, le Brigate Rosse non diedero alcun credito alla relazione dei carabinieri e ritennero che si fosse trattato di una vera rappresaglia militare orchestrata dalle forze dell'ordine per dimostrare la potenza dello stato e intimorire con un brutale atto di sangue militanti e simpatizzanti. In ricordo dei brigatisti rimasti uccisi nell'appartamento le Brigate Rosse denominarono poco dopo la loro colonna veneta "Annamaria Ludmann-Cecilia" mentre la colonna romana divenne la "28 marzo"; alcuni giovani estremisti costituirono anche autonomamente a Milano nel maggio 1980 una "Brigata XXVIII marzo" che si rese responsabile del tragico omicidio del giornalista Walter Tobagi. Nel documento del 29 marzo le Brigate Rosse accusavano i carabinieri di aver "trucidato" volontariamente i militanti dell'organizzazione, che a loro dire, di sarebbero arresi; tra i brigatisti apparve inizialmente inspiegabile come avessero fatto i carabinieri a entrare nell'appartamento cogliendo completamente di sorpresa i loro compagni che non avrebbero avuto modo di reagire. Fu dopo la diffusione delle notizie sulla collaborazione di Patrizio Peci con i carabinieri che i brigatisti ritennero di aver compreso la reale dinamica degli eventi. Mario Moretti ritenne che le forze dell'ordine disponessero delle chiavi dell'abitazione sottratte a Rocco Micaletto, che le avrebbe avute con sé al momento dell'arresto e che Peci avesse fornito precise indicazioni sul luogo e l'edificio; i carabinieri avrebbero quindi sorpreso i brigatisti aprendo con le chiavi l'abitazione e cogliendoli nel sonno. Nelle loro memorie Mario Moretti, Anna Laura Braghetti, Barbara Balzerani, Vincenzo Guagliardo e Prospero Gallinari sostengono tutti la versione dell'atto deliberato da parte dei carabinieri che sarebbero entrati agevolmente grazie alle chiavi e alle informazioni di Peci e avrebbero agito con la precisa volontà di uccidere i terroristi. Le disposizioni previste dall'organizzazione in caso di scoperta di una delle sue abitazioni, prevedevano che gli occupanti non opponessero resistenza di fronte a soverchianti forze dell'ordine e si arrendessero; i brigatisti ritengono probabile che i compagni sorpresi in via Fracchia avessero tentato di arrendersi ma fossero stati ugualmente uccisi dai carabinieri; secondo Moretti e altri il maresciallo Rinaldo Benà sarebbe rimasto ferito a causa di un proiettile esploso per errore nella concitazione del momento dagli stessi colleghi dell'Arma. Anche Patrizio Peci nelle sue memorie esprime sorpresa per il cruento esito dell'irruzione in via Fracchia ma egli imputa la responsabilità degli eventi in gran parte alla probabile decisione dei quattro brigatisti all'interno dell'abitazione di tentare di resistere. Egli ritiene che soprattutto i tre clandestini, aggressivi e determinati, forse pensarono di essere in grado di sfuggire ai carabinieri con le armi. Il brigatista collaborante, che era amico di Panciarelli e Betassa, esprime il proprio dispiacere per la morte dei quattro ma nega ogni responsabilità negli eventi ed esclude di aver fornito le chiavi dell'appartamento.

Le foto ventiquattro anni dopo. Nel 2004, a distanza di ventiquattro anni dai fatti, il quotidiano genovese Corriere Mercantile, è riuscito a venire in possesso delle foto scattate dai carabinieri subito dopo lo scontro a fuoco e le ha pubblicate, a cura del giornalista Andrea Ferro, dal 12 al 15 febbraio, insieme con una nuova analisi della vicenda. Queste foto pongono nuovi dubbi sullo svolgimento reali dei fatti. Le immagini mostrano i corpi dei quattro brigatisti lungo lo stretto corridoio sostanzialmente nelle posizione descritte nel processo verbale del magistrato genovese: Dura, Panciarelli e la Ludmann sono allineati uno dietro l'altro, scalzi, svestiti e in posizione supina. In fondo al corridoio giace invece prono Betassa, che è vestito ma con le scarpe slacciate e senza calze; è verosimile che anche lui stesse dormendo, forse nel sacco a pelo disteso nella sala da pranzo, e che abbia affrettatamente calzato le scarpe dopo aver sentito i primi rumori o le ingiunzioni dei carabinieri. Secondo alcuni autori, la posizione delle braccia dei primi tre terroristi solleva dubbi sulla ricostruzione ufficiale; Dura, Panciarelli e la Ludmann nelle foto hanno le braccia distese in avanti e nessuno impugna delle armi; se i brigatisti fossero avanzati carponi come riportato nel documenti dei carabinieri, questa posizione dei cadaveri sarebbe poco congruente; se Panciarelli e la Ludmann avessero impugnato rispettivamente una pistola e una bomba a mano queste armi verosimilmente sarebbero rimaste nelle loro mani o accanto ai cadaveri. Nella foto che ritrae la Ludmann si vede una bomba a mano a terra nel piccolo spazio compreso tra il volto e il braccio destro parzialmente addotto; la posizione è sembrata piuttosto singolare. Il fatto che i quattro brigatisti siano caduti in fila lungo il corridoio e che tre di loro fossero con le mani e le braccia parzialmente distese in avanti, ha fatto ritenere poco probabile che i terroristi volessero opporre resistenza e avessero la volontà di ingaggiare un conflitto a fuoco; allineandosi lungo lo stretto corridoio, invece di ripararsi nelle stanze laterali, si sarebbero fatalmente esposti ai colpi dei carabinieri. Alcuni autori ritengono possibile che i quattro intendessero arrendersi, sfilando uno dietro l'altro lungo il corridoio con le braccia alzate o forse dietro la nuca. Anche l'orario dell'irruzione è stato messo in dubbio; mentre la relazione dei carabinieri indica le ore 04:00, l'orologio portato al polso sinistro dalla Ludmann segna le ore 02:42. Infine è stato evidenziato come il primo cadavere della fila dei terroristi sia quello di Riccardo Dura, in teoria il dirigente più esperto e quello considerato più aggressivo; egli è a terra scalzo e senza alcuna pistola in mano o vicino al corpo, sicuramente non sparò. È possibile che egli sia stato il primo ad alzarsi e a avanzare lungo il corridoio verso l'ingresso dove egli sarebbe stato raggiunto da colpi sparati a distanza ravvicinata attraverso la porta di separazione. Dopo la diffusione delle foto, il brigatista dissociato e collaborante Adriano Duglio, componente della colonna genovese, ha ritenuto che questa documentazione fotografica confermi i dubbi sulla vicenda. Egli ha ripreso la versione brigatista che i carabinieri disponessero delle chiavi dell'appartamento e che i brigatisti fossero in procinto di arrendersi come sarebbe dimostrato dalla posizione delle braccia dei corpi di tre terroristi. Il giornalista Giuliano Zincone, intervistato nel 2004 dal Corriere Mercantile, ha affermato che già all'epoca dei fatti aveva manifestato, insieme con altri giornalisti entrati nell'appartamento, perplessità sulla dinamica degli eventi e aveva ritenuto probabile che i carabinieri avessero voluto imporre una prova di forza militare escludendo tecniche operative idonee a permettere una cattura incruenta dei brigatisti.

Conseguenze e conclusione. Crollo della colonna genovese. La sanguinosa irruzione in via Fracchia ebbe importanti conseguenze: insieme con le contemporanee operazioni dei carabinieri del generale dalla Chiesa in Piemonte, a seguito delle rivelazioni di Peci, provocò un indebolimento sostanziale della struttura delle Brigate Rosse in Italia settentrionale e dal punto di vista psicologico sembrò dimostrare in modo inequivocabile che le strutture dello stato erano decise a impiegare mezzi militari per interrompere la continua crescita dell'attività terroristica di estrema sinistra. Secondo l'avvocato Giannino Guiso l'azione dei carabinieri era soprattutto un impressionante monito rivolto ai più irriducibili brigatisti e anche una rappresaglia contro la colonna genovese responsabile di molti fatti di sangue. L'irruzione di via Fracchia diffuse lo sconcerto e la paura tra le colonne brigatiste, favorendo la perdita della coesione tra i militanti e anche fenomeni sempre più ampi di collaborazione; il generale dalla Chiesa aveva parlato in precedenza di à la guerre comme à la guerre, e i fatti del 28 marzo sembrarono la concretizzazione reale di questo avvertimento del comandante della divisione carabinieri "Pastrengo". In realtà paradossalmente nella fase iniziale dopo l'irruzione molti giovani dell'estrema sinistra decisero di passare alla lotta armata nella colonna genovese spinti dal desiderio di vendicare i militanti uccisi, ma questi nuovi elementi mancavano di disciplina e preparazione e inoltre ormai l'organizzazione della colonna era in disfacimento. Dopo la morte di Riccardo Dura, Francesco Lo Bianco cercò di organizzare i superstiti ma nuove operazioni dei carabinieri e il moltiplicarsi del fenomeno della collaborazione e della delazione provocarono il crollo definitivo; entro la fine del 1980 in pratica la colonna genovese si dissolse. La maggior parte dei militanti vennero arrestati e le strutture logistiche individuate e smantellate; alcuni dei più aggressivi brigatisti, come Livio Baistrocchi e Lorenzo Carpi, invece espatriarono all'estero e fecero perdere le loro tracce. I carabinieri individuarono anche persone insospettabili come l'anziana Caterina Picasso e l'avvocato Edoardo Arnaldi che in realtà era solo un simpatizzante in contatto con alcuni capi della colonna ed era stato avvocato difensore dei brigatisti; egli tuttavia, coinvolto dalle rivelazioni di Peci e in precarie condizioni di salute, si suicidò, mentre stava per essere arrestato, per timore della detenzione in carcere.

Conclusioni. Giorgio Bocca fu tra coloro che espressero fin dall'inizio la convinzione che gli eventi di via Fracchia derivassero anche dalla volontà dei carabinieri di infliggere una clamorosa sconfitta militare alle Brigate Rosse; egli alcuni mesi dopo ebbe un colloquio direttamente con il generale Carlo Alberto dalla Chiesa che, pur negando che i terroristi fossero stati uccisi deliberatamente senza dargli possibilità di arrendersi, si dimostrò freddo e molto duro, evidenziando come i brigatisti avessero agito per primi ferendo gravemente il maresciallo Benà. Dal colloquio e dal tono risentito della replica del generale, Bocca ritenne che in ogni caso gli avvenimenti in via Fracchia non si fossero svolti esattamente secondo la ricostruzione ufficiale dell'Arma. Permangono peraltro ancora dubbi sulle reali finalità dei carabinieri nell'azione di via Fracchia; accanto all'interpretazione che considera l'irruzione e la sua metodica connessa alla volontà di dimostrare la potenza dell'Arma, di rinsaldare il suo prestigio presso il mondo politico per favorire anche l'adozione di una "legge sui pentiti" già preparata dal Presidente del Consiglio Francesco Cossiga e di vendicare i colleghi uccisi dalla colonna genovese nei mesi precedenti, si è ventilata anche un'altra ipotesi. L'eventualità che il generale dalla Chiesa fosse convinto di trovare nell'appartamento, sede di una recente "Direzione Strategica", documenti di grande importanza sul caso Moro, forse l'originale del cosiddetto "Memoriale" o le bobine degli interrogatori, da mantenere strettamente riservati. Da questo fatto deriverebbe in parte lo stretto riserbo iniziale e il rifiuto per molti giorni di permettere l'accesso di magistrati e giornalisti. Di questi documenti tuttavia non c'è alcuna traccia nel materiale sequestrato. Lo storico Marco Clementi ha presentato nel 2007 una sintesi equilibrata che tiene conto di tutta la documentazione disponibile. Egli considera come in linea generale fosse vero che le disposizioni delle Brigate Rosse prevedessero di non opporre resistenza e di arrendersi nel caso si fosse stati sorpresi all'interno di appartamenti, ma rileva che in precedenti occasioni si erano ugualmente scatenati conflitti a fuoco, anche con morti e feriti dalle due parti, nel corso di irruzioni delle forze dell'ordine, a causa del tentativi dei militanti di evitare l'arresto. Egli segnala inoltre come tutti i brigatisti risultarono colpiti, secondo la perizia medico-legale, dal dietro in avanti e dall'alto in basso, il che sarebbe stato possibile solo se effettivamente essi si fossero mossi carponi lungo il corridoio. L'unico brigatista che avrebbe sparato fu Lorenzo Betassa che esplose un solo colpo dalla fine del corridoio prima dell'inceppamento della sua pistola. Questo proiettile avrebbe raggiunto all'occhio il maresciallo Benà; Clementi ritiene questa azione del brigatista illogica ma in linea teorica, considerando l'ora, le circostanze e l'estrema tensione, possibile. Le ricostruzioni dei carabinieri riferiscono in modo sostanzialmente concorde di una reazione generale con tutte le armi a disposizione dei quattro o cinque uomini presenti all'ingresso in risposta all'azione ostile di Lorenzo Betassa. L'autore ritiene in conclusione che è verosimile che non sia trattato di una premeditata eliminazione fisica dei quattro terroristi per rappresaglia, ma che la metodica scelta per l'irruzione e la violenta e generale reazione dei carabinieri, farebbero ritenere che le disposizioni operative delle autorità superiori prevedessero la possibilità di un conflitto a fuoco e non si curassero molto di catturare vivi gli occupanti dell'appartamento in via Fracchia 12, interno 1.

L'inchiesta del 2017. Nel 2017 la procura di Genova, a seguito dell'esposto presentato dal ricercatore universitario Luigi Grasso (nel 1979 accusato di terrorismo e successivamente prosciolto con formula piena), ha aperto un fascicolo di inchiesta con l'ipotesi di omicidio in riferimento ai fatti relativi alla morte del brigatista Riccardo Dura.

Br “imprendibili”, il commento di Giuliano Galletta dell'8 dicembre 2013 su "Il Secolo XIX". Il 24 gennaio del 1979, otto mesi dopo l’omicidio di Aldo Moro, la colonna genovese delle Brigate Rosse uccide il sindacalista Guido Rossa. All’attentato partecipano Riccardo Dura, Lorenzo Carpi, Vincenzo Guagliardo. Dura, 29 anni, è il capo del gruppo e ha già partecipato agli omicidi del magistrato Francesco Coco e del commissario Antonio Esposito, morirà un anno dopo, il 28 marzo 1980, sotto il fuoco dei mitra dei carabinieri del generale Dalla Chiesa nel blitz in un appartamento di via Fracchia a pochi metri di distanza dal luogo in cui è stato assassinato Rossa. Con Dura perdono la vita altri tre terroristi: Annamaria Ludmann, 32 anni, Lorenzo Betassa, 27 anni, e Piero Panciarelli, 25 anni. Intorno a queste due date, per molte ragioni fatidiche, si costruisce il racconto degli anni del terrorismo a Genova che Andrea Casazza, giornalista del Secolo XIX, ha disegnato nel suo libro “Gli imprendibili. Storia della colonna simbolo delle Brigate Rosse” (DeriveApprodi, 25 euro), da mercoledì in libreria. Quattrocentonovanta pagine in cui con una acribia al limite dell’iperrealismo Casazza ricostruisce quegli anni scegliendo un punto di vista preciso e (relativamente) limitato, quello degli atti giudiziari: verbali di interrogatori, perquisizioni, arresti, rinvii a giudizio, sentenze, atti parlamentari messi a confronto con le cronache giornalistiche dell’epoca e con importanti inserti biografici dei protagonisti della lotta armata. Nel libro il linguaggio burocratico di poliziotti e magistrati, lo stile ripetitivo e spesso agghiacciante dei comunicati Br, le metafore melodrammatiche dei cronisti di nera, i mea culpa e le autocritiche, a volte sinceri, dei brigatisti dal carcere, ci restituiscono un microcosmo, in fondo composto da non più di un centinaio di persone, che agisce in uno scenario che probabilmente, oggi, agli occhi di un ventenne, appare di un altro pianeta. Su quel tragico palcoscenico recitano la loro parte i terroristi, vertici e manovalanza, i cattivi maestri, i fiancheggiatori, i simpatizzanti, i militanti dell’estrema sinistra estranei alla lotta armata ma stritolati nel meccanismo delle leggi speciali, i pentiti, i dissociati, i pentiti di essersi pentiti, le spie, gli infiltrati, gli agenti provocatori. Di ciascuno Casazza racconta, a oltre trent’anni distanza, la storia, grande o piccola, miserabile o dignitosa. Il libro copre un arco temporale di circa un ventennio, dal caso della banda XXII Ottobre (1969) alla conclusione dei processi alla colonna genovese negli anni Ottanta, passando attraverso i rapimenti Sossi e Costa. Ma gli anni centrali sono quattro, dal 1977, quando la colonna genovese si costituisce, al 1980, quando inizia a essere smantellata grazie alle dichiarazioni dei pentiti. Sul filone principale della storia della colonna genovese si innesta un’altra vicenda, contigua e parallela, che coinvolge un gruppo di militanti dell’area dell’Autonomia genovese (fra cui Giorgio Moroni, Luigi Grasso. Mauro Guatelli e Massimo Selis) arrestati nel blitz del 17 maggio 1979, con l’accusa di essere la struttura portante delle Br a Genova, assolti, in primo grado, con la sentenza che Dalla Chiesa stigmatizzerà con il celebre commento “l’ingiustizia che assolve”, condannati in Appello e infine totalmente scagionati, nel 1993, dopo che fu dimostrato che le prove a loro carico erano state costruite ad arte per “incastrarli”. Lo Stato li risarcirà, per ingiusta detenzione, con un miliardo di lire. «La principale critica che mi attendo è che nel libro si parla molto dei “carnefici” e poco delle vittime - spiega Casazza - il che è, in buona sostanza, vero. Credo però che la storia di quel periodo sia già stata da più parti raccontata, come dire, dalla prospettiva delle vittime. Il tentativo del mio libro, è diverso: è quello di raccontare l’epoca del terrorismo non come una “semplice” deriva criminale ma come un periodo che ha avuto per protagonisti uomini e donne mossi da ragioni politiche su una strada che si sarebbe ben presto macchiata di troppo, inutile e ingiustificabile sangue».

Per chi ha vissuto quegli anni la lettura del libro riporterà alla luce gli stessi schieramenti e contraddizioni dell’epoca, per gli altri c’è il rischio che l’enorme mole di dettagli, a volte microscopici, facciano smarrire la visione d’insieme. Casazza non ha la pretesa di sostituirsi agli storici ma mette sotto i nostri occhi, da buon giornalista, una lunga teoria di fatti. E non è poco.

Br e via Fracchia: Gad Lerner tra i possibili testimoni, scrive il 28 Agosto 2017 Levante News. Il 28 marzo 1980 irruzione delle forze dell’ordine nel covo dei brigatisti di via Fracchia a Genova: restarono uccisi quattro terroristi tra cui Riccardo Dura; il maresciallo dei carabinieri Rinaldo Benà, sorpreso dal fuoco dei brigatisti, perse un occhio. Fu un durissimo colpo inferto ai Br che secondo una teoria non confermata erano nate a Chiavari ed avevano due covi a Recco e nelle cui fila era Baistrocchi, un camogliese tuttora latitante che sembra si sia rifatto una vita a Cuba. Sulla morte dei quattro ci fu un’inchiesta, chiusa il 29 febbraio del 1984, senza che i giudici rilevassero irregolarità nel blitz. Solo nel febbraio del 2004 dagli archivi della polizia giudiziaria saltano fuori le immagini dell’irruzione che pubblica il Corriere Mercantile. Oggi un esposto ha riaperto l’inchiesta perché Riccardo Dura, ex “garaventino” tormentato da una situazione familiare difficile, fu ucciso con un colpo alla nuca. Ne parla oggi sul Secolo XIX, il giudice Luigi Carli (che a Chiavari indagò l’ex sindaco Vittorio Agostino) che si occupò dell’inchiesta seguita al blitz di via Fracchia. Testimone della nuova inchiesta potrebbe essere il giornalista Gad Lerner, all’epoca cronista politico de “Il Lavoro” (diretto da Giuliano Zincone) che si recò in via Fracchia riportandone un’idea ben precisa.

Blitz di via Fracchia, inchiesta per omicidio. Esposto ai pm per riaprire il caso, scrivono Alessandra Costante e Tommaso Fregatti su "Il Secolo XIX" il 27 agosto 2017. Via Fracchia, 28 marzo 1980: grazie alle prime “confidenze” del brigatista Patrizio Peci, i carabinieri del nucleo antiterrorismo fanno irruzione in un appartamento al civico 12. A terra restano quattro terroristi della Brigate Rosse. Sono: i torinesi Lorenzo Betassa e Pietro Panciarelli; e i genovesi Annamaria Ludmann, che è anche la padrona di casa, e Riccardo Dura. A 37 anni di distanza da quel blitz, la Procura della Repubblica di Genova ha aperto un fascicolo per omicidio “in danno di Dura Riccardo”. Inchiesta affidata ai magistrati genovesi dell’antiterrorismo ai quali, nei giorni scorsi, è stato trasmesso un esposto contro ignoti. “Quello di Dura è stato un omicidio volontario (...) venne ucciso con un solo colpo alla nuca” si legge nella denuncia presentata da Luigi Grasso, ricercatore che nel 1979 venne accusato di terrorismo e negli anni successivi completamente prosciolto. Un “cold case” per il quale la Procura di Genova si muove con circospezione. Per il momento l’apertura del fascicolo è un atto dovuto in seguito ad un esposto: nei prossimi giorni i magistrati valuteranno come e se procedere.

Nei primi anni del Duemila dagli archivi giudiziari di Genova, Luigi Grasso riesce ad ottenere il fascicolo di via Fracchia. Insieme ad altri tre genovesi nel 1979, Grasso era stato accusato di terrorismo, arrestato, inquisito, mandato a processo e infine assolto e pure indennizzato per il lungo calvario giudiziario. Ma come “imputato in un procedimento collegato” alla fine riesce a mettere le mani sulle carte. C’è tutto. Ci sono i referti delle autopsie giudiziarie eseguite dai professori Renzo Celesti e Aldo Franchini. C’è la ricostruzione dei fatti spiegata da Michele Riccio, il capitano che guidò l’assalto e che era uomo di fiducia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa al quale era stato affidato il compito di condurre la battaglia contro le Br e che stava raccogliendo le dichiarazioni del terrorista Patrizio Peci. E c’è la richiesta di archiviazione che il 29 febbraio 1984 venne firmata dal sostituto procuratore della Repubblica Luigi Carli e che convalida le indagini del giudice istruttore. Per la Procura dunque, come aveva testimoniato Riccio, è un blitz finito male: i carabinieri intimano la resa, i brigatisti fingono di arrendersi e invece sparano. Il maresciallo Rinaldo Benà resta ferito ad un occhio e nell’appartamento si scatena un inferno di fuoco.

Ma è sui referti delle autopsie che Grasso si ferma: Ludmann, Betassa e Panciarelli furono falciati da numerosi colpi di arma da fuoco. Riccardo Dura, allora trentenne, no: lo uccide un solo proiettile alla testa, «penetrato in regione occipitale sinistra». Quanto alla distanza da cui viene esploso il proiettile, Franchini e Celesti parlano di «una distanza superiore ai 30 centimetri».

Il resoconto dei carabinieri confermato dall’inchiesta della magistratura, in verità non fu mai accettato dai reduci della lotta armata. Troppi fatti contribuirono ad alimentare in quei mesi e negli anni successivi interpretazioni differenti. Subito dopo il blitz, i carabinieri strinsero un cordone di sicurezza intorno all’appartamento di via Fracchia: per giorni nessuno potè entrare nell’alloggio in cui vennero trovate armi e documenti delle Br (volantini e risoluzioni, in tutto oltre 700 reperti) e per giorni l’identità di Riccardo Dura restò ignota anche ai militari finché non furono le stesse Br a renderne noto il nome. Il 29 marzo un documento delle Br accusava i carabinieri di aver «trucidato» volontariamente i militanti dell’organizzazione. Per Mario Moretti, addirittura, i militari avevano a disposizione le chiavi dell’alloggio trovate in tasca a Peci.

Un’inchiesta risveglia i “fantasmi” di Via Fracchia, crocevia della nostra democrazia, scrive Fabrizio Cerignale il 27 agosto 2017 su "Genova 24". “Che era stata una specie di esecuzione lo dicevano tutti nei giorni dopo il massacro”. Chi in Via Fracchia vive da sempre ricorda così quel blitz dei carabinieri, 37 anni fa, che portò alla morte di quattro brigatisti rossi e alla prima vera dimostrazione di forza dello stato nei confronti della lotta armata. D’altra parte come dimenticare un quartiere messo sotto assedio per buona parte della notte, un strada praticamente militarizzata, gli accessi al palazzo bloccati per diversi giorni. E così nessuno dei residenti si stupisce se oggi, anche se a 37 anni di distanza dal blitz nel covo Br, la procura della repubblica di Genova, in seguito alla presentazione di un esposto denuncia di un cittadino, Luigi Grasso, ricercatore universitario che nel 1979 venne accusato di terrorismo e negli anni successivi completamente prosciolto, ha aperto un fascicolo per omicidio “in danno di Riccardo Dura”, uno dei terroristi uccisi. Secondo l’esposto, frutto di una minuziosa ricerca tra gli atti giudiziari, quello di Dura, che viveva nell’appartamento in clandestinità con il nome di battaglia di Roberto, sarebbe stato un omicidio volontario: “Venne ucciso – si legge nell’esposto – con un solo colpo alla nuca”. La riapertura dell’inchiesta, però potrebbe finalmente ricostruire una pagina importante della nostra storia facendo luce, sulla colonna genovese delle Brigate Rosse, considerata una delle più importanti. L’eventuale inchiesta, che sarà affidata dai magistrati ai poliziotti dell’antiterrorismo, potrebbe quindi chiarire i tanti interrogativi, e i tanti silenzi, attorno a questa vicenda. Dalla vera ricostruzione di quanto accaduto durante il blitz, guidato dal Maresciallo Riccio, fino agli eventuali ritrovamenti di materiale nel covo, sui quali si è ciclicamente fantasticato ma non si è mai avuto una parola definitiva. Un’inchiesta che, forse, permetterà anche di far tacere i “fantasmi” di via Fracchia, una strada semplice, in un quartiere della Genova operaia diventata crocevia dei destini della nostra democrazia. Proprio a “cento passi” dal covo, in un parcheggio poco lontano dai giardini dove e’ stata collocata la stele in memoria, c’era l’auto dove e’ stato trovato il corpo di Guido Rossa. E sarebbe stato proprio Riccardo Dura, il terrorista per il quale si riapre l’inchiesta, a schiacciare il grilletto e a sferrare il colpo fatale che uccise il sindacalista.

A Via Fracchia ci fu uno scontro a fuoco come dichiarato ufficialmente dai Carabinieri del Generale Dalla Chiesa o venne eseguita la condanna a morte di quattro brigatisti? Scrive Valerio Lucarelli autore di "Buio Rivoluzione".

Diario di viaggio. Il Disertore. E dica pure ai suoi, se vengono a cercarmi, che possono spararmi, io armi non ne ho. Boris Vian››  [Ascoltala da Ivano Fossati]

28 marzo 1980. Ore 2.42. All’interno 1 del civico 12 di via Fracchia Riccardo Dura, Annamaria Ludman, Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli stanno dormendo. La colonna genovese delle BR sta per essere annientata. Da giorni i carabinieri sono sulle loro tracce grazie alle rivelazioni del pentito Patrizio Peci. Dalla Chiesa non vuole più attendere e ordina il blitz. Una trentina tra uomini del reparto antiterrorismo, carabinieri e personale del Nucleo operativo irrompe nell'appartamento. Giù la porta, i primi spari. Il maresciallo Rinaldo Benà viene ferito alla testa, colpito forse da fuoco amico. Ai brigatisti, sorpresi nel sonno, non viene dato il tempo per pensare. Molta parte dell'opinione pubblica ebbe l'impressione si fosse trattata di una esecuzione. Giuliano Zincone, editoralista del “Corriere della sera”, direttore nel 1980 del quotidiano genovese “Il Lavoro”: "Quel giorno il giornale titolò: “Non è una vittoria”. Sostenevo la teoria che lo Stato non doveva rispondere sullo stesso piano dei terroristi. Giorgio Bocca: "Intervistai il generale Dalla Chiesa alcuni mesi dopo il blitz. Gli chiesi se ai quattro brigatisti fu data la possibilità di arrendersi o furono uccisi subito. Non mi disse chiaramente che li avevano ammazzati ma il tono usato per parlare rivelava intransigenza, durezza. Per me, al di la delle parole, non andò come era stato raccontato nella versione ufficiale". Nei mesi precedenti a Genova le BR avevano ucciso quattro carabinieri. Forse Via Fracchia fu la risposta decisa dal Generale Dalla Chiesa. Lo Stato gridava: "Ora in guerra ci siamo anche noi".

Ringrazio il Corriere Mercantile per avermi concesso di pubblicare l'inchiesta di Andrea Ferro sui fatti di Via Fracchia. Documenti straordinari e interviste che lasciano al lettore il compito di formarsi una libera interpretazione dei fatti.

Giovedì 12 Febbraio 2004 Corriere Mercantile. LE PRIME PAGINE DEI QUOTIDIANI CON LA NOTIZIA DEL BLITZ. Sui giornali una città sotto shock.

Il mistero della bomba a mano, scrive Andrea Ferro. L’orologio fermo alle 2,42, l’ora del conflitto a fuoco «Quattro terroristi uccisi in un covo vicino alla casa di Rossa», strillava così la prima pagina del Corriere Mercantile nell’edizione del pomeriggio di venerdì 28 marzo 1980. Sotto due grandi foto: il palazzo dove c’era il covo dei terroristi e una bara con all’interno uno dei quattro terroristi uccisi. Nell’occhiello, in alto, le altre notizie principali della cronaca: Stanotte alle 4.30 i carabinieri hanno fatto irruzione in un appartamento di via Fracchia. Sotto, nel sommario: ferito gravemente nel conflitto a fuoco un maresciallo. Gigantesca perquisizione casa per casa al Carmine, centro storico e Prà. Il resoconto del blitz era raccontato freddamente, come si fa sempre quando le notizie sono così importanti e chiare da non avere bisogno di aggettivi superflui: «Quattro terroristi sono rimasti uccisi in un appartamento covo situato in via Fracchia, nel quartiere di Oregina. E’ la stessa strada dove, all’alba del 19 gennaio dello scorso anno, venne assassinato il sindacalista Guido Rossa. Nel corso della sparatoria è rimasto ferito il maresciallo Rinaldo Benà». Nelle pagine successive altri titoli a tutta pagina: «Sembravano marziani, poi il crepitio dei mitra...». Poi un titolo sulla morte della donna brigatista: «Quella professoressa la vedevo spesso. Era una donna tranquilla...». «La gente sbigottita ricorda Anna Ludmann terrorista insospettabile». Spazio anche al ritratto del maresciallo ferito e a un particolare che tutti avevano subito notato: Dalla finestra di casa Rossa a guardare il blitz dei carabinieri è spuntata la moglie di Guido Rossa che poi, accortasi della presenza dei giornalisti, si è rifugiata nell’abitazione.

Annamaria Ludman aveva 32 anni. L’appartamento-covo di via Fracchia era intestato alla sua famiglia. Nella foto, agghiacciante, che pubblichiamo in questa pagina il corpo della donna è in posizione prona, nel corridoio. Tra il volto e l’avambraccio destro si nota una bomba a mano, una lente e la stanghetta degli occhiali. In corrispondenza della testa c’è una lunga striscia di sangue che corre parallela al muro e copre completamente il pavimento “alla genovese”. Da altre immagini si evince che le gambe erano distese nel ripostiglio e il cadavere era in posizione perpendicolare rispetto al corridoio. Ma c’è un altro elemento, molto importante, per la ricostruzione “storica” dei fatti. Al polso destro Annamaria Ludman portava un orologio con il cinghino d’acciaio. Da un semplice ingrandimento della foto si vede, chiaramente, che le lancette sono ferme alle due e quarantadue. E’ la prova inequivocabile che il blitz scattò in quegli istanti. Nella scarna ricostruzione ufficiale non fu mai specificata l’ora esatta dell’irruzione.

LA BORSA ARSENALE - Nell’altro foto che pubblichiamo in questa pagina è ritratta una borsa (presumibilmente di tela) con la cerniera completamente aperta. All’interno si nota la canna di un’arma lunga, presumibilmente un mitra. Sotto si intravedono altre armi e munizioni (ma lo si deduce più chiaramente dalla nota posta a margine della foto inserita nel dossier dei carabinieri). La borsa si trovava in fondo al corridoio all’altezza dell’ingresso del salotto. Così come è stata “repertata” dai carabinieri si evince che qualcuno dei quattro brigatisti l’avesse trascinata in fondo al corridoio e aperta con l’intento di impugnare le armi e fare fuoco contro il commando dei militari.

LA STORIA DELLA LUDMAN - Annamaria Ludman nasce a Chiavari il 9 settembre 1947, si trasferisce a Genova nel 1963 dove si iscrive alla Scuola Svizzera. Figlia di un capitano di lungo corso in pensione, si diploma alle “Magistrali” e poi si iscrive a vari corsi di lingue. Per un’estate lavora anche come interprete all’hotel “Regina Elena” di Santa Margherita. Nel 1970 si sposa nella chiesa di Oregina, ma il matrimonio dura pochi mesi. Dopo la separazione torna a vivere con i genitori. Nel frattempo lavora come segretaria in una ditta di spedizione di Carignano e nel ’71 passa all’Italimpianti dove resta impiegata meno di due anni. Poi, per un breve tempo, gestisce con la famiglia una tabaccheria in via Siffredi, a Cornigliano. Per alcuni mesi si trasferisce a Como, sempre come segretaria. Torna a Genova. E’ il 1978, trova un impiego al Centro culturale italo-francese Galliera, in via Garibaldi. Il padre, Corrado Ludman, muore.

IL RITORNO A CHIAVARI - Annamaria e la madre tornano a vivere a Chiavari. La giovane è costretta a fare la pendolare tra Genova e la Riviera di levante. Nel giugno del ’79 si licenzia dal Centro Galliera nonostante godesse di grande stima da parte dei colleghi e dei dirigenti. Motiva la sua decisione per ragioni economiche, stipendio troppo basso. Ma da quel momento si sa più poco di lei. Alle amiche che incontra parla genericamente di un lavoro in porto, come segretaria in una ditta di spedizioni. Poi la mattina del 28 marzo il suo nome è il primo a trapelare tra quelli degli occupanti del covo. Di lei parlano con affetto i vicini di casa che mai avrebbero immaginato la verità. Nel gergo dei brigatisti Annamaria Ludman era rimasta fino all’ultimo una militante “irregolare”, cioè non era entrata in clandestinità.

IL RICORDO DELL’AMICA - In una lettera pubblicata sul “Il Manifesto” alcuni giorni dopo il blitz Liliana Boccarossa aveva ricordato così l’amica Annamaria Ludman: «Certi ti vedranno come un mostro, altri ti hanno già messo sull’altare insanguinato dei “combattenti comunisti”. Io non so se hai ammazzato; so solo che ti hanno ammazzato e che questo poteva essere evitato. Ho pensato, ho sperato che tu non sapessi niente di quello che succedeva nella casa di Oregina. Mi si dice che è impossibile, che c’era un arsenale, che sei morta con una bomba in mano. Allora? Allora non capisco, come non capiscono quelli che ti hanno conosciuto... Io ti ricorderò sempre per quella che eri: una brava e simpatica donna incasinata, fregata dal perbenismo del tuo ambiente, in quella maledetta città, fregata dall’ultima moda in fatto di perbenismo totale e rassicurante: il terrorismo». ANDREA FERRO

Tessandori: «Fu la fine delle Brigate Rosse» Vincenzo Tessandori, inviato de “La Stampa”, ha seguito sin dagli albori degli anni di piombo la storia delle Brigate rosse. E’ l’autore di “Br, Imputazione: banda armata”, una ricostruzione certosina degli anni di piombo firmati dalla stella a cinque punte. Cosa accadde in via Fracchia quel 28 marzo di ventiquattro anni fa? «Dobbiamo, forzatamente, accettare la ricostruzione ufficiale. D’altronde non ci sono testimoni o elementi sui quali riscrivere i fatti». Ma non hai avuto dubbi? «Qualche perplessità è inevitabile, è il nostro mestiere sospettare. Certamente quattro morti ammazzati pesano e inducono interpretazioni di vario tipo». Per esempio? «L’interrogativo di fondo è questo: che obiettivo avevano i carabinieri? Mi spiego: Dovevano prenderli vivi o morti? E secondo lei? «Impossibile stabilirlo, tantopiù adesso. E’ indubbio che quella fu un’operazione ad altissimo rischio. Dentro c’erano uomini armati. Gente che aveva sparato, ammazzato. Pensare ad una loro reazione non è certo pura fantasia». E infatti all’interno del covo i carabinieri sequestrarono parte del micidiale arsenale della colonna genovese delle Brigate rosse. Resta il fatto che quel blitz segnò la sconfitta militare, decisiva, del “partito armato” «Da anni le Brigate rosse avevano dichiarato guerra allo Stato. E fino al sequestro Moro lo Stato aveva risposto in maniera blanda. Se l’affaire-Moro fu una vittoria politica delle Br, contemporaneamente scatenò una vera controffensiva. Efficace sul piano investigativo e repressivo «I fatti di via Fracchia presentarono uno scenario nuovo. Lo Stato adesso può uccidere per difendersi, conduce sul serio una guerra. Cioè brigatisti, potete morire». E infatti da quel momento le Brigate rosse colarono a picco «Finché il terrorismo era “vincente” erano più facile attirare nuove leve verso la lotta armata. Quando invece si inizia a perdere, i più scappano. E per le Brigate rosse dopo via Fracchia andò così. Sul piano del reclutamento le conseguenze di quel blitz furono più forti della notizia della cattura e della successiva “collaborazione” di alcuni capi brigatisti». Tornando alla ricostruzione dei fatti e ai dubbi che accompagnarono la versione ufficiale. Prima di quell’irruzione e poi dopo altre operazioni di polizia furono portate a termine con un minore spargimento di sangue. Invece in via Fracchia... «Mi viene in mente un’operazione, diciamo così analoga, finita però in maniera diversa. Penso al sequestro Dozier, un anno dopo. Quando la polizia fece irruzione nel covo-prigione di Padova non fu sparato nemmeno un colpo» Ma neppure da parte dei brigatisti... «Talvolta è una questione di addestramento. Esistono tradizioni operative e armi diverse. Ma poi c’è il caso. Qualcuno ha scritto “in amore e in guerra non esistono regole”. Penso che avesse ragione». [Andrea Ferro]

Carabinieri e cronisti nei pressi del portone del caseggiato di via Fracchia Zincone: «Pensammo subito a un’esecuzione» Giuliano Zincone, editoralista del “Corriere della sera”, nell’80 era direttore de “Il Lavoro”, voce della sinistra genovese e quotidiano molto attento ai fenomeni dell’eversione. Cosa ricorda di quella mattina di ventiquattro anni fa? «Ricordo che un confidente mi informò di quello che era successo in via Fracchia. Invia sul posto due cronisti di razza, Gad Lerner e Manlio Fantini. Quando tornò in redazione Gad era sconvolto». Quale fu la prima impressione? «Ci convincemmo subito che era stata un’esecuzione. In redazione era l’interpretazione prevalente». Ma su quali elementi ne foste così certi? «Quattro morti, tutti brigatisti, ci sembrarono subito troppi. Non era possibile pensare al conflitto a fuoco come invece sostenevano i carabinieri». E infatti il suo fondo quel giorno suscitò grande scalpore. «Titolammo: “Non è una vittoria”. Sostenevo la teoria che lo Stato non doveva rispondere sullo stesso piano dei terroristi. Una posizione che suscitò critiche pesanti all’interno di una certa sinistra, tra i nostri lettori. Non mancarono le polemiche». Però all’interno del covo fu sequestrato un autentico arsenale, alcuni dei brigatisti uccisi vennero indicati come i responsabili di numerosi fatti di sangue. «D’accordo ma nostra convinzione era che i carabinieri avrebbero potuto agire in maniera diversa. Scoprimmo infatti che la zona attorno al covo era presidiata da giorni da un esercito di carabinieri. Ritenevamo che potevano esserci altri modi, meno cruenti, per portare a termine quel blitz. Non potevano credere che una forza armata moderna, come l’arma dei carabinieri, non avesse la capacità e i mezzi per intervenire in un altro modo». In sostanza per i carabinieri era meglio ucciderli che prenderli vivi? «Il sospetto che le cose fossero andate in maniera diversa rispetto alla versione ufficiale derivava dal fatto che a Genova nei mesi precedenti i brigatisti avevano ucciso quattro carabinieri». Una vendetta rabbiosa? «Non potevano non pensarla così. Quando Gad Lerner ebbe la possibilità di entrare in quella ci raccontò di aver visto fori di proiettile ovunque. Una carneficina, insomma. In seguito alla posizione assunta dal nostro giornale Dalla Chiesa si rifiutò di incontrarmi per tanto tempo, continuò a negarmi interviste». Ma la lotta alle Brigate Rosse non fu contrassegnata solo da blitz sanguinosi. «Certamente. Al di là di quello che accadde in via Fracchia l’operato di Dalla Chiesa e dei suoi uomini fu frutto di un grande lavoro di intelligence. Penso all’opera diplomatica per convincere i pentiti a collaborare. Dimostrarono un’indubbia capacità investigativa».

Quella telefonata nel cuore della notte, scrive Mimmo Angeli. La telefonata arrivò nel cuore della notte. L’apparecchio di casa squillò alle tre. Una voce chiara dall’altra parte del filo disse: «Direttore, c’è stata una strage di brigatisti in via Fracchia». Poi il clic metallico interruppe il contatto. Era l’alba del 28 marzo 1980. Rimasi di sasso. Per un attimo pensai a uno scherzo di cattivo gusto. Qualche minuto dopo telefonai ai colleghi Attilio Lugli, Alfredo Passadore e al fotografo Luciano Zeggio, trasmettendogli testualmente il contenuto del messaggio telefonico. Tutti eravamo scettici ma, nel dubbio, diedi disposizione di andare a vedere. Erano i tempi delle Br scatenate in città, con i loro messaggi e gli attentati sanguinosi. I giorni della paura, in cui vivevo con la scorta e l’incubo delle minacce telefoniche, scritte, sussurrate da chi aveva intercettato misteriosi dialoghi al bar. I giorni in cui uscivi di casa e non eri sicuro di tornare vivo in famiglia. Quella telefonata con l’interlocutore preciso, calmo, telegrafico poteva essere una bufala come una tremenda verità. Quando i colleghi arrivarono per primi si trovarono di fronte a una scena impressionante. Dappertutto carabinieri in borghese e in divisa. I colleghi non ebbero nemmeno il tempo di dire «Siamo giornalisti» che si trovarono faccia al muro con i mitra spianati. «Fermi, non muovetevi» ripeteva un tipo alto, con i capelli biondi che gli arrivavano alla schiena, l’abbigliamento da tupamaro, gli occhi gelidi. Era uno degli uomini del generale Dalla Chiesa protagonisti della tragica irruzione nell’appartamento di via Fracchia. Un cordone ferreo attorno al palazzo. L’ordine perentorio: «Nessuno può entrare» veniva ripetuto seccamente con monotonia quasi ossessiva dai carabinieri in borghese. Neppure il vicequestore Arrigo Molinari riuscì a entrare; anzi, con decisione, venne invitato ad allontanarsi. Quel “muro” davanti alla casa della strage venne incrinato dieci giorni dopo quando, per soli tre minuti, i giornalisti furono ammessi a entrare nell’appartamento dove erano stati uccisi i quattro brigatisti. Un sopralluogo preparato per evitare l’impatto con la cruda realtà di quella notte. A distanza di ventiquattro anni, quello che accadde durante l’irruzione degli uomini del reparto speciale è testimoniato dalle foto inedite che il nostro giornale pubblica oggi. Questo documento è l’epilogo di uno scontro tra i brigatisti e lo Stato. La parola finale dopo lunghe indagini fatte anche di clamorosi insuccessi. Quella notte, ci sembra ovvio, gli uomini di Dalla Chiesa andarono a colpo sicuro. Quando fecero irruzione nell’appartamento, erano preparati alla reazione di brigatisti armati fino ai denti e decisi a vendere cara la pelle. Il maresciallo Bennà, componente il commando, perse un occhio colpito da da una pallottola. Non si è mai riusciti a capire se fosse partita dalla pistola di un brigatista o invece rimbalzata dal mitra di un carabiniere. Un fatto è certo: i quattro terroristi erano armati fino ai denti e uno aveva persino una bomba a mano che, evidentemente, non ha avuto il tempo di usare. Queste foto servono a non dimenticare quei giorni pieni di rabbia e sangue. Sì, perché nel nostro Paese sono in molti ad avere la memoria corta. Quegli anni di piombo hanno lasciato una lunga scia di sangue. La nostra città ha pagato un forte tributo di vite umane, di attentati, persino il rapimento di un magistrato. Di Riccardo Dura, per esempio, si disse che aveva la sua lunga lista di “condannati”, che era deciso a continuare a colpire, uno dopo l’altro. L’irruzione dei carabinieri venne preparata con molta cura e fu il frutto di lunghe indagini, appostamenti e di qualche “dritta” ricevuta. Quella nonnina, intestataria dell’appartamento, in realtà risultò poi una basista lucida e spietata. Quel covo nascosto tra un pugno di case popolari sulle alture della città, a due passi dall’abitazione del sindacalista Cgil Guido Rossa, ucciso dai terroristi, nascondeva il gruppo di fuoco delle Br genovesi. La strage rimane un fatto drammatico: una risposta a un atto di guerra, come avevano rivendicato i brigatisti nei loro proclami. In queste drammatiche immagini, la fine di quella guerra. Forse. Mimmo Angeli

Le foto di un blitz storico che vennero tenute nascoste, scrive Andrea Ferro. La pubblicazione delle foto scattate dopo il blitz di via Fracchia rappresenta un documento storico. Ventiquattro anni dopo, per la prima volta, vengono mostrate le immagini del più discusso blitz compiuto dai carabinieri contro le Brigate rosse. La morte dei quattro terroristi, i lunghi silenzi prima della ricostruzione ufficiale indussero sospetti ed interpretazioni diverse. Non è nostra volontà proporre questo eccezionale documento con la presunzione di riscrivere un tragico capitolo di storia contemporanea, cercare elementi che possano avvalorare dubbi o confermare, pedissequamente, la verità di Stato. Siamo consapevoli che queste foto (alcune agghiaccianti e simboliche al tempo stesso) possano essere “lette” con occhi diversi schiacciando l’angolo di visuale su posizioni preconcette. Non ci interessa inseguire il sensazionalismo con l’ansia di trovare il particolare capace di infiammare lo scoop a tutti i costi. L’unico intento che ci spinge a riaprire questa pagina è raccontare con il supporto, inedito, delle immagini i fatti inserendoli nel contesto di vita e di morte entro i quali sono maturati. Succedeva ventiquattro anni fa, ma forse sembra passato già un secolo, in una città squassata dal piombo, dall’odio, dalla disperazione di decine di famiglie. In queste pagine speciali (la pubblicazione delle foto proseguirà nei prossimi giorni) ospitiamo ricordi, testimonianze, commenti, interpretazioni. [Andrea Ferro.]

COSÌ VENNE “ANNIENTATA” VENTIQUATTRO ANNI FA LA COLONNA GENOVESE DELLE BR. Una fila di cadaveri a terra. L’immagine choc che riassume l’orrore di un’epoca, scrive Andrea Ferro. Quattro cadaveri lungo un corridoio, quattro morti in fila indiana. Quattro vite spezzate, la colonna genovese delle Brigate “annientata”, polverizzata dal piombo dei carabinieri. E’ l’immagine-choc che riassume l’orrore di un’epoca e l’inizio della sua fine anche se altro sangue scorrerà ancora e la campana a morto rintoccherà tante, troppe, volte nel buio della notte della Repubblica. La fotografia che il “Corriere Mercantile” pubblica in esclusiva insieme ad altro materiale inedito, fu scattata all’alba del 28 gennaio del 1980 nell’appartamento di via Fracchia 12/1, a Oregina, poche ore dopo il blitz compiuto dagli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Era la base strategica della colonna genovese delle Br, qualcosa di più di un covo. La fotografia ritrae i corpi (nell’ordine) di Riccardo Dura, Piero Panciarelli, Annamaria Ludman e Lorenzo Betassa. L’istantanea fa parte di un dossier riservato custodito negli archivi dell’Arma dei carabinieri e della polizia. Il rapporto venne redatto dai carabinieri della Sezione rilievi del Nucleo operativo di Genova (in sostanza la squadra di polizia scientifica dell’Arma). E’ la ricostruzione “fotografica” dell’operazione, in tutto una sessantina di immagini, del “conflitto a fuoco” . Copia del dossier venne successivamente inviata all’autorità giudiziaria.

SOPRALLUOGO DEI PM - Il sopralluogo dei magistrati avvenne l’8 aprile, quindi undici giorni dopo il blitz. Nel frattempo l’appartamento fu “sigillato” dai carabinieri e presidiato in forze dai Reparti speciali. Solo dopo il sopralluogo di due sostituti procuratori i giornalisti, per tre minuti, furono accompagnati all’interno del covo “in visita guidata”, tre minuti in tutto. Il tragico epilogo del blitz (testimonianze e commenti sono riportati in altri articoli pubblicati su questa edizione del “Corriere Mercantile”), la “blindatura” dell’appartamento, i mezzi silenzi ufficiali, alimentarono il mistero e la sensazione di trovarsi di fronte ad una pagina tanto decisiva quanto ambigua della lotta al terrorismo. Ma ecco l’analisi delle prime due foto che compaiono a corredo di questo articolo (le altre saranno pubblicate domani e dopodomani).

IL CORRIDOIO - Tre dei quattro corpi sono in posizione prona (Dura, Panciarelli, Ludman). Il cadavere di Betassa (quello ritratto più lontano) è invece supino. Secondo la prima ricostruzione dei fatti trapelata sui quotidiani dei primi giorni successivi al blitz sarebbe stato quest’ultimo a sparare contro i carabinieri. Accanto al suo corpo fu “repertata” una pistola, una calibro nove dalla quale sarebbero partiti numerosi colpi. Un’altra pistola fu trovata sotto il cadavere di Panciarelli, mentre accanto al corpo della Ludman compare una bomba a mano (articolo a pagina 2).

LA PIANTINA DEL COVO - L’appartamento di via Fracchia 12/1 è situato al piano terra del caseggiato. E’ un alloggio composto da ingresso, tre camere, bagno, cucina e ripostiglio. Come documenta il dossier fotografico al momento dell’irruzione dei carabinieri, tre dei quattro brigatisti si trovavano all’interno della camera da letto. Dormivano su una rete matrimoniale e su una brandina-armadio. Il quarto occupante del covo (presumibilmente Betassa) riposava invece nel salotto (il vano più grande dell’appartamento) in un sacco a pelo disteso accanto al divano. Il sospetto che fosse Betassa deriva da una circostanza precisa. Come testimoniano le foto scattate dai carabinieri, era l’unico a indossare un maglione e un paio di pantaloni. Gli altri tre avevano slip e magliette. Panciarelli e Dura erano scalzi, la Ludman calzava un paio di pantofole. Betassa invece portava mocassini con i lacci (non stretti). L’impressione è che svegliato nel sonno dai rumori abbia fatto in tempo a calzare le scarpe a mo’ di ciabatte e poi raggiungere il corridoio. I corpi dei tre uomini sono in posizione parallela al lato lungo del corridoio mentre quello della Ludman è perpendicolare rispetto agli altri cadaveri con le gambe distese nel ripostiglio. I corpi dei quattro terroristi rimasti uccisi nel covo di via Fracchia. Andrea Ferro

NEL RAPPORTO UFFICIALE SI PARLA DI FRAGOROSI COLPI ALLA PORTA INTIMANDO LA RESA. Una doppia verità sull’irruzione in via Fracchia. I fori dei proiettili sul muro della scala dello stabile. Sabato 5 aprile 1980. Dalla sanguinosa irruzione nel covo delle Brigate Rosse di via Fracchia - nata dalle rivelazioni del pentito Patrizio Peci - è passata una settimana. Nel muro alzato dall’Arma su quanto accaduto alle 2 e 30 di venerdì 28 marzo ’80 si apre una breccia. La magistratura rende pubblico il comunicato ufficiale in cui i carabinieri ricostruiscono l’irruzione nel covo brigatista. Poche righe, la cui stesura ha richiesto diversi giorni. Una pagina per descrivere la prima vera risposta alla guerra civile intentata dai terroristi contro lo Stato. «Dalla ricostruzione riferita dai carabinieri sul conflitto a fuoco avvenuto venerdì scorso, 28 marzo - scrivono i vertici dell’Arma - nel corso del quale hanno perso la vita Anna Maria Ludman, Lorenzo Betassa, Pietro Panciarelli, Riccardo Dura ed ha riportato gravi lesioni il maresciallo Rinaldo Benà, è emerso che i medesimi portatisi all’esterno dell’appartamento interno 1 di via Fracchia n. 12, dopo ripetute intimazioni ad aprire rimaste senza esito, nonostante la dichiarata accettazione di resa, senza effetto, colpivano la porta di accesso, che cedeva spalancandosi». I militari, seguendo il protocollo, avrebbero bussato fragorosamente, intimato agli inquilini dell’appartamento di arrendersi. Quindi avrebbero fatto irruzione. Altra lettura dei fatti è stata data nel corso degli anni da vari esponenti di area politica della sinistra, secondo cui i militari fecero irruzione senza annunciarsi, entrando, sparando, uccidendo. Guerra, insomma. «(I militari) Potevano così intravvedere, al di là di una tenda, un corridoio buio, dal quale non proveniva alcun rumore - prosegue la nota dei carabinieri - Intimavano allora agli occupanti la resa ed una voce maschile rispondeva: “Va bene, siamo disarmati”». I militari avrebbero per una seconda volta chiesto ai brigatisti di arrendersi. Lorenzo Betassa avrebbe accettato la resa. Di fatto, sempre secondo i carabinieri, sarebbe stato armato di una calibro nove. Vediamo: «Subito dopo, però, dal fondo del corridoio veniva esploso un colpo di pistola che colpiva al capo il maresciallo Benà» si legge nel comunicato. Il passaggio è drammatico. Lo scontro a fuoco entra nel vivo. «I carabinieri aprivano il fuoco e udivano il tonfo di un corpo che cadeva a terra - scrive l’Arma - Intimata nuovamente la resa, essi potevano notare due uomini e una donna avanzare carponi nel corridoio provenendo da una stanza laterale». Si tratta di Ludman, Panciarelli e Dura (due di loro indicati come sicari delle BR, tra cui autori dell’uccisione dell’operaio Guido Rossa). Si spiegherebbe perché i cadaveri sono stati fotografati in fila nel corridoio. E’ a questo punto che un fascio di luce taglia il buio del covo. «A questo punto era possibile far luce con un faro in dotazione - prosegue la nota - Seguiva, immediatamente, da parte dei tre una brusca reazione, ed i carabinieri, hanno notato che uno dei due uomini impugnava una pistola e la donna una bomba a mano, riaprivano il fuoco con tutte le armi». I brigatisti sono stati freddati. «Cessato il fuoco si constatava che i tre erano stati colpiti a morte». Poi una fredda e stringata analisi del sito: «La pistola dalla quale è partito il colpo che ha colpito il maresciallo Benà è stata trovata con un proiettile in canna percosso, ma non esploso - chiudono i militari - Nell’appartamento, oltre a vario materiale documentale e a strumenti per la falsificazione di carte di identità e patenti, sono stati rinvenuti fucili mitragliatori, bombe da fucile e anticarro, pani di esplosivo plastico e numerose munizioni». L’analisi dell’artiglieria e delle armi leggere effettuata successivamente dimostrerà che furono usate in vari attentati genovesi, tra cui quello contro i carabinieri Tosa e Battaglinia Sampierdarena, Esposito e, come detto, Rossa. [r.c.]

Venerdì 13 Febbraio 2004 Esclusivo Corriere Mercantile. CON LE FOTO DEL CORRIERE MERCANTILE, AL CIVICO 12 SI RIVIVONO I GIORNI PRECEDENTI IL BLITZ E LA NOTTE DI TERRORE. Via Fracchia, ricordi indelebili: «Quella donna in giardino, l’uomo col piccone. Poi gli spari», scrive Simone Traverso. LA TELEFONATA DI ZORA LUDMAN A UN’INQUILINA DELLO STABILE: «E’ mia figlia, lo sapevo» «E’ la casa di mia figlia? E’ l’appartamento di Anna Maria?». «Sì, Zora, è successo qualcosa, non so... forse... sì, è lei». «E’ mia figlia, quella disgraziata, lo sapevo». Sono le 9,30 di venerdì 28 marzo 1980. In via Fracchia, al civico 12, i carabinieri del generale Dalla Chiesa, alle 2,40, hanno fatto irruzione nel covo delle brigate rosse all’interno 1. Lorenzo Betassa, Riccardo Dura, Piero Panciarelli e Annamaria Ludman sono morti, colpiti dai proiettili dei militari. I loro corpi sono riversi nel corridoio dell’appartamento, nel sangue. Gli inquilini dello stabile sono invece chiusi nelle loro case, terrorizzati. E una signora di mezz’età riceve una telefonata dalla mamma della Ludman, Zora. Il tono della donna è teso, la voce rotta dall’impazienza e dalla paura. Il giornale radio ha appena divulgato la notizia dell’irruzione e della sparatoria. La mamma di “Cecilia” (il nome di battaglia della brigatista uccisa in via Fracchia) sa. O almeno ha intuito qualcosa. L’inquilina che rispose alla telefonata di Zora Ludman ricorda con assoluta nitidezza quella drammatica conversazione. «Mi chiese cos’era capitato, ma non sapevo cosa risponderle. Eravamo “prigionieri” nelle nostre abitazioni e sapevamo pochissimo. I carabinieri sorvegliavano l’ingresso e l’atrio, il giardino e le strade del quartiere. Dissi alla mamma di Annamaria che era accaduto qualcosa di brutto nell’alloggio di sua proprietà e lei rispose: «Lo sapevo, è mia figlia, quella disgraziata». Un mese dopo entrammo nell’appartamento e Zora pianse. La sostenni quando stava per svenire, le impedii di vedere la biancheria intima della figlia ancora stesa in bagno. Trenta giorni dopo il blitz tutto era ancora uguale, immutato, congelato. E l’odore del sangue e della morte riempiva la gola e i polmoni, insopportabile». [Simone Traverso]

Le porte in legno sono sempre le stesse, uguali a quella che i carabinieri del generale Dalla Chiesa sfondarono a calci e pallottole la notte del 28 marzo 1980, scrive Simone Traverso. A cambiare semmai, nel palazzo di via Fracchia che ospitò il covo delle Brigate Rosse, sono stati il portone (allora era in legno, oggi è in acciaio scuro) e la tinta alle pareti, passata da un “crema” anonimo a un raffinato impasto di graniglia in marmo. Ventiquattro anni dopo quel drammatico blitz in cui trovarono la morte Annamaria Ludman, Riccardo Dura, Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli, la gente del civico 12 sfoglia il Corriere Mercantile attonita, quasi senza parole. Le fotografie pubblicate in esclusiva dal nostro giornale risvegliano antichi ricordi: il ticchettio della macchina da scrivere (sentito «anche a notte fonda»), quella ragazza bruttina ma con un corpo da pin-up che prendeva il sole in giardino, un uomo misterioso, forse Dura, che scavava con un piccone nell’erba alta delle aiuole, eppoi il fumo dei lacrimogeni, l’odore della polvere da sparo, un carabiniere portato via sanguinante, le urla e i tonfi sordi, «non come quelli dei film, diversi, ma inequivocabilmente spari».

“CECILIA”. La prima immagine che restituisce la memoria degli anni Settanta è quella di Annamaria Ludman (nome di battaglia Cecilia). Ai suoi genitori era intestato l’appartamento in via Fracchia divenuto covo delle Br. Lei vi si stabilì prima da single, poi in compagnia di un giovane: «Credo fosse Luca Nicolotti - racconta uno degli inquilini che chiede, come tutti i suoi vicini, di restare anonimo -. Restarono assieme a lungo, poi lui sparì e lei rimase nuovamente sola. Era una ragazza tranquilla, non proprio bella, ma con un corpo davvero notevole. Ogni tanto si sdraiava in giardino a prendere il sole. La madre ci disse spesso che sua figlia collaborava con istituti scolastici esteri e che ospitava studenti provenienti dalla Francia e dalla Svizzera».

FANTASMI. La gente che oggi abita in via Fracchia non è più la stessa del 1980. Alcuni inquilini sono morti, altri si sono trasferiti. Chi è rimasto è comunque cambiato e sa di vivere accanto ai fantasmi della “rivoluzione fallita”. Fantasmi che quand’ancora erano in vita trascorrevano le notti a scrivere documenti, volantini, rivendicazioni. I condomini di oggi ricordano il racconto di un’anziana signora che pochi giorni dopo la sanguinosa irruzione delle forze dell’ordine disse: «Li sentivo la notte battere a macchina. Scrivevano, scrivevano, sempre. Il mio appartamento era proprio sopra il loro, sopra un salotto adibito a camera da letto, ma pure a pensatoio, perché lì dentro passavano notti e giorni e il ticchettio dei tasti della macchina da scrivere non mi faceva dormire. “Chissà che avranno da mettere nero su bianco”, mi dicevo».

LE VACANZE. Eccezion fatta per la Ludman, i condomini del civico 12 di via Fracchia non videro mai i brigatisti. «Solo in un paio di occasioni - ricorda una signora - vidi un uomo scavare in giardino. Era armato di piccone e stava preparando una buca grossa così». Dalla descrizione, «abbastanza massiccio, senza barba, ma con i capelli mossi e un tatuaggio sul braccio», pare trattarsi di Riccardo Dura, “Roberto”. Tre giorni prima della tragica sparatoria del 28 marzo, un’altra inquilina vide “Cecilia” assieme a “Roberto”: «Li incrociai nell’androne delle scale. Portavano borse pesantissime, quasi le trascinavano. Tenni loro aperto il portone e chiesi: «Si parte per le vacanze?”. La risposta fu un laconico “Eh, sì...”, ma lo sguardo non era certo quello di due amici che s’apprestano a godersi un periodo di riposo».

SIGARETTE. I primi giorni di marzo dell’80 sono quelli in cui gli uomini del generale Dalla Chiesa iniziarono gli appostamenti. Un anziano che vive al 12 di via Fracchia da almeno trent’anni dice di esserne sicuro: «Una mattina andai alla mia auto, ma trovai le portiere aperte, anzi forzate. Dentro, nell’abitacolo, un puzzo di sigarette insopportabile. Ma io non fumavo... dopo il blitz nel covo compresi che i carabinieri avevano usato la mia utilitaria per sorvegliare il palazzo tutta una notte».

L’ASSALTO. Il ricordo più vivo per tutti gli abitanti dello stabile è certamente quello della notte del 28 marzo 1980. Nessuna ricostruzione dettagliata, per carità. Bensì tanti frammenti, ricchi di dettagli, di suoni, rumori, immagini strazianti. «Sentimmo tonfi assordanti, una gran confusione nelle scale, molte urla. Fuori, di fronte al giardino (quello asservito al covo delle Br, ndr), c’erano un sacco di carabinieri con i mitra puntati e di fronte all’ingresso dell’interno 1 altri militari, in borghese. Dalla porta usciva fumo, forse lacrimogeni. C’era puzza di polvere da sparo e sentimmo distintamente i colpi delle armi da fuoco. Poi portarono fuori un uomo. Era disteso su una coperta, perdeva sangue (era il maresciallo Rinaldo Benà, ferito a un occhio da un proiettile, ndr). I suoi colleghi ci dissero di chiamare un’ambulanza. Poi tutto finì e per un giorno intero fummo “prigionieri” nelle nostre case. Vennero Dalla Chiesa e altri pezzi grossi. Non potevamo uscire, ci dicevano ch’era meglio non vedere. L’odore del sangue era pungente e invadeva tutto il palazzo».

BRIVIDI. Gli inquilini del civico 12 seppero che quell’appartamento al primo piano era un covo di brigatisti solo un paio di giorni dopo l’irruzione dei carabinieri. «Un militare venne nella mia casa - dice una condomina -. Mi chiese se poteva fare una telefonata. Chiamò la moglie, rassicurandola: “Tutto bene, amore. Sto bene, non preoccuparti”. Mi fece effetto, gli offrii un caffè ma quello rifiutò, spiegando: “Devo calmarmi, allentare la tensione. Signora - ammise passandosi una mano sul cuore - se non fossimo stati così lesti, noi, voi e loro saremmo tutti quanti saltati per aria”. Compresi che non si trattava di criminali comuni, ma di gente pronta a tutto. E oggi, a distanza di ventiquattro anni, ripensando a quelle parole, mi vengono ancora i brividi». Simone Traverso

L’INTERVISTA. PARLA UN BRIGATISTA CONDANNATO PER ATTENTATI A GENOVA: «Ecco cosa sapevano i carabinieri», scrive Matteo Indice. Adriano Duglio: «Ma queste foto rischiano di esasperare ancora gli animi» Dice che davanti alle pagine del Mercantile ha sgranato gli occhi: «Sono uscito di casa ieri mattina verso le undici, ho preso il giornale e ho avuto come una fitta allo stomaco». Adriano Duglio, 51 anni - oggi vive a Bogliasco dove gestisce un circolo ricreativo - ha fatto parte della colonna genovese delle Brigate Rosse. Arrestato nell’80 dopo le rivelazioni di un pentito, è stato successivamente processato e condannato a undici anni di carcere: tra le azioni a cui ha preso parte anche l’assassinio del commissario capo di polizia, Antonio Esposito, ucciso su un bus in via Pisa, ad Albaro. - Allora Duglio, che effetto fanno queste foto, ventiquattro anni dopo? «Terribile, lo dico chiaramente. Ho provato a sfogliare un po’ il quotidiano, ma poi mi sono come bloccato e vorrei sapere innanzitutto se i tempi di questa pubblicazione sono casuali». - Perché? «Perché la situazione politica è in fermento, tra poco ci sono le elezioni europee e servizi del genere creano tensione». - In che senso? «Nel senso che rischiano di estremizzare le posizioni contrapposte. Mi spiego meglio: chi è orientato a destra, non farà altro che pensare “hanno fatto bene a ridurli così”. Dall’altra parte, i giovani dei centri sociali o del movimento potrebbero interpretare la brutalità del blitz in via Fracchia come una specie di provocazione lanciata con molti anni di ritardo, non so...». - Ma non credi che questo materiale costituisca uno straordinario documento storico, e contribuisca a chiarire la dinamica di un’azione oscura fornendo al contempo un monito per non ripiombare nel buio? «Perdonatemi, ma non credo che sulla cosiddetta dinamica ci fosse molto da scoprire. Leggo oggi un’intervista a Giuliano Zincone che parla di “esecuzione”. Ebbene, la condivido in tutto e per tutto, anche perché le informazioni in mio possesso sono abbastanza precise». - Ovvero? «Sappiamo che i carabinieri arrivarono a Oregina grazie alle dichiarazioni del pentito Patrizio Peci. Per quanto ne so io, Peci aveva accesso al covo e pure le chiavi, dato che lassù si tenevano le riunioni della direzione strategica. Non credo le avesse tenute per sé...Inoltre, pregherei di osservare la posizione delle mani nell’immagine che ritrae i quattro cadaveri in fila nel corridoio. E’ come se i morti fossero caduti mentre le tenevano dietro la testa, pronti ad arrendersi». - Quanti brigatisti conoscevi di quelli uccisi? «Con Riccardo Dura avevamo partecipato ad alcune azioni, lo conoscevo bene. Betassa e Panciarelli non li avevo mai visti, Annamaria Ludman l’avevo incrociata di sfuggita alla facoltà di Magistero, dove lavoravo, ma non avevamo mai avuto contatti all’interno dell’organizzazione». - Sapevi del covo di via Fracchia? «Quando ci fu l’irruzione io ero già fuori dalle Br da almeno due anni. Però, appena appresa la notizia non ebbi dubbi su com’era andata: le Brigate Rosse dovevano pagare l’uccisione dei carabinieri a Sampierdarena, l’attentato del 21 novembre 1979 nel quale morirono il maresciallo Vittorio Battaglini e il militare Mario Tosa. Non dimentichiamo che in quell’episodio erano stati coinvolti terroristi poi pentiti, i quali misteriosamente non hanno mai pagato con un giorno di carcere. D’altronde, la guerra era stata scatenata con l’uccisione di Mara alla Cascina Spiotta (Margherita Cagol, detta “Mara” e moglie di Renato Curcio, morì in un conflitto a fuoco con i carabinieri il 5 giugno 1975 ad Arzello d’Acqui, durante il sequestro dell’imprenditore Vallarino Gancia)». - Concludendo secco: che effetto può sortire, nel più ampio dibattito sugli anni di piombo, la diffusione delle foto finora inedite? «Sono solo un pezzo di verità. Ma per fare chiarezza davvero, i protagonisti di allora dovrebbero, in senso figurato, sedersi intorno a un tavolo e confrontarsi sul serio. E tutti, ma proprio tutti, dire quello che ancora non hanno avuto il coraggio di dire, non solo sul terrorismo». - Non solo? «Perché invece di rievocare fatti oscuri risalenti a decine di anni fa non ci concentriamo su eventi più freschi, sfoderando documenti importanti? Penso al g8, e a tutto quello che si è taciuto sulla repressione di polizia e carabinieri. Lì sì che ci sono cose da scoprire». Ma questa, per ora, è un’altra storia. Matteo Indice

Il più veloce a uscire nel corridoio al momento dell’irruzione, scrive Andrea Ferro. IL GIORNALISTA RICORDA L’INTERVISTA AL GENERALE SU VIA FRACCHIA. Bocca: «Dalla Chiesa mi fece capire...» «Intervistai il generale Dalla Chiesa alcuni mesi dopo il blitz per il mio libro “Noi terroristi”. Gli chiesi: “Ai quattro brigatisti fu data la possibilità di arrendersi o furono uccisi subito?”. Non mi disse chiaramente che li avevano ammazzati ma il tono usato per parlare rivelava intransigenza, durezza. Per me, al di là delle parole, non andò come era stato raccontato nella versione ufficiale». Giorgio Bocca sfoglia i ricordi della memoria di un’epoca con la chiarezza del linguaggio e le frasi nette, precise, del testimone. Raccontò le Brigate Rosse da grande inviato e da scrittore. Ha studiato i fenomeni dell’eversione scandagliando nella vita dei protagonisti e delle vittime e tra le pieghe di una società sulla quale attecchì l’odio di classe fino a sbocciare nel piombo. «Non era la prima volta che il generale Dalla Chiesa aveva usato un certo metodo militare. Ricordo la rivolta nel carcere di Alessandria (il maggio del ’74). Fu stroncata dagli uomini dei reparti di Dalla Chiesa, ci furono morti e feriti. Il generale aveva ordinato ai suoi di sparare». Ma quale fu la prima sensazione dopo la notizia del sanguinoso blitz di via Fracchia? «Mi fece impressione il fatto che dentro quella casa ci fossero i cadaveri di due operai torinesi della Fiat (Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli, ndr). Fino a quel momento credevo di trovarmi di fronte ad un terrorismo strutturato su base locale, a brigatisti legati alla loro fabbrica, alla loro città. Fu invece il segnale che il terrorismo era in crescita, si ramificava sul territorio». L’altro segnale, quella mattina, venne dallo Stato. «Sì, lo Stato diceva: “Ora in guerra ci siamo anche noi”. Un messaggio chiarissimo: “Adesso possiamo condurre la lotta senza fare prigionieri”». E lo Stato da questo momento poteva contare su un’arma in più: i pentiti. Infatti fu Peci a rivelare l’indirizzo di via Fracchia ai carabinieri. «Sui pentiti Moretti sostiene una tesi politica. Cioè che furono la conseguenza e non la causa della fine delle Brigate rosse. Cioè segnarono il fallimento di un progetto politico più che militare». Si sostiene che i quattro brigatisti morti valevano un monito per tutti gli altri. Della serie arrendetevi, altrimenti farete la stessa fine. «E’ discutibile. Quando la repressione arriva a questi punti le reazioni possono essere anche di segno opposto. Soprattutto quando il senso di ribellismo è già alto» Che ricordo ha di Genova in quegli anni? «Certamente all’epoca in città c’era un terreno fertile per i terroristi che ebbero un forte impatto sul proletariato. Ma non mi riferisco solo al periodo delle Brigate Rosse. Già anni prima dell’esplosione del terrorismo partecipai a Genova ad alcuni riunioni di ex partigiani. E c’era già chi teorizzava il ritorno alla lotta armata». E le ultime leve dei brigatisti? «Sono penosi. Hanno sparato a due uomini indifesi dopo indagini durate mesi, pedinamenti infiniti». Proprio come facevano le vecchie Br... «Allora correvano molti più rischi sotto il profilo militare». Ma oggi esistono le condizioni per una nuova stagione di piombo? «Questi fenomeni hanno un’evoluzione misteriosa. Le Brigate rosse si affermarono negli anni Settanta quando la fase più dura della lotta di classe era stata superata. Oggi stiamo entrando in una nuova fase di conflittualità sociale. Ma non mi sento di fare pronostici». [Andrea Ferro]

Giorgio Bocca ha studiato il fenomeno del terrorismo in Italia tra gli anni ’70 e ’80, scrive Andrea Ferro. Nell’irruzione di via Fracchia, sostiene, venne adottato il metodo militare I corpi del quattro terroristi nell’appartamento di via Fracchia Il corpo di Riccardo Dura è il primo nella fila di cadaveri che si allunga nel corridoio dell’appartamento diventato la fossa comune della colonna genovese delle Brigate rosse dopo l’irruzione dei carabinieri e il conflitto a fuoco. Il cadavere è in posizione prona. Le gambe si allungano nel corridoio mentre dalla vita in su il corpo occupa una porzione del pavimento del corridoio. Dalla foto che pubblichiamo oggi si evince che Dura sarebbe stato il primo ad andare incontro ai carabinieri. E’ scalzo, non ha pantaloni, indossa slip e maglietta. Questa la probabile sequenza degli ultimi suoi istanti di vita. Quando i carabinieri sfondano la porta, è il primo ad alzarsi dal letto. Presumibilmente era uno dei tre a dormire nella stanza, il quarto (quasi sicuramente Betassa) riposava in un sacco a pelo trovato nel salotto. I due vani sono in fondo al corridoio. Dura si affaccia nell’ingresso, o più probabilmente), si ripara dietro la porta che (forse) chiude di scatto (altre foto mostrano numerosi fori di proiettile di medio e grosso calibro). E’ armato? Accanto al cadavere non c’è alcuna pistola (come documentano altre foto del dossier pubblicato in esclusiva dal “Corriere Mercantile”). Le armi saranno infatti “repertate” sul pavimento accanto ai corpi di Panciarelli (il secondo) e Betassa (il quarto).

IL CARABINIERE FERITO - Il cadavere è lontano un paio di metri dalla macchia di sangue contrassegnata dalla lettera A (vedi almtra foto). Il cartellino indica il punto nel quale il maresciallo Rinaldo Benà rimase ferito al volto (perderà un occhio). Ma al di là del fatto che nessuna arma è stata trovata accanto al cadavere di Dura non si può escludere che possa essere stato lui stesso a sparare. La pistola sarebbe successivamente scivolata verso il centro del corridoio. Un’ipotesi, precisiamo. All’epoca qualcuno avanzò il sospetto che in realtà Benà sarebbe stato ferito da “fuoco amico” (cioè dai suoi colleghi) anche se la successiva perizia balistica confermò la versione diramata nei giorni successi dalla Procura con un comunicato ufficiale. Tornando alla foto dell’ingresso si evince che l’unica macchia di sangue è quella riferibile al ferimento di Benà. Per il resto la parte del pavimento vicina alla porta d’ingresso è “pulita”. Significa che nessuno dei brigatisti è mai arrivato fin lì, tantomeno vi era appostato nel corso della notte per il “turno di guardia” (come ipotizzavano alcune cronache dell’epoca).

FERITE ALLA TESTA - La macchia di sangue inizia in corrispondenza della testa e si estende, allargandosi, per almeno un metro (prosegue oltre il margine della foto). Riccardo Dura è stato raggiunto alla testa presumibilmente a distanza piuttosto ravvicinata da più colpi. Ingrandendo al computer la foto scopriamo che vicino all’angolo formato dal muro d’ingresso con la mini parete di sostegno della porta del corridoio ci sono tre bossoli esplosi da un’automatica di medio calibro. Tra il gomito destro e la parete dell’ingresso spunta un ombrello pieghevole.

“ROBERTO” - E’ il nome di battaglia di Riccardo Dura. La sua storia. Nasce a Roccalumera, in provincia di Messina, il 12 settembre 1950. Si trasferisce a Genova giovanissimo. Nel ’66 viene iscritto al “Garaventa”, la nave-scuola per ragazzi in difficoltà. Dopo il Militare in Marina Riccardo Dura si imbarca sui mercantili, “di coperta”. Successivamente, è il ’71, lavora per alcune ditte che operano in appalto all’interno dell’“Italsider” di Cornigliano. In quegli anni inizia la sua militanza in Lotta Continua fino ad approdare alle Brigate rosse.

GLI OMICIDI - “Roberto” venne indicato dai pentiti come uno dei killer più spietati delle Brigate Rosse. E’ ritenuto l’esecutore materiale dell’assassinio del commissario capo della polizia, Antonio Esposito (ex funzionario dell’Antiterrorismo e all’epoca dirigente del commissariato di Nervi), ucciso il 21 giugno del 1978 su un bus della linea “15”. Secondo la ricostruzione dei giudici fu sempre Dura a sparare e uccidere Guido Rossa, l’operaio e sindacalista, freddato sulla sua “Fiat 850” il 24 gennaio del ’79 in via Fracchia, a duecento metri dal covo. Il nome di Dura compare poi agli atti dei processi per gli agguati ai carabinieri Vittorio Battaglini e Mario Tosa, freddati il 21 novembre del ’79 al bar “Da Nino” di via G. B. Monti, a Sampierdarena. E sempre Dura fece parte del commando che il 25 gennaio dell’80 in via Riboli (Albaro) sparò contro un’altra auto dei carabinieri. Sotto il piombo brigatista morirono il colonnello Emanuele Tuttobene e l’appuntato Antonino Casu. Nell’agguato rimase gravemente ferito il colonnello dell’Esercito Luigi Ramundo. ANDREA FERRO

Guagliardo: «Strage decisa per spingere al pentitismo» Dal libro “Sguardi Ritrovati” della collana Progetto Memoria edito da “Sensibili alle foglie” pubblichiamo la testimonianza scritta nel 1994 dal carcere di Opera, Vincenzo Guagliardo, esponente della colonna genovese delle Br. «Non è facile ricordare Riccardo in poche parole, dato il modo in cui morì, le cose che allora su di lui stampa e pentiti dovettero inventare per giustificare la strage e sbiadirne il senso all’opinione pubblica, e l’amarezza rabbiosa che tutto questo suscitò in quelli come me. La strage di via Fracchia non fu affatto, come disse a caldo un primo comunicato delle Br in preda all’emozione, il risultato di uno scontro, ma una fredda esecuzione comandata dal generale dei CC Dalla Chiesa per ottenere – credo –, a partire dalla delazione di Patrizio Peci, l’inizio della politica del “pentitismo”. Riccardo ed io ci chiamavano “compari” per ironizzare sulla nostra comune origine siciliana. Quando dovevamo incontrarci in questa o quella città, quello di noi che combinava l’incontro cercava il posto migliore dove pranzare assieme come meglio potesse piacere all’altro, nell’ambito del possibile. Credo che in cuor suo individuasse, giustamente, la solitudine umana come il grande nemico, come la più grave contraddizione di questa società. Per lui dunque la militanza brigatista diventava una condizione totale in cui si faceva quel che era “giusto”; e poi si sarebbe visto come andava a finire... Come un nuovo Pisacane, vedeva le Br come un piccolo reparto delle masse oppresse che cominciava a fare la sua parte nel comune destino. Io ero più “politico”, individuavo me e lui in una comunità più vasta e contraddittoria delle Br, e citando Mao dicevo che il nostro cammino era un governo della contraddizione all’interno di questa più sconfinata realtà. Alla fine però, convenivo con lui che personalmente non sapevamo quanto noi avremmo visto, quanto sarebbe durata. Insomma, dopo lunghe discussioni trovavamo sempre l’accordo. Il paradosso brigatista era proprio questo: che in esso era sempre possibile la convergenza finale di esperienze umane diverse. In quella dimensione, come sappiamo, quella potente allusione a una superiore e vivace concordia è stata confitta, ha incontrato dei limiti. Dove e come far rivivere questa convergenza delle singole esperienze umane in nuove dimensioni è quello che si vedrà. Esse comunque richiedono un cammino che ha bisogno di verità: a partire dal passato.

Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli, i “bierre” venuti da Torino Il corpo di Lorenzo Betassa è in fondo al corridoio, scrive Andrea Ferro. Era l’unico dei quattro che al momento del blitz dei carabinieri era vestito. Presumibilmente riposava nella sala da pranzo, in un sacco a pelo disteso sul pavimento, accanto al divano (le altre foto del covo scattate negli altri vani saranno pubblicate sull’edizione in edicola domani). C’è un particolare che escluderebbe, almeno secondo la ricostruzione più verosimile, l’ipotesi che Betassa fosse di guardia. I mocassini sono slacciati, è senza calze: addosso ha una sola scarpa, l’altra è scivolata sul pavimento all’interno della camera da letto. E’ più probabile che dopo aver avvertito i primi rumori sospetti Betassa abbia frettolosamente indossato i mocassini a mo’ di ciabatte. Tra il piede e la scarpa c’è una pistola di medio calibro dalla quale (secondo la perizia balistica) sarebbero partiti alcuni colpi.

IL SANGUE - E’ l’unico cadavere in posizione supina, la testa è piegata sulla destra in una pozza di sangue. Oltre a quella, mortale, alla testa lungo il corpo non si riscontrano altre ferite o tracce ematiche. Al polso sinistro porta un orologio. Pur ingrandendo l’immagine non si riesce a leggere sul quadrante l’ora che segna (nella foto del cadavere di Annamaria Ludman pubblicata giovedì l’orologio segna le due e quarantadue).

UN ALTRO CADAVERE - E’ di Piero Panciarelli. Il corpo è in posizione prona, lungo il corridoio tra i cadaveri di Riccardo Dura e di Annamaria Ludman. Anche in questo caso la macchia di sangue si estende vicino alla testa e “scende” fino alla parte alta del torace. La freccia indica il “cane” della pistola che, presumibilmente, ha usato per sparare contro i carabinieri. Come Dura (si evince da altre foto) è scalzo, indossa una canottiera e un paio di slip. Evidentemente stavano dormendo quando i carabinieri hanno sfondato la porta.

LA LORO STORIA - Lorenzo Betassa nasce a Torino il 30 marzo 1952. Frequenta le scuole Medie a Torino e fino al ’69 lavora come operaio alla Italimpianti e successivamente è assunto alla Fiat (sezione Carrozzerie) diventando anche rappresentante sindacale per la Fim-Cisl. La sua militanza politica inizia in Potere Operaio. Poi passa alle Brigate rosse ma gli inquirenti scopriranno la sua militanza solo dopo il blitz di via Fracchia. “Antonio” era il suo nome di battaglia. Piero Panciarelli nasce a Torino il 29 agosto 1955. Dopo il diploma di Scuola Media è assunto come operaio alla “Lancia” di Chivasso. Rispetto a Betassa era conosciuto dalle Sezioni antiterrorismo di polizia e carabinieri già prima dell’irruzione in via Fracchia nell’ambito di una serie di indagini condotte tra militanti e fiancheggiatori della colonna torinese delle Br. Nel maggio del ’78 entra in clandestinità. Il nome di Panciarelli (“Pasquale”) compare in più inchieste dei giudici genovesi per fatti di sangue avvenuti all’ombra della Lanterna. Insieme a Riccardo Dura avrebbe preso parte all’assassinio dei carabinieri Vittorio Battaglini e Mario Tosa freddati al bar “Da Nino” di via G.B. Monti a Sampierdarena il 21 novembre del ’79. Panciarelli è indicato anche come uno degli autori dell’attentato contro la sede della Finligure, compiuto il 14 giugno del 1979. Andrea Ferro.

“Antonio”, il terrorista che somigliava a Battisti Il ricordo di Lorenzo Betassa (nome di battaglia Antonio) tratto da Testimonianze al Progetto memoria - Ernesto Amato, Torino 1994, pubblicato su “Sguardi Ritrovati”, casa editrice “Sensibili alle Foglie”. «L’ho conosciuto in fabbrica nel 1973, siamo diventati amici, molto amici, ho conservato in tutti questi anni un ricordo vivo di lui, della sua grande generosità, giovialità e disponibilità umana... In fabbrica lo chiamavano “Lucio” a causa dei suoi capelli crespi e lunghi a cespuglio che lo rendevano simile a Lucio Battisti; la sua militanza politica non è mai stata di quelle finalizzate ad emergere sugli altri, il suo rapporto con i compagni di lavoro era di assoluta normalità e cordialità, oppure di giusta contrapposizione qualora ne sussistessero i motivi. Fare politica per Lorenzo significava vivere la vita di tutti i giorni in mezzo agli altri, cogliendo le contraddizioni e cercando una strada per migliorare le proprie condizioni e quelle degli altri. Mi ricordo che ai picchetti eravamo quasi sempre i primi ad arrivare, ci si trovava ai cancelli arrivando da strade diverse, quasi sempre erano le 2 o le 3 del mattino e le porte erano quasi sempre quelle degli impiegati. La sua scelta politica l’ha fatta in piena libertà e convinzione, facendola soprattutto per sé, infatti mi ricordo una sua frase ricorrente, mi diceva: “Caro Ernesto, la rivoluzione va fatta innanzitutto per noi stessi e di conseguenza per gli altri, devi rivoluzionare prima al tuo interno ciò che non ti va e poi fuori...” Non credo comunque che avesse preventivato, nelle sue scelte, una fine così cruenta. La sua semplicità, il suo atteggiamento “normale” lo avvicinano molto agli altri... «È sparito dalla fabbrica e dalla vita civile alla fine del 1979 e solo alcuni mesi più tardi è stato ucciso, quindi ha fatto una breve militanza da clandestino; sinceramente, conoscendolo bene, non credo che quel ruolo da “regolare” si confacesse molto al suo carattere e alla sua personalità, anche in termini di rinunce. Al suo funerale eravamo in molti, grande era la rabbia, la commozione, il senso d’impotenza, l’angoscia. Fummo tutti, per quanto possibile, vicino alla famiglia che, come tutti noi, vide arrivare la bara chiusa e sigillata; questo rese faticoso prendere coscienza della morte di Lorenzo. A me successe, poi, diverse volte, di vedere, per strada, delle persone che gli assomigliavano e cercare di avvicinarle per vedere se era lui o meno.

IL RICORDO DI UN AMICO CHE POI LO AVEVA RITROVATO IN UN’ORGANIZZAZIONE EXTRAPARLAMENTARE. «Pasquale, con lui quanti concerti» Il ricordo di Piero Panciarelli (nome di battaglia Pasquale) tratto da un brano scritto da un amico e pubblicato su “Sguardi Ritrovati”, Progetto Memoria, casa editrice “Sensibili alle foglie”. «O dalla cantina si partiva per i concerti di allora (’70-’73) con il minimo necessario per la “sopravvivenza” e via a prenderci quello che ritenevamo nostro e di tutti, la musica come espressione di un certo linguaggio ed immaginario collettivo. E quanti stratagemmi (anche scontri) per riuscire nell’obiettivo. Non voleva essere “padrone” né avere “padroni” di nessun tipo e non voleva che gli rubassero il tempo di vivere e il suo spazio. Quando ci incontrammo nella stessa organizzazione, dopo un periodo che si erano percorse strade diverse, esperienze diverse, ci sentimmo particolarmente ed intensamente emozionati e ricordo una sua curiosissima espressione di gioia per esserci ritrovati nuovamente. Era fatto così! E l’ultima volta che ci siamo incontrati in quartiere, anche come militanti, sapendo che poteva succedere che non ci saremmo più visti, decise che dovevamo salutarci a modo nostro, con i nostri riti... Piero è sepolto nel cimitero di Staglieno a Genova, vicino a un gruppo di alberi e così capitando in quella città, quando non mi fermo da lui, osservo da lontano gli alberi e lo saluto a modo nostro».

IL RICORDO DI MORETTI: «SCRISSI IL VOLANTINO IN UNA CASA DI SAMPIERDARENA». Mario Moretti fu l’ultimo leader indiscusso delle Brigate rosse. Alla guida dell’organizzazione sostituì Curcio e Franceschini dopo la loro cattura. Gestì l’operazione Moro, interrogò il presidente delle Dc nei 55 giorni del sequestro, lo fulminò col colpo di grazia prima di far ritrovare il cadavere nello statista in via Caetani. Fu arrestato il 4 aprile dell’81 alla stazione “Centrale” di Milano insieme a Enrico Fenzi, genovese, “il professore”, e altri due militanti delle Br. In “Brigate Rosse una storia italiana”, intervista di Carla Mosca e Rossana Rossana, Milano 1994, Anabasi Editore, Mario Moretti ricorda così Riccardo Dura. «Ho scritto il volantino per commemorare quei nostri quattro morti, in una casa di Sampierdarena Oregina, Ndr), dove abitava una compagna operaia e una sua figlia, allora diciottenne. Eravamo in tre generazioni intorno a quel tavolo e certo per la mente ci passavano cose diverse, a mala pena saprei dire quello che passava nella mia. Ma dovevamo avere qualcosa di molto forte in comune per stare tutti e tre a guardare in faccia la morte di quattro che sentivamo come fratelli. «Un dolore terribile, che non vogliamo neppure che si veda. “Mia figeû, semo ne ’a bratta, ma u sciû Costa ha già pagoû” (Senti, noi siamo nella merda fino a collo, ma il signor Costa ha già pagato), avrebbe detto Roberto, un marinaio comunista come ne ho conosciuti tre nella vita, che dopo l’azione Costa ci ripeteva questo tormentone ogni volta che ci trovavamo nei guai. Lo immagino anche stavolta».

VIAGGIO NELL’APPARTAMENTO ALL’INTERNO 1 DEL CIVICO 12 DI VIA FRACCHIA. Nella “casa dei fantasmi” Il covo delle Br è uguale a 24 anni fa, ma con un dobermann in più, scrive Simone Traverso. Entrare nell’appartamento che fu il covo delle Brigate Rosse a Genova è come fare un salto indietro nella storia. Negli angoli dell’appartamento dove si consumò il blitz dei carabinieri del generale Dalla Chiesa, tra quelle pareti oggi linde si respira l’aria di un dramma, si percepisce il peso di un’epoca insanguinata. Eppure c’è una signora che da ventun’anni vive in quella stessa casa, dorme nella stanza che ospitò Lorenzo Betassa, Piero Panciarelli, Riccardo Dura e Annamaria Ludman, pranza lì dove i brigatisti consumarono la loro ultima cena, ripone le bevande e i cibi della spesa nello sgabuzzino che i militanti usavano come laboratorio fotografico. «Nessun timore reverenziale, nessuna paura dei fantasmi, quella storia è acqua passata». La donna che abita l’ex covo chiede di restare anonima, ma ammette: «Nel mio appartamento nulla o quasi è cambiato dal 1980. E’ stato abbattuto un muro, ma un altro è stato innalzato. Il giardino è tale e quale, alle pareti è stata solo modificata la tinta. Il sangue? I fori di proiettile? Quando ho acquistato la casa era tutto sparito». Eppure la forza della storia è ancora percepibile e colpisce duro, proprio come le fotografie pubblicate dal Corriere Mercantile in esclusiva.

LA TRATTATIVA. La donna che oggi vive all’interno 1 del civico 12 di via Fracchia acquistò l’appartamento tre anni dopo l’irruzione dei reparti speciali Antiterrorismo. «Trattammo con la signora Ludman, Zora - dice oggi - ma non sapevamo cosa fosse accaduto, tant’è che cademmo dalle nuvole quando ci rivelarono di quel dramma. Ero incinta e non volli sapere nulla, per non subire traumi. Le foto? Be’, oggi posso anche guardarle, ma allora mi sarei rifiutata». Non manca il dettaglio curioso, colorito, per quanto drammaticamente allucinante: «La proprietaria era convinta che sapessimo, che fossimo al corrente del blitz delle teste di cuoio. Ci disse che volevamo “tirare sul prezzo”, che “volevamo approfittare della disgrazia” capitata alla figlia. Quando finalmente ci dissero la verità decidemmo ugualmente di acquistare l’abitazione». Nonostante chi condusse le trattative non fu del tutto corretto, almeno secondo l’attuale proprietaria: «Ci spiegarono che il covo fu scoperto cinque anni prima, invece erano passati soltanto tre anni... chissà, magari fu un errore in buona fede».

LA MALASORTE. Prendere possesso di quell’alloggio signorile non fu comunque facile. «Dovemmo vincere anche l’“ostruzionismo” di mia suocera - racconta la proprietaria -. Diceva che portava iella abitare nella casa dov’erano morte delle persone, quasi che i fantasmi potessero perseguitarci. Non so se sono stata fortunata o colpita dalla malasorte, ma io avevo bisogno di quell’appartamento. La mia famiglia cresceva, avevamo bisogno di spazi e di un giardino, pur non allontanandoci troppo dal quartiere dov’eravamo cresciuti. L’ex covo delle Br era l’abitazione giusta e poco importa cosa avvenne prima lì dentro».

I FIORI. I primi anni di convivenza con la Storia non furono però facili. «A marzo, in prossimità dell’anniversario del blitz, veniva sempre un poliziotto. Il 27 marzo 1983 un agente mi disse: “Domani signora non esca di casa, resti qui, al sicuro. Forse verrà qualcuno a deporre dei fiori... usano fare così. Nel caso, non faccia nulla, non apra la porta”. Non accadde nulla e col passare degli anni fu facile dimenticare anche quei frammenti».

IL CORRIDOIO. A distanza di ventiquattro anni, comunque, il corridoio dove i brigatisti trovarono la morte è sempre lo stesso: «Il pavimento è identico, le pareti sono state ripulite, i fori delle pallottole tappate. Non si vede più nulla». La signora che oggi vive in quelle stanze guarda alle foto del Corriere Mercantile e cerca di orientarsi. «La porta dove è caduto il primo terrorista (Riccardo Dura, ndr.) non c’è più. La donna (Annamaria Ludman, ndr.) sembra essere appena uscita dallo sgabuzzino... quello è cambiato. Non c’è più la rientranza che faceva da laboratorio fotografico, ma è più ampio, più spazioso.

IL SALOTTO. L’ultima camera in fondo al corridoio, quella dove i brigatisti scrivevano a macchina e trascorrevano, ore e ore a pensare ed elaborare testi, documenti e rivendicazioni è l’unica ad essere stata stravolta. «C’era un arco, ora c’è una parete. Il muro in fondo, invece è stato abbattuto per acquisire anche un paio di cantine. Ora è una camera da letto». Lo era anche allora, almeno stando al divano letto con sacco a pelo ritrovato dai carabinieri del generale Dalla Chiesa la notte dell’irruzione.

IL GIARDINO. Lo spazio verde all’esterno della casa oggi è curato, l’erba tagliata bassa, un tratto è piastrellato e ricoperto da un gazebo. «Ho letto che la donna, la Ludman prendeva il sole qui, in questo giardino. E che forse i brigatisti passavano da qui per entrare in casa, così da non farsi vedere dagli altri condomini. Mi pare francamente impossibile... non c’è modo di scendere dalla strada senza farsi notare, senza contare che bisognerebbe fare un salto impressionante». In un angolo del terrazzino spiccano i segnali che fanno intuire quanto i tempi siano davvero cambiati per questa casa di fantasmi: una cuccia e una ciotola. Appartengono a un dobermann alto così. Quello, ai tempi delle Br, non c’era. I “mastini”, quelli dell’Antiterrorismo, erano fuori, pronti ad entrare nel covo e cambiare la storia. Simone Traverso

PER LA PRIMA VOLTA L’UFFICIALE DEI CARABINIERI CHE GUIDÒ IL BLITZ IN CUI VENNERO UCCISI I QUATTRO BRIGATISTI RACCONTA. Riccio: «Spararono per primi» «Rispondemmo al fuoco, per tre minuti fu l’inferno». Intervista di Andrea Ferro. Michele Riccio, 55 anni, è l’ufficiale dei carabinieri che guidò il blitz. Dopo 24 anni racconta al “Corriere Mercantile” come venne individuato il covo di via Fracchia e ricostruisce minuziosamente tutte la fasi dell’irruzione nell’appartamento e del conflitto a fuoco in cui rimasero uccisi i quattro brigatisti. Il colloquio (durato un’ora e mezza) è avvenuto ieri mattina in un bar del centro. Riccio ha tenuto a precisare che mai aveva rilasciato un’intervista-ricostruzione sui fatti di via Fracchia. «Venimmo a sapere dell’esistenza di un covo in via Fracchia quattro-cinque giorni prima dell’irruzione. Patrizio Peci (il primo grande pentito delle Br, ndr.) aveva fornito elementi piuttosto vaghi. Aveva detto di aver dormito una notte in quella casa, circa sette-otto mesi prima. Secondo le sue rivelazioni l’abitazione era una sorta di “pensione” per terroristi latitanti. L’intestataria ufficiale dell’appartamento era una donna abbastanza giovane, della quale però non sapeva il nome. Dell’appartamento ricordava con grande precisione che era situato al piano terra. Dell’indirizzo conosceva solo la via, Fracchia appunto, ma non il numero del civico, tantomeno l’interno. Insomma c’erano tre elementi dai quali partire: un appartamento al piano terra di uno stabile di via Fracchia abitato da una donna, piuttosto giovane. Peci ci fornì le chiavi? Falso. «All’epoca dipendevo dal tenente colonnello Nicolò Bozzo (responsabile per il nord-Italia del reparto antiterrorismo di Dalla Chiesa). La mia squadra era formata da dieci uomini. Il primo accertamento fu al catasto. Sequestrammo tutte le piantine degli appartamenti situati ai piani bassi dei caseggiati di via Fracchia. Le sottoponemmo all’attenzione di Peci. Contemporaneamente mandai alcuni uomini per le strade della zona, a sentire la gente. Ufficialmente dicevamo che eravamo sulle tracce di una gang di trafficanti di droga. E per questo chiedevamo se attorno a via Fracchia qualcuno aveva notato movimenti sospetti, facce strane. Ci rivolgemmo anche al parroco di Oregina. Alcune vecchiette ci indicarono decine di sospetti, chiaramente tossicodipendenti, sbandati. Noi immagazzinavamo tutti i dati, anche i più insignificanti nella speranza di un’indicazione che potesse indirizzare la nostra indagine. Patrizio Peci riconobbe l’appartamento da una piantina «Quando non più di 48 ore dopo Peci riconobbe dalla piantina l’appartamento al 12 interno 1 arrivammo alla prima conferma importante. I vicini di casa dissero in che quella casa abitava una donna sola e piuttosto giovane (Annamaria Ludman, fino a quel momento completamente sconosciuta agli inquirenti, ndr.). E aggiunsero: “Qualche tempo fa abbiamo notato un certo via via di persone, gente perbene, tutti molto educati”. Informammo il generale Dalla Chiesa degli sviluppi dell’indagine, ci sentivamo a buon punto. Lui ci ordinò di fare presto. Il motivo era strettamente operativo. A Torino erano ormai pronti a far scattare una serie di blitz nei covi e nelle basi della colonna locale. Peci aveva fornito infatti elementi molto più precisi sulla colonna torinese, con indirizzi, nomi, cognomi. L’operazione doveva quindi scattare simultaneamente tra Genova e Torino. In sostanza ci aspettavano. Fosse stato per me avrei atteso ancora qualche giorno, tenuto sotto osservazione la base con l’obiettivo di raccogliere più elementi possibili per sviluppare le indagini sulla colonna genovese. Invece da quel momento iniziò una corsa contro il tempo. Individuato al novanta per cento il covo, bisognava capire quanta gente avremmo potuto trovarci dentro. Pedinammo la donna per due giorni, ci appostammo intorno alla casa ma non ricavammo indicazioni sul numero degli occupanti. Contemporaneamente controllammo i consumi del gas e della luce, i contatori erano praticamente fermi da giorni. Evidentemente i terroristi sapevano che potevano essere spiati anche così e per questo limitavano al minimo indispensabile i consumi. Provammo con la spazzatura. Per due sere bloccammo lo spazzino che ritirava i sacchetti davanti alle porte. Quello dell’interno 1 era sempre piuttosto pieno, segno che dentro la casa c’era vita, ma non trovammo tracce utili per quantificare il numero degli abitanti. Il tempo era scaduto. «Il 27 marzo insieme ad altri uomini della “squadra” cenai a casa del maresciallo Rinaldo Benà, l’anziano del gruppo (rimarrà ferito nel conflitto a fuoco, ndr.), nella abitazione casa di San Fruttuoso. In serata il tenente colonnello Bozzo convocò una riunione in caserma, in via Ippolito D’Aste. Bisognava decidere quando e come intervenire, Dalla Chiesa non voleva più aspettare. Io ero per farlo la mattina successiva: “Aspettiamo che esca la donna, la fermiamo, saliamo in casa con lei”, suggerii. Ma da Torino il generale non fu d’accordo. E ordinò: “Alle 4”. Il colonnello Bozzo informò il prefetto e le altre autorità. Un’ora prima dell’ora x eravamo già tutti in via Ippolito d’Aste. Noi dieci, più il personale del Nucleo operativo, altri del comando di Torino ma anche carabinieri in divisa. L’azione fu studiata così. Il tenente colonnello Bozzo rimaneva nella sala operativa per coordinare i collegamenti. Le “gazzelle” dovevano essere posizionate a qualche centinaio di metri. Il personale in divisa sarebbe intervenuto per tranquillizzare la popolazione se qualcuno degli abitanti della zona si fosse allarmato di fronte a tutti quegli uomini in Michele Riccio, l’ufficiale dei carabinieri che guidò il blitz Rinaldo Benà, il maresciallo rimasto ferito nel conflitto a fuoco. Colpito alla testa, resterà a lungo in ospedale e perderà un occhio I corpi dei quattro brigatisti nel corridoio dell’appartamento-covo Il sangue di Benà sul pavimento dell’ingresso La borsa con le armi per un nuovo agguato borghese, armati, con il rischio di scatenare il panico. Attorno alla casa varie squadre in borghese. Poi noi. Per entrare nel portone giocammo sulla complicità della signora anziana che abitava al piano di sopra. Le preannunciammo il nostro blitz facendole credere che sarebbe stata un’operazione antidroga. Le chiedemmo di tenersi pronta ad aprirci, nel cuore della notte, non appena avesse sentito suonare il citofono. «Ci presentammo nel portone in sei. Suonammo, la signora ci aprì subito. Eccoci nelle scale. Rispetto agli altri avevo il giubbotto antiproiettile ma non il casco perché mi avrebbe impedito di percepire i rumori. A quel punto ci dividemmo in due gruppi. Tre davanti, tre dietro. In prima fila io, Benà e un altro maresciallo. Imbracciavo un fucile a pompa, gli altri avevano i mitra. Salimmo una breve rampa di scale, l’appartamento era situato ad un piano rialzato. La porta, non blindata, era chiusa con tre serrature. Per l’epoca era un po’ strano. «Suonai il campanello “Aprite, è una perquisizione”» «Suonai il campanello. “Carabinieri, aprite, è una perquisizione”, ordinai. Dall’interno sentimmo dei passi, pensammo che qualcuno ci avrebbe aperto. Invece chi si avvicinò diede altri giri alla serratura. Allora impartii a Benà e all’altro maresciallo l’ordine di sfondare la porta. Non usammo alcun attrezzo, lo fecero a calci, portavano stivaloni. Una volta saltata la serratura ci trovammo di fronte ad una spessa tenda nera, da cinema che ci coprì subito la visuale dell’ingresso. La spostammo subito, all’interno iniziò a filtrare la luce delle scale. “Arrendetevi”, gridai. Benà sollevò la visiera del casco, era appannata dal sudore. Fu un attimo. Sentiì gli spari, poi vidi il maresciallo Benà cadere all’indietro, lentamente come al rallentatore. In quegli attimi ribollirono nella mia testa paura e stupore. Per il mio uomo ferito e per la reazione di chi si trovava nella casa. Mi sembrò incredibile che qualcuno pensasse di ingaggiare un conflitto a fuoco all’interno di un piccolo appartamento. Benà cadde sul pavimento al centro dell’ingresso, a mezzo metro dalle mie gambe. Ricordo ancora il getto di sangue alto un metro che saliva dalla sua testa. Nonostante fosse stato colpito (il proiettile gli perforò un occhio, ndr.) riusciva ancora a muovere la mano, come per tastare il pavimento, e a parlare. Ricordo le sue parole: “Dov’è il mitra? Non mi sono fatto niente, non dite niente a mia moglie”. Nel frattempo sparai col fucile a pompa, cinque colpi in rapida sequenza. Gli altri due colleghi avevano armi caricate con più proiettili. Iniziò l’inferno. Dal pianerottolo i tre uomini del secondo gruppo balzarono all’interno della casa e iniziarono a sparare pure loro. Uno me lo ritrovai alle spalle, disteso sul pavimento, le raffiche sfioravano le mie gambe. Tutto avveniva alla luce solo di una torcia imbracciata da un sottufficiale: noi attestati nell’ingresso sul pavimento o accanto ai muri, loro nel corridoio. Terrorizzato dagli spari, un maresciallo non più giovanissimo che era appostato all’esterno del caseggiato fece fuoco in aria per avvertire gli altri. Le radio portatili non funzionavano. I bossoli finirono in giardino. Un altro del mio gruppo iniziò a gridare a quelli che erano fuori: “Hanno colpito Benà, al capo”. La frase fu pronunciata balbettando, per la concitazione il nome del maresciallo non fu afferrato. Mi raccontarono che i più capirono che era stato colpito “il capo”, cioè io. «Sentii la voce di un carabiniere “Attenti hanno una bomba”» «Dentro intanto si continuava a sparare. Sparavano tutti, all’impazzata. Ad un certo punto gridai. “Venite avanti, arrendetevi”. Sentì una voce. “Hanno una bomba”, era un mio uomo. Riprendemmo a sparare, ricaricai un’altra volta il fucile a pompa. Un inferno, un inferno. «In tutto, dall’esplosione del primo colpo, passarono tre minuti. I miei uomini entrarono nel corridoio dove c’erano i corpi di quattro persone, una bomba a mano, le pistole. Io mi precipitai al telefono. Saranno state le 4,35. Chiamai la centrale: “Mandatemi subito un’ambulanza”. Bozzo mi rispose che aveva già saputo, che l’ambulanza stava arrivando. Riattaccai e il telefono squillò subito dopo. Dall’altro capo una voce maschile. Era Livio Baistrocchi, lo accertammo successivamente: “Roberto (nome di battaglia di Riccardo Dura, ndr.), state pronti, tra mezz’ora...”, disse. Pensava di parlare con Dura. Compresi che era un messaggio, replicai: “No, vieni qui, ti aspettiamo”. Lui capì, riattaccò. Baistrocchi infatti non cadde nella trappola. Scappò, è tuttora latitante. Quella telefonata, anche questo lo stabilimmo dopo, era l’ultimo segnale prima dell’agguato che i brigatisti avrebbero dovuto compiere all’alba. In fondo al corridoio trovammo infatti una borsa contenente due mitra e due parrucche. Erano pronti per un agguato contro un dirigente dell’Ansaldo. Il telefono squillò ancora Era il generale Dalla Chiesa «Il telefono squillò ancora. Questa volta era Dalla Chiesa. “So tutto, sto arrivando, dimmi cosa c’è”. Voleva sapere quali documenti avevamo trovato. Mirava a quelli, obiettivo primario dell’operazione era acquisire nuove informazioni. Gli risposi che dentro la casa c’erano dei morti, che dovevamo ancora fare la perquisizione. Nell’appartamento, sangue dappertutto. Entrai in cucina e iniziai a stilare il primo inventario del materiale che i miei uomini di volta in volta mi portavano dalle stanze. Ordinai che in casa non entrasse più nessuno. Ebbi il tempo di dare un’occhiata in strada. C’erano lampeggianti azzurri, auto di servizio, uomini in divisa, giornalisti, fotografi, un mare di gente. Diedi disposizione di allontanare tutti con modi spicci, poliziotti compresi. Nessuno doveva avvicinarsi. «Il sopralluogo dei magistrati non avvenne quattro giorno dopo (come è sempre stato scritto, ndr.). Già in mattinata il dottor Di Noto (all’epoca sostituto procuratore, ndr.) e un altro pubblico ministero entrarono nel covo. Rimanemmo in via Fracchia fino a sera con il pensiero fisso rivolto a Benà e a sua moglie. Avrei voluto essere al suo posto. Per un anno io e miei uomini ci alternammo a passare le notti accanto a lui. E fummo costretti a fare pressioni affinché ottenesse i giusti riconoscimenti. «Ho raccontato al “Corriere Mercantile” per onore della verità. Mi permetta di aggiungere solo due considerazioni. Il generale Dalla Chiesa è stato un capo eccezionale. Insieme a lui ho lavorato per anni con abnegazione e grande fiducia reciproca. E pensando a via Fracchia ricordo che ho eseguito un ordine, che non era certo quello di uccidere. Se si fossero arresi sarebbe stato meglio per tutti. Anche per noi».

LE ARMI E IL MATERIALE SEQUESTRATO DOPO L’IRRUZIONE DEGLI UOMINI DI DALLA CHIESA. Nella base l’arsenale della colonna genovese. Ecco l’arsenale sequestrato il 28 marzo del 1980 nella base brigatista di via Fracchia, scrive Andrea Ferro. L’elenco delle armi è tratto dagli atti al processo istruito contro la colonna genovese delle Brigate rosse. - due mitra Sterling cal. 9 para. matricola KR23161 e 21882 con complessivi 4 caricatori; - un fucile a ripetizione Franchi cal. 20; - una pistola Browning H.P. 35 cal. 9 para. matricola 71464-1 con due caricatori contenenti 23 cartucce; - una pistola Walter P. 38 cal. 9 para. con due caricatori contenenti 16 cartucce; - una pistola Beretta modello 81 calibro 7,65 matricola D-25204W con due caricatori contenenti 23 cartucce; - una pistola Beretta modello 70 calibro 7,65 con matricola punzonata; - una pistola Beretta calibro 7,65 para. matricola G-00257 priva di canna e caricatore; una canna per pistola cal. 7,65 para. senza matricola; - un castello per pistola Walther P. 38 matr. 9658-F; - due caricatori per pistola cal. 7,65; - due bombe a mano M.K.2.; - due bombe da fucile contro carro a carica cava mod. Strim-FM M 32 2A; - due bombe da fucile ad azione polivalente mod. Fren Rifle n. 103; - un tubo in plastica per il lancio di bombe; - due pani di esplosivo tipo SemtexH per kg. 4 circa; mt. 6,20 di miccia impermeabile; - dieci spezzoni di miccia detonante; cinque detonatori; - n. 665 cartucce cal. 9 para; n. 149 cartucce cal. 9; - n. 683 cartucce cal. 7,65; n. 75 cartucce cal. 7,65 para; - n. 140 cartucce cal. 7,62 Nato; - n. 32 cartucce cal. 357 magnum; - n. 145 cartucce cal. 22. Ma nel covo delle Brigate rosse non furono trovate solo armi. L’appartamento di via Fracchia è considerata la vera e propria base logistica e operativa della colonna genovese. Altrettanto lungo infatti è l’elenco dell’altro materiale sequestrato dai carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. In particolare nell’abitazione erano custodite 17 carte di identità in bianco risultate rubate nel gennaio del ’69 negli uffici comunali di Quarto Flegreo, in provincia di Napoli. L’elenco comprende anche 5 patenti di guida rubate un anno prima (in due tempi diversi) all’Ispettorato della Motorizzazione di Cremona e altre 7 sottratte negli uffici della Ripartizione generale della motorizzazione di Catanzaro (furto consumato nel febbraio del ’79). Nel covo i carabinieri sequestrarono un’altra trentina di documenti (carte di identità, patenti e passaporti) intestati a cittadini e rubati prevalentemente a Genova e provincia tra il ’77 e il ’79. I brigatisti erano pure in possesso del tesserino di una guardia di pubblica sicurezza intestato ad un agente regolarmente in servizio sottrattogli sul treno Napoli-Salerno e di una tessera del Circolo ufficiali del presidio di Genova rubata nel ’77. [Andrea Ferro].

Il 18 settembre 1980 fu sventato un attentato al sindaco Cerofolini. La geografia dei covi genovesi delle Brigate rosse è una serie di puntini sparsi sulla piantina della città. In questo articolo proviamo a ricostruire dove erano le basi della “colonna”. La ricostruzione è fondata su una ricerca di archivio e sulla lettura degli atti del processo avviato nell’aprile dell’81 nei confronti di una trentina di imputati, tra militanti regolari (cioè entrati in clandestinità), irregolari, fiancheggiatori di vario “spessore”. Per esigenze editoriali il materiale è stato analizzato in poche ore. Siamo consapevoli che si tratta di una “ricomposizione” forzatamente parziale della mappa delle Br.

IL BLITZ DI VIA PESCHIERA - Le foto che qui pubblichiamo si riferiscono alla cattura di due brigatisti avvenuta il 18 settembre del 1980 in via Peschiera,nei pressi della casa dell’allora sindaco Fulvio Cerofolini. In manette finirono due terroristi Secondo la Digos stavano per compiere un attentato. Un terzo uomo riuscì rocambolescamente a scappare. Fu successivamente identificato per Leonardo Bertulazzi. Dopo una lunga latitanza il br fu catturato dalla Digos genovese il 3 novembre di due anni fa a Buenos Aires (è stato successivamente rilasciato per motivi procedurali). Quella operazione consentì polizia e carabinieri di scoprire quattro basi brigatiste.

VIA ZELLA - Il covo era nell’abitazione della nonnina delle Br. Caterina Picasso aveva 73 anni quando i poliziotti della Digos fecero irruzione nella sua casa di via Zella 11/2, nel quartiere di Rivarolo. Era il 10 ottobre del 1980. L’anziana custodiva un autentico arsenale, secondo in ordine di importanza solo alla base di via Fracchia scoperta sei mesi e mezzo prima. Su tutte spicca la pistola CZ calibro 9 matr. 276754 con relativo caricatore: fu usata per uccidere Aldo Moro in via Montalcini la mattina del 9 maggio 1978. Queste le altre armi trovate a casa della “nonnina”. «Un mitra Sterling M.K. 4 cal 9 para, matr. KR- 27401, con cinque caricatori, moschetto Sterling 95, cal 8 matr. 9839- G/9586-M; la pistola Colt cal. 22 L.R. matr. 1092021, con relativo caricatore; una pistola Beretta mod. 35 cal. 7,65 con relativo caricatore e matr. punzonata; una pistola Beretta mod. 1915 cal. 7,65 priva di matr. e con relativo caricatore; una pistola lanciarazzi “Modern”; cinque caricatori per pistola di cui 4 cal. 7,65 e 1 cal. 9; la canna per la pistola cal. 7,65 matr. T-34121; n. 12 cartucce a salve cal.7,62 Nato, n.160 cartucce cal. 7,62 Nato, n. 26 cartucce cal 9; n. 30 cartucce cal. 38 Special; n. 138 cartucce cal. 9 para; n. 26 cartucce cal. 7,65 para; n. 10 cartucce cal. 38 Special; ; una bomba da fucile contro carro a carica cava mod.Strim-FN MM 32 2A:una bomba da fucile ad azione polivalente mod. Cren Rifle n. 103; due bombe da fucile di fabbricazione artigianale; gr. 400 circa “gelatina - dinamite”; un ordigno incendiario formato da una tanica contenente benzina e nafta con attaccato un contenitore con gr. 100 di clorato di potassio; 11 detonatori elettrici; 9 detonatori a miccia; 2 congegni per esplosione a telecomando; 60 accendimiccia; 2 bombolette di gas paralizzante».

VIA PALESTRO - Il covo era situato nell’appartamento situato al civico 19 interno 1. La base fu scoperta il 4 ottobre del 1980. Il locale fu definito dagli inquirenti “appartamento-laboratorio-magazzino. All’interno furono sequestrati «un mitra Sterling M.K.4. cal 9 para matr. KR.-29531 con due caricatori; una Browning cal. 7,65 abrasa con relativo caricatore n. 18 cartucce cal. 7,65; parti di pistola cal. 4,5 mod; Mondial - Oklaoma; canna e parte del carrello di pistoAgenti e carabinieri armati alla ricerca del terrorista sfuggito alla “trappola” di via Peschiera Documenti sequestrati nel box di via Montallegro Folla in via Peschiera: il blitz in diretta Un carabiniere mostra alcuni documenti rinvenuti nel covo di via Palestro.

APPARIZIONE - Il 28 settembre1980 in località Poggio agenti della Digos e carabinieri trovarono nei pressi di una casa colonica il mitra Beretta m. 12 cal. 9 para, matr. E-9730, sottratto a Vittorio Battaglini, il maresciallo dei carabinieri freddato il 21 novembre del ’79 al bar “Da Nino” di via G. B. Monti a Sampierdarena insieme al collega Mario Tosa. Oltre al mitra furono sequestrati una pistola monocolpo a due canne cal. 6 mm Flobert matr. 11334; n. 300 cartucce cal. 22; n. 15 cariche lancio per fucile mitragliatore F.A.L. cal 7,62 Nato; n. 100 cartucce cal. 6 Flobert; n. 1 tromboncino per F.A.L.. Alcuni ritagli di giornali trovati tra le armi indicarono che quel deposito era stato individuato da tempo.

VIA MONTALLEGRO - Più che un covo era un magazzino. Nel box di via Montallegro 8 i poliziotti fecero irruzione il 25 settembre sempre del 1980. Dentro trovarono: «un mitra M.A.B. cal. 9 para matr. KR-30010 con due caricatori; due caricatori per fucile mitragliatore F.A.L. la pistola Beretta mod. 81 cal. 7,65 matr. D-18349 munita di due caricatori e silenziatore, una pistola Franchi - Lama cal. 22 l.R; munita di caricatore con matricola punzonata; il revolver Arminius HW3 cal. 22 con matricola abrasa e sul tamburo matr. 4063; una canna per pistola cal. 7,65, cm 12 di miccia colore rosso; n. 13 cartucce cal. 9 corto; n. 42 cartucce cal. 9 para; n. 100 cartucce cal. 7,65 n. 36 cartucce cal. 22 LM.R.; una bomba a mano M.KI.2.; n. 15 detonatori elettrici; n. 13 detonatori ed un telecomando per brillamento».

SALITA SAN FRANCESCO DA PAOLA - Sempre negli stessi giorni in un’abitazione al numero 53/11 furono rinvenute una pistola lanciarazzi Mondial e n. 6 cartucce cal 6 mm Flobert; un pezzo di miccia; un caricatore per pistola con n. 6 cartucce cal. 9.

SAMPIERDARENA - In corso Martinetti, sempre intorno a metà ottobre, furono sequestrati 35 chili di esplosivo. Un autentico arsenale (non siamo in grado di indicare le armi che vi erano custodite) fu scoperto nei pressi del forte Crocetta, sulle alture di Sampierdarena.

NERVI, VIA CASOTTI - Fu una delle ultime operazioni condotte dai carabinieri contro i resti della colonna genovese. Risale infatti al 20 dicembre 1981. Il covo era in un magazzino al 142 rosso di via Casotti.All’interno furono trovati i “fascicoli” relativi ad alcune inchieste su nuovi obiettivi da colpire. Nel mirino c’erano un politico con incarichi nazionali e un economista.Il primo avrebbe dovuto essere ucciso, il secondo gambizzato. Andrea Ferro.

GRAZIANO MAZZARELLO DEPUTATO DIESSINO RICORDA GLI ANNI DI PIOMBO NELLA NOSTRA CITTÀ. «Facemmo un lavoro capillare per impedirne l’accesso in fabbrica», scrive Paolo De Totero. «In quell’epoca ero il responsabile delle fabbriche del ponente. Conoscevo bene Guido Rossa» Graziano Mazzarello, cinquant’anni, deputato diessino, un passato come consigliere regionale e come segretario della federazione comunista ricorda bene quel periodo, “gli anni di piombo a Genova”: il blitz di via Fracchia, la spietata esecuzione di Guido Rossa, il sindacalista dell’Italsider ucciso proprio da Riccardo Dura (il terrorista che trovò la morte un anno dopo proprio nel covo di Oregina). Mazzarello, allora operaio dell’Italcantieri, iscritto al Pci, nel 1980 era il responsabile delle fabbriche del ponente. «Ricordo - spiega il parlamentare diessino - che ebbi immediatamente la sensazione che qualcosa stesse cambiando. Come se si trattasse di una vera e propria svolta nella guerra che lo Stato stava combattendo contro la lotta armata dei brigatisti rossi. La consideravo anche una nostra vittoria perché in quel momento noi pensavamo che le “Bierre” fossero nemici della classe operaia. Tanto - confida Mazzarello - che fra noi e la polizia esisteva una sorta di collaborazione, seppure riservata». E il momento della consapevolezza piena e generale che i brigatisti non erano più “Compagni che sbagliano” ma come ricorda Mazzarello “Nemici della classe operaia” era stato proprio quello dell’uccisione di Guido Rossa. «Dopo quella efferata esecuzione - conferma il deputato dei Ds - ebbi la consapevolezza che la fase stesse cambiando. Insomma, che i brigatisti fossero nemici della classe operaia era diventato un assunto ben presente nella coscienza dei lavoratori e un’idea condivisa dalla generalità dei nostri iscritti e degli iscritti al sindacato». «Sotto questo aspetto a Genova - afferma ancora Mazzarello - c’era meno ambiguità nel tessuto operaio, rispetto ad altri centri industriali dell’Italia del Nord. C’era una maggior attenzione, una vera e propria partecipazione militante per impedire che qualcuno di loro potesse introdursi nelle fabbriche. Noi stessi avevamo una coscienza particolarmente sviluppata sotto questo punto di vista. A capo di tutto questo lavoro di vigilanza a livello nazionale c’era Ugo Pecchioli, una sorta di ministro dell’interno del Pci. E dopo Rossa, quando la polizia otteneva dei risultati, il successo era come se fosse stato anche nostro». Ma c’è ancora un luogo comune che Graziano Mazzarello intende sfatare ed è quello più volte ripetuto nel corso di ogni commemorazione, ossia che Guido Rossa fosse isolato. «Non è vero, io stesso lo conoscevo e ho lavorato insieme a lui. Probabilmente non si poteva supporre che i brigatisti potessero arrivare a tanto, che ci sarebbe stato un simile salto di qualità nella lotta armata». Paolo De Totero.

Una partita a scacchi iniziata, brandine e tanto disordine, scrive Andrea Ferro. Le ultime tracce che sanno di vita nella casa prima che si scateni l’orrore sono inquadrate alla luce dei flash dei carabinieri durante la “ricognizione” fotografica avvenuta nelle prime ore del mattino di quel maledetto 28 marzo di ventiquattro anni fa. Le foto che pubblichiamo nell’edizione di oggi sono le ultime immagini, inedite, in nostro possesso dopo quelle comparse sulle edizioni del “Corriere Mercantile” in edicola giovedì, venerdì e ieri. E con oggi si chiude la nostra rievocazione di quella pagina, tragica, discussa, molto probabilmente decisiva, della lotta ingaggiata dallo Stato contro le Brigate rosse che lo avevano attaccato al cuore, come recitava il proclama che rivendicò la prima strage: l’agguato contro il procuratore generale Francesco Coco, il brigadiere di polizia, Giovanni Saponara e l’appuntato dei carabinieri, Antioco Dejana compiuto dalle Br l’8 giugno del 1976.

L’ULTIMA CENA - In cucina si accede direttamente dall’ingresso. E’ un vano di pochi metri quadrati, il più piccolo. La foto è stata scattata all’altezza della porta, sul lato destro dell’ingresso rispetto al pianerottolo. Di fronte appare il lavabo. Si intravedono una padella, un “colapasta”, lasciati da lavare. A fianco il forno con pentole, una teglia, mestoli. Il tavolo è piccolo e quadrato con la mensola allungabile. Si vede la spalliera di una sedia, poi due sgabelli, uno rettangolare (basso), l’altro rotondo. I piatti sono tre, tutti fondi, uno per lato. Contengono i resti dell’ultima cena consumata nel covo. Si intravedono distintamente una caffettiera, un fiasco coperto da un cartone. La sensazione è di un pasto frugale. La cucina è l’unico vano all’interno del quale non si notano tracce della sparatoria. Nell’intervista pubblicata nella nostra edizione di ieri Michele Riccio, l’ufficiale dei carabinieri che guidò il blitz, racconta che dopo il conflitto a fuoco e la constatazione della morte dei quattro si fermò a lungo in cucina per eseguire l’ordine impartito telefonicamente dal suo capo, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: compiere l’inventario del materiale che di volta in volta i suoi uomini trovavano negli altri vani della base di Oregina. Sempre secondo le dichiarazioni rese da Riccio al nostro giornale i brigatisti avrebbero cercato di manifestare segnali precisi che potessero indicare il numero degli occupanti dell’abitazione. Consapevoli delle tecniche investigative dell’avversario avrebbero infatti ridotto al minimo indispensabile i consumi di luce, gas e acqua. «Constatammo che i contatori erano quasi fermi», ha ricordato Riccio.

LA CAMERA DA LETTO - La foto è stata pubblicata già nella prima pagina di ieri. Ritrae la camera da letto. Il vano si allarga in fondo al corridoio. La prima sensazione è di un grande disordine. Evidentemente i carabinieri dopo aver percorso il corridoio sul quale giacevano i corpi dei quattro brigatisti si precipitarono armati in tutte le stanze alla ricerca di altre persone che nel frattempo avrebbero potuto nascondersi in ogni angolo della casa. Secondo la ricostruzione di Riccio il conflitto a fuoco avvenne praticamente al buio fatta eccezione del faro impugnato da uno dei suoi uomini. Dopo essersi assicurati che dentro la casa non c’era nessun altro i carabinieri iniziarono la perquisizione alla ricerca del “materiale”: armi, documenti, schede e tutto quanto potesse avere “valenza investigativa”. Su questo punto Dalla Chiesa si raccomandò già nella riunione avvenuta nelle ore precedenti il blitz (la sera del 27 marzo) negli uffici dell’Arma di via Ippolito d’Aste e alla quale il generale intervenne telefonicamente riferendo al tenente colonnello Nicolò Bozzo, suo braccio destro per il Nord Italia (lo ha raccontato ancora Riccio, il brano ieri è stato parzialmente omesso nella ricostruzione pubblicata ieri per ragioni di spazio).

UNA BRANDA E UN LETTO - La foto è scattata frontalmente, dal lato destro rispetto alla porta d’ingresso. I due lati del muro sono tappezzati con carta da parati che richiama una fantasia tipica dell’epoca. In primo piano c’è la rete matrimoniale sulla quale, evidentemente, dormivano due dei quattro occupanti dell’appartamento. L’altro letto è un mobile-branda reclinabile sul quale è rimboccata una coperta “scozzese”. C’è grande disordine sul pavimento accanto alla branda. Sulla mensola superiore ci sono una pistola e un sacchetto di cellophane all’interno del quale c’è un’altra arma. A occhio nudo il particolare non si nota. Lo abbiamo stabilito dopo l’ingrandimento al computer dell’immagine e la lettura degli atti processuali. I documenti si riferiscono al procedimento avviato un anno dopo nei confronti di una trentina di imputati finiti davanti ai giudici della Corte d’Assise perché indicati come i componenti della colonna genovese delle Brigate rosse.

IL TAVOLO - Il televisore è di colore bianco, con le antenne sollevate parallelamente; si intravede il filo. Sul tavolo le carte sono ammucchiate. Si evince che prima dello scatto qualcuno abbia rovistato, piuttosto freneticamente, tra il materiale. Presumibilmente sul tavolo erano custodite carte, documenti, schede, “atti” delle indagini condotte dai brigatisti su altri possibili obiettivi della lotta armata: da uccidere, da gambizzare. Si intravede la copertina di un libro sul quale è stampata una fotografia. Accanto c’è una targa automobilistica, primo modello, risultata rubata. Inizia con la sigla della città “GE”. Dagli atti processuali deduciamo che i numeri seguenti sono: 49909. La targa apparteneva ad una “Fiat 200-B/F 850”. I brigatisti erano in possesso anche della relativa carta di circolazione (nell’edizione di ieri abbiamo pubblicato l’inventario di tutti i documenti sequestrati nel covo).

LA VALIGETTA - E’ una cartella, presumibilmente di pelle. Sembra chiusa. A pochi centimetri c’è il piede di una sedia con il sedile e lo schienale imbottiti.

LA MENSOLA - Del mobile-branda pubblichiamo una seconda fotografia. Ritrae la mensola inferiore. In uno spazio ridottissimo c’è un po’ di tutto. Il particolare più “suggestivo” è costituito dal denaro. E’ una mazzetta da centomila alta almeno un centimetro. Le banconote sembrano uscite direttamente dalla zecca. Sono impilate alla perfezione. Una mazzetta appunto. Quasi sicuramente il denaro faceva parte del bottino di qualche rapina compiuta nei mesi precedenti dall’organizzazione e costituiva la “riserva di cassa” della base. All’interno del covo (da quanto possiamo stabilire) non fu sequestrato altro denaro.

LA SCACCHIERA - La mazzetta è sopra una scacchiera, i pezzi (bianchi e neri) sono ammucchiati verso la parete. Sotto la scacchiera si intravedono alcuni fascicoli. Sulla mensola sono appoggiati un vaso di vetro, un cappello (una coppola) e un paio d’occhiali da vista. Andrea Ferro.

IN UN LIBRO L’AUTORE RICOSTRUISCE LE CONSEGUENZE DEL BLITZ NEL COVO DI OREGINA. Bocca: «Si infiltrarono nelle fabbriche prima della fine» Così Giorgio Bocca ricostruisce le conseguenze politiche e militari del blitz di via Fracchia con l’uccisione dei quattro brigatisti nel libro “Noi terroristi, dodici anni di lotta armata ricostruiti e discussi con i protagonisti” edito da CDE e pubblicato nel gennaio del 1986. Il brano è tratto dal capitolo “BR genovesi, il mito della imprendibilità”. «La strage provoca un’“esplosione ritardata”. Decine di giovani sull’onda della emozione chiedono di entrare nelle Br e Lo Bianco, rimasto solo a guidarle, li accetta. «Ai primi arresti», dice Fenzi - «arrivarono in questura le madri, abbracci e baci con i ragazzini piangenti, l’invito materno subito accolto a vuotare il sacco e in pochi giorni finirono tutti in galera, le BR genovesi erano finite e finite per sempre. Ci fu anche un caso patetico dell’avvocato Arnaldi, per certi aspetti simile a quello di Feltrinelli, due che dovevano recuperare la loro resistenza mancata. Arnaldi si sentiva orfano di antifascismo e di rivoluzione, voleva fare il brigatista. Se incontrava uno di noi chiedeva ansioso: «Dici che mi apprezzano? Che mi stimano? Sembra incredibile, ma sperava che suo figlio studiasse da brigatista». Ebbene la certezza di essere scoperto quando seppe che Peci parlava. Pochi giorni prima, durante un colloquio con Micaletto, presente Peci gli aveva detto di essere entrato nella colonna genovese. Peci era lì a due passi, aveva certamente sentito. Era anche malato, gravemente, ma non voleva farsi operare perché aveva l’ossessione dei servizi segreti: «Quelli mi fanno parlare sotto anestesia», diceva. Ma aveva pochissimo da dire. Quando la polizia suonò alla porta di casa sua, sentì che era la fine e forse pensò che il suicidio avrebbe risolto tutti i suoi problemi. Chiese di andare nella toilette e si sparò. A mio avviso anche la sua scomparsa totale, irrimediabile nelle BR genovesi testimonia della loro genovesità. Il partito guerriglia, il cavalcamento di tutte le trasgressioni a Genova era impensabile: o si trovava un rapporto con le fabbriche oppure si chiudeva bottega. Per ironia della sorte le prime infiltrazioni brigatiste nelle fabbriche ebbero successo pochi giorni prima della fine, eravamo riusciti a portare a casa nostra tre o quattro sindacalisti veri, importanti. Che resta da dire? Che anche a Genova come a Milano, ci fu il rigetto della Balzarini, mandata da Moretti a reggere la colonna. Era, nel privato una donna bella e gentile, lei e Moretti si scambiavano piccoli doni, tenerezze. Ed era amica piacevole, colta. Ma come dirigente si trasformava in una capetta dogmatica, intrattabile», Ma questi sono i misteri della psicologia guerrigliera. Città dura Genova: la sua borghesia ha pagato senza recriminare dal rapimento Costa al ferimento dell’ingegner Sibilla, senza alzare pianti scomposti, senza uscire dal suo riserbo. C’è un doppio pudore comunista a Genova: quello della classe operaia e quello della genovesità. Di certe cose non si parla né fuori dalla classe né con i foresti.

NESSUN MISTERO DIETRO LA PUBBLICAZIONE DELLE IMMAGINI ESCLUSIVE. In quelle foto c’è la storia, scrive Mimmo Angeli. La rievocazione storica della strage di via Fracchia, con la pubblicazione delle foto inedite del blitz, ha suscitato una serie di commenti, illazioni, critiche. E’ bene chiarire subito che il collega Andrea Ferro ha semplicemente fatto - molto bene - il suo mestiere di cronista. Il nostro giornale ha svolto la sua funzione di informare. Quelle foto, indubbiamente crude, costituiscono una novità per i lettori e rappresentano un documento storico. Perchè vengono pubblicate dopo 24 anni? Semplice la risposta: perchè soltanto oggi chi le aveva cercate è riuscito ad averle. Niente dietrologia in questa vicenda, nessun scopo recondito, nessuna intenzione di sposare tesi precostituite in favore di nessuno. Lo testimoniano i servizi che hanno corredato le immagini. Chiunque fosse stato interpellato ha espresso, in piena libertà, il suo punto di vista sulla vicenda. La storia è ricca di “se” e “ma”, interpretazioni, giudizi, analisi. Non era certo nostra intenzione riaprire polemiche ma, semplicemente, integrare la ricostruzione fin qui nota di quella tragica notte. Non tutti hanno approvato la nostra scelta. Sono opinioni libere e come tali le rispettiamo. A noi però preme ribadire che, dietro quelle immagini, c’è soltanto il lavoro, la volontà, il desiderio del giornale di offrire ai propri lettori un documento di storia contemporanea. Mimmo Angeli

A UN SETTIMANALE Le fotografie “cedute” solo per beneficenza. Le immagini che abbiamo pubblicato nelle nostre ultime quattro edizioni costituiscono un eccezionale documento storico. Come abbiamo scritto più volte in questi giorni, le foto furono scattate dai carabinieri poche ore dopo il blitz. Materiale inedito, insomma. Di un valore storico ma anche “commerciale”. I diritti per la pubblicazione delle foto sono stati ceduti (esclusivamente per sette giorni) ad un noto settimanale nazionale che le pubblicherà nel numero in edicola venerdì prossimo. Ma nè l’autore di questo servizio, nè il giornale hanno mai pensato di trarne un vantaggio economico. Si è deciso di concedere i diritti esclusivamente in cambio di un’offerta, generosa, a favore delle attività assistenziali del Reparto di Chemioterapia dell’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna diretto dal professor Gaetano Bacci.

Brigate Rosse - La verità negata. Quindici domande di Valerio Lucarelli senza risposta. Solo una parte di quelle che la storia infinita delle Brigate Rosse ha seminato dietro di sé. Un abisso insostenibile per un paese che non avrà mai un futuro se non farà luce sul proprio passato.  Nessuna affannosa dietrologia, solo la ricerca di una Verità chiara e definitiva. Ma la domanda che è urgente porsi oggi è una sola. Le Br sono state definitivamente debellate o per miracolo sapranno rigenerarsi? Azzardo una risposta: all'occorrenza.

Marco Pisetta, Silvano Girotto, Francesco Marra. Nei primi anni 70 le forze dell'ordine sono state in grado di infiltrarsi almeno tre volte nelle BR. Possibile che tale fenomeno non si sia più verificato di fronte a BR più vaste e sanguinarie? Perché Frate Mitra è stato bruciato subito anziché approfittare del ruolo che si stava ritagliando all'interno delle Brigate Rosse? Non le si voleva annientare del tutto? 

Alla Cascina Spiotta, dove era imprigionato l'industriale Vallarino Gancia, Mara Cagol cadde in un conflitto a fuoco o bisogna credere all'autopsia che parlò di colpo sparato per uccidere? 

Chi consegnò all'agente G.71 Antonino Arconte, alcuni giorni prima del sequestro di Moro, il plico diretto ai servizi segreti israeliani con la richiesta di aiuto per salvare lo statista democristiano? 

Cosa conosceva Mino Pecorelli per fargli annunciare che il 15 Marzo 1978 sarebbe accaduto qualcosa di gravissimo in Italia? Era entrato in possesso del memoriale di Moro? Fu ucciso per le verità che minacciava di portare allo scoperto? 

Perché Andreotti aveva l'auto blindata e l'analoga richiesta fatta da Oreste Leonardi, capo della scorta di Moro fu rifiutata? 

L'istituto francese Hyperion era realmente una scuola di lingue o la stanza di compensazione di diversi servizi segreti? 

Che fine hanno fatto le borse di Aldo Moro? Il leader democristiano le portava sempre con sé. Contenevano documenti compromettenti? Il memoriale scritto durante la prigionia era completo? Perché non fu mai trovata la copia originale? 

Chi ha commissionato a Toni Chicchiarelli della Banda della Magliana il falso comunicato n°7 che annunciava la morte di Aldo Moro? Quale era il messaggio trasversale che voleva lanciare? 

È lecito credere che personaggi dello spessore di Romano Prodi, Mario Baldassarri e Alberto Clò, in una tranquilla domenica trascorsa in famiglia, decidano di fare una seduta spiritica e che proprio in quella circostanza esca il nome di Gradoli? Da dove proveniva realmente quell'informazione? 

Chi e perché ha voluto far scoprire il covo di Via Gradoli dove si nascondeva Mario Moretti? Possibile che Barbara Balzerani fosse distratta al punto da lasciare una scopa nella doccia causando un'infiltrazione (scusate il gioco di parole...) al piano inferiore? Perché si diede immediata evidenza della scoperta del covo consentendo a Moretti di svignarsela tranquillamente? 

Mario Moretti: spia o puro rivoluzionario? 

Cosa si nasconde dietro l'omicidio di Guido Rossa? È plausibile che Riccardo Dura non abbia rispettato il compito di gambizzare il sindacalista, inferocito per la denuncia che aveva portato all'arresto del postino Belardi? 

A Via Fracchia ci fu uno scontro a fuoco come dichiarato ufficialmente dai Carabinieri del Generale Dalla Chiesa o venne eseguita la condanna a morte di quattro brigatisti fra cui lo stesso Dura? 

Un'informativa redatta da un ufficiale dell'Arma, nome in codice Ciondolo, descriveva come imminente un attentato a Walter Tobagi, indicando persino l'area in cui quel delitto stava maturando. Perché venne tralasciata, di fatti condannando a morte il giornalista? 

Perché fu revocata la scorta a Marco Biagi nonostante le continue minacce ricevute e una relazione dei servizi segreti, pubblicata da "Panorama", che lo identificava come un chiaro obiettivo delle BR? Cosa si stava per scoprire riguardo la mail di rivendicazione dell'omicidio? 

GLI INFILTRATI DI STATO.

Lotta Continua: c’era un infiltrato dei servizi? Scrive il 30/01/2019 Il Giornale Off. Il mercato editoriale italiano non è povero di libri sull’argomento terrorismo, alcuni dei quali molto interessanti per i contenuti (storici, suffragati da indagini e sentenze) non del tutto conosciuti alla pubblica opinione. Chissà se qualche editore pubblicherà un libro sull’argomento Lotta Continua scritto dal dottor Guido Salvini (o una lunga intervista), magistrato presso il tribunale di Cremona, già giudice istruttore e poi giudice per le indagini preliminari a Milano, che fra l’altro scrisse un’interessantissima prefazione a un libro sul..”suicidio/omicidio” di Giangiacomo Feltrinelli…A proposito del recente arresto del latitante dei PAC, Proletari Armati per il Comunismo, Cesare Battisti, il dottor Salvini ha dichiarato (fonte: Gianni Barbacetto per il “Fatto quotidiano” ripreso da Dagospia, n.d.r.): “Purtroppo la cattura di Battisti poco avrà da dirci sulle pagine rimaste ancora oscure degli anni di piombo. Ma ci sono altri latitanti che potrebbero chiarire le storie tragiche di cui sono stati protagonisti: Giorgio Pietrostefani, per esempio, il dirigente di Lotta Continua condannato per l’uccisione del commissario Luigi Calabresi. Di quell’omicidio, nonostante le condanne, non si sa tutto […]. Pietrostefani è a conoscenza di quei segreti e se tornasse in Italia potrebbe rivelarli. Non dimentichiamo che quello del commissario non fu un crimine qualsiasi, è stato il primo omicidio politico, legato a piazza Fontana e ideato prima ancora che iniziasse il terrorismo con i suoi crimini seriali”.

Adriano Sofri, fondatore di Lotta Continua e condannato nel 1997 per l’omicidio Calabresi (Sofri non ha mai presentato richiesta di grazia, ritenendo un tale atto incongruo a sanare la posizione personale di un innocente. Nel giugno del 2005 ottiene la semilibertà. Nel 2012 l’ufficio di sorveglianza di Firenze firma il provvedimento di fine pena, n.d.r.), replica dalle colonne del Foglio, dove da sempre ha una sua rubrica, affermando che Pietrostefani vive a Parigi e che ha scelto di fuggire all’estero “a malincuore, per una sola ragione: a differenza di Ovidio Bompressi e me, che avevamo figli grandi, aveva una figlia bambina e scelse di starle vicino. Gli costò. Io ne fui contento”. Controreplica di Guido Salvini, sempre sul Foglio, in una lettera al quotidiano: “Dopo le confessioni di Leonardo Marino e le sentenze delle Corti di Milano, nessuna persona di buon senso può credere che Lotta continua non abbia fatto la sua parte in quell’omicidio. È una storia che comunque non conosciamo per intero. Per esempio chi era l’informatore del Sid “Como”, di cui ho trovato negli anni Novanta le relazioni e che faceva parte dell’esecutivo di Lotta continua nel periodo dell’omicidio Calabresi? I dirigenti di Lotta continua dell’epoca sarebbero in grado di identificarlo; non si può escludere nessuno, lo dico come mera ipotesi, nemmeno che fosse Pietrostefani o una persona a lui vicina. Posto che militanti di Lotta Continua hanno certamente eseguito l’omicidio, a quale livello militare o politico è stata presa quella decisione? Ci furono dissensi interni? [..] Come è andata? […] Per ora non ci sono le risposte che sarebbe giusto avere prima che quella generazione scompaia. Senza dare queste risposte non si ha diritto di chiedere la verità su altro, quello che è avvenuto nel 1969, ad esempio, e negli anni successivi”. Chissà se seguiranno degli sviluppi. Chissà se prima del tempo alcuni snodi tragici e fondamentali della storia repubblicana troveranno risposte.

Il caso Moro e gli infiltrati dei servizi nelle brigate rosse, scrive il 4 giugno 2018 Piccole Note su Il Giornale. Difficile dire cose nuove sul caso Moro, la tragedia che ha cambiato l’Italia nel profondo e che resta snodo centrale della storia del nostro Paese, anche recente (è nota l’assidua frequentazione del presidente del consiglio italiano Matteo Renzi con Michael Ledeen, uomo della Nato la cui storia personale è legata anche a quei giorni).  Tante interpretazioni di quell’oscura vicenda, tanti interrogativi, tante spiegazioni o rivelazioni che spesso vanno a intorbidire ancora di più le acque. A dire qualcosa di nuovo è stato Giovanni Galloni, figura di primo piano della democrazia cristiana, in una intervista a una televisione poco nota, Attivo-tv, tempo fa. Nel suo intervento, l’esponente della Dc, ricordando quei giorni, spiega: «Io non posso dimenticare il discorso che ebbi con Moro poche settimane prima del suo rapimento. Discutevamo con Moro delle Br, delle difficoltà di trovare i covi delle Br, e Moro mi disse: “La mia preoccupazione è questa: che io ho per certo la notizia che i servizi segreti sia americani che israeliani hanno degli infiltrati all’interno nelle Br, però non siamo stati avvertiti di questo, perché se fossimo stati avvertiti i covi li avremmo trovati». Un ricordo postumo, che giustifica così: «Me ne sono ricordato proprio per le difficoltà che nei 55 giorni della prigionia di Moro noi avemmo con i nostri servizi segreti a metterci in contatto con i servizi segreti americani per ritrovare la prigione di Moro, che non fu mai ritrovata». Mentre invece, ragiona ancora Galloni, quanto le Brigate rosse rapirono il generale americano James Lee Dozier (1981) «la prigione fu ritrovata nel giro di quindici giorni». Possibile che da questi infiltrati all’interno delle Brigate rosse non arrivò alcuna indicazione? A questa domanda, posta dall’intervistatore, Galloni risponde che forse qualche informazione, in effetti, era trapelata. E rammenta come il giornalista Carmine Pecorelli, del cui assassinio «fu accusato ingiustamente Andreotti», doveva aver saputo qualcosa. Così Galloni: «Pecorelli tre giorni prima del rapimento di Moro scrisse una notizia un po’ ambigua sulla sua agenzia, dicendo: “il 15 di marzosi verificherà un nuovo fatto gravissimo in Italia in cui saranno implicate personalità di grande rilievo”. Lo disse tre giorni prima […]. In realtà poi sapemmo che la cattura di Moro doveva avvenire il giorno prima [Moro fu rapito il 16 marzo ndr.], quindi aveva imbroccato decisamente tutto». Tanto che, è l’ipotesi di Galloni, il direttore dell’Osservatore politico (Op) sarebbe stato ucciso proprio perché, a un certo punto, avrebbe minacciato «di rivelare da dove aveva attinto quelle notizie. E fu fatto fuori scientificamente, in maniera molto adeguata, probabilmente da servizi». Il mistero che ancora aleggia su quell’oscura vicenda è dovuto anche alla reticenza dei brigatisti. Le loro dichiarazioni, infatti, non sono state «convincenti», secondo quanto riferito a Galloni dai magistrati che in diverse inchieste e gradi di giudizio hanno cercato di far luce sul caso Moro. Ancora Galloni: «Le brigate rosse interrogate oggi ci dicono che hanno già detto tutto […] Non è così. Probabilmente qualche cosa ci hanno taciuto; anche loro hanno voluto coprire certe situazioni, certe realtà. Questo è l’interrogativo che nasce». Un interrogativo che investe anche i servizi segreti italiani, meglio i servizi «cosiddetti deviati», che poi deviati non furono secondo Galloni. Semplicemente si trattava di funzionari che «in buona fede, ritenevano che, stante la stretta alleanza che avevamo con l’America, su alcune questioni delicate dovevano rispondere prima ai loro colleghi americani della Cia che non al governo italiano».

Lo rivela l'ex vicesegretario DC, Giovanni Galloni. Moro sapeva che le "Br" erano infiltrate da Cia e Mossad, scrive il 13 luglio 2015 Pmli. Prendendo spunto dal caso dell'imam egiziano rapito da spie americane nel nostro Paese, in un'intervista trasmessa il 4 luglio scorso dal programma di approfondimento quotidiano "Next" di Rainews24, l'ex vicepresidente della DC Giovanni Galloni ha rivelato nuovi particolari sul rapimento di Aldo Moro che confermano l'ipotesi non nuova di un ruolo occulto della Cia e del Mossad in quella vicenda. "Non posso dimenticare - ha dichiarato Galloni - un discorso con Moro poche settimane prima del suo rapimento: si discuteva delle BR, delle difficoltà di trovare i covi. E Moro mi disse: 'La mia preoccupazione è questa: che io so per certa la notizia che i servizi segreti sia americani che israeliani hanno infiltrati nelle BR ma noi non siamo stati avvertiti di questo, sennò i covi li avremmo trovati"'. L'ex vicepresidente del CSM ha aggiunto di essersene ricordato proprio ora "perché nei 55 giorni di prigionia di Moro avemmo grandi difficoltà a metterci in contatto con i servizi americani, difficoltà che non incontrammo poi durante il rapimento del generale Dozier". Il generale americano della Nato J. L. Dozier fu rapito dalle "BR" a Verona il 17 dicembre 1981 e liberato senza colpo ferire con un blitz delle forze speciali dei Nocs il 28 gennaio 1982. Il modo rapido e apparentemente "brillante" con cui fu risolto il caso destò subito forti sospetti sulla possibilità che i rapitori fossero infiltrati dai servizi segreti americani, se non addirittura che la "liberazione" dell'ostaggio fosse stata in qualche modo concordata con i rapitori. Galloni conferma questi sospetti, rivelando una sorta di politica a doppio binario da parte dei servizi segreti Usa nei due casi: collaborativa nel caso di Dozier, per nulla collaborativa nel caso del rapimento di Moro. In effetti Galloni aveva già rivelato qualcosa di simile qualche anno fa, il 22 luglio 1998 davanti alla Commissione parlamentare sulle stragi, quando riferì che Moro gli aveva detto: "La cosa che mi preoccupa è che credo che i Servizi segreti americani e israeliani abbiano elementi sulle Brigate rosse che ci sarebbero utili per le nostre indagini, ma non ce li hanno detti". Secondo questa prima dichiarazione Moro avrebbe lamentato solo una mancanza di informazioni da parte dei servizi Usa e israeliani, mentre ora Galloni precisa che il presidente della DC era "certo" che essi avessero degli infiltrati nelle "BR" e che di questo non tenessero informate le autorità italiane.

Il vero obiettivo del rapimento Moro. La differenza è sostanziale, e tale da dare corpo all'ipotesi, già avanzata da alcune fonti e suffragata da diversi elementi mai chiariti finora, della presenza di spie della Cia e del Mossad dietro le quinte del rapimento di Moro. In particolare le rivelazioni di Galloni confermano in pieno quello che noi abbiamo sempre denunciato e sostenuto fin dall'inizio della vicenda di Moro, e cioè che il suo rapimento, detenzione e assassinio furono pianificati ed eterodiretti, tramite l'infiltrazione della Cia e del Mossad nelle sedicenti "Brigate rosse", da parte del governo Usa per impedire che si realizzasse il disegno di Moro di pilotare l'ingresso del PCI in un governo di "unità nazionale" insieme alla DC. A conferma di ciò Galloni aggiunge nell'intervista altri particolari significativi, come l'osservazione che "tutti i magistrati che hanno lavorato sul rapimento Moro hanno detto che le dichiarazioni delle BR non sono state del tutto convincenti. I brigatisti interrogati ci dicono di aver raccontato tutto ma sappiamo che non è così. Qualcosa ci hanno taciuto, resta da capire che cosa hanno voluto coprire. E l'interrogativo nasce in relazione anche ai servizi segreti deviati italiani, che rispondevano prima ai colleghi americani della Cia che ai loro superiori". E come l'impressione riportata dai suoi numerosi viaggi negli Usa effettuati tra il 1978 e il 1984, dove "venni a sapere - confida l'ex vicepresidente della DC e del CSM - che la Cia era estremamente preoccupata per l'Italia, per il fatto che se i comunisti arrivavano al governo loro non avrebbero potuto mettere certe basi in Italia: una questione di vita o di morte, per loro, rispetto alla quale qualunque atto sarebbe stato giustificabile". Che gli americani avessero informazioni di prima mano sul rapimento di Moro, tali che se avessero voluto avrebbero potuto portare all'individuazione della prigione di Moro di via Montalcini, per Galloni è dimostrato anche dallo strano preannuncio del rapimento dello statista democristiano, fatto tre giorni prima in forma criptica dal giornalista Mino Pecorelli, legato ai servizi italiani "deviati" e alla Cia, sul suo foglio scandalistico "OP". "L'assassinio di Pecorelli - aggiunge l'intervistato - potrebbe essere stato determinato dalle cose che il giornalista era in grado di rivelare". Le rivelazioni di Galloni sul coinvolgimento dei servizi segreti americani nella vicenda Moro sono suffragate anche da una testimonianza del giornalista de "l'Unità" Luigi Cancrini, che in un articolo sul suddetto quotidiano del 7 luglio riporta le confidenze che gli furono fatte nel 1990 in punto di morte dal professor Franco Ferracuti, docente di psicologia giuridica all'università della Sapienza, uomo legato ai servizi segreti e alla P2 e facente parte della commissione del ministero degli Interni istituita da Cossiga al tempo del sequestro di Moro: il professore gli rivelò che le riunioni della commissione che coordinava al massimo livello le azioni di tutte le forze dell'ordine erano "non solo frequentate ma sostanzialmente dirette da due funzionari della Cia".

Reazioni sprezzanti. Malgrado tutto ciò le dichiarazioni di Galloni a Rainews24 sono state praticamente ignorate tanto dalla destra neofascista quanto dalla "sinistra" borghese, ormai perfettamente convergenti nel negare qualsiasi interpretazione "dietrologica" del rapimento e dell'uccisione di Moro, attribuendoli esclusivamente all'ideologia "rivoluzionaria" aberrante dei sedicenti "brigatisti rossi". C'è da segnalare tuttavia gli interventi di due "parti in causa", e cioè i senatori neofascisti Francesco Cossiga e Paolo Guzzanti. Il primo, con una lunga lettera a "l'Unità" del 7 luglio, in cui ridicolizza "i ricordi sinistri di Galloni", sostenendo che al tempo del rapimento Moro mai quest'ultimo, pur essendo a stretto contatto con lui come suo referente per la DC, gli prospettò l'ipotesi di un'infiltrazione della Cia e del Mossad nelle "BR". Il secondo, che è anche presidente della Commissione Mitrokin, con un fondo su "Il Giornale" della famiglia di Berlusconi di cui è anche il vicedirettore, in cui rigetta le rivelazioni di Galloni quali frutto di una falsa tesi diffusa allora dal Kgb sovietico, che a suo dire sarebbe invece il vero servizio segreto infiltrato nelle "BR" e che ordinò e diresse per loro tramite il rapimento e l'assassinio di Moro. Per quanto riguarda Cossiga c'è da dire che ammesso dica il vero (cosa che nel suo caso c'è sempre da dubitare), non ci sarebbe comunque da meravigliarsi che Galloni non gli avesse riferito le preoccupazioni di Moro, specie se essendo depositario delle confidenze dello statista DC fosse stato già allora a conoscenza del ruolo di Cossiga come capo di Gladio, e quindi referente diretto dei servizi segreti americani. Quanto alla tesi di Guzzanti, pur non escludendo del tutto che anche il Kgb possa aver avuto contatti e infiltrati nelle "BR", cosiccome analoghi interessi alla Cia e al Mossad nel far fallire il "compromesso storico", da qui a scambiarne il ruolo con gli americani nel caso Moro ce ne corre. Basti pensare alla vicenda del rapimento dell'imam egiziano e a come la Cia si muove in tutta libertà nel nostro Paese e con la piena collaborazione dei servizi segreti italiani, suoi stretti alleati dal 1945 in poi, per capire chi tra i due - Cia o Kgb - abbia potuto più facilmente attuare e gestire un'operazione politico-militare così complessa come il rapimento e l'uccisione di Moro. E in ogni caso, ammesso che a rapire Moro fosse stato un servizio segreto avversario della Cia, possibile che questa, che opera in Italia come in casa sua, non ne sapesse nulla e non fosse in grado di scovare la prigione del sequestrato? Si provi a immaginare un'operazione altrettanto spettacolare e clamorosa, attuata dalla Cia in un paese dell'allora blocco socialimperialista sovietico, condotta per 55 giorni sotto il naso del Kgb, senza che questo riuscisse a capirci nulla. Quantomeno irreale! Resta da capire perché Galloni si è deciso solo ora, dopo quasi trent'anni, a rivelare l'importante confidenza di Moro, quando tutto è stato abbuiato e nessuno, né a destra né a "sinistra", ha più interesse a fare luce sui veri burattinai, in Italia e all'estero, che hanno tirato le fila del suo rapimento e sul disegno politico che lo ha ispirato: che è quello piduista della seconda repubblica neofascista, presidenzialista e federalista di Gelli, Craxi e Berlusconi, ma che oggi sta bene anche alla "sinistra" borghese composta da rinnegati, falsi comunisti, riformisti e democristiani. Il fatto è che anche Galloni, come appartenente a tale "sinistra", ha coperto questo disegno è stato complice, ed è per questo che le sue rivelazioni finiscono per essere reticenti e tardive e cadere oggi sostanzialmente nel vuoto. Mentre se fatte a suo tempo avrebbero avuto ben altro peso ed effetto sulla situazione politica.

EMILIO ALESSANDRINI. IL GIUDICE DALLA FACCIA MITE.

Emilio Alessandrini, il giudice dalla "faccia mite", giustiziato dagli eversori che combatteva, scrive il 29 Gennaio 2019 su "Il Fatto Quotidiano" Otello Lupacchini, Giusfilosofo e magistrato. 1979 annus horribilis. A quella del primo sindacalista e militante del Partito Comunista Italiano, Guido Rossa, a Genova, seguiva l’uccisione, qualche giorno dopo, del primo magistrato a Milano, Emilio Alessandrini, che dal suo arrivo in città, alla fine del 1968, e sino alla sua tragica scomparsa, con funzioni di Sostituto procuratore, s’era sempre occupato di terrorismo e, in particolare, di eversione di destra. Il giornalista Walter Tobagi, che sarebbe stato ucciso il 28 maggio dell’anno seguente dal gruppo terrorista di estrema sinistra Brigata XXVIII marzo, scrisse sul Corriere della Sera: “Sarà per quella faccia mite, da primo della classe che ci lascia copiare i compiti, sarà per il rigore che dimostra nelle inchieste, Alessandrini è il prototipo del magistrato di cui tutti si possono fidare; era un personaggio simbolo, rappresentava quella fascia di giudici progressisti, ma intransigenti, né falchi chiacchieroni, né colombe arrendevoli”. Quelli di Emilio Alessandrini a Milano furono gli “anni di piombo” e, periodicamente, delle stragi. Piazza Fontana, piazza della Loggia, Italicus, Peteano, le uccisioni di magistrati, poliziotti, carabinieri, e l’ultimo delitto eclatante, l’assassinio di Aldo Moro, gli episodi maggiori, o i più visibili, fino a quel momento, di una guerra allo Stato, nella quale il nemico della democrazia indossava di volta in volta maschere diverse. E muoveva burattini dai colori apparentemente opposti, “rossi” e “neri”: figure di poco o nessuno spessore, sovente inconsapevoli dei fili che li guidavano, disposti a uccidere, e a essere uccisi, o, i più astuti e prudenti, a tacere su quello che sapevano o intuivano, per salvare la faccia, e soprattutto la pelle. Furono gli anni in cui i protagonisti della dura stagione di lotta anticomunista apertasi sul finire degli anni Sessanta, erano passati dal “partito del golpe” alla P2, strutturatasi come il club dell’oltranzismo atlantico, in cui si ritrovavano i vertici dei Servizi segreti italiani, alti ufficiali dell’Esercito, dell’Aeronautica, della Marina e dei Carabinieri, ministri, parlamentari e politici di vari partiti, dalla Democrazia Cristiana al Partito Socialista Italiano, dal Partito Socialdemocratico al Partito Liberale, fino al Movimento Sociale Italiano; alti magistrati, tra cui il procuratore generale della Repubblica di Roma, Carmelo Spagnuolo; e poi giornalisti, finanzieri, tra cui Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, imprenditori, tra cui il futuro presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. L’impegno profuso e le doti investigative evidenziate nelle delicate indagini relative ad alcuni attentati dinamitardi compiuti a Milano dalle Squadre d’Azione Mussolini, erano valsi, il 14 febbraio 1972, a Emilio Alessandrini, insieme al collega Luigi Fiasconaro, un elogio per “la prontezza, la sagacia, l’energia e lo zelo” con cui aveva affrontato l’affaire. La stessa formazione terroristica, peraltro, a qualche giorno di distanza, si sarebbe resa protagonista di un nuovo attentato, questa volta diretto proprio contro di lui: un ordigno venne fatto esplodere nel cortile dello stabile dove risiedeva, provocando, fortunatamente, solamente danni alle cose. “Alle 16.30 del 12 dicembre 1969 un ordigno esplodeva nel salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano, uccidendo 16 persone e ferendone 88. Un secondo ordigno, inesploso, veniva rinvenuto nella sede della Banca Commerciale di Piazza della Scala tra le 16.25 e le 16.30. Si trattava di una cassetta portavalori… chiusa a chiave e contenuta in una borsa in skai di colore nero. Gli inquirenti ne decidevano la immediata distruzione e così, la sera stessa la cassetta veniva fatta brillare nel cortile interno della Banca Commerciale senza verificarne il contenuto. Quasi contemporaneamente nell’arco di un’ora, altri tre ordigni esplodevano in Roma, dove rimanevano ferite 18 persone in totale”. Questo l’incipit della requisitoria del 6 febbraio 1974 con la quale il pubblico ministero Emilio Alessandrini chiedeva al giudice istruttore il rinvio a giudizio di Franco Freda, Giovanni Ventura ed altri per associazione sovversiva e strage in relazione alle bombe di Milano e Roma del 12 dicembre 1969. Emilio Alessandrini, peraltro, era stato uno dei primi a condurre indagini sull’Autonomia Operaia milanese. Come altri suoi colleghi meneghini, cercava non solo di affrontare il problema eversivo dal punto di vista giudiziario, ma di comprendere il fenomeno dal punto di vista sociale. In una relazione svolta ad un incontro di studio, organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura, nell’estate del 1978, aveva avuto modo di affrontare il problema delle connessioni fra criminalità comune e criminalità politica, dall’angolo visuale della istituzione carceraria. Gli argomenti utilizzati appaiono di estrema attualità e rilevanza rispetto agli odierni fenomeni di radicalizzazione che, nel contesto carcerario, trovano terreno fertile: sostenne che nella sua esperienza aveva potuto notare “persone che entrano in carcere per qualche episodio di intolleranza politica, escono, e poi, dopo qualche tempo, le ritrovi denunciate, arrestate per reati sicuramente comuni”; che i motivi che spesso caratterizzano il fenomeno inverso, criminali comuni che una volta in carcere abbracciano l’eversione, fossero da individuare nella “esigenza di dare uno scopo alla propria esistenza futura ed una spiegazione alla propria vita passata”; che lo strumento repressivo fosse necessario, ma non sufficiente nella soluzione dei problemi eversivi, credendo a tal fine fondamentale un’istituzionalizzazione del dissenso. Tra gli anni Settanta e i ruggenti anni Ottanta, erano cominciate anche le prime disavventure del Banco Ambrosiano: Roberto Calvi, indisturbato, creava società fantasma in Svizzera e in altri paradisi fiscali e utilizzava le stesse per intercedere con lo Ior, la banca vaticana; gli ispettori della Banca d’Italia, però, avevano cominciato a insospettirsi, fino a denunciare diverse irregolarità, inviate al magistrato Emilio Alessandrini, prontamente deceduto, tuttavia, in epoca utile, perché non se ne potesse occupare. “Oggi, 29 gennaio 1979 alle ore 8,30 il gruppo di fuoco Romano Tognini «Valerio» dell’organizzazione comunista Prima Linea, ha giustiziato il sostituto procuratore della repubblica Emilio Alessandrini. Era una delle figure centrali che il comando capitalistico usa per rifondarsi come macchina militare o giudiziaria efficiente e come controllore dei comportamenti sociali e proletari sui quali intervenire quando la lotta operaia e proletaria si determina come antagonista ed eversiva”. Rileggere questa rivendicazione dopo aver rievocato l’impegno professionale di Alessandrini dà la misura dell’abisso in cui erano sprofondate quelle formazioni terroristiche.

Quarant'anni fa l'assassinio di Alessandrini. E il suo killer è libero di contestare in piazza. Segio va in tv, partecipa ai cortei no Expo e scende in campo a fianco della Sea Watch, scrive Luca Fazzo, Martedì 29/01/2019, su "Il Giornale". «Difendeva la democrazia dall'eversione e dal terrorismo». Punto. Se un liceale di oggi si imbattesse nella lapide che all'angolo di viale Umbria ricorda il magistrato Emilio Alessandrini, apprenderebbe ben poco del motivo per cui Alessandrini venne assassinato. E ancora meno saprebbe degli autori della esecuzione, riassunti nell'imprecisato magma della «eversione e del terrorismo»: dove potrebbe stare dentro di tutto, dai fascisti ai servizi deviati a chissà cos'altro. Invece il delitto che questa mattina, dopo molti anni di silenzio, verrà ricordato davanti alla lapide di viale Umbria è un delitto che ha ideatori ed esecutori ben precisi. A decretare la condanna a morte di Alessandrini furono i vertici di Prima Linea, l'organizzazione che nel mondo del terrorismo rosso contendeva a suon di esecuzioni la leadership alle Brigate Rosse. Fu un delitto figlio, a pieno titolo, della sanguinosa utopia della rivoluzione comunista, della lotta armata che nel delirio di quegli anni doveva portare alla sollevazione operaia e alla dittatura del proletariato. Omettere questa matrice del delitto Alessandrini è un falso storico che contribuisce all'ignoranza che circonda quella stagione. Sono passati quarant'anni dal 29 gennaio 1979. Alessandrini aveva accompagnato il figlio all'asilo di via Colletta, e andava in auto verso il tribunale: senza scorta, anche se la sua foto era stata trovata nel covo di via Negroli dove poco tempo prima era stato arrestato Corrado Alunni, il capo delle Formazioni comuniste combattenti. Lo aspettano in cinque, hanno trovato l'indirizzo di Alessandrini sull'elenco telefonico, poi hanno individuato l'auto grazie al contrassegno per il parcheggio del tribunale. Tutto molto facile, troppo facile. A guidare il commando c'erano Marco Donat Cattin, figlio di un ministro democristiano, e Sergio Segio (nel tondo), capo della colonna milanese di Prima linea. Anni dopo, Segio cercherà di spiegare che Alessandrini aveva pagato con la vita il suo impegno per leggi più efficienti, per una magistratura al passo con i tempi. Ma forse la spiegazione più sincera la diede a botta calda, appena dopo l'arresto, uno dei cinque del commando, Umberto Mazzola: una spiegazione disarmante per la superficialità, la faciloneria con cui si decretava la condanna a morte di obiettivi che non si conoscevano. «Non so chi per primo ebbe l'idea di colpirlo. Si voleva colpire la magistratura ma nella scelta di Alessandrini non giocò alcun ruolo la sua specifica attività... Sapevamo che era un magistrato democratico ma questo non toglieva che fosse un magistrato». Oggi Sergio Segio va in televisione, partecipa ai cortei no Expo, scende in campo affianco a Sea Watch. Quando, dopo nove anni, ottenne la semilibertà, il figlio di Alessandrini disse: «Non mi oppongo, credo nel recupero. Vorrei solo che tenesse un basso profilo». Non è stato accontentato.

Anniversari. Rossa e Alessandrini, l'escalation terrorista che scosse l'Italia, scrive Nazareno Giusti, mercoledì 23 gennaio 2019 su Avvenire. I colpi assassini delle Brigate Rosse e di Prima Linea di fine gennaio 1979 segnarono un punto di non ritorno per le stesse istanze pseudo rivoluzionarie di matrice comunista. Il 29 gennaio a Pescara giornata in memoria del giudice Emilio Alessandrini. Dopo la santa messa nella cattedrale di San Cetteo, al teatro Massimo, alle ore 11, la proiezione del filmato Emilio vive di Stefano Falco. A seguire il concerto della Banda della Polizia di Stato. Ricorderanno Alessandrini i suoi compagni di classe al liceo “Gabriele d’Annunzio” tra cui, oltre a Di Francesco, Laura Bertolé, avvocato generale dello Stato presso la Corte d’Appello di Milano, e Vito Zincani, sostituto procuratore della Corte di Appello di Bologna. Nella livida alba del 24 gennaio 1979, a Genova, le Brigate Rosse uccidevano Guido Rossa, 44 anni, operaio all’Italsider e sindacalista della Cgil. Il 27 gennaio un corteo di 250 mila persone rese omaggio all’uomo che aveva osato sfidare i terroristi. Il presidente della Repubblica Sandro Pertini appuntò sul petto di Rossa la Medaglia d’Oro al Valor Civile. Ma perché Rossa era stato ucciso? Il 25 ottobre 1978 un suo collega, Francesco Berardi, era stato trovato mentre sistemava alcuni volantini delle Brigate Rosse: «Sviluppare la lotta armata nel cuore della produzione costruendo, a partire dalla fabbrica, il partito comunista combattente». Tra i colleghi c’era stata indecisione sul da farsi, poi si era deciso di denunciare il fatto. Al momento della firma, però, Rossa rimase solo. Firmando la denuncia, firmò la sua condanna a morte. Il 30 ottobre 1978 al processo presso la Corte d’Assise, confermò le sue dichiarazioni. Consapevole delle conseguenze del suo gesto, rifiutò sia la pistola sia la scorta offerta dai colleghi. C’era aria pesante in quegli anni a Genova. Qui era avvenuto il primo rapimento di lunga durata (Mario Sossi, 1974), il primo ferimento di giornalista (Vittorio Bruno, 1977) e il primo assassinio (Francesco Coco, 1976). La sera del 17 novembre 1977 venne colpito Carlo Castellano, direttore pianificazione dell’Ansaldo, cattolico e iscritto al Pci. Come ha fatto notare Paolo Andruccioli nel suo Il testimone. Guido Rossa, omicidio di un sindacalista: «Il suo ferimento è stato poco sottolineato in quegli anni zeppi di notizie, ma rappresenta una svolta nel percorso terroristico. È l’inizio dell’attacco al revisionismo del Partito comunista». E in questo attacco le Br uccidono l’operaio Rossa. Che, però, doveva essere “solo” gambizzato. Il compito spettava a Vincenzo Guagliardo, alla sua prima azione, che, in effetti, sparò alle gambe del sindacalista. In un secondo momento, però, un altro e più esperto brigatista, Riccardo Dura, tornò indietro per colpire al cuore l’operaio. Inizialmente, Rossa doveva essere oggetto di un atto dimostrativo: una gogna, con cartello e l’incatenamento ai cancelli della fabbrica. Ma l’opzione era stata ritenuta troppo macchinosa. E poi, quell’operaio, per il suo “tradimento di classe”, meritava di più. Ecco, allora, la scelta della gambizzazione. Ma perché poi ucciderlo? Un volantino parlò di «un’ottusa reazione» da parte di Rossa. Peccato però che ci fu solo «un atteggiamento difensivo» da parte del sindacalista. E, allora, Dura agì in preda a uno scatto d’ira o il suo gesto era previsto? Come fa notare Sergio Flamigni, «Dura è un capo, il braccio destro di Moretti». A quarant’anni da quella tragica mattina la domanda rimane. Certo è che con la morte di Rossa cascherà quell’atteggiamento di mal celata simpatia verso le Brigate Rosse, riassunto nel triste slogan «Né con lo Stato né con le Br». Dopo tanto tempo ci si rendeva conto che si trattava «di miserabili che sparano contro gli operai», per dirla con Pertini. Rossa, molti se ne sono dimenticati in questi anni, fu «tra i più forti alpinisti del secondo dopo guerra». Ma nel 1963, durante una spedizione in Himalaya, il suo sguardo era stato colpito dalle condizioni di indigenza delle popolazioni locali. Dirà: «La cosa che mi ha fatto più impressione è stata la grande fame dell’Asia. Quella miseria ha suscitato il grande desiderio di fare qualcosa per alleviarla». Rossa consapevole che bisognava abbandonare «le vette scintillanti» per «scendere giù in mezzo agli uomini e lottare con loro». Per questo l’impegno nel sindacato e nella società. Rossa era anche un uomo creativo. Realizzava dei crocifissi con gli scarti di produzione che poi regalava ai dirigenti per ricordare le fatiche dei lavoratori. Ennio Di Francesco, già funzionario di polizia e scrittore, in quegli anni era in servizio a Genova. «Quel giorno del ’73 – ci ha raccontato – c’era lui mentre dirigevo un servizio di ordine pubblico davanti ai cancelli dell’Italsider. Operai in tuta con cartelloni urlavano slogan contro i “padroni”, oltre a qualche insulto ai “servi in uniforme”. I capi dei manifestanti, tra cui Rossa, si erano avvicinati. Comunicammo. Gli insulti cessarono. La dimostrazione continuò tranquillamente. Dopo qualche giorno mi giunse in questura un pacchetto: dentro un crocefisso di pezzi di ferro e bulloni saldati. Avevo sobbalzato scoprendo che quel sindacalista, che diceva non credere in Dio, creava crocefissi saldando pezzi di ferro». Cinque giorni dopo l’assassinio di Rossa, in una Milano mangiata dalla nebbia, Prima Linea colpì Emilio Alessandrini, 37 anni, il magistrato che indagava sulla strage di piazza Fontana. Lo uccisero mentre era in auto, fermo al semaforo. La sua colpa, secondo quello che i terroristi scriveranno nella rivendicazione, era quella di essere «uno dei magistrati che maggiormente ha contribuito a rendere efficiente la procura della Repubblica». Ai funerali, tenutisi il 31 gennaio in piazza Duomo, parteciparono 200 mila persone. Di Francesco, compagno di scuola di Alessandrini al liceo “Gabriele d’Annunzio” di Pescara, oggi è presidente dell’associazione “Emilio Alessandrini, uomo d’Abruzzo, magistrato d’Italia”: «C’eravamo rivisti a Pescara per il Natale 1978, lo avevo accompagnato alla festicciola che, pieno di entusiasmo, aveva organizzato per il figlio Marco. Lo avevo notato giocare con tenerezza con quel bambino. Il 29 gennaio, prima di andare nel suo ufficio della Procura dove lo attendevano fascicoli scottanti, come faceva sempre, aveva accompagnato Marco a scuola. Doveva avere lui nel cuore quando i colpi di pistola li avevano separati per sempre».

GUIDO ROSSA. L’OPERAIO CONTRO.

Le Br: «Le spie si uccidono». Così giustiziarono Rossa e il Pci gli dichiarò guerra. Il commando avrebbe dovuto gambizzarlo, ma qualcuno decise in modo diverso. La sua morte segnò la fine della zona grigia tra terroristi e una fetta di militanti comunisti, scrive Paolo Delgado il 24 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Chissà se è vero, come alcuni ritengono, che il tramonto delle Brigate rosse iniziò quarant’anni fa esatti, il 24 gennaio 1979 a Genova? Chissà se davvero a decidere la sorte della principale organizzazione armata italiana furono quei cinque colpi sparati contro il sindacalista della Cgil, Guido Rossa? Probabilmente non è così. Quasi certamente la parabola del gruppo che firmava documenti e attentati con la stella a cinque punte sarebbe stata identica. Ma quel giorno costituì lo stesso una cesura, una di quelle vicende rispetto alle quali si deve parlare di un prima e di un dopo. Il prima viene generalmente sottaciuto, parlarne appare sconveniente, merita tutt’al più qualche fugace accenno. Il prima sono i lunghi anni nei quali gli operai guardavano alle Br, se non con consenso, neppure come a dei nemici. Nelle grandi fabbriche molti sapevano o sospettavano chi fossero i brigatisti. Nessuno li denunciava. E quando uccisero a Torino il giornalista della Stampa Carlo Casalegno, il 29 novembre 1977, lo sciopero fallì. Giampaolo Pansa fu il solo ad avere il coraggio di scrivere apertamente che nei confronti del giornalista ucciso gli operai della Fiat non provavano alcuna solidarietà. Negli anni del conflitto duro in fabbrica, Casalegno era un giornalista del giornale padronale e le Br erano un’organizzazione operaia. Non amici magari, però neppure nemici. Le cose cambiarono solo in parte con il trauma del sequestro Moro, anche se probabilmente data proprio da quei tragici 55 giorni la prima vera e profonda dissociazione operaia dal partito armato. Con l’omicidio di Guido Rossa le Br varcarono una soglia. Per la prima volta la vittima era un operaio, un sindacalista della Cgil, un iscritto al Partito comunista. Da quel momento i brigatisti diventarono nemici anche per molti che, sino a quel momento, avevano mantenuto nell’intimo una sorta di inconfessata equidistanza e a volte di tacita complicità. Anche Guido Rossa aveva varcato una soglia. Aveva denunciato un brigatista, o più precisamente un simpatizzante, un pesce piccolissimo: Francesco Berardi, 50 anni, cinque più di Rossa. Era un postino, incaricato di far ritrovare volantini nella fabbrica in cui lavoravano sia lui che Guido Rossa, l’Italsider. L’ordine del partito era vigilare. Bisognava individuare i brigatisti, denunciarli, mobilitare contro di loro non solo le forze dell’ordine ma anche la classe operaia. Rossa, che non era un semplice operaio con la tessera del partito in tasca ma un militante convinto e motivato, lo fece sul serio. Individuò Berardi come principale sospettato di essere il postino che depositava periodicamente i volantini con la stella brigatista in calce vicino alla macchinetta del caffè. Con altri due delegati nel consiglio di fabbrica forzò il suo armadietto scoprendo effettivamente documenti e volantini brigatisti. A conferma di quanto sfumato fosse ancora il giudizio degli operai sulle Br, però, gli altri due delegati rifiutarono di denunciare Berardi. Lo fece solo Guido Rossa, il 25 ottobre 1978. Appena sei giorni dopo Berardi veniva condannato a 4 anni di reclusione. Per le Br il discorso delle armi non era una vuota formula. Non si limitavano a mettere le armi al servizio della politica, come quasi tutte le altre organizzazioni armate nella storia e nel mondo. Consideravano l’uso delle armi un gesto politico in sé, dunque meritevole di ampie discussioni politiche sul chi colpire e con quale impatto letale. E’ probabile che gli stessi Br si rendessero conto di trovarsi di fronte a un Rubicone, varcato il quale nel rapporto con la classe operaia, l’unica che davvero considerassero importante, tutto sarebbe cambiato, per un verso o per l’altro. Considerarono l’ipotesi della ‘ gogna’, cioè di far ritrovare Rossa incatenato ai cancelli della fabbrica come avevano fatto agli albori, nei primi anni ‘ 70, alcune volte. Bocciarono il progetto come irrealizzabile ripiegarono su quella che era allora una sanguinaria pratica quotidiana: la gambizzazione. La mattina del 24 gennaio 1979 un gruppo di fuoco aspettava Rossa sotto casa, quando l’operaio uscì alle 6.30 del mattino. A sparare fu Vincenzo Guagliardo, colpendo Rossa con quattro proiettili alle gambe. Doveva finire lì. Invece improvvisamente Riccardo Dura, anche lui operaio come la vittima e come Guagliardo, tornò indietro e sparò di nuovo, stavolta al cuore. «Le spie si uccidono» spiegò. Dura era un tipo tosto e rigido, Renato Curcio lo chiamava Pol Pot. Un simile colpo di testa, anche a costo di sfidare la rigida disciplina dell’organizzazione, era nelle sue corde. Il terzo componente del commando, quello alla guida dell’auto, Lorenzo Carpi è uno dei pochi brigatisti sfuggiti alla cattura e forse l’unico del quale si sono perse le tracce. Inevitabili le ipotesi fantasiose sul chi ne abbia facilitato la fuga, o chi lo abbia fatto scomparire e perché. La passione italiana per i misteri è invincibile. La tragedia di Genova non finì quel giorno. Berardi si uccise in carcere qualche mese dopo, il 24 ottobre. «Non reggeva la detenzione», spiegò l’avvocato di Soccorso rosso Edoardo Arnaldi, tra gli ultimi ad aver incontrato il ‘ postino’ in carcere. Sei mesi dopo, il 19 aprile 1980, si tolse la vita anche lui, denunciato come brigatista per sentito dire dal primo grande pentito delle Br, Patrizio Peci. Lo stesso Peci indicò al generale Dalla Chiesa l’indirizzo nel quale avrebbe trovato ciò che restava della colonna genovese Br, lo stesso Dura, Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli, operai. L’appartamento in via Fracchia 12 era intestato a Annamaria Ludmann, segretaria e militante irregolare nelle Br. Quando i carabinieri di dalla Chiesa fecero irruzione nel ‘ covo’, nella notte del 28 marzo 1980, i quattro dormivano. Ancora oggi si parla di ‘ violento scontro a fuoco’. In realtà spararono solo i carabinieri. L’unico ferito tra le forze dell’ordine fu colto da un proiettile di rimbalzo. Riccardo Dura, stando alle conclusioni raggiunte due anni fa da un ricercatore, sulla base delle quali è stata aperta un’inchiesta, fu ucciso con un colpo di grazia. E’ un particolare. Tutti i giornalisti a cui, nei giorni seguenti e per pochi minuti, fu mostrato l’interno dell’appartamento dopo la strage capirono cosa era successo. Nessuno disse niente e Giorgio Bocca ammise, decenni più tardi, la scelta di tacere. La scomparsa di Carpi e la scoperta dell’uccisione a freddo di Dura, sommate con il fatto che nel giardino di via Fracchia i brigatisti seppellivano i loro documenti, incluso il memoriale Moro, ha innescato l’abituale ridda di ipotesi surreali. Il cui unico risultato è nascondere la verità sulla morte di Guido Rossa: la guerra civile a sinistra che è uno degli aspetti più eminenti e meno discussi nel chiacchiericcio generale sugli anni ‘ 70.

Damiano: «Una distesa infinita di 250 mila ombrelli accompagnò la bara di Guido Rossa». Al funerale c’era anche Cesare Damiano, allora giovane funzionario della Fiom- Cgil a Torino. «L’omicidio ruppe il legame tra le Br e le fabbriche e anche il sindacato si mobilitò». Intervista di Giulia Merlo del 24 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Guido Rossa muore a Genova alle 6 e 35 del mattino del 24 gennaio 1979, falcidiato da quattro pallottole davanti a casa: tre alle gambe e una, quella fatale, al cuore. A ucciderlo è un commando della colonna genovese delle Brigate Rosse: il capo, Riccardo Dura, insieme a Vincenzo Guagliardo e Lorenzo Carpi lo attende fuori casa, a bordo di un furgone Fiat 238. Dura, poi, verrà ucciso in uno scontro a fuoco dagli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel covo di via Fracchia, a pochi metri da dove uccise Rossa. Gli altri due terroristi, arrestati, raccontano che l’obiettivo era solo gambizzare il sindacalista, ma Dura – dopo i colpi alle gambe che avevano lasciato Rossa a terra – tornò indietro per finirlo con un colpo al cuore, perché «le spie vanno uccise». A far pronunciare la sentenza di morte il fatto che Guido Rossa, comunista e sindacalista Cgil, aveva denunciato e fatto arrestare l’operaio Francesco Berardi, brigatista non ancora entrato in clandestinità, che distribuiva volantini delle Br alla macchinetta del caffè dell’Italsider. Rossa, nonostante fosse stato lasciato solo dagli altri due delegati di fabbrica, testimonia al processo e fa condannare Berardi, firmando così la propria condanna. Al suo funerale partecipano 250mila persone e prendono la parola il segretario della Cgil Luciano Lama e il segretario del Pci, Enrico Berlinguer. È presente anche il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, che poi va in visita ai “camalli”, gli scaricatori del porto, per parlare contro il terrorismo. Da quel momento si scava un solco incolmabile tra il mondo operaio e le Brigate Rosse. Tra quei 250mila in marcia dietro la bara c’era anche Cesare Damiano, all’epoca giovane funzionario della Fiom Cgil di Torino. «Era una giornata di pioggia, livida e fredda. Ricordo una selva sterminata di ombrelli e le urla di protesta degli operai, mentre avanzavano in corteo. Io arrivai in treno da Torino, con una delegazione di compagni del sindacato: un viaggio carico di tristezza mista al senso di impotenza davanti a un avvenimento del genere».

Una manifestazione forse tardiva?

«Una manifestazione imponente, in cui gli operai di tutta Italia ripudiarono il terrorismo. Da questo punto di vista, il sacrificio di Guido Rossa rappresentò una svolta, perchè segnò l’inizio del declino delle Brigate Rosse. Con l’omicidio di un operaio, si ruppe il rapporto con quella parte, seppur minoritaria, di lavoratori che simpatizzavano per loro. Si fece strada anche nelle masse operai l’idea che il terrorismo rappresentasse un pericolo per le istituzioni democratiche».

Lei dov’era, in quel 1979?

«Come si diceva allora, ero un funzionario della Fiom Cgil di Torino. Ero il responsabile degli impiegati e dei tecnici della provincia di Torino e ricordo che mi stavo occupando della vertenza Olivetti nella quale, con l’arrivo del nuovo proprietario Carlo de Benedetti, si erano annunciati tremila licenziamenti. Prima, invece, la mia esperienza sindacale era maturata nel centro caldo per i metalmeccanici torinesi: la Fiat Mirafiori, nella mitica Quinta Lega della Fiom di corso Unione Sovietica».

Come si visse, all’interno del sindacato rosso per antonomasia, la stagione degli anni di piombo?

«Bisogna capire che la Torino di allora era teatro continuo di uccisioni, ferimenti e gambizzazioni, da parte delle Brigate Rosse e di Prima Linea, che riguardavano i grandi stabilimenti della Fiat. Tutto era cominciato nel 1973, con il sequestro di Bruno Labate a Mirafiori, rivendicato dalle Br. Lui era un sindacalista dell’allora Cisnal, attuale Ugl, considerato all’epoca un sindacato fascista: venne legato ad un palo fuori dalla fabbrica e rasato, come facevano i partigiani nei confronti dei traditori durante la resistenza».

Reagiste?

«No. All’epoca noi sindacalisti della FLM, la federazione dei lavoratori metalmeccanici, considerammo l’episodio come marginale, perchè non ci riguardava. Poi l’escalation crebbe, con il sequestro del capo del personale Fiat, Ettore Amerio. Anche in quel caso, valutammo l’episodio come marginale, perchè anche allora non ci riguardava. Ma i ferimenti e le gambizzazioni continuarono: sempre di dirigenti aziendali, però, dunque realtà non direttamente riconducibili al nostro mondo. Faceva parte del clima di quell’epoca, in cui le Br e Prima Linea non erano ancora chiaramente percepite come ciò che si sono poi rivelate».

E come erano percepite?

«Le dico con onestà: una parte dei lavoratori della fabbrica, seppure minoritaria, aveva qualche simpatia nei confronti di Br e Prima Linea. Eravamo negli anni Settanta, il conflitto nelle fabbriche era aspro e le Br si presentavano come un movimento anticapitalista e antipadronale, assumendo in qualche modo il ruolo dei giustizieri dei diritti negati ai lavoratori. Il clima nelle fabbriche era di parziale copertura e questo consentiva ad alcuni esponenti del terrorismo di nuotare in quel mare, forti di una sorta di protezione indiretta».

Fino a quando Guido Rossa, un anno dopo il tragico epilogo del sequestro Moro, non denunciò un operaio che faceva propaganda per le Br.

«Segnò un punto di svolta. Per smantellare questo tipo di fiancheggiamento di fabbrica al terrorismo il sindacato, unitariamente con le forze politiche dell’arco costituzionale, non si risparmiò. In quello stesso anno facemmo fir- mare ai 600 delegati del consiglio di fabbrica di Mirafiori – detto il “consiglione” perchè rappresentava i 60mila operai dello stabilimento – un documento di condanna del terrorismo. Solo pochi non lo firmarono, dichiarando così la loro connivenza, e vennero espulsi. Non bastò, però».

Perchè?

«Molti brigatisti lo firmarono per mascherarsi. Ricordo perfettamente Luca Nicolotti: era delegato della Fim Cisl e durante le lotte teneva discorsi da moderato. A un certo punto scomparve, dicendo di aver ricevuto la cartolina della leva e che doveva andare al sud. Gli facemmo una festa nella lega sindacale, prima della partenza. Non arrivo mai a destinazione: entrò in clandestinità. Così, scoprimmo che era un brigatista della prima ora. Un altro di loro era Nicola D’Amore, iscritto alla Cgil e pronto a prendere la tessera del Pci, pur di mimetizzarsi. Lavorava alle presse di Mirafiori, ma nel cambio turno sparava ai dirigenti di altre fabbriche. Uccise un capo officina della Lancia».

E la morte di Rossa segnò la svolta.

«Sì, perché i lavoratori capirono che il vero bersaglio di quella rivoluzione erano loro. Le Br avevano ucciso un comunista, un operaio, un delegato sindacale, uno di loro».

La percezione del fenomeno eversivo cambiò anche all’interno del sindacato?

«Cambiò attraverso lo studio del fenomeno. . Su questo terreno, il sindacato era veramente esposto, così come lo erano le forze dell’arco costituzionale. Non ci furono solo le assemblee nelle fabbriche per spiegare ai lavoratori il rischio del terrorismo, ma anche le assemblee nei quartieri, con i partiti. A Torino, per esempio, organizzammo la compilazione di un questionario per indicare situazioni che potevano destare sospetto nell’opinione pubblica. Insomma, si provava come si poteva a togliere l’acqua ai pesci».

In che rapporti eravate con il Pci?

«Il rapporto tra sindacato e i partiti, non solo il Pci, era ancora segnato dalla logica della cinghia di trasmissione. L’impeto del ‘ 68 aveva scomposto la rigida architettura della relazione tra sindacato e partiti, che per tradizione voleva ricondurre la Cgil al Pci e al Psi, la Cisl alla Dc e la Uil al Partito Socialista e Socialdemocratico ma, nonostante questo, soprattutto per la Cgil l’influenza del Pci era ancora forte. Per quanto riguarda il terrorismo, però, sindacato e partiti erano schierati dalla stessa parte e dunque il rapporto si rinsaldò e anzi, i sindacati aprirono le porte delle fabbriche alla politica».

Alla luce di tutto questo, a quarant’anni di distanza, direbbe che la sottovalutazione del fenomeno terroristico da parte del sindacato ebbe un ruolo indiretto nell’omicidio Rossa?

«La figlia di Guido Rossa è stata mia collega in Parlamento e da lei ho ricavato la percezione di una sorta di isolamento di Rossa. Quando denunciò il brigatista, si sentì abbandonato o comunque non sufficientemente protetto. Non ho elementi diretti per fare una valutazione, tuttavia è emerso successivamente che l’obiettivo delle Br era la gambizzazione e non l’uccisione. Forse, gli stessi terroristi avevano intuito la possibilità che un omicidio potesse provocare un distacco dai lavoratori che, a parole, la loro promessa messianica di rivoluzione prometteva di proteggere».

Guido Rossa, l'autista del commando che uccise l'operaio dell'Ansaldo, Lorenzo Carpi, è sparito da quarant'anni. L'omicidio del sindacalista si intreccia con l'assassinio di Aldo Moro. Il ruolo strategico della colonna genovese delle Br, scrive il 19/01/2019 Maria Antonietta Calabrò, giornalista, su Huffingtonpost.it. L'operaio Guido Rossa viene ucciso dalle Br il 24 gennaio di 40 anni fa, il 1979, a meno di un anno dal sequestro e dall'assassinio di Aldo Moro, l'anno prima. I due delitti sono accomunati dal ruolo strategico per le Br della colonna genovese e del suo capo Riccardo Dura, che era il vero capo militare dell'organizzazione armata denominata Brigate Rosse. Le zone d'ombra dell'omicidio di Rossa servirono a coprire i misteri rimasti insoluti del caso Moro. Alcune considerazioni. Innanzitutto. Dura si dimostrò un efferato assassino quando decise di uccidere a freddo Rossa. Secondo le testimonianze di alcuni brigatisti collaboratori di giustizia, il Comitato esecutivo e la direzione della colonna genovese volevano solo «gambizzare» il sindacalista: Dura, invece, uccidendolo, aveva agito di sua iniziativa, quando Rossa era già stato ferito alle gambe da un altro membro del commando. Dura cioè sarebbe intervenuto in un secondo tempo finendo Rossa con un colpo al cuore, sparato a bruciapelo. Secondo Sabina Rossa, figlia di Guido, ("Guido Rossa mio padre", 2006) l'omicidio non fu comunque la conseguenza di un eccesso di reazione di Dura al tentativo della vittima di ripararsi, quanto l'esecuzione di un piano premeditato di Dura e Mario Moretti (con il resto dell'organizzazione brigatista tenuta all'oscuro) per uccidere Rossa. Questa tesi presuppone la teoria di un doppio livello delle Brigate Rosse, con Moretti e i suoi luogotenenti considerati come portatori di progetti e scopi autonomi rispetto a quelli collettivi di tutte le Br. C'è poi un secondo fatto e cioè che l'autista del commando che uccise l'operaio dell'Ansaldo, Lorenzo Carpi, come denunciato nel libro "Uccidete Guido Rossa" (2019) è sparito da quarant'anni, di lui rimane solo una vecchia foto in bianco e nero. All'epoca ha 25 anni e dall'autunno del 1980 è formalmente latitante, nonostante sia stato condannato all'ergastolo per tre agguati e ad altri 16 anni per il ferimento di Roberto della Rocca oggi presidente dell'Associazione vittime del terrorismo. Si può ipotizzare che la "scomparsa " di Carpi, per oltre un anno servì "a coprire " Dura e il covo genovese di via Fracchia dove era nascosto - lo sappiamo solo oggi dopo il lavoro della Commissione Moro2 che ha chiuso i suoi lavori nel marzo 2018 e di cui è stato segretario il senatore genovese Federico Fornaro - il vero "tesoro" delle Brigate Rosse. Quale? Un'imponente documentazione relativa al caso Moro (almeno tre valigie di carte) che i brigatisti avevano "sepolto" nel giardinetto dell'appartamento di via Fracchia. Michele Riccio, il sottufficiale dell'Antiterrorismo del generale Dalla Chiesa - che guidava l'operazione- ha confermato di recente che obiettivo primario del blitz era acquisire nuove informazioni: "Dalla Chiesa cercava le carte" sul sequestro Moro, ha dichiarato. Quelle carte che non erano mai state trovate nel covo milanese di Via Montenevoso caduto il 1 ottobre 1978, ma che da qualche parte invece dovevano pur essere. Come ricostruito nel libro "Moro, il caso non è chiuso" (2018) tra quelle carte c'erano anche gli originali degli interrogatori di Moro, almeno trenta cartelle di pugno dello statista dc, il cosiddetto Memoriale, e anche gli originali dei piani di ripiegamento della struttura Nato 'Gladio' e tutti i nomi dei gladiatori italiani, documenti che durante il sequestro di Moro erano 'scomparsi ' dalla cassaforte del ministro della Difesa. E vi ricomparvero tre mesi dopo il blitz di via Fracchia, reso possibile dal pentimento di Roberto Peci, in cui morì anche Dura. Era passato poco più di un anno dall'esecuzione di Rossa. L'irruzione si svolse, in piena notte il 28 marzo del 1980. Quel blitz rappresenta una delle vicende più complesse del terrorismo brigatista e delle azioni che lo contrastarono. Quattro morti tra gli occupanti di quella base logistica delle Brigate Rosse, un sottufficiale dei Carabinieri ferito da un colpo d'arma da fuoco, la fine dell'inviolabilità dei siti della colonna genovese, strategici per l'organizzazione. E molti interrogativi sul reale svolgimento dell'irruzione, divenuto poi un evento cui si riferì simbolicamente la lotta armata, con la costituzione di un gruppo terroristico milanese denominato appunto «XXVIII marzo», che ucciderà l'inviato del «Corriere della Sera», Walter Tobagi, proprio a due mesi dall'irruzione, il 28 maggio 1980. L'uccisione di Dura assunse quasi le modalità di un'esecuzione. Tanto che nel 2017 la procura di Genova, a seguito dell'esposto presentato dal ricercatore Luigi Grasso, ha aperto un fascicolo con l'ipotesi di omicidio in riferimento alla morte del brigatista. La perizia necroscopica dei professori Renzo Celesti e Aldo Franchini sostiene che Dura era morto in modi e tempi assolutamente diversi dai suoi compagni e quindi sicuramente non durante l'azione. Lo uccide infatti – causa morte «encefalite acuta» –, un solo colpo di pistola, e non i colpi dei fucili a pompa che avevano devastato i corpi degli altri tre, sparato dall'alto in basso e da una distanza di più di trenta centimetri e meno di un metro. Il corpo del Dura inoltre non presentava abrasioni o contusioni o graffi come chi si sia battuto o abbia intrapreso una colluttazione nel corso della cattura. La quantità e l'importanza del materiale sequestrato in via Fracchia si desumono esaminando il verbale di perquisizione e sequestro (acquisito agli atti della Commissione) di un impressionante elenco di 753 reperti, quasi tutti documenti e carte. Che adesso non si trovano più. E su questo la Procura di Genova ha aperto una nuova indagine nella primavera del 2018. Chi ha fatto "sparire" l'autista dell'agguato a Guido Rossa, Carpi, ha dato oltre un anno di tempo alla latitanza di Dura e ai suoi segreti. Dopo la mancata estradizione per quarant'anni di due membri del commando che sequestrò Moro, Alvaro Lo Jacono e di Alessio Casimirri, i fatti di Genova, a cominciare dall'assassinio di Rossa, sollevano nuovi interrogativi sulle coperture fornite ai brigatisti da apparati dello Stato, con lo scopo di occultare la "verità indicibile" dietro il caso Moro.

Guido Rossa, quell'assassinio delle Br cambiò la storia d'Italia, scrive il 19/01/2019 Sergio Cofferati, Europarlamentare, su Huffingtonpost.it. Con l'assassinio di Guido Rossa da parte delle Brigate Rosse a Genova il 24 Gennaio del 1979 si aprì una imprevista fase nuova nella vita e nella politica del paese, come è storicamente provato. Cominciò a incrinarsi l'omertà e la tacita accettazione che le Br avevano lucrato in alcuni settori sociali e apparve clamorosamente falsa l'idea che la loro follia fosse rivolta a vantaggio dei lavoratori e dei più deboli in quella società. Guido Rossa era una figura esemplare di quel contesto; un operaio di grande professionalità, con passioni culturali e sportive, con una bella famiglia. Un lavoratore iscritto al sindacato (la FIOM-CGIL), a un partito (il PCI), e che lottava per rendere più dignitose e accettabili le condizioni della sua classe sociale. Lottava con gli strumenti della democrazia. Quella democrazia che le Br volevano distruggere. I loro proclami apparvero quel che erano veramente anche a molti incerti con l'uccisione di Guido. L'assurdo slogan "né con lo Stato né con le Br" divenne più difficile da proporre per molti perché Guido era parte attiva di quello Stato ed anche la tesi "dei compagni che sbagliano" s'incrinò perché Guido aveva visto uno di loro deporre materiale di propaganda di un movimento eversivo e lo aveva giustamente denunciato. E per questo era stato scelto come vittima. Che il clima politico e sociale sarebbe cambiato lo si percepì nettamente la mattina dei funerali. Chi le ha frequentate sa che le piazze "parlano" e quella di Genova fu molto eloquente quella mattina. Una folla enorme, incurante della pioggia battente riempì la città e Piazza De Ferrari per rendere l'ultimo saluto a Guido. Ero arrivato al mattino presto in pullman da Ravenna con i lavoratori dell'ANIC per partecipare a quel saluto. La CGIL e il PCI erano stati sempre, fin dall'inizio molto fermi nel giudicare le Br ed il terrorismo. Luciano Lama lo fu ovviamente anche quel giorno dal palco dal quale parlò a fianco di Pertini e Berlinguer. E non nascose affatto il colpevole isolamento nel quale Guido Rossa era stato lasciato. Furono parole che segnarono una continuità di giudizio e di comportamento verso un fenomeno eversivo che tante morti e tanto dolore aveva già creato ma la vera novità furono quelle persone venute da ogni parte del paese che reagivano con ancora più forza di quanto era capitato con altri delitti, compreso quello di Aldo Moro di qualche mese prima. La follia terrorista non si arrestò ma cominciò lentamente a incrinarsi, a isolarsi, favorendo l'azione repressiva nei suoi confronti dello Stato. Sono passati quarant'anni e, purtroppo però, quelle vicende non sono ancora per intero chiarite. Nel bel libro di Donatella Alfonso e Massimo Razzi, "Uccidete Guido Rossa", alcuni interrogativi vengono riproposti. Credo personalmente che la colonna genovese delle Br avesse un peso maggiore di quello che traspare dalla commissione d'inchiesta Parlamentare, non solo per il numero di delitti, ma per le tempistiche e il valore degli obiettivi scelti. Anche la morte di Guido Rossa non è chiara quanto dovrebbe. Riccardo Dura, il terrorista che uccise Rossa era persona importante nel gruppo di comando delle Br (non solo genovesi). E' credibile che abbia sparato per uccidere disobbedendo ad una decisione collegiale, aprendo così un grande problema al suo gruppo e che poi però restò esattamente nel posto di responsabilità che occupava? Dura venne ucciso in via Fracchia il 28 marzo del 1980 in una irruzione notturna dei carabinieri in un appartamento diventato covo delle Br. Nel violento conflitto a fuoco (del quale esistono versioni diverse anche da parte degli stessi inquirenti) vennero uccisi quattro brigatisti. Tre di loro crivellati di colpi, Dura invece colpito da un solo colpo alla nuca. Il dubbio che Guido Rossa dovesse morire e Riccardo Dura non dovesse parlare rimane purtroppo ancora forte.

QUELL'ESKIMO IN REDAZIONE.

Anni di piombo: i giornalisti e le Brigate Rosse, scrive "Cultura.biografieonline.it".

I giornalisti nel mirino delle Br. A partire dal 1977 anche i giornalisti entrano nel mirino dei terroristi rossi (Brigate Rosse). Tra il primo e il 3 giugno, tre direttori vengono gambizzati a Genova, Milano e Roma. Si tratta di Vittorio Bruno de “Il Secolo XIX”, Indro Montanelli de “Il Giornale” e Emilio Rossi del “Tg1”. Lo scopo è quello di intimorire il mondo giornalistico. Nei mesi di luglio e settembre vengono feriti altri giornalisti e a novembre i brigatisti alzano il tiro sparando a Carlo Casalegno, vice direttore de “La Stampa”, che muore dopo tredici giorni.

L’agguato di Carlo Casalegno. È il 16 novembre del 1977 quando Carlo Casalegno viene ferito dalle Brigate Rosse a Torino. Colpito con quattro pallottole alla testa, rimane vivo per 13 giorni ricoverato in terapia intensiva presso l’ospedale Le Molinette. Muore il 29 novembre, dopo vari giorni di agonia. Casalegno Aveva ricevuto minacce, una bomba era arrivata al giornale, da alcuni giorni era scortato. Quel giorno un improvviso mal di denti lo costringe ad andare dal dentista: è senza scorta. Quando arriva a casa, ad attenderlo nell’androne trova gli assassini, che gli sparano a bruciapelo.

1980, la Brigata 28 marzo: ancora attentati. Il terrorismo si scatena di nuovo contro i giornalisti nel 1980. La Brigata 28 marzo, gruppo terroristico di estrema sinistra, ferisce a Milano Guido Passalacqua inviato di “Repubblica”. A maggio uccide Walter Tobagi, giovane inviato del “Corriere della Sera”. È un delitto feroce e assurdo che desta sospetti perché il volantino di rivendicazione appare scritto da persone che hanno una buona conoscenza del mondo del giornalismo milanese. Per i socialisti i mandanti vanno cercati in via Solferino, sede del Corriere. I processi contro Marco Barbone e i suoi compagni dimostrano l’infondatezza di questi sospetti.

Il delitto di Walter Tobagi. È il 28 maggio 1980 quando, poco prima delle 11, il giornalista esce di casa e si reca verso via Salaino, dove ha lasciato l’auto in un garage. Viene affiancato da due giovani armati: sparano, Tobagi cade a terra, vicino al marciapiede. Si saprà poi che all’agguato partecipano sei giovani: Marco Barbone, Paolo Morandini, Mario Marano, Francesco Giordano, Daniele Laus e Manfredi De Stefano. A sparare il colpo mortale è Marco Barbone.

Chi è Marco Barbone. All’epoca dei fatti Barbone ha 22 anni. E’ esponente della Milano “bene”, leader dell’organizzazione terroristica di estrema sinistra, chiamata “Brigata 28 marzo”. Nata a Milano nel maggio del 1980 con lo scopo di lottare e contrastare il mondo dei media, in particolare i giornalisti della carta stampata.

Il sequestro Aldo Moro. I problemi più complessi sorgono dall’evento cruciale: il sequestro di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. La notizia del sequestro e del massacro della scorta viene diffusa la mattina del 16 marzo 1978 dalla radio, dalla televisione e dalle edizioni straordinarie di molti quotidiani. Nel corso della prigionia, i servizi segreti non riescono a trovare Moro. Nasce il dibattito, in Italia, tra chi sostiene la necessità di trattare con le Brigate Rosse e chi, al contrario, rifiuta ogni compromesso. Così lo Stato non tratta: il 9 maggio del 1978 il cadavere del presidente della Dc viene ritrovato all’interno di una Renault 4, a Roma, in via Michelangelo Caetani.

1980: Le Br sfidano i giornali. Alla fine del 1980 le Br sfidano direttamente i giornali. Per rilasciare il magistrato Giovanni D’Urso chiedono che vengano pubblicati i proclami dei loro compagni incarcerati a Trani e a decidere se accettare o meno devono essere i giornali. La maggior parte delle testate respinge il ricatto, mentre pubblicano i proclami “Il Messaggero”, “Il Secolo XIX”, “L’Avanti!”, “Il Manifesto” e “Lotta continua”. Il “Corriere della Sera” decide di adottare il “completo silenzio stampa” e quindi di non dare neppure notizie riguardanti il terrorismo. Gli altri quotidiani del gruppo devono adottare la stessa linea. Nel 1982, subito dopo la pubblicazione dei documenti brigatisti e la chiusura del supercarcere dell’Asinara, i terroristi rilasciano il magistrato.

Così i giornalisti chiusero gli occhi sulle Brigate rosse. Negli anni '70 i quotidiani ignorarono i terroristi. Per preconcetto ideologico, scrive Michele Brambilla, Martedì 17/07/2018, su "Il Giornale". Il Giorno, quotidiano di proprietà pubblica, il 23 febbraio del 1975 sentì il dovere di dare ai suoi lettori la chiave di lettura di un fenomeno che stava diventando sempre più inquietante: le Brigate Rosse. Per farlo, impegnò una delle sue firme più prestigiose: quella di Giorgio Bocca. L'articolo, a pagina 5, aveva un titolo che non lasciava spazio a equivoci: «L'eterna favola delle Brigate Rosse». «A me queste Brigate Rosse», scriveva Bocca, «fanno un curioso effetto, di favola per bambini scemi o insonnoliti; e quando i magistrati e gli ufficiali dei Cc e i prefetti ricominciano a narrarla, mi viene come un'ondata di tenerezza, perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile, ma viene raccontata con tanta buona volontà che proprio non si sa come contraddirla». Purtroppo, quella delle Br non era una favola. Non interessava solo i bambini scemi o insonnoliti. Non faceva per nulla tenerezza e, soprattutto, non era una storia «vecchia, sgangherata, puerile». Nel momento in cui Bocca scriveva quel pezzo, le Br avevano già compiuto una serie di azioni delle quali gli italiani erano venuti a conoscenza non leggendo libri di fiabe, ma la cronaca nera dei giornali. La prima impresa brigatista risaliva addirittura a cinque anni prima: il 17 settembre 1970 era stato incendiato il garage di un dirigente della Sit Siemens di Milano. Una cosa da ridere, in confronto alla vera guerriglia rivoluzionaria. Ma da quel momento era cominciata una paurosa escalation. Il 3 marzo del 1972, sempre a Milano, era stato rapito il dirigente della Siemens Idalgo Macchiarini; il 12 febbraio del '73 altro sequestro: a Torino, del sindacalista della Cisnal Bruno Labate; il 10 dicembre 1973 ancora un rapimento, quello a Torino di Ettore Amerio, capo del personale del settore auto della Fiat. A conferma che di un'escalation si trattava, e quindi che i bersagli delle Br erano sempre più importanti e difficili da colpire, il 18 aprile del 1974 era stato sequestrato a Genova, e poi a lungo tenuto prigioniero e «processato», il sostituto procuratore della Repubblica Mario Sossi, un magistrato cattolico osservante, considerato dalla sinistra un duro, un intransigente, un conservatore. Insomma, un reazionario. E a conferma che, nel momento in cui veniva pubblicato il pezzo di Bocca, le Brigate Rosse avevano già fatto capire di non scherzare, il 17 giugno '74 c'era stato il duplice omicidio, a Padova, di due aderenti al Movimento Sociale Italiano: Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci. E il 16 ottobre dello stesso anno 1974, a Robbiano di Mediglia, il maresciallo dei carabinieri Felice Maritano era rimasto ucciso in uno scontro a fuoco con dei brigatisti. Nel frattempo (9 settembre '74) erano stati arrestati a Pinerolo due capi storici delle Br, Renato Curcio e Alberto Franceschini. Il 20 febbraio '75, cioè tre giorni prima dell'apparizione sul Giorno dell'«eterna favola delle Brigate Rosse», un commando di questa formazione che secondo alcuni non esisteva neppure era riuscito a far evadere Renato Curcio dal carcere di Casale Monferrato. Com'era dunque possibile che, nonostante tre omicidi, quattro sequestri e un'evasione, Giorgio Bocca scrivesse in quei termini delle Brigate Rosse? C'erano fatti che non potevano essere ignorati. Ma la risposta è contenuta nello stesso articolo «L'eterna favola delle Brigate Rosse». Giorgio Bocca spiegava che le prove raccolte su questi tupamaros italiani erano talmente ridicole da non poter essere prese sul serio: «Questi brigatisti rossi», si legge in quell'articolo, «hanno un loro cupio dissolvi, vogliono essere incriminati a ogni costo, conservano i loro covi, le prove di accusa come dei cimeli, come dei musei. Sull'auto di Curcio, al momento dell'arresto, vengono trovati dei documenti, delle cartine; in un covo, intatto, c'è, si dice, la cella in legno in cui era prigioniero Sossi... E, naturalmente, bandiere con stelle a punte irregolari». (...)

Giorgio Bocca faceva notare, sempre in quell'articolo, che ai magistrati e alla polizia aveva «fatto parecchie pubbliche domande sulle incongruenze, quasi divertenti, di questi guerriglieri, senza ricevere né sdegnate smentite né spiegazioni convincenti». E allora, che cos'erano queste Br? «Una cosa è certa», scriveva Bocca, «le vigilie elettorali hanno per queste Brigate Rosse un effetto da flauto magico, due o tre note e saltano fuori nello stesso modo rocambolesco in cui sono scomparse». Il pezzo, come un processo, finiva con un verdetto: «Questa storia è penosa al punto da dimostrare il falso, il marcio che ci sta dietro: perché nessun militante di sinistra si comporterebbe, per libera scelta, in modo da rovesciare tanto ridicolo sulla sinistra». Questo si leggeva, nel 1975, su un giornale considerato «borghese». Anni dopo, Giorgio Bocca fece pubblica autocritica, ammettendo di «non aver capito niente» del terrorismo rosso. Ma va detto che sia lui personalmente, sia Il Giorno non erano certo eccezioni nel panorama della stampa italiana. Erano anzi la regola. Da quando le bombe, gli omicidi, gli attentati, gli scontri di piazza avevano avvelenato la politica e non solo la politica del Paese, i mass media erano entrati in un tunnel.

Giugno 1977: la campagna Br contro i giornalisti e il black out su Montanelli, scrive il 2 giugno 2018 Ugo Maria Tassinari.

1 giugno 1977 Genova. Vittorio Bruno, vice direttore del Secolo XIX di Genova viene ferito alle gambe da un giovane armato di pistola. L’attentato avviene vicino all’ingresso della tipografia. Le Br rivendicano l’attentato con un volantino in cui dichiarano guerra a tutta la stampa.

2 giugno 1977 Milano. Indro Montanelli, direttore del Giornale Nuovo, viene colpito alle gambe da un uomo armato di pistola con silenziatore. L ‘attentatore e un suo complice raggiungono una macchina che li attendeva e fuggono. L’attentato è rivendicato con una telefonata al Corriere d’Informazione dal “gruppo Walter Alasia” delle Br.

3 giugno 1977 Roma. Emilio Rossi, direttore del TG l, viene colpito da due giovani, un uomo ed una donna armati di pistola. L ‘attentato avviene in via Teulada a pochi metri dalla sede Rai di Roma. I due giovani dopo aver sparato si allontanano a piedi con un terzo complice. L’attentato è rivendicato con un volantino fatto pervenire all’ANSA e al Messaggero dalle Br. Nel volantino Rossi viene definito “direttore del più grande giornale di regime”. Così, in rapida successione, si dispiega la campagna brigatista contro la “stampa di regime”, con gli attacchi eseguite da tre delle principali colonne della Br. Mancano soltanto i torinesi. A perenne vergogna, invece, della stessa stampa la vergognosa scelta di “oscurare” il fatto che una delle vittime era il più noto e prestigioso giornalista italiano, Indro Montanelli, all’epoca protagonista di una “scissione da destra” del Corriere della Sera per fondare il Giornale, organo di battaglia anticomunista ben prima che divenisse proprietà di Berlusconi. Non solo il Corriere della Sera (in basso), che aveva dirette ragioni di bottega, ma anche numerosi altri quotidiani. Tra questi la Stampa (a sinistra) che il 3 giugno fa (del tutto volontariamente) un clamoroso “errore”, titolando in prima pagina sul ferimento di due direttori (Bruno e Montanelli) sull’articolo da Milano sulla gambizzazione del secondo, mentre il primo è stato ferito l’1 e in pagina c’è un altro articolo sugli sviluppi delle indagini. Viola così una regola ferrea: non si titola su elementi che non sono presenti nell’articolo. Fedele al suo personaggio di feroce anticomunista (all’epoca) non farà la mattina per poi avviare un dialogo umano con il leader delle Br che gli aveva sparato alle gambe, Franco Bonisoli. 

Ugo Tognazzi è il Capo delle BR, scrive il 13 maggio 2011 Pier Luca Santoro su mediahub.it. "Il Male" è stata una rivista satirica di grande successo in Italia. Edita tra il 1978 ed il 1982 con cadenza settimanale è stata diretta anche da Vincenzo Sparagna poi co-fondatore di Frigidaire. Uno dei motivi di successo della pubblicazione si legava al filone di falsificare le prime pagine dei principali quotidiani italiani. Il paginone centrale, mascherato da un qualsiasi quotidiano nazionale, diventava la prima pagina del Male, dalla finta prima di Repubblica che annunciava a caratteri cubitali "Lo stato si è estinto" al Corriere dello Sport" che riportava l'annullamento dei mondiali del '78, passando per l'annuncio dell'avvenuta invasione aliena del Corsera. E' ancora molto vivo nella mia mente il ricordo di come mi divertissi all'epoca, mentre andavo al liceo in autobus, ad esibire le diverse versioni per poi spiare di nascosto le facce, le reazioni degli altri passeggeri. Come noto, erano quelli, anche, "anni bui", un periodo difficile della storia della nostra nazione caratterizzato dal fenomeno del terrorismo. Una delle versioni che ebbe maggior successo fu l'annuncio, in tre versioni diverse che riproducevano la prima pagina del Giorno, della Stampa e di Paese Sera, dell'arresto di Ugo Tognazzi identificato come il capo delle Brigate Rosse.

Dall'eskimo al burqa (in redazione). Così il buio della ragione contraddistingue i nostri intellettuali e la nostra cultura, scrive Nicola Porro Domenica 27/03/2016, su "Il Giornale". C'è un libro che le nuove generazioni, specialmente, dovrebbero leggere. Per la verità è consigliabile anche a quella fascia di ex giovani nati agli inizi degli anni '70, dunque troppo giovani per sapere cosa stesse succedendo accanto a loro. Scritto nel '91, per le edizioni Ares, da Michele Brambilla, si intitola L'eskimo in redazione. Varrebbe la pena leggerlo per due ordini di motivi. Uno contingente: anche oggi siamo immersi in un pensiero unico sul fenomeno del terrorismo islamista. Chi pensa che accoglienza e integrazione siano due balle, viene trattato come un paria. E infine c'è una ragione più storica: occorre conoscere il livello di cialtronaggine che ha caratterizzato la nostra classe giornalistica e culturale nel ventennio del terrorismo. Che poi sono gli stessi che si sono fatti establishment spiegando alle nuove generazioni quali errori non fare, proprio loro che ne hanno commessi una caterva. D'altronde era la generazione che inventò lo slogan giornalistico più ridicolo del secolo: i fatti separati dalle opinioni. Brambilla ci racconta bene come le cronache erano per lo più ideologiche, altro che opinioni. Quello di Brambilla è il racconto di un orrore a cui solo pochi si seppero sottrarre: Montanelli, Pansa, Casalegno, Tobagi. È l'orrore per cui nei giornalisti degli anni '70 l'ideologia veniva prima della cronaca. L'orrore per cui campagne di stampa hanno armato la mano che ha ucciso il commissario Calabresi. L'orrore orwelliano del pensiero unico per cui i manifesti della gente per bene erano firmati da Eco e da Fo, da Scalfari e da Mieli. L'orrore per cui, nonostante tutte le evidenze, giornalisti come Bocca, Sechi (pensate un po', ancora considerato un mito del giornalismo), Galli e mille altri ci hanno raccontato per anni che le Brigate Rosse erano sedicenti, e che piuttosto era in corso una strategia della tensione sotto la regia della destra. L'orrore della signora Cederna (quanto continua a essere celebrata...), la quale nel '72 aveva il coraggio di scrivere sull'Espresso: «Ho capito da sola in questi anni come è scomodo essere in una minoranza specialmente quando si ha ragione». E aggiungeva che Feltrinelli era stato ucciso chissà da chi e non, come si seppe qualche anno dopo (ma tutti lo sapevano anche allora), da un incidente sul lavoro, piazzando un ordigno su quel traliccio. E la sua supposta minoranza era piuttosto la maggioranza degli intellettuali dell'epoca. Brambilla fa un lavoro grandioso: mette in fila questa galleria degli orrori, fa nomi e cognomi, cita date e giornali e mette in evidenza questo impasto di conformismo e di vigliacca omologazione. Merita un posto d'onore nella nostra Biblioteca liberale, anche se non si tratta di un saggio economico, non affronta questioni filosofiche, ma meglio dei primi e dei secondi racconta il buio della ragione che ha contraddistinto i nostri intellettuali e la nostra cultura.

L’eskimo in redazione, i bei giornali di una volta, scrive il 6 marzo 2016 Stefano Olivari su "L'Indiscreto.info". La fusione Repubblica-Stampa-Secolo-eccetera già definita e quella Corriere della Sera-Sole 24 Ore scenario credibile hanno già scatenato i rimpianti per il presunto bel giornalismo di una volta, quello che mai si sarebbe conformato al pensiero unico. Leggendo a distanza di oltre quarto di secolo L’Eskimo in redazione – Quando le Brigate Rosse erano ‘sedicenti’ viene qualche dubbio, perché Michele Brambilla già nel 1990 ebbe il merito di analizzare gli anni di piombo, non ancora storicizzati perché molti dei suoi protagonisti erano ancora in pista, dal punto di vista di chi li avrebbe dovuti raccontare ai lettori. I giornalisti, insomma. Un libro che suo tempo generò fortissime polemiche, dovute alla cattiva coscienza di una stampa che aveva sottovalutato i pericoli del terrorismo rosso continuando a sostenere la tesi che si trattasse di operazioni portate avanti da fascisti mascherati, al soldo della CIA o di indefinibili poteri forti. Brambilla, attuale direttore della Gazzetta di Parma, si muove su più fronti. Il primo è proprio quello della paternità dei crimini, anche quando chi li aveva commessi li rivendicava con orgoglio e la sua storia politica era evidente. Così per anni, fino a quasi il sequestro Moro, le Brigate Rosse quando venivano nominate erano accompagnate nell’articolo dall’aggettivo ‘sedicenti’. Le sedicenti Brigate Rosse, così come sedicenti erano altri gruppi della stessa area, altro non sarebbero stati che gruppi di destra diretti astutamente dalle forze della reazione: questo si leggeva sul Corriere della Sera e su altri grandi giornali nazionali, con la ovvia eccezione del Giornale che nel 1974 Indro Montanelli fondò proprio per sfuggire al pensiero unico e perché non si riconosceva più nel Corriere di Piero Ottone. Il secondo fronte su cui si muove Brambilla è quello del doppiopesismo. L’attentato rivendicato dal neofascista è indubbiamente opera sua, quello del brigatista una manovra per influire sul voto popolare ed impedire l’arrivo del PCI al governo. Questi della maggioranza silenziosa e della CIA però avevano sbagliato i calcoli, visto che alle Politiche del 1976 il partito allora guidato da Enrico Berlinguer toccò il suo massimo storico superando il 34% dei voti. Il doppiopesismo si applica anche alle vittime: quella di destra è uno che in qualche modo se l’è cercata (esempio classico Sergio Ramelli, iscritto al Fronte della Gioventù ma non certo un attivista) mentre quello di sinistra è la vittima di uno Stato reazionario. E qui si arriva ai tanti uomini dello Stato maltrattati anche dai giornali cosiddetti borghesi, quelli con lettori che istintivamente avevano più fiducia nel prefetto Mazza che in Sofri. Il caso Calabresi è da manuale, con una campagna di odio senza precedenti che non fu soltanto di Lotta Continua (tra i tanti firmatari del documento dell’Espresso in cui veniva definito ‘commissario torturatore’ svettavano Eco, Fellini, Bobbio, Guttuso, Scalfari, Bocca, Moravia…) e che terminò con l’assassinio di Calabresi, ma anche i magistrati capaci di mantenere equilibrio (fra questi Gerardo D’Ambrosio) venivano giudicati con sospetto perché facevano il gioco del ‘nemico’. Brambilla mette insieme verità giudiziarie, semplice logica e articoli dell’epoca, in un affresco che sarebbe esilarante se non fosse popolato di morti e di violenza ideologica. Non classificabile il Corriere della Sera che non comprò la foto più famosa degli anni di piombo (quella scattata in via De Amicis, a Milano, durante gli scontri in cui fu ucciso il vicebrigadiere Antonio Custra) e che non mise il nome di Montanelli (non ancora icona anti-berlusconiana) nel titolo dell’articolo sulla sua gambizzazione, imbarazzanti le tante ipotesi fatte sulle morti di Pasolini e Feltrinelli (con la scomparsa del ‘Se la sono cercata’), di assoluto culto gli articoli che mettevano in relazione la strage dei Graneris (storia con cui Vespa oggi farebbe 1.200 puntate di Porta a Porta), assimilabile per certi versi alla vicenda di Pietro Maso, con una vendetta contro partigiani comunisti. Solo in pochi, non a caso i più grandi (su tutti Bocca), seppero poi fare autocritica, ma in generale davanti all’evidenza dei fatti si preferì la notizia asettica o il silenzio. Insomma, nemmeno editori diversi possono fare più di tanto contro il pensiero unico, che a prescindere dalla realtà ha già i suoi buoni e i suoi cattivi. La forza di questo libro, per niente datato nonostante abbia ormai più di 25 anni, è proprio questa: il pensiero unico non è una tavola di leggi imposte da un grande vecchio, ma un conformismo a cui quasi tutti si adeguano per pigrizia e soprattutto convenienza. L’abbiamo visto applicato al terrorismo di sinistra come all’europeismo, al liberismo come all’immigrazione, a seconda dei periodi, con una ‘linea’ a cui la maggioranza si adegua perdendo ogni capacità critica e svegliandosi troppo tardi. Ma qui già stiamo andando sui massimi sistemi, dimenticando una questione mai davvero analizzata: l’intolleranza quasi genetica della sinistra (e non parliamo di terrorismo o violenza fisica) nei confronti di chi la pensa diversamente, che non si esprime con la spranga ma in maniere molto più sottili e durature.

Quell’eskimo in redazione che fa ancora vergognare. Esclusiva intervista a Michele Brambilla: il mea culpa mancato dei giornalisti italiani sugli anni di piombo, scrive il 13 giugno 2018 Frediano Finucci su "Informazionesenzafiltro.it". Il mea culpa è una pratica a cui i giornalisti italiani sono da sempre poco avvezzi. Non tiriamo in ballo la legge sulla Stampa e l’obbligo della rettifica per chi è oggetto di notizie false o imprecise: chi l’ha vissuto sulla propria pelle sa quanto sia difficile – se non impossibile – ottenere la pubblicazione di una rettifica, su di un giornale o un notiziario, con la stessa evidenza della notizia da rettificare. Figuriamoci poi sul Web. Sull’argomento “mea culpa e stampa” esiste però un caso editoriale sul quale da decenni, nel mondo del giornalismo italiano, si discute di malavoglia e sottovoce, come si fa nelle famiglie per il caso di un parente che ha dato scandalo e delle cui malefatte tutti sono al corrente. Protagonista è il giornalista Michele Brambilla, attuale direttore della Gazzetta di Parma, per decenni inviato del Corriere della Sera e de La Stampa, già vicedirettore de Il Giornale e di Libero. Brambilla nel 1990 ha scritto un libro molto documentato, L’eskimo in redazione, nel quale dimostra come la quasi la totalità della stampa italiana negli anni ’70 abbia fatto di tutto per negare l’esistenza delle Brigate Rosse e per dare la colpa a elementi neofascisti di gravissimi fatti di cronaca nera che in realtà non avevano alcuna connotazione politica. Una tesi semplice ma dirompente che torna d’attualità oggi, nel quarantennale dall’assassinio di Aldo Moro.

Dopo l’uscita del tuo libro quanti giornalisti hanno fatto mea culpa per avere negato l’esistenza delle BR?

«Alcuni, anche se non subito. Giorgio Bocca fu uno dei primi a farlo, e in tempi non sospetti, quando scusarsi non era di moda. Nel corso degli anni Paolo Mieli ed Eugenio Scalfari hanno riconosciuto di avere sbagliato: qua mi riferisco a una delle nefandezze legate a quegli anni, vale a dire l’incitamento della stampa all’odio verso il commissario di polizia Luigi Calabresi con il famoso documento pubblicato sull’Espresso nel giugno 1971, dove più di 800 esponenti del mondo culturale e giornalistico accusavano il commissario della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli. Nel complesso però sono stati pochi quelli che hanno fatto pubblica ammenda. Uno dei primi fu certamente Giampaolo Pansa che, pur essendo di sinistra, tra l’altro non aveva di che pentirsi avendo sempre fatto un tipo di giornalismo corretto. Il mondo che non si è mai pentito è quello che ad esempio gravitava intorno a Dario Fo, che continuava a sostenere che Calabresi era un poco di buono».

Chi non ha fatto mea culpa, secondo te, non l’ha fatto per quale motivo?

«Direi essenzialmente per orgoglio e ideologia. Nel primo caso perché se per un essere umano è difficile dire “ho sbagliato”, lo è di più per un giornalista. Nel secondo caso, ovvero l’ideologia, perché negare l’esistenza di un terrorismo rosso ancora oggi vuol dire affermare che la Sinistra era (ed è) esente dal peccato originale della violenza, perché sta sempre dalla parte degli ultimi e dei poveri. Non si vuole ammettere insomma la possibilità che anche da sinistra possa venire violenza, il che storicamente è successo – e non solo in Italia, intendiamoci. Per questo ancora oggi quando si parla delle BR c’è sempre dietro un complotto, delle macchinazioni del potere: si sostiene che le bombe furono solo fasciste, che non furono i brigatisti a rapire Moro, anzi: furono manovrati. Ma per queste affermazioni non ci sono prove».

Qual è stato il mea culpa più sincero da parte di un collega?

«Difficile dirlo ma per farti capire il clima – e non solo di allora – che persiste nella categoria, ti racconto un episodio. Nel 2012 scrivevo per La Stampa e fui inviato in un cinema romano a vedere l’anteprima per i giornalisti del film di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage, sulla bomba di piazza Fontana e i fatti che ne seguirono. Valerio Mastandrea interpretava il commissario Calabresi, dipinto come una figura positiva, un giovane poliziotto schiacciato da vicende più grandi di lui, rispettoso degli indagati durante gli interrogatori; soprattutto – come emerge dalla verità storica – si precisava che il commissario non si trovava nella stanza della Questura di Milano dalla cui finestra l’anarchico Pinelli volò giù, morendo. Al termine della proiezione, quando si riaccesero le luci, in sala calò il gelo: nessuno dei giornalisti applaudì e dai commenti si capiva che i presenti si aspettavano da un regista apertamente di sinistra come Giordana tutto meno che la riabilitazione di Calabresi. Andai subito a parlare con Giordana riferendogli delle perplessità dei colleghi e lui rispose: “quando ero militante di sinistra fui arrestato e interrogato da Calabresi il quale fu di una correttezza esemplare, un poliziotto che si sforzava di capire le rimostranze di una generazione”. Morale: Per i giornalisti italiani a partire dagli anni ’70 Calabresi fu un capro espiatorio, e quando una categoria fa una scelta del genere poi è difficile tornare indietro».

C’è stato qualche collega che dopo aver letto il libro ti ha detto in privato che avevi ragione, ma poi non ha fatto scuse pubbliche?

«Ti rispondo ancora una volta con un episodio. Il mio libro è stato pubblicato da quattro editori e ha avuto una quindicina di ristampe. Quando uscì, nel 1990, lavoravo al Corriere della Sera, e con l’eccezione de La Repubblica L’eskimo in redazione fu recensito da tutti i giornali italiani. Allora al Corriere il direttore era Ugo Stille e tra i vicedirettori c’era un gentiluomo piemontese che si chiamava Tino Neirotti, che mi disse: “hai fatto un libro bellissimo, ora dico ai colleghi della Cultura di scrivere una recensione”. Nessun giornalista però si dichiarò disposto a farlo: nessuno voleva “sporcarsi le mani”. Allora Neirotti mi disse: “Michele, scrivi tu una scheda di sessanta righe sul tuo libro, non firmarla e a lato mettiamo un pezzo di Giuliano Zincone che secondo me qualche riflessione sul tema la fa volentieri”. Ebbene, una volta scritta la scheda, da sessanta righe previste diventò una segnalazione di una riga e mezzo con accanto il pezzo di Zincone che mi stroncava. Questo per dirti che persino un vicedirettore non era riuscito non dico a far pubblicare un’autocritica, ma nemmeno a garantire una parità di dibattito. E questo, credimi, lo dico con dolore profondo, perché il Corriere è un pezzo della mia vita».

In occasione del quarantennale della morte di Moro la stampa italiana ha affrontato anche il tema della negazione delle BR da parte dei giornali di cui parli nel libro?

«Alcuni l’hanno fatto: Ernesto Galli della Loggia sul Corriere, demolendo la riproposizione del cosiddetto “mistero del caso Moro”, e anche sul Post di Luca Sofri sono apparsi articoli che smontavano le tesi complottistiche sull’eccidio di via Fani. Nonostante questo ancora oggi si vuol far credere che non ci sia stato un terrorismo di sinistra. Proviamo a riflettere: i “bombaroli” neri degli anni ’70, quelli davvero coperti da alcuni elementi dei Servizi segreti italiani, sono stati fatti scappare all’estero o messi in condizione di essere assolti nei processi. I rapitori di Moro hanno passato 20/30 anni in galera: se davvero fossero stati collaboratori di Servizi italiani o esteri questi li avrebbero fatti scappare, assolti o al limite uccisi. Che interesse avrebbero i brigatisti a negare ancora oggi di essere stati manovrati?»

Dopo gli anni del terrorismo, a tuo parere, ci sono stati nella stampa italiana episodi di conformismo estremo, di miopia giornalistica analoghi a quelli che racconti nel libro?

«Si. Uno è stato la prima fase di Mani Pulite che ho seguito sin dall’arresto di Mario Chiesa. Di nuovo: non credo che dietro lo scoppio di Tangentopoli ci sia stato un complotto di chissà chi. Tutto nacque dalla grande abilità di Antonio di Pietro – forse più bravo come poliziotto che come magistrato – a trovare le prove della corruzione dei politici. Allora montò un’indignazione popolare verso i politici corrotti, e all’inizio fu giusto per la stampa italiana appoggiare le inchieste; dopodiché la cosa sfuggì di mano ai giornalisti. Subito le procure di tutt’Italia cominciarono ad arrestare politici e imprenditori senza avere però le competenze di Di Pietro, e la grande stampa peccò di conformismo appoggiando sempre e comunque i magistrati. Fu allora che nacque l’idea generale che i politici sono tutti corrotti e nel nostro Paese lo sono più che in altri. Il “fa tutto schifo” e il “tutti sono colpevoli” non li ha inventati Beppe Grillo, ma proprio i “giornaloni” verso i quali il comico si accanisce. I pochi che non si accodavano al conformismo verso i magistrati – ad esempio Giuliano Ferrara o Filippo Facci – venivano accusati di essere complici dei ladri. C’è però una grande differenza tra il conformismo totale della stampa negli anni di piombo e quello di Mani Pulite. Nel primo caso – con l’eccezione de Il Giornale di Montanelli – tutti i quotidiani erano concordi nell’esprimere dei dubbi sulla reale esistenza delle Brigate Rosse, che non a caso definivano “sedicenti”; nel caso di Tangentopoli il conformismo si spezzò dopo un paio d’anni quando venne indagato Silvio Berlusconi: allora i giornali e l’opinione pubblica si divisero tra chi lo difendeva a spada tratta e chi invece appoggiava i giudici di Milano. Ora, Berlusconi ha avuto sicuramente dalla sua buona parte dei media di cui è proprietario, ma anche i cronisti di Mani Pulite di allora (molti dei quali hanno fatto autocritica) riconoscono che fu eccessivamente demonizzato, tant’è che oggi nei suoi confronti è in corso, come dire, una sorta di riabilitazione».

L’ESKIMO IN REDAZIONE DI BRAMBILLA. UN IMPORTANTE LIBRO SUL CONFORMISMO. Scrive il 20/11/2015 Stefania Miccolis su "Lamescolanza.com".  È difficile essere obiettivi con il libro “L’Eskimo in redazione” di Michele Brambilla. È difficile tenere un distacco adeguato per dare una valutazione a favore o contro, drugstore there soprattutto se si è affetti da una sorta di pregiudizio dovuto a una formazione culturale ben precisa. Ma il libro è certamente di alto interesse e porta a una riflessione profonda, e senza dubbio fa comprendere meglio il clima di quegli anni di piombo, capitolo buio della storia italiana. All’epoca della sua uscita nel 1990 (ristampato varie volte e nel 2010 da ed. Ares), fu recensito da molti quotidiani tranne che dal Corriere della Sera dove Brambilla lavorava, luogo in cui i tanti giornalisti indossavano un Eskimo per coprire i loro cachemire. Fu oggetto di discussione, un testo scomodo per tutta una élite culturale di sinistra. Il titolo del libro che fa riferimento a una canzone di Francesco Guccini diviene un nuovo modo di dire per indicare i “tempi in cui il giornalismo era allineato su posizioni più gruppettare che di sinistra”. Il lavoro di Brambilla si basa su una ricerca accurata, fatta in particolare negli archivi del Corriere della Sera, una carrellata o miscellanea di articoli di giornalisti di prestigio dell’epoca, quelli che Indro Montanelli indica come “l’intellighenzia (inutile aggiungere “di sinistra”: quella di destra non è riconosciuta come intellighenzia)”.  Ma questo, tiene a sottolineare lo stesso autore, “lungi dall’essere un libro contro la sinistra, è un libro di denuncia di uno dei vizi mai morti della nostra categoria: il conformismo”: la sinistra negli anni ’70 è la vincente di turno, e sua è l’egemonia culturale. È un “libro-documento” come scrive Indro Montanelli nella prefazione, dove “c’è tutto quello che bisogna sapere” ed è “scritto a futura memoria, nella speranza che la memoria serva a qualcosa”. Vengono raccontati gli anni di piombo, e analizzati alcuni dei casi importanti delle Brigate Rosse. Ne esce un quadro ideologizzato e fazioso: le Brigate Rosse erano le “sedicenti Brigate Rosse”, a detta dei molti giornali borghesi che “per anni hanno fatto intendere agli italiani che quelle formazioni non erano rosse, e quindi erano nere, o peggio ancora al servizio delle istituzioni. Ma il loro programma era quello di aumentare la tensione al punto di scatenare una reazione dei conservatori che avrebbe convinto tutta la sinistra a scendere nelle strade e nelle piazze per dar vita alla guerra civile e instaurare un nuovo regime, marxista”. “Le Brigate Rosse hanno sempre rivendicato le proprie azioni e la propria appartenenza alla sinistra rivoluzionaria”. Si diceva fossero “fascisti mascherati”, e che “di rosso avessero solo il nome” (Sandro Pertini); Biagi, Bocca e molti altri avevano sottovalutato la gravità del loro potere rivoluzionario. Si prendeva in considerazione la “strategia della tensione” che serviva a spostare a destra l’equilibrio politico italiano, mentre “la teoria degli opposti estremismi”, ovvero l’esistenza di due terrorismi, uno rosso e uno nero, era solo un alibi per le forze conservatrici. Un vero coro conformista, solo pochi si distinguevano fra cui Pansa, Tobagi e Montanelli, che si attenevano ai fatti e senza incriminare nessuno aspettavano le sentenze, e comunque condannavano qualsiasi tipo di terrorismo, a destra e a sinistra. Brambilla fa coincidere l’inizio della violenza politica in Italia con la morte, rimasta impunita, il 19 novembre 1969 dell’agente di polizia Annarumma, (questo fu “l’esordio degli scontri di piazza e della guerriglia”), nello scontro a Milano fra estremisti di sinistra e forza pubblica. Nessuno voleva dare la colpa agli estremisti. Poi venne il 12 dicembre del 1970 e il prefetto di Milano Mazza scrisse un rapporto al Ministero degli Interni in cui segnalò la violenza rossa e la violenza nera e per questo non fu mai perdonato dalla sinistra e da allora Mazza venne considerato un ottuso conservatore reazionario. Ecco poi dunque il caso di Giangiacomo Feltrinelli morto perché gli era scoppiata in mano una carica di dinamite per fare saltare un traliccio e provocare il black-out in una zona di Milano. Ma tutti scrissero che Feltrinelli “Il guerrigliero dei Navigli” o “il rivoluzionario dorato” era stato ucciso, che vi era “Il sospetto di una spaventosa messa in scena” che fosse “un delitto”. Solo Montanelli e pochi altri ebbero il coraggio di andare contro a una stampa preconcetta, quella della “verità in tasca” che ingannava i lettori. Montanelli nel 1972 diceva che non c’era nulla da obiettare se fossero ipotesi di una messa in scena e di un delitto, ma “ciò che rifiutiamo è il tentativo di spacciarla come una certezza già acquisita”; “in questa orgia di bombe e incalzare di attentati, in questo macabro carnevale di cadaveri e nella irresponsabile speculazione che si cerca di farne strumentalizzandoli a scopi di parte, l’unica speranza riposa proprio nella pubblica opinione, nella saldezza dei suoi nervi, nell’equilibrio del suo giudizio […] la esortiamo a non credere, per ora, a nessuno”. Altro caso analizzato, il delitto Calabresi, ucciso nel 1972 da due colpi di pistola, “e, ancor prima, da una campagna diffamatoria forse senza precedenti in Italia” dopo la morte nel 1969 di Giuseppe Pinelli. E così venne chiamato il “commissario finestra”. Accusato della morte di Pinelli, diversi furono gli appelli e le lettere aperte, e le adesioni degli uomini di cultura “una delle prove più evidenti del conformismo di allora”. L’autore espone un documento firmato da filosofi, intellettuali, registi cinematografici, storici, giornalisti e pubblicato sull’Espresso il 13 giugno del 1971, in cui Calabresi veniva definito un “commissario torturatore” e il “responsabile della fine di Pinelli”. Questo fa comprendere quanto la cultura italiana, scrive Brambilla, fosse monopolizzata. E neanche dopo la sua morte Calabresi fu lasciato in pace. Sofri riconobbe durante il processo che vi fu una campagna diffamatoria sul giornale di lotta continua sul commissario: “una specie di gusto inerte, diciamo, dell’insulto, del linciaggio, della minaccia, si è impadronito di noi, e non solo di noi”. Indro Montanelli fu “fra i giornalisti che non seguirono l’onda” e lo difese: “Calabresi pagò con la vita la campagna di opinione che lo dipingeva come un brutale torturatore al servizio dei golpisti. Ma nemmeno il suo assassinio turbò i sonni dei suoi accusatori. L’unica loro preoccupazione fu di risolvere in chiave nera anche quel delitto”. Una forte disputa la ebbe con Camilla Cederna; fra i due botta e risposta sui giornali, per Montanelli la Cederna era colpevole di prendere sempre “posizioni preconcette”. Poi ancora si parla dell’attentato a Indro Montanelli “Uno dei clamorosi casi di censura politica attuata dai giornali italiani. “Quando le Br mi spararono alle gambe – dice Montanelli -, i grandi quotidiani non misero neppure il mio nome nel titolo” (tranne Scalfari e Bocca). Infine Brambilla non lascia in disparte neanche il caso di Pier Paolo Pasolini, nulla a che vedere con terrorismo o estremismo, ma “l’appiccicare un’etichetta politica, ovviamente di stampo reazionario, anche a ciò che di politico non aveva alcunché, rientrava nella logica di quegli anni, la logica delle sedicenti Brigate Rosse e delle provocazioni del potere”. Un delitto che poi con l’intervento di Oriana Fallaci, che mai rivelò le sue fonti, diventò delitto politico, addirittura paragonabile al caso di Feltrinelli. Solo la morte di Moro scosse le coscienze, anche se non tutti furono capaci di autocritica. Certo è che alcuni giornalisti riconobbero di avere sottovalutato la violenza delle Brigate Rosse. Per Bocca – La Repubblica, febbraio 1979 – “in quegli anni dal 69 al 72 l’informazione fu travolta da uno spirito fazioso e dalla rivelazione, per molti di noi traumatizzante del “terrorismo di Stato”. “In quegli anni noi cronisti non capimmo niente della sinistra armata”, “perché non si volle dire e capire sin dagli inizi che le Brigate Rosse erano una cosa seria? Noi conosciamo i nostri errori.” E così Walter Tobagi nel 1979 sul Corriere della Sera “…i germi del partito armato c’erano, ed erano espliciti. Solo i pregiudizi ideologici impedivano di rendersene conto”. Montanelli, nella sua acuta, concisa prefazione, ritiene che Brambilla abbia compilato una preziosa “comparsa per il cosiddetto Tribunale della storia”, tribunale del quale non ha molta fiducia, ma certamente chi vorrà ricostruire gli anni di piombo non potrà fare a meno di questo libro.

Ne ammazza più la penna che le BR. «Io non credo che le Brigate Rosse fossero molto lusingate dalla partecipazione, dalla loro parte, degli intellettuali - non credo. Erano gli intellettuali che volevano mettersi – casomai - al sicuro. Gli intellettuali italiani, si ricordi, per nove decimi stanno dalla parte di chi picchia. Mai dalla parte di chi le busca! È sempre stato così» (Indro Montanelli ad Alain Elkann), scrive Valerio Alberto Menga il 26 novembre 2015 su "L'Intellettualedissidente.it". La Repubblica ha dato notizia dell’avvenuto passaggio di direzione del quotidiano da Ezio Mauro a Mario Calabresi. È però noto che tra le firme illustri del sopracitato giornale vi era quella di Adriano Sofri, ritenuto il mandante dell’omicidio del Commissario Luigi Calabresi, padre del neodirettore di Rep. Le due firme avrebbero potuto convivere con ovvie difficoltà. Così Adriano Sofri si è dovuto ritirare. E la cosa ha suscitato molto scalpore. Spieghiamo il perché, ripercorrendo la Storia recente. Milano, 12 dicembre 1969. Ore 16:37. Sette chili di tritolo esplodono all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura sita in Piazza Fontana. 16 morti e 87 feriti. La polizia imbocca subito la pista anarchica. Dopo alcune indagini e interrogazioni ai tassisti che quel giorno hanno portato sul luogo dell’attentato, spunta fuori il nome dell’anarchico Pietro Valpreda, noto per essere un ballerino con inclinazioni “bombarole”, ma solo a parole. Poi, la notte successiva alla strage, si interroga Giuseppe Pinelli, anarchico anche lui. Verrà portato in questura per una serie di lunghi ed estenuanti interrogatori. Tre giorni dopo l’attentato, il 15 dicembre del 1969, Pinelli precipita dal quarto piano dell’aula dell’interrogatorio e si schianta al suolo. Arriverà già morto all’ospedale Fatebenefratelli. Questa è una vicenda a tinte fosche, dai mille risvolti. Sono gli anni della Guerra Fredda. L’Italia ha paura di divenire una repubblica sovietica da una parte, e dall’altra di ritornare alla dittatura nera. Con Piazza Fontana ebbero inizio i tristemente noti “Anni di piombo” e con essi la teoria della “Strategia della tensione”. Una teoria secondo cui uomini di stato, servizi segreti, terroristi rossi e neri avrebbero stretto un patto scellerato, portando la Repubblica Italiana alla sua ora più buia. L’obiettivo supposto? Condizionare l’opinione pubblica italiana, spaventata da una serie di attentati ben orchestrati, affinché la colpa ricadesse sugli “opposti estremi” e i voti confluissero verso il più rassicurante centro democristiano. In seguito alla strana morte dell’anarchico Pinelli il movimento extraparlamentare Lotta Continua indicava il commissario Luigi Calabresi come il responsabile, oltre che esecutore materiale, della morte di Pinelli, avvenuta probabilmente (sempre secondo LC) per un colpo di karate ben assestato.  Il 10 giugno 1971 il settimanale L’Espresso pubblicò una lettera aperta sul caso in questione. In questa lettera si formulavano una serie di accuse a persone che avrebbero condizionato il processo in favore del commissario Calabresi, avvalendosi della “indegna copertura concessagli dalla Procura della Repubblica”, dando per scontata l’uccisione di Pinelli per mano o responsabilità diretta del commissario Calabresi. La lettera era “rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni” e si chiedeva (leggesi pretendeva) l’allontanamento di costoro dai loro uffici, in quanto si rifiutava di “riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini”. La lettera, partendo da 10 firme iniziali, arrivò, al momento della pubblicazione, al numero di ben 757 personalità di spicco della società italiana, comprendendo la quasi totalità dell’intellighenzia della Sinistra di allora e di oggi, ma non solo. Tra questi nomi si ricordano, in ordine sparso, quelli di: Norberto Bobbio, Umberto Eco, Dario Fo, Franca Rame, Margherita Hack, Giorgio Bocca, Eugenio Scalfari, Inge Feltrinelli, gli Editori Laterza, Giulio Einaudi, Federico Fellini, Paolo Mieli, Tinto Brass, Luigi Comencini, i fratelli Taviani, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Marco Bellocchio, Folco Quilici, Carlo Levi, Alberto Moravia, Dacia Maraini, Alberto Bevilacqua, Primo Levi, Giancarlo Pajetta, Furio Colombo, Camilla Cederna, Tiziano Terzani, Toni Negri e i fratelli Carlo e Vittorio Ripa di Meana. (Qui l’elenco completo dei firmatari. Vedere per credere). Il Premio Nobel Dario Fo, in seguito alla firma, ebbe pure la brillante idea di portare in scena lo spettacolo Morte accidentale di un anarchico. In tale spettacolo Calabresi era soprannominato “il Commissario Cavalcioni” a causa della strana usanza da lui praticata nei confronti degli interrogati, messi, appunto, a cavalcioni di una finestra, per poi, ovviamente, farli cadere giù. Nella lunga video-intervista che tenne Alain Elkann con Indro Montanelli negli anni Novanta per la Storia d’Italia, il buon vecchio Indro, ebbe a dire di Calabresi quanto segue: “Se c’era un funzionario corretto e che veniva portato ad esempio da tutti i suoi colleghi questi era Calabresi”. E poi ricordò un piccolo dettaglio: “Calabresi non era in questura nel momento in cui avvenne il fattaccio”. Ma erano anni in cui il vento del conformismo tirava a sinistra e la verità veniva dettata dagli dei del proletariato armato. Quella lettera risuonò come una vera e propria condanna a morte. Tant’è che un anno dopo la sua pubblicazione, Luigi Calabresi verrà freddato dai sicari di Lotta Continua. Giustizia proletaria fu fatta. Era il 17 maggio del 1972. Solo pochi giornalisti italiani non si unirono al coro. Tra loro Giampaolo Pansa (unitosi oggi ad un altro coro), Massimo Fini e il già citato Indro Montanelli. Il caro Indro, a causa della sua dissidenza nei confronti della linea editoriale filobrigatista che il Corriere della Sera pareva aver assunto in quegli anni, lasciò, nauseato, la redazione del giornale ritirando la sua penna. Il 2 giugno 1977, Montanelli fu “gambizzato” da parte delle Brigate Rosse. Ne uscì vivo, con qualche ferita alle gambe. Non si saprà mai chi fu il mandante. Si mormorò però che, come in altri casi analoghi, in qualche salotto-bene della sinistra di allora si brindò all’evento. Sofri, ha ricordato Montanelli, scrisse una lettera alla vedova Calabresi in cui negava di esser stato il mandante dei sicari di suo marito. Si assumeva però, in quell’occasione, la responsabilità per aver contribuito a creare l’atmosfera che condusse all’assassinio del marito. E di ciò le chiese perdono. Venti anni dopo l’omicidio Calabresi, L’Europeo mandò un redattore ad intervistare i firmatari dell’appello di Lotta Continua per rendergliene conto: dissero di non ricordarsene più. Montanelli, nell’intervista con Elkann, ebbe a dire: «Nessuno di loro ha fatto atto di contrizione. Gli unici che lo hanno fatto sono stati quelli che si trovano in galera». Quando si dice: “ne ammazza più la penna”… Oggi, Giampiero Muhgini, insieme a Fulvio Abbate, ha ricordato i fatti narrati alla telecamera di Teledurriti. E bisogna rendergliene atto, dato che Mughini stesso fu uno dei giovani esaltati di Lotta Continua. Ma la sua firma, a quella dannata lettera, non comparve. Per chi avesse l’interesse e il coraggio di ripercorrere quegli anni e quelle vicende, può trovare tutto nel saggio di Michele Brambilla L’eskimo in redazione. Quando le Brigate Rosse erano “sedicenti”.

Quei giornali che negavano le Br. ll nuovo libro del conduttore di Matrix, giornalista liberale, contro i concreti pericoli del pensiero unico, scrive Nicola Porro il 9 Ottobre 2016 su "La Gazzettadiparma.it". C’è un libro che le nuove generazioni, specialmente, dovrebbero leggere. Per la verità è consigliabile anche a quella fascia di ex giovani nati agli inizi degli anni settanta, dunque troppo giovani per sapere cosa stesse succedendo in Italia nei loro primi anni di vita. Scritto nel 1991 da Michele Brambilla, si intitola «L’eskimo in redazione». Varrebbe la pena leggerlo per due ordini di motivi. Il primo è contingente: anche oggi siamo in una situazione paragonabile, immersi in un pensiero unico sul fenomeno del terrorismo islamista. Chi pensa che accoglienza e integrazione siano due etichette vuote, chi ritiene che il fenomeno non derivi da presunte colpe dell’Occidente, chi denuncia la violenza fondamentale di certe interpretazioni, molto diffuse, del Corano, viene trattato come un paria. C’è poi una ragione più storica: occorre conoscere bene il livello di cialtroneria che ha caratterizzato la nostra classe giornalistica e culturale nel ventennio del terrorismo. Uno dei più delicati della nostra breve stagione repubblicana. Che poi sono gli stessi intellettuali che si sono «fatti» establishment spiegando alle nuove generazioni quali errori non fare, proprio loro che ne hanno commessi un’infinità. Criticavano il presunto «regime» di allora per trovare un posto al sole e, quando ci sono riusciti, hanno messo in opera esattamente il medesimo modello di controllo degli spazi culturali che criticavano negli anni settanta. D’altronde era la generazione che inventò lo slogan giornalistico, alla luce di ciò che avvenne, più ridicolo del secolo: «i fatti separati dalle opinioni». Brambilla ci racconta bene come le cronache erano per lo più ideologiche, altro che opinioni. Sentite cosa scriveva l’inventore del fortunato slogan, Lamberto Sechi, del «Giornale» di Montanelli: «Quando ‘il Giornale’ finanziato da Cefis commemora, nel settimo anniversario della morte di Giovanni Guareschi, un uomo che ha dedicato la maggior parte della sua vita alla denigrazione dell’antifascismo e della repubblica, qualsiasi fascista ha diritto di sentirsi, nonché giustificato, riverito, degno di un medaglione su uno di molti (ormai quasi tutti) giornali di regime». Insomma «il Giornale» non poteva e non doveva, secondo l’autorevole opinione dell’inventore dei fatti separati dalle opinioni (regola a cui si sarebbero dovuti attenere tutti i giornalisti a eccezione dell’inventore della stessa), commemorare nell’anniversario della morte il padre di Don Camillo e Peppone, uno degli autori più amati dagli italiani. Come scrive il Nostro, bastava questa commemorazione «per essere ritenuti non solo dei fascisti, ma addirittura dei complici morali dei bombaroli che sterminavano innocenti sui treni». Il racconto di Brambilla è il racconto di un orrore a cui solo pochi si seppero sottrarre: Montanelli, Pansa, Casalegno, Tobagi. È l’orrore, come detto, per il quale nei giornalisti degli anni settanta l’ideologia veniva prima della cronaca. L’orrore per il quale le campagne di stampa hanno armato la mano che ha ucciso il commissario Calabresi. Camilla Cederna (bisognerà dire una volta che non merita neanche un centesimo della correttezza e della fama di cui ancora gode) disse che Calabresi aveva interrogato l’anarchico Pinelli «per 77 ore ininterrotte». Totalmente falso. «Lotta continua» e «l’Unità» si inventarono che Calabresi era un agente della Cia. Totalmente falso. Fu «Lotta continua» a scrivere: «Luigi Calabresi deve rispondere pubblicamente del suo delitto contro il proletariato. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara». E ancora: «Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati, ma è questo sicuramente un momento e una tappa fondamentale dell’assalto del proletariato allo stato assassino». E quando Calabresi sporse querela 44 redazioni di riviste politiche e culturali (tra cui alcune cattoliche) sottoscrissero un documento di solidarietà a «Lotta continua». Brambilla racconta l’orrore orwelliano del pensiero unico per cui i manifesti della gente per bene erano firmati da Eco e da Fo, da Scalfari e da Mieli. Manifesti in cui si scriveva: «Combattere un giorno con le armi in pugno contro lo stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento». E pensare che tanti di quelli che all’epoca firmarono oggi sono i padroni. L’orrore per il quale, nonostante tutte le evidenze, giornalisti come Bocca, Sechi (pensate un po’, ancora considerato un mito del giornalismo), Galli e mille altri ci hanno raccontato per anni che le Brigate rosse erano sedicenti, e che piuttosto era in corso una strategia della tensione sotto la regia della destra. L’orrore della signora Cederna (quanto continua a essere celebrata) che nel 1972 aveva il coraggio di scrivere sull’«Espresso»: «Ho capito da sola in questi anni come è scomodo essere in una minoranza specialmente quando si ha ragione». Poco più giù diceva che Feltrinelli era stato ucciso chissà da chi e non, come si seppe qualche anno dopo (ma tutti sapevano anche allora), per un incidente sul lavoro, piazzando un ordigno su quel traliccio. E la sua supposta minoranza era, piuttosto, la maggioranza degli intellettuali dell’epoca. Brambilla fa un lavoro grandioso: mette in fila questa galleria degli orrori, fa nomi e cognomi, cita date e giornali e mette in evidenza questo impasto di conformismo e di vigliacca omologazione. Merita un posto d’onore in questa nostra Biblioteca liberale, anche se non si tratta di un saggio economico, non affronta questioni filosofiche, ma meglio dei primi e dei secondi racconta il buio della ragione che ha contraddistinto i nostri intellettuali e la nostra cultura. Il fenomeno non era confinato certamente alla sola Italia. I paesi anglosassoni hanno però poi saputo combattere contro questo piatto e ormai canuto conformismo culturale. Oggi la cultura del dubbio, il punto di vista dell’individuo contro quello della massa, il privilegio del pensiero contro il gusto della moda restano merce rara. Negli anni settanta gli intellettuali, che bene descrive Brambilla, erano affascinati dalla rivoluzione e disgustati dalla cosiddetta maggioranza silenziosa. Avevano clamorosamente ingannato e oggi le giovani generazioni e quelle di mezzo pendono dalle labbra di questi vecchi tromboni che hanno sbagliato tutto e dai quali si attendono uno strapuntino o almeno un decente assegno consegnato a margine di uno dei tanti ridicoli premi giornalistici da strapaese che i vecchi arnesi controllano con efficacia.

Le Brigate Rosse e i quotidiani francesi dal caso Sossi alla tragedia Moro, scrive Eleonora Marzi.

Riassunto. Le Brigate Rosse sono state un fenomeno sociale e politico controverso che ha creato una frattura nella società italiana e nel mondo politico degli anni Settanta. Il presente articolo si propone di analizzare le pubblicazioni che il quotidiano Le Monde diede del fenomeno in due momenti cruciali: la nascita delle Brigate Rosse come soggetto mediatico con il rapimento del giudice Mario Sossi nel 1974, e il suo gesto più eclatante, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nel 1978. Così, attraverso un’analisi dei pezzi di giornalismo di quel periodo è possibile prefigurare lo scenario di comprensione e il messaggio che conseguentemente venne trasmesso al paese.

Indice

1. Il sequestro Sossi o «l’operazione girasole»

1.1 Il dato storico: il sequestro

1.2 Le particolarità del Caso Sossi e il percorso identificativo delle BR

2. I quotidiani e le Brigate Rosse: un nuovo e misterioso soggetto politico si affaccia sulla scena mediatica

2.1 Le Monde e gli «sconosciuti armati»

3. Il caso Moro o «l’operazione Fritz»: l’apice delle Brigate Rosse

3.1 Il dato storico: tra via Fani e via Caetani

3.2 L’analisi di Le Monde: chi sono le Brigate Rosse?

Testo integrale. Le Brigate Rosse sono state un fenomeno sociale e politico controverso che ha spaccato la società italiana e il mondo politico degli anni Settanta. Ancora oggi è un caso che continua a dividere il mondo degli studiosi, anche a causa delle discordanti testimonianze dei protagonisti: si tratta infatti di un soggetto scivoloso, la cui ricostruzione storica presenta numerose zone d’ombra. Uno dei principali ostacoli alla carenza di esattezza storica consiste nella mancata metabolizzazione del fenomeno da parte degli italiani. É perciò interessante fornire un punto di vista altro, esterno, alla cui prospettiva storica si unisce l’analisi testuale dei pezzi di giornalismo in un epoca nella quale i fatti quotidiani erano la principale fonte di informazione – internet non esisteva – e la neo-arrivata televisione si posizionava ancora in una zona di consumo di nicchia. Si è scelto dunque di analizzare, attraverso le pagine del quotidiano Le Monde, due momenti storici precisi, la nascita “mediatica” delle Brigate Rosse – resa possibile dal rapimento del magistrato Mario Sossi, e il loro atto più eclatante, il rapimento e l’uccisione dell’onorevole Aldo Moro. La metodologia impiegata per condurre questo lavoro unisce in un discorso che si vuole pluridisciplinare la storia e la cultura italiana ad una forma di critica giornalistica che si concentra sia sui contenuti che sulla loro presentazione formale. Prima di affrontare il discorso sulla comunicazione si rende necessario compiere un breve excursus al fine di presentare utili elementi storici per una migliore comprensione.

1. Il sequestro Sossi o «l’operazione girasole».

1.1 Il dato storico: il sequestro. Il 18 aprile 1974, il sostituto procuratore della Repubblica di Genova, il dottor Mario Sossi viene rapito da un commando armato, facente parte del gruppo di lotta marxista-leninista delle Brigate Rosse. La condizione per la liberazione del rapito è la scarcerazione e il successivo espatrio dei componenti della «XXII Ottobre», un gruppo di attivisti di sinistra i cui membri sono stati precedentemente condannati per diversi atti criminosi1. In realtà la tattica del sequestro si inscrive in una più ampia strategia volta ad indebolire lo Stato: le BR sono infatti convinte che in Italia vi siano le condizioni per una rivoluzione che però non si concretizzano per la mancanza di una guida rivoluzionaria e per il “tradimento” del Partito Comunista Italiano, oramai integrato nelle istituzioni. I brigatisti intendono perciò colpire con la lotta armata “l’ordine borghese”, così da mostrarne la debolezza, risvegliare la coscienza rivoluzionaria delle masse e porre le basi di una sollevazione. Le BR con il sequestro Sossi, anche detta «l’operazione girasole» decidono e attuano ciò che verrà descritto come «l’attacco al cuore dello Stato»; se precedentemente infatti si erano limitate ad azioni di propaganda “pacifica” con quest’azione compiono un passaggio ulteriore iniziando un percorso che sfocerà, come vedremo, nel drammatico epilogo del rapimento e della morte di Aldo Moro. Intendono dunque compiere un salto di qualità, adeguandosi al corso degli eventi che, a loro giudizio, costringe ad alzare il tiro rispetto alla precedente fase della propaganda armata. Da un opuscolo interno al movimento risalente al 1974 si legge: […] Perché se è vero che la crisi di regime e la nascita di una controrivoluzione agguerrita e organizzata sono il prodotto di anni di dure lotte operaie e popolari, è ancora più vero che per vincere il movimento di massa deve oggi superare la fase spontanea e organizzarsi sul terreno strategico della lotta contro il potere. E la Classe Operaia si conquisterà il potere solo con la lotta armata. Il procuratore Mario Sossi sarà detenuto per la durata di 35 giorni. Lungo questo arco di tempo l’opinione pubblica e le istituzioni, si divideranno su due linee contrapposte: l’una di intransigenza, la «linea della fermezza» (incarnata dal governo, dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista Italiano) l’altra d’apertura alla trattativa da parte di associazioni come «magistratura democratica». Le trattative per la scarcerazione sembrano concretizzarsi, ma il procuratore della Repubblica Francesco Coco si oppone al provvedimento; sebbene le richieste non vengano esaudite le BR rilasciano comunque Sossi in buone condizioni di salute. Il loro scopo, ovvero mostrare come lo Stato non sia in grado di proteggere i cittadini, è stato raggiunto. Hanno rapito e detenuto per 35 giorni un sostituto procuratore della repubblica, lo hanno interrogato, ed hanno confermato la loro analisi dello e sullo stato “borghese-canaglia”: nutrito da politiche farraginose, dedito alla pratica del sotterfugio e succube del capitalismo. Inoltre l’opinione pubblica, tacitamente e velatamente, le percepisce come un gruppo criminale “cavalleresco” per aver rilasciato il detenuto nonostante il mancato accordo.

1.2 Le particolarità del Caso Sossi e il percorso identificativo delle BR. L’importanza del caso Sossi, nella logica delle BR, è specialmente di natura propagandistica. Innanzitutto le BR si presentano all’opinione pubblica in modo organizzato, introducono il proprio programma, la propria ideologia e iniziano massicciamente quell’azione di chiamata alla lotta armata indirizzata alla classe proletaria. I terroristi sanno perfettamente che la loro richiesta è troppo alta per essere soddisfatta. Ciò che davvero gli interessa è la presentazione di loro stessi al paese, l’accertamento della veridicità delle loro tesi riguardo il tessuto politico, la risposta sociale alle loro azioni e la verifica della strategia mediatica che rappresenterà un punto cardine dei loro futuri attacchi. Il mezzo del “comunicato”, che troverà larghissimo impiego durante il sequestro Moro, inizia qui il suo percorso come strumento informativo e propagandistico per eccellenza, in grado di unire con un comune filo la stampa, il potere istituzionale e l’opinione pubblica in un gioco di specchi estremamente complesso. Il governo, il popolo e la comunicazione: il triangolo perfetto lungo il quale le BR giocheranno la loro partita al fine di istaurare ciò che definiscono lo «Stato proletario».

2. I quotidiani e le Brigate Rosse: un nuovo e misterioso soggetto politico si affaccia sulla scena mediatica. 8Come per un meccanismo di specchi riflessi, all’esordio delle BR sulla scena mediatica, lo sforzo maggiore dei quotidiani è diretto ad inquadrare e comprendere questo “nuovo” soggetto. Il tempo impiegato dai giornali a focalizzare il fenomeno, a definirne le dimensioni e a comprenderne le conseguenze fu determinante per il tipo di informazione che venne veicolata. Sulla scena nazionale ed internazionale si affaccia un nuovo protagonista: presenta tratti clandestini, usa le armi per portare a termine azioni criminali a fini politici e informa delle proprie rivendicazioni e dei propri programmi ideologici sia la classe governativa che l’opinione pubblica utilizzando dei “comunicati”. Non si tratta dunque di comuni malavitosi, ma di un gruppo che ha fini e scopi ben precisi che per i contemporanei risulta estremamente difficile chiarire. Al momento della loro comparsa sulle pagine dei quotidiani riguardo le BR si ipotizza tutto l’ipotizzabile. Il nome del gruppo armato è sistematicamente riportato tra virgolette, ad indicare un dubbio generico rispetto le reali origini e le motivazioni che muovono i combattenti. Ed è proprio questo clima di smarrimento a dare adito alle più fantasiose ipotesi con interrogativi che sui giornali francesi si accavallano in merito al colore politico dell’organizzazione, alla composizione e alla strutturazione del gruppo stesso. Come si vedrà nel corso dell’articolo il tema della reale identità delle Brigate Rosse sarà ampiamente indagato dai quotidiani, rappresentando in questo modo uno dei fulcri d’interesse del discorso mediatico e inoltre il punto d’incontro delle differenti interpretazioni provenienti dai vari Stati d’Europa.

2.1 Le Monde e gli «sconosciuti armati». Le Monde informa del sequestro Sossi nell’edizione del 20 aprile con un pezzo di Jacques Nobécourt in terzo taglio dal titolo: «Il sostituto procuratore di Genova è stato rapito da sconosciuti armati». La notizia è pubblicata due giorni dopo del fatto, elemento normale in epoca non ancora digitale, sebbene dia anche la misura di una attenzione di grado medio verso la notizia. É significativo come essi vengano definiti come degli “sconosciuti” anche se l’articolo si interroga sulla natura dell’organizzazione, pur non inoltrandosi in supposizioni caotiche; si limita a riportare il fatto certo. Nell’introduzione del pezzo la notizia è riportata con stupore: L’evento più spettacolare è il rapimento a Genova, giovedì alle nove, del sostituto procuratore della Repubblica, Mario Sossi, un uomo di quarant’anni che è uno dei giovani magistrati italiani più controversi degli ultimi anni. Il cronista, proseguendo il racconto del sequestro, riferisce: Mario Sossi rientrava a casa in autobus e davanti il suo domicilio alcuni uomini tra i venticinque e i trent’anni, secondo i testimoni, vestiti elegantemente e senza alcuna maschera, lo hanno costretto, minacciandolo con un’arma, a salire su un furgone. Il particolare dell’aspetto dei rapitori, eleganti e a viso aperto, deve aver colpito gli osservatori dell’epoca, ed è un elemento che colora di mistero l’identità del gruppo. Le Monde mostra cautela quando nell’individuazione del gruppo terrorista modifica lo status di «sconosciuti» precedentemente attribuito alle BR: «In alcuni comunicati trovati in una cabina telefonica, le “brigate rosse” rivendicano la responsabilità dell’operazione». L’atteggiamento è cauto, ben riscontrabile attraverso l’utilizzo delle virgolette che mantengono il soggetto terrorista in un campo di indefinitezza. Tuttavia il comunicato viene preso in considerazione, seppure non assunto a prova di certezza: Il ritrovamento dei comunicati non prova assolutamente che le «brigate rosse» esistano realmente, né che si tratti di un’organizzazione di estrema sinistra. Tuttavia, la personalità del magistrato tende a far credere che l’operazione è stata condotta da estremisti di sinistra. L’atteggiamento cauto porta Le Monde a non assumere posizioni nette in mancanza di dettagli. Gli unici elementi che potrebbero concorrere all’individuazione dell’identità sono di natura storica: Lo stesso modus operandi era stato utilizzato in dicembre in occasione del rapimento di uno dei capi del personale della Fiat a Torino. Questi era stato rilasciato dopo qualche giorno e i suoi rapitori, che si dichiaravano ugualmente appartenenti alle «brigate rosse», facevano apparentemente parte di un gruppo isolato, senza alcun legame con altre organizzazioni politiche. Le Monde si posiziona su una linea corretta nel non attribuire legami con altre organizzazioni politiche: in termini generali, alla data del rapimento, ogni interrogativo è aperto, l’orientamento politico del gruppo armato resta non definito così come la loro ideologia, e gli scopi che si prefiggono attraverso le loro azioni. Nel corso del sequestro l’attenzione del quotidiano sarà fortemente polarizzata sul comportamento tenuto dalla magistratura e sugli effetti che il ricatto delle Brigate rosse ha sulle relazioni tra questa e il governo. Il tema dell’identità delle BR non viene affrontato nella sua totalità, contentandosi di qualche definizione qua e là e più spesso di citazioni provenienti dalla stampa italiana. É questo il caso dell’edizione del 25 aprile, quando a seguito di un messaggio dell’ostaggio, viene sospesa dalla procura di Genova l’indagine su quest’ultimo. Il quotidiano riporta la reazione de La Stampa: La Stampa esprime un sentimento generalmente diffuso affermando che «il blocco dell’inchiesta non può non apparire come un gesto di abdicazione dello Stato». […] Ciò suscita sgomento, provoca un sentimento di sfiducia nei confronti del potere e della capacità di resistenza delle istituzioni davanti a tali fenomeni. Era permesso ai magistrati genovesi, direttamente implicati, di inclinarsi davanti alla sfida terrorista?. Il quotidiano si ferma alla definizione di “sfida terrorista” ma i moventi e le ideologie che vi si celano restano ignoti, come viene sottolineato in seguito: «Gli inquirenti sembrano convinti che il giudice sia detenuto a Genova, ma la natura delle “brigate rosse” resta misteriosa». Nell’articolo del 22 maggio «La sorte del giudice Mario Sossi non è stata svelata dai suoi rapitori» è riportato il punto di vista de l’Unità «L’Unità, organo del P.C.I. denuncia il fallimento di tutte le inchieste fatte per «smascherare e punire» le Brigate rosse e richiede che la «democrazia italiana si difenda da tutti gli attacchi e, in primo luogo, contro dei tali gesti criminali». Le linee utilizzate per definire i brigatisti si orientano intorno ad una definizione di criminalità, a volte di terrorismo, ma senza alcun riferimento al quadro ideologico che muove le loro azioni. Sulle reazioni provocate all’interno del potere giudiziario di cui tratta l’articolo del 14 maggio «Il caso Sossi accentua i dissensi all’interno della magistratura» il quotidiano tuttavia definisce una caratteristica brigatista quando scrive: […] si tratta della credibilità de la magistratura, e in particolar modo del ministero pubblico. Su questo punto, le Brigate rosse – qualunque sia il loro orientamento politico – hanno ottenuto una vittoria portando Mario Sossi, nelle sue lettere successive, a rinnegare il rigore delle sue proprie requisitorie e gettando dunque il dubbio su ciò che ispirava la sua interpretazione della legge. Si noti come l’orientamento politico delle Brigate Rosse resti incerto e come ingenerale si proceda a stenti e per piccoli passi alla definizione della loro identità. Un momento di sblocco può considerarsi postumo alla liberazione di Sossi in cui Le Monde giunge alle seguenti conclusioni: «Sossi è in buona salute; è dimagrito di cinque chili, ma la sua detenzione sembra essersi svolta in discrete condizioni. Poteva leggere i giornali e non ha mai avuto la sensazione che la sua vita potesse essere in pericolo». Si tratta di criminali cortesi, elemento ugualmente rintracciabile quando in cronista riporta le condizioni della liberazione del giudice: […] dopo aver fatto un viaggio in un furgoncino ed essersi svegliato dopo un lungo sonno provocato da una bevanda che gli era stata somministrata, Sossi si trovava in un luogo sconosciuto. Degli occhiali da sole nascondevano i suoi occhi bendati e aveva su di se un biglietto di prima classe per il tragitto Milano-Genova. […] Senza difficoltà il magistrato ha preso un taxi, si è recato alla stazione, è salito su treno ed è rientrato nella propria città. Il quotidiano scrive che i suoi rapitori hanno provveduto a fornirgli un biglietto di prima classe per il treno che gli avrebbe permesso di rientrare a casa: non si tratta di riflessioni esplicite, ma esse lasciano comunque trasparire un atteggiamento di stupore riguardo la condotta cavalleresca delle Brigate Rosse. Si consideri a questo proposito che le richieste del gruppo armato non erano state soddisfatte, o almeno lo erano state per una minima parte. É seguendo questo ragionamento che Le Monde si pone un interrogativo che trascende la mera cronaca: Per quale ragione le Brigate Rosse lo hanno liberato? Negli ultimi giorni, la situazione era sfociata in un’impasse totale, e ugualmente l’esecuzione del magistrato avrebbe avuto come solo effetto quello di provocare una reazione molto forte, che i rapitori certamente non si augurano. Si noti come vi sia la certezza che essi non siano sanguinari né crudeli. Le Monde prosegue nella sua ricerca: Durante la notte, l’ottavo comunicato delle Brigate rosse è stato trasmesso al Corriere della Sera per spiegare le ragioni della liberazione di Mario Sossi. La prima riguarda la decisione della corte d’appello di Genova che ha deciso di accordare la libertà provvisoria all’ottavo condannato del processo del 22 ottobre. La seconda motivazione apportata dalle Brigate rosse riguarda la volontà di «combattere fino alla fine». La conclusione del comunicato è la seguente: «Il significato strategico della nostra scelta è più chiaro che mai: la classe operaria prende il potere unicamente attraverso la lotta armata». Le Monde – a differenza di altri quotidiani, come ad esempio Le Figaro – non riporta la totalità del comunicato ma si limita a pubblicare singole frasi direttamente provenienti dal documento brigatista, commentando e deducendo. Lo scopo dei brigatisti, secondo Le Monde, è la strategia di lotta armata per il proletariato. Si tratta comunque di una consapevolezza ancora embrionale, con le zone d’ombra che prevalgono sulle conoscenze acquisite. Il ritratto dei terroristi è dunque qualcosa che resta nel vago, si comprende che la loro matrice è politica, si immagina un’appartenenza allo schieramento di sinistra ma molti sono i punti che rimangono in sospeso. In generale l’informazione è ben coperta con una presenza di 35 articoli su venti giorni; non vi sono mai prime pagine e gli articoli vengono presentati interamente nella sezione della cronaca internazionale. Questo elemento relativo alla posizione della notizia – che in analisi giornalistica risulta particolarmente indicativo dell’importanza che essa ha per l’opinione pubblica – sembra abbastanza naturale trattandosi effettivamente di cronaca estera: essa cambierà radicalmente durante il caso Moro – 55 giorni di detenzione – durante il quale la prima pagina sarà appannaggio della cronaca italiana. Siamo nel 1974, le BR si affacciano sul panorama politico italiano, gruppo terroristico che in quanto tale si serve della comunicazione in modo massiccio e importante. L’estremo della loro attività culminerà quattro anni dopo, nel 1978, allorché l’inasprirsi della lotta politica e sociale e più in generale un cambiamento del livello di tensione nella lotta armata porterà il gruppo a compiere un atto estremo: il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, l’allora presidente della Democrazia Cristiana. Anche in questo caso sarà necessario partire dal dato storico al fine di comprendere al meglio il trattamento che la stampa diede del caso.

3. Il caso Moro o «l’operazione Fritz»: l’apice delle Brigate Rosse.

3.1 Il dato storico: tra via Fani e via Caetani. La mattina del 16 marzo 1978 l’onorevole Aldo Moro, presidente del consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, si sta recando in Parlamento per assistere al voto di fiducia del IV governo Andreotti, formatosi l’11 marzo 1978. L’esecutivo – risultato di una tela tessuta congiuntamente da Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, segretario nazionale del Partito Comunista Italiano – è la sublime espressione delle convergenze parallele, e consiste in un governo monocolore con l’appoggio esterno dei comunisti, oltre che dei socialisti, dei repubblicani e dei socialdemocratici, entrato nella storia della Repubblica come compromesso storico25. Il ragionamento che porta alla necessità di creare un governo di solidarietà nazionale deriva dall’analisi dello stato di salute della società italiana, solcata dal disagio economico e dalla recrudescenza sociale. Quella stessa mattina del 16 marzo tra le 9.00 e le 9.15 in via Mario Fani a Roma un commando delle Brigate Rosse rapisce l’onorevole Aldo Moro e a colpi di mitragliatrice fa strage della sua scorta, composta da cinque uomini; l’azione è rapida e precisa, l’ostaggio non viene ferito ma caricato di una FIAT 125 e fatto sparire nel nulla. Ha inizio ciò che i terroristi preparavano da mesi: l’operazione Fritz. Il paese è sotto shock e la mobilitazione militare immediata con il dispiegamento di 6000 uomini delle forze dell’ordine lanciate in una massiccia caccia all’uomo. Perché le BR compiono un tale gesto? Moro appare ai loro occhi uno dei massimi responsabili delle ingiustizie e dei crimini commessi da quello che chiamano lo Stato Imperialista delle multinazionali, in qualità di protagonista della politica italiana da circa un ventennio. Per accertare le sue colpe nei confronti della classe proletaria, come capo e come rappresentante della DC, lo rinchiuderanno in una “prigione del popolo” sottoponendolo ad un processo ad opera del “tribunale del popolo”. Attraverso un’approfondita analisi dei loro documenti si possono rintracciare due tipologie di conseguenze che essi auspicavano; la prima era di natura strategica e in linea con l’attività propugnata fino a quel momento: la destabilizzazione dello Stato. La seconda era di natura ideologica: essi volevano ricevere lo status di interlocutori, anche se loro malgrado. Dichiara Moretti: Avremmo liberato Moro e si sarebbero spostati gli equilibri politici: chi, Pci o altri, avesse preso atto della nostra esistenza, avrebbe tentato un nostro recupero, un rientro, avrebbe fatto politica e rafforzato la sua contrattualità. Per avere un quadro generale del caso Moro occorre inoltre analizzare brevemente quali furono le posizioni incarnate ufficialmente dalle istituzioni. Fin dal principio infatti erano emersi due fronti: quello della fermezza, che niente avrebbe concesso ai terroristi, di cui facevano parte il PCI e la Democrazia Cristiana, e quello della trattativa, disposto a scendere a compromessi per il costo di una vita umana che comprendeva il Partito Socialista Italiano e il Vaticano. Ma quali furono le reazioni del fulcro di tale vicenda, del prigioniero Moro? Egli scrisse una grande quantità di materiale tra cui lettere, testamenti, promemoria e biglietti. Redasse 87 lettere, 27 furono recapitate di cui 16 destinate ad alte personalità politiche ed istituzionali. In questi scritti – mappatura della distribuzione del potere all’epoca – si trova tutto il tentativo di Moro di portare il suo partito ed il paese verso il fronte della trattativa. Salvarsi così la vita, «impedendo non in ultima analisi una frattura irreparabile nell’ethos della democrazia italiana». Purtroppo queste dichiarazioni scatenarono delle reazioni degli uomini di partito, i quali negarono alle parole di Moro prigioniero ogni validità etica e morale, ipotizzando uno stato psichico non attendibile. Le Brigate Rosse comunicano con l’esterno attraverso dei comunicati nei quali informano dello stato di salute di Moro e delle loro richieste. Il ritmo dei comunicati cadenza tutto il sequestro; si è arrivati al n° 6 quando il 15 aprile giunge una risoluzione che appare irremovibile «Aldo Moro è colpevole e viene perciò condannato a morte». Il subbuglio negli ambienti politici è massimo, l’opinione pubblica è sconcertata; il quotidiano italiano Il Messaggero riceve una telefonata che annuncia il luogo per il ritrovamento del comunicato n° 7. Secondo quest’ultimo, Moro sarebbe stato ucciso e il suo cadavere si troverebbe nei fondali del lago Duchessa, nella regione limitrofa a Roma. Vengono dispiegate migliaia di forze dell’ordine e sommozzatori ma dopo ore di ricerche del cadavere non v’è nessuna traccia. Si tratta di un comunicato falso, opera del magistrato Claudio Vitalone, scritto al fine di informare i terroristi che i servizi segreti erano in grado non solo di controllare le loro mosse, ma anche di occupare e manipolare i loro stessi canali mediatici. Il 20 aprile le BR fanno pervenire alla redazione di La Repubblica il vero comunicato n° 7 a cui è allegata una foto di Moro con in mano il quotidiano, ad indicare che egli è vivo, e all’interno del quale i brigatisti esplicitano il vero oggetto per salvare la vita di Moro: i tredici brigatisti detenuti e sotto processo nel tribunale di Torino. Va aggiunto al dato storico che contemporaneamente al periodo di detenzione dell’onorevole Moro, si sta svolgendo a Torino il processo contro i capi storici delle BR, tra cui vi sono Renato Curcio e Alberto Franceschini. I fili che da qui si dipanano sono incrociati, perché i brigatisti incarcerati rivendicano la responsabilità del rapimento Moro, creando notevoli problemi giuridici, e simmetricamente nella seconda parte del sequestro la richiesta dei brigatisti in libertà sarà di scarcerare quelli in prigione. La risposta ufficiale del governo è del 28 aprile, quando Andreotti in televisione comunica con fermezza il rifiuto delle istituzioni democratiche alla trattativa con i terroristi. Nonostante un ultimo appello della famiglia Moro il Governo mantiene la propria linea. Arriva il 5 maggio l’ultimo comunicato n° 9 dove si legge «Concludiamo […] la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato». Il 9 maggio 1978 sarà un giorno che cambierà per sempre il corso della storia italiana: in via Mario Caetani, a Roma vicino alle sedi della DC in Piazza del Gesù e del PCI in via delle Botteghe Oscure, viene ritrovato il cadavere dell’onorevole Aldo Moro, crivellato da undici colpi di mitragliatore nel bagagliaio di una Renault 4 rossa. Il paese sprofonda all’istante in uno stato di shock, le reazioni internazionali irradiano stupore misto ad orrore. La democrazia italiana non ha ceduto ai terroristi, ma lo ha fatto sacrificando la vita di un uomo30. Si svolgono dunque il 10 maggio i funerali privati a Torrita Tiberina; tre giorni più tardi piazza di San Giovanni in Laterano sarà invasa da una folla di comuni cittadini e presieduta da tutti gli uomini di potere per il rito funebre di Aldo Moro, senza salma e senza la presenza della famiglia.

3.2 L’analisi di Le Monde: chi sono le Brigate Rosse? La distribuzione della notizia sulle pagine di Le Monde risulta di primo impatto: su 55 giorni di sequestro 45 sono coperti dalla notizia sull’Italia, di cui 17 prime pagine. Rispetto alla copertura del caso Sossi la percentuale aumenta notevolmente, indice questo di un maggiore interesse verso la vicenda ma anche di una diversa portata del suo significato, non perché diverso il valore della vita dell’uomo in questione, ma perché con Moro entrano in gioco una serie di elementi che investono la totalità delle istituzioni del Paese e inoltre l’identità delle BR è, ad oggi, abbastanza chiara da poter far temere il peggio. La notizia del rapimento di Moro viene data in prima pagina, come articolo di testa in primo taglio. Le Monde rispetto ad altri quotidiani è piuttosto avaro di immagini; Le Figaro e Libération ad esempio pubblicheranno la foto che fece il giro dei quotidiani di tutto il mondo, quella del cadavere di Moro crivellato di colpi nel bagagliaio della Renault 4 in Via Fani mentre Le Monde si “limiterà” in questo caso a pubblicare un pezzo di solo testo, occupando però la quasi-totalità della prima pagina dell’edizione del 10 maggio 1978. Durante tutto il sequestro Moro, dal 16 marzo al 9 maggio 1978, le Brigate rosse stabilirono un contatto con il mondo attraverso i comunicati. In questo tipo di azioni il mezzo risulta fondamentale: il terrorismo si alimenta del rimbalzo dell’informazione spesso trattata in modo iperbolico e finzionale. Negli anni Settanta, in un’epoca non ancora multimediale, lo strumento cartaceo assume tutta la sua importanza e il mezzo attraverso il quale esso viene diffuso – la redazione giornalistica – si trova nell’occhio del ciclone della nostra analisi. I comunicati delle Brigate rosse seguivano un preciso iter: venivano nascosti dai “postini” Valerio Morucci e Adriana Faranda in luoghi pubblici, come cabine del telefono o cassonetti dell’immondizia, successivamente una telefonata informava uno o più redazioni di quotidiani sul luogo del ritrovamento. I comunicati, che spesso allegavano le lettere dello stesso Moro, in sostanza informavano governo e opinione pubblica sul corso del processo da parte del tribunale del popolo a cui il prigioniero era sottoposto e illustravano attraverso le analisi brigatiste quali fossero gli obiettivi che le stesse si propugnavano nell’ambito del loro progetto rivoluzionario. Il ritmo dei comunicati cadenza tutto il sequestro e di conseguenza tutta la produzione giornalistica che ad ogni ritrovamento, oltre a darne il fatto di cronaca forniva anche una serie di approfondimenti e riflessioni sulla vicenda e sui suoi protagonisti. Per seguire la linea che avevamo tracciato all’inizio dell’articolo ci concentreremo sulla questione dell’identità delle BR, elemento che, accanto ovviamente alla cronaca dei fatti, richiama l’attenzione ei giornalisti e degli osservatori. Due sono i fattori che concorrono alla discussione sulla loro identità quale si possono rintracciare le sfumature sfogliando le pagine dei quotidiani. Uno è il lungo calvario dei 55 giorni di sequestro che porta ad un progressivo aumento della percezione della crudeltà dei brigatisti, il secondo è l’apparente sdoppiamento dei terroristi presenti come carcerieri di Moro e contemporaneamente come “incarcerati” a Torino durante il processo al loro «primo gruppo». Questo apparente sdoppiamento dei terroristi crea una sorta di illusione ottica che spinge ad interrogarsi tra l’eventualità dell’esistenza di diverse brigate rosse o piuttosto un’evoluzione in corso all’interno dei quadri del movimento terrorista. Nel 1978 la stampa francese ha le idee abbastanza chiare su chi siano i brigatisti. Si conoscono il loro orientamento politico, la loro modalità d’azione, si conoscono i loro fini e scopi. Ma con il rapimento Moro, le BR realizzano un’azione spettacolare, di cui nessuno le avrebbe mai ritenute capaci. Vi sono dunque dei nuovi elementi che la stampa, l’opinione pubblica e la classe politica non hanno l’abitudine ad affiancare alle BR: ad esempio la scoperta di un’impressionante competenza nelle armi, elemento risultato dalla perfezione criminale dell’attentato, che farà nascere l’ipotesi di trovarsi di fronte a dei killer professionisti. Immediatamente Le Monde mostra un’approfondita conoscenza delle Brigate Rosse. All’indomani del rapimento di Moro, il quotidiano dà alle stampe un articolo monografico sulle BR altamente informativo: vi sono riferimenti ai processi in corso e l’individuazione di Curcio come capo dell’organizzazione è immediata. Le BR sono « un mouvement d’extrême gauche, partisan de l’action violente »31. Esse sono precisamente inquadrate e rapidamente viene compresa la loro pericolosità, più velocemente rispetto ad altri quotidiani, come ad esempio Le Figaro o Libération. Dalla penna di Robert Solé, alla data del 1 aprile scaturisce un’efficacie riassunto della situazione in Italia: Gli italiani sono alle prese con un nemico imprendibile in tutti i sensi. È riuscito a scappare alla più formidabile caccia all’uomo che questo paese – così poco poliziesco – ha mai conosciuto dopo la fine della guerra. D’altra parte, i suoi reali obiettivi sfuggono a tutti colo che vi riflettono con attenzione. Le brigate rosse sono, effettivamente, completamente scollegate dalla realtà. Esse invocano un «popolo» che le ignora, si identificano con un «proletariato» che le rigetta. Ma si mostrano anche estremamente efficaci sia nella strategia delle armi che in quella della tensione…una «follia lucida» si dice a Roma. Il riconoscimento della pericolosità delle BR è un tema al quale Le Monde dedica parecchio spazio, ovviamente specificando che ammettere la loro forza non significa né legittimarle tantomeno assolverle. Se Le Figaro ha in un primo momento definito la loro sceneggiatura come «banale», Le Monde non sottovaluta mai il loro potere, fino ad interrogarsi se esse siano «Les maîtres du jeu»: Nelle incertezze e nella confusione italiana si impone un dato evidente: le Brigate rosse stanno riuscendo, ben oltre le loro aspettative, nella loro impresa. Di fronte allo Stato, questo «contro-Stato selvaggio» di qualche fuorilegge ha raggiunto i propri obiettivi. Il suo nemico si discredita e si sgretola ogni giorno di più. Il dibattito di ordine «umanitario» per salvare la vita di Aldo Moro […] è in fondo un notevole successo del terrorismo. I ritratti delle BR forniti da Solé e Franceschini con i loro articoli hanno la precisione e l’esattezza di una biografia storica. Viene ripercorsa più volte nei particolari la storia del gruppo terrorista, si informa sul loro scopo iniziale di «costruire un’avanguardia proletaria armata per favorire il potere rivoluzionario delle classi oppresse che lottano contro il sistema»34. Indicativo è il titolo dell’articolo: «Delle brigate d’un rosso sospetto». I particolari seguono, viene ripercorsa la loro “carriera” riportando la svolta del ’74 con il relativo rapimento del giudice Sossi e la scalata verso l’attacco al cuore dello Stato. Rispetto ad altri quotidiani Le Monde cerca di scendere in profondità lasciandosi prendere dalla tesi, molto inflazionata in quel periodo, di una possibile influenza sul gruppo terroristico delle azioni di CIA o del KGB; nell’articolo dall’indicativo titolo «Manipolati? E da chi?» Le Monde porta un’ipotesi, palesa un’esitazione alla quale Solé adduce due argomentazioni: esse compiono delle azioni per la cui riuscita si necessita di precise informazioni, e spesso le loro azioni sortiscono l’effetto contrario a quello desiderato. Le BR mostrano certo le contraddizioni del regime ma «[…] le masse non seguono affatto la loro “avanguardia”». Le Monde prosegue: Molti uomini politici ne deducono che queste Brigate di un rosso sospetto sono contemporaneamente supportate e manipolate. E aggiungono: da servizi segreti stranieri […] Nelle conversazioni, oltre all’inevitabile CIA, si citano volentieri alcuni paesi dell’Est, come la Cecoslovacchia...Si tratta di un dubbio legittimo che Le Monde lascia in sospeso, siglando l’articolo con un sibillino «[…] resta ancora da provarlo». L’analisi scende nel particolare delle reazioni dell’opinione pubblica, dove, il ricorso alla violenza riduce gli spazi di simpatia diffusi soprattutto negli ambienti di estrema sinistra. Il quotidiano scrive: Invece di minare l’ultra-revisionismo di Berlinguer, le loro azioni spingono senza sosta il partito comunista verso il potere. Le istituzioni sono senza dubbio screditate, appaiono certamente alcune contraddizioni dello Stato, ma le masse non seguono affatto la loro [delle Brigate Rosse] «avanguardia»: al contrario si mobilitano contro la violenza […]. Le Brigate Rosse sperano forse di attaccare il forte potere di Roma provocando delle reazioni a catena fino al sollevamento popolare? Nulla di tutto ciò si è ancora verificato […] ogni volta che un corpo è crivellato da pallottole, i terroristi si allontanano un po’ di più dalla popolazione. Le Monde coglie il moto di base della reazione dell’opinione pubblica, che a prescindere dall’oggetto della contestazione reagisce togliendo supporto alla causa perché perpetrata con la violenza. Il 24 marzo l’ex sindaco della città di Torino, democristiano, Domenico Piantone subisce un attentato. L’evento conduce Le Monde verso un disarmante interrogativo: «Esistono diverse Brigate rosse?». La vittima viene ferita, non si comprende se lo scopo degli attentatori è stato raggiunto o se essi avrebbero voluto ucciderlo. Ciò porta Robert Solé a scrivere: «Questa nuova sparatoria pone varie questioni. Si tratta di un ritorno alla strategia precedente che puntava delle personalità d’importanza secondaria e consisteva, una volta su due, a intimidire senza uccidere?». Secondo i responsabili della DC, il fine degli attentatori era però quello di uccidere. Le Monde conclude dunque: Sono dunque di un tutt’altro livello «tecnico» rispetto a chi ha massacrato la scorta armata di Aldo Moro senza ferire, apparentemente, il presidente della DC. Anche se i due attentati rientrano all’interno della medesima strategia della «guerra civile anti-imperialista», nella quale si arrivare a domandarsi se non esistano diverse «Brigate rosse». La rabbia con la quale i dirigenti «storici» dell’organizzazione, sotto processo a Torino, rivendicano ogni attentato, la loro caparbia nel dimostrare ad ogni costo l’unità delle Brigate rosse, sono sospette. L’interrogativo che si pone Le Monde è analogo a quello di Le Figaro, le spiegazioni offerte però, differiscono. Per Le Monde l’ipotesi di una doppia esistenza potrebbe essere legata ad una differente competenza e padronanza della tattica criminale, da un lato killer professionisti che polverizzano una scorta, dall’altro goffi tiratori che gambizzano piuttosto che uccidere. Giungiamo all’epilogo del sequestro e Le Monde annuncia la notizia contenendo il suo stupore e spiazzamento rispetto all’atroce gesto compiuto dalle BR. Questo è ovviamente condannato, ma avendo il quotidiano inquadrato con più precisione la pericolosità dell’argomentazione non mostra eccessivo stupore davanti il crimine. Le Monde a mezzo di un editoriale del direttore Jacques Fauvet dal titolo particolarmente emblematico «Illegittima demenza »44 si indigna addirittura verso coloro che sono stati presi alla sprovvista dal crimine. «L’assassinio di Aldo Moro ha sorpreso soltanto gli ingenui e gli ottimisti impenitenti: l’Italia non ha vissuto per cinquantaquattro giorni un qualunque scherzo di studenti, ma un dramma sanguinario proveniente dal fanatismo più assoluto »45. Il direttore del giornale sottolinea l’evidenza dell’agguato di via Fani, che a suo avviso avrebbe mostrato sufficientemente la pericolosità del gruppo armato. L’epilogo del caso non deve far dimenticare che i commandos delle Brigate rosse avevano ucciso a sangue freddo le cinque guardie del corpo del presidente della Democrazia Cristiana per impossessarsi dell’ostaggio: fin dall’inizio avevano palesato il loro istinto di morte: lo hanno confermato anche durante la detenzione di Aldo Moro aggiungendo altre vittime al loro sinistro quadro di caccia. La loro crudeltà era dunque qualcosa di chiaro fin dall’inizio. Quando Fauvet parla nel suo articolo di illegittima demenza si riferisce ad uno stato che, seppure fuori dalle forme di pensiero delle persone “usuali”, non può essere scusato neanche attraverso la disperazione. Si riferisce alla diabolica sceneggiatura montata dalle BR che mostra «[...] non il prodotto dell’immaginazione di qualche giovane perduto, deluso, alla ricerca di un ideale, ma delle menti profondamente perversi, dei maniaci della politica allo stato peggiore »47. Anche Le Monde, rintraccia i segni di una logica altra, una logica sanguinaria. In un articolo di Robert Escarpit, egli individua il loro modus operandi ispirato in «Un culto perverso della personalità »48. Il cronista motiva: «Rapendo, torturando, massacrando degli individui o giocandoci come degli ostaggi, hanno rivelato la loro vera natura nella misura in cui pensavano influenzare in questo modo il destino dei popoli». Le Monde cerca di scendere nei meandri della buia e oscura logica che spinge i terroristi a compiere crimini efferati, e se durante il caso Moro, articoli sullo stesso tema presentavano un tono meno drammatico, ora a disastro avvenuto prendono tinte più fosche, più accese. L’importante, per Le Monde è scongiurare quella tendenza a considerare i brigatisti come degli ingenui, degli insoddisfatti, dei disperati: questo atteggiamento equivarrebbe a sottovalutare la loro vera forza, ossia non solo quella di essere gente senza scrupoli, ma di avere un piano ben preciso e soprattutto motivato anche se la legittimazione gli viene da loro stessi. Escarpit prosegue nella sua analisi: «Tutte le azioni, anche le più orribili, mostrano una profonda coerenza che esclude le improvvisazioni del cieco fanatismo». Giunge per Le Monde la condanna circa gli effetti nulli della campagna delle Brigate Rosse. Con il loro operato, afferma Escarpit, esse non giungeranno ai cambiamenti da loro auspicati: «[…] nessuno è indispensabile, e qualunque sia l’importanza politica della loro vittima, questi assassini che non rischiano neanche la pena di morte vogliono ignorare ciò che ogni terrorista sa: quando un uomo cade, un altro uomo esce dall’ombra e lo rimpiazza».

Per citare l'articolo. Eleonora Marzi, «Le Brigate Rosse e i quotidiani francesi dal caso Sossi alla tragedia Moro», 3/05/2017, su “Revues.univ-tlse2.fr”.

EX TERRORISTI: DOVE SONO E COSA FANNO. 

A casa di Alessio Casimirri, il latitante più ricercato d'Italia, scrive il 27 gennaio 2019 la redazione di Le Iene. Dopo Alvaro Lojacono, Gaetano Pecoraro va sulle tracce di Alessio Casimirri, il ricercato numero uno della lista dei trenta terroristi latitanti, e parte per il Nicaragua. Dopo l’arresto di Cesare Battisti, Matteo Salvini ha promesso di andare a prendere i terroristi oggi latitanti. Sarebbero trenta, e noi abbiamo incontrato la scorsa settimana il ricercato numero due, Alvaro Lojacono, oggi latitante in Svizzera. E’ stato lui stesso a dirci che il primo della lista dei ricercati è Alessio Casimirri, che si trova oggi in Nicaragua, a Managua. Brigatista, partecipa nel sequestro di Aldo Moro, è latitante dal 1982, e non ha scontato neanche un giorno di carcere, nonostante la condanna a sei ergastoli. E’ diventato cittadino del Nicaragua, paese che si è rifiutato di estradarlo. Oggi, a 67 anni, gestisce un ristorante a Managua, e i camerieri sarebbero ex sandinisti armati. Gaetano Pecoraro prova a incontrarlo, e va a mangiare nel suo ristorante. E per raccogliere informazioni va a parlare con l’ex moglie e con l’unico giornalista che è riuscito mai a incontrarlo.

Lojacono: l'intervista esclusiva al latitante Br, da Salvini a Cossigai, scrive il 20 gennaio 2019 la redazione di Le Iene. Dopo il caso Battisti, Gaetano Pecoraro ha scovato in Svizzera Alvaro Lojacono, latitante delle Brigate Rosse condannato all'ergastolo in Italia. Che, a un tavolino di un bar, parla tranquillamente di vittime "come simboli" e sfida le autorità italiane. “Salvini? Paura non me ne fa”, resta spavaldo l’ex terrorista rosso e militante delle Brigate Rosse Alvaro Lojacono. Dopo la cattura in Bolivia e l’estradizione di Cesare Battisti (clicca qui per l’intervista esclusiva che gli avevamo fatto a Parigi), Gaetano Pecoraro ha scovato in Svizzera dove è latitante nonostante debba scontare l’ergastolo in Italia e dove lavora in Università. Per la magistratura è stato coinvolto il 16 marzo 1978 nel sequestro in via Fani a Roma del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro (nell’agguato furono uccisi 5 agenti di scorta), ha ucciso un magistrato Girolamo Tartaglione sempre nel 1978 e lo studente greco Miki Mantakas, militante del Msi nel 1975. “Io ho l’impressione che sia una parata: sceriffo, bandito… Su Cesare Battisti è stata costruita negli anni l’immagine di nemico pubblico numero uno, il cattivo assoluto”, dice. “Quello è odio, che giustizia è?”. “Io sono stato condannato per “cose che manco sapevo che erano state fatte”. Se si entra nello specifico sul rapimento Moro però dice: “Lascia perdere, non insistere…” e rimanda alla ricostruzione di Paolo Persichetti, brigatista estradato dalla Francia in Italia (secondo questa versione Lojacono era in un auto a bloccare l’accesso in via Fani). “Bisogna riconoscere che c’è una parte della società italiana che ha preso le armi perché si sentiva in dovere di tentare una rivoluzione”. Secondo Lojacono lo Stato dovrebbe riconoscerlo, come voleva fare con un’amnistia l’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, ai tempi nemico numero uno delle Br. Noi sul sito vi riproponiamo integralmente sul sito l’intervista che facemmo a Cossiga nel 2003 proprio su questo tema (clicca qui per vederla tutta). “Fu il tentativo di innescare una guerra civile: chi combatté lo fece non con l’animo del terrorista ma con l’animo del partigiano”, dice Cossiga. E le vittime? “Non c’è mai stato niente di personale con nessuna delle vittime: tutto era simbolico e funzionale”, dice tranquillamente Lojacono, dichiarandosi disposto a scontare le condanne ma in Svizzera (in parte le ha già scontate così).

Moro, l’ex Br Lojacono: “Accetterei di scontare la mia pena in Svizzera. L’Italia non ha mai chiesto la mia estradizione”, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 18 Gennaio 2019. L'ex terrorista è oramai cittadino svizzero: rompe il silenzio dopo quasi vent'anni e il recente arresto dell’ex Pac Cesare Battisti con un'intervista al portale Ticinonline.it: "Perché non hanno chiesto mia estradizione? Forse non hanno voluto che uno Stato straniero mettesse il naso nel processo Moro". Fioroni: "Non ha voluto rispondere alle domande della commissione". Il figlio del caposcorta del presidente Dc: "Per ex Br è finita la pacchia". Accetterebbe di scontare l’ergastolo in Svizzera Alvaro Lojacono, uno degli esponenti delle Br condannati per l’agguato di via Fani in cui venne uccisa la scorta di Aldo Moro e il presidente della Dc venne rapito. Lojacono è oramai cittadino svizzero e rompe il silenzio dopo quasi vent’anni e il recente arresto dell’ex Pac Cesare Battisti con un’intervista al portale Ticinonline.it. Se l’Italia presentasse una richiesta di exequatur corretta e completa (cioè per tutte le condanne italiane cumulate), con la garanzia di non procedere più per gli stessi fatti, spiega Lojacono, “io l’accetterei senza obiezioni, almeno metteremmo la parola fine a questa vicenda”. In pratica, l’ex terrorista accetterebbe di scontare nel paese elvetico l’ergastolo inflittogli da un giudice svizzero, secondo le sentenze italiane. Lojacono, che per la strage di via Fani deve scontare appunto un ergastolo: all’epoca dell’agguato aveva 22 anni. Ora ha 63 anni e, grazie al passaporto e al cognome della madre, vive in Svizzera da uomo libero, sotto il nome Alvaro Baragiola. Lavora, ha una famiglia e la sua fedina è pulita dopo aver scontato una pena di 17 anni inflittagli per fatti di sangue (inclusi nella sentenza Moro-bis). “L’Italia non riconosce, né può riconoscere, la carcerazione sofferta in Svizzera per gli stessi fatti e reati – spiega – perché non solo non ha chiesto alla Svizzera l’estradizione, ma neppure ha chiesto alla Confederazione di processarmi in Svizzera”.  Nel 2006 l’Italia presentò alla Confederazione una richiesta di exequatur, cioè di esecuzione in Svizzera delle condanne italiane ma, chiarisce l’ex Br, “la richiesta italiana riguardava solo la sentenza del processo Moro 4 – invece della decisione giudiziaria di cumulo delle pene dei diversi processi – e non garantiva che, una volta eseguita la pena in Svizzera, il paese richiedente l’avrebbe pienamente riconosciuta come scontata. Il rischio era che, una volta eseguita in Svizzera, l’Italia avrebbe poi proceduto per farla valere o eseguirla di nuovo, cosa illegale ma non sorprendente, o avrebbe chiesto l’esecuzione ulteriore delle altre condanne. Per questo motivo la richiesta italiana fu respinta dai giudici del Canton Berna”. Per quale motivo le autorità italiane hanno scelto di non chiedere l’estradizione o il processo in via sostitutiva? “Bisognerebbe chiederlo a loro. Io non lo so e posso solo fare delle ipotesi, forse l’Italia non ha voluto che uno stato straniero mettesse il naso nel processo Moro. Sarebbe comprensibile. Qualunque sia la ragione non sono le autorità svizzere, né una mia presunta opposizione, ad aver creato l’impasse attuale”, sottolinea Lojacono, aggiungendo: “Forse è più facile non fare nulla e sbraitare contro la Svizzera e il sottoscritto; su un latitante si può dire qualsiasi cosa perché non è in condizione di difendersi…”.  “Sono passati 40 anni – continua Lojacono – e l’Italia si è sempre mossa in una logica di vendetta, come si è ben visto anche nel caso Battisti, e non ha mai rinunciato a un quadro giuridico d’eccezione. In una giustizia normale la ‘certezza della pena’ vale anche per il detenuto: io sono stato scarcerato quasi venti anni fa, e sto ancora come prima dell’arresto, senza sapere se un giorno o l’altro mi riarrestano o mi riprocessano per qualcosa. Se ora l’Italia decidesse di muoversi con una richiesta come quella che ipotizza, io l’accetterei senza obiezioni, almeno metteremmo la parola fine a questa vicenda”. A Lojacono replica Beppe Fioroni, presidente della Commissione parlamentare sul caso Moro. “E’ ora di farla finita – dice – Il parlamento ha approvato all’unanimità una relazione su fatti e prove certe, senza nessun complotto o interpretazione stravagante. Con Lojacono noi eravamo disponibili anche a una rogatoria, ad andare noi in Svizzera, queste verità poteva dirle da lì. Non c’era bisogno di farsi riarrestare per parlare. Con lui abbiamo avuto uno scambio epistolare. Ci ha spiegato che non intendeva rispondere alle domande perché, come risulta dagli atti, aveva scontato la sua pena con la giustizia elvetica”. Commenta l’intervista dell’ex Br anche Sandro Leonardi, figlio di Oreste, il capo della scorta di Moro trucidato in via Fani il 16 marzo 1978 con Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Domenico Ricci. “Ho letto e sono rimasto senza parole. Lojacono venisse in Italia, se vuole scontare davvero la sua pena. E se no, se ne resti in Svizzera come fa da quarant’anni e ci lasci in pace.  A Lojacono e a tanti altri, Casimirri in testa, dico che è finita la pacchia”, aggiunge Leonardi, secondo cui l’arresto di Battisti in Bolivia dimostra che per catturare i terroristi latitanti “basta la volontà”.

«Quarant’anni dopo in Italia resta la stessa logica di vendetta». Intervista esclusiva allo svizzero Alvaro Baragiola, 63 anni, l’uomo con cui Salvini vorrebbe riaprire i conti degli anni di piombo, scrive il 18.01.2019 tio.ch. Per l’Italia l’orologio della storia è sempre fermo alle 9 del mattino del 16 marzo 1978. Al giorno, cioè, del rapimento del presidente della DC Aldo Moro e Alvaro Lojacono, all’epoca 22enne, è un brigatista latitante all’estero che deve scontare un ergastolo per l’agguato di via Fani. Per la Svizzera Alvaro Baragiola, che ora ha 63 anni (e da una vita ha preso passaporto e cognome della madre), è un cittadino elvetico. Oggi lavora, ha una famiglia e la sua fedina è pulita dopo aver scontato nel secolo scorso una pena di 17 anni inflittagli per analoghi fatti di sangue (già inclusi nella sentenza Moro1-bis). A riaprire vecchie cicatrici è stato l’arresto e l’estradizione dalla Bolivia a Roma di un protagonista minore degli anni di piombo, Cesare Battisti. Ma tanto è bastato per far ripartire la caccia ai riparati oltre confine. Mediatica soprattutto. E non solo, come spiega in esclusiva per Ticinonline/20Minuti e dopo quasi vent’anni di silenzio, l’uomo finito nel mirino di Matteo Salvini & Co.  

Anche la Lega dei ticinesi ha invitato il Governo federale a consegnarla alle autorità italiane. Come valuta lei questa richiesta?

«Per cominciare tengo a precisare che l’Italia NON ha MAI chiesto la mia estradizione alla Svizzera (il fatto è accertato dalla sentenza del Tribunale federale del 9 aprile 1991), ed una “consegna” come la richiede la Lega equivarrebbe a una deportazione alla boliviana, che la Confederazione non prevede».

Lei ha scontato una pesante condanna in Svizzera per fatti che le sono imputati in Italia, ma sembra che le autorità italiane non ne tengano conto. Perché?

«L’Italia non riconosce, né può riconoscere, la carcerazione sofferta in Svizzera per gli stessi fatti e reati perché non solo non ha chiesto alla Svizzera l’estradizione, ma neppure ha chiesto alla Confederazione di processarmi in Svizzera».

Ci risulta però che, nel 2006, l’Italia presentò alla Confederazione una richiesta di exequatur, cioè di esecuzione in Svizzera delle condanne italiane...

«È vero, però la richiesta italiana riguardava solo la sentenza del processo Moro 4 - invece della decisione giudiziaria di cumulo delle pene dei diversi processi - e non garantiva che, una volta eseguita la pena in Svizzera, il paese richiedente l’avrebbe pienamente riconosciuta come scontata. Il rischio era che, una volta eseguita in Svizzera, l’Italia avrebbe poi proceduto per farla valere o eseguirla di nuovo, cosa illegale ma non sorprendente, o avrebbe chiesto l’esecuzione ulteriore delle altre condanne. Per questo motivo la richiesta italiana fu respinta dai giudici del Canton Berna».

Per quale motivo le autorità italiane (i diversi governi che si sono succeduti) hanno scelto di non chiedere l’estradizione e poi in caso di rifiuto il processo in via sostitutiva?  

«Questo bisognerebbe chiederlo a loro. Io non lo so e posso solo fare delle ipotesi, forse l’Italia non ha voluto che uno stato straniero mettesse il naso nel processo Moro. Sarebbe comprensibile. Qualunque sia la ragione non sono le autorità svizzere, né una mia presunta opposizione, ad aver creato l’impasse attuale».

Come si spiega questa “storia sospesa”?

«Forse perché è più facile non fare nulla e sbraitare contro la Svizzera e il sottoscritto; su un “latitante" si può dire qualsiasi cosa perché non è in condizione di difendersi, vengono addirittura qui con telecamere nascoste, figuriamoci. O forse perché il dossier dell’exequatur è stato affidato a qualche funzionario cialtrone e incompetente; non lo so, ma è evidente che il problema sta da quella parte».

E se l’Italia presentasse una richiesta di exequatur corretta e completa (cioè per tutte le condanne italiane cumulate), con la garanzia che l’Italia non precederà più per gli stessi fatti. Lei come reagirebbe?

«Sono passati 40 anni e l’Italia si è sempre mossa in una logica di vendetta, come si è ben visto anche nel caso Battisti, e non ha mai rinunciato a un quadro giuridico d’eccezione. In una giustizia normale la "certezza della pena" vale anche per il detenuto: io sono stato scarcerato quasi venti anni fa, e sto ancora come prima dell’arresto, senza sapere se un giorno o l’altro mi riarrestano o mi riprocessano per qualcosa.  Se ora l’Italia decidesse di muoversi con una richiesta come quella che ipotizza, io l’accetterei senza obiezioni, almeno metteremmo la parola fine a questa vicenda».

Sta dicendo che accetterebbe l’ergastolo che un giudice svizzero, secondo le sentenze italiane, le dovrebbe infliggere?

«».

Ripensa spesso a quel mattino in via Fani?

«Ogni volta che il tema è rilanciato dai media associandolo al mio nome ricevo insulti e minacce. È una pena supplementare, non ci posso fare niente. Ci sono memorie collettive diverse ed in conflitto tra loro, e nessuna sarà mai condivisa da tutti. Entriamo nel cinquantenario del lungo ’68, dopo mezzo secolo si dovrebbe poter trattare le cose storicamente, ma non è così, sembra che i fatti siano avvenuti ieri».

Cosa contesta nella lettura odierna dei fatti di allora?

«All’epoca, erano passati 30 anni dalla fine della guerra e dei suoi drammatici strascichi di guerra civile, ma quella era già storia, nessuno lanciava stagioni di caccia grossa agli "impuniti". Ho avuto un contatto con l’ultima commissione parlamentare italiana sul caso Moro, che ha purtroppo mancato l’occasione, scegliendo di dedicarsi alla ricerca di complotti».

Cosa ha detto a questi commissari?

«Quello che penso, e che dico a chiunque – pur evitando di farlo in pubblico, perché so quanto l’apparizione anche solo di una foto possa irritare i parenti delle vittime. C’è stata una "linea della fermezza" lanciata dal PCI al tempo del sequestro Moro, continuata poi con le leggi d’emergenza e con la politica della vendetta, che in questi giorni ha raggiunto livelli impensabili con l’esibizione del detenuto-trofeo. Una catena che neppure la commissione ha voluto interrompere, lasciando la verità nella palude del sospetto».

Dunque resta un tema tabù?

«Non vedo perché parlare con chi mi considera ancora oggi terrorista e nemico pubblico. Che non sono. Ma non è un tabù, ne parlo con storici e ricercatori con cui si può discutere, solo lontani dalla propaganda e dalle fake-news si può ritrovare un senso storico».

Latitanti e contenti. Gli "altri" Battisti. Terroristi rossi e neri, assassini che non hanno mai pagato. Ma si sono rifatti una vita in giro per il mondo, scrive Maurizio Tortorella il 15 gennaio 2019 su Panorama. Non c’è soltanto Cesare Battisti, l’ex esponente dei Proletari armati per il comunismo condannato per quattro omicidi (il gioielliere Pierluigi Torregiani, il macellaio Lino Sabbadin, il maresciallo della polizia penitenziaria Antonio Santoro e l’agente della Digos Andrea Campagna), e latitante per 26 dei suoi 64 anni. Gli anni di piombo italiani, purtroppo, hanno lasciato molte altre scorie in giro per il mondo. La lista è lunga e davvero mortificante, per la giustizia italiana. Tra gli esponenti più significativi del terrorismo impunito ci sono Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri, due vecchi brigatisti rossi (oggi hanno 63 e 67 anni) che non si sono mai formalmente pentiti. Facevano parte del commando che il 16 marzo 1978 entrò in azione a Roma, in via Fani, uccidendo i cinque uomini della scorta dell’ex presidente della Dc. Sette mesi dopo, insieme, avevano anche colpito mortalmente alla testa il magistrato Girolamo Tartaglione, direttore generale degli affari penali. La nostra Corte di cassazione, in contumacia, li ha condannati all’ergastolo ma sono riusciti a fuggire e in Italia non hanno mai scontato un giorno di pena. Oggi, però, nessuno dei due è estradabile perché Lojacono ha preso la cittadinanza svizzera, mentre Casimirri ha ottenuto quella nicaraguense. Lojacono, che in Italia era stato condannato a 16 anni di galera anche per l’omicidio di Nikis Mantekas, un simpatizzante di estrema destra ucciso a Roma nel 1975, era stato arrestato in Corsica nel giugno 2000, ma è stato subito liberato dalla giustizia francese che non riconosce le condanne in contumacia. In Svizzera, Lojacono ha cambiato cognome in Baragiola, e nel 1989 è stato condannato per l’omicidio Tartaglione a 17 anni di reclusione (ne ha scontati solo 11 per buona condotta). Dal 1988 anche Casimirri si fa scudo di un’altra cittadinanza: si è sposato a Managua, dove di recente il quotidiano La Verità ha ricordato che gestisce un ottimo ristorante di pesce, El buzo («Il subacqueo») frequentato anche da reduci dell’estremismo rosso italiano. Si era rifugiato in Spagna, invece, Claudio Lavazza, 63 anni: anche lui faceva parte dei Proletari armati per il comunismo, ed è stato condannato all’ergastolo per gli stessi quattro omicidi compiuti da Battisti. Lavazza è detenuto in Spagna dal 1996 per reati commessi in quel Paese: Madrid non ha mai dato seguito alla richiesta di estradizione italiana. Altri latitanti delle Br per i quali la giustizia italiana ha inutilmente chiesto la consegna alla Francia sono Sergio Tornaghi, 61 anni, legato alla colonna milanese Walter Alasia; la «primula rossa» Simonetta Giorgieri, 64 anni, che apparteneva al Comitato rivoluzionario toscano; e Carla Vendetti, 60 anni, arrestata, scarcerata e quindi entrata in clandestinità. Le due donne sono state condannate anche perché coinvolte negli omicidi dei giuslavoristi Marco Biagi, nel 2002, e Massimo D’Antona, nel 1999. La Francia, va detto, è sempre stata generosa con il nostro terrorismo rosso, e non soltanto con Battisti, che ha allegramente ospitato fino al 2004: dal 1982 dà rifugio anche all’ex Br Enrico Villimburgo, condannato all’ergastolo in una delle troppe appendici del processo Moro e per i tre omicidi dei giuristi Vittorio Bachelet e Girolamo Minervini, e del generale dei Carabinieri Enrico Galvaligi. A Parigi vive anche Giorgio Pietrostefani, 75 anni, l’ex dirigente di Lotta continua che la giustizia italiana ha condannato definitivamente a 22 anni di carcere per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Si dice sia residente in Perú Oscar Tagliaferri, condannato per la strage organizzata dai terroristi rossi di Prima linea in via Adige, a Milano, il 1° dicembre 1978. Tagliaferri è ricercato per omicidio, associazione sovversiva, partecipazione a banda armata, rapina. È uno degli autori della strage milanese di Prima linea anche Maurizio Baldasseroni, 68 anni, a sua volta espatriato in Sud America: nel 2013 si pensava fosse morto, ma l’anno successivo un giudice ha ordinato alla Procura di Milano che fossero riprese le sue ricerche. Il terrorista nero Vittorio Spadavecchia, 56 anni, si nasconde invece a Londra da oltre 36 anni, per l’esattezza dall’agosto 1982: membro dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari, è stato condannato per l’omicidio di alcuni poliziotti, tra i quali il commissario della Digos Franco Straullu, e per una serie di rapine. Oggi fa l’agente immobiliare. Sette richieste di estradizione da parte dell’Italia sono finite nel nulla. 

Terrorismo e latitanti: i debiti vanno pagati. Maurizio Belpietro commenta la bella vita dei latitanti dell'epoca del terrorismo cui è dedicata la storia di copertina di Panorama, scrive Maurizio Belpietro il 4 febbraio 2019 su Panorama. Forse qualche lettore si chiederà se abbia senso, a quarant’anni dai fatti, parlare ancora dei fantasmi del terrorismo. I latitanti degli Anni di piombo sono vecchi, in qualche caso pure malati, e a quanto pare non più in attività. Dunque, nonostante molti di loro non abbiano mai regolato i propri conti con la Giustizia dovremmo dimenticarceli e far finta che non esistano invece di chiederne l’estradizione? Io credo di no e per una serie di motivi che cercherò di spiegare. Il primo è che se si dà la caccia a un comune assassino fino a che non sia stato preso, non si capisce perché si debba rinunciare a farlo per meriti politici. Un criminale è un criminale e un delitto è un delitto, a prescindere dalle motivazioni. Che si sia uccisa una persona per rapinarla, per vendicarsi o per fare la rivoluzione non cambia: si è sempre un assassino. Ho in mente un tizio che si fece giustizia da sé per quelli che gli atti di polizia giudiziaria chiamano «futili motivi». Per molti anni riuscì a farla franca, nascondendosi all’estero, ma alla fine, non essendosi dimenticati di lui, gli inquirenti gli presentarono il conto. Perché, dunque, non dovremmo farlo per un assassino che impugnava la pistola nel nome della lotta di classe? Lasciarli al loro destino significherebbe in qualche modo precostituire un attenuante ai delitti di terrorismo: uccidono ma, per degli ideali. Sparare a una persona è un reato gravissimo, a prescindere dal perché sia stato fatto. E dire che dopo quarant’anni si può dimenticare o perdonare una stagione di follia, è un insulto alle vittime e ai loro familiari. C’è poi una seconda ragione che mi spinge a dire che non si possa fare una specie di «amnistia della memoria», dimenticandosi delle condanne non scontate. Molti terroristi, dopo essere fuggiti all’estero, si sono rifatti una vita. C’è chi - grazie ai soldi di papà o di mammà - ha ripreso la vita comoda che conduceva prima di abbracciare la lotta armata, chi si è laureato ed è salito in cattedra, chi ha avviato un’intraprendente carriera commerciale, chi ha fatto figli e si è goduto la vita. Sebbene in molti fossero condannati all’ergastolo, al «fine pena mai» hanno condannato la moglie e i figli delle loro vittime, incatenati al ricordo di una vita spezzata all’improvviso, senza ragione. Per loro, per i famigliari delle vittime, la sentenza di morte per il congiunto ha rappresentato un’esistenza segnata dal dolore e dalle difficoltà economiche. Un contrasto, quello tra la nuova vita del terrorista e la vita difficile dei parenti delle vittime, che stride troppo e che ancora reclama giustizia. Anni fa, a Cortina d’Ampezzo, mi capitò di partecipare a un dibattito con la figlia di Guido Rossa, l’operaio genovese ucciso dalle Br per aver denunciato un terrorista, e Sergio D’Elia, coordinatore dell’associazione Nessuno tocchi Caino. Quest’ultimo, ex militante di Prima linea, il gruppo responsabile di decine di assassini, alla fine degli anni Settanta venne arrestato con l’accusa di aver fatto parte di una banda armata e di concorso nell’omicidio dell’agente penitenziario Fausto Dionisi, durante un assalto al carcere di Firenze. Condannato a 25 anni, ne scontò 12 e, una volta libero, si dedicò all’attività politica con i Radicali, in favore degli ex detenuti. A seguito di una sentenza che gli restituì i diritti politici, D’Elia nel 2006 si candidò al parlamento con La Rosa nel pugno e, una volta eletto, divenne segretario della presidenza della Camera, con un supplemento di stipendio. Ecco, chiesi al pubblico di Cortina, vi sembra giusto che la vedova di Fausto Dionisi, l’agente ucciso a Firenze, viva con una pensione da fame, pagata da quello Stato per cui il marito è morto, e quello stesso Stato corrisponda una retribuzione da favola a una delle persone condannate per concorso nel suo omicidio? D’Elia, colto di sorpresa, reagì accusandomi di populismo e io, a mia volta, replicai di preferire l’accusa di populismo piuttosto che avere sulle spalle una condanna per omicidio. Perché vi racconto tutto ciò? Per introdurre il tema a cui questa settimana abbiamo dedicato la copertina. La dolce vita dei latitanti non è un modo di dire. In molti, dopo aver ucciso o aver pianificato di uccidere, si sono rifatti una vita, spesso bella, piena di affetti, di figli e in qualche caso di nipoti. È un diritto farsi un’altra vita. Certo, ma è un diritto che si ottiene dopo aver saldato i conti con il passato. È un diritto che è stato negato ad altri, i quali avevano spesso il solo torto di essere servitori dello Stato, di quello Stato che li retribuiva con un salario minimo e che poi ha risarcito i familiari con una pensione ancora più minima. E a proposito di pensione, ricostruendo la dolce vita dei latitanti, abbiamo anche scoperto che a uno di questi, Giorgio Pietrostefani, condannato per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, lo Stato paga la pensione. Millecinquecento euro che mensilmente vengono accreditati a Parigi sul conto di un latitante. Un uomo in fuga dalla giustizia, ma con il conto in banca e un assegno dell’Inps più cospicuo di quello che incassa la vedova della sua vittima. 

Il terrorismo: storie dei protagonisti. Nell'ultimo libro di Guido Olimpio il fenomeno raccontato in maniera dettagliata attraverso le vicende, a volte inediti, di chi ha diffuso il terrore, scrive Francescapaola Iannaccone il 29 luglio 2018 su Panorama. Annichilisce gli avversari, capovolge i rapporti di forze, scompagina le certezze della vita quotidiana del singolo e come una fitta nebbia si diffonde, utilizzando forme diverse per imporre la sua violenza. Stiamo parlando del terrorismo così come viene presentato nel nuovo libro-inchiesta “Terrorismi. Atlante mondiale del terrore” del giornalista Guido Olimpio, esperto internazionale del fenomeno e che, attraverso storie inedite realizza una vera e propria analisi particolareggiata su quello che oggi rappresenta una grave minaccia per il mondo. Olimpio analizza su scala mondiale il problema, ripercorrendo con la memoria una lunga serie di attacchi terroristici che sono stati la realtà di una strategia impattante e capillare. All’interno delle pagine si trovano le storie degli uomini e delle donne che fanno parte del terrore: dove vivono, da dove provengono, la loro psicologia. Illustrando le macro aree dove sono avvenuti gli attentati, l’autore racconta le vite dei criminali come Abu Ibrahim, esperto di valigie bomba o come Junzon Okudaria, primula rossa alle spalle degli attentati compiuti a Napoli e Roma durante gli anni ottanta. La panoramica delle stragi che collega i movimenti jihadisti, risalendo ad Al Qaeda fino a giungere negli angoli remoti del mondo dove è presente il narco-terrore, in Messico, inizia con i dettagli dell’attacco terroristico del 14 luglio del 2016, dove persero la vita 86 persone, investite da un camion lanciato a tutta velocità sulla Promenade, a Nizza, alla cui guida c’era Mohamed Bouhlel, tunisino di trentun anni, un “mutante” che in pochi secondi si è trasformato in uno stragista; continua con il racconto del ventiduenne Salman Abedi che il 22 maggio del 2017, durante il concerto di Ariana Grande alla Manchester Arena, si fece saltare in aria, uccidendo 22 persone, prosegue analizzando i protagonisti più pericolosi di questa minaccia multipla e costante e i fronti caldi sui quali agiscono. Una classificazione dettagliata: “nomadi del jihad”, “taglia- erba”, “il fantasma”, “il professionista”, “cani randagi”, “lupi solitari” con la quale il giornalista spiega le azioni criminali, da chi vengono compiute, perché, e soprattutto con quali mezzi a disposizione. Questo volume è il racconto di una strategia dalle intenzioni nette come quella di destabilizzare la società, provocare reazioni e cicli di vendetta, diffondere il senso di insicurezza, colpire nel nucleo della polizia e dell’esercito perché visti come il simbolo della protezione. “Il terrorismo è un male complicato” scrive Guido Olimpio. Esso muta, si adegua all’avversario, ha in sé innumerevoli variabili e le politiche dei vari Stati non sempre sono preparate ai contraccolpi inferti da questa continua minaccia.

La dolce vita di Pietrostefani (e di altri latitanti), scrive Panorama il 30 gennaio 2019. Panorama ha scoperto che il condannato per l'omicidio Calabresi vive a Parigi con una pensione Inps da 1500 euro. L'arresto di Cesare Battisti ha riportato d'attualità il tema delle decine di ex terroristi latitanti all'estero, dove conducono vite assolutamente tranquille, senza aver mai pagato il loro debito con la giustizia italiana. Su tutti Giorgio Pietrostefani, condannato a 14 anni e due mesi di carcere per l'omicidio del Commissario Calabresi e fondatore con Adriano Sofri di Lotta Continua. Panorama ha scoperto che Pietrostefani vive a Parigi dove riceve una pensione dall'Inps di oltre 1500 euro. Oltre a lui Panorama ha scoperto chi sono e cosa fanno i 30 ex terroristi che hanno una pena da scontare ma vivono serenamente all'estero. Ecco un estratto dell'inchiesta che potete leggere sul numero in edicola dal 30 gennaio: Cinecittà hanno già pronta la «parte seconda» della cattura di Cesare Battisti, l’ergastolano consegnato dal governo boliviano alle patrie galere con la regia del neo-presidente del Brasile Jair Bolsonaro. Ovviamente non stiamo parlando degli studios capitolini, ma degli uffici della Direzione centrale della Polizia di prevenzione, l’antiterrorismo italiano, che si trova proprio di fronte alla nostra piccola Hollywood. Ai piani alti di quella che si chiamava Ucigos il direttore Lamberto Giannini e il suo braccio destro Eugenio Spina, capo dell’antiterrorismo interno, coordinati dal capo della Polizia Franco Gabrielli, stanno studiando nei dettagli l’elenco degli ultimi 30 «most wanted» degli anni di piombo, tra i quali 12 ergastolani, quelli che non sono stati graziati dalla prescrizione, una panacea che ha salvato anche nomi eccellenti della lotta armata come le due ex primule rosse Simonetta Giorgieri e Carla Vendetti. Per qualche anno i nostri investigatori hanno pensato che ci fossero loro dietro alle nuove Brigate rosse, quelle che hanno ucciso i professori Massimo D’Antona e Marco Biagi, ma quella pista è tramontata e nessuno cerca più le due signore...

Pietrostefani, il latitante mantenuto dallo Stato. Il terrorista di Lotta Continua vive a Parigi con la pensione dell'Inps. La sua storia e quella degli altri super latitanti degli anni del terrorismo, scrive il 3 febbraio 2019 Panorama. Cinecittà hanno già pronta la «parte seconda» della cattura di Cesare Battisti, l’ergastolano consegnato dal governo boliviano alle patrie galere con la regia del neo-presidente del Brasile Jair Bolsonaro. Ovviamente non stiamo parlando degli studios capitolini, ma degli uffici della Direzione centrale della Polizia di prevenzione, l’antiterrorismo italiano, che si trova proprio di fronte alla nostra piccola Hollywood. Ai piani alti di quella che si chiamava Ucigos il direttore Lamberto Giannini e il suo braccio destro Eugenio Spina, capo dell’antiterrorismo interno, coordinati dal capo della Polizia Franco Gabrielli, stanno studiando nei dettagli l’elenco degli ultimi 30 «most wanted» degli anni di piombo, tra i quali 12 ergastolani, quelli che non sono stati graziati dalla prescrizione, una panacea che ha salvato anche nomi eccellenti della lotta armata come le due ex primule rosse Simonetta Giorgieri e Carla Vendetti. Per qualche anno i nostri investigatori hanno pensato che ci fossero loro dietro alle nuove Brigate rosse, quelle che hanno ucciso i professori Massimo D’Antona e Marco Biagi, ma quella pista è tramontata e nessuno cerca più le due signore. La maggior parte dei ricercati nella lista in mano al ministro dell’Interno Matteo Salvini vive in Francia e ha potuto usufruire della cosiddetta «dottrina Mitterand» sino al 2002, quando anche la Francia l’ha messa in soffitta ritenendo che l’impegno politico del presidente non rappresentasse una fonte del diritto. Da allora i latitanti hanno dovuto ricorrere ad altre ciambelle di salvataggio: motivi di salute, l’acquisizione della cittadinanza francese, magari grazie al matrimonio con cittadini d’Oltralpe, la buona condotta, fino a ragioni più squisitamente tecnico-giuridiche. Tra i reduci parigini della stagione del terrorismo rosso il nome forse più noto è quello di Giorgio Pietrostefani, condannato insieme ad Adriano Sofri e Ovidio Bompressi per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, a Milano. Fino a poco tempo fa aveva Twitter, ma solo per commentare (poco) il calcio italiano. All’inizio della latitanza, a Repubblica, giornale oggi diretto dal figlio della sua vittima, aveva dichiarato: «La mia vita è ridicola, ho 56 anni e gioco ancora a nascondino come un bambino». Alla fine il passatempo non deve essergli dispiaciuto e ci si è dedicato per altri quattro lustri. Oggi ha 75 anni, è separato, ha subito un trapianto di fegato, ma può usufruire di una pensione di vecchiaia dei lavoratori ex Inpdai erogata dall’Inps: oltre 1.500 euro al mese a partire dal 2017. Sì, avete letto bene.

STRATEGIA DELLA PENSIONE. L’istituto previdenziale presieduto da Tito Boeri paga un assegno mensile a un latitante, consentendogli di fatto di restare lontano dall’Italia. Per raggiungere l’agognato traguardo, dal 2000 al 2015, Pietrostefani ha versato in Francia 12 mila euro all’anno, contributi che in base a una convenzione esistente tra i due Stati sono stati riconosciuti dal nostro Paese. «Risultano periodi di lavoro all’estero comunicati dagli enti previdenziali di Francia. Tali periodi potranno essere presi in considerazione ai fini della liquidazione di una pensione italiana alle condizioni e nei limiti previsti dagli accordi internazionali» si legge nella scheda di Pietrostefani. «Potranno» e non «dovranno», ma comunque «tali periodi» sono entrati nel computo. In Francia Pietrostefani, architetto e dirigente d’azienda dagli interessi poliedrici, ha fatto il consulente d’affari e gestionale. Il suo ufficio era a due passi dal Louvre, al numero 20 di Rue de la Banque. Dal 2017, quando è andato in pensione, si è spostato in un indirizzo meno sfarzoso. Ma come è arrivato a racimolare un simile assegno, essendo stato praticamente sempre sotto indagine o latitante a partire dagli anni Settanta? Intanto, ha riscattato gli anni dell’università e vi ha aggiunto quattro anni di lavoro (1979-1983) non meglio precisato. Tra il 1983 e il 1992, per un totale di otto anni e 9 mesi, è stato assunto come manager presso la Finanziaria Ernesto Breda e poi è diventato consigliere d’amministrazione delle Reggiane officine meccaniche italiane. In quei nove anni ha visto crescere il proprio stipendio da 12 a 100 milioni di lire (1991). In Breda è rimasto cinque anni superando i 50 milioni di retribuzione, mentre nelle Officine è entrato nel 1988, con una retribuzione di quasi 70 milioni l’anno. Sempre nell’88 è stato arrestato e poi rilasciato. Ciò non gli ha impedito di veder crescere i propri emolumenti. In tutto in Italia ha dichiarato redditi a fini previdenziali per un ammontare di poco meno di 300 mila euro. Iscritto alla Cassa nazionale di assistenza di ingegneri e architetti e all’Ente nazionale di assistenza agenti e rappresentanti di commercio, nel 1992, ha lasciato il lavoro e nel febbraio 1993 è stato autorizzato alla contribuzione volontaria. Nel 1997, dopo sette processi, la Cassazione ha confermato in via definitiva la condanna per lui, Sofri e Bompressi.

UN confronto impietoso. Dopo la sentenza ha scontato solo tre anni di pena e nel 2000 si è rifugiato in Francia dove ha ripreso a versare i contributi, mettendo da parte ulteriori 180 mila euro. Nel 2017 ha iniziato a riscuotere a Parigi il sospirato assegno italiano: ricevendo 21.740 euro netti nel primo anno (1.811 euro al mese di media) e «solo» 17.700 (1.475) nel 2018. A gennaio 2019 ha incassato una rendita da 1.565 euro e grazie a questa vive a Parigi, coccolato dai tanti amici che in Italia e in Francia hanno sempre tifato per lui. Di fronte a tali cifre bisogna ricordare che la vedova del commissario Calabresi, Gemma Capra, percepisce una pensione di reversibilità di 400 euro. È un vitalizio quasi quattro volte inferiore rispetto all’assegno di Pietrostefani, che per fortuna è integrato da una personale pensione di vecchiaia. Ma non ci sono solo i latitanti di sinistra a ricevere l’assegno previdenziale. Anche l’ex avanguardista nazionale Mario Pellegrini (ricercato come i suoi due camerati Vittorio Spadavecchia e Pierluigi Bragaglia), originario di Papozze (Rovigo), riceve una pensione da artigiano da meno di 800 euro al mese. Nel 2002 è stato arrestato a San Isidro, in Argentina e gli è stata notificata una condanna definitiva a 12 anni e 6 mesi di reclusione (che deve ancora scontare) per concorso nel sequestro del banchiere Luigi Mariano, compiuto nel 1975 in cambio di un riscatto da 280 milioni di lire.

UN BRIGATISTA È PER SEMPRE. L’enclave italiana di rifugiati in Francia include anche un buon numero di condannati all’ergastolo. A Parigi vive con marito e figlio Roberta Cappelli, anche lei laureata in architettura. Nel 1995 la Chambre d’accusation ha dato parere favorevole all’estradizione, ma la dottrina Mitterand ha bloccato tutto. Nel 2004 Cappelli ha rivendicato: «La mia libertà è ormai un diritto acquisito». Ha lavorato prima come babysitter, poi in una casa editrice di fumetti ed è stata a lungo rappresentante dei genitori nella scuola del figlio. Ha fatto anche la responsabile vendite di un’azienda e oggi si occupa di risorse umane. Ma forse i giovani che vengono selezionati da questa signora di mezza età non immaginano che, 40 anni fa, doveva individuare non persone da assumere, ma da abbattere. Una responsabilità per cui non ha accettato di pagare pegno. Attualmente vive a pochi passi dalla Camera del lavoro, in un palazzo che delle eleganti linee parigine non ha nulla: somiglia più a un edificio sovietico. Dovrebbe trovarsi in Francia pure un altro condannato a vita: il 67enne genovese Lorenzo Carpi, uno degli autori materiali dell’omicidio del sindacalista Guido Rossa. Stessa pena per Enrico Villimburgo, classe 1954, tecnico informatico ed ex componente della colonna romana delle Br. Fino a qualche anno fa era domiciliato in una piccola via non lontano dalla chiesa di Notre-Dame-de-Lorette. Nonostante faccia poca vita sociale, gigioneggia su Facebook e gioca ancora a fare il barricadero. L’unica precauzione è quella di cambiare sui social il nome in «Enrique». La foto di copertina è dedicata ai vietcong, mentre quella del profilo ritrae un omone armato con il passamontagna con dietro una bandiera del Venezuela di Nicolás Maduro. Si interessa anche di politica italiana, Villimburgo: «A proposito di fascisti e venendo ai “problemi Italiani”...  Qualcuno saprebbe indicarmi i superstiti comunisti rimasti in circolazione? Sono convinto che si possono contare sulla dita di una mano considerando l’esodo infame di chi comunista, socialista o anche anarchico non lo è mai stato è ormai votato al M5s. Il partito di Grillo, la Raggi, Di Maio, Casaleggio & c. tutti figli di vecchi nostalgici fascisti».

Parole d’ordine CHE corrono SU FACEBOOK. Su Internet Villimburgo ne ha anche per gli odiati yankee («Il fascista ratto-imperialista Donald Trump deve essere fermato al più presto con ogni mezzo. In caso contrario esso ridarà vita al nazifascismo») e nel 2011 invocava un ritorno alle armi («Come comunisti rivoluzionari è necessario giungere a una reale solidarietà combattente, colpendo uomini e strutture dell’attuale governo... La parola d’ordine d’oggi è quella di organizzare la lotta armata contro la politica mafio-fascista del governo Berlusconi»). Le tracce social di Villimburgo portano anche alle milizie marxiste-leniniste attive nella regione del Donbass, in Ucraina, attraverso una sedicente (e seducente) militante bionda di nome Alessia S. a cui il terrorista non ha mancato, su Facebook, di fare arrivare i propri complimenti. Villimburgo nel 2016 risultava anche in contatto con «Mario Tornaghi» (omonimo di Sergio Tornaghi, altro brigatista latitante con ergastolo da scontare), sedicente membro dell’Interunit, la compagine internazionale della cosiddetta Brigata fantasma, tra le armate filorusse, la più nostalgica del periodo sovietico. Su Facebook Villimburgo ha dedicato un pensiero anche a Pedro Alvarez de la Rua, «caro amico e combattente delle Farc (le Forze armate rivoluzionarie colombiane, ndr)». Ha le mani che ancora prudono anche l’ex compagno di Simonetta Giorgieri, Gino Giunti, a cui restano 4 anni e 6 mesi da scontare in Italia. Barba e chioma canute da anziano Jedi, sui social solidarizza con la Palestina (come Franco Pinna, altro terrorista rifugiatosi in Francia), ma soprattutto si segnala come acceso sostenitore della rivolta dei Gilet gialli, dei quali pubblica le foto e i video degli scontri con la polizia, che forse gli restituiscono il brivido di quando nelle campagne intorno a Montignoso, in Versilia, vagheggiava la rivoluzione. Ora, un po’ imborghesito, fa la sua parte da un appartamentino di Mansle, nord-ovest della Francia, e non disdegna di segnalare tra i «preferiti» il sito «Fatto in casa da Benedetta (Parodi, ndr)» e la trasmissione Striscia la notizia.

ESILIO TRA LE VIE DI MONTMARTRE. Stile di vita ben diverso quello del conte Paolo Ceriani Sebregondi, figlio di due eroici partigiani (il padre Giorgio è stato uno dei capi della Resistenza cattolica e, per il ministero degli Esteri, ha partecipato alle trattative per la costituzione della Cee). Condannato all’ergastolo risiede in una strada esclusiva di Montmartre. La sua casa è in un palazzotto costruito durante la Belle Epoque, dove quattro stanze costano non meno di 800 mila euro (la quotazione media nella zona è di oltre 7.500 euro al mq). Ceriani Sebregondi è stato a capo dei docenti di informatica e vicepreside di un liceo cattolico vicino al Jardin du Luxembourg, dove ha successivamente lavorato anche la figlia avuta con la compagna brigatista Paola De Luca negli anni del terrorismo. La ragazza è nata nell’anno del sequestro Moro (1978) e su Internet ha dedicato una poesia sul suo stato di figlia di latitanti, pubblicata tanti anni fa su un sito in difesa di Cesare Battisti: «La loro lotta non è mia, ma sono sconfitta. Prendo i vetri rotti senza aver ballato alla festa. Conosco le canzoni, ma non riesco a sollevare il braccio. Ho imparato a espiare prima di sapere come camminare». Nella lista dei latitanti che dovrebbero scontare l’ergastolo c’è anche Marina Petrella, nome di battaglia Virginia, condannata al carcere a vita nel processo Moro-ter. La signora si trova in Francia da un quarto di secolo. Ha lavorato come animatrice in una scuola materna e come maestra. Nel 2006, è stata assunta da Stéphanie Lacroix alla «Loca’rhythm», un’agenzia immobiliare con vocazione sociale che si occupa di trovare alloggi per le famiglie in difficoltà. L’anno dopo, si è diplomata come assistente sociale, campo nel quale opera tuttora. Ha avuto due figlie da un italiano e da un algerino. Da quest’ultimo si è separata da qualche tempo. L’ultimo domicilio conosciuto è ad Argenteuil, comune di 100 mila abitanti nel dipartimento della Val-d’Oise. Nel 2007 è stata lì lì per essere rimpatriata, ma alla fine l’allora presidente Nicolas Sarkozy preferì lasciar perdere. Forse a convincerlo fu la stessa Virginia: «La Francia rinnega se stessa, e l’Italia agisce per pura vendetta» protestò. «Tutti noi ci siamo costruiti in Francia una nuova vita, senza negare quello che siamo stati».

L’UNICORNO contro il poliziotto. Su Facebook la figlia maggiore Elisa, che condivide l’amicizia virtuale con la br Barbara Balzerani e con un altro latitante italiano, Maurizio Di Marzio, ha lasciato agli atti un duro atto d’accusa contro «quelli che poi sono stati chiamati “pentiti”». Nell’immagine del profilo si vede un unicorno di quelli che piacciono tanto alle bambine mentre infilza un poliziotto. «Anything is possible», tutto è possibile, recita la didascalia. Si è autoesiliato in Francia anche Narciso Manenti, un altro condannato che deve scontare un ergastolo. Dopo la cattura di Battisti e la richiesta da parte sua di un’amnistia per i terroristi, si è prudentemente cancellato da Facebook e Instagram. È l’operaio tuttofare in un piccolo centro nella Loira. Abita in una casa a due piani che è anche la base della piccola azienda che gestisce direttamente. Si occupa di manutenzioni domestiche (elettricista, giardiniere, idraulico) e si fa pubblicità sul web con offerte promozionali che partono da 30 euro a chiamata.

L’EVERSORE SALE IN CATTEDRA. Vive invece in Svizzera Alvaro Baragiola Loiacono, altro ex brigatista che si sottrae dall’ergastolo. Rampollo di una famiglia molto abbiente, approfittò della rete di protezione dei genitori. In una delle lussuose ville materne, disseminate tra la Svizzera e la Corsica, venivano organizzati party a base di vini esclusivi con influenti membri del Consiglio di Stato tra gli ospiti. Forse per questo la permanenza in prigione di Alvaro fu una parentesi istantanea. Più di quarant’anni dopo nell’Università di Friburgo, dove ha frequentato un corso di giornalismo, fa l’assistente presso il Dipartimento di economia e scienze sociale e si occupa di temi che, conoscendo il suo curriculum, suonano un po’ inquietanti. Ecco l’elenco delle sue abilità e competenze: «soluzione dei conflitti», «studi su pace e conflitti». «Sicurezza internazionale», «geopolitica», «studi sul Medioriente», ma anche, non poteva essere altrimenti, «terrorismo». Alla trasmissione delle Iene, che lo ha di recente intervistato, ha detto di essersi naturalizzato svizzero per sfuggire alla giustizia italiana, ma si è anche dichiarato pronto a espiare la pena nel suo nuovo Paese. Ha anche sostenuto di non temere Salvini («Non mi fa paura») e di dubitare che «venga fisicamente qui a far qualcosa». Infine, ha ammesso di sentirsi il secondo nella lista del vicepremier, dopo «Alessio». Il riferimento di Loiacono è al romano Casimirri, cresciuto in Vaticano da una famiglia di funzionari del Papa. È stato condannato all’ergastolo per il sequestro Moro e, in particolare, per la partecipazione all’agguato di via Fani. È riparato in Nicaragua, dove ha messo su famiglia. A Managua gestisce il ristorante «Gastronomia el Buzo» (che significa «il sub») e nel menù offre un piatto di spaghetti dedicato al br scomparso Prospero Gallinari. Gli oppositori del presidente Daniel Ortega, che difendono l’autonomia del distretto di Masaya, accusano la figlia Valeria Casimirri di far parte delle squadre di repressione sandiniste, con cui avrebbe collaborato pure il padre.

Restando oltreoceano, si troverebbe a Cuba un altro sostenitore dei Gilet gialli, Franco Coda. Sull’isola del Che e di Fidel avrebbe trovato ospitalità, stando ai racconti che ancora si tramandano i vecchi compagni della sezione Pci di Camogli (Genova), anche Livio Baistrocchi, definito dal professor Enrico Fenzi «l’unico vero terrorista» che avesse conosciuto nelle Brigate rosse. In Argentina ha fatto perdere le proprie tracce un altro br, Leonardo Bertulazzi e in Perù si sarebbe nascosto il 73enne milanese Oscar Tagliaferri, undicesimo nome nell’elenco degli ergastolani in fuga. Già, il Sudamerica, con i suoi spazi sterminati, potrebbe essere il set perfetto per la «parte seconda» del film che in questi giorni si sta preparando a Cinecittà. 

I diari (segreti) dell'antiterrorismo: Battisti e i brigatisti milanesi a Parigi. Investigatori a caccia del finto reporter Cesare Battisti e dei brigatisti milanesi. I pedinamenti e le fotografie nei taccuini. Palazzi di lusso e hotel. Tutta la geografia dei movimenti a piedi e sui mezzi pubblici, scrive Andrea Galli il 24 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera". L’osservazione in fondo alla pagina scritta a macchina nella doppia versione italiana e francese, viene ripetuta: «Sembra essere diffidente». L’uomo si è appena incontrato con il terrorista Luigi Bergamin, monitorato dall’anti-terrorismo italiano a partire dalle 8 di martedì 10 aprile 1990, a Parigi. I successivi controlli permetteranno di scoprire che quell’uomo ha un passaporto messicano numero AJ 39193 a nome Jorge Nieves, fotoreporter nato a Città del Messico l’8 aprile 1954. Il documento è falso, come lo sono identità, professione e coordinate temporali. Anche se queste ultime lo sono di poco: la vera data di nascita è il 18 dicembre sempre di quell’anno, il 1954. Perché lui, come stabiliranno i successivi accertamenti, è Cesare Battisti. E questa è una delle sue tante recite in giro per il mondo e smascherate da chi gli ha dato la caccia. Nel caso specifico, dagli investigatori che l’hanno pedinato e fotografato in Francia, e hanno realizzato questi quaderni inediti letti dal Corriere.

I delitti del traduttore. Il punto di partenza dell’attività investigativa è Bergamin, uno dei più noti impuniti scappati in Francia e là capaci, grazie all’appoggio di intellettuali, scrittori ed editori, di vivere serenamente come traduttore di autori noir, tra Parigi e Metz. Un mandato di cattura del 1993 contro il terrorista, all’epoca residente al civico 17 di rue des Suisses a Parigi e impegnato ogni giorno a passare dalla macelleria a una brasseria, da un ristorante alla panetteria, gli addebita quattro omicidi (gli stessi di Battisti, ovvero Pierluigi Torregiani, Lino Sabbadin, Andrea Campagna e Antonio Santoro), e poi attentati all’ospedale Sacco, detenzione di armi nel covo di corso Garibaldi 55 (piano 5, scala C), esercitazioni di tiro nei boschi di Cerro Maggiore, il ferimento del medico del carcere di Novara Giorgio Rossanigo, e la cessione di esplosivi a un altro terrorista, Marco Barbone, l’assassino di Walter Tobagi. Secondo i magistrati, Bergamin ha avuto un «peso intellettuale notevolmente superiore» allo stesso Battisti, e una maggiore operatività nelle azioni terroristiche.

I depistaggi. La centralità di Bergamin, nato a Cittadella settant’anni fa, è manifesta nei report degli investigatori, esemplari sia per la capacità di pedinare e scattare fotografie quando la tecnologia non aiutava, e nella capacità di leggere le situazioni. Qui pedinamenti sono avvenuti a piedi, su linee del metrò e bus, in una città straniera ed enorme, e contro avversari abili nell’elaborare tecniche di depistaggio. Mercoledì 20 giugno: Bergamin «scende dall’autobus 95 in rue Saints-Peres. Percorre boulevard Saint-German. È diffidente e si gira di continuo. Entra nel bar con insegna “L’Escurial” all’angolo della rue du Bac e del boulevard Saint-Germain, e riparte su questo boulevard in senso inverso. Effettua degli acquisti in un magazzino al 159 boulevard Saint-Germain e riprende l’autobus 95. Ne discende in rue Caulincourt, prende rue des Abbesses, ed effettua degli acquisti in diversi posti...». Gli alloggi dei terroristi sono appartamenti e stanze d’albergo. Battisti ha come domicilio un palazzo al 3/9 di rue Xaintrailles ma frequenta l’hotel al 9 di rue des Gobelins, dove si incontra con un avvocato milanese, Giuseppe Pelazza, che si sposta frequentemente a Parigi per incontrare gli assassini. I colloqui, che avvengono nelle abitazioni private come in luoghi pubblici (il cimitero di Montmartre), sono brevi e numerosi. A volte, riportano gli investigatori, prima d’entrare in una casa Bergamin «scrive qualche parola su un pezzo di carta» da consegnare all’interlocutore. Di tutti questi soggetti osservati, non ce n’è uno che lavori. Ma i soldi non mancano. Ancora Bergamin, il 10 ottobre, acquista pregiate bottiglie di vino e di champagne in un negozio di rue Mouffetard.

Il residence di lusso. Le pagine dei diari dell’antiterrorismo, che hanno un’anonima copertina bianca, senza scritte, sono una meticolosa sequenza di dettagli (molti degli sbirri di oggi dovrebbero leggerli e rileggerli). Ore 13.20: «Bergamin, per la terza volta, va su sagrato di Notre-Dame, dove incontra un individuo alto m 1,80, capelli castani, 35-40 anni, grossi occhiali di tartaruga, indossa un jeans e un impermeabile beige, porta una borsa da viaggio a tracolla». Un altro dei pedinati, Salvatore Nicosia, «potrebbe abitare al 6 di passage Barrault. Il numero 6 corrisponde a una palazzina di due piani, in cattivo stato, della larghezza di due finestre. Questa costruzione si trova in fondo a un giardinetto separato dal passage Barrault da un muro in rovina, macchiato da graffiti multicolori». «Bergamin telefona all’angolo aux Ours e Saint-Martin dalla cabina n° 42777553, esce, si dirige al 47 di rue Montmorency dove vive Oreste Scalzone» (l’ennesimo terrorista), mentre una delle donne che poco prima l’hanno incontrato «entra in un negozio di vestiti e paga con una carta blueu n° 497400060....». Nel medesimo hotel di Battisti, vive una ragazza, che ha fornito copertura: «Nel corso del soggiorno nell’albergo di una sola notte, ha effettuato tre telefonate: 42007393: Merabet Ghana, 9 rue du Plateau, Parigi; 45808565: Corand André, 83 rue de l’Amiral-Mouchez, Parigi; Sanchez Marie Angele, 17 rue Eugene Carriere, Parigi». Indirizzi, numeri, descrizioni. Ecco tre persone frequentate da Bergamin: «L’uomo: 1,75, 35 anni, capelli castani corti, giubbotto blu e jeans; una donna: 1,65, 30 anni, capelli castano chiari e corti con meches, pullover e gonna nera; un’altra donna: 1,65, 30 anni, capelli medio lunghi neri, giubbotto e jeans». Sono stati (e restano) protetti, e chissà se potranno mai pagare il conto per i morti ammazzati. Nei diari compare uno dei covi, un immobile in rue de la Marne: «È un residence di lusso, nel quale si entra tramite quattro civici, il 79, l’81, l’83 e l’85. Tutte le porte sono sempre chiuse a chiave. Il parcheggio sotterraneo è situato sotto tutta la lunghezza dell’immobile. La porta dietro l’atrio che dà sul parcheggio è chiusa a mezzo di una chiave speciale che solo gli abitanti detengono».

Salvini rilancia: “Trenta ex terroristi nel mirino”. Sul tavolo del ministro i nomi dei ricercati, scrive il 19 gennaio 2019 "Il Dubbio". Salvini incassa e rilancia. Dopo aver “portato a casa” l’ex terrorista Battisti e il favore dei sondaggi, il ministro leghista fa sapere che in giro per il mondo ci sarebbero ancora tenta terroristi latitanti, 27 di sinistra e tre di destra: i loro nomi, a quanto si apprende da fonti del Viminale, sarebbero già sul tavolo del vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini. Si tratta dell’elenco aggiornato che Intelligence e Forze dell’Ordine hanno rielaborato dopo l’arresto di Cesare Battisti. Dei trenta, 14 sono localizzati in Francia. Il governo italiano, su impulso di Salvini, è pronto a passi ufficiali per chiedere collaborazione ai Paesi che stanno ospitando i latitanti. A partire da Parigi. L’obiettivo è “assicurare i terroristi alla giustizia italiana, come avvenuto per Cesare Battisti”. Neò frattempo esplode il caso dell’ex Br Lojacono: «L’Italia non ha mai chiesto la mia estradizione alla Svizzera e una consegna come la richiede la Lega equivarrebbe a una deportazione alla boliviana, che la Confederazione non prevede», fa sapere l’ex brigatista condannato all’ergastolo per la strage di via Fani, oggi cittadino svizzero. «Forse l’Italia non ha voluto che uno stato straniero mettesse il naso nel processo Moro. Sarebbe comprensibile – afferma l’ex br -. Qualunque sia la ragione non sono le autorità svizzere, nè una mia presunta opposizione, ad aver creato l’impasse attuale». Se l’Italia ora si muovesse con una richiesta di ’exequatur’, ossia del riconoscimento in Svizzera, delle sentenze emesse in Italia nei suoi confronti, «accetterei senza obiezioni – dichiara Lojacono – almeno metteremmo la parola fine a questa vicenda», e all’intervistatore che gli chiede se accetterebbe l’ergastolo, risponde «sì».

Simone di Meo per “la Verità” il 20 gennaio 2019. Si sono rifatti una vita, dopo aver annientato quelle degli altri. C' è chi ha trovato spazio nel mondo della cultura, chi della ristorazione, chi dell'insegnamento. Terroristi (rossi, in maggioranza, e neri) che si sono rifugiati all' estero con la speranza di farsi dimenticare. Sono 30, e i loro nomi sono inseriti in un dossier che le forze dell'ordine e l'intelligence hanno consegnato al ministro dell'Interno Matteo Salvini. Un atlante dell'eversione che spazia dal Nicaragua all' Argentina, alla Svizzera e persino al Giappone passando per il Perù e la Gran Bretagna. Quattordici di questi ricercati però si trovano in Francia, e sono quelli che - per vari motivi - potrebbero diventare presto oggetto di trattativa diplomatica e giudiziaria tra il loro Paese d' origine e quello di approdo. Fonti del Viminale assicurano che «il governo italiano», su input del vicepremier leghista, «è pronto a passi ufficiali per chiedere collaborazione ai Paesi che stanno ospitando i latitanti. A partire dalla Francia. L' obiettivo è assicurare i terroristi alla giustizia italiana, come avvenuto per Cesare Battisti». Il quale, non a caso, aveva fatto fortuna come romanziere noir proprio sulle sponde della Senna prima di scappare in Sudamerica. La relazione degli 007 italiani analizza a fondo le posizioni processuali di 27 terroristi rossi e di 3 neri lasciando intravedere, in diversi casi, margini operativi di intervento politico. Nei giorni scorsi la portavoce della ministra della Giustizia francese, Nicole Belloubet, aveva dichiarato che future domande di estradizione di rifugiati in Francia, «che saranno ricevute prossimamente da parte delle autorità italiane» verranno analizzate «in modo approfondito, caso per caso, come abbiamo fatto negli ultimi 15 anni. Al momento», aveva però precisato la portavoce, «non abbiamo liste di persone coinvolte». A Parigi vive e lavora come editore Giorgio Pietrostefani, fondatore insieme ad Adriano Sofri di Lotta continua, condannato a 22 anni di carcere per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi. La stessa pena che deve scontare Giovanni Alimonti, che oggi fa l'insegnante di italiano. A 23 anni è stata condannata, per banda armata e concorso in omicidio, Paola Filippi: nel frattempo è diventata cittadina francese e oggi si mantiene lavorando come interprete e aiuto psicologa. Fu coinvolta nelle indagini sull' agguato al macellaio Lino Sabbadin insieme proprio a Battisti e al fidanzato dell'epoca, Diego Giacomini. Secondo il giudice Pietro Forno «si comportava da capo e dimostrava una freddezza che non aveva nemmeno il Battisti». È nutrita la schiera degli ergastolani che passeggiano sotto la Tour Eiffel. Ci sono Enrico Villimburgo e Roberta Cappelli, ritenuti colpevoli a vario titolo di diversi omicidi (Antonio Varisco, Vittorio Bachelet, Girolamo Minervini, Enrico Galvaligi, Michele Granato) e del rapimento del giudice Giovanni D' Urso. Massimo Carfora è titolare, invece, di una società di organizzazione eventi. Condannati all'ergastolo e localizzati in Francia anche Simonetta Giorgieri e Carla Vendetti (delitto Moro), Sergio Tornaghi (legato alla colonna milanese «Walter Alasia»), e Marina Petrella. Nel 2008, quest' ultima - dopo uno sciopero della fame in carcere che l'aveva portata a perdere 20 chili e una minaccia di suicidio - evitò di un soffio l'estradizione in Italia solo grazie all' intervento dell'allora presidente transalpino Nicolas Sarkozy. Massimo Bergamin, condannato a 26 anni, fa il traduttore a Metz. Vincenzo Spanò (Comitati per la liberazione proletaria) ha un ristorante come Maurizio Di Marzio (condannato a 15 anni). Si tratta soprattutto di brigatisti, ma non mancano fuggitivi appartenenti ad altre sigle che, negli ultimi anni, sono transitati per la Francia: Enzo Calvitti (condannato a 21 anni), Paolo Ceriani Sebregondi, Gino Giunti, Franco Pinna, Enrico Porsia (ha la cittadinanza francese), Alfredo Ragusi e Giulia Riva, Raffaele De Blasi (cellula per la costituzione del Partito comunista combattente); Paola De Luca, Giovanni Vegliacasa, Francesco Nuzzolo, Giancarlo Santilli e Anna Soldati (Prima linea); Raffaella Esposito e Walter Grecchi (Autonomia operaia, condannato a 14 anni); Ermenegildo Marinelli (Mcr); e Silvio Raffaele Ventura (Formazioni comuniste combattenti). La cattura di Battisti agita il mondo dei terroristi fuggiaschi: il latitante in Svizzera Alvaro Lojacono (condannato in contumacia all'ergastolo per vari delitti, fra cui l'omicidio dell'attivista greco Miki Mantakas nel 1975) ha rilasciato un'intervista alle Iene per affermare che «Salvini non mi fa paura». Il ministro ha ribattuto ancor prima della messa in onda del servizio: «Essere insultato da un assassino terrorista in vacanza in Svizzera per me è una medaglia: rida finché è in tempo, faremo tutto il possibile perché finisca finalmente in galera in Italia». Per tutte queste estradizioni è vitale la volontà politica delle autorità estere, in particolar modo francesi. Tant' è che Salvini ha immediatamente annunciato che «se serve», è «pronto a partire per Parigi per incontrare Macron, pur di riportare in Italia questi assassini». Confermando così la linea dura del Viminale sia sul fronte estero sia su quello interno. Nel corso di una diretta Facebook, difatti, tornando a parlare del decesso di Arafette Arfaoui, italiano di origini tunisine di 32 anni, morto a Empoli mentre era ammanettato e legato ai piedi durante una perquisizione della polizia, dopo che aveva dato in escandescenze, il ministro dell'Interno ha difeso l'operato delle forze dell'ordine intervenute nella cittadina toscana: «Se i poliziotti non possono usare le manette per fermare un violento, che cosa devono fare? Rispondere con cappuccio e brioche?».

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 20 gennaio 2019. I «francesi» sono la metà esatta: 15 su 30 (sebbene nel conteggio reso noto dal ministro dell'Interno ci si fermi a 14). Ma ammesso e non concesso che il governo di Parigi decida di riaprire la questione sobbarcandosi polemiche che Oltralpe sono garantite, non tutti sarebbero estradabili. Oltre agli «assassini» ergastolani di cui parla Salvini, infatti, nell' elenco confezionato dagli investigatori ce ne sono molti (6 su 15) condannati a pene che hanno un termine (dai 27 anni in giù). E la legge italiana prevede che trascorso un periodo pari al doppio di quello stabilito dalle sentenze, quelle stesse sentenze non siano più eseguibili. Sono prescritte. Alcuni dei nomi compresi nella lista hanno già raggiunto quella condizione, e se ancora figurano tra i ricercati è solo perché alle forze di polizia italiane non risulta che gli interessati abbiano chiesto l'estinzione della pena. Se però la pratica per un'eventuale estradizione fosse davvero riaperta, finirebbe per richiudersi quasi automaticamente. Per tutti o quasi gli ergastolani e i «rifugiati» con condanne più basse, inoltre, la Francia ha già detto «no» alla riconsegna, anche se dopo verdetti altalenanti: da Marina Petrella, il cui rientro fu bloccato dal presidente Sarkozy per motivi umanitari legati alla sua salute, a Giovanni Alimonti, Enrico Villimbugo, Paolo Ceriani Sebregondi e altre persone che di tanto in tanto salgono alla ribalta delle cronache proprio perché latitanti a Parigi e dintorni, non certo in quanto nomi famosi della lotta armata. Probabilmente solo per Giorgio Pietrostefani (che peraltro non ha mai fatto parte di una formazione terroristica, era un capo di Lotta continua condannato per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi) non risulta sia stato mai aperto un dossier. O per qualche personaggio minore, che però rientra nella categoria dei prescritti o prescrivibili a breve. Come altri, più noti, che per questo motivo sono stati depennati dall' elenco, anche se periodicamente le loro foto ricompaiono tra i ricercati: per esempio Carla Venditti e Simonetta Giorgieri, ex br, che vengono chiamate in causa ogni qualvolta l'argomento torna di attualità; o l'ex militante dei Colp (Comunisti Organizzati per la Liberazione Proletaria) Massimo Carfora, divenuto un imprenditore di successo, per il quale sono state dichiarate non più eseguibili anche le condanne più pesanti. Sono tornati liberi cittadini. Nonostante ciò se ne riparla poiché ciclicamente la questione torna alla ribalta. Soprattutto dopo che, tra il 1999 e il 2002, le «nuove» Brigate rosse riaprirono l'emergenza terrorismo uccidendo i professori Massimo D' Antona e Marco Biagi. In attesa di scoprire e smantellare il nuovo gruppo clandestino (che nulla aveva a che fare con i «rifugiati») investigatori e politici ripresero a fare pressioni sulla Francia per farsi restituire qualche ergastolano. Il «caso Battisti», per il quale Parigi aveva già detto «no» una prima volta, nacque da lì, e s' è trascinato fino a pochi giorni fa. Un altro ministro leghista, l'ex Guardasigilli Roberto Castelli, s' era impegnato con la collega Dominique Perben per riavere Roberta cappelli ed Enrico Villimburgo, ex militanti della colonna romana delle Br, ma non ci riuscì. E così il suo successore Clemente Mastella. Ora è possibile che qualche fascicolo venga riaperto, con esiti del tutto imprevedibili. Ma non ci sono solo i «francesi». Anzi, i due ex brigatisti più «importanti», se non altro perché parteciparono al sequestro di Aldo Moro, si trovano il primo in Nicaragua e il secondo in Svizzera. Fanno parte della lista, ma solo se si azzardano a uscire dai rispettivi Paesi di adozione rischiano qualcosa. Altrimenti non sembra esserci alcuna possibilità. Qualche anno fa, approfittando della sua passione per la pesca sportiva, la polizia italiana cercò di spingere Casimirri in Costa Rica, da dove sarebbe stato più semplice riportarlo indietro, ma senza successo. E Loiacono (che a differenza dell'altro la pena per un omicidio l'ha scontata) è cittadino svizzero, quindi l'estradizione è pressoché impraticabile. Di alcuni componenti della lista - per esempio l'ex br Lorenzo Carpi, che quarant' anni fa partecipò all' omicidio del sindacalista Guido Rossa - non si sa nemmeno dove abbiano trovato rifugio. Particolare che rende quasi impossibile l'impresa di portarli in una galera italiana. Ma sul piano della contabilità, rispetto alle circa 6.000 persone inquisite o condannate per terrorismo, 30 nomi sono lo 0,5 per cento.

Battisti & C., dove sono e cosa fanno gli ex terroristi? Mentre Cesare Battisti è in fuga, ecco la nuova vita di Renato Curcio, Barbara Balzerani, Mario Moretti e altri ex terroristi, tra libri e conferenze, scrive Eleonora Lorusso il 3 gennaio 2019 su Panorama. Di Cesare Battisti in Brasile si sono perse le tracce non appena è circolata la notizia del mandato di arresto nei suoi confronti e della possibile estradizione in Italia. L’ex terrorista è ufficialmente “latitante” e la polizia federale ha diffuso una sua foto segnaletica accompagnata da 20 rielaborazioni di come potrebbe essere ora (con barba o capelli bianchi, barba o cappello). Ma che fine hanno fanno altri ex esponenti delle Brigate Rosse e terroristi? Di alcuni non si hanno più notizie, mentre altri non mancano di alimentare ciclicamente polemiche, come Barbara Balzerani che la scorsa primavera, in occasione dei 40 anni dal sequestro di Aldo Moro ha presentato un nuovo libro accusando le vittime del terrorismo di approfittare della loro condizione. O come Renato Curcio, tra i fondatori delle BR, arrestato, evaso, condannato, uscito di prigione e al centro di una recente bufera per essere stato scelto come destinatario di un premio dell’ANPI (riconoscimento poi cancellato). Cosa fanno e dove vivono oggi gli ex “leader” degli anni di piombo?

Cesare Battisti. “Se mi arrivasse un invito ad andare e prendere un aereo per riportare in Italia un terrorista e un delinquente, che ha morti e morti sulla coscienza e che non dove starsene in spiaggia in Brasile ma in galera in Italia, io lo prendo al volo”. Così il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, il 16 dicembre a poche ore dalla notizia della scomparsa di Cesare Battisti in Brasile. Gli abitanti di Cananeia, dove risiedeva abitualmente da tempo, non lo vedono dal 28 ottobre, giorno della vittoria di Bolsonaro alle elezioni. Il nuovo presidente brasiliano in campagna elettorale aveva promesso di concedere l’estradizione dell’ex brigatista all’Italia. Il 14 dicembre un giudice federale ne ha ordinato l’arresto per “evitare il pericolo di fuga in vista di un’eventuale estradizione”. Ma il 63enne ex leader dei Proletari armati per il comunismo, condannato in Italia per 4 omicidi, si è dato alla fuga prima di essere catturato, forse diretto in Bolivia. Si trovava in Brasile dal 2010, quando aveva ottenuto la residenza permanente dall’ex presidente Lula Da Silva nell’ultimo giorno del suo mandato.

Renato Curcio. E’ stato tra i fondatori delle Brigate Rosse, condannato a 28 anni come mandante dell’omicidio di Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola (marzo 1974), due militanti del Movimento Sociale Italiano uccisi nella sede del partito in via Zabarella a Padova. Curcio scrisse il volantino di rivendicazione insieme agli altri dirigenti delle BR. Arrestato, evaso e tornato in cella più volte, all’indomani dell’uccisione di Aldo Moro definì l’omicidio “il più alto atto di umanità possibile per i proletari comunisti e rivoluzionari, in questa società divisa in classi”. Oggi, a 77 anni, Curcio è tornato a dedicarsi alla sociologia, studiata da universitario a Trento. Dopo aver fondato una cooperativa che si occupa di immigrati, disabili e detenuti, stava per ricevere un premio dall’ANPI, a Orsara di Puglia, paese d’origine della madre. Sarebbe salito in cattedra e tenere un seminario sull’Analisi sociale sulle condizioni di vita in alcune istituzioni italiane, con particolare attenzione a carceri, orfanotrofi e case di cura per anziani. Ma la lezione e la successiva cerimonia (con consegna da parte del Sindaco di una pergamena dell’ANPI alla memoria di Antonio Curcio, zio di Renato e giovane partigiano morto in guerra) sono saltate all’ultimo momento, dopo le polemiche scatenate dalla notizia. L’associazione dei partigiani ha fatto marcia indietro, prendendo le distanze dall’iniziativa, nel frattempo annullata dal primo cittadino del comune del foggiano. Curcio non ha commentato.

Barbara Balzerani. “Fare la vittima è ormai un mestiere”. Così Barbara Balzerani, in occasione della presentazione di un suo libro, lo scorso marzo a Firenze, criticando “questa figura stramba per cui la vittima ha il monopolio della parola. Io non dico che non abbiano diritto a dire la loro, figuriamoci. Ma non ce l’hai solo te il diritto, non è che la storia la puoi fare solo te” aggiunse, suscitando reazioni di condanna. Queste parole sono state pronunciate, infatti, in occasione dei 40 anni dell’anniversario della strage di via Fani in cui venne ucciso Aldo Moro. Un omicidio che vide coinvolta in prima persona la ex terrorista, membro delle Brigate Rosse dal 1975, arrestata a giugno dell’85, condannata a sei ergastoli e poi tornata in libertà nel 2011 dopo 21 anni di carcere. A gennaio del 2018 aveva già fatto discutere con un post su Facebook, in cui aveva scritto: “Chi mi ospita oltre confine per i fasti del 40nnale?”. Oggi la Balzerani, quasi 70enne, è una scrittrice prolifica con all’attivo libri come Compagna luna e Perché io, perché non tu, o Cronaca di un’attesa, o ancora Lascia che il mare entri.

Francesca Mambro. Anche la ex terrorista “nera” Francesca Mambro è stata al centro di polemiche. Dopo sei condanne all'ergastolo per vicende legate al terrorismo di destra, è intervenuta alla festa di Comunione e Liberazione del 2004 insieme a Nadia Mantovani, ex componente della direzione strategica delle Brigate Rosse ed ex compagna di Curcio. Entrambe sorridenti, hanno raccontato della propria vita e delle proprie esperienze da un palco del consueto meeting di Rimini. Nonostante le parole di pentimento (“Abbiamo scelto una strada senza uscita” ha detto Mambro, ex leader dei Nar, i Nuclei Armati Rivoluzionari) e “misericordia”, non sono mancate le critiche. Le stesse rivolte alla ex brigatista rossa Mantovani. Oggi Mambro è ancora imputata nel processo bis sulla strage di Bologna, insieme al marito Giusva Fioravanti, anche se ha sempre negato ogni responsabilità in quell’episodio, rivendicando invece decine di altre azioni dei NAR. E’ stata condannata complessivamente a 9 ergastoli, per un totale di 84 anni e 8 mesi di reclusione. Nel 1998 è stata ammessa al regime di semilibertà, trasformato nel 2002 in detenzione domiciliare speciale. Dal 2013 la pena è definitivamente estinta.

Nadia Mantovani. Quanto alla Mantovani, ex militante di Autonomia Operaia, entro poi nelle BR e fu compagna di Curcio, dopo la morte della moglie di quest’ultimo Margherita Cagol. Nota col nome di battaglia di Giulia, partecipò all’assalto alla sede della Dc di Mestre. In seguito venne arrestata, condannata ai domiciliari dai quali fuggì, e ricatturata nel covo brigatista di via Montenevoso a Milano, per poi essere condannata a 20 e 2 mesi per terrorismo, banda armata, sequestro di persona (per il coinvolgimento del rapimento Moro), rapina e associazione sovversiva. Si è dissociata dalla BR nel 1985 ed è diventata amica della Mambro dopo aver diviso con lei la cella per tre anni. Ha terminato di scontare la sua pena nel 1996 e ha fondato l’associazione Verso casa, che si occupa di reinserimento di detenuti nella società.

Alberto Franceschini. Ex terrorista ed ex fondatore delle BR insieme a Curcio e Cagol, anche Franceschini è diventato scrittore. Nel 1974 organizzò e partecipò al sequestro del giudice Mario Soss a Genova, liberato un anno dopo; arrestato, rivendicò dal carcere anche il delitto Moro, salvo poi prendere le distanze dalla violenza delle Br. Ottenuti i domiciliari alla fine degli anni ’80, dal 1992 la pena è stata ritenuta definitivamente stinta. Franceschini ha iniziato a lavorare presso l’Arci a Roma, come dirigente di una cooperativa che si occupa di immigrati, minori a rischio, tossicodipendenti e detenuti. Nel 2007 suscita polemiche (e l’intervento dell’ex Capo dello Stato, Napolitano) un suo intervento in tv da via Fani, nel quale racconta del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro e della scorta. Nel corso degli anni ha rilasciato numerose interviste sulla sua storia da ex brigatista e sullo stesso tema ha scritto diversi libri a partire dal 1988, tra i quali Che cosa sono le Br. Le radici, la nascita, la storia, il presente.

Mario Moretti. Anima delle Brigate Rosse, principale ideatore e organizzatore del sequestro Moro, fu lui a interrogare l’esponente politico durante i 55 giorni di prigionia e si ritiene sia stato l’esecutore materiale del suo omicidio. Dopo 9 anni di clandestinità, viene arrestato nel 1981 a Milano e condannato complessivamente a 6 ergastoli. Pur ammettendo il fallimento del progetto di lotta armata, non si è mai dissociato dalle BR e non ha mai voluto collaborare con gli inquirenti. Dal 1997 ha ottenuto il regime di semilibertà e presta servizio per il centro di recupero di ex detenuti Giorno dopo, facendo ritorno in cella alla sera nel carcere milanese di Opera. Sono una quindicina i libri dei quali è protagonista l’ex leader brigatista: tra questi anche Brigate Rosse. Una storia italiana, scritto insieme alle giornaliste Carla Mosca e Rossana Rossanda, entrate per sei giorni nell’istituto di pena per intervistarlo.

Giorgio Panizzari. Componente dei NAP, i Nuclei Armati Proletari, Panizzari venne arrestato nel 1970 insieme ad altri esponenti della formazione di estrema sinistra e condannato nel ’72 per l’omicidio di un orefice nel corso di una rapina. Dal carcere ha rivendicato il rapimento del giudice Giuseppe Di Gennaro, e ha sostenuto e partecipato a diverse rivolte di detenuti: al manicomio giudiziario di Aversa, dove nel ’74 sequestrò due guardie e ne ferì una, a Viterbo, dove ferì altre due guardie, infine all’Asinara, insieme ai brigatisti Curcio e Franceschini nel ‘79. Le BR ne avevano chiesto la liberazione in cambio di quella di Aldo Moro. Nell’84 fece scalpore la sua protesta contro la condizione in cella, perché arrivò a cucirsi i genitali e la bocca. Nel 1993 ha ottenuto la semilibertà, lavorando in una cooperativa informatica. Nuovamente arrestato per una serie di rapine in banca compiute con tre terroristi dei Nar anche loro in semilibertà, è stato assolto in appello, ma senza poter tornare in semilibertà. Per questo inizia uno sciopero della fame. Nel 1998 l’allora Capo dello Stato, Scalfaro, gli ha concesso la grazia. Nel frattempo ha scritto due libri, Il sesso degli angeli e Libero per interposto ergastolo. E’ stato coinvolto nelle indagini per l’omicidio di Massimo D’Antona e per costituzione di banda armata.

Massimo Canfora. Ex Lotta Continua e Prima linea, nel 1983 fu classificato dalle forze dell’ordine come appartenente al gruppo di Sergio Segio, uno degli ultimi e inafferrabili leader del terrorismo, arrestato quello stesso anno. Si disse che poteva contare su “pedine di rilievo nel nuovo gotha del terrorismo”. Collaborò con i Comunisti Organizzati per la Liberazione Proletaria e i Nuclei Comunisti, che avevano come scopo principale la liberazione dei compagni imprigionati e l’attacco alle carceri speciali. Ma è sempre riuscito a sfuggire all’arresto. Ufficialmente latitante il 62enne vivrebbe a Parigi dove sarebbe diventato imprenditore, fondando una casa editrice che nel 2016 si dice abbia fatturato oltre un milione e mezzo di euro.

Giuseppe Valerio Fioravanti. Insieme alla moglie, Francesca Mambro, Giuseppe Valerio Fioravanti (detto Giusva) rappresenta l’esponente di maggiore spicco e fama del terrorismo cosiddetto “nero”: ha fondato i Nuclei Armati Rivoluzionari, considerati dei estrema destra. Prima bambino prodigio come attore negli anni ’60 (nel popolare sceneggiato La famiglia Benvenuti), poi militante del Movimento Sociale Italiano, a metà degli ’70 diede vita i NAR. Il Tenente, come era soprannominato, venne arrestato nel 1981 e condannato complessivamente a 8 ergastoli, per un totale di 134 anni e 8 mesi di reclusione. Non ha mai rinnegato le sue responsabilità, tranne che per la strage di Bologna, a cui continua a dirsi estraneo. Dal 2004 ha ottenuto la liberazione condizionale. Cinque anni più tardi, come previsto dalla legge, e dopo 26 anni di detenzione, è tornato un uomo libero ottenendo la patria potestà sulla figlia. Dagli anni ’90 collabora con l’associazione Nessuno tocchi Caino, contro la pena di morte e in favore dei reinserimento sociale dei detenuti. Una decina i libri sulla sua storia, tra i quali quello firmato in prima persona, Questi benedetti genitori… Un libro per bambini che possono leggere anche i grandi, pubblicato nel 1969 dalle Edizioni Paoline. Sull’ex NAR e la moglie è stato realizzato anche un film nel 2014, Bologna 2 agosto... i giorni della collera firmato dai due registi i due registi Giorgio Molteni e Daniele Santamaria Maurizio. Nel 2004 Francesco Patierno aveva progettato un film sui due terroristi “neri” (Banda armata), ma le proteste dei familiari delle vittime e un esposto di Mambro e fioravanti fermarono i lavori in fase di pre-produzione. Nel 2011 lo stesso Patierno ha firmato un docufilm su Fioravanti.

Pochi in carcere. E gli altri? Dei protagonisti degli “anni di piombo” sono in pochi ad essere ancora in carcere. Dei 6.000 che vennero arrestati nel corso degli anni perché coinvolti a vario titolo nelle stragi terroristiche, oggi sono in carcere in poco più di una cinquantina, meno dell’1%. Tra questi ci sono personaggi protagonisti di episodi più recenti, come Nadia Desdemona Lioce, appartenente alle Nuove Brigate Rosse, condannata per aver partecipato agli omicidi Biagi e D’Antona. Molti degli ex terroristi degli “anni di piombo”, invece, sono ancora latitanti, per lo più fuggiti all’estero. L’elenco ufficiale ne conta 36. Tra c’è Paolo Ceriano Sebregondi, nobile poi diventato brigatista, condannato all’ergastolo per omicidio, ma che da tempo vivrebbe in Francia. Maurizio Baldesseroni, invece, era tra i componenti di Prima Linea e fu protagonista della strage di Via Adige a Milano, dove con altri terroristi fece irruzione in un locale nel 1978 aprendo il fuoco con pistole e fucili a pallettoni per la caccia al cinghiale. Per quel gesto non ci fu ufficialmente alcun “movente politico”. Non è chiaro se sia ancora vivo: le ultime notizie lo davano attivo nel traffico di droga in Perù. Incerto anche il destino di Sergio Tornaghi, ex BR condannato all’ergastolo, e di Oscar Tagliaferri, coinvolto anch’egli nella strage di Via Adige. Vivrebbe, invece, in Francia Ermenegildo Marinelli, ex membro del Movimento Comunista Rivoluzionario, che sarebbe diventato imprenditore nel settore del commercio all’ingrosso nella cittadina di Vincennes.

Cesare Battisti non era l’unico: sono 50 i terroristi ancora in fuga, scrive il 13 gennaio 2019 Mauro Indelicato su ""Gli Occhi della guerra" de "Il Giornale". L’arresto di Cesare Battisti desta ovviamente clamore, in quanto potrebbe a breve porre fine ad una pluridecennale fuga dell’ex membro dei proletari armati per il comunismo dalla giustizia italiana. Ma la vicenda che riguarda Cesare Battisti non è che la punta di un iceberg. Di quell’epoca buia per il nostro Paese, segnata dal terrorismo, dalle stragi e dal periodo di piombo dove le ideologie si scontrano a colpi di pistola per le strade, rimane ancora ampia traccia in giro per il mondo con i tanti protagonisti di allora latitanti o ricercati all’estero. La storia degli anni Settanta quindi, non è ancora chiusa ed anzi appare oggi drammaticamente attuale: sono 50 i terroristi per i quali da anni si aspetta il normale corso della giustizia. 

Dove sono i terroristi protagonisti della stagione di fuoco degli anni ’70. Nomi, volti, biografie, condanne ed elenco di crimini commessi: nelle bacheche degli uffici che ospitano la direzione centrale della Polizia criminale, da anni è possibile scorrere l’elenco dei dati aggiornati di chi ancora, dopo essere stato protagonista di crimini ed attentati, si ritrova fuori dalle patrie galere. Secondo per l’appunto il Centro ricerca sicurezza e terrorismo, come riferisce l’AdnKronos, sono cinquanta i terroristi in fuga. Latitanti, ricercati oppure ben protetti dalla propria rete di contatti o dagli Stati che li ospitano. I casi analoghi a quelli di Cesare Battisti sono ancora tanti, troppi per un paese che a fatica prova a chiudere i conti con un passato ingombrante dove il ricordo della stagione di sangue è ancora vivo nell’opinione pubblica. Ad esempio, chi all’epoca risulta essere ancora un ragazzo ricorda perfettamente il 16 marzo 1978: l’Italia si ferma alle 10:00 del mattino perché l’edizione straordinaria del Tg1 mostra i corpi senza vita degli uomini della scorta di Aldo Moro. È la strage di via Fani, a Roma, che dà il via al sequestro moro che culmina poi con l’uccisione dell’ex presidente del consiglio. E tra chi si trova in via Fani quel giorno, mascherato con delle divise dell’Alitalia, c’è anche Alessio Casimirri. Il terrorista affiliato alle Brigate Rosse è tra coloro che rapisce l’esponente democristiano e fredda i ragazzi della scorta. Condannato a sei ergastoli, Casimirri è libero e vive in Nicaragua. Dal 1998 è sposato con una donna nicaraguense ed ha la cittadinanza del paese centroamericano, in cui si trova dal 1982 e dove, tra le altre cose, partecipa alla lotta dei sandinisti contro i contras. Tra chi partecipa all’azione criminale di via Fani, vi è anche Alvaro Lojacono. Anche lui oggi è libero e vive da uomo libero a ridosso dei confini italiani: il terrorista ha infatti cittadinanza elvetica e non può essere estradato dalla sua residenza svizzera. L’elenco di paesi che ospitano terroristi italiani è lungo: Francia, Brasile, Nicaragua e Svizzera appunto, ma anche Perù, Algeria, Angola, persino il Giappone. Nel sol levante vive infatti Delfo Zorzi, ex appartenente di Ordine Nuovo. In Argentina invece risulta la presenza di Leonardo Bertulazzi, ex colonna delle Br genovesi. Vi è poi, nell’elenco dei terroristi ricercati, una vecchia conoscenza di Cesare Battisti: si tratta di Germano Fontana, il quale dovrebbe trovarsi in Spagna. 

La Francia e la “dottrina Mitterrand”. Ma è soprattutto la Francia ad ospitare i criminali protagonisti in Italia della stagione degli anni di piombo. Sui cinquanta terroristi per i quali si aspetta ancora l’arrivo della giustizia, trenta sono nel paese transalpino. Questo perché dagli anni ’80 e fino ai primi anni 2000 risulta in vigore una legge passata nota poi, a livello mediatico, come “dottrina Mitterrand”. A volerla è infatti l’ex presidente francese, in carica dal 1981 al 1995. Secondo questa disposizione, il governo francese valuta la possibilità di non concedere l’estradizione verso paesi in cui il sistema giudiziario non corrisponda “all’idea che Parigi ha della libertà”. Una norma applicata seguendo un’interpretazione molto “larga”: di fatto, per ottenere protezione dalla Francia, basta non essere implicati in azioni che minano la sicurezza transalpina. Ecco perchè decine di terroristi trovano a Parigi un porto sicuro. Ed ancora oggi, come detto, almeno trenta sono lì. Spicca, tra i vari nomi, quello di Giorgio Pietrostefani: si tratta del fondatore di Lotta Continua, implicato nell’omicidio del commissario Luigi Calabresi per il quale ha addosso una condanna di 22 anni. Scorrendo l’elenco, si trovano poi le ex brigatiste Simonetta Giorgieri e Carla Vendetti, così come Sergio Tornaghi e Giovanni Alimonti, anche loro affiliati fino agli anni ’80 alle Brigate Rosse. In Francia si trovano anche esponenti di Prima Linea, come ad esempio Giancarlo Santilli. Emblematico è poi il caso di Marina Petrella, libera nel paese transalpino in quanto la giustizia francese le ha riconosciuto lo status di prigioniera politica. La caccia dunque agli ex terroristi è ben lontana dall’essere chiusa e, con essa, appare lontana anche la definitiva chiusura di una delle pagine più terribili della nostra storia recente. 

Dalla Francia, al Perù: dove sono i latitanti «rossi» e «neri» che l’Italia non può riavere. Sono una quarantina i condannati all’estero: la maggioranza in Francia, protetti da decenni dalla «dottrina Mitterrand». Pietrostefani e Manenti hanno anche profili sui social network, scrive Claudio Bozza il 13 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera". Tanti in Francia, protetti dalla «dottrina Mitterand». Sono una quarantina le «primule rosse» latitante all’estero. Sono quasi tutti ex terroristi o condannati per fatti degli «anni di piombo». E quasi tutti sono da decenni in Francia, protetti dalla «dottrina Mitterrand». Che f varata nel 1982 dal presidente francese: «La Francia valuterà la possibilità di non estradare cittadini di un Paese democratico autori di crimini inaccettabili», nel caso di richieste avanzate da Paesi «il cui sistema giudiziario non corrisponda all’idea che Parigi ha delle libertà». Il presidente francese si opponeva a certi aspetti della legislazione anti-terrorismo approvata in Italia negli anni 1970 e 1980. La «dottrina Mitterrand», secondo il principio iniziale, non si sarebbe dovuta applicare in caso di gravi fatti di sangue, ma molti condannati per omicidio sono stati comunque protetti.

Tornaghi, uccise un carabiniere. E’ in Francia.

Tagliaferri, da Prima linea alla fuga in Perù.

Villimburgo, pluriomicida imprendibile.

Pietrostefani ha anche un profilo Twitter.

Spadavecchia, il «nero» in fuga a Londra.

Bertulazzi, il brigatista fuggito in Argentina.

Manenti, lavora come tuttofare tramite Facebook.

Lojacono, protetto in Svizzera con un nuovo nome.

Grillo, l’ex di Potere operaio vive a Managua.

Giorgieri, la Br toscana in Francia da 40 anni.

Casimirri, la «primula rossa» col ristorante sul mare.

Petrella, «salvata» da Sarkozy.

Trentatrè terroristi in libertà Tra bella vita e amici potenti. Sono pluriergastolani, ma c'è chi ha aperto un locale, chi è diventato svizzero e chi aspetta la prescrizione, scrive Fausto Biloslavo, Lunedì 14/01/2019, su "Il Giornale". I terroristi italiani ancora latitanti in un sicuro rifugio all'estero sono 33, dei quali 28 rossi (e 15 delle Brigate rosse), ancora in vita e individuati. Uno dei casi più eclatanti riguarda Alessio Casimirri condannato in contumacia a 6 ergastoli per il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro. Il brigatista ha aperto un ristorante in Nicaragua e si è fatto pure fotografare con enormi pescioni catturati grazie alla sua passione per le immersioni. Come Battisti ai tempi del presidente Lula in Brasile sarà difficile convincere l'ex guerrigliero marxista Daniel Ortega, che guida il paese con il pugno di ferro, a rimandarci il terrorista italiano. La Francia è sicuramente il paese più ospitale per i latitanti degli anni di piombo, dove aveva trovato scampo alla cattura pure Battisti. Grazie alla dottrina Mitterrand, dal nome del presidente francese che aprì le porte ai terroristi se rinunciavano alla lotta armata. A Parigi vive da tempo Giorgio Pietrostefani, dirigente di Lotta continua condannato a 22 anni di carcere assieme ad Adriano Sofri per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi. Si è sempre proclamato innocente e la pena andrà in prescrizione nel 2027. I cugini d'Oltralpe ospitano le ex brigatiste Simonetta Giorgieri e Carla Vendetti condannate all'ergastolo nel processo Moro ter. Le due terroriste sono state chiamate in causa anche per i delitti D'Antona e Biagi. In Francia avrebbe trovato rifugio Sergio Tornaghi, milanese della brigata Walter Alasia condannato all'ergastolo per partecipazione a banda armata. Nel nord del Paese sarebbe riparato pure Giovanni Alimonti, leader delle Br-Pcc condannato a 22 anni al processo Moro ter. Il caso più controverso riguarda Marina Petrella condannata all'ergastolo per omicidio. L'ex presidente Sarkozy ha negato l'estradizione per motivi umanitari. Sua moglie, Carla Bruni, è sempre stata sospettata di essere coinvolta nelle coperture che hanno garantito a Battisti di lasciare la Francia per il Brasile senza scontare un solo giorno di cella in Italia. In Europa hanno trovato rifugio anche terroristi neri come Vittorio Spadavecchia, che ha fatto parte dei Nuclei armati rivoluzionari ed era fuggito dopo l'assalto alla sede dell'Olp di Roma. Un altro brigatista, Mauro Lojacono, coinvolto nell'agguato di via Fani, fuggì prima in Algeria, poi in Brasile e alla fine in Svizzera. Non sarebbe estradabile perchè ha la cittadinanza elvetica. Alcuni latitanti sono stati dichiarati morti presunti, come Franco Coda, uno dei fondatori di Prima Linea, che ha ucciso l'agente di polizia Fausto Dionisi. In realtà potrebbe essere ancora vivo dopo aver fatto perdere le sue tracce fra Brasile, Venezuela e Cuba. Pure il terrorista rosso Maurizio Baldasseroni è fuggito in sud America senza dare più sue notizie. Nel 2013 il nipote che voleva vendere un appartamento a Milano intestato pure allo zio latitante aveva fatto domanda di morte presunta, che per il momento è stata respinta. Altri terroristi avrebbero trovato rifugio in Libia ai tempi di Gheddafi, Angola e Argentina, ma quasi tutti hanno sempre mantenuto un basso profilo al contrario di Battisti. Ieri il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, dal palco della Scuola di formazione politica della Lega a Milano ha dichiarato: «Ci sono altre decine di assassini a piede libero in Europa e nel mondo. Utilizzeremo tutte le energie possibili per riportarli nelle carceri italiane».

«Quando nascono i tribunali muoiono le rivoluzioni». A cinquant’anni dal Sessantotto un viaggio nella memoria con il leader del movimento studentesco. Intervista di Daniele Zaccaria del 26 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Conversare con Oreste Scalzone è un’esperienza proustiana e futurista allo stesso tempo. Il flusso della memoria scorre come un torrente, ma non è sempre un corso tranquillo, dalle acque affiorano improvvisi i vortici, e il gorgo dei ricordi procede agitato da un demone errante, con lo sguardo che punta fisso l’orizzonte in una specie di eterno presente. «Sono un ipermnesiaco (lo sviluppo eccessivo della memoria n. d. r.), anche se ogni tanto, come diceva Freud e come accadeva nel Rashomon di Kurosawa, posso vivere qualche illusione di memoria». Cinquant’anni fa, quando la società occidentale venne travolta dalla rivoluzione del ‘ 68, Scalzone era un giovane leader del movimento studentesco. In questi giorni di celebrazioni museali che fanno di quell’annata formidabile una specie di Risorgimento scamiciato, Scalzone accetta di tornare sul “luogo del delitto” per abbozzare quella che lui chiama con modestia una “anti- celebrazione”, una “anti- cerimonia”. Ma prima di tornare a quei giorni di marzo ‘ 68 vuole togliersi un sassolino dalla scarpa: «Questa vicenda dei fascisti che avrebbero avuto contatti con il movimento studentesco per organizzare gli scontri di Valle Giulia è una totale fake- memory che si basa unicamente sulle dichiarazioni di Delle Chiaie Stefano, detto “caccola”. Delle Chiaie era odiato in primis dai fascisti per così dire “puri”, che lo vedevano come un uomo dei servizi segreti. Il movimento non aveva alcuna contezza di quelle dinamiche, è probabile che ci furono tentativi di infiltrazione che però non riuscirono. I fascisti erano arroccati nella facoltà di giurisprudenza e il comitato di agitazione dell’Ateneo aveva deciso semplicemente di ignorarli, come fossero un tumore morto, non li vedevamo e intorno a loro c’era una specie di cordone sanitario. Le cose cambiarono la notte tra 15 e il 16 marzo, quando delle squadre di picchiatori del Msi entrarono alla Sapienza attaccarono i loro extraparlamentari sgomberandoli manu militari i e attaccarono il picchetto del movimento a Lettere ferendo alcuni compagni».

Cosa ricordi di quella mattina?

«Arrivai all’università di buon ora, quelli del Msi si erano già asserragliati dentro giurisprudenza con gli onorevoli Almirante e Caradonna. A quel punto noi lanciammo un attacco improvvido, generoso ma improvvido, tanto che avanzando potevamo contare i feriti, dall’alto ci lanciavano di tutto, biglie di ferro, vetri, oggetti di ogni tipo, poi sento uno schianto, la panca lanciata dall’alto colpisce di sbieco una sedia con cui malamente mi coprivo…, il contraccolpo mi schiaccerà due vertebre, vengo trascinato via, mi portano in ospedale, intanto la battaglia continua. Alcuni compagni scovano una porta secondaria e riescono a entrare, sono una dozzina e si trovano soli davanti Almirante, avrebbero potuto linciarlo, ma comprensibilmente esitarono, e l’attimo passò, fortunatamente non si aveva la stoffa di linciatori… A quel punto entrò in forze la polizia. Ora, per chi sostiene che ci fosse ambiguità tra il movimento e l’estrema destra, cito il dottor Paolo Mieli e il professor Agostino Giovagnoli, cosa avremmo dovuto fare? Linciare Almirante per dimostrare il contrario? Peraltro su quei giorni continuano a essere scritte e dette enormi sciocchezze. Molte ispirate da un misero “pasolinismo” di ritorno».

Cosa intendi?

«Parlo di questa divisione artificiosa tra i poliziotti figli del proletariato mandati nelle città a prendersi le botte dagli studenti figli della borghesia. Di sicuro Paolo Mieli era un figlio della borghesia, io ero un semplice pendolare di Terni, ma di cosa parliamo? Alla Sapienza c’erano più di 70mila iscritti, l’università era già un luogo di massa e nel movimento c’era di tutto, compresi i figli dei “cafoni” del sud, i figli degli operai mandati a studiare nella grande città per diventare ingegneri. Certo, la maggioranza dei leader proveniva da famiglie istruite ma solo perché, come diceva Don Milani, possedevano le parole sufficienti per diventare i capi, nelle facoltà e nelle piazze però il protagonista era altro, no?»

Pasolini si sbagliava dunque?

«Di sicuro si sbagliava sulla composizione sociale del movimento studentesco, e dire che sarebbe bastato aver ascoltato un mezzo discorso di Franco Piperno, non dico di aver letto Marx. Si sbagliava anche nella sua mitologia poetica della classe operaia che per lui era incarnata solamente dagli operai con la tuta e le mani callose e “professionali” quando già allora la figura centrale erano gli operai di catena, in gran parte immigrati dal Sud, quelli che si raccontano in Vogliamo tutto! di Balestrini; inoltre già allora avanzava il precariato tra le giovani generazioni. Si è sbagliato anche sulla natura del Pci, in questo sono d’accordo con lo storico Giovanni De Luna, Pasolini dice ai giovani di andare verso il Pci, pensare che quel movimento potesse andare verso il Partito comunista era una sciocchezza. Neanche il segretario Luigi Longo aveva il coraggio di affermare una cosa simile. Infine si sbagliava sui poliziotti, per lui erano «dei bruti innocenti» in quanto li riteneva delle bestioline irresponsabili, «li hanno ridotti così». Anche in questo caso è una lettura semplicistica, basterebbe un po’ di piscoanalisi, penso a Willelm Reich: esiste un margine di responsabilità in chi commette atti brutali e sadici, è la psicopatologia dell’ultimo dei crociati che s’intruppa dietro Pietro l’Eremita a fare la “teppa eterna” mentre a Gerusalemme, scrivono gli storici, «il sangue arrivava alle ginocchia». La stessa teppa descritta da Varlam Salamov nei Racconti di Kolyma che in quel caso erano i cechisti, ma potremmo parlare anche delle Guardie rosse, di chi andava a evangelizzare di chi andava islamizzare, di chi andava a colonizzare».

Un rapporto mortale e mimetico quello della sinistra rivoluzionaria e libertaria con il potere e la violenza costituita.

«Prendendo spunto dal Foucault di Microfisica del potere, quando si costituisce un tribunale del popolo o del proletariato, una giustizia istituita, la mutazione è già avvenuta, la rivoluzione è già diventata controrivoluzione. Il passaggio da «potere costituente» a «costituito», come dice Agamben, è stato la tragedia di tutte le «Rivoluzioni» che hanno «preso il potere». Questo, microfisicamente, è sempre in agguato anche per noi. Nei giorni del rapimento Moro, ero convinto che il movimento dovesse “interferire” con le Brigate Rosse per scongiurare il rischio che si lasciassero sospingere ad un epilogo annunciato, atteso e come prescritto della sentenza di morte».

Più volte hai criticato la sinistra e il suo antifascismo razziale, cosa intendi?

«Mi vengono in mente (oltre a Sergio Ramelli) i fatti di Acca Larentia: se un commando di estrema sinistra apre il fuoco su un gruppetto di ragazzotti fascisti uccidendone due e poi quelli escono con il sangue agli occhi e le forze dell’ordine ne uccidono un altro, io mi sento molto a disagio come dissi all’epoca a Giorgio Bocca che mi intervistò per Repubblica. Non si possono trattare i fascisti come fossero dei “diversi”, questo è un approccio etnico, razziale al conflitto politico e l’antifascismo rischia di diventare un ulteriore strumento di regime. All’epoca fui molto criticato per questa mia posizione, in questo caso come che Guevara, che per inciso è stato anche un uomo feroce: «Dobbiamo essere implacabili nel combattimento e misericordiosi nella vittoria»».

Il “fascismo” viene continuamente evocato come fosse il sinonimo, l’equivalente generale, del male assoluto.

«Potrei rispondere che le parole sono importanti, e che l’equivalenza fascismo- male assoluto è contraddittoria perché due totalità non possono convivere. Partirei invece dal fascismo storico, il cui demiurgo è stato Benito Mussolini, una figura di un’ambiguità degna del post- moderno. Mussolini aveva certamente letto il Manifesto del partito comunista, ma ignorava il primo libro del Capitale. Di padre anarchico e di madre maestrina dalla penna rossa, diventa già da molto giovane la figura di punta della sinistra massimalista italiana come scrisse lo stesso Lenin. Un personaggio social- confuso, ma pure questa non è necessariamente una colpa, anche il mio amico Pannella poteva sembrare un Cagliostro liberal- liberista che mischiava tutto. Soreliano, socialista, prima pacifista che gridava «guerra alla guerra», poi il transito per l’interventismo democratico di Salvemini un’area in cui peraltro passarono anche Gramsci e Togliatti. Poi si riconverte ancora, approda all’irredentismo, da avventuriero sfrutta il reducismo dei “terroni di trincea” messi in conflitto con gli operai delle fabbriche del nord, visti come un’aristocrazia operaia dei Consigli che partecipava alla produzione di guerra. Da talentuoso avventuriero Mussolini riesce a mischiare tanti elementi, ruba il nome dei Fasci siciliani, si prende il nero della camicia degli anarchici, si porta dietro sindacalisti rivoluzionari come De Ambris e Corridoni, si prende il futurismo suprematista italiano ma anche russo e crea uno strano melange, quasi un kitsch post- moderno».

L’antisemitismo era connaturato al regime?

«No, Mussolini non era un antisemita. Nel ‘ 32, rispondendo a una domanda sulla questione ebraica che gli pose il biografo tedesco Emil Ludwig afferma secco: «Quella è roba vostra. Cose da biondi, da tedeschi». Le svolte successive del regime vennero prese per opportunismo e non per convinzione ideologica. Però in tutto questo kitsch infinito rimane un elemento essenziale e coerente che può definire il fascismo: la guerra alle organizzazioni operaie, non alla classe operaia in quanto tale che può essere cooptata dalle corporazioni, ma alle sue organizzazioni, dalle più riformiste alle più sovversive. Quello è il nemico, la sua ossessione persistente, come l’antisemitismo fu l’ossessione psicotica dei nazisti. Qui c’è un filo conduttore che porta dritto al complottismo, un paradigma sinistro, che può guidare anche quelli che sventolano le bandiere rosse e di qualsiasi colore. Detto tutto questo vorrei però chiarire un punto».

Prego.

«I termini contano anche in quanto autodefinizioni, “terrore” nasce come autodefinizione di Saint Just e Roberspierre, “totalitarismo” non è una parola inventata da Hannah Arendt ma da Mussolini Benito proprio per definire il suo regime».

Oggi in Europa esiste un rischio concreto che movimenti o regimi di estrema destra, razzisti e autoritari prendano il sopravvento?

«Prendiamo il caso Traini, lo psicopatico neonazista e ultras leghista di Macerata che voleva compiere una strage di migranti, su questo punto la penso come Felix Guattari: Traini è senz’altro uno psicopatico ma se dieci psicopatici si mettono una divisa delle Sa non possono essere liquidati come dei malati di mente, diventano dei ne-mi-ci. E qui nasce un grandissimo problema. In questo sono d’accordo con l’analisi Bifo che parla di “inconscio disturbato della nazione”».

Qual è il più grande nemico della sinistra?

«È un nemico interno e si chiama complottismo, una vera e propria tragedia culturale, un pensiero demoniaco e cospirazionista che diventa responsabile di quella mutazione di cui parlavo, il passaggio dal potere costituente al potere costituito, mi piace citare Agamben e la sua riuscita formula (di risonanza spinoziana) “potenza destituente”. Per il complottismo qualsiasi gesto di rivolta, dal Camus dell’- Homme revolté al suicidio di Jan Palach è sempre un gesto manipolato, eterodiretto, ma il complottismo vive di falsità, di contro- revisionismi e generalizzazioni, non tocca mai un dente a quelli che chiama manipolatori, è inoffensivo per il potere ma letale per chi combatte il potere».

Il destino degli esseri umani è la ribellione?

«Non esercitare l’inferenza per la specie umana la pone al di sotto delle altre specie, la nostra specie si sporge fuori dall’essere per inseguire la conoscenza, l’arte, la politica. A differenza dei girini e dei puledri noi nasciamo prematuri, iniziamo a camminare a un anno e mezzo mentre il puledro cammina già poche ore dopo la nascita. Il leone è un predatore e caccia la gazzella che in quanto preda tenta di fuggire, nessuno di loro è felice o infelice. Noi invece, per realizzarci, abbiamo bisogno della protesi della conoscenza. L’albero del peccato in tal senso è proprio una bellissima metafora del nostro destino.

E il futuro?

«Il futuro non esiste, il futuro è la narrazione dei dominanti».

Buttiglione: “Il ’68? Aveva bisogno di Gesù invece ha scelto Marx…”. Rocco Buttiglione, filosofo allora ventenne, parla del Sessantotto. Intervista di Giulia Merlo del 25 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  Lo racconta col sorriso di chi parla di una stagione felice e ingenua, com’è quella parte della giovinezza che forma il carattere e la visione del mondo. Per Rocco Buttiglione, nato a Gallipoli nel 1948, il Sessantotto è stato l’anno di una rivoluzione fatta di fede più che di lotta di classe e sfociato poi in un’organizzazione – Comunione e Liberazione – che rispondeva alle domande di una generazione con le parole del Vangelo di Giovanni. Eppure, da cattolico, si è sentito parte di quel grande movimento studentesco, ricorda le stesse piazze e, in fin dei conti, ne ha condiviso la stessa esigenza di cambiamento.

Lei a vent’anni che ragazzo era?

«Dov’ero, prima di tutto. Nel 1967 mi ero appena immatricolato alla facoltà di giurisprudenza a Torino e nel novembre di quell’anno iniziò l’occupazione studentesca di Palazzo Campana, che era la sede delle facoltà umanistiche. A Torino, però, arrivai prima, durante l’adolescenza. La mia famiglia si spostava molto e, seguendo il lavoro di mio padre, a Torino arrivai da Catania e mi volli iscrivere al liceo Massimo D’Azeglio, tempio della cultura torinese e dell’anticlericalismo. Mi consigliarono subito di ripensarci ma io mi intestardii: mi presentai in classe molto fiero del mio perfetto accento siciliano e scoprii che lì essere meridionale e cattolico non era un vanto. I torinesi erano imbevuti di cultura azionista e dunque fortemente anticattolica, mentre antimeridionali lo erano senza saperlo, gli veniva naturale».

Come stava un meridionale cattolico a Torino?

«Innanzitutto persi l’accento catanese, poi scoprii che anche i torinesi avevano i loro complessi di inferiorità. Verso l’estero, però, e in particolare nei confronti degli Stati Uniti e della scienza tedesca. Ironicamente, il fatto che parlassi correntemente inglese e tedesco riscattò il fatto che fossi meridionale e cattolico. Poi all’università trovai un porto franco: l’istituto di scienze politiche era presieduto da Alessandro Passerin d’Entrèves, professore cattolico, ma anche ex capo della resistenza e insegnante ad Oxford. Per questo suo profilo esterofilo e partigiano godeva di una sorta di immunità e aveva creato uno spazio in ateneo in cui i cattolici erano tollerati. Nel Sessantotto l’idea era che l’Università fosse nostra, un luogo in cui non eravamo ospiti e dove si imparava non un mestiere, ma un sapere critico che indagava la verità dell’uomo».

Come si spiegava questo antagonismo nei confronti dei cattolici?

«A Torino interagivano tradizioni diverse: io venivo da una famiglia che aveva combattuto la guerra contro i tedeschi e per i miei genitori la resistenza era stata la lotta per la liberazione dell’Italia. A Torino, invece, per molti la resistenza era una cosa diversa: era stata una lotta per il comunismo, interrotta dall’intervento degli americani, che sconfissero i tedeschi e occuparono il Nord, e del Vaticano, che mobilitò il popolo per votare contro un governo comunista. Ecco, per chi era cresciuto in quella prospettiva, il Sessantotto era la grande occasione per portare a termine la rivoluzione incompiuta che era stata la resistenza».

Si avvicinò allora alla politica?

«Nel 1967 fondai con un gruppo di amici Gioventù Studentesca, un movimento cattolico da cui poi nacque Comunione e Liberazione e che fu parte del movimento studentesco».

Partecipavate alle manifestazioni di piazza coi vostri colleghi dei gruppi di sinistra?

«Sì certo. Uno dei punti caratteristici del movimento era la scelta della non violenza e l’idea del sit-in. Ci siedevamo tutti, poi arrivava la polizia che ci prendeva di peso e ci portava via. Ricordo che i poliziotti ci alzavano quasi con garbo e anche con una certa simpatia nei nostri confronti. Era il novembre del 1967. Poi, l’anno dopo, mi trasferii a Roma e anche qui fondai Gioventù studentesca».

Voi cattolici vi sentivate parte del movimento giovanile?

«Nel ‘ 67 moltissimo. Non eravamo discriminati, organizzavamo i nostri controseminari ed eravamo parte di quel grande movimento generazionale. Perchè questo è stato: un enorme movimento di massa, centrato sul bruciante desiderio di rompere con l’ipocrisia della società che ci circondava e di creare rapporti nuovi, fondati sulle relazioni interpersonali. In una parola, volevamo liberarci dall’egoismo individualistico per creare una nuova comunità. La nostra era una domanda di autenticità».

E avete trovato una risposta?

«Noi pensavamo che la fede cristiana fosse la risposta. Ancora oggi, sono convinto che la grande domanda generazionale del Sessantotto fosse prima di tutto una domanda religiosa, non una domanda politica. Il terrorismo successivo, che cominciò nel 1969, nasce proprio da questo errore: l’idea di dare una risposta tutta politica a una domanda religiosa».

Quanto ha litigato coi militanti della sinistra?

«Moltissimo. Ricordo una discussione con Mario Capanna, qualche anno dopo il 1968, a Milano. Comunione e Liberazione cresceva e noi ci consideravamo parte del movimento studentesco, ma Capanna voleva spiegarci che non era vero. Io obiettai che anche noi eravamo pronti a condividere la lotta di classe come lotta per la giustizia, ma lui mi rispose che non era sufficiente. Mi disse: «Anche se dite co- sì, per voi al primo posto non ci sarà mai la lotta di classe ma Gesù Cristo. Quindi siete dei reazionari, in questa università non avete diritto di parola e non ci metterete mai piede». Sei mesi dopo, Cl vinse le elezioni alla Statale».

Il Sessantotto è stato anche il momento della rottura con un certo modello di famiglia. Lo fu anche per i cattolici?

«Anche noi, solidarmente con la nostra generazione, eravamo in rivolta contro le nostre famiglie. La differenza, però, stava nel fatto che a questa rivolta offrivamo un’altra prospettiva educativa, in chiave critica ma non di rottura. Noi pensavamo che il conflitto è un elemento necessario ma positivo, poi si deve riconciliare: contestare significa non prendere alla lettera gli insegnamenti ma verificarne la veridicità nella propria vita, mettendo alla prova i valori proposti. Contestavamo piuttosto un certo modo di essere famiglia e ci siamo riconciliati con essa cambiando profondamente i modelli di interazione familiare».

E’ stata la declinazione cattolica di quello che fu la cosiddetta “liberazione sessuale”?

«Noi l’abbiamo vissuta come l’acquisizione di libertà rispetto alla coazione familiare, ma anche l’acquisizione di una responsabilità. Una delle cose di cui sono più grato a Cl e a Don Giussani è che ci ha insegnato a innamorarci, ad avere fiducia nel nostro innamoramento, a sposarci, avere figli, fare famiglie e a vivere il sesso come forza che salda due destini individuali creando una comunità. Ecco, questo pensiero non è stato molto diffuso ed è stata una grave perdita, sia per gli uomini che per le donne».

A proposito di donne, il Sessantotto ha visto fiorire i movimenti femministi.

«Io considero il Sessantotto come un movimento largamente maschile e anche con tratti maschilisti: la liberazione sessuale è stata vissuta in modo prevaricante nei confronti delle donne. Il femminismo è emerso dopo, ma nel Sessantotto l’immagine della donna era ancora quella della segretaria, con in più la libertà di usarla sessualmente».

Quanto c’è, allora, di mitico in quella stagione vista a cinquant’anni di distanza?

«Il Sessantotto è stato una grande occasione perduta. E’ stato una speranza: per un attimo c’è stata la sensazione che un’altra vita fosse possibile, ma le mani in cui questa sensazione è stata posta erano fragili. Subito si è perduta ed è poi degenerata. In un’immagine, penso al Giudizio universale: Dio tende la mano verso l’uomo, ma questa volta l’uomo non l’ha afferrata».

In questa degenerazione c’è il lato oscuro di un movimento che oggi viene celebrato?

«Io credo che si sia vissuta una riedizione in commedia del grande dramma del Novecento, con le sue religioni secolari. In termini teologici si potrebbe dire: si mette qualcosa al posto di Dio. Quando anche l’ideale più alto viene messo al posto di Dio, questo diventa demoniaco: la giustizia sociale diventa comunismo, la nazione diventa fascismo. La politica si presentò come risposta a una domanda religiosa e si trattò di una risposta inadeguata e di per sè, dunque, rovinosa».

Perchè dice che fu l’eccesso di politica a generare il terrorismo?

«La prima esigenza dell’uomo non è la politica, ma la religione. Dal modo in cui io definisco il mio rapporto con Dio deriva anche il modo in cui definisco il mio rapporto con gli uomini e dunque la mia capacità di avere misericordia per le loro imperfezioni. I terroristi travisarono l’intuizione di portare il regno di Dio su questa terra, identificandolo con il comunismo. In quegli anni veniva citato spesso Engels, in un passo di un libretto su Ludwig Feuerbach: «L’essenza della dialettica è che tutto ciò che è merita di morire». Per loro, davanti al bene assoluto che coincideva con la rivoluzione, tutto ciò che c’era perdeva valore e meritava disprezzo».

E dunque legittimava sparare?

«Alcuni anni dopo, nel 1977, le Brigate Rosse uccisero Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa. Il figlio Andrea era militante di Lotta Continua e ricordo che scrisse un bellissimo articolo: «Anche io ho sempre detto che la lotta di classe è al primo posto, ma non immaginavo che potesse venire anche prima della dignità e del rispetto dell’uomo»».

Quando avvertì la rottura con lo spirito del Sessantotto e l’inizio della stagione successiva?

«Per me fu nel marzo del 1969. A Roma c’era una grande manifestazione di studenti delle medie, che venivano in corteo alla città universitaria. I fascisti erano asserragliati dentro a Giurisprudenza, i gruppuscoli dell’ultrasinistra stavano dentro Lettere e la grande maggioranza del movimento era fuori, perchè era una bella giornata di sole. D’un tratto, capimmo che i fascisti volevano uscire per aggredire i ragazzi, così organizzammo un cordone non violento per impedirglielo. Loro ci vennero incontro agitando le bandiere e, quando arrivarono vicini, smontarono le bandiere e tirarono fuori le mazze ferrate. Ci diedero un sacco di botte e ci sbaragliarono, fino a quando i gruppi della sinistra uscirono da Lettere e li ricacciarono dentro Giurisprudenza. Io rimediai una lesione al ginocchio, quel giorno per me è finito il Sessantotto ed è iniziata un’altra storia».

Con il 1969 cominciò un’altra storia.

«Anche nel movimento del Sessantotto c’erano i gruppi dell’ultrasinistra, ma erano fondati su un’idea di comunismo comunitario, che i marxisti definirebbero di socialismo utopistico. I gruppi armati di scienza marxista- leninista e mazze ferrate vennero dopo, e occuparono il campo. Da allora il movimento di massa finì, chi parlava a nome degli studenti non era più uno studente, la partecipazione crollò drammaticamente. Iconograficamente, il passaggio si compì quando, in manifestazione, smettemmo di chiedere “Vietnam libero” e si iniziò a urlare “Vietnam rosso”».

Cosa ha spinto quegli stessi giovani a prendere le armi?

«Le cito un capitolo della Fenomenologia dello spirito di Hegel, che si intitola “La libertà assoluta e il terrore”. Ecco, il tentativo di realizzare la libertà assoluta in chiave politica induce a rivolgersi con spietata violenza contro tutto ciò che c’è, perchè nulla è adeguato all’ideale. L’uomo di ieri va spazzato via perchè totalmente corrotto e i riformisti, quelli che identificano il cambiamento come un percorso a tappe, sono dei traditori. I gruppi che imbracciarono le armi si consideravano gli unici depositari della giusta visione, mentre tutti gli altri erano massa dannata. Nel loro calvinismo rivoluzionario furono indotti a svalutare ogni limite, soprattutto quello della legge, pur di mettere la lotta di classe al primo posto».

In che modo, invece, Cl ha guidato quella stessa generazione?

«Cl era un fenomeno di massa e col tempo divenne largamente maggioritario tra gli studenti attivi, vincendo tutte le elezioni universitarie. Il legante che ci cementava come gruppo sta nel nome stesso: la risposta alla domanda di liberazione dei giovani è la comunione cristiana. Questo ha significato amicizie che duravano una vita, sostegno nelle necessità materiali, creazione di una comunità che nasceva dall’incontro con Cristo come rottura dell’individualismo edonistico. Leggevamo spesso il Vangelo di Giovanni, capitolo XV e seguenti, in cui è contenuta la metafora della vite e dei tralci: chi riconosce Cristo come sua identità vera diventa più che un fratello e nasce un legame che è più forte di quella della carne. Io sono convinto che la fede fosse la risposta alla crisi di quella generazione».

Eppure verrebbe da obiettarle che, per soddisfare la richiesta di cambiamento di cui lei diceva all’inizio, la politica fosse la strada obbligata.

«Io amo la politica e l’ho fatta per 24 anni, ma per fare una politica realistica bisogna fare i conti con gli uomini per come sono e avere la capacità di perdonare al finito il fatto di non essere infinito. Questo si può fare solo capendo che la società è imperfetta: si può provare a renderla meno imperfetta, ma essa non sarà mai il regno di Dio. In altre parole, la domanda di regno di Dio deve trovare una risposta in qualcosa di diverso dalla società stessa, perchè altrimenti si tenta di imporre al terreno una perfezione che non è in grado di raggiungere. Ecco, solo sapendo che il regno di Dio non è di questo mondo ma che è il modello dal quale partire per migliorarlo, si può fare bene politica».

Dunque è stato sbagliato mitizzare quella stagione, che tanto ha inciso su quella successiva, caratterizzata dal terrorismo?

«Quando tenti di spiccare il volo ma non ce la fai, cadi e ti fai male. Non per questo, però, era sbagliato provare a volare».

La storia del brigatista Casimirri mai estradato in Italia, scrive il 14 gennaio 2019 Massimo del Papa su Lettera 43. Al contrario di Battisti, pochi conoscono la sua storia di terrorista e i politici non ne parlano, ma ha avuto un ruolo di primo piano nell'agguato di Via Fani. Ora vive in Nicaragua e gode di protezioni eccellenti. Se la cattura in Bolivia dell'esponente dei Pac (Proletari Armati per il Comunismo) Cesare Battisti sembra avere chiuso definitivamente la latitanza più famigerata degli Anni di piombo, esiste però tutta una serie di terroristi, rossi e neri, ancora da riscattare; fra questi ce n'è uno, assai rilevante sul piano storico, che non ha scontato un solo giorno di carcere e che da quasi 40 anni risulta blindato in Nicaragua. Si tratta del brigatista Alessio Casimirri, nome di battaglia “Camillo”, 67 anni ottimamente portati, coinvolto nella strage di via Fani del 16 marzo 1978 insieme alla ex moglie Rita Algranati, a sua volta chiamata in causa dal capo Br Mario Moretti, che ne rivelò partecipazione e ruolo alle giornaliste Rossana Rossanda e Carla Mosca nel 1993 per il libro Brigate Rosse - Una storia italiana (Mondadori). Ma se la vicenda penale per quest'ultima può dirsi esaurita con la cattura nel 2004 all'aeroporto del Cairo dopo prolungata latitanza in Algeria, per Casimirri la questione rimane apertissima, blindato com'è da un intreccio di poteri che, di fatto, lo rendono un intoccabile.

IL BRIGATISTA FIGLIO DI UN ALTO FUNZIONARIO DEL VATICANO. Scrive Sergio Flamigni nel suo libro La prigione fantasma (Kaos edizioni): «E' un dato di fatto che nella zona dove il 16 marzo [1978] si persero le tracce dei terroristi in fuga con l'ostaggio c'erano proprietà del Vaticano (palazzi e terreni dello Ior, la banca papale). Così come è certo che lungo quel tragitto di fuga un ruolo lo ebbe il brigatista Alessio Casimirri, figlio di un alto funzionario del Vaticano, e Casimirri sarà il solo brigatista, tra quelli identificati del commando di via Fani, a sottrarsi all'arresto: con l'aiuto dei servizi segreti, espatriò in Nicaragua, da dove non verrà mai estradato».

IL PADRE DIRESSE LA SALA STAMPA DI TRE PONTEFICI. Più nel dettaglio, la vicenda di Casimirri ha dell'incredibile per moltissimi aspetti, uno più inquietante dell'altro. Il combattente “Camillo”, infatti, ha radici saldamente piantate nel microuniverso della Santa Sede: la madre era una cittadina vaticana, il padre, Luciano Casimirri, diresse la Sala stampa vaticana sotto tre pontefici: Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI (che battezzò e comunicò il piccolo Alessio). Il giovane Alessio, ex militante di Potere operaio, segnalato nel 1975 in un rapporto dei carabinieri come soggetto «fazioso e violento», confluisce nelle Br nel 1976 e vi resta almeno fino 1980 prendendo parte all'azione più eclatante, quella in cui viene annientata la scorta del presidente Dc Aldo Moro, prigioniero senza ritorno. Subito la sua figura risulta al centro di parecchie stranezze, come una immediata perquisizione ancora nel pieno del sequestro di Moro, il 3 aprile 1978, nella sua casa di via del Cenacolo, 56 a La Storta, con contestuale perquisizione anche dell'abitazione dei genitori in via Germanico, 42, a ridosso del Vaticano: segno che gli inquirenti avevano già un quadro piuttosto chiaro della sua rilevanza in seno alle Br. Gli atti di indagine tuttavia non sortiscono alcun esito, così come non avrebbe portato a niente un successivo fermo, non confermato, risultante da un misterioso cartellino fotosegnaletico conservato nell'archivio del Nucleo investigativo dei carabinieri di Roma in data 4 maggio 1982, la cui effettiva attribuzione rimane dubbia; ciò che indusse la II Commissione parlamentare Moro – i cui atti vengono ripresi ancora nel recentissimo nuovo volume di Flamigni, Il quarto uomo del delitto Moro (Kaos edizioni) - a manifestare ulteriori riserve: «[...] fatto enorme […] che [a Casimirri] diede la possibilità di sottrarsi a due mandati di cattura e di proseguire la latitanza».

LA II COMMISSIONE MORO: «COSTANTE COPERTURA E PROTEZIONE». Ma siamo solo all'inizio. Casimirri, più volte segnalato, denunciato, perquisito, trova modo di recarsi nel 1980 in una stazione dei carabinieri ai quali consegna armi senza per questo destare giustificati sospetti; ancora due anni dopo, da ricercato, può ritirare quanto a lui dovuto dal datore di lavoro prima di darsi alla latitanza ed espatriare, verosimilmente con un passaporto rozzamente contraffatto a nome Guido Di Giambattista: entra in Francia, e, passando per Mosca, approda finalmente, e definitivamente, in Nicaragua. Secondo plurime risultanze di indagine, tra le quali la già citata II Commissione Moro, Casimirri ha potuto usufruire di «costante e ripetuta protezione nel nostro Paese, di cui […] godere in molte fasi della sua vita con modalità e intensità diverse e in molteplici ambiti». Non solo, come è ovvio, grazie alla potente influenza dei familiari, ma anche «con analoghi percorsi, elementi di collaborazione, più o meno ufficiale, con strutture dello Stato». L'ex compagno di militanza brigatista Raimondo Etro riferì alla Commissione una voce che voleva Luciano Casimirri, padre di Alessio, in rapporti di confidenza con il generale Giuseppe Santovito, capo del Sismi e affiliato alla loggia massonica coperta P2. Non è tutto. Sempre circa le ambigue protezioni in grado di sottrarre Casimirri alla cattura, è ancora la stessa II Commissione Moro a ipotizzare «un quadro inquietante di protezioni... [che contemplano] l'esistenza di un rapporto tra il generale dei carabinieri Francesco Delfino e Casimirri, il quale sarebbe stato dunque una sorta di infiltrato dell'Arma nelle Brigate Rosse»; ipotesi «valorizzata [dal giudice Antonio Marini e che], trova fondamento nelle dichiarazioni rese da Bou Ghebi Ghassan», un cristiano maronita libanese implicato in traffici di droga, alle autorità giudiziarie prima di Brescia e poi di Roma.

OGGI IN NICARAGUA GESTISCE UN RISTORANTE. Sta di fatto che l'ex bambino vaticano resta intoccato ed è l'unico fra tutti i suoi compagni di militanza. In Nicaragua ha dapprima collaborato col regime sandinista di Ortega contro i Contras, addestrando le truppe speciali in attività militari subacquee, delle quali è sempre stato esperto fin da giovane (altra circostanza che ha indotto qualcuno a ricondurlo più ad un ruolo da militare infiltrato che da terrorista); quindi, ottenuta nel 1988 la cittadinanza nicaraguense e messa su famiglia, ha aperto un ristorante rinomato e assai frequentato, oltre che gravido di richiami, più o meno criptici, al suo torbido passato. Ma per tutti egli è lo chef, un amico, uno che a tavola ti ridà la vita, seppure a prezzi non esattamente proletari. Pochissimi sanno di via Fani, di Moro, e anche del magistrato Girolamo Tartaglione, caduto esattamente 4 mesi dopo Moro, il 10 ottobre 1978, per mano di “Camillo” e di “Otello”, nome di battaglia di Alvaro Lojacono. Due richieste italiane di estradizione, nel 2004 e nel 2015, sono cadute come foglie morte. La sua vicenda è a suo modo esemplare di quella zona grigia di connessioni e protezioni statali e poliziesche che ha avvolto tanti terroristi, di destra e di sinistra, lui più di ogni altro. Oggi i Contras hanno problemi in Nicaragua, forse passeranno anche loro, ma Casimirri resterà. Alla luce del sole, senza doversi nascondere.

Alessio Casimirri, un altro Cesare Battisti. Membro del commando che rapì Moro: ora fa lo chef in Nicaragua. Alessio Casimirri, un altro Cesare Battisti: membro del commando che rapì Moro, ora fa lo chef in Nicaragua protetto dal regime sandinista, scrive Silvana Palazzo su "Il Sussidiario" il 2 gennaio 2019. Cesare Battisti è ancora latitante: la caccia in Brasile prosegue con la promessa del presidente Jair Bolsonaro di consegnare all’Italia il terrorista dei Pac. Ma non è l’unico fuggitivo: l’altro è Alessio Casimirri, che fece parte del commando delle Br che freddò in via Fani i cinque uomini della scorta di Aldo Moro. Personalmente uccise il giudice Girolamo Tartaglione. Prima di essere condannato ad ergastoli plurimi, scappò in Africa e poi in Nicaragua, dove approdò con l’alias Guido Di Giambattista. A parlarne oggi è La Verità, spiegando che Casimirri nella notte di San Silvestro ha offerto le sue specialità di pesce nel suo rinomato ristorante alla periferia di Managua, la capitale appunto del Nicaragua. Qui ha anche combattuto contro il tentativo dei Contras, paramilitari sostenuti dagli Usa, di rovesciare il governo rivoluzionario, quindi nel 1988, dopo la vittoria, ottenne la cittadinanza, anche perché aveva sposato una donna del posto da cui ha avuto due figli. Dopo aver fatto l’istruttore dei sub per le truppe speciali nicaraguensi, ha costruito una villa e aperto due ristoranti. Estradizione? Niente da fare: nel 2004 la Corte costituzionale nicaraguense ha negato la richiesta italiana. Nel 2015 il ministro della Giustizia Andrea Orlando annunciò l’intenzione di riportare Alessio Casimirri in Italia. Da allora però la vicenda è tornata nel silenzio totale. Nel 2017 c’è stato un piccolo “ritorno di fiamma” sui media grazie al lavoro svolto dalla commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio Moro, ma tutto cadde di nuovo nell’oblio. Così Casimirri ha continuato a lavorare ai fornelli. Nel suo locale stupisce per il suo estro e la freschezza delle sue materie prime. Come riportato da La Verità, cattura anche personalmente il pesce a San Juan e coltiva vicino al ristorante le verdure. C’è anche chi apprezza la locanda proprio per i precedenti penali del proprietario: «Piatti stupendi preparati da un ex brigatista italiano mai passato dalle carceri grazie a protezioni in alto loco. Una esperienza unica! L’ex brigatista, ora cuoco, ci ha accolto con “quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così” che hanno i reduci dagli Anni di piombo. Niente da dire», recita una recensione su TripAdvisor. Nel menù c’è anche un omaggio ad un brigatista recentemente scomparso, Prospero Gallinari, da cui prende il nome un piatto di spaghetti. E non si fa neppure pagare poco Alessio Casimirri, visto che c’è chi definisce «scandalosi» i suoi prezzi. A Managua lo chiamano “don Alessio”, che non ha mai fatto un giorno di carcere per aver ucciso Girolamo Tartaglione, allora direttore generale degli affari penali del ministero della Giustizia.

Cesare Battisti, la storia della fuga del terrorista. Dal 2004 ad oggi le tappe della latitanza, tra fughe, arresti e scarcerazioni, del terrorista di estrema sinistra che si trova in Brasile, scrive Maurizio Tortorella il 29 ottobre 2017 su Panorama. Cesare Battisti va arrestato perché sussite il pericolo di fuga. E' la decisione, non troppo clamorosa, presa dai giudici brasiliani e che avvicina il momento dell'estradizione del latitante in Italia. Una mossa, la prima, che segue le dichiarazioni del neo Presidente del Brasile, Bolsonaro, da sempre favorevole all'estradizione del terrorista.

La fuga in Brasile. Approdato in Brasile nel 2004, il terrorista italiano è stato protetto per tutto questo tempo da una lobby condotta a livello internazionale da esponenti della cultura di sinistra. Quella stessa "gauche caviar" che a Parigi nel 1990 lo aveva accolto a braccia aperte grazie alla "dottrina" ispirata dal presidente Francois Mitterrand, il presidente che fu il teorico della difesa dei nostri terroristi rossi perché a suo dire inseguiti dalla brutalità giudiziaria italiana.

Le tappe della latitanza. In Brasile, quattro anni dopo il suo arrivo, nel 2009 Battisti era stato però “tradito” proprio dal Supremo tribunal federal, che in quel caso aveva autorizzato la sua estradizione. Otto anni fa la decisione dei giudici brasiliani era stata comunque pilatesca: la corte aveva infatti lasciato l'ultima parola all'allora presidente Luiz Inacio Lula da Silva. E il 31 dicembre 2010, proprio nel suo ultimo giorno di mandato, Lula aveva concesso a Battisti lo status di rifugiato politico, bloccando l'estradizione. Il ministro della Giustizia di Lula, Tarso Genro, un esponente trotzkista del Partito dei lavoratori, aveva giustificato quel passo clamoroso con "il fondato timore" che l’Italia avesse ordito "una vera persecuzione" nei suoi confronti. A nulla era servita, allora, l’indignata protesta esercitata dal governo di centrodestra, guidato da Silvio Berlusconi: Lula era stato irremovibile. La situazione non era cambiata nemmeno sotto la nuova presidente del Brasile, Dilma Rousseff, che l'8 giugno 2011 (in questo caso in pieno accordo con i magistrati) aveva negato una seconda volta l'estradizione, sostenendo che in Italia Battisti avrebbe potuto "subire persecuzioni a cause delle sue idee". Poi le cose sono molto cambiate dal punto di vista politico. L'ex presidente brasiliano, il centrista Miguel Temer che nell’agosto 2016 ha preso il posto della Roussef dopo la sua rovinosa caduta per via giudiziaria, il 12 ottobre scorso aveva annunciato la revoca dello status di rifugiato concesso a Battisti da Lula, e poi aveva pubblicamente dichiarato che dovrebbe essere estradato al più presto in Italia. Alla causa politica del terrorista non ha giovato la crisi del Partito dei lavoratori, la sinistra di governo la cui credibilità negli ultimi anni è stata fiaccata dalle ripetute Tangentopoli brasiliane. E ad alienargli le simpatie della politica brasiliana hanno contribuito probabilmente anche i suoi atteggiamenti polemici: le interviste, irritanti e spavalde, e soprattutto il tentativo di fuga in Bolivia del 4 ottobre (anche se Battisti nega di aver mai voluto espatriare di nascosto), che ha portato a un suo breve arresto. Ma una cosa è la politica, un'altra è la giustizia: c'è anche un altro elemento che potrebbe giocare a favore del latitante, ed è la lettera indirizzata dalla sua compagna al Supremo tribunal federal, nella quale la donna ha ricordato che l'estradizione priverebbe del padre il figlio, di soli 4 anni. 

La fine di Lula, arriva Bolsonaro. La svolta arriva con le elezioni presidenziali del 2018. Il candidato della destra, Bolsonaro, fin da subito promette al Governo italiano che in caso di successo alle elezioni uno dei primi provvedimenti sarà proprio l'estradizione del terrorista in Italia. 14 dicembre 2018. Parte l'ordine di arresto per Cesare Battisti dato l'esistente "pericolo di fuga".

"Ho sonno, datemi la coperta". Quelle richieste di Battisti dopo l'arresto. Il terrorista dei Pac dopo l'arrivo in caserma ha chiesto un divano per dormire. Poi le lacrime davanti agli agenti, scrive Luca Romano, Lunedì 14/01/2019 su "Il Giornale".  La fuga di Cesare Battisti è finita. Il terrorista dei Pac adesso è su un volo dei servizi italiani che lo sta riportando in Italia dopo la cattura in Bolivia per le vie di Santa Cruz. L'urlo del poliziotto resterà a lungo nella testa di Battisti: "Cesare fermati!". Poi, senza opporre resistenza, il terrorista capisce che la fine della sua fuga è arrivata. In tasca, al momento dell'arresto, Battisti ha solo qualche spicciolo, l'equivalente di tre euro. Appena arriva in caserma fa una richiesta precisa: "Ho sonno, avete una coperta?". Si stende su un divano nella sala comune dei poliziotti dove vedono le partite e pranzano caricando i cellulari. Come riporta il Corriere di fatto Battisti si riposa dopo una latitanza durata anni. La polizia era sulle sue tracce da Natale e dopo qualche avvistamento è arrivato il momento del blitz. Tra i dettagli che l'hanno tradito c'è anche quella sua assidua frequentazione delle pizzerie. Consumava prima della cattura pranzi e cene a base di pizza in diversi locali di Santa Cruz. Da lì sono inziate le ricerche senza sosta degli agenti. L'altro tallone d'Achille del latitante è stato l'alcol. Fiumi di birra bevuti nell'attesa di un'altra fuga per evitare la cattura. Fondamentalmente Battisti era solo. Non aveva guardie del corpo o qualcuno armato pronto a difenderlo. Battisti ha capito in pochi istanti che nessuno avrebbe tentato gesti eclatanti o avrebbe impugnato le armi per farlo uscire dalla caserma della polizia. Gli agenti lo hanno visto piangere. Le ultime lacrime di un delinquente che ha da troppo tempo un conto in sospeso con la giustizia italiana.

Emilio e Giuseppe, i due italiani che l'hanno seguito e catturato. Tradito da mail e telefonate. «In codice era detto il cantante», scrive Fausto Biloslavo, Lunedì 14/01/2019, su "Il Giornale". Emilio e Giuseppe, i due agenti italiani, sono appostati in macchina sul bordo della strada di un quartiere a Santa Cruz de la Sierra, popolosa città della Bolivia. E filmano Cesare Battisti, che cammina un po' ciondolando sul marciapiede costellato di negozi. Il super latitante è mezzo camuffato con una barbetta a pizzetto, occhiali scuri, maglietta nera senza maniche e pantaloni blu. Sembra assolutamente tranquillo, anche se un po' barcollante forse per gli effetti di una sbronza. «Da qualche giorno avevamo ristretto la zona di ricerche a un quartiere di Santa Cruz grazie alle intercettazioni telematiche, ma non eravamo ancora riusciti ad individuare il fuggitivo» spiega a il Giornale una fonte del Viminale che conosce l'operazione. «Poi nel pomeriggio inoltrato di sabato Battisti è stato notato che passeggiava e i nostri poliziotti l'hanno filmato - continua la fonte - Il video è servito a fare un riscontro facciale grazie all'arcata delle sopracciglia e altri tratti somatici. Alla fine dei riscontri, che non sono durati molto, abbiamo dato il via libera ai boliviani per arrestarlo». Sabato verso le 20 (l'una di notte in Italia) è finita la latitanza dell'ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo, che durava da 37 anni. Agli agenti boliviani Battisti ha risposto in portoghese mostrando un documento brasiliano con il suo nome. In tasca aveva l'equivalente di un dollaro e mezzo e puzzava di alcol. Nelle foto scattate al comando della polizia locale la primula rossa sembra rispondere con un ghigno, ma in uno scatto si vede il volto tagliato a metà per non venire riconosciuto di uno degli italiani protagonisti dell'arresto. Un agente della Criminalpol, che indossa il giubbotto scuro senza maniche con lo stemma dello Scip, il servizio per la Cooperazione internazionale. L'altro agente italiano coinvolto nella cattura fa parte della centrale dell'Antiterrorismo a Roma. I due poliziotti italiani non mollano un attimo Battisti da quando è stato ammanettato. L'operazione segreta che ha portato alla cattura del super latitante ha coinvolto anche l'intelligente. La fase cruciale guidata come attività investigativa dalla Digos di Milano in sintonia con la Procura è entrata nel vivo lo scorso ottobre in collaborazione con l'Aise, i servizi segreti per l'estero. «Da una settimana stavamo stringendo il cerchio attorno a Battisti a Santa Cruz. Dopo essere sparito dal Brasile ha avuto più luoghi di dimora, ma alla fine lo abbiamo rintracciato in base ad alcuni spostamenti. La sua rete di appoggio lo ha sicuramente aiutato, ma pure favorito il nostro lavoro di pedinamento» spiega la fonte de Il Giornale. Una filiera composta da personaggi di sinistra e altri soggetti che Battisti ha conosciuto negli anni della latitanza. Grazie a un sistema sofisticato di intercettazione e monitoraggio su computer, tablet e telefoni di mail, chiamate e accessi a internet, Battisti è stato individuato in Bolivia, anche se usava di continuo cellulari usa e getta. Prima lo hanno segnalato a La Paz, la capitale, e poi in quattro punti distinti di Santa Cruz. La squadra italiana sarebbe già arrivata a Natale nel paese sudamericano. Il 21 dicembre, rivela un'altra fonte del Giornale coinvolta nella caccia, Battisti ha «presentato una richiesta di asilo alla Commissione nazionale per i rifugiati e i boliviani ci hanno avvisato». Almeno una trentina di uomini in Italia e all'estero lavoravano sul caso da mesi. «È stata sempre mantenuta la segretezza per evitare false speranze ai parenti delle vittime e allertare Battisti - spiega la fonte - Fra di noi lo chiamavamo il cantante, dato che ha lo stesso cognome di un famoso cantautore». Nel giugno scorso a una riunione dell'Interpol a Lione, alti funzionari del Viminale si incontravano con il capo della polizia brasiliana, Rogério Galloro, di origine italiane. Il 15 ottobre veniva sollecitata tramite l'Interpol «la massima attenzione ad eventuali tentativi di allontanamento del latitante» dal Brasile e allertati i Paesi confinanti. «Purtroppo la polizia brasiliana si è fatta sfuggire Battisti - spiega una delle fonti de Il Giornale - ma la squadra di agenti italiani arrivata nel Paese in novembre ha raccolto delle informazioni importanti, che ci hanno permesso poi di individuarlo in Bolivia».

Cesare Battisti, la vergogna politica dietro la fuga del terrorista: chi l'ha scortato con l'auto blu, scrive il 16 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. A proteggere Cesare Battisti nel corso degli ultimi anni di latitanza tra Brasile e Bolivia non c'era solo la rete di fiancheggiatori, anche in Italia, che gli forniva informazioni e ripari. Il livello di amicizie di cui poteva godere il terrorista dei Pac era altissimo, secondo fonti della polizia boliviana sentite dal Corriere della sera. Ben prima dell'ultima latitanza in Bolivia, gli agenti boliviani assicurano che Battisti poteva circolare a bordo di macchine di colore scuro, con i lampeggianti, prive di insegne e sirene. Erano veicoli appartenenti a politici e funzionari di La Paz, il che confermerebbe i sospetti sui legami di Battisti non solo con certi ambienti criminali, ma anche politici. Contatti di peso, abbastanza da permettergli di progettare una fuga in Venezuela a bordo di un piccolo aereo da turismo. La partenza per il Venezuela, secondo la polizia boliviana, si sarebbe resa necessaria perché Battisti non riteneva più adeguata la protezione fornita dalla mala boliviana, fatta soprattutto di criminali poco avvezzi a un caso delicato e scottante come il suo. Resta ora il pericolo di ritorsioni, soprattutto per gli agenti boliviani che hanno aiutato la polizia italiana nella caccia a Battisti. Ma c'è ancora chi vuole andare fino in fondo a questa faccenda e svelare tutta la rete di fiancheggiatori che ha protetto il terrorista, a costo della vita.

Cesare Battisti, parla l’agente che l’ha catturato: «Ho lasciato mia figlia in auto e ho puntato la pistola su di lui». L’agente boliviano che lo ha preso: c’erano due colombiani, temevo fossero con lui, scrive Andrea Galli il 16 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera". Alle spalle, sui sedili posteriori della macchina, la figlia di pochi anni. Davanti, sul marciapiede, Cesare Battisti. In mezzo, la strada e uno scenario da inventare per liberare l’area e fermare il terrorista. «Ho guardato intorno, c’erano due ragazzi in motocicletta, mi sono qualificato, ho ordinato di mettersi di traverso e bloccare il traffico. Quando li ho identificati, perché non potevo permettermi il lusso di sbagliare, e ho scoperto che erano colombiani, allora ho pensato: che idiota, sono due sicari che proteggono Battisti... Adesso uccidono me e poi mi uccideranno la bambina». Quei due non erano al soldo di nessuno. Hanno eseguito. E lui, il protagonista della cattura, un agente boliviano, ha avvicinato il terrorista e gli ha puntato in faccia la pistola, una Beretta calibro 9 da quindici colpi. Una pallottola era già in canna. E quella non era l’unica arma in dotazione. «Giriamo con tre pistole. In Bolivia, per i poliziotti, è una gara a chi sopravvive più a lungo. O meglio, a chi non viene ucciso prima». Eccoli, gli uomini agli ordini del colonnello Paùl Saaveda. Il comandante e tre poliziotti. Compongono la squadra Interpol che ha aiutato i colleghi italiani a rintracciare Battisti. Queste sono le loro voci affidate al Corriere. Tre settimane di caccia. Un tempo che, in Sudamerica, è considerato «enorme». Domandiamo al colonnello che cosa abbia detto alla truppa: «Mi sono complimentato e ho aggiunto due cose. La prima: adesso tornate a casa dalle vostre famiglie. La seconda: da domani ricominciamo il lavoro interrotto... Dobbiamo recuperare». Storie per lo più di narcotrafficanti. Come l’ultima operazione firmata dai ragazzi di Saaveda, marito e moglie peruviani mercanti di cocaina, scappati in Bolivia. Ci sono persone che si stanno prendendo enormi meriti per la cattura del terrorista, e non sempre ne hanno avuti per davvero. Ma va così. E a maggior ragione è giusto ricordare questi poliziotti boliviani, dei quali gli italiani lodano la capacità di aver studiato i metodi dei nostri investigatori che sconfissero il terrorismo, e l’attitudine a non volersi inventare per forza degli effetti cinematografici: operano soprattutto con i pedinamenti e gli informatori, la conoscenza del territorio e la suola delle scarpe. Sbirri semplici e veri. Sanno, i boliviani, d’aver fatto un gran colpo, ma come precisa uno dei tre della truppa, «per noi Battisti era un assassino da scovare. Punto. Non ci è mai interessato il resto: le coperture in Italia e Francia, le amicizie politiche, il movimento degli intellettuali... Quando uno ha ammazzato, non servono i dibattiti». Il terrorista ha parlato a lungo, con l’Interpol boliviana. E ha ripetuto un messaggio minaccioso. Nella caserma di avenida Mutualista, il terrorista ha detto agli agenti: «Benissimo, mi avete arrestato. Ma adesso, la mia questione diventerà una questione di Stato. Non più vostra». Spavaldo come al solito. Ma affamato. «Insisteva che aveva saltato il pranzo, allora siamo usciti e abbiamo comprato del pollo e delle empanadas... Ha mangiato velocemente, ne voleva subito delle altre». L’azione della squadra di Saaveda è terminata con le manette a Battisti. Da «regolamento», questa squadra riceve la missione e la completa. Ma c’è ancora parecchio da setacciare. Spetterebbe ad altri investigatori farlo, e non è scontato che la Bolivia voglia continuare. Anzi. Il terrorista aveva a disposizione almeno quattro appartamenti. Uno è direttamente collegato a un partito politico. Quell’alloggio non è stato mai perquisito.

Carta di credito e memorie: il kit della fuga di Battisti, scrive il 14 gennaio 2019 Matteo Carieletto su ""Gli Occhi della guerra" de "Il Giornale". Cesare Battisti aveva riposto le ultime speranze nella Bolivia. Qui, ancora una volta, sperava di farla franca, grazie all’amicizia con il vicepresidente Álvaro García Linera. Sperava di ottenere asilo, ma così non è stato e La Paz gli ha voltato le spalle, molto probabilmente per convenienza politica. Nessuno ormai vuole il terrorista dei Pac. Né il Brasile di Jair Bolsonaro né la Bolivia di Evo Morales. Ormai Battisti è un peso e la sua storia, iniziata 37 anni, deve finire per sempre. Battisti, come è noto, non è stato arrestato in Brasile, ma in Bolivia è quella che doveva essere la sua ancora di salvezza si è poi dimostrata un boomerang, come ha spiegato Raffaele Piccirillo, che fino a giugno 2008 ha ricoperto l’incarico di capo del dipartimento Affari di Giustizia del ministero e ha seguito il caso: “L’espulsione diretta dalla Bolivia verso l’Italia di Cesare Battisti fa sì che l’accordo di estradizione con il Brasile che l’Italia accettò nell’ottobre del 2017 e che prevedeva un tetto sanzionatorio di 30 anni non valga più”. E ancora: “Noi accettammo quelle condizioni – ha affermato Piccirillo all’Agi – perché anche il nostro sistema giudiziario prevede una serie di benefici per gli ergastolani. A questo punto, però, Battisti ci viene restituito dalla Bolivia, attraverso un’espulsione di tipo amministrativo e nel momento in cui arriva in Italia quella condizione non opera più. È come se Battisti fosse stato catturato in una via di Milano”. Quando la polizia lo ha trovato, si è trovata davanti un Battisti inaspettato. Incapace di opporre qualsiasi resistenza. Il terrorista aveva con sé un documento d’identità brasiliano e a nulla è valso il pizzetto che gli nascondeva il volto né gli occhiali da sole calati sul naso. Grazie ai documenti diffusi da Wikilao, sappiamo cosa aveva in tasca Battisti al momento dell’arresto: una tessera sanitaria nazionale, una carta di credito del Banco do Brasil (bloccata, ma su cui forse sperava di fare ancora affidamento), cinque fotografie, otto fogli manoscritti e una banconota. L’attenzione ora è tutta sulla carta di credito, l’adagio “segui i soldi” diventa in questo caso ancora più fondamentale, e sui manoscritti. Che cosa ha vergato sui quei fogli Battisti? Sapeva che non aveva via di fuga e così aveva preparato dei messaggi da lasciare alla sua rete? Un ulteriore mistero in questa intricata vicenda.

Cesare Battisti, l'ipotesi: venduto perché non ha onorato un prestito? Scrive il 14 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Dopo 37 anni, intorno alle 12.30, è previsto l'arrivo in Italia, a Fiumicino, del terrorista Cesare Battisti: la sua fuga infinita si è spenta in Bolivia, dove si era rifugiato alla caccia dell'asilo dopo che il Brasile di Jair Bolsonaro aveva deciso di consegnarlo all'Italia. Le autorità sapevano che si trovasse proprio in Bolivia, ma rintracciarlo e catturarlo non è stato semplice. Ci è riuscita una task force dell'Interpol composta da italiani, brasiliani e boliviani soltanto poche ore fa. Ma cosa ha tradito, il terrorista rosso Battisti? Non solo le tracce elettroniche, i contatti con l'Italia e le reti wi-fi. Secondo quanto riporta il Corriere della Sera, Battisti - condannato a due ergastoli in Italia per quattro omicidi - potrebbe essere stato in una qualche misura anche venduto. Si suppone che abbia cercato rifugio nei villaggi più pericolosi della Bolivia, quelli più difficili da raggiungere e dove le persone, spaventate da ciò che le circonda, semplicemente non chiedono nulla. Battisti è stato sorpreso con pochi spicci in tasca, un paio di dollari: l'ipotesi è che l'assenza di soldi avesse iniziato a tormentarlo. Proprio come potrebbe essere stato tormentarlo da chi gli aveva concesso dei prestiti in passato, poi non onorati. Dunque, l'ipotesi, è che qualcuno di questi possa averlo venduto, vendicandosi fornendo importanti informazioni a chi gli dava la caccia. Informazioni che hanno permesso di catturarlo: non aveva né guardie armate né un documento falso. E quando ha capito che per lui dopo quasi 40 anni di impunità era finita, riferiscono dei testimoni, per due volte, solo, si è messo a singhiozzare.

Cesare Battisti sarà assistito dall'avvocato Davide Steccanella: chi ha difeso prima del terrorista, scrive il 15 Gennaio 2019 "Libero Quotidiano". Cesare Battisti ha scelto per la sua tutela l'avvocato Davide Steccanella, prestigioso penalista del foro di Milano, ed esperto di terrorismo rosso e degli anni di piombo. Steccanella è anche un saggista e uno scrittore, autore tra gli altri volumi anche di libri come "Gli anni della lotta armata. Cronologia di una rivoluzione mancata". L'avvocato Steccanella è stato anche difensore del bandito Renato Vallanzasca, storico boss della banda della Comasina, oltre ad aver assistito l'ex terrorista di Prima linea, Mario Ferrandi, nella richiesta di riabilitazione. 

Cesare Battisti, la disperata richiesta al direttore del carcere: "Posso tenerla?", scrive il 16 Gennaio 2019 "Libero Quotidiano". Dopo 37 anni di latitanza e impunità, per Cesare Battisti si sono spalancate le porte del carcere di Oristano: il terrorista dei Pac dovrà scontare due ergastoli. Una volta arrivato in cella, parlando col direttore della struttura, ha in qualche misura (comunque inaccettabile) ammesso la sua colpevolezza: "Vede direttore - avrebbe affermato -, io non mi dichiaro innocente, non rinnego affatto il mio passato, ma non mi accollo neppure tutto quello di cui mi accusano. Non mi sento l'infame, la belva che descrivono. Sono stato condannato in contumacia, senza che mi potessi difendere. Questo ha un peso". Scorda però di dire che non ha potuto difendersi perché è fuggito dall'Italia, dunque dalla giustizia. Ma non solo. Dal penitenziario di Oristano sono filtrate anche indiscrezioni su Battisti. In particolare su quella che sarebbe stata una delle poche richieste avanzate dall'assassino. Con sé, Battisti, aveva la fotografia di uno dei suoi figli, che è stata trovata nel corso della prima perquisizione dopo la cattura. "Posso tenerla?", ha chiesto Battisti. La prassi non lo consentirebbe, ma si apprende che la foto è stata presa in consegna dalla polizia penitenziaria insieme ai pochi effetti personali e sarà tenuta da parte. Ora Battisti si trova in cella da solo, in regime di alta sicurezza e sotto stretta sorveglianza, anche per evitare che commetta atti di autolesionismo o tenti il suicidio. In cella ha una tv e l'occorrente per scrivere e ha diritto a quattro ore d'aria al giorno. Per sei mesi sarà in isolamento diurno.

L’inizio della fine di Cesare Battisti: come viveva mentre era braccato, scrive Giovanni Giacalone il 15 gennaio 2019 su "Gli Occhi della Guerra" de "Il Giornale". L'”inizio della fine” della latitanza boliviana di Cesare Battisti comincia a Santa Cruz de la Sierra, precisamente al residence Casona Azul, sulla Radial 21, una stradona dell’estrema periferia ovest della metropoli a poche centinaia di metri dal quarto anello di circonvallazione. Battisti è arrivato al residence la notte del 16 novembre a bordo di un Suv Toyota Rav4 color scuro accompagnato da un amico, un individuo descritto come alto, in carne e con i capelli corti e la pelle chiara, istruito, molto probabilmente un locale e unico soggetto che ha più volte visitato il latitante durante il suo breve soggiorno al residence; è stato proprio questo suo amico a fare il check-in per poi allontanarsi e lasciare la stanza a Battisti che viaggiava con bagaglio leggero. Battisti parlava poco lo spagnolo, preferiva il portoghese e aveva detto di essere un imprenditore brasiliano attivo nel ramo dell’edilizia, usciva molto poco dal residence e passava gran parte del tempo a leggere i giornali. Una volta si è recato al mercato a fare acquisti e poi ha cucinato per lo staff del residence. Il 5 dicembre, giorno della partenza, si è presentato un altro individuo a prendere Battisti, un ragazzo boliviano sulla ventina, sempre a bordo del Rav4. Il latitante aveva detto allo staff del residence che sarebbe tornato a gennaio e in effetti così è stato visto che veniva individuato e arrestato il 12 gennaio sempre a Santa Cruz de la Sierra e a meno di due chilometri dal residence, nel barrio di Ubarì. Questa volta però l’ex brigatista non ha soggiornato alla Casona Azul, non risulta ancora chiaro quando sia arrivato per la seconda volta a Santa Cruz e dove abbia alloggiato gli ultimi giorni, è però noto che tra il 5 e il 7 gennaio il cellulare di Battisti veniva individuato a La Paz, nei pressi di plaza 21 Diciembre. Resta inoltre da chiarire chi fossero i misteriosi due uomini che lo hanno accompagnato in quei giorni di permanenza al residence di Santa Cruz de la Sierra a cavallo tra novembre e dicembre. Al momento dell’arresto, Battisti aveva pochi soldi in tasca e ciondolava per le vie di Ubarì, ignaro del fatto che gli agenti italiani gli fossero alle calcagna; il resto è ben noto. Battisti si era orientato da subito verso la Bolivia nella speranza di trovare protezione da parte di uno dei pochi governi di sinistra rimasti in America Latina. La metropoli di Santa Cruz de la Sierra sembrava il luogo ideale, con le sue quattro grandi circonvallazioni e i suoi due milioni di abitanti, ma così non è stato.

"Ho fatto evadere Battisti e vi dico perché non rimarrà in carcere a lungo". L'ex membro di Prima Linea che fece parte del commando per l'evasione di Cesare Battisti: "Troverà una scusa. Secondo me non starà molto in cella", scrive Bartolo Dall'Orto, Lunedì 14/01/2019, su "Il Giornale". I parenti delle vittime si aspettano di vederlo presto, e a lungo, nelle patrie galere. Il governo lo ha promesso e nulla dovrebbe ostacolare per Cesare Battisti l'apertura delle porte di una cella. C'è un però: quanto durerà la carcerazione? Il terrorista dei Pac sconterà tutta la pena (l'ergastolo) oppure un giorno, presto o tardi, otterrà un qualche sconto che gli riconsegnerà la libertà? C'è qualcuno che è sicuro la carcerazione di Battisti, dopo la cattura in Bolivia, non durerà per sempre. Si tratta di Pietro Mutti, ovvero l'uomo che aiutò il terrorista ad evadere dal carcere di Frosinone prima di far perdere le sue tracce in giro per il mondo. 38 anni di latitanza grazie (anche) a quella rocambolesca fuga del 4 ottobre del 1981. "Battisti ha vissuto tutta la sua esistenza fuori, tranquillo. Da personaggio pubblico, in Francia e in Brasile. Adesso, a 64 anni, se ne può andare in carcere a scrivere i suoi libri", dice l'ex membro di Prima Linea. A La Verità, Mutti racconta quei momenti dell'evasione di Battisti. Il commando, le pistole, l'irruzione al carcere di Frosinone e la fuga prima in auto, poi con un furgone e infine in treno verso Roma. Qualcuno ospitò il terrorista prima della sua fuga verso l'Europa. Ma non è tanto il racconto di quella evasione a colpire. Sono le parole di Mutti sul futuro da carcerato di Battisti: "Questa storia doveva finire tanto tempo fa - dice - Il periodo delle provocazioni è finito, ora Battisti si faccia la sua galera e non rompa le scatole. Anche se non credo che andrà così". Ne è convinto: "Vedrà che troverà una scusa - spiega a La Verità - Secondo me non starà molto in cella. Addurrà motivi di salute. Logicamente qualche anno lo sconterà, ma di sicuro non è il tipo che morirà in gabbia".

Cesare Battisti, il piano per uscire di galera: ecco come e con l'appoggio di chi, scrive Tommaso Montesano il 16 Gennaio 2019 su Libero Quotidiano. Primo giorno di carcere per Cesare Battisti, nel penitenziario di massima sicurezza di Oristano, e strategia difensiva già delineata. «Ho 64 anni, sono malato, sono cambiato», ha detto l'ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo - Pac - al direttore dell'istituto sardo. Battisti, che resterà in isolamento per i primi sei mesi, ha anche ricevuto la prima visita del suo legale, l'avvocato milanese Davide Steccanella. Il colloquio è durato poco più di un'ora. Battisti, ha riferito il penalista smentendo di fatto il suo assistito, sta «fisicamente bene. Come uno che ha avuto una giornata pesante». Niente di grave, quindi. Invece l'ex terrorista, di fronte al direttore del penitenziario, ha detto il contrario: «Mi dite in quale parte del mondo mi trovo? Ormai è tutto finito». Quanto alla sua vicenda giudiziaria, Battisti ha riconosciuto di «non essere innocente, ma nemmeno mi accollo tutto ciò di cui mi accusano». L'ex killer è stato sottoposto alla trafila che spetta a tutti i detenuti: è stato visitato, schedato dall' ufficio matricola e, dopo un colloquio con l'educatore, portato in cella. Ha cenato con pasta, carne, verdura e frutta. Poi ha trascorso la notte nel blocco AS2.

GLI APPELLI DEI COMPAGNI. Il contenuto dell'incontro con il direttore della prigione è stato riferito dall' ex presidente della Regione, Mauro Pili, secondo cui Battisti «pensa già a un centro clinico, che a Oristano non c' è. Quindi fuori dall' isolamento. Anche l'ex compagna dell'uomo, la 33enne Priscila Luana Pereira, ha insistito sulle condizioni di salute di Battisti: «Cesare è malato e la sentenza è molto dura. Credo che i difensori dei diritti umanitari chiederanno una riduzione di pena». Parole, unite a quelle dello stesso Battisti, che hanno provocato la reazione di Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia: «Dice di essere cambiato e malato. Adesso comincerà una predicazione pietosa volta ad ottenere benefici, sconti di pena, petizioni di amici sempre pronti alla firma e all' appello. È isolato o è in connessione con il pianeta? Lo facciano tacere una volta per tutte?». Non a caso in soccorso dell'ergastolano si è levata, sul Foglio, la voce di Adriano Sofri, l'ex leader di Lotta Continua condannato a ventidue anni di carcere quale mandante dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi. «Gli agenti penitenziari lo vedranno giorno e notte, Battisti. Speriamo che siano più controllati del ministro», ha insinuato Sofri, che di fatto ha invertito i ruoli, trasformando Matteo Salvini in carnefice e l'ex terrorista in vittima. «Il carcere è il luogo più disadatto al vero pentimento. Il carcere è così disumano e cattivo e assurdo da attenuare fino a cancellare la stessa differenza fra innocenza e colpevolezza», ha scritto l'ex leader di Lc.

AGENTI INFURIATI. Parole che hanno provocato la reazione degli agenti della Polizia penitenziaria. «A Sofri vorrei ricordare che un pregiudicato non può mettersi nei nostri panni: lui la legge l'ha infranta, noi la facciamo rispettare», ha detto Donato Capece, segretario generale del Sappe. Intanto continuano ad emergere particolari sulla cattura di Battisti in Sudamerica. L'ex leader dei Pac ha capito che la sua latitanza era finita solo nel commissariato della polizia boliviana. All' inizio pensava che il fermo, in strada, fosse un controllo di routine. Poi, dopo aver visto la presenza di due poliziotti italiani, ha capito «per la prima volta di dover passare anni in carcere. Si è come accasciato sulla sedia. Era un uomo sconfitto, rassegnato». Tommaso Montesano

Perché Francia e Brasile hanno protetto Battisti (finora). A Parigi la propaganda della "gauche caviar". A Brasilia interessi politici e strumentalizzazioni. Oggi molto è cambiato, e forse verrà estradato, scrive Maurizio Tortorella il 6 ottobre 2017 su "Panorama". Nel 2009 il ministro brasiliano della Giustizia Tarso Genro, esponente trotzkista del Partito dei lavoratori che partecipava al governo di Luiz Inácio Lula, aveva negato l’estradizione e gli aveva concesso lo status di rifugiato “per il fondato timore di una persecuzione politica”. In quell'epoca, scrittori e intellettuali di mezzo mondo come Gabriel García Márquez, Fred Vargas, Daniel Pennac e Bernard-Henri Lévy facevano ancora appelli per lui. Persino Carla Bruni, all’epoca première dame di Francia, protestava la sua innocenza.

La protezione francese. Di certo nessuno di loro aveva nemmeno sfogliato le infinite carte processuali o le tante sentenze che condannano all’ergastolo per quattro omicidi Cesare Battisti, oggi 63 anni, definito dalle cronache come “ex terrorista”, un passato da criminale comune, ma anche giallista di fama, e assurdamente trasformatosi in icona della "gauche caviar" parigina. È stato anche per colpa di intellettuali, scrittori e della sinistra al caviale francese, se i governi di Parigi dal 1991 al 2004 hanno negato l’estradizione del quattro volte omicida. E ancora oggi nessuno riesce bene a comprendere perché la Francia sia stata tanto affettuosa con Battisti, che un pubblico ministero serio come Armando Spataro, proprio parlando con Panorama, una volta aveva definito “un assassino puro”. Gli ambienti parigini erano stati convinti, da una propaganda battente, che l’Italia degli anni Settanta fosse simile a una cajenna giudiziaria, dove una serie di leggi autoritarie e una magistratura da ghigliottina avevano fatto scempio dello Stato di diritto per combattere e sconfiggere il terrorismo, rosso e nero.

La conversione politica. Anche se qualche eccesso, effettivamente, in quegli anni c’era stato, questa caricatura del reale era più che evidente per quanto riguardava proprio Battisti. Di certo, non c’era stato alcun eccesso giudiziario su di lui, condannato quattro volte per omicidi volontari, violenti e spietati, e la cui intera storia esistenziale pare intrisa di cinismo opportunista, trasformismo e violenza spesso gratuita. La stessa aura ideologica di Battisti pare usurpata. Perché in effetti l'uomo si rivela alle cronache e ai tribunali, banalmente, come ladro nel 1972 (data del suo primo arresto) e poi come rapinatore nel 1974. È un criminale comune, che subisce denunce anche per atti di libidine violenta e per violenza privata. La sua “conversione politica” avviene in carcere, a Udine, grazie all’incontro con un terrorista vero: Arrigo Cavallina. Ma l’impressione che gli inquirenti e i giudici hanno sempre avuto e trasmesso, negli atti giudiziari, è che l’attività eversiva condotta da Battisti all’interno dei Pac,i Proletari armati per il comunismo, fosse almeno in parte strumentale: "ufficialmente" l’uomo rapinava e uccideva in nome di un ideale politico, per quanto farneticante, ma quasi sempre nelle sue azioni traspariva lo sfogo di una violenza repressa e perfino la ricerca - molto più terrena e razionale - di un arricchimento personale. 

L'asilo politico del Brasile. Più facile da capire è perché per otto anni il Brasile di Lula e poi di Dilma Roussef abbia dato un vergognoso asilo politico, legale o di fatto, a Battisti: le mosse dei governi demagogici sono state dettate da questioni politiche, forse anche dall’idea di poterlo usare come strumento di pressione economica nei confronti dell'Italia. Oggi invece, tanti anni dopo, il Brasile potrebbe finalmente estradare Battisti. Perché? Perché dall’agosto 2016 è mutato profondamente l’atteggiamento politico del Paese, con il nuovo presidente Michel Temer. Tant’è vero che Battisti, con la solita capacità di interpretare opportunisticamente l'ambiente, e annusata l’aria negativa, stava già per prendere la via della fuga in Bolivia. Dovesse essere finalmente estradato in Italia, una volta tanto, sarebbe stata fatta davvero giustizia.

Chi ha protetto Cesare Battisti. Amici nelle istituzioni in Brasile e Francia, amici intellettuali. Ecco chi ha protetto in questi anni Battisti, scrive Paolo Manzo il 14 gennaio 2019 su Panorama. Di quali protezioni ha goduto Cesare Battisti, il terrorista rosso che per 40 anni si è fatto beffe dell’Italia e dei parenti delle vittime da lui uccise a fine anni Settanta? La domanda se la sono posta in tanti, a cominciare da Adriano Sabbadin, che dopo avere appreso dell’estradizione concessa il 14 dicembre scorso dall’ex presidente brasiliano Michel Temer, credeva di poter trascorrere finalmente il primo Natale sereno dopo tanti anni. È figlio di Lino, il macellaio ucciso a pistolettate dall’ex membro dei Proletari armati per il comunismo in quel di Mestre. Era il 16 febbraio del 1979, una vita fa. Di quali protezioni ha goduto Battisti? È stata la domanda anche delle famiglie Torregiani, Campagna e Santoro, le altre sue vittime, quando avevano appreso dell’ennesima fuga di questo assassino riciclatosi scrittore e dell’informazione che ad accoglierlo, secondo fonti di intelligence israeliane e brasiliane, poteva essere già la Bolivia, visto che il presidente «cocalero» Evo Morales avrebbe avuto tutti i motivi per proteggerlo. Innanzitutto ideologici, poi di rivalsa con il Brasile che ha dato asilo politico a uno dei più feroci accusatori del governo Morales sulle questioni del narcotraffico, quel senatore Roger Molina poi morto in un misterioso incidente aereo nel 2017. Del resto il terrorista dei Proletari armati per il comunismo, i Pac, è un esperto nello sgusciare via come un’anguilla, godendo di preziosi appoggi politici da quando, nel 1981, evase per la prima volta dal carcere di Frosinone. Lo ha fatto in Messico, in Francia ed in Brasile dove è arrivato, in fuga da Parigi nell’agosto del 2004, quando la sua estradizione in Italia era ormai solo una questione di giorni visto che Jacques Chirac aveva deciso di accantonare finalmente il salvacondotto offerto ai terroristi italiani dal socialista François Mitterand. Secondo lo stesso Battisti fu una parte dei servizi francesi ad aiutarlo in quella fuga consegnandogli un passaporto italiano falso con all’interno del codice a barre, un’informazione cifrata che avrebbe consentito agli 007 transalpini di seguirne passo passo gli spostamenti sino all’approdo a Fortaleza, nel nordest brasiliano, dopo essere passato per Spagna, Portogallo, isola di Madeira, Canarie e Capo Verde. Quasi una rotta del narcotraffico al contrario. Di certo gli è stata vicina la giallista francese Fred Vargas e l’ambiente radical-chic della lobby francese culturale che già nel 1999 gli aveva permesso di cominciare a pubblicare con il prestigioso editore Gallimard. La stessa Vargas che non ha esitato a venire più volte in Brasile, sempre accompagnata da un nerboruto francese dal fisico assai poco intellettuale ma molto «Legione straniera», dopo l’arresto di Battisti avvenuto nel marzo del 2007 sulla spiaggia a Copacabana per mezzo dell’Interpol. Non perché monitorato dai servizi paralleli transalpini, che a suo dire lo avevano aiutato a fuggire, ma perché si era tradito con una telefonata a uno dei suoi contatti parigini intercettato a propria insaputa dell’intelligence francese: Battisti era appena stato derubato ed aveva bisogno di soldi, con urgenza. Il grande colpo di scena arriva, poi, il 31 dicembre del 2010, ultimo giorno dell’ultimo mandato dell’allora presidente Luiz Inácio Lula da Silva, grande mito della sinistra mondiale che concede l’asilo al terrorista più ricercato d’Italia. Prova, questa, della massima protezione di cui Battisti godeva nel paese del samba, dopo aver goduto per anni dell’ala protettrice di Mitterand che con la sua «dottrina» sul diritto d’asilo ospitò decine di nostri terroristi. Nel 2011 Battisti esce così di prigione e va a vivere, ironia del destino, prima a Embu das Artes - cittadina vicina a San Paolo famosa perché lì fu sepolto sotto nome falso il criminale nazista di Auschwitz Josef Mengele, anche lui eterno fuggitivo - poi, dal 2015 a Cananéia, sul litorale di San Paolo. Qui l’internazionale rossa continua a non abbandonarlo e per proteggerlo gli mette a disposizione Magno de Carvalho, un sindacalista della Cut, il sindacato fondato da Lula e dal suo Pt, il partito dei lavoratori che oggi ha tutti i suoi ex tesorieri in carcere, oltre allo stesso Lula. Magno prima gli presta una sua casa a Cananéia dove Battisti va a vivere protetto da Paulo, un bodyguard tutto fare, poi lo aiuta a trovare un terreno e a costruirsi una casetta tutta sua dove il terrorista, spenti i riflettori, comincia una vita anonima. «Vivo dei miei libri» aveva raccontato a chi scrive, «ma non me la passo bene tanto che non posso più pagare l’assicurazione medica». Difficoltà economiche confermate anche dall’ex moglie Priscila Luana Pereira che ha dichiarato che Cesare Battisti viveva dei diritti d’autore e di qualche soldo fattogli arrivare dall’Italia dalla sua famiglia. Arriviamo, così, a fine 2018 all’ultimo, ennesimo, colpo di scena: la fuga. Sparizione annunciata da anni di protezione del Pt di Lula, a tutti i livelli, giudiziario e politico, che hanno reso possibile quello che è accaduto. La Polizia di Cananéia, la cittadina di pescatori dove Battisti ha vissuto, aveva già confermato a chi scrive che da sabato 27 ottobre - ovvero dalla vigilia della vittoria elettorale di Jair Bolsonaro che lo avrebbe estradato subito dopo il suo insediamento, il primo gennaio di quest’anno - nessuno aveva più visto l’ex membro dei Pac. «L’ultima è stata una donna che lo aveva notato allontanarsi in barca» assicurò un poliziotto di Cananéia il 30 ottobre scorso, svelando poi un retroscena che ha dell’incredibile. «Ci avevano sollecitato dall’alto, su richiesta dell’ambasciata d’Italia, di monitorare Battisti e abbiamo subito chiesto alla nostra autorità giudiziaria cosa potessimo fare in concreto ma la risposta è stata chiara: nulla». Il terrorista rosso, infatti, all’epoca era davanti alla machiavellica legge brasiliana un cittadino libero a tutti gli effetti, con tanto di visto definitivo. Quindi non controllabile dalle forze di polizia. Insomma, nonostante le ripetute rassicurazioni all’Italia sul fatto che la polizia brasiliana stesse «monitorando da vicino» il latitante più ricercato d’Italia, in realtà sul campo aveva «le mani legate». Una verità che, per quanto vergognosa, era stata confermata dallo stesso terrorista a una radio italiana qualche giorno dopo l’allarme di fuga lanciato due mesi fa e resa possibile da una serie di decisioni sconcertanti. A riprova di quanto la protezione garantita a Battisti da 14 anni in qua dal partito di Lula fosse ancora fortissima e capillare, nonostante la vittoria del neo presidente Jair Bolsonaro, che aveva fatto del caso del terrorista uno dei suoi principali cavalli di battaglia della sua campagna elettorale. Purtroppo, però, il danno ormai era fatto ed è stato il risultato di una serie di decisioni accumulatesi nell’ultimo biennio. Già perché se era chiaro che, dopo l’impeachment di Dilma Rousseff nel 2016, il suo successore Temer fosse propenso ad annullare la decisione di Lula di concedere l’asilo a Battisti, altrettanto chiaro era che la questione si sarebbe complicata grazie agli appoggi politici ma anche di giudici e intellettuali sinistrorsi del terrorista. A mettere sul chi va là Battisti era stato già un articolo pubblicato da O Globo a fine settembre 2017 in cui il quotidiano carioca rivelava che l’Italia aveva chiesto in gran segreto a Temer di rivedere la decisione di Lula e di estradare a Roma il terrorista. In neanche una settimana Battisti viene arrestato alla frontiera con la Bolivia con 6.000 euro, 1.300 dollari e un piccolo cilindro arancione pieno di polvere bianca, «apparentemente cocaina» a detta della polizia: stava tentando di fuggire dal Brasile. Intanto mentre è in cella nel commissariato di Corumbá, città al confine con la Bolivia, un aereo militare ha i motori già accesi, pronto a rimpatriare il terrorista rosso in Italia. Manca solo la firma di Temer che però non arriva perché «è un Don Abbondio» confidò all’epoca a Panorama Walter Fanganiello Maierovitch, magistrato in pensione che aiutò il nostro Giovanni Falcone nella cattura di Tommaso Buscetta nel Brasile di inizio anni Ottanta. Questo nella migliore delle ipotesi visto che l’ultimo avvocato di Battisti, Igor Tamasauskas, difende anche i fratelli Batista, boss della Jbs, l’azienda maggiore produttrice di proteine animali al mondo sospettata di avere pagato tangenti milionarie proprio a Temer, che per questo è stato denunciato penalmente dalla procura generale brasiliana, fatto mai successo prima a nessun presidente in carica in Brasile. Invece di firmare l’ordine di espulsione, dunque, Temer chiede alla Corte Suprema brasiliana se può ribaltare la decisione di Lula sull’asilo a Battisti. Peccato che il giudice Luiz Fux che ha in carico il caso impieghi 14 lunghissimi mesi per rispondergli. Arriva così prima l’ordine di scarcerazione firmato da José Lunardelli, un giudice che deve tutta la sua carriera al Pt di Lula da Silva e Dilma Rousseff, cui fa seguito la cancellazione di tutte le misure cautelari, compreso l’obbligo di firma e, da aprile 2018, anche la cavigliera elettronica. Il motivo? «Non esiste rischio di fuga». Decisioni, queste, che si sono rivelate cruciali perché potesse realizzarsi l’ennesima fuga di Battisti. Perciò non c’è da stupirsi se dopo l’ordine di arresto su richiesta dell’Interpol firmato il 13 dicembre scorso dal giudice «tartaruga» Fux, Battisti non si sia fatto trovare in casa. «È un assassino sanguinario ma non un idiota» sbotta Maierovitch, definendo «incredibile» che l’arresto sia stato annunciato dal telegiornale più seguito del Brasile, il Jornal Nacional della tv Globo, prima ancora che la polizia l’avesse eseguito. Insomma, il caso Cesare Battisti ha evidenziato una scacchiera planetaria dove il terrorista è riuscito a dribblare tutti, governi, partiti politici, magistrati facendo leva su un’ideologia che gli ha permesso di garantire i suoi interessi. Con questa immagine finale paradossale di un Lula, mito della sinistra e suo salvatore, oggi in carcere condannato per riciclaggio e corruzione e Battisti, invece, di nuovo in fuga. Oltre che dalla giustizia anche da se stesso. Fino a ieri.

Carla Bruni su Cesare Battisti: "Mai conosciuto, rispetto per le vittime". Ma scorda qualcosa, scrive il 16 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Dopo la cattura di Cesare Battisti in Bolivia, in molti hanno rivolto le loro attenzioni a Carla Bruni. Già, perché secondo vecchie indiscrezioni mai confermate lei avrebbe cercato di garantirgli una via di fuga dalla Francia ai tempi della riparata di Battisti in Brasile; avrebbe anche perorato la causa con Nicolas Sarkozy. E ancora, secondo altri retroscena, parimenti mai confermati, nel 2008 la Bruni avrebbe incontrato l'allora presidente brasiliano Lula per fare pressioni affinché concedesse l'asilo politico al terrorista ex Pac. Indiscrezioni smentite in modo netto da Carla Bruni più volte e ancora oggi in un colloquio con La Stampa: "Non lo conosco, non l'ho mia incontrato, non l'ho mai difeso ed è una grave calunnia quella di sostenere che mi sia battuta per negare l'estradizione della Francia all'Italia". Caso chiuso, insomma. Carl Bruni, poi, chiarisce anche la posizione di Sarkozy: "Mio marito - riprendere - non ha protetto Battisti durante i suoi anni di presidenza. Non so per quali ragioni questa menzogna sia stata inventata". E ancora: "Mi piacerebbe ci fosse silenzio, silenzio e non bugie, non pettegolezzi, al fine di rispettare il dolore mai sopito e in questi giorni vivo più che mai, dei familiari delle vittime". La Bruni, insomma, rompe il silenzio sul caso Battisti. Eppure ancora qualcosa non torna. A La Stampa aggiunge anche: "Vi ringrazio per avermi dato la possibilità di mettere la parola fine alle menzogne sull'immaginario rapporto, o meglio contatto che ci sarebbe stato tra Cesare Battisti e me". Nessuno dubita delle parole della Bruni. Nessuno nega il fatto che abbia riconosciuto il dolore "vivo più che mai" dei familiari delle vittime. Eppure, Carla Bruni - almeno stando a quel che ha riportato La Stampa - non riesce proprio ad esprimere soddisfazione per l'arresto di Battisti. Il fatto che sia una buona notizia, un traguardo, un successo, la fine di un'ingiustizia, nel colloquio col quotidiano torinese non lo cita del tutto.

Trattative, diplomazia e minacce. Perché la Bolivia ha scaricato Battisti, scrive il 14 gennaio 2019 Lorenzo Vita su "Gli Occhi della Guerra" de "Il Giornale. Nulla sarebbe stato possibile senza la Bolivia. Le autorità di La Paz sono state fondamentali nella cattura di Cesare Battisti. Ed è stato grazie all’opera congiunta di Italia, Brasile e Bolivia se adesso il terrorista dei Pac ha preso la direzione del carcere di Rebibbia dopo 36 anni di latitanza e fuga dalla giustizia italiana. Battisti sperava di ricevere aiuto dalla Bolivia di Evo Morales. Il presidente boliviano, uno degli ultimi rappresentanti della sinistra sudamericana, sembrava essere l’ultimo leader in grado di raccogliere l’eredità di Lula e di Dilma Roussef. E così, il terrorista italiano credeva (come già aveva fatto in passato) che la via di La Paz fosse l’unica percorribile in un’America latina sempre meno protettiva nei confronti dei criminali di matrice ideologica. Ma Battisti ha fatto male i suoi calcoli: la Bolivia di Morales, per quanto dichiaratamente figlia di quel socialismo iniziato con Hugo Chavez, si è rivelata essere una nazione ostile ai suoi progetti. E le autorità di La Paz hanno da subito dato carta bianca alle autorità italiane per recuperare il pluriomicida, non solo non rispondendo alla richiesta di asilo politico inviata da Battisti al ministero degli Esteri, ma anche braccando l’italiano in fuga e dando modo all’intelligence italiana e all’Interpol di mettersi sulle tracce del terrorista prima che potesse di nuovo fuggire. Una decisione, quella di La Paz, che in Bolivia non è piaciuta a molti ma che è figlia di accordi presi con Italia e Brasile e soprattutto della strategia del governo italiano per la cattura di Battisti. La Bolivia rappresentava infatti una garanzia non rispetto al Brasile di Jair Bolsonaro, con cui Matteo Salvini ha intrecciato ottimi rapporti, quanto con la giustizia brasiliana. Secondo i servizi, esisteva il pericolo che in Brasile gli avvocati del terrorista dei Pac potessero chiedere maggiori garanzie giudiziarie così come ricorrere all’habeas corpus. Inoltre, l’accordo siglato fra Roma e Brasilia dai governi precedenti sul fatto di non far scontare l’ergastolo a Battisti, avrebbe rappresentato un colpo mediatico nei confronti dell’esecutivo di Giuseppe Conte, che vuole a ogni costo che l’assassino scontri tutta la pena per cui è condannato in Italia. L’accordo era con il Brasile, non con la Bolivia. E questo ha spinto l’Italia a premere su La Paz per avere immediatamente Battisti. Nel frattempo, a La Paz era arrivata la richiesta di asilo politico a dicembre. Ma nessuno ha fatto richiesta di convocare Battisti per capire se vi fossero le condizioni per rispettare le richieste del terrorista rosso. Anzi, è proprio questo ad aver generato l’accelerazione sia delle autorità boliviane che dell’Italia, che ha subito fatto partire un aereo dei servizi verso la Bolivia. Lo spiega bene Lettera43. “L’Ombudsman (Difensore del popolo) boliviano, Jorge Paz, in un primo momento ha sostenuto che il governo di La Paz non ha dato una risposta definitiva alla richiesta di asilo presentata dal Cesare Battisti il 18 dicembre 2018 e che quindi è stata esaminata la "possibilità di interporre un ricorso costituzionale per far sì che il richiedente riceva una risposta alla sua richiesta". In un comunicato diffuso attraverso i social network in cui pubblica il testo integrale della richiesta di Battisti alla Commissione nazionale del rifugiato (Conare) in Bolivia, l’Ombudsman ha spiegato che il ministero degli Esteri boliviano ha ricevuto la sua domanda il 21 dicembre e che da allora non ha convocato l’interessato per una intervista, né gli ha comunicato il diniego della richiesta”. Un’ipotesi che però contrasta con le parole di Carlos Romero. Il ministro dell’Interno boliviano ha infatti confermato al quotidiano El Deber che la richiesta è stata respinta il 26 dicembre. A quel punto, l’ambasciata italiana in Bolivia, insieme all’Antiterrorismo, si è iniziata a muovere. E questa volta, la rete italiana ha saputo sfruttare anche i difficili incastri della politica sudamericana. Dal governo di Morales, l’accelerazione del decreto di espulsione è stata giustificata in maniera molto sbrigativa. In conferenza stampa, il ministro Romero, ha confermato che Cesare Battisti era entrato illegalmente in territorio boliviano. La questione era quindi semplicemente burocratica: c’era un ingresso illegale e un’espulsione dovuta a un mandato di cattura dell’Interpol. Ma è chiaro che le motivazioni siano state anche politiche. Con questa mossa, Morales ha innanzitutto evitato che i servizi segreti brasiliani partecipassero alla cattura di Battisti, visto che in molti pensavano che gli 007 di Bolsonaro arrivassero direttamente in Bolivia a recuperare con un aereo il terrorista. Per le autorità del Paese “socialista” sarebbe stato uno smacco oltre che un pericoloso precedente. Dall’altra parte, Morales sa che è un leader sempre più solo, con lo spostamento dell’America Latina verso destra e verso Washington. E quindi è necessario non partire col piede sbagliato con un presidente con Bolsonaro, che guida un Paese che per la Bolivia è fondamentale. Il governo di La Paz e il suo presidente vogliono dimostrare di avere le capacità di trattare con il Brasile, perché gli interessi strategici del Paese sudamericano passano necessariamente per ottimi rapporti con l’enorme vicino. Bolsonaro è ideologicamente contrario a quello che è stato il Brasile prima di lui e a quello che rappresenta Morales: ma Battisti rappresentava solo uno scomodo ostacolo vero rapporti sudamericani già particolarmente complessi. Rapporti cui si aggiunge anche un altro problema: il ritorno dell’ex presidente Gonzalo Sanchez de Lozada, detto Goni, rifugiato negli Stati Uniti. Morales lo vuole a ogni costo: lo ha promesso al suo popolo dopo il massacro per il quale è fuggito. E per riottenere in patria l’ex presidente, il governo della Bolivia doveva mostrarsi non solo pienamente disposto a consegnare Battisti, ma anche a voler mantenere rapporti positivi con quell’internazionale sovranista che controlla Italia, Brasile e Stati Uniti. L’Italia ha saputo inserirsi bene in questa triangolazione: e adesso Battisti è tornato nella patrie galere.

La promessa che Lula non mantenne, scrive Giorgio Napolitano il 15/01/2019 su "La Stampa". Gentile Direttore, la notizia dell’arrivo in Italia, dopo l’arresto e la consegna, del terrorista Cesare Battisti è per me motivo di grande soddisfazione. Durante gli anni della mia Presidenza, la questione Battisti è stata sempre al centro dell’attenzione mia e dei governi italiani: ricordo in particolare le mie iniziative di protesta e di sollecitazione nei rapporti con il presidente Lula, sia per via diplomatica ed epistolare, sia personalmente soprattutto in occasione della sua visita in Italia nel novembre del 2008, e successivamente durante il vertice G8 dell’Aquila del luglio 2009. Aggiungo che con Lula avevo avuto un importante momento, anche polemico, di confronto e chiarimento politico già in occasione di una mia visita politica in America Latina nel lontano 1988. Sapevo dunque di poter contare su un atteggiamento di forte vicinanza e rispetto da parte sua, su un’autorevolezza che spesi nei suoi confronti per sollecitarlo fortemente a decidere l’estradizione e la consegna alla giustizia italiana del criminale Battisti. Ottenni allora da lui in tal senso un netto impegno, che tuttavia non mantenne, cedendo alle pressioni della componente estremista della sua maggioranza e del suo governo. E credo che abbia avuto modo successivamente di capire il suo errore, finendo per lasciare la paternità e il merito dell’ordine di consegna di Battisti a un Capo di governo che oggi esprime un indirizzo politico ben lontano dalla sinistra. Decisivo comunque è stato il contributo delle forze di polizia italiane alla cattura del criminale latitante, e di ciò mi sono vivamente congratulato col Capo della Polizia, Franco Gabrielli. Rinnovo infine un pensiero commosso alle vittime dei crimini di Battisti, così come a tutte le vittime del terrorismo. Presidente emerito della Repubblica

Battisti, l’asse Bolsonaro-Salvini simbolo dell’internazionale sovranista, scrive il 14 gennaio 2019 Lorenzo Vita su ""Gli Occhi della guerra" de "Il Giornale". Cesare Battisti è in volo verso l’Italia. Anni di latitanza segnati da fughe, depistaggi e protezione da parte dei governi di sinistra, sono finiti la scorsa notte, con l’arresto da parte dell’Interpol mentre tentava la via della Bolivia. Per Battisti potrebbe finalmente trattarsi dell’ultima fuga. L’ultimo tentativo di fuggire dalla rete della giustizia da parte di un uomo braccato dalla polizia italiana e brasiliana e che ha perso, in poche settimane, quella tutela di cui ha goduto per anni. Protetto dalle autorità locali perché ritenuto un combattente per la causa del socialismo e non, come abbiamo scritto, semplicemente un “assassino puro”. E la protezione di Brasilia, Battisti l’ha persa quando al potere è salito Jair Bolsonaro. Da candidato dell’ultradestra brasiliana prima ancora che da presidente, Bolsonaro ha immediatamente promesso all’Italia la restituzione di Battisti. Una mossa che a molti è apparsa anche eccessivamente ricercata, visto l’impegno profuso da parte del candidato per il “trono” di Brasilia a farsi amica l’Italia. Ma in realtà è stata una mossa strategica di particolare importanza che ha mostrato da subito la volontà del futuro presidente brasiliano di entrare a far parte del mondo sovranista al potere. Un vero e proprio club che sta cercando di prendersi il mondo. E che necessita di alleanze solide e che spazino dall’America all’Europa. Bolsonaro questo lo ha capito subito. E lo ha capito anche Matteo Salvini, che ha sostenuto immediatamente il candidato presidente sudamericano con la certezza che avrebbe fatto il possibile per restituire all’Italia il terrorista rosso. Bolsonaro si è presentato al Brasile e al mondo come l’anti-Lula e l’anti-Roussef. E di conseguenza non poteva che negare la protezione del suo Paese a un uomo che ha rappresentato per anni il beniamino della sinistra radicale brasiliana. L’asse Bolsonaro-Salvini ha funzionato, dunque. Ed ha dimostrato che esiste una sorta di diplomazia internazionale politica (e se vogliamo ideologica) che è sfruttata più della stessa diplomazia classica. È una politica estera parallela, fatta di contatti personali, amici potenti in comune, sponsor internazionali, tweet e messaggi di sostegno che sta creando una sorta di realtà parallela che travalica il mondo compassato e burocratico delle cancellerie. È un mondo diverso: ma è un mondo che è al governo. E per questo va capita la sua importanza. Bolsonaro e Salvini l’hanno compreso subito. La loro è un’amicizia virtuale che è diventata concreta: e oggi entrambi sono diventati i simboli del sovranismo sudamericano e di quello europeo. Alleati e con gli stessi alleati, ma con progetti molto diversi sia nei loro rispettivi Paesi che nei loro continente di riferimento, i due leader si sono scelti a vicenda e si relazionano quasi da pari. E questo prescinde dallo stesso connotato ideologico pregresso e da quello che vogliono fare del proprio Stato. Sono alleati politici prima ancora che alleati strategici; amici più che partner. Anche questo è il mondo (il club) del sovranismo: non serve essere perfettamente allineati sulla strategia da seguire in materia economica o sociale. L’importante è avere quei particolari punti del proprio programma che consentano a questi movimenti di avere una matrice comune, un comune denominatore su cui intanto far nascere alleanze. E questo non solo prescinde dal contenuto effettivo del programma di governo: come dimostrato dalle divergenze che esistono fra l’agenda dell’ultradestra brasiliana e della Lega. Ma prescinde anche dal fatto che uno sia al governo un altro sia all’opposizione nel proprio Paese. O che uno sia presidente e l’altro ministro di una parte del governo. L’internazionale sovranista garantisce che queste relazioni siano stabili e durature al netto della forza del partito o della posizione che esso riveste all’interno della politica di un Paese. Si è tutti parte di un’unica grande rete. Sembra essere questo il vero programma della cosiddetta internazionale sovranista. Ed è una rete che vuole prima di tutto sostituirsi all’establishment che ha ha avuto fino ad ora in mano le redini della diplomazia e della politica. Lo si fa partendo da idee diverse ma da alleati comuni. Tutti hanno in Donald Trump uno sponsor comune, e quindi l’amministrazione degli Stati Uniti. Tutti sostengono il consolidamento dei legami con Israele, con Benjamin Netanyahu che riceve a turno la maggior parte dei leader del sovranismo europeo e sudamericano. E tutti quanti sanno di dover contrastare chi ha governato per anni o decenni il Paese in cui vogliono andare al potere. Per farlo, bisogna essere uniti. E Bolsonaro e Salvini, sul caso Battisti, sono la dimostrazione concreta di questo nuovo modo e questo nuovo mondo della politica internazionale. Tanto che anche in Italia e nello stesso governo, qualcuno inizia a storcere il naso. Il Movimento 5 Stelle cerca di riaffermare che la cattura di Battisti è un risultato del governo in cui il ministro della Giustizia è Alfonso Bonafede un pentastellato. Mentre Bolsonaro, dall’altra parte, twitta a sostegno di Salvini. E il confine tra diplomazia parallela, personale e tradizionale si assottiglia sempre di più.

Così Montanelli difese le vittime del killer rosso. «La stampa di sinistra lo bollò come fascista: infangato pure da morto», scrive "Il Giornale" Lunedì 14/01/2019. Indro Montanelli: Il 23 gennaio del '79 ci fu, in una pizzeria di Milano in via Malpighi, un tentativo di rapina. La vittima designata era un orefice, Pier Luigi Torregiani, che si trovava lì con la figlia e un amico. All'ingiunzione di consegnare il portafoglio, il Torregiani rispose con una mossa di karate che immobilizzò uno dei due banditi, ed estrasse la pistola. Ci fu una sparatoria al termine della quale si contarono due morti: un rapinatore e un avventore che si trovava lì per caso. L'episodio fu variamente commentato, ma quasi tutti i giornali biasimarono il Torregiani per la sua pretesa di farsi giustizia da solo, opponendo violenza a violenza, anche a costo di mettere a repentaglio la vita di alcune persone: qualcuno parlò addirittura di «fascismo» e «neosquadrismo». La riprovazione non si addolcì neanche quando si seppe che il Torregiani era affetto da un male incurabile e aveva adottato tre bambini rimasti orfani. La professione che esercitava lo qualificava senza scampo «capitalista». E questa etichetta, anche se non giustificava l'aggressione, ne attenuava la gravità riducendola a «esproprio proletario». Tre settimane dopo, il 16 febbraio mi pare, mentre rincasava con suo figlio Alberto, Torreggiani fu assalito alle spalle da quattro individui che stavolta non gli dettero il tempo di tentare una difesa. Riuscì ugualmente a sparare tre colpi, ma alla cieca. Cadde crivellato di colpi e spirò subito mentre anche Alberto veniva raggiunto da una pallottola alla spina dorsale che lo ha condannato alla carrozzella a vita. Negl'imbarazzanti resconti dell'indomani, gli attributi di «fascista» e «neosquadrista» scomparvero. Ma quello di «capitalista» rimase, esplicito o sottinteso. Su di esso insisteva anche il solito volantino con cui i criminali rivendicavano l'eccidio presentandolo come un «atto di giustizia proletaria» contro chi, «in nome del sacro valore della merce non ha esitato a decretare ed eseguire sentenze di morte contro migliaia di proletari, colpevoli solo di riprendersi una parte di quel reddito che ogni giorno il capitale e le sue strutture estorcono». Forse gli assassini del Torregiani erano solo dei malviventi che non avevano nulla a che fare con le organizzazioni terroristiche. Ma se ne usurpavano il messaggio era perché sapevano ch'esso sortiva un certo effetto sulla pubblica opinione, o almeno su quella che tiene ad apparire più «aperta» e «progressista». Infatti l'esecrazione fu contenuta e parsimoniosamente espressa in termini di circostanza: un commentatore cercò addirittura di farseli perdonare scrivendo che il povero morto era, sì, un orefice, ma di serie C, poco più che un rigattiere. Sottintendendo che, se fosse stato di serie A, non avrebbe avuto diritto alla commiserazione. (...) Il Giornale, 5 novembre 1981

Alessandro Sallusti su Cesare Battisti: "Il cancro che lo ha salvato per 40 anni", scrive il 14 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. "Cesare Battisti, prima che la libertà, ha perso le elezioni", scrive Alessandro Sallusti commentando l'arresto del terrorista su Il Giornale. E questo, "la dice lunga su quel cancro che è stata l'internazionale socialista, lobby che ancora oggi santificherebbe volentieri un delinquente comune, un assassino". Battisti è stato "salvato dalla sinistra italiana "ipocrita e camaleontica". Su di lui continua il direttore, "è mancata una parola chiara e definitiva dei grandi capi dei partiti comunisti e post comunisti italiani che si sono succeduti in questo non breve lasso di tempo. Anzi, ancora ieri da quelle parti c'è stato qualcuno che ha evocato e invocato un provvedimento di amnistia. Mettere in cella Battisti è una vittoria, sapere che i suoi complici politici e intellettuali vecchi e nuovi non pagheranno mai è invece una sconfitta".

Battisti è un “assassino puro”. Ma la sinistra l’ha protetto per anni, scrive il 13 gennaio 2019 Lorenzo Vita su ""Gli Occhi della guerra" de "Il Giornale". Cesare Battisti è stato arrestato. Alle 17 ora locale del 12 gennaio, l’Interpol ha fermato il terrorista dei Pac mentre cercava di fuggire in Bolivia. E adesso l’Italia aspetta giustizia, dopo anni di latitanza e dopo le promesse del nuovo presidente brasiliano Jair Bolsonaro, che prima di essere eletto ha confermato tutto il suo impegno per prendere Battisti e aprire le porte dell’estradizione. Ora tutto sembra possibile. Ma con Battisti bisogna essere sempre estremamente cauti. Per troppi anni il terrorista (c’è chi lo definisce “ex” ma in fondo lo è sempre stato) ha goduto della protezione internazionale dei governi. E ogni volta che sembrava essere giunta l’ora di rientrare in Italia e pagare il conto con lo Stato, l’ex membro dei Pac si è sempre dileguato, lasciando dietro di sé una scia di legami potenti ma soprattutto di domande: perché è stato continuamente protetto? Per capirlo, bisogna tornare indietro nel tempo, agli anni Settanta, quando il terrorismo aveva ancora una matrice puramente ideologica e la sinistra del mondo tutelava gli autori dei crimini che si rifacevano, anche solo vagamente, al marxismo. Tutto è sembrato permesso. Tutto era quasi lecito se serviva a proteggere uno di loro, che loro però non era mai stato davvero. Così, inizia la latitanza di Battisti protetta è garantita dai salotti parigini e da quella sinistra che oggi definiremmo “radical-chic” che ha creduto di essere nel giusto mettendo al sicuro dalle patrie galere un assassino. Non bastavano i testimoni, i processi e le condanne. A quel tempo, la giustizia italiana era considerata nemica della sinistra e dell’idea e il sistema processuale una giungla fatta di “nemici del popolo”. A questa narrazione prendono parte tutti, politici, intellettuali, attori, italiani e stranieri. A Parigi, la gauche-caviar lo pone sotto la sua ala protettrice complice la dottrina Mitterrand che difende i terroristi di tutto il mondo ritenuti perseguitati in patria. Come ricorda Panorama, “in quell’epoca, scrittori e intellettuali di mezzo mondo come Gabriel García Márquez, Fred Vargas, Daniel Pennac e Bernard-Henri Lévy facevano ancora appelli per lui. Persino Carla Bruni, all’epoca première dame di Francia, protestava la sua innocenza”. E a nulla valgono le parole del pubblico ministero Antonio Spataro che, come riportato da Affari Italiani, di Battisti disse che era semplicemente “un assassino puro” e che fosse “assolutamente ridicolo e falso che siano stati accertati, nel caso Battisti, casi di tortura. Subito dopo l’omicidio del gioielliere Torregiani, fu individuato uno degli autori del fatto. Due suoi parenti e alcuni degli arrestati resero dichiarazioni fondamentali a carico degli assassini che, però, cercarono di ritirare due giorni dopo affermando che erano state loro estorte con torture. I giudici che si occuparono del caso, e non io, accertarono facilmente che quelle denunce erano false e strumentali”. Ma queste dichiarazioni non sono bastate. E il terrorista rosso ha continuato a essere difeso per anni da larga parte dell’intelligenzia di sinistra, assuefatta dalla possibilità di difendere un ideologo perseguitato. No: era semplicemente un assassino. Un criminale comune che solo in carcere, a Udine, si avvicina alla sinistra radicale. Ma tanto basta per farne una sorta di martire che dal 1991 al 2004 ha goduto dalle tutela della giustizia francese. Un mistero, se non una vera e propria arma di ricatto contro l’Italia, finito poi in Brasile. E qui, stessa questione: la sinistra internazionale continua a difenderlo e Lula da Silva e Dilma Roussef lo elevano a vero e proprio simbolo della rivoluzione. La giustizia brasiliana ha le mani legate: i presidenti firmano decreti per tenerlo in Brasile e bloccare qualsiasi tentativo di estradizione. E anche la Corte suprema ribadisce che solo un presidente può cambiare la decisione di un suo predecessore. E ora è tutto nelle mani di Jair Bolsonaro.

La sinistra non si arrende: "Amnistia per Cesare Battisti". Il portavoce del Pcl e lo scrittore Christian Raimo ha commentato la cattura di Battisti: "L'amnistia sarebbe la soluzione logica", "Abolire l'ergastolo", scrive Giorgia Baroncini, Domenica 13/01/2019, su "Il Giornale". "Per fatti di 30 anni fa, la soluzione logica dovrebbe essere l'amnistia per Cesare Battisti". Così Marco Ferrando, portavoce nazionale del Partito Comunista dei Lavoratori, ha commentato la cattura in Bolivia del terrorista dei Pac, condannato all'ergastolo. "Da parte del governo - ha dichiarato Ferrando ad AdnKronos - c'è il tentativo di sfruttare questa cosa come occasione propagandistica. Noi siamo sempre stati ferocemente contrari, da un punto di vista anticapitalistico e rivoluzionario, a ogni teoria e pratica del terrorismo, che porta acqua alle classi dominanti e disorienta la classe operaia". "La soluzione logica dovrebbe essere l'amnistia. Nessun elemento di enfasi, di gioia o di solidarietà verso un governo reazionario come quello di Salvini e Di Maio", ha continuato il portavoce del Pcl dicendosi "contrario all'estradizione di Battisti. Noi non abbiamo nulla a che spartire con la collaborazione tra un governo ultra-reazionario come quello di Bolsonaro e quello di Salvini. Entrambi vogliono esibire Battisti come trofeo". Dalla parte del terrorista dei Pac anche lo scrittore Christian Raimo. "Ho firmato quattordici anni fa un appello per la liberazione di Cesare Battisti. Ho conosciuto e ho lavorato insieme ai parenti di quelle che sarebbero le vittime di Cesare Battisti, ascoltato il loro dolore. Ho letto alcuni romanzi di Cesare Battisti e non mi sono mai piaciuti. Non ho mai festeggiato per la galera a qualcuno. Per me l'ergastolo andrebbe abolito, per me andrebbero abolite le galere", ha dichiarto su Facebook lo scrittore, tra i firmatari dell'appello per la liberazione del terrorista dei Pac.

Sinistra patrocina libro sull'ex Br. Ira di Salvini: "Vergognoso". Il Comune di Settimo Milanese, guidato dalla sinistra, sponsorizza un testo su Walter Pezzoli. Proteste: "Celebra il terrorismo", scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 06/02/2019, su Il Giornale. Matteo Salvini all'attacco del sindaco di Settimo Minalese. Oggi il leader della Lega era a Terni e a margine dell'incontro politico è stato avvicinato dal nipote di un brigadiere ucciso nel 1997 dagli estremisti di sinistra e da lui è venuto a conoscenza del patrocinio dato dal Comune alla presentazione dell'ultimo libro sull'ex brigatista Pezzoli. Una decisione che il ministro dell'Interno contesta con asprezza, chiedendo al primo cittadino il "buonsenso" di annullare tutto in "rispetto delle vittime". "Incredibile e vergognoso che un Comune dia il patrocinio alla presentazione di un libro su un ex brigatista rosso", dice il leader della Lega. Il libro è stato scritto dal fratello e da alcuni conoscenti dell'ex Br, ricordandolo di come lui e suoi amici "diventarono grandi nel tempo in cui il desiderio che un altro mondo fosse possibile cresceva ovunque". La presentazione è prevista per il 23 febbraio nella biblioteca comunale, ma dopo l'intervento del titolare del Viminale è probabile che sul caso si scatenerà una polemica politica. Il libro, secondo quanto scrive il Giorno, narra infatti quanto successo l'11 dicembre del 1980 quando a Milano i carabinieri uccisero i brigatisti Roberto Serafini e - appunto - Walter Pezzoli (deceduto poco dopo in ospedale). Secondo Ruggiero Delvecchio, consigliere comunale di Forza Italia a Settimo, il libro getta ombre sull'operato dei militari "accusati di essere dei disinvolti pistoleri". "Queste accuse - dice l'azzurro al Giorno - vengono mosse men che meno da ex brigatisti rossi della colonna Walter Alasia, protagonisti di una copiosa scia di delitti di sangue perpetrati in Milano e provincia dal 1977 al 1981. Il comune di Settimo Milanese e il sindaco di sinistra secondo me commettono un gravissimo errore nel prestare il proprio patrocinio a questo evento ammantato dalla falsa valenza culturale di un libro pubblicato, ovviamente, dalla casa editrice di Renato Curcio". Sul sito del Comune, la presentazione viene pubblicizzata con una pagina dedicata. "Trentotto anni dopo" i fatti, si legge, gli "amici di Pero, la periferia milanese in cui" Walter Pezzoli "è cresciuto, scelgono, con questo lavoro a più mani, di ricordarlo così: 'In quest’angolo di mondo le loro madri ed i loro padri nacquero poco prima o arrivarono poco dopo la fine della guerra. In quest’angolo di mondo, trasformato, in pochi anni, da fertile campagna ad inenarrabile concentrato di veleni, Walter ed i sui amici e compagni diventarono grandi nel tempo in cui il desiderio che un altro mondo fosse possibile cresceva ovunque, nelle coscienze, inarrestabile e senza limite alcuno'". Fonti del Viminale fanno notare anche che, secondo il regolamento comunale, la concessione del patrocinio è concessa solo se la richiesta risponde a tre criteri fondamentali: il primo, la coerenza dell’attività o dell’iniziativa con le finalità istituzionali del Comune; il secondo, la rilevanza per la comunità locale; il terzo, l'efficacia dell’iniziativa. "Dovrebbe ritirare il patrocinio e chiedere scusa", dice Salvini al sindaco di Settimo Milanese.

Quando il Pci ricattò il Colle: grazia all'ergastolano. Moranino era fuggito a Praga e rientrò in Italia dopo l'atto di clemenza di Saragat, scrive Stefano Zurlo, Martedì 06/08/2013, su "Il Giornale". La storia non si ripete, però ci sorprende e ci spiazza. La storia, se si rileggono certi passaggi, può scombussolare le fondamenta dei ragionamenti che si ripetono in questi giorni surriscaldati di mezza estate. Si dice che la grazia non può essere un quarto grado di giudizio e che il condannato non può riceverla se non ha cominciato ad espiare la pena. Si ammucchiano tanti concetti, tutti politically correct, poi t'imbatti nella vicenda tragica e drammatica di Francesco Moranino, il comandante «Gemisto», comunista doc, partigiano, deputato e tante altre cose ancora e sei costretto a rivedere quei giudizi affrettati. Il caso Moranino è per certi aspetti ancora aperto come tante pagine controverse del nostro passato, ma alcuni elementi sono chiari. Il primo: nel 1955 il Parlamento concesse l'autorizzazione a procedere, la prima nel Dopoguerra, e Moranino fu condannato all'ergastolo per l'uccisione di cinque partigiani bianchi e di due delle loro mogli; il secondo: non rimase in Italia a scontare mestamente la condanna. No, fu aiutato dal Pci a scappare. Riparò a Praga e là attese gli eventi. Attenzione: Praga era la capitale di un paese nemico nell'Europa sull'orlo del conflitto degli anni Cinquanta e Sessanta. Da Praga Moranino portò a casa due risultati clamorosi; prima, nel '58, il presidente Giovanni Gronchi commutò la sua pena: dal carcere a vita a 10 anni. Poi nel '65 il suo successore Giuseppe Saragat gli concesse la grazia. Sì, avete letto bene. Il presidente della Repubblica cancellò con un colpo di spugna la pena. Saragat non si preoccupò del fatto che la grazia potesse sconfessare l'opera della magistratura e suonare appunto come un quarto grado di giudizio. Anzi, il presidente non si fermò neppure quando il procuratore generale di Firenze, chiamato ad esprimersi, diede un parere negativo. La grazia fu firmata lo stesso, anche se Moranino era latitante, in fuga oltre la Cortina di ferro. E, insomma, la sorprendente conclusione poteva essere interpretata come una resa dello Stato ad una parte. Per piantare la bandierina della grazia, Saragat scalò una parete di sesto grado, altro che la frode e l'evasione fiscale di cui si parla in questi giorni. Moranino naturalmente si proclamava innocente e poi tutto quel periodo storico convulso, la stagione della Resistenza e la sua coda nelle settimane successive al 25 aprile, era ed è oggetto di una grande disputa: le esecuzioni senza pietà dovevano essere coperte dallo scudo della Resistenza che tutto giustificava e assorbiva. La querelle, come è noto, si è trascinata nel tempo: il sangue dei vinti, come l'ha chiamato Giampaolo Pansa, non ha ancora trovato pace. Ma Saragat non si soffermò sulle conseguenze giuridiche di quell'atto e puntò dritto all'obiettivo della pacificazione. La politica, con i suoi accordi sotterranei, vinse su tutto il resto, anche sull'indecenza di un atto che, pur se bilanciato da misure di clemenza verso i neri della Repubblica sociale, sconcertò molti italiani. L'ha spiegato molto bene Sergio Romano rispondendo ad un lettore dalla colonne del Corriere della sera: «Credo che Giuseppe Saragat abbia pagato un debito di riconoscenza al partito che aveva contribuito ad eleggerlo». Saragat era diventato capo dello Stato il 28 dicembre 1964, con il contributo determinante del Pci. La grazia arrivò a tamburo battente il 27 aprile 1965. Ci fu probabilmente un baratto: l'elezione in cambio della chiusura di quel capitolo orrendo. Moranino rientrò con comodo, nel '68, e il Pci non ebbe alcun imbarazzo a ricandidarlo e a farlo rieleggere. A Palazzo Madama. L'Italia usciva così definitivamente dal clima avvelenato della guerra, ma il prezzo pagato allo stato di diritto fu altissimo.

Quell'accordo siglato dall'ex ministro Orlando: "Niente ergastolo per Battisti". In Brasile non c'è l’ergastolo. Per questo il governo Gentiloni si era impegnata per garantire che non sarebbe stato applicato a Battisti, scrive Sergio Rame, Domenica 13/01/2019, su "Il Giornale".  Condannato in Italia a due ergastoli per quattro omicidi, Cesare Battisti si era reso irreperibile dopo l'ordine di arresto emesso dal giudice del Tribunale Supremo brasiliano, Luiz Fux, e il decreto di estradizione firmato dal presidente uscente Michel Temer. Il terrorista sarà presto portato in Brasile e da lì verrà rimandato in Italia dove le famiglie delle vittime lo attendono per avere giustizia e accertarsi che sconti la sua pena. Tuttavia, come ricorda il Corriere della Sera, il precedente governo guidato da Paolo Gentiloni aveva stretto un accordo con il Brasile per garantire che, una volta riportato in Italia, non avrebbe scontato l'ergastolo. In Brasile Battisti era arrivato dopo aver fatto perdere le sue tracce il 22 agosto del 2004, lasciando la Francia, dove, evaso da un carcere italiano, si era rifugiato nel 1980. A Parigi, grazie alla "dottrina Mitterrand", si era rifatto una vita: abbandonata la lotta armata, si era dato alla scrittura pubblicando gialli e saggi in cui proponeva alcune analisi sull'esperienza dell'antagonismo radicale. Poi, però, quando l'aria era cominciata a farsi più pesante, Battisti aveva deciso di fuggire. A cambiare le carte in tavola era stato il parere favorevole all'estradizione dato dalla Corte d'appello di Parigi il 30 giugno del 2004. Il presidente francese Jacques Chirac aveva, infatti, fatto sapere che avrebbe dato il via libera all'estradizione nel caso in cui il ricorso in Cassazione presentato dai legali di Battisti fosse stato respinto. Pochi mesi dopo, il 23 ottobre 2004 il primo ministro francese, Jean Pierre Raffarin, aveva firmato il decreto di estradizione che costringeva il terrorista a scontare la propria pena in Italia. Fuggito dalla Francia nel 2004, Battisti è stato arrestato in Brasile nel 2007 ed è rimasto nel carcere di Papuda fino al giugno 2011. Nel 2009 Il Tribunale Supremo Federale autorizzò l'estradizione, ma la decisione fu bloccata dal pronunciamento del presidente Luiz Inácio Lula da Silva e Battisti ottenne il permesso di residenza permanente. Ma con l'elezione di Jair Bolsonaro la musica è cambiata e, dopo l'arresto in Bolivia, si attende che il terrorista venga riportato in Italia. Ora non resta che vedere che pena sarà chiamato a scontare. "In Brasile non c’è l’ergastolo, è vietato dalla Costituzione: per questo l'Italia si è impegnata per garantire che non sarà applicato a Battisti", ha spiegato al Corriere della Sera l'ex direttore degli Affari di Giustizia del dicastero di via Arenula, Raffaele Piccirillo, che seguì direttamente il caso quando ministro era Andrea Orlando. In base all'accordo della cosiddetta "condizione accettata", concluso il 5 e 6 ottobre del 2017, a Battisti verrà applicata la pena massima di trent'anni. "L'autorità che doveva concedere l'estradizione, ossia il Brasile - ha continuato Piccirillo - ha apposto la condizione legata all'ergastolo e il ministro della Giustizia l'ha accettata". Un tetto che, secondo gli esperti, potrebbe anche rivisto al ribasso perché, come spiega sempre l'ex direttore degli Affari di Giustizia, il terrorista potrebbe anche "usufruire dei benefici penitenziari, come la liberazione anticipata prevista dall'articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario". Per richiederlo, però, dovrà scontare almeno metà della pena inflitta.

Quando gli intellettuali firmavano per Battisti. La storia dell'appello per il terrorista, sottoscritto nel 2004 da Pennac a Vauro, da Scarpa a Saviano, il solo che nel 2009 ritirò la firma, scrive Maurizio Tortorella il 16 ottobre 2017 su "Panorama". Nel 1993 è stato condannato definitivamente all’ergastolo per due omicidi volontari e per il concorso morale in altri due. Insomma, è un criminale acclarato. Eppure Cesare Battisti è stato il terrorista più difeso e protetto nella storia italiana. Una vicenda che può chiudersi oggi con la cattura in Bolivia ed il via all'estradizione in Italia. Ancora nel 2004, quando fu arrestato in quella Francia che lo aveva protetto per lunghi anni grazie alla "dottrina Mitterrand" (che in nome della grandeur e di un malconcepito disprezzo della giustizia italiana dava asilo ai peggiori terroristi rossi italiani) di qua e di là dalle Alpi decine di intellettuali veri e sedicenti firmarono in massa un appello per la sua scarcerazione. Un movimento simile si mise in moto anche nel 2007, quando il terrorista dei Proletari armati combattenti riparò nel Brasile governato autoritariamente dal presidente Inacio Lula da Silva (il quale gli garantì un diritto d’asilo politico che finalmente è stato appena revocato dal nuovo presidente): in quell'occasione si schierarono a suo favore nientemeno che Bernard Henry-Levy e Gabriel Garcia Marquez. È stato merito di un abile marketing politico. Battisti, che nella sua prima vita delinquenziale è stato soltanto un criminale ordinario e che soltanto a un certo punto si è trasformato in terrorista rivoluzionario, è riuscito proprio con questo abile paso doble a ingraziarsi buona arte della cultura radical chic italiana e della gauche caviar d’Oltralpe. Gli esempi si sprecano. Una nota scrittrice francese, Fred Vargas, si è trasformata nella pasionaria di Battisti, nemmeno il terrorista potesse essere equivocato per un eroe romantico. Un suo pamphlet, La vérité sur Cesare Battisti, uscito nel 2004, descriveva l’Italia degli anni di piombo come un Paese decisamente più illiberale e autoritario del Cile di Augusto Pinochet, e dipingeva i "poveri" terroristi rossi come eroi di una guerra civile persa dalla parte giusta soltanto grazie agli arresti di massa: con decina di migliaia di quei “democratici oppositori” sbattuti in carcere fra torture, tribunali speciali peggiori di quelli del fascismo, e migliaia di arbitrarie sentenze sommarie. Ma gli appelli, si sa, spesso si trasformano in una trappola. Perché chi firma resta ingabbiato per sempre in una posizione che viene incisa nella pietra, e anni dopo viene estremamente difficile negare. Ecco, se oggi fossero intervistati, chissà che cosa direbbero di Battisti quanti avevano firmato l’appello mistificatorio del 2004. Nell'appello si leggevano queste enfatiche affermazioni: "Dal momento della sua fuga dall’Italia, prima in Messico e poi in Francia, Cesare Battisti si è dedicato a un’intensa attività letteraria, centrata sul ripensamento dell’esperienza di antagonismo radicale che vide coinvolti centinaia di migliaia di giovani italiani e che spesso sfociò nella lotta armata. La sua opera è nel suo assieme una straordinaria e ineguagliata riflessione sugli anni Settanta, quale nessuna forza politica che ha governato l’Italia da quel tempo a oggi ha osato tentare". Insomma: secondo i firmatari del 2004, dal 1972 al 1989 Battisti aveva sì rapinato, sparato e ucciso, ma poiché nella latitanza parigina aveva scritto qualche libro (in realtà rinnegando poco o nulla della sua tragica esperienza criminale) solo per questo non meritava di andare in galera. Stupiti di tanta arroganza? L’appello mica si fermava lì. Continuava così: “Nulla lega Battisti a terrorismi di sorta, se non la capacità di meditare su un passato che per lui si è chiuso tanti anni fa. Trattarlo oggi da criminale è un oltraggio non solo alla verità, ma pure a tutti coloro che, nella storia anche non recente, hanno affidato alla parola scritta la spiegazione della loro vita e il loro riscatto". Oltraggio alla verità, certo. E infatti i firmatari, da buoni sacerdoti e depositari della "verità vera", insistevano nel denunciare che contro il povero Battisti era stata ordita una squallida congiura: "C’è chi ha interesse a che una voce come quella di Cesare Battisti venga tacitata per sempre. Chi, per esempio, contribuì alle tragedie degli anni Settanta, militando nelle file neofasciste o in quelle di organizzazioni clandestine quanto i Proletari armati per il comunismo, chiamate Gladio o Loggia P2, e sospettate di un numero impressionante di crimini. Chi fa oggi della xenofobia la propria bandiera. In una parola, una gran parte del governo italiano attuale”. Il farneticante appello del 2004, che metteva sullo stesso piano Gladio, Ps, terroristi di ogni colore e ovviamente il centrodestra che in quel momento era al governo con Silvio Berlusconi, si concludeva così: "La vita di Cesare Battisti in Francia è stata modesta, piena di difficoltà e di sacrifici, retta da una eccezionale forza intellettuale. È riuscito ad attirarsi la stima del mondo della cultura e l’amore di una schiera enorme di lettori (…). È un uomo onesto, arguto, profondo, anticonformista nel rimettere in gioco fino in fondo se stesso e la storia che ha vissuto. In una parola, un intellettuale vero". Tra i firmatari che 13 anni fa si schierarono a favore dell’intellettuale, l’uomo “arguto e profondo” che oggi sostiene nelle sue interviste brasiliane che l’Italia chiede la sua estradizione “perché è un Paese arrogante”, c'erano scrittori e artisti di rilievo come il collettivo Wu Ming, Valerio Evangelisti, Massimo Carlotto, Tiziano Scarpa, Nanni Balestrini, Daniel Pennac, Giuseppe Genna, Giorgio Agamben, Girolamo De Michele, il vignettista Vauro, Lello Voce, Pino Cacucci, Christian Raimo, Sandrone Dazieri, Loredana Lipperini, Marco Philopat, Gianfranco Manfredi, Laura Grimaldi, Antonio Moresco, Carla Benedetti, Stefano Tassinari... Tra i firmatari del 2004 figurava anche uno sconosciuto ventiquattrenne napoletano, Roberto Saviano. Due anni dopo, però, quel Saviano raggiunge però la fama con un romanzo, Gomorra, e nel 2009, quando la sua fama esplode, corre a ritirare la firma dall'appello motivando la sua decisione con queste imbarazzate parole: “Mi segnalano la mia firma in un appello per Cesare Battisti (...) finita lì per chissà quali strade del web e alla fine di chissà quali discussioni di quel periodo. Qualcuno mi mostra quel testo, lo leggo, vedo la mia firma e dico: non so abbastanza di questa vicenda (...) Chiedo quindi di togliere il mio nome, per rispetto a tutte le vittime”. Chissà perché. Forse il Saviano autore di best-seller contro la camorra, diventato punta di lancia dell’Italia antimafia e legalitaria, non poteva più essere confuso con l’altro Saviano, il firmatario di appelli che chiedevano la libertà di un rapinatore e pluri-omicida, condannato in via definitiva all’ergastolo.

Vauro non cambia linea: "Rivendico la mia firma sull'appello per Battisti". Vauro Senesi non fa un passo indietro nemmeno dopo l'arresto di Cesare Battisti e rivendica ancora una volta l'appello firmato qualche anno fa, scrive Luca Romano, Domenica 13/01/2019, su "Il Giornale".  Vauro Senesi non fa un passo indietro nemmeno dopo l'arresto di Cesare Battisti e rivendica ancora una volta l'appello firmato qualche anno fa, nel 2004 per l'ex terrorista dei Pac. Con un intervento sul sito del Fatto, secondo quanto riporta l'Adnkronos, Vauro spiega i motivi di quella scelta che probabilmente rifarebbe: "Mi assumo tutta la responsabilità politica e morale della mia firma sotto l'appello per Cesare Battisti del 2004. In realtà fu una persona, della quale non farò il nome, ad apporla per me, dando per scontata una mia adesione. Avrei dovuto ritirarla al tempo e non lo feci per colpevole superficialità e malinteso senso di amicizia. Non l'ho fatto nemmeno successivamente, quando scoppiarono le polemiche, perché un ritiro tardivo mi appariva e mi appare come un atto ipocrita volto a scaricare le responsabilità personali di cui sopra". Poi parla di Battisti e spiega ancora i motivi che l'hanno spinto a firmare quell'appello: "esare Battisti - scrive il vignettista - è un fantasma che viene da anni orribili, anni di piombo e di stragi, anni di connivenze criminali tra parti dello stato terrorismo e mafia. Anni nei quali in Italia il confine tra Giustizia e vendetta politica era divenuto labile ed ambiguo, tanto da giustificare la cosiddetta 'Dottrina Mitterrand' in base alla quale la Francia negò l'estradizione di Battisti. Anni che sono stati rimossi e mai analizzati". Infine parla del Battisti di oggi che molto probabilmente finirà (giustamente) in un carcere italiano: Battisti è un fantasma che oggi si reincarna in manette. Altri fantasmi di quella epoca tragica restano evanescenti ed impuniti… Piazza Fontana, Piazza della Loggia a Brescia fino alle stragi mafiose del '92-'93, fantasmi che si nascondono tra la polvere degli archivi dei palazzi del potere, tra segreti mai svelati, connivenze forse mai sciolte. Battisti andrà in carcere come è giusto che sia se ha commesso fatti di sangue ma Giustizia sarà davvero fatta solo quando quella polvere sarà spazzata via, quei segreti svelati, quelle connivenze recise. Quando finalmente questo Paese deciderà di fare i conti con la propria storia".

«Spero che arrestino Sofri» (ma si tratta di Battisti), social scatenati sulla gaffe di Pepe, scrive Sabato 15/12/2018 Il Quotidiano del Sud. «È andata bene, poteva anche dire Mogol»: da qualche ora i social si stanno scatenando sulla gaffe di Pasquale Pepe, il senatore leghista di Potenza che giovedì – durante le dichiarazioni di voto al Senato sul decreto anti-corruzione – prendendo la parola in qualità di capogruppo ha tenuto a ribadire ai colleghi del Pd che la sua forza politica non è giustizialista e garantista a giorni alterni, a partire dal «caso di Sofri». Riferimento sbagliato a Cesare Battisti, l'ex leader di Lotta Continua che si trova in Brasile ma da qualche ora risulta irreperibile. Intanto, i colleghi salviniani hanno fatto partire l'applauso, così, sulla fiducia. Dopo un lungo periodo in Francia, l'ex terrorista poi scrittore di successo aveva ottenuto la protezione del governo brasiliano, che aveva negato sempre la sua estradizione in Italia: con l'elezione a presidente di Jair Bolsonaro, leader di estrema destra, il clima è decisamente cambiato. Ieri pomeriggio era arrivata – sempre sui social, in particolare facebook – il commento divertito dello stesso Sofri: «La mia reputazione ha avuto una piccola impennata, giovedì, grazie a un irresistibile senatore leghista che parlava in pro della legge contro i reati nella pubblica amministrazione. Costui ha prima imputato ai senatori seduti a sinistra di aver “addirittura difeso Sofri Bompressi e Pietrostefani” (se l’era scritto, per non sbagliare), poi ha perfezionato vibratamente la cosa: “E a proposito di Sofri io spero che il presidente Bolsonaro finalmente lo assicuri alle patrie galere per i crimini schifosi che ha commesso in Italia”. A questo punto i senatori leghisti sono scoppiati in un applauso. Mancava solo un altro dettaglio, la presidenza del Senato, in quel momento tenuta da una signora 5 Stelle, la quale ha detto: “Rimanga nell’ambito del provvedimento, la magistratura farà il suo dovere nell’ambito di quello che è il suo compito”. Citazioni testuali, del resto la registrazione è disponibile, anche sul Fb dell’oratore, evidentemente fiero del colpo che aveva assestato: solo più tardi ne ha aggiunto uno tagliato. Ho saputo della mia riuscita da un articolo di Sansonetti sul Dubbio. Nessun altro sembra essersene accorto, forse per il leggendario rispetto che hanno per la privacy, compresa la mia. Ah no, il Fatto ha dedicato al fatterello alcune sapide righe, nelle quali si dice di passaggio che “l’ex leader di Lotta Continua ha finito di scontare la pena (in parte in carcere in parte in libertà)… nel 2012”. E’ la prima volta che leggo di una pena scontata in libertà. Era la mia giornata fortunata». 

Io, Adriano Sofri, non sono Cesare Battisti. La mia reputazione ha avuto una piccola impennata. C'entrano un irresistibile senatore leghista, una senatrice grillina e alcune sapide righe del Fatto, scrive Adriano Sofri il 14 Dicembre 2018 su Il Foglio. La mia reputazione ha avuto una piccola impennata, giovedì, grazie a un irresistibile senatore leghista che parlava in pro della legge contro i reati nella pubblica amministrazione (video sotto). Costui ha prima imputato ai senatori seduti a sinistra di aver “addirittura difeso Sofri Bompressi e Pietrostefani” (se l’era scritto, per non sbagliare), poi ha perfezionato vibratamente la cosa: “E a proposito di Sofri io spero che il presidente Bolsonaro finalmente lo assicuri alle patrie galere per i crimini schifosi che ha commesso in Italia”. A questo punto i senatori leghisti sono scoppiati in un applauso. Mancava solo un altro dettaglio, la presidenza del Senato, in quel momento tenuta da una signora 5 stelle, la quale ha detto: “Rimanga nell’ambito del provvedimento, la magistratura farà il suo dovere nell’ambito di quello che è il suo compito”. Citazioni testuali, del resto la registrazione è disponibile, anche sul Fb dell’oratore, evidentemente fiero del colpo che aveva assestato: solo più tardi ne ha aggiunto uno tagliato. Ho saputo della mia riuscita da un articolo di Sansonetti sul Dubbio. Nessun altro sembra essersene accorto, forse per il leggendario rispetto che hanno per la privacy, compresa la mia. Ah no, il Fatto ha dedicato al fatterello alcune sapide righe, nelle quali si dice di passaggio che “l’ex leader di Lotta Continua ha finito di scontare la pena (in parte in carcere in parte in libertà)… nel 2012”. E’ la prima volta che leggo di una pena scontata in libertà. Era la mia giornata fortunata.

Adriano Sofri contro il carcere. Lungo articolo pubblicato sul Foglio a proposito dell'arresto di Cesare Battisti, scrive huffingtonpost.it il 15/01/2019. "Ho sentito il presidente di un'Associazione delle vittime del terrorismo e dell'eversione contro l'ordine costituzionale, Roberto Della Rocca, lui stesso a suo tempo bersaglio di un attentato, uno di quanti si congratulano francamente per la cattura di Battisti, dire questa frase: "Non vogliamo portare qualcuno in galera perché marcisca dietro le sbarre". A scriverlo è Adriano Sofri - ex leader di Lotta Continua, condannato a 22 anni di carcere come dell'omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, nel 1972 - in un lungo articolo pubblicato sul quotidiano il Foglio a proposito dell'arresto di Cesare Battisti. Sofri critica le parole del ministro dell'Interno che, a suo modo di vedere ha "oltrepassato la soglia della stessa legalità formale" lasciandosi andare ad una "licenza personale". So mettermi nei panni di un agente della polizia penitenziaria. Ne ho conosciuti tanti, alcuni spregevoli, alcuni stimabili, di alcuni diventai amico. Dovranno occuparsi di questo Battisti sul quale si è fatto tanto chiasso. È probabile che agli agenti, benché non dipendano dagli Interni ma dalla Giustizia, siano arrivate più forti le parole di Salvini che quelle di Della Rocca. Immagino - potete immaginarlo anche voi - che risonanza possano avere parole simili in chi si proponga, per propria cordiale inclinazione o per zelo di obbedienza o tutti e due, di praticarle. Immagino di sentirle ripetere attraverso lo spioncino, come un divertito ritornello: 'Devi marcire fino all'ultimo giorno'. (È una variazione distillata, sofisticata, del più asciutto slogan di stadi e galere: 'De-vi mori-re!')".

A proposito di Salvini, Sofri scrive ancora: Bastava la televisione. Ha fatto capire che sarebbe stato più forte di lui, da vicino, l'impulso a farsi giustizia con le sue mani, tenetemi sennò. Gli agenti penitenziari, quelli nei cui panni mi ero messo sopra, lo vedranno giorno e notte da vicinissimo, Battisti. Speriamo che siano più controllati del ministro. Il quale, se non nei panni, nelle divise loro si mette in posa come nessun altro.

L'ex leader di Lotta continua prosegue: Capisco, mi pare, il desiderio dei famigliari delle vittime di vedere chiuso in carcere il responsabile provato - o colui che credono il responsabile provato - del loro lutto. Io però ho da tantissimo tempo, e molto prima che mi riguardasse così da vicino, un'obiezione di coscienza radicale alla galera, salvo quando la reclusione sia il solo modo per impedire a qualcuno di fare ancora del male. Un'abitudine pigra, ma niente è più ostinato dell'abitudine, continua a identificare il risarcimento dovuto alla vittima e alla comunità con la cella. Io provo solo disgusto e vergogna per la cella, con tanta forza che non mi succede mai, nemmeno fra me e me, di augurarmi che le persone che detesto e considero nemiche (ce ne sono, infatti, com'è umano) finiscano loro in galera. Perché la galera, chi la conosca da carcerato o da carceriere, e resti umano, nobilita il prigioniero e contagia di ignobiltà chi la augura.

Per Sofri il carcere è il luogo più disadatto al vero pentimento. Il carcere è così disumano e cattivo e assurdo da attenuare fino a cancellare la stessa differenza fra innocenza e colpevolezza, da insinuare nel detenuto una sensazione di umiliazione e di offesa che prevale sulla ragione che ce l'ha portato. In carcere si può 'pentirsi' solo maledicendo l'accidente che vi ci ha portati: una lezione a delinquere meglio, la volta che ne sarete usciti. Chi attraversi una conversione vera dei propri desideri e della propria vita lo fa non grazie alla galera, ma nonostante la galera. La quale, che lo si voglia oppure si pensi e si proclami di non volerlo, è una vendetta.

Lo striscione shock al Colosseo: "Battisti libero". Il terrorista Cesare Battisti arriverà oggi in Italia, ma c'è chi non si arrende: "Libertà per lui e per i compagni", scrive Andrea Riva, Lunedì 14/01/2019, su "Il Giornale".  Nonostante il destino di Cesare Battisti sia ormai deciso, c'è chi non si arrende e, anzi, continua a fare del terrorista rosso un eroe ingiustamente perseguitato dalla giustizia. E così ieri sera è apparso uno striscione vergognoso al Colosseo: "Battisti libero, amnistia per i compagni, noi restiamo". Il tutto, ovviamente, accompagnato da una stella a cinque punte rosse. In poche ore lo striscione è stato rimosso e ora sta investigando la Digos. Ma chi ha messo quello striscione non è solo. Proprio ieri raccontavamo di Marco Ferrando, portavoce nazionale del Partito Comunista dei Lavoratori, che diceva all'AdnKronos: "La soluzione logica dovrebbe essere l'amnistia. Nessun elemento di enfasi, di gioia o di solidarietà verso un governo reazionario come quello di Salvini e Di Maio". Pure lo scrittore Christian Raimo ieri diceva: "Ho firmato quattordici anni fa un appello per la liberazione di Cesare Battisti. Ho conosciuto e ho lavorato insieme ai parenti di quelle che sarebbero le vittime di Cesare Battisti, ascoltato il loro dolore. Ho letto alcuni romanzi di Cesare Battisti e non mi sono mai piaciuti. Non ho mai festeggiato per la galera a qualcuno. Per me l'ergastolo andrebbe abolito, per me andrebbero abolite le galere". Stefano Cavedagna, presidente di Forza Italia Giovani, ha duramente condannato l'accaduto: "Forza Italia Giovani condanna queste pazze proposte di una certa sinistra, che ha sempre, purtroppo, difeso Cesare Battisti, un assassino terrorista comunista che, in nome dell’odio della sua ideologia perversa, ha ucciso persone innocenti. Ricordiamo come, nel 2004, tante firme di sinistra primi tra tutti Saviano e Vauro, chiedevano a gran voce l’amnistia per Battisti, con una petizione pubblica. Ricordiamo che negli anni diversi esponenti della sinistra hanno cullato Battisti come se fosse una loro bandiera. Noi crediamo che Cesare Battisti debba marcire in una galera fino alla fine dei suoi giorni. Ci sono voluti tanti, troppi anni per riportarlo in Italia, perché tutelato dalle amministrazioni comuniste sudamericane, trattato come prigioniero politico, quando non era altro che un pazzo criminale. Non esiste alcuna forma di garantismo nei confronti di un terrorista assassino comunista, che uccide in nome della sua malata ideologia. Ci piacerebbe vedere il PD e tutta la sinistra prendere le distanze da queste posizioni". Ma oggi la fuga del terrorista è terminata. Con buona pace dei compagni di oggi e di ieri.

Quegli irriducibili "compagni" che difendono ancora Battisti. Da Scalzone a Caruso fino a Raimo e la sinistra "rossa" di Ferrero e Ferrando: ecco chi non accetta un assassino in carcere, scrive Luca Romano Lunedì 14/01/2019, su "Il Giornale". La sinistra non si arrende. Cesare Battisti ormai è in carcere ad Oristano dove sconterà il suo ergastolo per saldare il conto con la giustizia italiana. Ma i "compagni" difendono ancora l'ex terrorista dei Pac. Tra le voci più accese su questo fronte c'è quella di Oreste Scalzone co-fondatore di Potere Operaio, che con l'ex leader dei Pac ha condiviso l'esperienza della latitanza a Parigi sotto la protezione della cosiddetta "dottrina-Mitterrand". All'Adnkronos Scalzone non usa giri di parole e afferma: "Quelli che vociferano dai pulpiti istituzionali sono 'irriferibili'... A cominciare dal ministro della guerra interna di turno, l'orrido Salvini. Battisti - come qualunque altra persona non 'colta sul fatto', atto o scritto considerato reato di parola irrevocabilmente stampata e firmata - resterà sempre 'presunto' autore di questo e quello, eventualmente inscritto in un codice penale come delitto o crimine. Uno statista, governante, a cominciare da un ministro della guerra, esterna o interna, è apertamente, ufficialmente, per funzione, per ruolo, responsabile di sangue sparso in misura vertiginosamente più grande". Ma non è una voce isolata la sua. C'è anche quella dell'ex deputato di Rifondazione Comunista, Francesco Caruso che non accetta l'arresto di Battisti: "Non si capisce cosa debba fare questo signore in carcere se il principio del carcere resta quello sancito dall'articolo 27 della Costituzione italiana, che si chiama 'rieducazione', non 'vendetta'". Che dire poi delle parole del direttore de il Dubbio, Piero Sansonetti che di fatto contesta la condanna dell'ex terrorista dei Pac: "Cesare Battisti è stato condannato sulla base di testimonianze, poco credibili, di pentiti. Sono le uniche prove a suo carico. Mi si dirà che è una sentenza passata in giudicato ma io ho il diritto di contestarla. Bisognerebbe ripensare a quei processi e soprattutto alla legge sui pentiti che rischia di creare ingiustizie. Certo, in questo clima non mi sembra ci sia nessuna possibilità ma sarebbe importante". Tra le voci che fanno discutere c'è anche quella di Christian Raimo, uno dei firmatari dell'appello per la liberazione del terrorista dei Pac: "Ho firmato quattordici anni fa un appello per la liberazione di Cesare Battisti. Ho conosciuto - ho lavorato insieme - a parenti di quelle che sarebbero le vittime di Cesare Battisti, ascoltato il loro dolore. Ho letto alcuni romanzi di Cesare Battisti e non mi sono mai piaciuti. Non ho mai festeggiato per la galera a qualcuno. Per me l'ergastolo andrebbe abolito, per me andrebbero abolite le galere". Duro anche l'attacco di Marco Ferrando, portavoce nazionale del Partito Comunista dei Lavoratori: "La soluzione logica dovrebbe essere l'amnistia. Nessun elemento di enfasi, di gioia o di solidarietà verso un governo reazionario come quello di Salvini e Di Maio". Sul fronte dell'appello firmato nel 2004 per il terrorista arrestato ieri in Bolivia si è espresso un altro dei firmatari, il vignettista Vauro Senesi che difende (anche oggi) al sua scelta: "Mi assumo tutta la responsabilità politica e morale della mia firma sotto l'appello per Cesare Battisti del 2004. In realtà fu una persona, della quale non farò il nome, ad apporla per me, dando per scontata una mia adesione. Avrei dovuto ritirarla al tempo e non lo feci per colpevole superficialità e malinteso senso di amicizia. Non l'ho fatto nemmeno successivamente, quando scoppiarono le polemiche, perché un ritiro tardivo mi appariva e mi appare come un atto ipocrita volto a scaricare le responsabilità personali di cui sopra", ha affermato all'Adnkronos. Insomma gli irriducibili "rossi" non accettano che un delinquente come Battisti paghi con l'ergastolo il conto aperto con la giustizia italiana. 

Battisti: ti aspettiamo a cella aperta la sinistra adesso non può più garantirti la latitanza, scrive il 14 gennaio 2019 Andrea Pasini su "Il Giornale". La caccia è finita! Finalmente per una volta nel mondo viene fatta giustizia, per una volta la marmaglia rossa paga, alla faccia di tutti i miserabili piccoli uomini che avevano firmato appelli, controappelli e lettere. L’assassino terrorista è stato catturato in Bolivia dove si aggirava (probabilmente ubriaco) con 3 euro in tasca. Sono passati i tempi in cui l’ex presidenza brasiliana di Lula lo proteggeva, con l’avvento del governo Bolsonaro e del deciso cambio di rotta il terrorista ha dovuto rimettersi in fuga quando ormai pensava di essersi sistemato. Ma andiamo a considerare il curriculum criminale del Battisti: 2 omicidi, il primo, un poliziotto, il secondo, un padre (ucciso davanti agli occhi del figlio), ha sparato rendendo paralitico a vita un uomo e altri due omicidi di cui comunque, se non esecutore materiale, è stato ideatore e collaboratore. Come al solito, secondo una consolidata tradizione, c’è stata una pletora di uomini e associazioni che lo hanno difeso sia a parole che nei fatti in tutto il tempo della sua latitanza. Andiamo a vedere e facciamo nomi e cognomi di chi si è espresso o mosso a favore di questo vile comunista assassino: I primi da cui trovò rifugio furono i nostri cugini d’oltralpe, tanto arrendevoli nelle guerre quanto bravi a cavillare in tempo di pace, che non concedettero l’estradizione all’Italia seguendo le indicazioni della dottrina Mitterrand secondo la quale non vengono estradate persone in stati “il cui sistema giudiziario non corrisponda all’idea che Parigi ha delle libertà”. Dalla dottrina Mitterrand beneficiarono moltissimi altri terroristi tutti, immancabilmente, rossi. Dopo la Francia raggiunse il Brasile che decise di accordargli lo status di rifugiato politico nonostante abbiano fatto un po’ di sceneggiata mettendolo in carcere per qualche settimana. Ma veniamo ai nomi, sì, i nomi di chi in tutti questi anni ha solidarizzato con un terrorista rosso assassino. In Francia, a parte qualche scribacchino minore a cui non faremo pubblicità, ricordiamo al disonore di oggi Fred Vargas, scrittore, che non ha fatto mancare il suo sostegno economico a Battisti oltre a scrivere un libro ” La verità su Cesare Battisti” grazie a Do inedito in Italia. Un altro incensato dalla sinistra putrida di casa nostra e altrui Gabriel Garcia Marquez ha espresso solidarietà per il criminale così come alcuni esponenti di Amnesty International, un altro caposaldo del politicamente corretto ipocrita di sinistra. In Italia ovviamente non poteva mancare tutta una bolgia ipocrita di sostenitori che sul sito “Camilla Online” raccolsero alcune firme. Tralasceremo, sempre per non fare pubblicità, i personaggetti da niente, ma citiamo alcuni nomi notabili. Primo fra tutti il ragazzo d’oro della sinistra italiana Roberto Saviano che, bontà sua (o ipocrisia?), ritirerà in un secondo momento il suo appoggio. Erri De Luca, un altro santino della sinistra, ha negato di aver firmato in sostegno a Battisti pur augurandosi una soluzione politica per tutti i fuggiaschi attivi durante gli anni di piombo scrivendo un articolo sul mattinale francese Le Monde. Fanalino di coda, anche il bollito e si spera prossimo alla pensione, Vauro ha espresso qualche forma di solidarietà per la canaglia rossa. Questi sono i nomi e le associazioni più famosi che hanno sostenuto questo niente travestito da uomo. Pensateci la prossima volta prima di dare soldi a questi soggetti e rispondete per le rime quando il vostro amico, collega, parente di sinistra si riempirà la bocca cianciando di cultura in riferimento ai personaggi sopraddetti. Ricordatevi che questi soggetti, che amano riempirsi la bocca di moralità, magari definendo Salvini disumano o simili, hanno sostenuto un assassino consapevoli della sua colpevolezza giudiziaria. Ricordatevelo e ricordatelo ai moralisti falsi, ipocriti, e meschini da salotto. Ciao Battisti, La sinistra piange, noi invece ridiamo e siamo felici che tu da oggi in poi marcirai fino alla fine dai tuoi giorni in galera.

Cesare Battisti, orrore sinistro: "Va liberato subito", chi si schiera con il terrorista, scrive Tommaso Montesano il 15 Gennaio 2019 su Libero Quotidiano". Cesare Battisti si è arreso nella saletta dell'aeroporto di Ciampino: «Ora so che andrò in prigione». I "compagni" ancora no. A Roma nella notte sul ponte in via degli Annibaldi, che porta al Colosseo, è apparso uno striscione firmato "Noi restiamo": «Battisti libero. Amnistia per i compagni». Insieme alla sigla, l'immancabile stella rossa a cinque punte. Il lenzuolo è stato poi rimosso dalla Digos, che indaga. Sulla pagina Facebook di quella che si definisce «organizzazione politica», è apparso poi un post nel quale si dipinge l'ex terrorista come un eroe: «Due decenni di lotte, sperimentazione antagonista e assalti al cielo non possono essere cancellati dietro sbarre e infamia. Cesare, il tuo Paese ti saluta». Mentre Battisti, dopo essere sceso dal Falcon 900 dei Servizi segreti, espletava le formalità che nel pomeriggio lo avrebbero portato nel carcere di Oristano - il fotosegnalamento negli uffici della questura di via Patini; il nuovo imbarco a Pratica di Mare alla volta della Sardegna; la nomina del difensore: il milanese Davide Steccanella, legale anche di Renato Vallanzasca - gli appelli dei compagni - vecchi e nuovi - dell'ex leader dei Proletari armati per il comunismo (Pac) si moltiplicavano. Il filo conduttore è «amnistia». La auspica, ad esempio, il direttore del Dubbio, Piero Sansonetti, per il quale Battisti «è stato condannato sulla base di testimonianze, poco credibili, di pentiti. Sono le uniche prove a suo carico». La pensa come Vincenzo Battisti, il fratello di Cesare: «Per me non ha ammazzato nessuno. Non è colpevole: lo dite voi. I processi furono in contumacia».

«PROCESSO DA RIFARE». Da Parigi si fa sentire Oreste Scalzone, fondatore di Potere Operaio, che insieme all' ex leader dei Pac e ad altri br latitanti ha vissuto a Parigi, protetto dalla "dottrina Mitterrand". Per Scalzone, Battisti «resterà sempre "presunto autore" di questo e quello». Invece l'«orrido» Salvini «è apertamente, ufficialmente, per funzione, per ruolo, responsabile di sangue sparso in misura vertiginosamente più grande». L' amnistia è la strada maestra: «Sono molto pessimista. Ma mai dire mai, possono sempre verificarsi contro-terremoti antropologici». L'ex br Paolo Persichetti, scarcerato nel 2014 dopo aver condiviso, anche lui, la vita parigina, è uno dei più loquaci. «Siamo alla barbarie. Un trofeo esibito e la muta che lo rincorre», si sfoga all' AdnKronos. E poi basta con la mitologia dell'esilio dorato: «Battisti viveva in una soffitta e faceva il portiere. Dicono è finita la pacchia (il solito Salvini, ndr), ma non sanno di cosa parlano, l'esilio è una vita dura: nessuna assistenza sanitaria, niente soldi, ti devi arrangiare». Guai ad arrendersi: «Macron pretenda il rispetto degli impegni sul processo da rifare a Battisti».

«CORTINA FUMOGENA». La maggior parte dei firmatari dell'appello in favore dell'ex terrorista, nel 2004, tace. Ma alcuni non ci stanno. È il caso dello scrittore e sceneggiatore Sandro Dazieri: «Non ritiro la firma. Avevo firmato l'appello perché avevo letto la controinchiesta e c' erano molti dubbi sul processo». Per lo scrittore Christian Raimo, pure lui tra i firmatari, l'arresto di Battisti serve a Lega e M5S per far trionfare il «populismo penale: il corpo di Battisti in carcere, isolato e punito sarà una specie di monito. Sarà molto difficile, un domani, che una manifestazione politica che abbia toni più accesi non venga soffocata con misure di repressione carceraria molto forti». Per "Potere al popolo" è tutto un complotto: la presenza dei ministri a Ciampino, l'enfasi del Viminale sulla cattura, sono «l'ennesima mossa di Salvini per distogliere l’attenzione dai problemi reali, per costruire consenso a costo zero, fare egemonia culturale». Domenica sera - ora italiana - prima che Battisti salisse sull' aereo per l'Italia, i suoi familiari hanno tentato di giocare la carta della richiesta di asilo alla Bolivia. Ieri si è saputo che in realtà il governo sudamericano aveva respinto la domanda già il 26 dicembre. Spianando, in questo modo, la strada all' espulsione. Un particolare decisivo, ha spiegato il Guardasigilli, Alfonso Bonafede, per fare subito rientro in Italia. Senza toccare il suolo brasiliano, l'accordo sottoscritto dal suo predecessore, Andrea Orlando, con Brasilia per la commutazione dell'ergastolo in trent' anni di carcere, è venuto meno: «Con il rientro diretto, Battisti sconterà l'ergastolo». Tommaso Montesano

Quella mail del "no global" Ue per "salvare" l'amico Battisti. Fino all’ultimo la rete internazionale che da sempre ha protetto Cesare Battisti ha fatto di tutto per permettergli di rimanere in Bolivia, scrive Paolo Manzo, Mercoledì 16/01/2019, su "Il Giornale". Fino all’ultimo la rete internazionale che da sempre ha protetto Cesare Battisti ha fatto di tutto per permettergli di rimanere in Bolivia. Il Giornale è entrato in possesso in esclusiva di una importantissima email inviata lo scorso 31 dicembre a Patricia Hermosa Gutierrez, capo gabinetto della Presidenza della Repubblica della Bolivia nonché factotum di Evo Morales in persona. A firmarla José Bové, oggi vice presidente della Commissione Agricoltura e sviluppo rurale al parlamento Europeo, eurodeputato dal 2009. Mentre per l’Interpol il terrorista dei Proletari Armati per il Comunismo era ricercato a livello internazionale l’ex agricoltore francese diventato uno dei volti simbolo del movimento no global sapeva esattamente dove il suo amico italiano si trovasse e di che aiuto avesse bisogno, tanto da rivolgersi appunto a Morales in persona. Ma si è ben guardato dall’informare le autorità in barba all’importante ruolo istituzionale che oggi ricopre presso il Parlamento Europeo. L’email ha un tono colloquiale. “Caro Evo”, scrive Bové da Meseta del Larzac, sua personale roccaforte, per poi entrare subito nella ricostruzione menzognera dei fatti così cara a certo mondo francese “Battisti è stato condannato all’ergastolo senza possibilità di difesa durante il suo processo”. Con l’arrivo di Sarkozy scrive “io stesso ho perorato direttamente il suo trasferimento in Brasile ma la vittoria di Bolsonaro lo ha obbligato a partire per la Bolivia.” Per arrivare poi alla richiesta. “Ti chiedo che tu gli permetta di stabilirsi in Bolivia con una protezione giuridica simile a quella che a suo tempo gli aveva concesso il presidente socialista Mitterand. Non esitare ad avvisarmi della tua decisione, rimango a tua disposizione se dovesse essere necessario. Spero tu possa accogliere in modo positivo questa richiesta”. Morales aveva già rifiutato cinque giorni prima la richiesta di asilo presentata da Battisti il 21 dicembre. L’email di Bové è stata, dunque, l’ultima carta per tentare di salvare una situazione che già allora si stava mettendo male. Quanto a Bové incarna benissimo quell’internazionale rossa che per anni ha protetto Battisti come altri terroristi. Nel curriculum dell’ex agricoltore ci sono vari arresti tra cui uno famosissimo nel 2002 a Millau in Francia per aver distrutto un McDonald’s. Nel 2007 poi è stato addirittura candidato alle presidenziali in Francia. Con il Brasile ha rapporti antichi. Nel 2001 in occasione del Forum Sociale Mondiale ha partecipato con membri del Movimento Sem Terra verde-oro alla distruzione di 2 ettari di soia geneticamente modificata in una proprietà agricola del Rio Grande do Sul di proprietà della Monsanto. Nel 2010 aveva firmato un documento che appoggiava la candidatura della delfina di Lula, Dilma Rousseff, alla presidenza contro José Serra dietro cui, secondo Bové “la destra brasiliana sta mobilitando tutto quello che ha di peggiore nelle nostre società”. Nove anni dopo il nemico è diventato Bolsonaro e la sua scelta di dare l’ok all’estradizione. E ora che il caro Evo non ha dato seguito alla sua richiesta Bové continua sul suo sito internet la sua difesa di Battisti. Come del resto ha fatto in Italia Adriano Sofri. L’ex leader di Lotta Continua, condannato come mandante dell’omicidio del commissario Calabresi si è scagliato contro Matteo Salvini “È una vendetta, vergogna e disgusto" per il carcere e quello che rappresenta. E lo difende anche il fratello Domenico Battisti. “È innocente, era solo un delinquente da quattro soldi”. Immediata la risposta di Salvini su Twitter “Che vergogna. Dovrebbe solo stare zitto, almeno per rispetto di tutte quelle persone che, per colpa di un assassino, hanno perso la vita”.

Battisti: così il piccolo malavitoso è diventato il pericolo pubblico numero uno. Pesce piccolo di una organizzazione terroristica secondaria, Battisti negli anni è diventato una leggenda “nera”, scrive Paolo Delgado il 15 gennaio 2019 su Il Dubbio.  Forse solo dopo la cattura di Totò Riina, a pochi mesi dalle stragi di Capaci e via D’Amelia, un arresto era stato accompagnato da tanto tripudio mediatico e ancora ancora… Per una volta il potere politico e il quarto potere concordano: l’evento è storico, la soddisfatta gioia incontenibile. I social rispondono all’appello, fanno volentieri da grancassa: per 48 ore non si è parlato d’altro che dell’arresto di Cesare Battisti, neanche implicasse il sorgere di una nuova alba per la Repubblica. La messa in scena, con tanto di diretta tv all’arrivo dell’aereo col reprobo a Ciampino, è stata degna dell’occasione. Tiratori scelti sui tetti e gran dispiegamento di forze dell’ordine nel caso non si sa quale organizzazione micidialmente armata tentasse colpi di mano sventagliando mitragliate. Già disposto l’isolamento per sei mesi, misura di massima sicurezza che un tantinello stride trattandosi di un ricercato preso perché senza una peseta in tasca e senza più uno straccio d’amico si rifocillava nelle pizzerie economiche. Per mantenere la promessa di far tirare le cuoia a Battisti in galera, il governo medita sulla possibilità di insistere per l’ergastolo ostativo, quello che almeno sulla carta non consentirebbe liberazione anticipata. Battisti sarebbe l’unico tra le centinaia di terroristi rossi e neri a cui è stata comminata la massima pena a godere di un simile trattamento di sfavore. Uno degli aspetti più impressionanti in questa festa della punizione esemplare è la sproporzione tra la rilevanza senza precedenti attribuita all’arresto e il ruolo limitato dell’arrestato negli anni che per convenzione si definiscono “di piombo”. Cesare Battisti, classe 1954, era un piccolo malavitoso politicizzato in carcere militante in una formazione della galassia armata di quell’epoca, i Pac, Proletari armati per il comunismo. Arrestato nel 1979 riesce a evadere nel 1981 e si rifugia a Parigi, come molti altri fuggiaschi delle formazioni armate. La Francia aveva aperto le porte in segno di critica fattiva alle regole emergenziali che improntavano i processi per terrorismo e che costituivano “un sistema giudiziario non corrispondente all’idea che la Francia ha delle libertà”. Cesare Battisti era un pesce piccolo, non aveva molto da temere. Restò un anno a Parigi, poi si spostò in Messico. Si sposò, vide nascere la prima figlia, iniziò a scrivere. Mentre si trovava in Messico fu condannato per quattro omicidi in uno dei peggiori processi emergenziali, sulla base della testimonianza di un pentito, Pietro Mutti, che la stessa Cassazione indica come poco credibile. Quando nel 1990 torna a Parigi Cesare Battisti è una figura quasi sconosciuta. La giustizia italiana ne chiede comunque l’estradizione, l’ex militante dei Pac viene arrestato ma dopo quattro mesi la Chambre d’accusation lo dichiara non estradabile, essendo stato condannato sulla base di prove degne della giustizia militare. Ma anche questa è ordinaria amministrazione: la trafila che devono seguire i rifugiati in Francia. Negli anni successivi Battisti campa traducendo autori noir tra cui il grande Manchette, diventa amico di Fred Vargas nel 1993 pubblica il primo romanzo e altri ne seguiranno. E da quel momento che l’ignoto Cesare Battisti diventa un supercriminale la cui libertà fa scandalo. Come terrorista era uno dei tanti, ma dal momento che scrive e pubblica, che viene tradotto anche in italiano, che non perde occasione per tacere e anzi si mette forse esageratamente in mostra, che in Italia arriva addirittura nei teatri uno spettacolo teatrale su suoi testi interpretati da Piergiorgio Bellocchio ora è una figura eminente. Scala con la velocità del fulmine la lista dei più ambiti dalla giustizia italiana. Nel 2002 il ministro della Giustizia italiano, il leghista Castelli, e il collega francese Perben firmano un patto che limita la dottrina Mitterrand e l’Italia inizia a martellare per ottenere l’estradizione di Battisti. Perché proprio lui? Non per il suo ruolo nella lotta armata né per i delitti commessi, che sono in linea con quelli di quasi tutti i rifugiati in giro per il mondo anche se il processo emergenziale e in contumacia, senza contraddittorio con il pentito Mutti, li ingigantisce. Il problema è che Battisti fa notizia. Campeggia sui giornali. Contravviene alla regola non scritta che impone agli ex terroristi di farsi notare il meno possibile. Nasce così la leggenda di un Battisti che invece di ‘ marcire in galera’ fa la bella vita, ricco e mondano, salottiero alla faccia della giustizia italiana. In realtà, nonostante i libri, Cesare Battisti non è affatto il rampollo della società dorata descritto dalla stampa italiana. Campa facendo il portiere oltre che con i libri e le traduzioni. Battisti, però, nel frattempo aveva ottenuto la naturalizzazione. Sarebbe dovuto diventare a tutti gli effetti cittadino francese, non più estradabile. Nel 2004 il cerchio si chiude. La naturalizzazione viene ritirata. Il suo legale fa causa al ministero degli Interni e la vince ma la cittadinanza non arriva lo stesso. Il litigio con un inquilino dello stabile di cui è portiere offre l’occasione d’oro. L’italiano finisce in galera, l’Italia chiede l’estradizione, il presidente Chirac cancella la dottrina Mitterrand e la concede ma Battisti, che nel frattempo era stato scarcerato fugge in Brasile. Per lui si erano mobilitati decine di scrittori, a Gabriel Garcia Marquez a Paco Ignacio Taibo. Tutto cospira dunque perché la leggenda prenda forma definitiva: Battisti passa per il beniamino della sinistra chic e allo stesso tempo diventa ‘ la primula rossa’. Il lunghissimo braccio di ferro in Brasile, gli arresti, l’estradizione negata, l’intervento di Lula completa il quadro. Il ‘ pesce piccolo’ è diventato una balena, una specie di pericolo pubblico numero uno. Uno che quando viene arrestato merita quasi una festa nazionale. 

Feltri: «Se è colpevole vada in carcere, ma mi indigno per l’isolamento diurno». «Se è colpevole, il carcere è giusto e il fatto che siano passati dieci, venti o trent’anni non significa nulla. Non si può certo pensare che passasse il resto della vita, tranquillo, in Bolivia». Intervista di Giulia Merlo del 15 gennaio 2019 su "Il Dubbio". «Guardi, non mi esalto per le catture». Vittorio Feltri, direttore di Libero, non si scompone davanti all’arresto di Cesare Battisti – forse il più celebre tra i latitanti italiani -, dopo trentasette anni di fuga, prima in Francia, poi in Brasile. A lui ha dedicato il suo editoriale, di cui anticipa il titolo: “Catturato come un topo, accolto come un divo”. Direttore, nessun entusiasmo per quella che è stata vissuta come una vittoria delle Istituzioni e dei nostri servizi speciali?

«Battisti è stato ricercato per moltissimi anni e, se devo dirle che cosa mi stupisce di più, sceglierei il fatto che ci sia voluto tutto questo tempo. Mi fa pensare che ci sia stata una scarsa volontà di far rispettare la giustizia».

Una cattura arrivata troppo tardi?

«Di certo si sarebbe dovuti procedere all’estradizione molti anni fa, quando i delitti per cui Battisti è stato condannato erano freschi. In questo modo, anche l’opinione pubblica sarebbe stata sensibile alla questione. Oggi, invece, si vive di sentito dire ed è passato talmente tanto tempo da far sì che questa cattura non possa essere accompagnata da alcun pathos».

Dopo quasi quarant’anni, ha ancora senso che un condannato sconti la pena dopo così tanto tempo dal processo?

«Mi attengo alle risultanze processuali: quando qualcuno commette quattro delitti, come ha fatto Battisti, la condanna è giusta e il fatto che siano passati dieci, venti o trent’anni non significa nulla».

Non la convince la condanna?

«Come posso essere io a dire con certezza che cosa Battisti ha fatto o non ha fatto, al di là della verità processuale? Non mi addentro in considerazioni tecniche, mi limito a dire che, se è vero che ha commesso i fatti per cui è stato condannato, è giusto che venga punito. Non si poteva certo pensare che vivesse tranquillo in Bolivia. Umanamente, invece, ho qualche perplessità in più».

In che senso?

«Una cosa mi fa inviperire: il fatto che un poveraccio che nemmeno si regge in piedi quando scende dall’aereo, venga non solo incarcerato ma anche condannato a sei mesi di isolamento diurno.

Che cosa vuol dire?

«Che finalità ha questa tortura senza alcuna ragion d’essere? Se uno deve andare in galera, ci vada e basta senza questo corollario senza senso. Ecco, questo personalmente mi indigna».

Da giornalista, come valuta l’impatto mediatico del momento del suo arrivo in Italia, con il ministro dell’Interno, quello della Giustizia e la polizia schierate?

«Le leggo il titolo del mio editoriale in edicola domani (oggi per chi legge ndr): “Catturato come un topo, accolto come un divo”. Ecco, questo è il mio stato d’animo: si è mediatizzata eccessivamente questa cattura, come se avessimo vinto la lotteria di Capodanno. Le dico di più, ho scritto anche che preferivo quasi che Battisti rimanesse in Sud America, perchè così si rischia di farlo diventare l’eroe della vecchia e più becera sinistra italiana».

Fa anche questo parte della narrativa salviniana?

«No, Salvini non c’entra. Io penso che sia stato tutto l’insieme a provocare questa inutile spettacolarizzazione. Il ministro dell’Interno ha fatto solo in modo di far rientrare Battisti dalla latitanza e non so dire se sia del tutto merito suo. Quello che io ho visto, però, è stato un esercito di persone ad accogliere uno che non si regge nemmeno in piedi quando scende dall’aereo. Non mi sento di avere certezze sulla vicenda processuale, mi rimangono invece perplessità sulle modalità con cui è stato tratto in arresto e portato in Italia».

Troppa enfasi, quindi?

«Come sono sicuro lei immagini, non ho alcuna simpatia per la storia personale di Battisti e quello che lo sto dicendo su di lui lo ripeterei per qualunque detenuto. A indignarmi non è l’arresto e non mi addentro nel dato tecnico, mi limito a considerare l’aspetto umano della vicenda. Anche i detenuti hanno diritto alla dignità, che dovrebbe essere rispettata. Ecco, da ciò che ho visto non mi sembra che questo sia avvenuto. Mi indigno per lui e mi indignerei per qualsiasi altro».

Non si può mai gioire, se una persona finisce in prigione. E’ una questione di civiltà, scrive Maria Prado il 15 gennaio 2019 su Il Dubbio. Caro direttore, dunque l’arresto di un latitante costituisce una “bella notizia”. Ed è una “bella giornata” quella in cui si apprende che il latitante in questione potrà finalmente scontare la sua pena in un carcere italiano. E così si gioisce, si fa festa, perché la pretesa punitiva dello Stato ha modo ora di realizzarsi. Ma è semplicemente vergognoso. È vergognoso che pressoché tutti abbiano partecipato a questo coro ignobile; che quasi tutti abbiano sentito l’esigenza di dichiararsi felici perché un uomo va in galera. Semmai alla notizia di un arresto si potrebbe essere presi da sollievo se si trattasse di soggetto attualmente pericoloso. Perché in tal modo, e cioè affidato alle cure di giustizia, non sarebbe più in grado di nuocere. Ma sollievo, al più: non gioia, non festa, non tripudio. In questo caro Paese, invece, in questo Paese cristiano, è già tanto se non si invitano formalmente i cittadini, magari capitanati da un ministro in divisa da secondino, ad accogliere l’” assassino” con urli e corde da forca agitate a reclamare giustizia. Una persona non dico buona, ma appena civile, non si fa far bella la giornata dalla notizia di un arresto. E non dichiara soddisfazione se un uomo si appresta a subire la prigione. Tanto meno lo fa in nome delle vittime, perché le vittime hanno semmai diritto di vedere applicata la legge dello Stato: uno Stato che esercita il suo potere repressivo e punitivo con silenziosa decenza, non per il tramite delle immonde sceneggiate di suoi rappresentanti che si mettono a capo della turba che chiede sangue. Il dolore e il senso di ingiustizia delle vittime non dovrebbero essere evocati da nessuno. Nessuno dovrebbe valersene a promozione di sé. Nessuno dovrebbe impugnarli per giustificare gioiosamente la pena del carcere. Perché il carcere può forse essere necessario, ma in ogni caso costituisce e produce infelicità: e l’infelicità altrui non dovrebbe dare felicità a nessuno. Come si vede, non nomino nemmeno la persona di cui si tratta. Né faccio riferimento alle responsabilità che gli sono state attribuite. Perché tutto questo non c’entra nulla. Potrebbe trattarsi di chiunque, e le responsabilità in questione potrebbero essere le più pesanti e inequivocabilmente accertate. Resterebbe in ogni caso indegno questo trionfo di manifestazioni infoiate, questa corsa a presenziare sulla scena dell’esecuzione assediata dal popolo perbene finalmente protetto da un governo che tiene le cose in ordine. Tutte bruttissime notizie che non riporta nessuno.

Se i processi fossero processi…Il commento di Tiziana Maiolo del 15 gennaio 2019 su "Il Dubbio". L’arresto di Battisti non dispiace quasi a nessuno. E coloro che hanno qualche dubbio sui suoi processi e sulle sue condanne per ora tacciono. Ma qualcosa bisognerà pur dirla. Che paese sarebbe l’Italia, per esempio, se come nei paesi civili nessuno potesse essere processato in contumacia. Se lo Stato impegnasse tutte le sue forze nel catturare i latitanti e portarli davanti a un giudice invece che nel processare una sedia vuota. Arresto di Battisti: che bella sarebbe l’Italia se i processi fossero processi. Che mondo sarebbe. Che paese sarebbe, l’Italia. Se i rappresentanti del Governo esibissero la loro forma migliore per ricevere, fin sotto all’aereo, i capi di Stato estero o porgere un saluto compunto, commosso, davanti all’arrivo delle bare avvolte nel tricolore di nostri soldati caduti in guerre lontane. Se invece. Se invece non dovessimo vedere mezzo governo, guidato da due ministri apicali quali coloro che rappresentano la politica interna e quella di giustizia precipitarsi in aeroporto, gonfiare il petto con soddisfazione, improvvisare una conferenza stampa sulla pista, affilare frasi quali «deve marcire in galera». È’ arrivato a Roma Cesare Battisti. Quattro ergastoli di condanna per diversi omicidi con l’aggravante del terrorismo, un’evasione dal carcere di Frosinone, trentasette anni di latitanza. E con addosso un fardello di antipatie per le tutele avute in Francia dalla “dottrina Mitterand” e da una certa notorietà acquisita come scrittore di thriller. Ma protetto anche, in seguito, dal governo messicano e dal Brasile di Lula. Un quadro che, unito a quella sua certa strafottenza con cui, invece di chiedere perdono si è sempre dichiarato vittima di ingiustizie, lo ha trasformato suo malgrado in immagine simbolica di ogni negatività legata al terrorismo degli anni Settanta. Anche all’interno del famoso album di famiglia della sinistra italiana in cui nacquero i progetti di sovversione armata, gli atti sanguinosi per i quali Battisti è stato condannato stridono come il gesso sulla lavagna. Mentre le Brigate rosse e Prima Linea, accecati dalle loro ideologie, uccidevano uomini politici, magistrati e giornalisti, i Proletari armati per il comunismo (cui Battisti, delinquente comune, aveva aderito con una rapida politicizzazione in carcere) avevano assunto un ruolo quasi da vendicatori, assassinando persone non certo di potere quali semplici poliziotti o commercianti. Proletario è sempre rimasto in fondo, Cesare Battisti. E forse proprio per questo coccolato dalle intellighenzie di sinistra, in particolare francesi. E proprio per questo un po’ snobbato dalla parte più aristocratica dello stesso terrorismo degli anni Settanta. In fondo il suo arresto non dispiace quasi a nessuno. E coloro che hanno qualche dubbio sui suoi processi e sulle sue condanne per ora tacciono. Ma qualcosa bisognerà pur dirla. Che paese sarebbe l’Italia se per esempio, come è nei paesi civili, nessuno potesse essere processato in contumacia. Se valesse il principio dell’habeas corpus. Se lo Stato impegnasse tutte le sue forze nel catturare i latitanti e portarli davanti a un giudice invece che nel processare una sedia vuota. Se la prova si formasse veramente nel dibattimento alla presenza delle parti e se queste avessero pari diritti. Se non fosse sufficiente la parola di un “pentito” per essere condannati. L’Italia sarebbe un paese nel quale Cesare Battisti sarebbe stato forse ugualmente condannato. Ma saremmo tutti più tranquilli se fossero state osservate queste quattro regole dello Stato di diritto.

Il fratello di Battisti non molla: "Cesare è innocente. Non ha ammazzato nessuno". Vincenzo Battisti difende il fratello con le unghie: "I processi furono in contumacia. È stato condannato contumace", scrive Giovanna Stella, Lunedì 14/01/2019, su "Il Giornale". Cesare Battisti ha finito di gironzolare e finalmente si trova dietro le sbarre del carcere di Oristano. Il governo giallo verde esulta per il risultato portato a casa, ma c'è qualcuno che vede (non si sa come) Battisti innocente. Anzi: lo vede addirittura come un eroe. E fra questi, c'è il fratello che difende il terrorista rosso con le unghie. Dopo aver commentato con ironia all'Adnkronos l'arrivo in Italia di Cesare ("Che vuole che le dica. Tra poco in aereo rientra a Roma Cesare, mio fratello, e così abbiamo risolto tutti i problemi dell'Italia, le pensioni, il debito, tutto risolto con Battisti"), rincara la dose a La Zanzara. "Per me Cesare non ha ammazzato nessuno - dice il fratello Vincenzo Battisti -. Non è colpevole, lo dite voi. I processi furono in contumacia. È stato condannato contumace. Adesso fate un processo". Le parole del fratello non si fermano qui e prosegue nel suo ragionamento delirante: "E i comunisti che stanno liberi dappertutto? E Andreotti che ha baciato Totò Riina? È diverso? Per me è uguale. Io voglio rimanere sempre vicino a mio fratello".

La verità su Battisti l’aveva già detta Surace nel 2004, scrive il 20 gennaio 2019 ABCnews Europa. In effetti nel 2004 venne diffuso dall’agenzia ABCnews Paris (denominazione all’epoca della nostra ABCnews Europa) il seguente articolo, che riportiamo integralmente (Testo in italiano).Stefano Surace da Parigi: egregi “tuttologi” italiani, smettetela di far ridere il mondo intero sull’Italia, per il caso Battisti...Mi sorprende, dice Surace, che in Italia tanti personaggi che sarebbe lecito presumere dotati di non trascurabili e talora eccellenti capacità intellettive e di discernimento, non si siano resi conto di un’aberrazione che invece in qualsiasi altro Paese civile è ben chiara a qualsiasi analfabeta. L’aberrazione scellerata - che appunto si riscontra solo in Italia fra tutte le nazioni occidentali – consistente nel dichiarare definitive ed esecutive condanne emesse in absentia, cioè senza che l’accusato sia presente al processo (o, come suol dirsi, in contumacia) contro il principio fondamentale del diritto “ne damnetur absens” (non si deve condannare un assente). Sicché l’assenza dell’accusato al processo, qualunque ne sia la causa, impedisce automaticamente ogni giudizio finale, cioè l’emissione di qualsiasi condanna, tanto meno esecutiva.

Ne damnetur absens...Si tratta di un principio fondamentale, inderogabile del diritto, adottato in tutti i paesi civili (Francia, Spagna, paesi anglosassoni e così via). Salvo, guarda un pò, in Italia, il che consente nel Bel Paese abusi su larga scala, talora gravissimi.

Tantissime sono infatti le persone che attualmente in Italia si trovano in galera per anni grazie a questa aberrazione… e per il passato sono state moltitudini. Una vera minaccia per qualsiasi cittadino onesto. Perfino nel Far west, all’epoca di Buffalo Bill, di Toro seduto e dei ladri di cavalli, prima di condannare qualcuno lo si portava davanti a un giudice. Ma non in Italia già «culla del diritto», e attualmente tomba. E non si può condannare un accusato neppure se è stato lui stesso a sottrarsi al processo con la fuga. Nessuno infatti, colpevole o meno, è tenuto ad andare volontariamente contro se stesso presentandosi ad un tribunale che potrebbe attribuirgli, a torto o ragione, una pesante condanna. Sta alle autorità rintracciarlo e portarlo davanti al tribunale per poi – e solo poi – giudicarlo in sua presenza equamente e, se è il caso, condannarlo. Né un avvocato d’ufficio può rimediare all’assenza dell’accusato. L’avvocato non è l’accusato, è solo un consulente col compito di assisterlo. A quanto pare, a questi tuttologi sfugge che il Brasile, come qualsiasi altro paese occidentale - salvo, guarda un pò, l’Italia - ritiene non lecito estradare Battisti, per la ragione ben precisa che la condanna attribuitagli nel Bel Paese è da ritenersi inesistente giuridicamente, essendogli stata erogata senza che fosse presente al processo. Il Brasile avrebbe quindi potuto consegnare Battisti all’Italia solo se questa garantiva che gli si avrebbe fatto un nuovo processo, stavolta in sua presenza. Sennonché ahimé non è stata in grado di garantire ciò poiché ritiene che la condanna che ha appioppata al Battisti non solo è valida, ma è anche esecutiva, contrariamente a quanto ritenuto non solo dal Brasile ma da qualsiasi altra nazione occidentale. E non si può dunque pretendere che il Brasile avalli questa aberrazione tutta italiana. Non è certo perciò colpa del Brasile se non consegna Battisti, ma esclusivamente dell’Italia, che non può dunque che ringraziare se stessa. Chi è causa del proprio mal...E’ inutile dunque strillare come oche che Battisti è «un pluriassassino condannato in Italia a vari ergastoli» e pretendere che il Brasile lo consegni all’Italia. Non si può lecitamente definire pluriassassino qualcuno se prima non lo si è giudicato validamente. Sicché quella “condanna» non solo per il Brasile, ma per tutti i Paesi occidentali semplicemente non esiste e tanto meno è definitiva, malgrado gli strilli degli italici tuttologi.

Sberle all’Italia dalla Francia, dalla Spagna, dall’Inghilterra...Per esempio nei Paesi anglosassoni (detti della common law) il contumace non solo non può essere condannato, ma neppure processato: il processo semplicemente si congela. E neppure in Spagna si può processare un accusato assente. Tanto che, siccome certe autorità italiane insistevano tempo fa nei confronti della Spagna affinché consegnasse degli italiani condannati in Italia in contumacia che si trovavano nel suo territorio, a un certo punto la Corte costituzionale spagnola ha sentenziato in tutte lettere, tanto per essere chiara, che “l’istituto italiano della contumacia colpisce il contenuto essenziale dell’equo processo, intaccando la dignità umana».

Mica male come sberla...In Francia poi si può emettere una condanna in contumacia, ma priva di esecutorietà, e se in seguito il “condannato” si presenta o è catturato si deve rifare in ogni caso il processo in sua presenza. Ed è semplicemente per questo che Francia, Spagna, Inghilterra e tutti gli altri paesi occidentali, e non certo solo il Brasile, rifiutano di estradare i cittadini italiani condannati in Italia in contumacia. Inutile dunque che quei tuttologhi si sgolino a strillare contro il Brasile perché rifiuta di consegnare il Battisti, in piena assonanza coi criteri dell’intera comunità occidentale. Per cui il Bel Paese si è venuto a trovare, come suol dirsi, sul porco. A questo punto quei tuttologhi farebbero molto meglio a darsi da fare affinché in Italia venga spazzata via una buona volta quell’inaudita aberrazione che lo pone in diritto al di fuori dal consesso delle nazioni civili. Con ciò si cesserebbe fra l'altro di coprire di ridicolo il Bel Paese che prende sberle e sberleffi da tutte la altre nazioni civili ogni volta che chiede un'estradizione per le sue “condanne” contumaciali.

Fin qui dunque le considerazioni di Stefano Surace.

Ebbene, certuni in Italia hanno manifestato stupore per il fatto che un uomo retto come lui (leggendario filantropo italo-parigino dalle innumerevoli battaglie civili: giornalista, scrittore e maestro di arti marziali di rinomanza mondiale, nonché presidente dell’Observatoire européen sur la justice et la liberté de la presse) abbia potuto prendere le difese – praticamente per primo fra gli intellettuali italiani – di un “efferato pluriomicida condannato in Italia a vari ergastoli”. Visto che si è dichiarato contro l’estradizione di Cesare Battisti già quando costui era ancora in Francia e l’Italia già lo pretendeva con insistenza. Tanto più che Surace è sempre stato distante anni-luce da quell’area “eversivo-terroristica» degli anni di piombo cui apparteneva il Battisti. Area nei confronti della quale Surace è sempre stato assai critico, per esempio durante la sua celeberrima inchiesta in cui riuscì a entrare ben 18 volte per brevi periodi in 9 carceri, in un’epoca in cui per un giornalista entrare in una galera italiana per farvi non diciamo un’inchiesta, ma un semplice articolo era pura utopia. E, come si vede, i fatti brasiliani gli hanno dato ancora clamorosamente ragione (vien da dire... come al solito).

Il... record mondiale. E non c’è da sorprendersi, poiché Surace conosceva bene la questione, anche perché pure nei suoi confronti si era posto a suo tempo, negli anni ottanta, un problema del genere. In effetti le inchieste e campagne di stampa che effettuava in Italia come giornalista e scrittore negli anni 60 e 70 erano particolarmente «scomode» per certi ambienti e personaggi politici ed economici italiani molto «in alto», dalle attività non precisamente confessabili. Sicché, non riuscendo a farlo condannare normalmente poiché le sue inchieste erano ben documentate, approfittando del fatto che in seguito si era stabilito in Francia gli si lanciò, in sua assenza ed insaputa, una vera valanga di condanne appunto «contumaciali» per pretesi reati a mezzo stampa, per un totale di... diciotto anni di galera (neanche per un omicidio). Fu così che Surace battè ogni record mondiale (almeno per il mondo occidentale) di condanne per reati a mezzo stampa. Diciotto anni di galera che, grazie all'aberrazione giuridica di cui sopra, furono dichiarate senz’altro definitive ed esecutive. Dopodiché si chiese alla Francia la sua estradizione. Sennonchè la magistratura francese considerò «inesistenti giuridicamente» tutte (proprio tutte...) quelle condanne fasulle, e Jacques Chirac addirittura lo decorò per i suoi “meriti di giornalista, scrittore, maestro di arti marziali di rinomanza mondiale, educatore di giovani e creatore di campioni». Sulla decorazione c'era inciso: «Parigi a Stefano Surace». Mica male come sberla a chi pretendeva in Italia di fargli fare quei diciotto anni di galera... ma purtroppo anche per l’immagine dell’Italia. Dopodiché Surace fu coperto di onori anche in Inghilterra, Spagna, Stati Uniti, Giappone…

Surace rifiuta la grazia. A questo punto il governo italiano si rese conto di quanto l'«affaire Surace» danneggiasse all'estero l'immagine della Penisola. Fu allora offerta a Surace una grazia presidenziale, anche con l'attiva intermediazione di un prelato del Vaticano, ma poichè essa non comportava una esplicita sconfessione ufficiale di quelle “condanne» da parte dell’Italia, Surace rifiutò. A questo punto lo stesso governo italiano rinunciò a qualsiasi altro tentativo di estradizione nei suoi riguardi, d'altronde senza speranza, ordinando ufficialmente agli organi competenti di astenersi dal tentare qualsiasi ulteriore azione in tal senso. Fra l’altro un gruppo di intellettuali italiani e francesi (l'italiano Federico Navarro, il francese Daniel Mercier e l'italo-francese Angelo Zambon) avevano promosso una petizione alle autorità politiche della Penisola. In cui, partendo appunto dal suo caso, denunciavano «i casi gravissimi che sono stati resi possibili dal fatto che in Italia è ancora in vigore un tipo di processo penale contumaciale che viola gravemente il diritto, consentendo fra l'altro di dichiarare definitive ed esecutive condanne emesse in assenza dell'accusato». E tre magistrati milanesi - Fenizia, Grisolia, Infelisi – attivandosi l’uno dopo l’altro, trovarono modo di spazzar via anche in Italia gli effetti di quelle condanne fasulle. Cosa tanto più encomiabile per questi magistrati in quanto Surace, con eloquente noncuranza, da Parigi non l’aveva neanche chiesto. Per di più subito dopo questo «affaire» che aveva fatto scalpore la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo aprì gli occhi sull’Italia e tenne ad emetterle condanne in serie, fino a farle raggiungere il record di nazione di gran lunga più condannata d’Europa… con in media, addirittura una condanna al giorno. Mentre fino a quel momento non gliene aveva emesse praticamente mai, grazie al mito di “culla del diritto» che ancora sopravviveva. Ma la cosa più singolare è che in tutta questa storia l'Ordine dei giornalisti italiano non aveva preso le difese di Surace…Anzi certi strani personaggi «di vertice» di quest’Ordine, invece di mobilitarsi in sua difesa come loro dovere, avevano provato a pugnalarlo alle spalle, né più che meno che... radiandolo! Radiazione che tuttavia fu dichiarata illecita dalla Corte di Appello di Napoli e dalla Cassazione, sicché l'Ordine dovette reintegrarlo e quei personaggi «di vertice» si videro definiti sulla stampa «sicari sfortunati» ed emarginati, mentre Surace ebbe le più vive felicitazioni dalla Federazione della stampa e dai nuovi dirigenti dell’Ordine.

Il “Suracegate»...Ma questo «affaire Surace» fra Italia e Francia non fu che un primo colpo per certa magistratura italiana. Un secondo colpo, da cui non si è più ripresa, fu un altro “affaire Surace» che passò anni dopo alla cronaca mondiale come “Suracegate». Allorché nel 2001-2002 certa magistratura ebbe la buona idea di metterlo in galera per tenercelo 2 anni e mezzo circa per suoi articoli pubblicati una trentina di anni prima e “condannati”, tanto per cambiare, in contumacia. Il che suscitò una reazione durissima a suo favore della stampa mondiale e, a seguito di una celebre conferenza stampa da lui tenuta a Parigi nella sede centrale di Reporter sans Frontières che l’aveva organizzata (dopo che Surace aveva ancora un volta rifiutato la grazia e s’era ripreso la libertà evadendo) la stessa Reporters sans frontières classificò l’Italia, quanto a libertà di stampa, al 44° posto nel mondo dopo Benin e Namibia.

Nenni, Saragat, Pertini...Ma a questo punto una domanda viene spontanea: com’è potuto capitare che proprio e solo in Italia esista la suddetta aberrazione giuridica? Per la verità anche nella Penisola essa non c’era in passato, nel vecchio codice Zanardelli. Fino a quando, negli anni 30, certi giuristi (Rocco, Manzini, Massari...) pensarono bene di introdurla nel nuovo codice per mettere agevolmente nell'impossibilità di nuocere gli oppositori del regime instaurato all’epoca da Mussolini. Il che ebbe in effetti ampia efficacia nei confronti di accusati che si chiamavano, per esempio, Pietro Nenni, Giuseppe Saragat, Sandro Pertini, Luigi Sturzo, Giorgio Amendola. Dei quali alcuni si trovarono in galera senza che si fossero mai visti al processo ed altri, per non subire la stessa sorte, dovettero riparare all'estero, soprattutto Francia e Stati Uniti. Tuttavia, finita la seconda guerra mondiale e instaurata la repubblica, molte cose cambiarono in Italia e addirittura si ribaltarono. Saragat e Pertini, per esempio, divennero addirittura Presidenti della repubblica. C’era dunque da attendersi che ci si sarebbe affrettati a far sparire quell’aberrazione giuridica di cui essi stessi erano stati vittime, tanto più che era ormai la cosa più semplice ed ovvia da fare.

E invece non se ne fece nulla... Cosa vuol dire? Che essa faceva comodo anche al nuovo potere? Si è costretti a pensarlo. Tanto più che si continua tuttora a difenderla tenacemente, benchè l'Italia sia stata ormai, per esempio, tante e tante volte condannata per questo dalla Corte europea di Strasburgo. In effetti questa aberrazione permette a certo potere di tenere qualsiasi cittadino onesto sotto la minaccia di «condanne definitive ed esecutive» senza che l'interessato possa difendersi. Un modo semplice e comodo per criminalizzare qualcuno che «fa ombra», come ad esempio tentato coi due suddetti «affari Surace». Non c’è dunque da sorprendersi che ora ci si dia a manipolare massicciamente con ogni mezzo l’ignara opinione pubblica italiana, aizzandola indegnamente contro il Brasile poiché non consegna Battista.

Un punto da riformare in urgenza. In tutto questo è largamente sentita attualmente in Italia l’esigenza di riformare a fondo la giustizia. E tuttavia si deve notare che fra i tantissimi punti che ci si propone di modificare, spesso a gran voce e con larga pubblicità, tutto si trova meno che, guarda un po’, l’eliminazione di quell’aberrazione…Sarebbe dunque auspicabile che il sonoro schiaffo brasiliano - che in realtà non fa che aggiungersi ai tanti arrivati in questi anni all’Italia su questo punto da tutte le nazioni occidentali, anche se in genere senza lo stesso clamore a parte i due “affari Surace” - induca coloro che hanno il compito di elaborare e varare queste riforme (governo, opposizione, ministro della giustizia, Parlamento, media, cittadini, tuttologhi) a mettere d’urgenza in regola l’Italia su questo punto fondamentale.  Facendola così cominciare a rientrare nel novero delle nazioni in regola col diritto. O si preferisce che resti sul porco? Affare da seguire…

Battisti, giustizia è fatta, finalmente. L'editoriale del direttore di Panorama nel numero in edicola questa settimana dedicato alla cattura del terrorista latitante, scrive Maurizio Belpietro il 28 gennaio 2019 su Panorama. In quasi 40 anni Cesare Battisti ha speso un fiume di denaro per sottrarsi alla giustizia italiana, ingaggiando fior di avvocati in Francia e in Brasile per evitare l’estradizione. Tuttavia non ha speso neppure un euro per dimostrare di essere innocente e di non essere l’assassino che una serie di sentenze definitive ritengono che sia. Gli mancavano i soldi per chiedere una revisione del processo? Certo che no, prova ne sia che gli investigatori italiani sono sulle tracce di chi lo ha finanziato in questi anni, molti - a parere degli inquirenti - gli italiani, parenti e compagni di lotta. Nonostante l’incongruenza di una innocenza reclamata solo sulle pagine dei giornali e mai in tribunale, questa molto probabilmente sarà la tesi difensiva di Battisti e dei suoi amici. Una tesi che, nonostante venga portata avanti con insolito ritardo, rischia di fare breccia perfino su fronti che non possiamo definire solidali con l’ex terrorista dei Pac. Piero Sansonetti, direttore del Dubbio, ha scritto un editoriale in cui apre uno spiraglio, sostenendo che non tutto lo convince nelle condanne contro Battisti. E lo stesso ha fatto Vittorio Feltri su Libero. L’argomento principale è che il bandito dei Pac venne condannato in contumacia, dunque senza potersi difendere, e che i giudici gli avrebbero appioppato anche responsabilità che non erano sue, per comodo o per negligenza. Ma le cose stanno davvero così? A leggere gli articoli pubblicati dieci anni fa proprio su Panorama si direbbe di no. Quando scoppiò il caso Battisti, Giacomo Amadori interpellò tutti i componenti di quella banda armata comunista chiamata Pac e ricostruì le responsabilità del terrorista-scrittore, pubblicando anche una lunga intervista a Pietro Mutti, uno dei compagni di lotta di Battisti. Tuttavia, oltre a quegli articoli, è sufficiente rileggersi gli atti del processo per capire che il latitante acchiappato in Brasile dopo una fuga lunga 37 anni non è un uomo innocente a cui sia stato impedito di difendersi. La tesi dell’ex militante dei Pac è che le accuse contro di lui sono frutto di testimonianze false estorte con la tortura. In realtà, alle sentenze che l’hanno riconosciuto colpevole di omicidi, ferimenti e rapine, si è arrivati sì con la confessione di numerosi pentiti, ma soprattutto con una marea di riscontri. È vero, ci fu un arrestato che disse di essere stato picchiato affinché confessasse la sua appartenenza ai Pac, ma l’indagine condotta da Armando Spataro, il pm che fece condannare gli assassini di Walter Tobagi e scoprì gli agenti della Cia che rapirono Abu Omar (lo stesso che da procuratore di Torino pochi mesi fa si scontrò con Matteo Salvini) escluse l’esistenza di qualsiasi tortura. Gli accusatori di Battisti, dunque, non cantarono perché vittime di sevizie, ma perché messi di fronte a fatti incontrovertibili. Alcuni parlarono perché, resisi conto del fallimento della lotta armata, potevano ottenere sconti di pena. Altri perché pentiti e dopo la pistola impugnarono la croce, convertendosi, come Arrigo Cavallina, l’ideologo del gruppo. Tuttavia, non ci sono solo le confessioni dei pentiti ad accusare Battisti, ma anche le testimonianze di coloro che lo videro uccidere.

Era la mattina del 6 giugno del 1978 quando a Udine, lui ed Enrica Migliorati, aspettarono fuori casa il maresciallo Antonio Santoro, capo delle guardie carcerarie della città, un uomo che Cavallina aveva incontrato quando era in prigione. I due finsero di baciarsi in strada e quando il sottufficiale passò, Battisti gli sparò alle spalle, uccidendolo. I fatti vennero rivelati da un pentito, Pietro Mutti, il quale si auto accusò di aver partecipato all’omicidio, ma poi vennero confermati da altri cinque componenti della banda armata, oltre che da testimoni oculari. La perizia balistica avvallata dalla ricostruzione dell’agguato e gli identikit degli autori materiali dell’assassinio non lasciarono spazio ai dubbi su chi premette il grilletto.

Andrea Campagna, agente della Digos di Milano, fu invece ucciso il 19 aprile 1979 sulla porta di casa della fidanzata, alla fine del suo turno di servizio. Il processo accertò che a sparare ancora una volta fu Battisti. Lo confessarono gli stessi compagni del terrorista-scrittore, ai quali proprio il killer illustrò i dettagli del delitto. E anche in questo caso le dichiarazioni trovarono conferma nelle testimonianze oculari, nel giubbetto indossato, nell’identikit.

Lino Sabbadin, il macellaio di Santa Maria di Sala, invece, non fu ucciso perché uomo delle forze dell’ordine, ma per aver reagito durante un «esproprio proletario», colpendo a morte il bandito che lo voleva rapinare. Battisti e un complice si incaricarono della «punizione» e il 16 febbraio del 1979 gli spararono a sangue freddo nel suo negozio. Anche in questo caso, ad accusare lo scrittore-terrorista, sono i suoi compagni, ma anche le descrizioni rese dai testimoni, che le sentenze ritengono «perfettamente coincidenti con i tratti e la figura di Battisti».

Insomma, tutto riscontrato. Su che cosa gioca dunque l’ex latitante? Sull’assassinio del gioielliere Pier Luigi Torregiani. A ucciderlo, riducendo anche il figlio Alberto su una sedia a rotelle, non fu Battisti, ma il gruppo di fuoco milanese, cioè Mutti e altri. Ma pur non essendone materialmente l’esecutore, Battisti partecipò alle riunioni in cui venne deciso l’agguato e per questo venne condannato. Siccome il delitto Torregiani avvenne lo stesso giorno di quello Sabbadin (la rivendicazione fu unica e i due commercianti furono definiti due porci per aver reagito a una rapina, uccidendo i banditi), l’ex terrorista gioca sulle date, sostenendo di essere stato condannato per due delitti avvenuti a distanza di centinaia di chilometri. Ma nessuno ha mai pensato che avesse il dono dell’ubiquità, semmai la colpa della correità. Alla carriera criminale del finto martire della giustizia andrebbero poi aggiunte una ventina di rapine a banche, uffici postali e supermercati, qualche attentato esplosivo e il ferimento di due medici e di un agente. Tutto ciò in un paio d’anni, fra il 1978 e il 1979. Tutto ciò scritto nelle sentenze, con i dovuti riscontri e le successive confessioni. Altro che processo in contumacia. Macché legislazione speciale. A difendere i terroristi, all’epoca, c’erano fior di avvocati di Soccorso rosso e se le condanne ci furono è solo perché i colpevoli erano tali. Tutto il resto è chiacchiera. Dopo quarant’anni, dunque, è ora di chiudere il caso Battisti.

Ecco tutte le "balle" di Battisti per evitare le manette in Italia. Cesare Battisti le ha provate tutte pur di evitare le manette. L'ultimo disperato tentativo di mettersi al sicuro è nella richiesta di asilo in Bolivia: cosa ha raccontato, scrive Luca Romano, Martedì 15/01/2019, su "Il Giornale". Cesare Battisti le ha provate tutte pur di evitare le manette. L'ultimo disperato tentativo di mettersi al sicuro è nella richiesta di asilo in Bolivia. Per gentile concessione di Wikilao. Una richiesta in cui il terrorista dei Pac di fatto racconta tutta la sua storia con eccessiva fantasia e ovviamente omettendo la sua furia omicida che lo ha portato (solo adesso) a scontare una pena all'ergastolo in Italia. Come riporta la Verità, nella richiesta di asilo avanzata dal killer alla Bolivia c'è di tutto. Innanzitutto Battisti afferma di provenire da una "famiglia comunista" e che suo nonno "è stato uno die fondatori del Partito Comunista Italiano". Ma le vere "balle" arrivano dopo. Il terrorista spiega come è arrivato alla lotta armata: "Presi coscienza che il Partito comunista partecipava alla spartizione del potere e alla corruzione generalizzata nello Stato italiano. All’inizio del 1970, quando il Partito comunista espulse l’intellighenzia di sinistra, mi unii inizialmente a un’organizzazione di sinistra denominata Lotta continua e in quel periodo fui tratto in arresto durante alcune azioni di esproprio proletario per finanziare l’organizzazione e la pubblicazione del periodico Lotta continua". Poi l'arrivo nei Pac grazie all'incontro in carcere nel 1977 con Arrigo Cavalli, vero fondatore die Proletari armati per il Comunismo. Battisti nella sua richiesta di asilo poi parla anche di alcune torture portate avanti dalla Cia in Italia sui prigionieri politici: "Agenti della Cia insieme con le agenzie di intelligence italiane intensificarono le pratiche di tortura e di sparizione dei prigionieri politici". L'obiettivo è chiaro: mostrarsi come un martire agli occhi del governo boliviano. Infine la "carezza" al governo di La Paz per ottenere lo status di rifugiato: "Ancora una volta, altra nefasta coincidenza, nel 2018, un governo eletto di ultradestra in Italia e un altro in Brasile, quello del presidente Bolsonaro rendono necessario chiedere aiuto da un Paese di principi democratici come la Bolivia". Tutte parole al vento: ora è a Oristano a scontare il suo ergastolo.

Spataro: «Battisti è colpevole ed era tra i peggiori in circolazione…». «Battisti è stato giudicato responsabile di quattro omicidi e condannato all’ergastolo. Sono in pochi ad avere un trascorso del genere. Io sono matematicamente certo della sua colpevolezza». Intervista di Giulia Merlo del 16 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Armando Spataro, ex procuratore della Repubblica di Torino e Milano, durante gli anni di piombo, nel 1979 guidò le indagini che portarono alla cattura di Cesare Battisti. Oggi, a quarant’anni di distanza, non ha dubbi: “Cesare Battisti era uno dei peggiori terroristi ancora in circolazione e il fatto che sconti la pena fa parte delle regole di ogni stato democratico”.

Davvero considera Battisti uno dei peggiori terroristi degli anni Settanta, nonostante facesse parte di un’organizzazione minore come i Pac?

«E’ vero che di terroristi ne abbiamo avuti tanti, anche se non le migliaia di cui qualcuno parla, forse convinto in questo modo di legittimare quella che fu una storia incredibilmente stupida. Battisti, però, è stato giudicato responsabile di quattro omicidi, condannato all’ergastolo ed è stato a lungo latitante. Sono in pochi ad avere un trascorso del genere».

Lei conosce le carte: ha la ragionevole certezza che Battisti sia colpevole dei fatti per i quali è stato condannato?

«Io non sono ragionevolmente convinto, io sono matematicamente certo. Chi sostiene di avere dubbi, evidentemente non ha letto le sentenze. Se lo facesse, verificherebbe che non vi sono margini di incertezza».

Ora, dunque, Battisti sconterà la pena.

«Certo, come dispongono le regole di tutti gli stati democratici. Lo Stato ha il diritto di punire coloro che vengono riconosciuti colpevoli dei reati commessi ed il dovere di dar corpo alla ragionevolissima aspettativa dei familiari delle vittime, di vedere puniti gli assassini dei loro congiunti. Altrimenti, si rischia di avallare la convinzione secondo cui, a causa del trascorrere del tempo, condotte così grave possano andare esenti da pena, anche se irrogata in seguito a un regolare giudizio».

Anche se sono passati quarant’anni dai fatti?

«Assolutamente sì, non sono affatto d’accordo con chi sostiene che il carcere non serva a nulla. Peraltro, l’ordinamento penitenziario prevede che anche gli ergastolani possano avere accesso a misure meno afflittive. In relazione al caso Battisti, inoltre, va aggiunta una considerazione in più: da parte sua non si è mai ascoltata una parola di autocritica, ma solo chiacchiere per proclamarsi innocente, ingiustamente accusato e per accusare lo Stato di violenze e la polizia e il sottoscritto di essere dei torturatori. Tutto questo, per costruirsi l’immagine di vittima di un presunto sistema illegale».

La stessa convinzione di molta parte dell’intellettualità francese, che lo ha difeso.

«Una tesi assurda, coltivata da sedicenti intellettuali di cui non ho alcuna stima. Sostengono che il processo italiano avrebbe violato le regole fondamentali, ma ignorano che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha rigettato il ricorso dei difensori di Battisti, nel quale si sosteneva che lui non si era potuto difendere perchè irreperibile».

Su quali basi è stato rigettato?

«Con argomentazioni molto logiche: la Cedu ha spiegato che Battisti era latitante irreperibile in quanto evaso, dunque aveva scelto di rendersi irreperibile. Inoltre ha aggiunto che non era vero che non sapesse del processo a suo carico in corso, non solo perchè il processo era molto noto, ma anche perchè sono state prodotte le lettere che lo stesso Battisti scriveva ai difensori durante il processo ed in relazione al processo. Si può non essere d’accordo con la decisione dei giudici, ma questo non ha nulla a che vedere con il rispetto dei diritti umani».

Un altro argomento addotto dagli innocentisti è stato quello di un processo svoltosi in regime di leggi speciali.

«Si tratta di una pura e semplice infamia e chi lo dice dovrebbe avere la forza di riconoscere il suo errore. Diceva Pertini: “Abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule di tribunale e non negli stadi”. Le no- stre erano leggi che hanno favorito la specializzazione ma non hanno determinato giudici speciali. Bisogna ristabilirla, questa verità. Io parlo spesso del caso Battisti, forse anche troppo, ma lo considero un impegno personale che presi con Antonio Tabucchi, il quale mi chiese di rispondere agli intellettuali francesi ed a questo falso storico, a loro così caro, cui non credono nemmeno gli stessi ex terroristi».

Addirittura?

«Le racconto un aneddoto. Ero a un convegno a Science Po, a Parigi, invitato da Marc Lazar. Io dovevo parlare nel pomeriggio e sedevo in platea, quando uno dei relatori francesi ha ripetuto più volte che in Italia c’erano stati i quegli anni i tribunali speciali. Alla terza volta, lo interruppi: mi scusai ma gli dissi che non poteva permettersi di dire una tale falsità. Seguirono secondi imbarazzati, poi nella sala si alzò una persona: “Scusi professore, ma le confermo che ha ragione il dottor Spataro: in Italia non ci sono mai stati tribunali speciali”. Quella persona era Oreste Scalzone, esponente di Autonomia operaia e poi fondatori dei Co. Co. Ri., latitante in Francia».

Tornando al caso Battisti e al suo rimpatrio, ritiene che il governo abbia ecceduto nella spettacolarizzazione?

«Da cittadino, le rispondo che la scena non mi è piaciuta per nulla. La soddisfazione delle autorità per l’arresto di un personaggio come Battisti è comprensibile e condivisibile, non ritengo accettabile, invece, che questi eventi vengano “teatralizzati”. Ma questo rimanda anche alle modalità delle moderna di informazione, raramente ispirata a criteri di sobrietà. Comunque, non è la prima volta che accadono fatti del genere».

Quale altro caso ricorda?

«Nel 1999, venne rimpatriata dagli Stati Uniti Silvia Baraldini, terrorista del Black Panther Party. Ad accoglierla in aeroporto c’erano la madre e Armando Cossutta, mentre l’allora ministro della Giustizia, Oliviero Diliberto, che vi aveva accompagnato la madre, affermò che la Baraldini era «una persona il cui ritorno in Italia è fonte di gioia, soddisfazione e orgoglio»».

A proposito delle ragioni dietro l’estradizione di Battisti, ritiene che a determinarlo sia stato il cambio di colore politico dei governi sudamericani?

«Questo attiene all’analisi politica. Mi limito a constatare un dato: le autorità giudiziarie francesi e brasiliane avevano concesso l’estradizione, mentre furono le scelte politiche dei rispettivi governi a impedirla. Anche oggi, quella di estradare Battisti è stata una scelta politica. Le leggi, compresi i trattati di estradizione, vanno rispettate senza “se” e senza “ma” ed è triste constatare che, invece, l’esecuzione o meno dell’estradizione sia spesso condizionata dal colore politico di chi governa e non correlata alla mera applicazione delle norme».

PS: Nella prima versione dell’intervista, il titolo conteneva il virgolettato “Battisti è colpevole, lo giuro”. La parola “Lo giuro” è stata una interpretazione redazionale. Spataro non l’ha mai pronunciata.

Vittorio Feltri il 16 Gennaio 2019 su "Libero Quotidiano": "Perché la condanna di Cesare Battisti non mi convince", ribaltone clamoroso. Caro giovane e brillante Alessandro Cantoni, conosco da anni Piero Sansonetti, con il quale spesso ho polemizzato, e ti posso garantire che è persona onesta e di certo in buona fede. Concordo con lui circa i dubbi su Cesare Battisti. Non sono sicuro che i processi contro il combattente filosovietico si siano svolti correttamente. Le prove della sua colpevolezza non mi convincono appieno. D' altronde a quasi quaranta anni dai fatti criminosi è difficile fare accertamenti, senza contare che le sentenze in giudicato, quindi inappellabili, non si possono contestare. Ma il punto a mio avviso è un altro. Che senso ha tanto can-can per la cattura d' un condannato a quattro ergastoli e latitante cronico, per lungo tempo beffatosi dello Stato Italiano? Fanno più scandalo una giustizia e gli apparati di sicurezza incapaci di riportarlo subito in patria. Viene voglia di dire che è stato più abile il "ladro" delle guardie impegnate a ricercarlo. Il fatto che costui sia stato preso soltanto ora dimostra la nostra tragica pistolaggine. Hai ragione tu quando ricostruisci il clima dell'epoca durante la quale la sinistra, in fondo, faceva il tifo per gli assassini comunisti, ritenendoli amici di famiglia. Anche Sansonetti in quel periodo frequentava i tinelli rossi. Ma da qui a trasformare Battisti nel simbolo dello scempio compiuto dai terroristi ce ne corre. Negli anni Settanta lavoravo al Corriere della Sera e ti garantisco che la redazione era a maggioranza marxista e simpatizzava per i pistoleros alla moda. Chi non indossava l'eskimo, ce lo aveva intorno al cervello. Non c'era verso di far ragionare certa gente che, quando il mio collega Walter Tobagi fu assassinato dai banditi leninisti, sorrisero compiaciuti. Ne fui testimone oculare. Certi sentimenti non erano in voga solo nel giornalone di via Solferino, bensì nell' intero Paese. Coloro che sparavano a presunti nemici borghesi erano talmente invasati da essere persuasi di interpretare la giustizia del proletariato. Imbecilli. Se è vero che Battisti è un criminale ovvio che debba scontare la pena inflittagli, però organizzare una specie di sagra a Ciampino per festeggiare il suo rientro in Italia in veste di detenuto mi sembra di cattivo gusto. Ora poi mi pare prevalga una sorta di spirito di vendetta in coloro che sono riusciti ad acchiappare il reo. Tant' è che costui, trasferito nella galera di Oristano, dovrà subire un supplemento assurdo di castigo dal sapore medievale: l'isolamento diurno. Il che significa che Cesare non avrà facoltà di parlare con nessuno durante il giorno, chiuso in una cella nella più totale solitudine. Di notte invece, quando la comunità carceraria presumibilmente dorme, il divieto di colloquio non ci sarà. Ma che razza di punizione è? Una variazione delle classiche torture? Manca solo, per completare l'opera, che ogni mattina a Battisti siano rifilati due calci in bocca. Una barbarie. Qualcosa di ripugnante che andrebbe immediatamente abolita. Invece nessun giurista, avvocato, giudice o politico, muove un ciglio davanti alla descritta violenza. Protestiamo noi e basta. È incivile trattare chi sta dietro le sbarre, a prescindere dai suoi peccati, quale essere da emarginare sia dalla società sia dalla popolazione prigioniera. Nessun uomo o donna va considerato come immondizia e mortificato. Ma i nostri governanti e coloro che li ispirano ignorano le più elementari regole della convivenza. Meriterebbero di provare la gattabuia. Vittorio Feltri

Cesare Battisti, anche Piercamillo Davigo sta con Matteo Salvini: ecco chi si deve vergognare, scrive il 16 Gennaio 2019 su "Libero Quotidiano". Fermi tutti. Anche Piercamillo Davigo si schiera con Matteo Salvini ed Alfonso Bonafede. La questione è quella relativa alle polemiche per l'esultanza dei ministri, e dunque delle istituzioni, in seguito all'arresto di Cesare Battisti. Passerella inadeguata, secondo i molti che hanno criticato i ministri per la loro presenza a Ciampino, per le loro parole ("marcire in galera", del leghista) e infine per il video (grottesco) proposto dal grillino su Facebook. Ma, si diceva: Davigo. Il consigliere superiore della magistratura, intervistato dal Fatto Quotidiano, difende l'operato dei ministri che si sono esposti in primissima linea dopo la cattura del terrorista rosso, latitante da 37 anni. "Un ministro è a capo di una branca della Pubblica amministrazione. È normale che rivendichi i meriti dell'amministrazione che dirige. Poi le forme con cui manifesta la sua soddisfazione non sta a me giudicarle", taglia corto il magistrato. Dunque, Davigo usa parole ancor più decise contro chi ha puntato il dito contro il titolare dell'Interno e il Guardasigilli: "In Italia c'è libertà di manifestazione del pensiero, dunque anche di andare a eventi di questo tipo. Ma mi sono sempre meravigliato di quelli che si dicono garantisti e sono attentissimi ai diritti degli imputati, ma niente affatto a quelli delle vittime di reati".

Cesare Battisti: Camera penale di Roma prepara un esposto contro Bonafede. Il video di Bonafede rivela l'identità di un agente: esposto dei penalisti contro il ministro, scrive Mercoledì, 16 gennaio 2019, Affari Italiani. Quanto pubblicato dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafedesul suo profilo Facebook in relazione alle varie fasi legate all'arrivo in Italia di Cesare Battisti non è piaciuto alla Camera penale di Roma che sta per presentare alla procura della capitale un esposto. Il sindacato dei penalisti della capitale, guidato dall'avvocato Cesare Placanica, chiederà alla magistratura di verificare se quanto avvenuto possa costituire la violazione di due norme: quella prevista dall'articolo 114 del codice di procedura penale che disciplina 'il divieto di pubblicazione dell'immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all'uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica' e quella, contemplata dall'articolo 42 bis dell'ordinamento penitenziario, che prevede sanzioni a carico di chi non adotti "le opportune cautele per proteggere i soggetti tradotti dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità, nonchè per evitare ad essi inutili disagi". Ieri era stata l'Unione delle Camere penali a parlare di "pagina tra le più vergognose e grottesche della nostra storia repubblicana" in relazione al trattamento mediatico riservato a Battisti al suo arrivo a Ciampino. Senza una specifica pronuncia giudiziaria è difficile dire se il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, abbia o meno violato la legge pubblicando il video di Cesare Battisti dopo l'arresto. Il segretario dei Radicali e deputato di +Europa Riccardo Magi ha sostenuto in una nota che "il Ministro Bonafede () pubblicando sulla propria pagina Facebook un video di quasi 4 minuti - montato professionalmente e con colonna sonora - in cui si ripercorreva il rientro in Italia di Cesare Battisti circondato e scortato da agenti della polizia penitenziaria - fisicamente tenuto per le braccia da due di loro - () ha violato la legge". E' un'affermazione probabilmente corretta, ma stabilirlo con sicurezza non è possibile.

IL VIDEO DIFFUSO DA BONAFEDE. Il video a cui fa riferimento Magi è stato condiviso sulla pagina Facebook del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, la sera del 14 gennaio, accompagnato dalla scritta "Il racconto di una giornata che difficilmente dimenticheremo!". Ha una durata di 3 minuti e 52 secondi. In effetti risulta evidente il montaggio: una serie di cinque fotografie, all'inizio, e una ventina circa di spezzoni video vengono montati a costruire il racconto della giornata. Dall'arrivo di Battisti, alla sua presa in consegna da parte delle forze dell'ordine, con il prelievo delle impronte digitali, fino alla sua partenza in aereo, presumibilmente verso il carcere di Oristano, dove dovrà ora scontare la pena dell'ergastolo. Il video è accompagnato da un brano musicale, Ether di Silent Partner, che è libero dal copyright.

E' UNA VIOLAZIONE DELLA LEGGE? In assenza di una pronuncia da parte della magistratura non si può affermare con assoluta certezza che la legge sia stata violata, con la pubblicazione di questo video. Possiamo però riportare la normativa pertinente e fare qualche valutazione in proposito.

IL CODICE DI PROCEDURA PENALE. La legge italiana proibisce di pubblicare l'immagine di una persona ammanettata. Il codice di procedura penale stabilisce infatti (all'art. 114 co. 6 bis) che "E' vietata la pubblicazione dell'immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all'uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta". Non sappiamo se Battisti abbia consentito alla pubblicazione del video diffuso dal ministro Bonafede. Ad ogni modo, le parti del video in cui il terrorista è ripreso mentre viene trattenuto per le braccia dagli agenti non dovrebbero comunque costituire una violazione dell'articolo del codice di procedura penale che abbiamo citato, anche secondo una consolidata giurisprudenza: il motivo è che non sono visibili manette o altri mezzi di coercizione fisica. In questo caso, dunque, non sembra si possa parlare di una violazione della legge.

LA LEGGE SULL'ORDINAMENTO PENITENZIARIO. Allo stesso modo, è in genere vietata la pubblicità di trasferimenti di detenuti. Qui le norme interessate sono quelle sull'ordinamento penitenziario (ad esempio l'art. 42 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354) e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. L'articolo 42 bis disciplina le "traduzioni", cioè (comma 1) "tutte le attività di accompagnamento coattivo, da un luogo ad un altro, di soggetti detenuti, internati, fermati, arrestati o comunque in condizione di restrizione della libertà personale". Il comma 4 dell'articolo 42 bis stabilisce che "nelle traduzioni sono adottate le opportune cautele per proteggere i soggetti tradotti dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità, nonchè per evitare ad essi inutili disagi". In questo caso, la violazione della norma appare innegabile. Non solo non sono state prese le "opportune cautele per proteggere i soggetti tradotti dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità", ma e' stato fatto l'esatto contrario. In uno spezzone del video - al minuto 2.10 - si vedono anche due coppie di agenti, la prima della Polizia di Stato e la seconda della Polizia Penitenziaria, scambiarsi il prigioniero e farsi ritrarre in favore di telecamera.

IL PARERE DEGLI AVVOCATI. Su questo trattamento riservato a un detenuto si è espressa anche l'avvocatura italiana. L'Unione delle camere penali ha diffuso il 15 gennaio in un comunicato la propria posizione, ripresa da numerose testate, secondo cui "è inconcepibile che due ministri del governo di un Paese civile abbiano ritenuto di poter fare dell'arrivo in aeroporto di un detenuto, pur latitante da 37 anni e finalmente assicurato alla giustizia, una occasione, cinica e sguaiata, di autopromozione propagandistica". Oltre a Bonafede viene dunque chiamato in causa anche Matteo Salvini, ministro dell'Interno, presente - seppur in un ruolo secondario - nel video in questione.

IL PARERE DEL GARANTE DEI DIRITTI DEI DETENUTI. Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, ha espresso il 16 gennaio in un'intervista al quotidiano la Stampa critiche ancor più severe dei penalisti italiani. Secondo Palma, "mettere un video su quelle fasi dell'accompagnamento coatto di Cesare Battisti è in contrasto con l'ordinamento penitenziario". In particolare, secondo Palma, è stato violato "l'articolo 42 bis comma 4 del codice di ordinamento penitenziario". Ma non solo. Alla domanda dell'intervistatore se intraveda altre violazioni nell'accaduto, Palma ha risposto che "sono perplesso dalla scelta di esporre in quel modo gli operatori di polizia che stanno facendo il loro dovere". Il terrorismo rosso non sembra più essere una minaccia concreta in Italia nel 2018, e quindi gli agenti di cui si vede chiaramente il volto non dovrebbero essere esposti a ritorsioni sanguinose da parte di nuclei armati, ma - come sostiene il Garante - "ci deve essere più attenzione". Palma è poi tornato sulla questione affermando, come riporta l'Huffington Post, che si riserva di verificare se nella gestione dell'arrivo di Battisti in Italia "ci siano stati elementi di spettacolarizzazione" e se "in sede istituzionale sia stato usato un linguaggio aderente alla Costituzione". Palma in particolare fa riferimento all'espressione usata da Salvini - titolare dell'istituzione del Viminale - in riferimento a Battisti, marcire in carcere, che nota Palma "non appartiene alla Costituzione".

CONCLUSIONE. Il ministro Bonafede ha probabilmente violato l'articolo 42 bis della legge sull'Ordinamento penitenziario. La violazione è stata rilevata anche dal Garante nazionale dei detenuti, e sembra evidente già alla sola lettura della norma in questione. Non sembra invece che il video diffuso da Bonafede costituisca una violazione dell'articolo 114 del codice di procedura penale. In ogni caso, sarà solo un eventuale pronunciamento della magistratura a poter stabilire con assoluta certezza se il ministro della Giustizia abbia violato o meno la legge italiana. 

Ornano: «Battisti, ignorati i poteri del giudice di sorveglianza». Secondo la leader di Area, toccava al direttore del carcere e al magistrato autorizzare ogni scelta sulle modalità di arresto del terrorista. Intervista di Giovanni M. Jacobazzi del 18 gennaio 2019 su "Il Dubbio". «Mi è parso inadeguato vedere l’altro giorno il ministro della Giustizia indossare la divisa da agente della polizia penitenziaria. Chi ricopre una funzione istituzionale dovrebbe tenere un comportamento consono e rispettoso della carica». È forte il disappunto di Maria Cristina Ornano, gip al Tribunale di Cagliari e segretaria nazionale di Area, il cartello delle toghe progressiste di cui fa parte anche Magistratura democratica, per le scelte compiute dal guardasigilli e in generale dal governo nella gestione “mediatica” della cattura di Cesare Battisti».

Dottoressa Ornano, il ministro Bonafede ha postato sul proprio profilo facebook un video in cui si possono vedere le varie fasi dell’ingresso di Battisti in carcere: dalla registrazione alla matricola fino alle operazioni di foto segnalamento. Cosa pensa del modo in cui il governo ha scelto di rappresentare la vicenda?

«Esistono delle leggi, penso all’articolo 42 bis dell’Ordinamento penitenziario, che stabiliscono come in tutte “le attività di accompagnamento coattivo di soggetti detenuti, internati, arrestati o in condizione di restrizione” si debba adottare ogni cautela per proteggere i soggetti dalla curiosità del pubblico e da ogni pubblicità».

Ecco, nel caso di Battisti questo non è accaduto. Ma chi avrebbe dovuto compiere le scelte a riguardo, secondo la legge?

«Il direttore del carcere è il primo che deve vigilare su quanto accade nella struttura».

Cosa potrebbe avvenire se il legale di Battisti proponesse reclamo?

«Potrebbe essere interessato del caso il giudice ordinario. Oltre al magistrato di sorveglianza cui compete verificare che la pena venga espiata nel rispetto della legge».

La spettacolarizzazione degli arresti è ormai una costante. Ci sono precedenti noti come gli arresti in diretta di Massimo Carminati o di Massimo Bossetti, solo per fare esempi recenti. Un fenomeno inevitabile a cui dobbiamo abituarci?

«Non credo proprio ci si debba abituare. Il problema è che l’attuale politica, sollecitata da forti spinte “securitarie”, tende ad assecondare le aspettative diffuse in una parte dell’opinione pubblica, a raccogliere consenso. È un modo di fare che però finisce per lasciare sconcertati».

A proposito di politiche securitarie, la stessa giustizia rischia di piegarsi alle leggi del consenso?

«Certo. È un meccanismo circolare, ben studiato, che si autoalimenta. Il politico tende a dire quello che la gente vuole sentirsi dire. Così facendo però si aumenta la percezione dei fenomeni criminali, che vengono ingigantiti. Si creano emergenze che, di fatto, non esistono».

È questa la logica della cosiddetta politica della paura?

«».

Sta facendo molto discutere in queste ora la presenza, come ospiti, di alcuni magistrati alla cena conviviale organizzata dall’associazione “Fino a provacontraria” della giornalista Annalisa Chirico. Che ne pensa?

«Mi risulta che per partecipare a questa cena fosse necessario pagare 6000 euro. Tralasciando il fatto che in questi tempi di crisi certe cifre suscitano sdegno, chi ha pagato?»

Se fosse stata invitata avrebbe declinato?

«Sicuramente. Il magistrato non deve manifestare collateralismo ai poteri politici ed economici, ma deve sempre salvaguardare la propria autonomia e indipendenza. Ci sono altre sedi e luoghi per il confronto democratico sui temi della giustizia. Non durante cene costosissime»

Show all'arresto di Battisti Salvini e Bonafede indagati. Si vestirono da poliziotti: accusati di non aver tutelato la dignità del detenuto. Lo sanno ma hanno taciuto, scrive Francesca Fagnani, Mercoledì 06/02/2019 su Il Giornale.  I l 14 gennaio scorso con un volo proveniente da Santa Cruz, in Bolivia, atterrava nello scalo romano di Ciampino, dopo 40 anni di fuga, l'ex terrorista Cesare Battisti. Ad attenderlo in pista e a mettere il cappello sull'arresto c'erano in coppia il vicepremier e ministro dell'Interno Matteo Salvini vestito - a favore di telecamera - con la divisa della Polizia e il ministro della Giustizia Alfonso Bonfede. Alla passerella-derby dei due ministri era seguita poche ore più tardi la pubblicazione di un video postato dal Guardasigilli su Facebook che mostrava i momenti salienti della presa in consegna di Battisti da parte della Polizia penitenziaria con tanto di musichetta di sottofondo. Al vespaio di polemiche che ne seguirono oggi si aggiunge una notizia della quale da almeno una settimana sono a conoscenza sia il ministro Salvini che il ministro Bonafede e cioè che per il loro comportamento, a seguito di una denuncia, è stato aperto un fascicolo presso la Procura di Roma, che ha deciso di fare domanda di archiviazione depositandola presso il Tribunale dei ministri, che potrebbe come sappiamo, anche respingerla. Come ben si ricorderà anche il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro aveva formulato sul caso della nave Diciotti «una richiesta motivata di archiviazione» ma il Tribunale dei ministri ha poi seguito un'altra strada. Secondo la Procura di Roma Bonafede e in concorso con lui Salvini, avrebbe violato la legge per la mancata adozione delle opportune cautele dirette a proteggere le persone in arresto dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità. A mettere nei guai il ministro della Giustizia sarebbe stato proprio questo video - realizzato con toni trionfalistici e propagandistici - in cui Battisti veniva esibito come un trofeo nel passaggio e nella consegna tra le varie forze dell'ordine. Tuttavia per i magistrati romani il fatto non costituisce reato perché mancherebbe il dolo e il vantaggio patrimoniale. Ora la palla passa al Tribunale dei ministri. Ci si chiede, intanto, come mai né il ministro Bonafede né Salvini abbiano sentito il dovere di rendere nota questa vicenda giudiziaria che li riguarda. E soprattutto il premier Conte ne era a conoscenza? E Di Maio? «La trasparenza è un dovere» diceva Beppe Grillo quando venne sospeso il sindaco ancora pentastellato Federico Pizzarotti per un avviso di garanzia per alcune nomine al teatro Regio di Parma e di cui non diede notizia tempestivamente ai vertici del M5s. Ma era molto tempo fa, c'era il «codice etico», le valutazioni seguivano ben altri costi-benefici da quelli della quadratura del cerchio del governo.

Quella strana indulgenza per Battisti, scrive Karen Rubin, Sabato 19/01/2019, su "Il Giornale". Una parte consistente della sinistra, più o meno estrema, con i suoi intellettuali, si è schierata con il compagno terrorista Battisti, cui vorrebbero fosse concessa un'amnistia. «C'è chi sostiene - commenta lo psichiatra Sabino Nanni - che dopo tanto tempo un terrorista, o un altro tipo di criminale, non sia più punibile. È inaccettabile perché anche se i crimini sono lontani nel tempo, le loro conseguenze persistono tuttora, come la frustrazione delle famiglie delle vittime che hanno atteso 37 anni per avere giustizia, mentre lui viaggiava impunito tra Francia, Messico e Brasile». Ma come si spiega la simpatia per uomini che si macchiano di crimini così violenti? «Le persone aggressive e distruttive provano indulgenza solo per un altro tipo di persona: quella ancora più aggressiva e distruttiva, è una proiezione come quella che fa l'ammiratore sul suo idolo, come per l'allievo che ammira il maestro con cui condivide uno stesso sentimento, c'è una coerenza emotiva in questo meccanismo», spiega lo psichiatra. Nel caso di Battisti, c'è un invalido permanente e il dolore di persone che hanno perso i loro affetti più cari. Eppure si chiede un perdono che solo chi ha subito le sue atrocità potrebbe concedere. «Al di là di apparenti contraddizioni, c'è una perfetta coerenza dal punto di vista emotivo che è la stessa di chi odiando ferocemente la civiltà occidentale prova simpatia e indulgenza per i jihadisti islamici», osserva Nanni. E infatti la vicenda ne evoca un’altra di qualche anno fa, quando un magistrato assolse dall'accusa di terrorismo internazionale due tunisini e un marocchino sostenendo che i tre fossero eroici guerriglieri. «Si ha l'impressione che certi esseri umani tengano di più alla coerenza emotiva che a quella intellettiva, anche a costo di divenire autolesionisti», chiarisce lo psichiatra. Un'altra strana affinità è quella che sentono molti omosessuali per i palestinesi, con cui si schierano contro gli israeliani. Eppure le uniche associazioni gay palestinesi esistenti sono ospitate a Tel Aviv, che accoglie i gay perseguitati dagli arabi dando loro rifugio e salvandoli da morte sicura. Nel Land del Baden-Württemberg alcuni immigrati stuprarono una giovane politica tedesca. La donna dichiarò di essere stata violentata da connazionali celando l'identità etnica dei suoi carnefici. Le femministe più estremiste, intransigenti con il maschio occidentale, diventano indulgenti e comprensive quando si tratta di giudicare quello musulmano, anche pagando terribili conseguenze personali conservano la loro rigida coerenza emotiva», conclude Nanni. Aveva ragione Blaise Pascal: il cuore ha le sue ragioni che la ragione non capisce.

Le toghe rosse del Csm contro il governo: "Su Battisti giustizia primitiva". I magistrati progressisti del Csm all'attacco: "Chiunque sia il detenuto e qualunque sia la sua colpa, ha diritto che lo Stato ne rispetti la sua dignità", scrive Sergio Rame, Mercoledì 16/01/2019, su "Il Giornale". "Hanno un'idea primitiva della giustizia". All'interno del Consiglio superiore della magistratura (Csm) la cattura e l'arresto di Cesare Battisti stanno facendo serpeggiare un certo malcontento nei confronti del governo gialloverde. A far montare la polemica sono stati i togati di Area, la corrente che raggruppa le toghe rosse. "Chiunque sia il detenuto e qualunque sia la sua colpa - spiegano i magistrati progressisti - questi ha diritto che lo Stato ne rispetti la sua dignità". "Nel ricordare che abbiamo giurato fedeltà alla Costituzione e alle leggi dello Stato, pensiamo che quanto accaduto esprima tristemente un'idea primitiva di 'giustizia', indifferente al rispetto della dignità umana, che costituisce, invece, un approdo della cultura giuridica di questo paese, che conferisce allo Stato e alla sua Legge quella forza e quella legittimazione che hanno permesso sino ad oggi la sconfitta di ogni terrorismo". Quanto accaduto lunedì all'aeroporto di Ciampino in occasione dell'arrivo di Battisti, per i togati di Area al Csm è "estraneo alla cultura giuridica" italiana e "al senso di giustizia di uno stato di diritto". Secondo il gruppo delle toghe progressiste, "lo Stato e le sue regole avevano già vinto e dimostrato la loro forza senza che fosse necessaria la gratuita e compiaciuta esibizione della cattura del latitante: altro - aggiungono - è infatti esprimere legittima soddisfazione per la conclusione della lunga latitanza di un cittadino raggiunto da plurime sentenze definitive di condanna per gravissimi fatti di sangue, altro è esibire pubblicamente il detenuto e tutte le fasi del suo arresto, e farne addirittura un video per migliorarne la diffusione". I consiglieri di Area democratica per la Giustizia vanno al di là della figura di Battisti che, grazie all'accordo tra Matteo Salvini e il presidente brasiliano Jair Bolsonaro, è stato assicurato alla giustizia dopo trentasette anni di latitanza. "Chiunque sia il detenuto e qualunque sia la sua colpa - spiegano i togati di Area - questi ha diritto che lo Stato ne rispetti quella dignità che l'articolo 3 della Costituzione garantisce ad ogni persona". "E questo - incalzano i magistrati del Csm - impongono le regole dell'ordinamento penitenziario che disciplinano le attività di accompagnamento dei soggetti detenuti o comunque sottoposti a restrizione della libertà personale".

Cesare Battisti, cosa lo aspetta in carcere. Il terrorista dei Pac atteso da alcuni mesi in isolamento ma poi potrà godere di alcuni permessi previsti dalla Legge, scrive il 14 gennaio 2019 Panorama. Cesare Battisti subito dopo l'atterraggio del volo che lo ha portato dalla Bolivia in Italia sarà portato al carcere di rebibbia per scontare la condanna all'ergastolo che lo aspetta da diversi anni. Latitanza quindi finita. Ma quale sarà il regime carcerario che attende l'ex terrorista dei Pac?

Isolamento. Battisti dovrà passare alcuni mesi, forse addirittura sei, in isolamento. Questo significa che dovrà restare in una cella da solo, senza avere possibilità di interagire con gli altri detenuti, senza la possibilità di fare attività interne ed esterne al carcere.

Permessi e premi. Passato il periodo di isolamento pur essendo stato condannato all'ergastolo per reati «ostativi», che cioè ne impedirebbero la concessione, Battisti potrà ottenere lo stesso i benefici penitenziari perché ha commesso i reati prima del 1991. Solo in quell' anno, infatti, entrò in vigore la norma che da allora vieta di concedere questi preziosi benefici a coloro che vengono condannati per reati di terrorismo o di mafia.

Quando raggiungerà i 70 anni, oggi Battisti ne ha 64, e sempre se i giudici del Tribunale di sorveglianza daranno parere favorevole, potrà godere dei permessi premio e uscire per brevi periodi dal carcere, ma solo dopo che avrà scontato almeno 10 anni, o della liberazione condizionale, dopo 26 di galera, periodi che si accorciano grazie alla «liberazione anticipata» che cancella dal computo finale 45 giorni ogni sei mesi trascorsi in cella.

Quegli “ideali” mai rinnegati in mostra nel covo di Battisti, scrive il 13 gennaio 2019 Matteo Carnieletto su "Gli Occhi della Guerra" de "Il Giornale". La foto è stata scattata dal giornalista di Efe Fernando Bizerra Jr. e mostra Cesare Battisti all’interno di casa sua a Cananeia, a circa tre ore e mezzo di macchina da San Paolo. Il terrorista sorride mentre, dietro di lui, campeggia il suo credo politico: un vecchio manifesto dell’Unione sovietica, un poster raffigurante un giovane palestinese che scaglia un sasso contro un carro armato israeliano e, infine, quella che sembra essere la bandiera utilizzata dai ribelli siriani che combattono contro Bashar al Assad. In una parete c’è tutto il sancta sanctorum del terrorista dei Pac. Che poi, come raccontato su queste pagine, Battisti si è avvicinato all’ideologia comunista solamente in carcere, tanto che il pm Antonio Spataro l’ha definito “un assassino puro”. Ma tant’è. Ciò che colpisce è che il latitante sia rimasto ancorato al suo credo. Non si è spostato di una virgola e tutto sembra esser rimasto agli Anni Settanta. Anni tragici, anni fatti di pallottole e sangue. Che si trascinano ancora oggi come testimonia la vicenda di Battisti. Proprio in quegli anni la sinistra si avvicina alla causa palestinese, sposandone le tesi più intransigenti che mettono addirittura in discussione lo Stato di Israele. Giustificano la loro lotta armata (che tra l’altro condividono) e pure la loro spinta ideologica. Ma non solo. In quegli anni Stati Uniti e Russia polarizzano le loro posizioni in Medio Oriente. I primi stanno con Israele, mentre i secondi con i palestinesi. E così sarà fino ai giorni nostri. E poi un astronauta accompagnato dalla scritta Cccp mentre volta le spalle al globo e brandisce falce e martello. Un’ideologia mortale, quella comunista, che ha portato oltre 100 milioni di morti. Un’ecatombe colossale di cui ancora oggi si parla troppo poco. Infine quella che sembra essere la bandiera dei ribelli siriani. Un’etichetta, quella di ribelli siriani, che ormai contiene un po’ tutto: da chi chiede (o chiedeva) più democrazia fino ai jihadisti dell’esercito dell’islam. La parete di Battisti ci fornisce dettagli sul suo credo politico, che sposa l’anti imperialismo ad ogni costo e un’ideologia mortifera. Che ora non esiste più. Ma di cui ancora oggi ancora molti Paesi pagano le conseguenze.

I Pac e Cesare Battisti: due anni di sangue (1978-79). Dai collettivi autonomi del quartiere della Barona alle rapine. Poi gli omicidi Santoro, Sabbadin, Torregiani e Campagna tra il 1978 e il 1979, scrive Edoardo Frittoli il 16 gennaio 2019 su Panorama. Le origini dei Proletari Armati per il Comunismo (PAC), dove militò per circa due anni il terrorista Cesare Battisti, rimandano ai gruppi degli autonomi legati alla rivista milanese "Il Rosso" edita nella prima metà degli anni '70: quelli della violenza, degli attentati e dei gravi scontri di piazza che segnarono indelebilmente l'Italia di 40 anni fa. All'interno dei più importanti gruppi della sinistra extraparlamentare come Lotta Continua, Potere Operaio e Autonomia Operaia si generò la galassia della militanza clandestina, che fece della lotta armata e del terrorismo lo strumento finalizzato all'abbattimento della democrazia "borghese".

Così come dalle fila di Lotta Continua nacque l'organizzazione Prima Linea, per quanto riguarda i Proletari Armati per il Comunismo l'origine è da ricondursi alle organizzazioni dell'autonomia in Lombardia e Veneto. Fu un insegnante veronese, Arrigo Cavallina, a raccogliere attorno alla rivista "Senza Galere" il primo nucleo dei PAC. Nel primo periodo di attività il nucleo si concentrò in modo particolare alla lotta al sistema carcerario italiano (dove erano rinchiusi i "compagni" delle diverse organizzazioni clandestine) ponendosi inizialmente obiettivi simili a quelle delle prime Brigate Rosse. Dai contenuti pubblicati sulle pagine del periodico si sviluppa l'idea del radicamento locale dei cosiddetti "Comitati Territoriali di Controllo sul Carcere", organismi nati con la finalità di monitorare lo stato di detenzione dei detenuti politici delle formazioni extraparlamentari. Tra i primi esponenti del gruppo di autonomi attivi nel quartiere popolare della Barona figurava Giuseppe Memeo, detto il "terùn" per le sue origini meridionali.  Il 14 maggio 1977, con il volto coperto da un passamontagna era stato fotografato mentre scaricava - le ginocchia piegate per mirare ad altezza d'uomo - la sua Walther P38 contro la Polizia schierata in via De Amicis mentre cercava, assieme agli altri militanti, di raggiungere il vicino carcere di san Vittore. La foto del militante dei PAC diventerà una delle immagini più evocative degli anni di piombo. La prima sede operativa nella zona sud-ovest era stata stabilita in via Palmieri allo Stadera, uno dei quartieri più difficili e violenti della città serbatoio di criminalità e droga. Fu tra gli abitanti delle case popolari fatiscenti costruite durante il fascismo e quelli dei casermoni anni '60 della Barona che i PAC decisero di sperimentare la loro idea di "rivoluzione armata dal basso" reclutando anche dalla delinquenza comune la manovalanza per le prime azioni criminali, in particolare rapine a scopo di autofinanziamento e azioni dimostrative contro i simboli dello "sfruttamento dei proletari" (incendio al magazzino della Face Standard) E ancora espropri e autoriduzioni della spesa alla Esselunga e alla Upim di Piazza Frattini. Poco più tardi, cominciano le rapine alle armerie (a Bergamo, dove recuperano un cospicuo bottino e a Crema dove recuperano oltre 5 milioni di lire per una partita di armi) spesso orchestrate assieme agli altri gruppi clandestini milanesi come Prima Linea e Collettivo Metropoli. In una cella del carcere della città friulana è rinchiuso l'ideologo dei Pac Arrigo Cavallina. Durante la detenzione, l'intellettuale terrorista entra in contatto con un giovane arrestato per reati comuni: Cesare Battisti. Il futuro killer dei PAC era stato arrestato per avere picchiato selvaggiamente un sottufficiale durante il servizio militare, ultimo di una serie di violenze e reati compiuti dal ventitreenne nato a Cisterna di Latina. Nei pochi mesi alle sbarre si consumò la "mala educazione" politica di Battisti, che all'uscita dal carcere sarà introdotto nell'ambiente clandestino milanese attraverso i contatti di Cavallina: terroristi del calibro di Carlo Fioroni (che sarà il primo pentito delle BR) e Marco Bellavita. La prima sortita di Battisti con i nuovi compagni di lotta sarà una rapina ad un collezionista di armi di Galliate (Novara).

La prima fase dei PAC: obiettivo carceri. Gli insegnamenti di Cavallina e l'azione dei Comitati territoriali della Barona trovarono in Cesare Battisti e "compagni" il braccio operativo per passare all'azione. Sono i drammatici giorni conclusivi del sequestro di Aldo Moro. Il primo sangue scorre il 6 maggio 1978, quando i PAC gambizzano il medico del carcere di Novara Giorgio Rossanigo, fuggendo su una Simca "1000" rubata poche ore prima. Passano appena 48 ore e sotto i colpi dei terroristi quasi muore dissanguato un medico dell'INAM, Diego Fava, colpito perché incaricato dalle aziende di effettuare le visite fiscali. Entrambi gli attentati sono rivendicati dal gruppo con un volantino in cui compare lo slogan "Contro i medici sbirri di Stato. Liberiamoci dalle catene della galera e del lavoro". Ad esattamente un mese dal ferimento di Rossanigo cade la prima vittima di Cesare Battisti e dei "compagni armati". Il teatro del delitto è nuovamente Udine, dove Cavallina e Battisti hanno un conto aperto con il capo delle Guardie carcerarie Antonio Santoro, che i due avevano conosciuto durante la detenzione. Battisti e la complice Enrica Migliorati attendono sotto casa la vittima che sta per recarsi al lavoro. Fingendosi fidanzati che si baciano, in un attimo scaricano le loro armi sul "torturatore di proletari" che si accascia a terra in un lago di sangue sotto gli occhi della moglie e dei due figli di 17 e 10 anni.

La seconda fase dei PAC: l'attacco ai commercianti. Il pensiero delirante per cui la "rivoluzione proletaria" avrebbe dovuto allargarsi partendo del "basso" attraverso l'azione a livello locale, fece nascere tra i terroristi dei PAC l'idea del secondo obiettivo: i commercianti, i conosciuti come il primo scalino del capitalismo oppressore, erano da colpire. Fino ad allora l'azione si era concretizzata con le numerose rapine e con gli espropri ai danni dei negozianti e delle grandi catene. Poi arrivò ancora una volta il sangue. Il primo a cadere sotto i colpi dei Proletari Armati è un macellaio di Caltana di Santa Maria di Sala (Venezia), Lino Sabbadini. Il commerciante era entrato nel mirino di Battisti e compagni, oltre che per la militanza nel MSI, per avere ucciso il 16 dicembre 1977 Elio Grigoletto durante una colluttazione seguita al tentativo di rapina da parte di quest'ultimo. Dopo due mesi esatti di minacce anonime e attentati al tritolo, Battisti e il complice Diego Giacomin "regolano i conti" e freddano Sabbadin con 4 colpi calibro 6,35 tutti a segno. Era il 16 febbraio 1979. Il secondo omicidio si consuma lo stesso giorno. Vittima è un altro commerciante, questa volta di Milano. In zona Bovisa, alla periferia Nordovest della città, i terroristi rossi fanno irruzione in una gioielleria. L'obiettivo è scelto con i medesimi criteri di Lino Sabbadin. Il gioielliere Pierluigi Torregiani, come il macellaio veneto, aveva reagito ad un tentativo di rapina al ristorante "Transatlantico" di Porta Venezia uccidendo il pregiudicato catanese Orazio Daidone. Era il 22 gennaio 1979. Dopo giorni di minacce anonime e il furto dell'auto, Torregiani è freddato nel negozio di via Mercantini dal commando dei PAC formato da Giuseppe Memeo (l'autonomo che sparò in via De Amicis) Gabriele Grimaldi e Sebastiano Masala. Nella sparatoria viene gravemente ferito il figlio di Torregiani, Alberto, che rimarrà paraplegico. Dopo il delitto Torregiani, la Digos aveva stretto il cerchio attorno ai collettivi del quartiere popolare milanese. Pochi giorni dopo l'assassinio dell'orefice gli investigatori avevano fatto irruzione in una sede dell'autonomia, alla quale aveva preso parte in qualità di autista delle auto civetta l'agente venticinquenne Andrea Campagna, domiciliato proprio alla Barona. Le telecamere del telegiornale lo avevano mostrato durante l'azione, fatto che lo mise nel mirino dei PAC. Nel primo pomeriggio del 19 aprile 1979 il giovane agente prossimo al matrimonio viene crivellato di colpi di 357 magnum sotto casa del futuro suocero in via Modica. L'omicidio è rivendicato contemporaneamente da PAC e Prima Linea, che dichiarano di aver giustiziato il "torturatore di proletari" Andrea Campagna. I membri del commando Claudio Lavazza, Paola Filippi, Luigi Bergamin, Gabriele Grimaldi e Cesare Battisti.

Il crepuscolo dei PAC. La scoperta dei covi, i pentiti, gli arresti. Il 26 giugno 1979 la Digos fa irruzione in una palazzina di via Castelfidardo, 10 al Ticinese, dopo una serie di indagini incrociate con i Carabinieri del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Gli agenti, sulle tracce dei killer di Torregiani e Campagna, trovano l'arsenale dei PAC, tra cui la 357 magnum che aveva ucciso l'orefice milanese. L'arma risulterà bottino di una delle rapine meglio riuscite dei PAC, quella del gennaio 1979 all'armeria di via Sant'Orsola a Bergamo. Lo stesso Battisti è arrestato assieme all'affittuaria del covo Silvana Marelli (Potere Operaio), Marco Moretti, Diego Giacomini e Cipriano Falcone. Alle forze dell'ordine il futuro superlatitante esibisce una carta d'identità intestata a Giuseppe Ferrari. Le prime dichiarazioni degli inquirenti parlano di Battisti come di un "delinquente comune" poco ideologizzato, che avrebbe avuto l'appoggio del covo dei PAC soltanto per le sue azioni criminose finalizzate alla rapina. Il compagno di militanza Giuseppe Memeo sarà arrestato pochi giorni dopo nascosto con le armi in via Antonio Picozzi al Casoretto, in un appartamento a pochissima distanza dal covo delle Brigate Rosse di via Monte Nevoso. Gli arresti della seconda metà del 1979 tagliarono la testa ai PAC, nati tra le case popolari della Barona. Contemporaneamente al blitz di Milano, in Veneto venivano arrestati i "compagni" dei milanesi tra cui Claudio Lavazza e Paolo Molina. Tre giorni dopo in via Negroli nei pressi dell'Ortica gli agenti della Digos irrompono nel covo dei complici di Prima Linea dove viene arrestato il terrorista Corrado Alunni. Proprio in quest'ultima formazione molti dei militanti dei PAC rimasti in libertà dopo le retate scelsero di confluire. Rinchiuso nel carcere di Frosinone il "compagno" Cesare Battisti avrebbe dovuto scontare l'ergastolo. Il 4 ottobre 1981 riesce ad evadere grazie all'aiuto di un commando del quale fece parte Claudio Lavazza anch'egli militante dei PAC (arrestato dopo la latitanza in Spagna nel 1996 e attualmente in carcere). Arrigo Cavallina ha scontato 12 anni di reclusione dei 22 inflitti inizialmente mentre Giuseppe Memeo, l'autonomo che ha rappresentato gli anni di piombo nella foto di via De Amicis e che sparò assieme a Grimaldi all'orefice Torregiani, ebbe una pena ridotta dopo la dissociazione. Uscito dal carcere, si dedica al volontariato a Milano. Per Battisti cominciavano 37 lunghissimi anni di latitanza, terminata il 12 gennaio 2019 con l'estradizione e la detenzione nel carcere di Oristano.

Chi è Cesare Battisti, il terrorista e assassino sempre protetto dai potenti. Il rapinatore e killer, diventato poi scrittore di successo, è stato arrestato e poi scarcerato mentre cercava di andare in Bolivia. Ma ora il presidente brasiliano potrebbe revocarne lo status di rifugiato. Un passo importante per l'estradizione in Italia, da cui è scappato 36 anni fa, scrive Paolo Biondani il 12 ottobre 2017 su "L'Espresso". Uno scrittore perseguitato per le sue idee politiche? No, un terrorista pluri-omicida rimasto impunito per volontà del leader di un partito corrotto. Cesare Battisti è stato arrestato, e poi rilasciato, nei giorni scorsi mentre cercava di fuggire dal Brasile alla Bolivia. Una "gita per pescare", secondo lui; molto più credibilmente un tentativo di fuga per evitare di essere rimandato in Italia. Sì, perché dopo anni di "rifugio" in Brasile, Battisti ora rischia di vedersi revocato lo status di rifugiato politico, passo fondamentale per la sua estradizione in Italia. Ridotto ai fatti comprovati, liberato dai fumi ideologici, il caso di Cesare Battisti è la strana storia di un assassino condannato dalla giustizia, ma salvato dalla politica. La giustizia è quella italiana, che gli ha inflitto l’ergastolo per quattro omicidi. Sentenza mai eseguita perché l’ex terrorista rosso è scappato in Brasile, dove il 31 dicembre 2010 l’allora presidente Lula, carismatico leader della sinistra, ha messo il veto all’estradizione, con l’ultimo atto del suo mandato. Uno schiaffo all’Italia: i processi documentano che era lui a impugnare le armi. E le sue vittime furono quattro innocenti ammazzati per vendetta. Ma invece è stato il rapinatore-killer, diventato un romanziere intoccabile, a essere presentato come vittima della repressione italiana negli anni di piombo. Il primo fatto certo è che Cesare Battisti viene arrestato con altri complici a Milano, nel giugno 1979, in una casa dove ha nascosto un arsenale: mitra, pistole, fucili. Sono armi dei “Proletari armati per il comunismo”, che teorizzano un’alleanza “anti-capitalista” con i rapinatori comuni. Da quel covo parte l’indagine che in luglio porta in carcere anche Giuseppe Memeo, il protagonista della foto-simbolo degli anni di piombo: l’autonomo che spara per strada contro la polizia. «Battisti era un rapinatore comune, per soldi, che si è politicizzato in carcere», ha scritto il pm Armando Spataro per «ristabilire la verità» dopo il primo stop brasiliano. Nell’ottobre 1981, mentre sta scontando la prima condanna per banda armata, Battisti evade dal carcere di Frosinone e scappa in Francia. Dove diventa un giallista di successo, difeso da illustri intellettuali. In Italia le indagini continuano e fanno crollare il muro di piombo. Numerosi terroristi confessano. Tra le prove contro Battisti c’è perfino la testimonianza di un cittadino che ha avuto il coraggio di inseguire un commando di terroristi-killer. Battisti viene condannato in tutti i gradi di giudizio per quattro omicidi. Un’escalation spaventosa. Il 6 giugno 1978 ammazza personalmente un maresciallo di Udine, Antonio Santoro. Il 16 febbraio 1979 la sua banda uccide un gioielliere di Milano, Pierluigi Torregiani, il cui figlio Alberto resta paralizzato: è la vittima che protesta da anni contro l’impunità del terrorista. Battisti ha organizzato quel delitto, ma non partecipa all’esecuzione perché lo stesso giorno va a fare da copertura, armato, ai complici che sopprimono un negoziante di Mestre, Lino Sabbadin, “giustiziato” come il gioielliere perché si era opposto a precedenti rapine. Il 19 aprile 1979 è Battisti in persona ad uccidere, a Milano, il poliziotto della Digos Andrea Campagna. Nel 2004 Battisti viene arrestato a Parigi. In giugno i giudici francesi concedono l’estradizione: non è un perseguitato. Battisti però è già tornato libero e fugge in Brasile. Dove viene riarrestato nel 2007. Intanto la Corte europea boccia il suo ricorso: il terrorista in Italia ha avuto processi giusti, con ogni mezzo di difesa e avvocati di fiducia. In Brasile, prima la Procura generale e poi la Corte suprema autorizzano la riconsegna all’Italia. Ma nel 2009 il ministro Tarso Genro gli concede asilo politico. E alla fine Lula ferma l’estradizione. Pochi giorni fa, anche alla luce della fine dell'era Lula in Brasile, l'Italia ha consegnato una nuova richiesta di estradizione per Battisti che sembrerebbe aver trovato l'appoggio dell'esecutivo verdeoro. Una evoluzione diplomatica che avrebbe portato il terrorista a fare le valigie in fretta.

Chi è Cesare Battisti, il terrorista condannato a due ergastoli ma "assolto" dalla politica. Giudicato colpevole di aver preso parte a quattro omicidi alla fine degli anni Settanta, ha trovato prima rifugio in Francia e poi in Brasile, scrive il 13 gennaio 2019 "La Repubblica". Condannato dalla giustizia italiana, assolto dalla politica francese prima e brasiliana poi. Almeno fino al 13 dicembre 2018, quando il giudice della Corte Suprema brasiliana Luiz Fuun ne ha ordinato l'arresto "a fini di estradizione". Cesare Battisti, nato nel 1954 a Cisterna di Latina, è stato condannato a due ergastoli in Italia in contumacia – era evaso dal carcere nel 1981 dopo la condanna a 12 anni in primo grado - per quattro omicidi avvenuti alla fine degli anni settanta: due compiuti materialmente e due in concorso con altri. La prima volta viene arrestato a 18 anni a Frascati per una rapina, torna in carcere altre volte, per un sequestro di persona e poi per l'aggressione a un sottoufficiale dell'esercito. Nel carcere di Udine conosce Arrigo Cavallina ed entra a far parte dei Pac, il gruppo eversivo Proletari armati per il comunismo, ritenuto responsabile di rapine a banche e supermercati – rivendicate come espropri proletari – e anche di alcuni omicidi. Battisti è accusato di aver preso parte all'omicidio di Antonio Santoro, maresciallo del carcere di via Spalato e ad altri tre omicidi: quello del gioielliere Pierluigi Torregiani, a Milano, per il quale Battisti è stato condannato come mandante e ideatore, e quello del macellaio Lino Sabbadin a Mestre, per il quale Battisti ha fornito copertura armata. Battisti è accusato di essere anche l'esecutore materiale dell'omicidio di Andrea Campagna, agente della Digos di Milano, ucciso il 19 aprile del 1978. Lui si è sempre dichiarato innocente e negli anni diversi intellettuali si sono schierati a suo favore contro l'estradizione: da Gabriel Garcìa Màrquez, Bernard-Henri Lévy, Daniel Pennac tra gli altri. 

Nel 1981 riesce a evadere dal carcere e a fuggire in Francia dove vive in clandestinità per un anno prima di riuscire a raggiungere il Messico.

Nel 1985, mentre è in Messico dove nasce la sua prima figlia, viene condannato in contumacia all'ergastolo in Italia.  

Nel 1990 torna a Parigi, dove viveva un'ampia comunità di rifugiati italiani protetti dalla cosiddetta dottrina Mitterand, dal nome dell'ex presidente francese, dottrina che garantì agli autori di crimini di ispirazione politica anche efferati di non essere estradati nei Paesi d'origine se il sistema giudiziario di questi ultimi non veniva considerato rispettoso degli standard di libertà fissati da Parigi. In Francia Battisti comincia anche la sua attività di romanziere. Nel 2004 Parigi concede l’estradizione ma Battisti riesce a fuggire. Si trasferisce in Brasile dove ottiene lo status di rifugiato politico nel 2009, una decisione che accende tensioni politiche tra Roma e San Paolo. Nel 2010 l’ex presidente brasiliano, Lula da Silva, decide di non concedere l'estradizione all'Italia. Ma il clima politico nel Paese è cambiato e con l'arresto in Bolivia la sua fuga potrebbe essere arrivata alla fine. (articolo pubblicato il 14 dicembre 2018, aggiornato il 13 gennaio 2019)

SENTIAMO CESARE BATTISTI.

Scordatevi le leggende sul rifugio dorato in Brasile. Cesare Battisti vive con la moglie e la figlia in un modesto bilocale fuori San Paolo perché la vita in città è troppo cara, scrive Angela Nocioni su “Il Garantista”.  Magro, pallido, all’apparenza più giovane dei suoi cinquantanove anni, l’ex militante dei Proletari armati per il comunismo (Pac) – condannato per quattro omicidi avvenuti negli anni Settanta dei quali si è sempre dichiarato innocente – sembra sereno, ma non in pace. Non cerca grane, ma parla con rabbia della tortuosa vicenda dell’estradizione chiesta dall’Italia e negata dal Brasile il 31 dicembre del 2010 per decisione dell’allora presidente Lula da Silva.

«Se il governo italiano avesse mentito meno, probabilmente avrebbe ottenuto la mia estradizione», dice Battisti. «Lula non l’ho mai visto, non ha nessuna simpatia per me. Ma quando dall’Italia sono cominciate ad arrivare notizie contraddittorie e assurde sulla mia vicenda, Lula ha deciso di prendere informazioni per conto suo. A un certo punto nel governo di qua si sono sentiti presi in giro dall’Italia, mica sono scemi i brasiliani».

Battisti giura di non aver ucciso nessuno. Non ha mai visto le quattro persone per il cui omicidio è stato condannato, dice. E di passare per un criminale scampato alla galera grazie a una premurosa gentilezza del governo brasiliano, proprio non gli va. O questo, quanto meno, gli piace raccontare.

Se attraversi la frontiera puoi essere arrestato. Ti pesa non poter uscire dal Brasile?

«Non ci penso neppure ad attraversare la frontiera. Spero di fermarmi qui. L’Italia da almeno quarant’anni non è casa mia. Restava la Francia per me, ma ormai nemmeno quella. Non tornerei più neanche lì. Tornare indietro tanti anni dopo, non funziona. Hai lasciato una realtà che non esiste più, tutto si è modificato. Torni con un’idea del posto che non corrisponde più alla realtà. Ho visto cosa è successo ai rifugiati italiani a Parigi che poi sono tornati in Italia. Nessuno ha resistito. Dopo sei mesi rientravano in Francia di nuovo.»

Dicevi di voler appellarti al presidente Napolitano per tornare in Italia. Non era vero?

«Non era un’invenzione. E’ che Napolitano fa tanto il furbetto. Alla fine, vediamo un po’, volete farmi un processo? E fatemelo! Io ci sto. Sono loro che non ci starebbero mai. Sono stato processato in contumacia, senza avvocati, dovrebbero essere considerati nulli i processi che mi hanno condannato.»

Sei stato processato in contumacia perché eri latitante. E’ stata una tua scelta.

«Ah sì? Dovevo andare in Italia a farmi un ergastolo, o a farmi ammazzare. Certo, come no…»

Ti consideri un perseguitato dalla giustizia?

«No, mi considero una persona che ha fatto quello che doveva fare negli anni Settanta. Con errori o con meriti, questo è un altro discorso. Ma la giustizia con la lettera maiuscola non ha niente a che fare con l’attitudine dello Stato italiano in quegli anni lì. Sono un perseguitato dalla vendetta dello Stato italiano degli anni Settanta.»

Come consideri adesso la tua militanza politica di allora nei Pac?

«La considero un’esperienza positiva. Perché quello era un gruppo che si era formato allontanandosi dallo stalinismo delle Brigate rosse e aveva uno sguardo sulla società molto più ampio rispetto al marxismo leninismo di altri gruppi. A me ha insegnato molto.»

E’ vero che ti sei politicizzato in carcere dopo l’arresto per rapina?

«E’ un’altra stronzata. Vengo da una famiglia comunista, militavo da sempre. I miei genitori erano del Pci, mio fratello era stato eletto nelle liste del Pci. Io ho fatto parte di Lotta continua, poi di Autonomia operaia. Sono finito dentro per una rapina, era un esproprio. Gli espropri non si rivendicavano. Non mi sono politicizzato in carcere, semmai in carcere ho conosciuto persone attraverso le quali sono entrato nei Pac.»

Hai partecipato a qualcuna delle azioni armate in cui sono stati commessi i quattro omicidi per i quali sei stato condannato?

«Non facevo più parte dei Pac quando sono stati commessi quegli omicidi. Sono stato giudicato in Italia e condannato a 12 anni e mezzo per associazione sovversiva e detenzione di armi, dopo che gli omicidi erano già avvenuti. Nessuno mi ha mai interrogato riguardo quegli omicidi. Nello stesso processo in cui io sono stato condannato a 12 anni e mezzo, sono stati condannate alcune persone per quegli omicidi. Il mio nome non è mai stato fatto, neanche dai torturati. Durante l’operazione Torreggiani alcune persone sono state torturate, queste persone hanno parlato sotto tortura e neanche lì il nome di Cesare Battisti è mai venuto fuori. Quando ero in Messico hanno rifatto il processo grazie alle dichiarazioni false di Pietro Mutti. Una delazione premiata, solo che lui ha mentito. E mi hanno condannato all’ergastolo senza prove. Non c’è una prova tecnica contro di me, non c’è un testimone, non c’è niente.»

E le prove documentali?

«Le prove documentali mostrano la mia innocenza. La pistola che avrebbe sparato l’agente della Digos è stata trovata a un altro che avrebbe anche confessato, per esempio. Nessuno mi ha mai accusato, nessuno.»

E perché ti avrebbero coinvolto?

«Quello che ha messo in mezzo me è uno solo, si chiama Pietro Mutti. Scaricando tutto su di me, invece di prendere alcuni ergastoli, ha preso pochi anni di galera, ubbidendo alle indicazioni di un procuratore della repubblica abbastanza famoso che continua a perseguitarmi. E chiudiamola qui perché non c’è bisogno di fare nomi già noti.»

Hai mai sparato?

«Contro persone no.»

E a chi sparavi? Agli uccelletti?

«Agli uccelletti, agli alberi, alle persone mai.»

In nessuna di quelle quattro azioni armate sei stato presente fisicamente?

«Non facevo più parte dell’organizzazione.»

Ma c’eri o no?

«No! Non facevo più parte dei Pac, come facevo ad esserci?»

Se ti fossero garantite delle condizioni di incolumità personale e un processo imparziale, torneresti in Italia?

«Lo rifarei il processo perché non hanno nessuna possibilità di vincerlo. Nessuna. Il problema è che non mi fido dell’Italia, servirebbero degli osservatori internazionali, perché non me l’hanno mai fatto un processo, non sono mai stato interrogato riguardo questi omicidi da un poliziotto, da un giudice. Mai.»

Se non fossi fuggito ti avrebbero interrogato.

«Che Paese è un Paese in cui si fa un processo e si condanna qualcuno senza interrogarlo?»

Cosa è successo con Alberto Torregiani?

«Ma che ne so, avevo una corrispondenza con lui, avevamo una buona relazione, l’ho aiutato anche a scrivere un libro, lui sa benissimo che io non c’entro niente con la morte del padre, ma poi è stato minacciato.»

Da chi?

«L’hanno minacciato di togliergli la pensione e lui ha eseguito gli ordini e si è messo a urlare contro di me. Ha cambiato idea all’improvviso, si è messo a dire che io sono un criminale quando sa benissimo che non c’entro io con la morte di suo padre.»

Non c’è nessuno in Italia di cui ti fidi, qualcuno su cui conti?

«Ho molti amici, associazioni che mi aiutano anche economicamente.»

Francesi o italiane?

«Francesi e italiane, amici, scrittori soprattutto.»

E’ vero che quando ti hanno arrestato a Rio de Janeiro nel marzo del 2007, ti hanno preso seguendo una persona che ti stava portando dei soldi?

«No. Sapevano che ero qui da quando sono arrivato. Mi controllavano continuamente.»

E perché a un certo punto hanno deciso di arrestarti?

«Perché evidentemente era arrivato il momento, conveniva a qualcuno.»

Ti eri accorto di essere seguito?

«Era chiaro, non si sono mai nascosti.»

Allora perché ti nascondevi tu?

«Non mi sono mai nascosto io. Tutti sapevano che ero a Copacabana, come facevo a nascondermi se la polizia mi stava sempre dietro? Ci parlavo con i poliziotti.»

In carcere in Brasile come sei stato trattato?

«Come tutti gli altri. Il periodo in cui sono stato in una cella di un commissariato centrale è stato un inferno perché non c’era posto. Si dormiva a turni. In celle da due stavamo in dieci. Lì sono stato un anno e mezzo. Poi mi hanno trasferito in un carcere normale, è durato molto, ma poi sono uscito.»

Nel governo brasiliano chi ti ha aiutato di più? L’allora ministro della giustizia Tarso Genro?

«A me una mano non l’ha data nessuno. A un certo punto quelli che avevano deciso a priori di estradarmi, si sono resi conto che le cose non stavano come gli avevano raccontato e hanno cominciato ad investigare.»

Parli di Lula?

«Sì, di Lula e di Genro. L’intenzione di Lula e di Genro all’inizio era di estradarmi perché avevano ricevuto informazioni dall’Italia completamente pompate, assurde. Poi si sono accorti che qualcosa non filava. Un esempio: quando si tratta di condannarmi, si usa la legislazione sul terrorismo e mi si tratta come un terrorista. Ma poi quando si tratta di chiedere l’estradizione, mi si tratta come un delinquente comune. Aho’, ma questi mica sono scemi! E hanno fatto quello che dovevano fare, si sono informati autonomamente, ci hanno messo quattro anni, ma l’hanno fatto.»

Perché dici che non ti hanno aiutato? Genro si è molto esposto per te, ti ha anche concesso lo status di rifugiato nel 2009 infilandosi in un guaio, o no?

«Genro all’inizio voleva estradarmi. Quando si è accorto che gli italiani stavano mentendo, ha cambiato posizione. A quel punto ha voluto vederci chiaro, ha chiesto aiuto, ha usato dei consiglieri. Li ha fatti viaggiare, ha fatto fare delle ricerche. Cosa che ha fatto poi anche Lula per conto suo. Se gli italiani al governo fossero stati furbi, se avessero mentito meno, gli sarebbe andata bene probabilmente, non l’hanno avuta vinta perché hanno esagerato.»

Secondo te il governo brasiliano si è indispettito?

«Beh, di certo non ha gradito che gli si raccontasse dall’Italia che negli anni Settanta da noi non c’è stata guerriglia. Ma insomma, stiamo parlando a un capo di Stato di un grande Paese, al suo ministro della giustizia, A gente, tra l’altro, che la lotta armata l’ha fatta. Gli raccontiamo una stronzata del genere?»

Non sarà che invece Lula si è trovato in mano il tuo caso quando ormai il dossier Battisti era diventato già una patata bollente, quando la sfida tra lui e il Tribunale supremo era aperta, e a quel punto gli è toccato tenerti in Brasile?

«Lula è uno statista e da statista si è comportato. Ha messo in moto una serie di persone per capire chi ero io veramente. Ha investigato il periodo in cui stavo in Messico, il periodo in cui stavo in Francia e il periodo in cui stavo in Italia. Ha ricevuto intellettuali e politici, tantissimi, di vari Paesi.»

Compresi gli amici tuoi francesi…

«Compresi i francesi. E poi ha preso la decisione di farmi restare. Quando Genro decise all’inizio di darmi lo status di rifugiato, Lula era già d’accordo sul farmi restare in Brasile. E non gli stavo simpatico. Se avesse potuto mi avrebbe estradato.»

Quindi non ti consideri il regalo che Lula, alla fine del suo secondo mandato, ha fatto all’ala sinistra del suo partito?

Lula non fa regali a nessuno. Lula è una volpe. Accettare la richiesta italiana di estradizione avrebbe potuto essere una decisione per lui sconveniente. Senti, la giustizia italiana sa benissimo che io non c’entro niente con quei quattro omicidi, sa benissimo che è tutta una pagliacciata. Io ho fatto parte di un movimento, rivendico di aver fatto parte di questo movimento. E basta. Se poi vogliamo stare alle regole dei tribunali, ci stiamo. Allora però devono mostrare le prove. Non ce l’hanno le prove. Sono loro che devono dimostrare che sono colpevole, non io che sono innocente. Gli autori di quegli omicidi avevano confessato. La verità sta nei processi. Sta tutto lì scritto. Sono stato condannato con una legge retroattiva, una cosa del genere non esiste neanche in Paraguay.»

A fuggire dalla Francia ti hanno aiutato i servizi?

«Mi sono aiutato da solo. Tra Chirac e il governo italiano il patto era fatto, mi hanno venduto come merce, io l’ho saputo e sono andato via. Cosa dovevo fare? Aspettare che mi venissero a prendere?»

Contrordine compagni: Battisti resta in Brasile (e può fuggire altrove). Il giudice Fux, fautore dell'asilo, congela con un cavillo l'estradizione: si decide il 24. Forse, scrive Paolo Manzo, Domenica 15/10/2017, su "Il Giornale". Rappresenta una boccata d'ossigeno per Cesare Battisti la decisione di Luiz Fux, il giudice della Corte Suprema brasiliana relatore del suo caso, di sospendere ogni azione per estradare, espellere o arrestare nei prossimi giorni il latitante più famoso d'Italia. Almeno un paio le anomalie della decisione di Fux che - è bene ricordarlo - aveva già votato a favore della decisione di Lula di concedere asilo a Battisti l'ultimo giorno del suo secondo mandato, il 31 dicembre del 2010, e deve la sua nomina a giudice della Corte Suprema all'ex guerrigliera Dilma Vana Rousseff. La prima stranezza è che ci si attendeva che Fux decidesse solo dopodomani e, invece, ha fatto gli straordinari sino a tardi un venerdì 13 nel bel mezzo di un ponte festivo (il 12 ottobre il Brasile si ferma per celebrare la sua santa patrona, la Nostra Signora di Aparecida). La seconda anomalia è che, invece di chiudere subito la vicenda, Fux ha trasmesso tutta l'analisi dell'habeas corpus preventivo presentato lo scorso 27 di settembre dai difensori dell'ex terrorista - una misura cautelare che garantisce a chi teme il carcere di assicurarsi comunque la libertà ancor prima dell'arresto - al plenario della Corte Suprema, che si riunirà tra 9 giorni. Non è però affatto detto che il prossimo 24 ottobre la massima istituzione giuridica verde-oro decida qualcosa di definitivo e - come già accaduto tra 2007 e 2011 - gli undici togati verde-oro che compongono il plenario potrebbero andare avanti per mesi e/o anni discutendo di cavilli degni dell'Azzecca-garbugli manzoniano. In teoria la Corte Suprema dovrebbe solo decidere se accogliere o meno la richiesta di habeas corpus preventivo e, su questo, Fux ha sollecitato «tempi brevi». Peccato solo che, nel motivare la sua decisione, abbia altresì machiavellicamente chiarito che «bisogna verificare se esista la possibilità per l'attuale Presidente della Repubblica di annullare una decisione presidenziale anteriore». E proprio qui sta il busillis perché tutto lascia intendere che se l'ultima volta, con Lula alla presidenza, la Giustizia verde-oro che pur aveva concesso l'estradizione si sottomise alla volontà del massimo potere politico, oggi ci si trovi invece di fronte ad una situazione diametralmente opposta. Ovvero con un presidente come Michel Temer che vorrebbe sì estradare Battisti ma che - indebolito dai sondaggi e soprattutto da un paio di inchieste sulla corruzione che lo chiamano direttamente in causa - potrebbe doversi piegare davanti ad una Corte Suprema stavolta contraria tanto a sottomettersi al potere politico di turno quanto all'estradizione dell'ex terrorista. Non a caso ieri il ministro della Giustizia del Brasile, Torquato Jardim, intervistato dal quotidiano Estado de Sao Paulo ha sì ribadito quanto già detto il giorno prima a BBC Brasil - ovvero che «Battisti ha rotto il rapporto di fiducia che aveva per rimanere in Brasile», ma ha tenuto a sottolineare che «la decisione è sub judice» e che «si deve attendere la decisione della Corte Suprema». Al di là delle modalità e dei tempi con cui potere politico e giudiziario brasiliano affronteranno la «patata bollente» Battisti in ballo ci sono anche le relazioni con l'Unione europea che dopo oltre 25 anni di negoziati starebbe finalmente per chiudere l'accordo commerciale con il Mercosur di cui il Brasile è il paese più potente - da ieri l'ex terrorista dorme sicuramente sonni più tranquilli. Con la possibilità, se mai la sua estradizione verrà concessa da Brasilia, di fuggire in un altro paese disposto a dargli rifugio come, ad esempio, la Bolivia o il Venezuela.

"Anarchici irriducibili" Ecco chi sono i fan di Battisti. Gli investigatori: «Gli autori delle scritte a favore del terrorista? Animati dal voler essere sempre contro», scrive Paola Fucilieri, Venerdì 13/10/2017, su "Il Giornale". Per gli investigatori milanesi si tratta di «groppuscoli isolati», animati non da veri e propri ideali quanto dal desiderio di «avere un pretesto» per essere sempre e solo «contro il sistema, lo status quo». Sarebbero comunque e senza dubbio anarchici milanesi, attraverso una serie di scritte apparse sui muri del quartiere di Affori nei giorni scorsi, a inneggiare alla libertà del 62enne Cesare Battisti, il terrorista dal 31 dicembre 2010 formalmente asilante con visto permanente in Brasile e arrestato qualche giorno fa proprio dalle autorità brasiliane ai confini con la Bolivia mentre tentava di fuggire in quel paese. Un fatto, quest'ultimo, che - anche dopo le sue dichiarazioni provocatorie, nelle quali Battisti sostiene di non temere alcunché perché «protetto dall'asilo e da un visto permanente» - ha riportato prepotentemente a galla tutte le polemiche legate alla sua mancata estradizione, richiesta quindi di nuovo e con forza, dai ministeri della Giustizia e degli Esteri attraverso un mandato all'ambasciatore italiano in Brasile. Alle spalle di Battisti quattro omicidi - due commessi da sé, due con altri - oltre a vari reati legati nientemeno che alla lotta armata. Una vita e un bilancio da brividi - senza il beneficio del minimo dubbio - «suggellati» da una condanna a ben quattro ergastoli, sentenza emessa in contumacia e diventata definitiva nel 1993. Eppure, come testimoniano proprio quelle scritte tra via Litta Modignani e via Ippocrate - «Battisti libero», «No all'estradizione», «Assalto al potere», accompagnate da simboli anarchici - c'è ancora chi a Milano, «tifa» per il terrorista, seppure lontanissimo dalle posizioni, ad esempio, degli occupanti del centro sociale «Villa Litta», perché dichiaratosi sempre di area marxista leninista. Una realtà, quella dei suoi «supporter» milanesi, che stride ancora di più se si pensa che, già militante del gruppo «Proletari Armati per il Comunismo», Battisti è accusato di essere il co-autore del delitto di Pierluigi Torreggiani, avvenuto il 16 febbraio 1979 in via Malpighi, in zona Buenos Aires. Un agguato nel quale il figlio del gioielliere, Alberto, allora 15enne, dopo un colpo di pistola alla colonna vertebrale, rimase tetraplegico. E da sempre chiede che il terrorista venga consegnato alla giustizia italiana. Battisti, fuggito prima in Francia, si trova in Brasile dal 2004: qui fu arrestato nel 2007 e l'Italia ne chiese l'estradizione. Nel 2009 la Corte suprema brasiliana aveva autorizzato il provvedimento, ma si trattava di una decisione non vincolante, che lasciava l'ultima parola al capo dello Stato. L'allora presidente brasiliano Lula negò quindi l'estradizione concedendo a Battisti lo status di rifugiato politico. Una decisione che pare non possa essere annullata nemmeno da Miguel Elias Temer, presidente del paese sudamericano dall'agosto dell'anno scorso.

Intervista a Cesare Battisti: “Ho pietà per tutte le vittime del terrorismo, ma io non c’entro: i pm hanno torturato il mio accusatore”, scrive Angela Nocioni il 14 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Parla l’ex militante dei Pac: “Il mio arresto a Curumbà è stato illegale, è stata una trappola”. “Non si può ottenere la mia estradizione senza costringere il Brasile a violare le sue leggi”. No. Non è un fuggitivo di lusso che aspetta in un rifugio tropicale dorato di riuscire a bloccare la sua estradizione. E’ un sessantatreenne in canottiera, controllato a vista dalla Policia federal, barricato in un appartamentino prestatogli fuori San Paolo. E’ circondato dai fantasmi anni Settanta di un militante dei Proletari armati per il comunismo, vecchi poster di Carlo Marx e amici devoti del giro degli esiliati per ragioni politiche in Brasile che, come satelliti amorevoli, ruotano da anni attorno a lui. Che di loro è il più famoso, il più esposto, l’unico sull’orlo di una detenzione con fine pena mai. Cesare Battisti, condannato in Italia all’ergastolo per quattro omicidi dei quali si dice innocente, dichiara che la testimonianza di Pietro Mutti, l’elemento con cui è stato condannato, è una testimonianza falsa “ottenuta con la tortura”. Perché Mutti accusò lui e non un altro? “Perché i procuratori gli ordinarono di denunciare me e non un altro”. Dice di avere pietà per le vittime della lotta armata. “Ho già detto alla stampa brasiliana, più di dieci anni fa, che riconosco la mia responsabilità per aver fatto parte della lotta armata. Mi dispiace, certo che mi dispiace, della sofferenza di tanta gente. L’ho detto. Sembra però che tutto quello che ho detto in Brasile non meriti molta attenzione da parte dei politici italiani”. Sulle vicende di questi giorni: “L’ambasciata italiana voleva che rimanesse segreto l’accordo col Brasile per mettermi di corsa su un aereo per l’Italia. Non volevano darmi la possibilità di difendermi. Doveva essere una estradizione express per impedirmi di difendermi. Il mio arresto a Curumbà è stato illegale, è stata una trappola”. “Non si può ottenere la mia estradizione senza costringere il Brasile a violare le sue leggi. Nel giugno del 2011 il plenum del Tribunale supremo ha approvato per 6 voti contro 3 il decreto di Lula che negava l’estradizione. Solo dopo quel voto io sono uscito di prigione. Si tratta di una decisione dell’esecutivo, giudicata e approvata dal massimo organo giudiziario del Brasile. Estradarmi significherebbe violare un diritto acquisito e violare la decisione presa dal plenum del Tribunale supremo, violare una decisione giudiziaria che prevale su qualsiasi decisione politica”.

Ha detto che teme di essere ucciso in Italia. Per volere o su mandato di chi dovrebbe essere ucciso e perché?

«Sono più di dieci anni che diversi politici, poliziotti, membri dei sindacati delle guardie carcerarie e altri mi fanno arrivare minacce. D’altra parte, se l’ex ministro della difesa Ignazio La Russa ha detto che mi avrebbe voluto torturare personalmente… L’ha detto ai giornalisti. Ma non è nessuna gran notizia. Molti detenuti politici sono morti nelle prigioni italiane. Molti si sono suicidati, sono caduti dalle scale, questo è noto. Le autorità italiane che negano queste morti cercano di nascondere un’informazione già nota. Organizzazioni i diritti umani hanno denunciato per decenni questi strani decessi».

Pietro Mutti è il suo unico accusatore, lei hai sempre detto che Mutti avrebbe dichiarato il falso. Chi non le crede dice: “Ammettiamo pure che Mutti abbia mentito per ottenere dei benefici personali, ma perché ha accusato Cesare Battisti? Perché non un altro?”. Perché l’ha fatto? Si può sapere perché Mutti ce l’avrebbe dovuta avere con lei?

«Mutti era mio amico, ma nessuno può resistere alla tortura compiuta con ferocia. E’ una questione fisica, biologica, non è necessariamente qualcosa che riguarda la morale. Perché denunciò me e non un altro? Perché i procuratori gli ordinarono di denunciare me, non di denunciare un altro! La persona torturata deve obbedire a chi ordina la tortura. Può rimanere il dubbio sul motivo per il quale i procuratori scelsero me. Io ero, di tutto questo gruppo, l’unico che scriveva cose che venivano lette in diversi paesi. Io per molto tempo ho fatto dettagliate denunce riguardo la scomparsa di detenuti politici, le torture e gli abusi. E guardate, dopo quarant’anni la persecuzione continua».

Ha sempre denunciato di essere stato condannato all’ergastolo senza prove. Anzi, “nonostante l’esistenza di prove documentali che mi scagionano e solo attraverso una testimonianza falsa” m’ha detto in passato. Perché allora non chiede la revisione del processo?

«L’Italia ha sempre detto che il mio processo non sarà rivisto».

Il governo italiano dice che vuole la sua estradizione “anche per restituire in parte ciò che è stato tolto alla nostra comunità e ciò che è stato inflitto alle vittime del terrorismo”. Vorrei la sua opinione.

«Beh, dovrei sapere intanto se parlano del terrorismo fatto dai fascisti, la Banca dell’agricoltura, l’Italicus, piazza della Loggia, la stazione di Bologna. Quelle stragi fecero centinaia di vittime. Senza contare gli studenti uccisi, gli operai, le femministe, i militanti di alcuni partiti politici. Se si riferiscono a questo terrorismo, la miglior informazione la potrebbero ottenere dalle forze fasciste e mafiose che sostennero quei governi».

In Italia l’accusano, tra l’altro, di non aver mai pronunciato una parola di pietà per le vittime del terrorismo. Non parlo delle persone morte nei quattro omicidi per i quali è stato condannato, ma delle vittime della lotta armata degli anni Settanta.

«Io ho già detto alla stampa brasiliana, più di dieci anni fa, che riconosco la mia responsabilità per aver fatto parte della lotta armata. Mi dispiace, certo che mi dispiace, della sofferenza di tanta gente. L’ho detto. Sembra però che tutto quello che ho detto in Brasile non meriti molta attenzione da parte dei politici italiani».

Se arriva il via libera del giudice del Tribunale supremo, cosa faranno i suoi avvocati? I reati per i quali è stato condannato sono prescritti in Brasile. Il decreto presidenziale di rifiuto dell’estradizione sarebbe immodificabile per legge dopo cinque anni dalla firma e ne sono passati quasi sette. Lei è padre di un minore, cittadino brasiliano, e non potrebbe per questo per legge essere estradato. Cosa pensa di fare la sua difesa?

«Mio figlio ha quattro anni. I miei avvocati stanno usando tutti gli elementi legali contro l’estradizione, che sono molti. Lo continueranno a fare sempre. Già hanno denunciato che il decreto di Lula non può essere modificato. Sono protetto dallo statuto dello straniero. I miei avvocati denunciano di non aver ricevuto informazioni che avrebbero dovuto ricevere e chiedono d’essere ascoltati».

Cosa farà se verranno a prenderla?

«Confido nella giustizia brasiliana. Il Brasile non ordinerà l’arresto di una persona che è stata liberata da una decisione della giustizia brasiliana. Una nuova detenzione illegale, come quella che m’è toccata finora, penso che sia quasi impossibile. La trappola degli arresti montati, costruiti a tavolino, è diventata pubblica».

Può descrivere cosa è esattamente avvenuto durante il primo controllo di polizia il 4 ottobre, prima che la fermassero una seconda volta nello stesso giorno alla frontiera brasiliana con la Bolivia per poi arrestarla?

«Hanno fermato l’auto in cui viaggiavo due volte. Duecento chilometri prima della frontiera ci ha fermato la Policia Federal Rodoviária. Hanno guardato dentro ogni angolo dell’auto. Sembrava la volessero smontare. E non hanno trovato nulla. Poi ci ha fermato di nuovo, molto prima della frontiera con la Bolivia, un gruppo speciale della polizia federale. Non era polizia di frontiera! Non hanno fermato nessun’altra macchina, solo noi! Ero con due amici. Ci hanno chiesto di mostrare il denaro che avevamo con noi. Ciascuno di noi ha dato il suo, 25 mila reais in tutto. Abbiamo spiegato che volevamo comprare vino, aricoli in cuoio e per la pesca, lì costano meno. A Cananeia, dove vivo, pescatori amici ci avevano chiesto di fare acquisti per loro. Ci hanno portato al commissariato. Un poliziotto ha messo tutti i soldi in una scatola, fotografandola come si fa quando si sequestra una grande quantità di denaro. Diceva che era illegale perché il massimo che ciascuno può portarsi dietro è 10 mila reais (quasi tremila dollari n.d.r.). Tutti e tre gli abbiamo detto che era il denaro di tutti e tre, lui diceva di no. I miei amici hanno protestato, hanno spiegato che loro hanno soldi loro, propri redditi. Li ha zittiti. Poi li ha liberati. Mi ha trattenuto due giorni in cella, ho dormito per terra. Mi hanno accusato di esportazione di valuta e riciclaggio di denaro. Mi ha giudicato un giudice per videoconferenza. Mi ha accusato di violare le leggi sui rifugiati. Io non sono un rifugiato. Dal 2011 sono un residente permanente, un immigrato con documenti regolari di permesso di residenza, documenti che il giudice conosceva perché fanno parte del dossier. Un immigrato può entrare e uscire dal Brasile, deve chiedere il permesso solo se vuol restare fuori più di due anni. Il giudice mi ha strappato in faccia, davanti al monitor della videoconferenza, la richiesta di scarcerazione che gli era arrivata dal mio avvocato e l’ha buttata nella spazzatura. Solo dopo, leggendo i giornali di San Paolo, ho saputo che c’era un aereo della polizia federale pronto là per portarmi dalla cella di Curumbà direttamente a Roma. I soldi sono rimasti a Curumbà».

Cosa ha pensato quando ha saputo che “O Globo” dava per fatto l’accordo tra l’ambasciata d’Italia e il governo brasiliano per cancellare il decreto presidenziale con cui l’ex presidente Lula da Silva il 31 dicembre del 2010 respinse la richiesta della sua estradizione chiesta dall’Italia? Crede sia stata una trappola?

«Fino a che la notizia non è uscita su “O Globo” non si sapeva nulla dell’accordo. Tutto stava avvenendo segretamente, senza informazioni alla stampa, ancora meno agli avvocati. L’Italia voleva impedire la possibilità della mia difesa legale. Nel marzo del 2015, quando mi sequestrarono di fatto ad Embù das Artes, la polizia mi stava portando direttamente in aeroporto. Solo che il mio avvocato arrivò prima. Per questo motivo, questa volta avevano chiesto il silenzio assoluto. La divulgazione del piano poteva pregiudicare la estradizione express. Senza dubbio è stato un piano preparato nel dettaglio».

Ha avuto l’impressione di essere sorvegliato nei giorni precedenti al viaggio? E lungo la strada? Prima che fermassero l’auto in cui stava viaggiando?

«Nei giorni prima del viaggio non ho notato niente. Non ho l’abitudine di vivere pensando tutto il tempo che c’è qualcuno che mi perseguita. Ma quando ci siamo messi in viaggio era molto evidente che ci stavano seguendo. Era una trappola preparata. La polizia non ha fermato nessun’altra auto, non ha controllato a nessun altro i documenti. Vorrei chiarire che non siamo mai arrivati alla frontiera con la Bolivia. Non c’era motivo per fermarci prima del posto di controllo».

La confessione di Cesare Battisti: «sì, quei quattro omicidi sono responsabilità mia». L’ex leader dei Pac è stato sentito dai pm e ha ammesso di aver partecipato ai due omicidi di cui è stato esecutore materiale e agli altri due per i quali è stato riconosciuto mandante. «Non ho parlato prima perché temevo per la mia vita», ha raccontato, scrive Simona Musco il 26 Marzo 2019 su Il Dubbio. «Sì, tutto quello che c’è nelle sentenze è vero. Quei quattro omicidi sono mia responsabilità. È stata una guerra giusta, ma ora chiedo scusa alle vittime». Ci ha messo 37 anni Cesare Battisti per ammettere le proprie responsabilità. E ha deciso di farlo davanti al pm che si occupa dell’indagine sulla sua latitanza, Alberto Nobili, convocato sabato assieme alla dirigente dell’Antiterrorismo della Digos, Cristina Villa, nel carcere di Oristano, su richiesta dell’avvocato Davide Steccanella. Un percorso «sofferto», un confronto «rispettoso», durato nove ore, durante le quali ha ammesso tutto, in una sorta di «rito liberatorio» : i quattro omicidi – due commessi materialmente, due come mandante – le rapine e le gambizzazioni. Gesti compiuti in nome di una guerra «che allora ritenevo giusta», ha dichiarato Battisti. L’ex leader dei Pac, arrestato lo scorso gennaio a Santa Cruz, in Bolivia, già condannato in via definitiva all’ergastolo, ha letto le sentenze che lo riguardavano confermando parola per parola. «È stata una cosa complessa», spiega al Dubbio il suo legale. Che parla di un «percorso di rivalutazione che era partito già 40 anni fa, quando è scappato dall’Italia». Si dice una persona diversa l’ex Proletario armato per il comunismo. A 20 anni credeva in quella «guerra civile e nell’insurrezione armata contro lo Stato» che ha stroncato «il movimento culturale, politico e sociale che è nato nel ’ 68». Gli anni di piombo, ha spiegato, «hanno sepolto la spinta culturale che era nata. Abbiamo stroncato il movimento che avrebbe potuto portare l’Italia a livelli di progresso». Ammissioni che oggi fa perché troppi, in questi anni, hanno parlato al posto suo. «Era arrivato il momento di dire personalmente chi era e cosa aveva fatto», spiega Steccanella. Sabato e domenica, di fronte a Nobili e Villa, ha raccontato di aver agito «convinto, come altri, di fare una cosa giusta e della quale ora comprende il peso e le conseguenze». Così ha ammesso le proprie responsabilità nella morte del maresciallo degli agenti di custodia Antonio Santoro, del gioielliere milanese Pierluigi Torregiani e del macellaio mestrino Lino Sabbadin, e in quella dell’agente della Digos Andrea Campagna. E ha anche ammesso tre ferimenti, di cui uno da lui eseguito materialmente, per i quali l’accusa è stata lesioni gravissime: quello di Giorgio Rossanigo, medico nel carcere di Novara, Diego Fava, medico dell’Alfa Romeo e Antonio Nigro, guardia nel carcere di Verona. «Obiettivi precisi, esponenti delle forze dell’ordine, come gli agenti della polizia penitenziaria che per i Pac avevano perseguitato detenuti politici, e Torreggiani e Savarino, i due commercianti che avevano ucciso dei rapinatori. I Pac li chiamavano i miliziani perché armandosi aiutavano lo Stato a garantire la legalità e andavano puniti», ha spiegato Nobili. «Aveva in mente una rivoluzione – aggiunge il suo legale – ma ha capito che è stata una scelta politicamente sbagliata». Ma non si può chiamarlo pentito, dice Steccanella. Tant’è vero che la stessa procura di Milano preferisce parlare di «dissociazione». «Non accuserò nessuno, ma le sentenze sono vere», ha ammesso. «Era andato via perché riteneva quel periodo esaurito – aggiunge il legale – altri non lo hanno fatto. Allora lui ci credeva, oggi si porta dietro le conseguenze umane, che pesano tantissimo». E ha detto di comprendere le proprie responsabilità e il dolore procurato alle vittime. «Mi rendo conto del male che ho fatto e mi viene da chiedere scusa ai familiari delle vittime. Provo un forte imbarazzo», ha aggiunto. L’ex Pac ha spiegato di non aver goduto di alcuna protezione durante la latitanza, ma solo di solidarietà. «È giusto sfatare queste leggende in cui si parla di servizi deviati o criminalità organizzata – spiega Steccanella – Si è trattata della solidarietà militante da parte di chi lo ha ritenuto un rifugiato politico». Battisti si è avvalso delle sue dichiarazioni di innocenza per avere aiuti da organizzazioni di estrema sinistra sia in Francia, Messico e Brasile, e dello stesso Lula. «Non ha mai vissuto da fuggiasco dov’era – aggiunge – ma alla luce del sole, con documenti. E ha lavorato per mantenersi». Ma se oggi ha parlato, dopo essersi dichiarato innocente per anni, lo scopo non è ottenere benefici, puntualizza il suo legale, bensì «recuperare la giusta dimensione di un racconto per la prima volta fatto in prima persona. Non è quel mostro pronto ad uccidere ancora che è stato descritto. Non è un irriducibile. Non ha più commesso reati al 1979». Non ci sarà un altro ricorso contro l’isolamento diurno per sei mesi, di cui quattro già scontati, «ma non ha senso ritenerlo pericoloso come allora». Una confessione tardiva, certo, dopo aver per anni proclamato la propria innocenza. Ma Battisti ha confessato a Nobili di temere per la propria vita. «Avevo dovuto dissimulare ai miei ex compagni della lotta armata perché avrei messo a rischio la mia vita. Non sono un killer — ha aggiunto— ma una persona che ha creduto in quell’epoca nelle cose che abbiamo fatto. Il mio era un movente ideologico, non avevo un temperamento feroce. A ripensarci oggi, provo una sensazione di disagio, ma all’epoca era così». «Questa ammissione fa giustizia di tante polemiche che ci sono state in questi anni e rende onore alle forze dell’ordine e anche alla magistratura di Milano» ha commentato il Procuratore di Milano, Francesco Greco. E non si è fatto attendere il commento del ministro dell’Interno, Matteo Salvini. «Battisti a distanza di qualche decennio ha chiesto scusa – ha dichiarato Mi aspetto chiedano scusa quegli pseudointellettuali di sinistra che hanno coperto e difeso questo squallido personaggio».

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 26 marzo 2019. Sabato 23 marzo, carcere di Oristano, tre del pomeriggio. Cesare Battisti, jeans e maglietta, senza la barba con cui si camuffava da latitante, si siede davanti al capo del pool antiterrorismo Alberto Nobili e parla. Come non ha mai fatto. «Tutto ciò che c' è scritto nelle sentenze definitive sui Pac corrisponde al vero. Ho commesso quattro omicidi, ho ucciso Santoro e Sabbadin e sono responsabile anche della morte di Torregiani e Campagna. Ho ferito tre persone, ho commesso rapine e furti per autofinanziamento. Mi rendo conto del male che ho fatto e chiedo scusa ai familiari delle vittime». Dopo quasi quarant'anni in fuga e a due mesi dall' arresto in Bolivia, Battisti ammette le sue colpe.Non entra nel merito dei singoli casi, però cerca di spiegare perché lo ha fatto. Non piange, in alcuni momenti tuttavia è molto provato. «È stata una guerra giusta, io allora ci credevo come tanti altri. Adesso non la condivido più e chiedo scusa alle vittime», dice l' ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo. Perché proprio adesso? «Ho avuto una rivisitazione di quegli anni fin dal primo momento. È stato faticoso, ma chiedere scusa mentre stavo in Brasile non avrebbe avuto senso, adesso che sono qui posso farlo». Negli anni 70 credeva che stare dalla parte giusta significasse partecipare alla «guerra civile e insurrezione armata contro lo Stato», una battaglia con obiettivi come Pierluigi Torregiani e Lino Sabbadin, che uccisero due rapinatori: li chiamavano «i miliziani, perché armandosi si schieravano dalla parte dello Stato contro la criminalità, quindi soggetti che andavano puniti», spiega il pm Alberto Nobili, che insieme al capo dell' antiterrorismo della Digos Cristina Villa ha interrogato l' ex Pac. Il quale, oltre ad ammettere le sue colpe, mette a verbale alcune considerazioni storiche sul terrorismo. «Il movimento culturale, politico e sociale che è nato nel '68 è stato stroncato dalla lotta armata. Gli anni di piombo hanno sepolto la spinta culturale. Abbiamo stroncato il movimento che avrebbe potuto portare l'Italia a livelli di progresso», sostiene l' ex estremista rosso che parla cinque lingue, è prossimo all' uscita del suo nuovo giallo in Francia e sta scrivendo un libro sulla rivoluzione spagnola del 500. «Ho avuto la sensazione di assistere a un rito liberatorio, all' inizio aveva difficoltà a parlare, a tornare con la mente a quarant'anni fa. Un po' alla volta è emerso questo effetto liberatorio, ha deciso di fare una scelta di chiarimento, non ha nulla da chiedere in cambio, non ha rinnegato il passato ma oggi si è reso conto che è stato devastante», spiega il pm Nobili. «Ha riconosciuto dopo tanti anni che la magistratura e la polizia hanno agito come diceva Pertini con il codice in mano. La sua è stata una sorta di dissociazione, ha ritenuto di rimediare agli anni di piombo». Insomma, da parte di Battisti non c' è pentimento né collaborazione. «Io parlo esclusivamente delle mie responsabilità, non farò i nomi di nessuno», mette in chiaro davanti agli inquirenti. Quanto alla sua lunga latitanza tra Francia, Messico e Brasile terminata con l'arresto dello scorso 12 gennaio, per sfuggire al mandato di cattura internazionale «non mi sono appoggiato a nessuna copertura obliqua, occulta». Anche se le indagini della Digos, su questo fronte, non sono ancora concluse e gli investigatori stanno ricostruendo la rete di aiuti - amici, familiari, conoscenti - che gli anno fornito soldi, rifugi sicuri e mezzi per scappare. «Nessun mistero - assicura il suo avvocato Davide Steccanella - È la solidarietà dei militanti comunisti in tutto il mondo verso coloro che vengono ritenuti, a torto o a ragione, degli esuli politici. Battisti era uno dei tanti militanti della lotta armata». Il presidente del Brasile Jair Bolsonaro, in ogni caso, è soddisfatto: «Mi sono impegnato a rimandarlo in Italia per pagare i suoi crimini. La nuova posizione del Brasile è un messaggio per il mondo: non saremo più il paradiso dei banditi». Ora l' ex terrorista deve scontare quattro ergastoli e «uno che ha quattro omicidi sulle spalle, per quanto mi riguarda, non esce di galera», avverte il ministro dell' Interno Matteo Salvini. «Rieducazione del carcere non vale per Battisti». Che, a interrogatorio concluso, fa una sola domanda agli inquirenti: «Come sta mio figlio?».

Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 26 marzo 2019. Ha barato per 37 anni, professandosi innocente. E ora, davanti all' eventualità di passare il resto della vita dietro le sbarre, Cesare Battisti ha adottato un' altra strategia. Ha confessato, e ha allontanato così tutti quei pregiudizi e quelle condizioni imposte dalla legge che rendono impossibile la concessione di qualche beneficio. Ammettere di aver commesso delitti e rapine non cambierà la sorte dell' ex terrorista dei Pac: la pena all' ergastolo potrebbe rimanere tale. Ma quello che potrebbe cambiare è la tipologia di ergastolo. Nei suoi confronti è di tipo ostativo, ovvero quello che impedisce ai condannati per mafia e terrorismo di accedere a qualunque vantaggio previsto dall' ordinamento penitenziario. L'articolo 4bis che lo disciplina, prevede che «i permessi premio e l' assegnazione al lavoro esterno possano essere concessi ai detenuti purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l' attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e anche nei casi che l' integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, renda comunque impossibile un' utile collaborazione con la giustizia». Il ragionamento, quindi, sembra chiaro: se tra dieci, dodici anni, Battisti vuole immaginare di ottenere la libertà vigilata e la possibilità di lavorare fuori dal carcere deve mostrare alla giustizia un ravvedimento. E probabilmente è questa la ragione per la quale ha deciso di confessare. Lo ha fatto, ma senza pentimento. Con una sorta di presa di coscienza che aveva già annunciato scendendo dall' aereo che lo ha riportato in Italia: «Non sono più quello di prima, sono un uomo nuovo». Così davanti al capo dell' antiterrorismo di Milano e al pm ha parlato delle sue colpe, ha dato una lettura politica del periodo, degli anni di piombo e delle ripercussione sul 68, ma si è ben guardato dal coinvolgere possibili complici. Quasi un messaggio a chi è fuori. Perché se è vero quanto ha dichiarato il fratello Vincenzo dopo l' arresto: «Se Cesare parlasse farebbe crollare la politica». Insomma, qualunque sia la ragione delle ammissioni, la finalità è di far crollare il muro di diffidenza che lo circonda, dopo anni di fughe e di prese in giro. Per questa ragione ha scelto un avvocato che conosce bene il mestiere, che ha difeso anche Renato Vallanzasca. E il legale, Davide Steccanella, ha tenuto a dire: «Non è stato fatto per i benefici eventuali, la speranza è di restituire un' immagine giusta del mio assistito, che non è quel mostro che può colpire ancora come è stato descritto». L'avvocato punta anche a ottenere che l' ergastolo venga commutato in 30 anni. Ne discuterà nuovamente il 17 maggio davanti ai giudici, quando verrà valutata la possibilità di togliere i sei mesi di isolamento diurno. La difesa ribadirà che l' estradizione dal Brasile prevede anche il rispetto delle condizioni imposte da quel paese. E visto che lì non esiste l' ergastolo, gli accordi vanno rispettati. Con buona probabilità, poi, Steccanella tenterà di ottenere che nel calcolo della pena vengano computati i circa sette anni di carcere già scontati. L'ex terrorista dei Pac si trova rinchiuso nel carcere di Oristano, ma non in regime di 41 bis, perché i reati sono stati commessi tra il 78 e il 79, quando ancora non esisteva il regime di restrizione e l' ergastolo ostativo. E non può essere retroattivo. Tutte le istanze dovranno essere valutate dal tribunale di Sorveglianza. Resta, comunque, un nodo: il risarcimento alle famiglie. Battisti non ha mai pagato neppure economicamente il conto con i parenti delle vittime. Ma ora che ha confessato, cosa accadrà?

Terrorismo, Cesare Battisti ammette quattro omicidi: "Era una guerra, ora chiedo scusa alle famiglie delle vittime". La confessione davanti al pubblico ministero di Milano, Alberto Nobili. Il procuratore Greco: "Questo fa giustizia di tante polemiche", scrive Sandro De Riccardis il 25 marzo 2019 su La Repubblica. Cesare Battisti, per la prima volta, parla coi magistrati e ammette tutto: i quattro omicidi, le gambizzazioni, le rapine. L'ex leader dei Pac, arrestato lo scorso gennaio a Santa Cruz in Bolivia, trasferito in Italia e interrogato ieri e sabato dal pm Alberto Nobili e dalla dirigente dell'Antiterrorismo della Digos, Cristina Villa, nel carcere di Oristano, davanti al suo avvocato Davide Steccanella, ha ammesso tutti gli addebiti, e ha dichiarato di aver partecipato ai due omicidi di cui è stato esecutore materiale e agli altri due per i quali è stato riconosciuto mandante. "Per lui all'epoca era una guerra giusta, adesso si rende conto della follia di quegli anni di piombo". Lo ha spiegato in conferenza stampa Alberto Nobili, il responsabile dell'antiterrorismo milanese che, tra sabato e domenica, ha interrogato Cesare Battisti. Nobili ha precisato che Battisti "non ha voluto collaborare" e "non ha chiamato in causa altre persone" e quindi tecnicamente "non è un pentito". Ha solo ritenuto di "fare chiarezza dando un giudizio critico del suo passato". L'ex terrorista dei Pac ha quindi ammesso di avere avuto un ruolo materiale o come mandante in quattro morti: quella del maresciallo degli agenti di custodia Antonio Santoro, ucciso a Udine il 6 giugno 1978, quella del gioielliere Pierluigi Torregiani e del commerciante Lino Sabbadin, che militava nel Msi, uccisi entrambi da gruppi dei Pac il 16 febbraio 1979, il primo a Milano e il secondo a Mestre; e quella dell'agente della Digos Andrea Campagna, assassinato a Milano il 19 aprile 1978. Battisti si era finora sempre dichiarato innocente. Oggi ha ammesso per la prima volta le proprie responsabilità di fronte ai pm. L'ex terrorista dei Pac ha anche ammesso tre ferimenti, di cui uno da lui eseguito materialmente, per i quali l'accusa è stata lesioni gravissime: ad essere "gambizzati" sono stati Giorgio Rossanigo, medico nel carcere di Novara ritenuto "troppo severo nei confronti dei detenuti politici", Diego Fava, medico dell'Alfa Romeo in quanto "non rilasciava facilmente certificati ai lavoratori politicizzati", e Antonio Nigro, guardia nel carcere di Verona. Sulle sue dichiarazioni è intervenuto il ministro dell'Interno Matteo Salvini: "Battisti a distanza di qualche decennio ha chiesto scusa. Mi aspetto chiedano scusa quegli pseudointellettuali di sinistra che hanno coperto e difeso questo squallido personaggio. Chiedere scusa è meglio tardi che mai". "Questo fa giustizia di tante polemiche che ci sono state in questi anni e rende onore alle forze dell'ordine e alla magistratura che lo ebbe a condannare - commenta il capo della procura di Milano Francesco Greco - una scelta che fa chiarezza su un gruppo che ha agito negli anni più violenti della nostra storia". "Non si parla di collaborazione con la giustizia - spiega il pm Nobili - si tratta di importantissime ammissioni, senza chiamare in causa altri protagonisti di quegli eventi". "La lotta armata ha impedito uno sviluppo culturale, sociale e politico nato nel'68", ha detto ai magistrati. Prima degli interrogatori, durati nove ore in tutto, ha letto tutte le sentenze che lo riguardavano, e ha ammesso che "tutto quello ricostruito dagli atti giudiziari corrisponde al vero". Battisti dice di "aver capito il male che ho fatto alle vittime, chiedo scusa alle loro famiglie". E ha aggiunto: "Non ho avuto alcuna copertura occulta" durante la latitanza. Le ammissioni fatte da Cesare Battisti, che si è dichiarato responsabile dei 4 omicidi per cui è stato condannato, in linea teorica possono incidere sul regime detentivo, ossia allontanano per lui il rischio del '41bis', e sui benefici penitenziari, come i permessi, nel corso della detenzione. E' quanto è stato riferito da fonti qualificate. Ad ogni modo, il suo legale Davide Staccanella ha precisato che ciò che premeva era togliere a Battisti "quell'alone di pericolosità che non ha più".

Battisti dal carcere: "Umiliato all'arrivo in Italia, non sono più quello di 40 anni fa". L'ex terrorista ha parlato con due rappresentanti del Partito Radicale che l'hanno incontrato nell'isolamento di Massama. "È in buone condizioni e lo trattano bene. Parla dei figli e si lamenta di come è stato descritto dalla stampa", scrive il 22 gennaio 2019 La Repubblica. Cesare Battisti racconta la sua visione della storia. Dal carcere di Massama, in provincia di Oristano, dove è rinchiuso in isolamento dal 14 gennaio scorso in seguito al suo arresto in Bolivia, l'ex terrorista rilascia dichiarazioni che scateneranno nuove polemiche. A riferire le dichiarazioni di Battisti sono stati Irene Testa, candidata a Garante delle persone private della libertà personale della Regione Sardegna e membro della presidenza del Partito Radicale, e Maurizio Turco, coordinatore della presidenza del Partito Radicale, che hanno visitato Battisti in carcere. Nello stigmatizzare l'assenza di un garante dei detenuti in Sardegna, ancora non nominato nella seconda consiliatura regionale consecutiva, i Radicali hanno ispezionato il penitenziario di Oristano e alla fine hanno incontrato in cella d'isolamento Battisti: "Lo abbiamo trovato abbastanza bene, tranquillo - dicono Testa e Turco - Ci ha detto che alcuni parenti hanno fatto istanza per venirlo a trovare e ci ha parlato dei suoi tre figli, di cui due in Francia e uno in Brasile". "Ci ha ribadito che gli agenti della polizia penitenziaria di Oristano lo stanno trattando bene - continuano - cosa peraltro confermata da altri detenuti che non hanno denunciato alcuna anomalia, e, entrando più nello specifico, ci ha detto di essere rimasto male per come è stato trattato al suo arrivo in Italia, ci ha spiegato di essersi sentito umiliato e di non riconoscersi nella descrizione fatta della sua persona, perché ci ha detto testualmente di non essere più quella persona che era 40 anni fa, che non ci si può accanire così e non si può scontare una condanna due volte". Battisti, continuano i radicali, ha detto di non voler commentare il video di Bonafede, aggiungendo che in questi giorni, proprio per le tante inesattezze e cattiverie raccontate, ha preferito spegnere la tv e non leggere alcun giornale. In compenso, "ci ha detto che sta scrivendo un libro e che ne ha appena cominciato uno da leggere, "Se questo è un uomo", di Primo Levi". "Non è voluto entrare nel merito delle accuse - concludono - Solo un pensiero a figli, che ovviamente gli mancano moltissimo".

Cesare Battisti confessa quattro omicidi. La confessione potrebbe servire a garantire al terrorista uno “sconto di pena”: dall’ergastolo a 30 anni di reclusione. Così da ottenere benefici, scrive Maurizio Tortorella il 25 marzo 2019 su Panorama. Dopo 37 anni di latitanza Cesare Battisti, il terrorista dei Pac, ha confessato ha ammesso tutte le accuse contro di lui: ha dichiarato di aver partecipato ai due omicidi di cui era stato condannato come esecutore materiale e di aver avuto un ruolo anche negli altri due, per i quali è stato riconosciuto il mandante. Interrogato sabato 23 e domenica 24 marzo nel carcere di Oristano dal procuratore aggiunto di Milano, Alberto Nobili, e dalla dirigente dell'Antiterrorismo della Digos, Cristina Villa, Cesare Battisti avrebbe finalmente riconosciuto le sue responsabilità. Alla presenza del suo avvocato, Davide Steccanella, il terrorista dei Proletari armati per il comunismo avrebbe riconosciuto la sua responsabilità nella morte del maresciallo degli agenti di custodia Antonio Santoro, ucciso a Udine il 6 giugno 1978; in quella del gioielliere milanese Pierluigi Torregiani e del macellaio mestrino Lino Sabbadin, che militava nel Msi, entrambi uccisi il 16 febbraio 1979 da gruppi di fuoco dei Pac; e in quella dell'agente della Digos Andrea Campagna, freddato per strada a Milano il 19 aprile 1978. Battisti si era finora sempre dichiarato innocente. Lo scopo della tardiva confessione è, probabilmente, quello di arrivare a contrattare con l’accusa una riduzione della pena. Per i quattro omicidi, infatti, Battisti è stato condannato all’ergastolo. La sua difesa ha chiesto una riduzione di pena a 30 anni per poter ottenere i benefici di una pena alternativa entro qualche tempo.

Cesare Battisti: «Se avessi parlato prima mi avrebbero ucciso». Pubblicato Giuseppe Guastella lunedì, 25 marzo 2019 su Corriere.it. Due i verbali, una decina di pagine riempite da Cesare Battisti di fronte al capo del pool antiterrorismo della Procura di Milano Alberto Nobili che lo interroga nel carcere di Oristano. «Parlo solo delle mie responsabilità», è la sua premessa. Il primo verbale si apre con l’ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo il quale assicura che si sarebbe dissociato già nel 1981 se quell’anno non fosse evaso dal carcere di Frosinone dandosi latitante. Solo oggi, a quasi 40 anni dai delitti per i quali è stato condannato all’ergastolo, ha la prima «opportunità — dice — di ripercorrere le mie esperienze». E lo fa non perché spera di ottenere benefici penitenziari, ma per una scelta che a quel tempo «avevo dovuto dissimulare ai miei ex compagni della lotta armata perché avrei messo a rischio la mia vita». Comincia da quando aveva 17/18 anni e già si dedicava a furti e rapine intorno a Frosinone. La famiglia era vicina al Pci, lui stesso era stato iscritto alla Fgci prima di passare a Lotta continua e, come una specie di Robin Hood, «diverse volte — dichiara — ho dato per la causa comunista somme di denaro che arrivavano dai furti e dalle rapine». Finì in galera dove avvenne la trasformazione. «Fui influenzato da Nicola Pellecchia (un fondatore dei Nap, morto nel 2013, ndr.) il cui padre divenne il mio avvocato». Era il 1976 quando a 21 anni fu rinchiuso nel carcere di Udine dove incontrò il veronese Arrigo Cavallina che lo fece entrare nei Pac. Il resto è nelle sentenze di condanna all’ergastolo, compresi i nomi dei suoi complici, che lui non fa «per un fatto personale» e perché sarebbe inutile. Quando ripercorre ferimenti e omicidi, la memoria torna vivida. Parla della gambizzazione nel ‘78 della guardia carceraria di Verona Arturo Nigro, perché era convinto che «faceva parte di agenti di custodia picchiatori», o del medico dell’Inail Diego Fava, che all’Alfa Romeo non voleva rilasciare certificati di malattia compiacenti. Quindi gli omicidi. Il maresciallo Santoro delle guardie del carcere di Udine «segnalato dai compagni del Veneto per le torture subite dai detenuti politici. Fui io ad ucciderlo a colpi di arma da fuoco». Le esecuzioni del macellaio Lino Sabbadin, ammazzato a Mestre, e del gioielliere Pierluigi Torregiani, freddato a Milano, la cui colpa fu di essersi difesi uccidendo i rapinatori dei loro negozi. «Chiamavamo costoro i miliziani perché rivendicavano l’uccisione dei rapinatori che, nella nostra ottica erano proletari che volevano riappropriarsi di quello che gli era stato tolto dal capitalismo». Volevano solo ferirli (Battisti partecipò solo al primo omicidio) perché altrimenti ci «saremmo messi sullo stesso piano dei miliziani, quello dei giustizieri». Solo che la persona che doveva sparare a Sabbadin, lo uccise, mentre Torreggiani fu ammazzato perché tentò di reagire. «Non sono un killer, ma — dichiara ancora — una persona che ha creduto in quell’epoca nelle cose che abbiamo fatto. Il mio era un movente ideologico, non avevo un temperamento feroce. A ripensarci oggi, provo una sensazione di disagio, ma all’epoca era così». A Nobili che gli chiede chi l’abbia aiutato nella latitanza, risponde che in Italia nessuno, all’estero sono stati «partiti, intellettuali e mondo editoriale» a dargli «sostegno ideologico e logistico. Lo hanno fatto per ragioni ideologiche e di solidarietà. Non so se queste persone si siano mai chieste se fossi responsabile di ciò per cui sono stato condannato», ma «per molti non si poneva il problema», ma «sono stato anche supportato perché mi dichiaravo innocente, perché in molti paesi non è pensabile una condanna in contumacia e perché davo l’idea di un combattente per la libertà». Quando il pm gli chiede se ha altro da dire, Battisti, risponde: «Chiedo scusa ai familiari delle persone che ho ucciso o alle quali ho fatto del male. La lotta armata è stata disastrosa ed ha stroncato la rivoluzione positiva, sociale e culturale, cominciata nel ‘68. Per me e per gli altri era una guerra giusta, oggi provo disagio a ricostruire momenti che non possono che provocare una mia revisione. Parlare oggi di lotta armata per me è qualcosa privo di senso».

"Li ho presi in giro". Ora gli intellettuali devono chiedere scusa. Battisti sui radical chic che lo hanno difeso: ho mentito perché non mi avrebbero aiutato, scrive Luca Fazzo, Martedì 26/03/2019, su Il Giornale. «E h sì, dottore, io li ho praticamente presi in giro per trent'anni». L'ultimo sberleffo, nell'interrogatorio davanti al pm milanese Alberto Nobili, Cesare Battisti l'ha riservato a loro: agli intellò, gli scrittori di fama, i filosofi raffinati, i politici progressisti e le dame della buona società che per anni ne hanno fatto un'icona delle ingiustizie borghesi. Gente che non aveva letto una riga degli atti processuali a suo carico - quegli atti che ora Battisti riconosce come veri - e che però firmava appelli e manifesti, grondanti indignazione per il raffinato intellettuale perseguitato dall'Italia. «Vede, dottor Nobili, io me la sono sempre cavata - dice Battisti - grazie agli appoggi che ricevevo: in Francia, poi in Messico, poi in Brasile. È stato grazie a loro che sono sopravvissuto». Viene inevitabile ripensare al fervore degli appelli di Bernard-Henri Lévy, il fascinoso maestro dei nouveaux philosophes, alla devozione con cui François Hollande andò alla Santé a rendere omaggio al recluso eccellente; o alla battaglia degna di Emile Zola in cui si spese per intero il giornale simbolo della gauche caviar francese, Le Monde. Salvo poi pentirsi e chiedere scusa ai lettori. «Io, questi aiuti - ha continuato Battisti parlando col pm - li ho ottenuti dicendo che ero innocente e quindi raccontando un sacco di bugie». Bugie che in molti si bevvero fino all'ultima goccia, di qua e di là dalle Alpi. Come dimenticare la passione del vignettista Vauro nell'ergersi a paladino del nuovo Dreyfus? O la passione civile dello scrittore no Tav Erri De Luca nel denunciare la persecuzione giudiziaria di un'intera generazione, «la più incarcerata nella storia d'Italia»? Sarebbe bastato fare un salto in cancelleria, leggere le carte grondanti tragedie, per capire che razza di bestia sanguinaria fosse Battisti. Ma era più comodo prendere per buone le balle del sicario rosso, ingrediente perfetto della dieta a base di pane e indignazione di ogni intellettuale che si rispetti. Di tutti i fessi - tali pare considerarli - che l'hanno protetto in questi anni, Battisti ha fatto un solo nome: Luis Ignacio da Silva ovvero Lula, già presidente brasiliano, attualmente in carcere. Fino a quando Lula restò al suo posto, il Brasile era per l'ex terrorista dei Pac il rifugio più sicuro del mondo. Per spiegare l'asilo concesso al latitante, Lula si spinse fino a sostenere che nelle carceri italiane si pratica abitualmente la tortura: a dirglielo era stato probabilmente sempre lui, Battisti, in una delle tante frottole raccontate e inghiottite senza fatica. Ora, per tutta riconoscenza, il terrorista descrive l'ex presidente carioca come un boccalone pronto a inghiottire l'amo. E lo sberleffo un po' ingrato di Battisti è rivolto, di fatto, all'intero, interminabile elenco di creduloni che nel 2004 firmarono, all'indomani del suo arresto a Parigi, il manifesto pubblico per la sua liberazione. «Protestiamo contro questo scandalo giuridico e umano», tuonarono registi e poeti, docenti universitari e parlamentari. In testa, sul versante francese, c'erano scrittori di vaglia come Daniel Pennac e Gilles Perrault; sulla sponda italiana, loro colleghi anch'essi importanti, come Valerio Evangelisti e Giuseppe Genna. E poi, perso tra tanti altri nomi celebri o ignoti, c'era anche un giovanotto di nome Roberto Saviano, allora un venticinquenne semisconosciuto in cerca di fortuna editoriale. Della ricerca scrupolosa degli atti, dei documenti, delle prove, Saviano avrebbe fatto negli anni successivi la sua bandiera di giornalista. Ma quel giorno firmò a scatola chiusa, forse attirato dai nomi illustri di cui si ritrovava all'improvviso in compagnia. «Chiediamo l'immediata liberazione di Battisti!», tuonò Saviano in coro con gli altri indignati. Cinque anni dopo, ormai divenuto famoso, si vergognò di quella firma, e pregò il sito che ospitava la petizione di cancellarla: «Non so abbastanza di questa vicenda, non mi appartiene questa causa». Ma non negò di averla firmata. Ora Battisti gli manda a dire: «Ho fatto fesso anche te».

Battisti, pentito, sconti l'ergastolo, senza premi. Dopo 40 anni ed una latitanza infinita il terrorista dei Pac confessa gli omicidi alla ricerca di uno sconto di pena. Che non deve esserci, scrive Panorama il 26 marzo 2019. "Chiedo scusa ma eravamo in guerra", ha confessato così Cesare Battisti, il terrorista dei Pac arrestato mesi fa e finalmente estradato in Italia dopo una latitanza in giro per il mondo durata decine di anni (favorita anche da protezioni di noti intellettuali anche nel nostro paese). Anni in cui Battisti ha sempre negato ogni addebito, raccontando a tutto il mondo di essere una vittima di un complotto di Stato. Oggi la svolta. Nessuno può comprendere le ragioni di un pentimento; nessuno può sapere se non il diretto interessato se si tratti di una cosa sincera o dell'ennesima bugia. Purtroppo la sensazione che questa confessione sia frutto di una strategia legale messa in piedi da Battisti per avere sconti di pena e permessi premio è piuttosto forte. Stiamo parlando infatti di un bugiardo incallito, di un uomo che ha ucciso gente innocente, rapinato negozianti "per riprenderci quello che spetta al popolo", che ha riempito la sua latitanza con quel sorriso di sfida verso lo Stato e la giustizia italiana mostrato ad ogni intervista, ad ogni foto, ad ogni telecamera. Aggiungiamo che il "pentito" Battisti nella sua confessione si è ben guardato dal fare i nomi di dei complici, di chi con lui ha ucciso, di chi li proteggeva, di chi lo ha aiutato nella latitanza. Per questo chiediamo alla Giustizia italiana di non cedere, di non fare concessioni, sconti di sorta verso Battisti che deve restare in galera fino alla fine dei suoi giorni come uno dei peggiori detenuti della storia delle nostre patrie galere. L'ultimo pensiero va a chi in questi anni lo ha difeso; intellettuali, scrittori (Saviano firmò il famoso documento pro Battisti poi se ne vergognò e cambiò idea), vignettisti (vero Vauro?), persino Carla Bruni (che ora ritratta). Alla notizia della confessione abbiamo almeno sperato in un loro analogo passo indietro, delle belle scuse con tanto di capo cosparso di cenere (siamo anche in Quaresima...). Invece niente. Silenzio. O addirittura peggio. Qualcuno di questi, intervistato sull'argomento, ha trovato persino il coraggio di giustificarlo: "Erano anni particolari...". Tutto questo non è più "difendere" un terrorista. Questo è esserne complici.

Cesare Battisti, lista-vergogna: Vauro e compagni, "gli pseudointellettuali di sinistra" che lo coccolavano, scrive il 26 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Ora cosa diranno Vauro ed Erri De Luca? Ora che Cesare Battisti, un "assassino puro" come lo ha sempre definito il pm Armando Spataro, ha confessato le sue colpe? Matteo Salvini, festeggiando con moderazione le ammissioni tardive del terrorista rosso autore di 4 omicidi, ha invitato "gli pseudointellettuali di sinistra che hanno coperto e coccolato per anni questo squallido personaggio" a uscire allo scoperto e a chiedere scusa a loro volta ai famigliari delle vittime, ai magistrati italiani, all'Italia stessa e alla sua tragica storia di terrorismo. Nel gruppone degli intellettuali che hanno difeso la teoria di Cesare Battisti vittima di una giustizia politica ci sono giganti come Gabriel Garcia Marquez e Bernard Henry-Levy, infinocchiate dalle favole del terrorista diventato scrittore, abile a costruirsi all'estero l'immagine di martire del proletariato contro il "governo fascista italiano". La follia è che molti italiani, però, erano d'accordo con lui. Nel 2004, ad esempio, c'era chi giurava che "nulla lega Battisti a terrorismi di sorta, se non la capacità di meditare su un passato che per lui si è chiuso tanti anni fa. Trattarlo oggi da criminale è un oltraggio". L'elenco di chi firmò quell'appello è imbarazzante: Giorgio Agamben, Nanni Balestrini, Pino Cacucci, Sandrone Dazieri, Giuseppe Genna, Girolamo De Michele, Loredana Lipperini, Gianfranco Manfredi, Antonio Moresco, Christian Raimo, Tiziano Scarpa, Stefano Tassinari, Lello Voce. Anni dopo, Roberto Saviano ritrattò ma solo parzialmente, proprio come Vauro. Mentre Erri De Luca anche lo scorso gennaio ha parlato di "rapimento e non di estradizione" per il terrorista. 

Armando Spataro sta con Matteo Salvini: "Cesare Battisti? Cosa mi aspetto ora". Sinistra distrutta, scrive il 26 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "Per una volta sono d'accordo con Matteo Salvini". L'ammissione di colpa di Cesare Battisti porta l'ex pm Armando Spataro a usare l'ironia parlando di un "evento storico". L'ex terrorista dei Pac ha ammesso la propria responsabilità per gli omicidi di 4 vittime per cui è stato condannato all'ergastolo (su accusa dello stesso Spataro) nel 1979, e dopo 40 anni si può finalmente passare alla fase 2: chiedere agli intellettuali italiani e francesi di chiedere scusa, a loro volta, per aver coperto le spalle, difeso e giustificato uno squallido assassino, rovesciando infamie e accuse sulla giustizia italiana. "Mi aspetto che ora chiedano scusa anche gli pseudo-intellettuali di sinistra che l'hanno coccolato per anni", ha commentato a caldo il ministro degli Interni Salvini. E Spataro, dalle pagine del Corriere della Sera, gli fa eco: "Non è che arriva adesso Battisti a riconoscercela: la verità era stata già scritta per intero, parola per parola, da tutta una serie di sentenze confermate in Cassazione. Sotto questo profilo la sua scelta non aggiunge e cambia nulla. Se proprio si vuol provare a cercare un significato dal punto di vista storico, allora trovo appunto auspicabile che facciano un minimo di autocritica tutti coloro, a cominciare da certi "intellò" francesi, che accusavano l'Italia di violare le garanzie e la magistratura di fare processi politici, quando invece il nostro Paese ha sconfitto il terrorismo (per usare la celebre espressione di Sandro Pertini) nelle aule dei tribunali e non negli stadi". 

Battisti confessa, e quegli intellettuali  che lo hanno difeso solo per ideologia? Pubblicato da Pierluigi Battista martedì, 26 marzo 2019 su Corriere.it. E ora? E adesso che Cesare Battisti ha ammesso la sua colpevolezza, che ne è degli artefici della campagna innocentista, degli intellettuali firmatari di tonitruanti appelli per denunciare, attraverso la difesa dello stesso Battisti, la deriva liberticida e autoritaria dello Stato italiano? Che ne è della «dottrina Mitterrand» applicata a un terrorista che ora ammette i suoi omicidi ma che in Francia prima e in Brasile poi era stato considerato meritevole del diritto d’asilo e di protezione che si riserva alle vittime di uno Stato ingiusto e persecutorio? Perché nelle campagne a favore di Cesare Battisti era il sottofondo ideologico che sorreggeva la tesi della vittimizzazione e di un carnefice che si faceva passare per agnello sacrificale di uno Stato incapace di rispettare le regole elementari del diritto e dei diritti di un imputato. E non era vero, come dimostra l’ammissione tardiva ma inequivocabile di chi si è macchiato di delitti commessi in nome della rivoluzione e della lotta armata ma che non per questo sono meno odiosi e attuati con una spietatezza sconvolgente. Si era detto, oltralpe e tra gli scrittori e gli intellettuali che si erano bevuti la favola di Cesare Battisti braccato da un’inquisizione ottusa e oppressiva, che lo Stato lo aveva condannato con prove scarse: non era vero. Che erano stati calpestati i diritti della difesa: non era vero. Che lo Stato italiano aveva imboccato la strada dell’imitazione del Cile di Pinochet: non era vero. Che Cesare Battisti, membro di diritto della corporazione angelicata degli scrittori, non poteva essere un assassino: non era vero. Che consegnare Battisti alle autorità italiane significava dare in pasto un innocente a uno Stato assetato di sangue: non era vero. Che la mobilitazione e l’appello degli intellettuali fosse un compito doveroso per difendere i diritti umani conculcato in Italia: non era vero. Non erano vere molte cose propalate dai difensori della causa di Cesare Battisti. E ora? E ora, ci sarà almeno in una parte di loro un sussulto di verità? Non un’autocritica, che è termine odioso, in auge nei Paesi autoritari dove si vuole l’umiliazione di chi sbaglia o di chi si presume abbia sbagliato. Ma appunto un soprassalto di verità, un senso di fastidio per aver divulgato, non sulla base di fatti accertati ma solo per conformismo e pregiudizio ideologico, una storia falsa, deformata, stravolta. Per aver abboccato con puerile accondiscendenza alla menzogna accettata per spirito di gruppo, per una logica tribale dell’appartenenza ideologica, senza nemmeno un briciolo di considerazione per le vittime vere, per i morti ammazzati di una guerra asimmetrica scatenata per fanatismo politico. Cesare Battisti ha chiesto scusa alle vittime del delirio terroristico. Ma i suoi seguaci sapranno almeno riflettere sulle loro parole malate? Ora la storia è stata rimessa sui suoi piedi, non è più capovolta a testa in giù come hanno preteso i firmatari di appelli insolenti e grotteschi smentiti dalle stesse dichiarazioni di Cesare Battisti. E ora, si vergogneranno almeno un po’?

IL SILENZIO DEGLI INNOCENTISTI. S. Dim. per “la Verità” il 26 marzo 2019. Il silenzio degli innocentisti. Quelli che, fino a ieri, giuravano sull' incolpevolezza di Cesare Battisti e che oggi, davanti alle ammissioni dell' assassino dei Proletari armati per il comunismo, tacciono imbarazzati. Come lo scrittore Valerio Evangelisti, animatore della campagna a favore del terrorista sulla rivista online Carmilla che, nel 2004, raccolse 1.500 adesioni. Contattato dal nostro giornale, dopo una vita trascorsa a giurare che Battisti era estraneo ai 4 omicidi per cui è stato condannato all' ergastolo, ci risponde: «Mi dispiace, non rilascio interviste su questo tema». Peccato. Sono almeno trent' anni che l' intelligencija di sinistra battaglia in nome e per conto del killer di Cisterna di Latina, in Italia e all' estero. Al suo fianco si sono schierati «cattivi maestri» come Oreste Scalzone e Franco Piperno, o ex terroristi rifugiati a Parigi come Marina Petrella ed Enrico Porsia, ma soprattutto intellettuali e scrittori. Schiera a cui Battisti, romanziere noir di scadente ispirazione, si fregia di appartenere. Dan Franck e Tahar Ben Jelloun sono stati i primi a sottoscrivere manifesti di solidarietà per lui, in Francia. «Liberate i polsi di Cesare Battisti e lasciate alle loro vite francesi gli italiani che hanno trovato da voi una patria, seconda e migliore», cantava in ode, sulla prima pagina di Le Monde, Erri De Luca. Su Liberation, gli rispondevano Toni Negri (presentato come «filosofo») e Nanni Balestrini soffermandosi sulla necessità del «perdono» per gli anni di piombo e per i suoi protagonisti. E così a seguire Daniel Pennac, il papà di Benjamin Malaussène, di professione capro espiatorio; Serge Quadruppani, Gian Paolo Serino, Massimo Carlotto, Gilles Perrault, il collettivo Wu Ming, Christian Raimo, Lello Voce, Antonio Moresco, Luigi Bernardi, Marco Philopat e il premio Strega Tiziano Scarpa. Tutti convinti, per dirla con Philippe Sollers, che l'«Italia cercasse solo una vendetta». C' è chi non si è limitato alle parole di incoraggiamento. La scrittrice Fred Vargas gli ha pagato gli avvocati e ne ha sostenuto finanziariamente i parenti. Il filosofo Bernard-Henri Levy, che firmò la prefazione al libro del terrorista, Ma cavale (La mia fuga), anni fa riuscì a coinvolgere nella sua arringa a favore dell' assassino comunista il centenario Oscar Neiemeyer, il padre dell' architettura moderna, e altri trecento intellettuali brasiliani affinché il presidente Lula negasse l' estradizione (come poi avvenne). E a paragonare Battisti a Gabriel Garcia Marquez (a sua volta compagno solidale), ai tempi dell' esilio in Messico. Tutti innamorati del ghigno del terrorista dal grilletto facile. Dopo la prima evasione in Francia, lo scrittore Giuseppe Genna si fece affascinare dalla «fuga (che) catapulta l' uomo nella leggenda». Per Battisti si sono mobilitati pure il regista Davide Ferrario, il produttore Marco Muller; i giornalisti Rossana Rossanda, Piero Sansonetti («caso clamoroso con negazione del diritto») e Gianni Minà. Roberto Saviano, appena divenne famoso, ritirò il sostegno alla campagna di Carmilla dichiarando di non aver aderito («La mia firma è finita lì per chissà quali strade del Web e alla fine di chissà quali discussioni di quel periodo», si giustificò). Il vignettista Vauro Senesi racconta di essersi ritrovato arruolato per una firma «per procura» messa da un amico. «Sbagliai a non prendere subito le distanze», spiega oggi alla Verità, «e quindi, per assumermi la responsabilità, decisi di tenere questa testimonianza». Oggi, di fronte alla confessione del killer dei Pac, il disegnatore è laconico: «L' unico commento che mi viene in mente è che è giusto che espii la pena per le azioni che, a questo punto, rivendica di aver commesso». Dai politici che allora si mobilitarono in sua difesa, quasi nessun commento. L' ex deputato di Rifondazione comunista, Giovanni Russo Spena, spiega solo ora al nostro giornale: «Firmai un appello garantista internazionale per chiedere di celebrare un nuovo processo in cui Battisti non fosse contumace». Ma ammette: «Devo dire che la sua figura non mi piace, non fa parte della mia storia».

Dall'articolo di Angela Gennaro per open.online il 26 marzo 2019. (…) Molti sono stati gli intellettuali, anche italiani, che negli anni si sono spesi sostenendo che l'ex terrorista fosse innocente e un perseguitato. Scrittori e artisti di primo piano: Wu Ming, Valerio Evangelisti, Massimo Carlotto, Tiziano Scarpa, Nanni Balestrini, Daniel Pennac, Giuseppe Genna, Vauro, che ha poi chiarito la sua posizione, sbagliata e non del tutto voluta, Pino Cacucci. «Preferiamo non commentare le notizie di oggi», dicono dal collettivo Wu Ming a Open. «I nostri testi sulla questione sono pubblici da dieci anni e non faremmo che ripetere esattamente le stesse cose che abbiamo scritto un tempo». «A questo punto spero che possa rivedere in maniera più costante la sua compagna e i suoi figli e venga tolto da un regime di detenzione speciale»: l'unico ad accettare un confronto è, ancora una volta, lo scrittore e insegnante (e oggi assessore in un municipio romano) Christian Raimo. Tra gli intellettuali che nel 2004 firmarono un appello per la libertà di Cesare Battisti, ha già chiarito la sua posizione al momento dell'arresto di Battisti.

Raimo, come commenta la confessione resa pubblica oggi?

«Sono contento che abbia confessato. Spero che sia una confessione definitiva e non determinata dalle condizioni in cui è avvenuta. Così si restituisce non solo una verità debita ai famigliari delle vittime, ma anche a un pezzo di storia italiana. Su questa pagina la verità giudiziaria è una parte, fondamentale. Ma è parte di un processo di elaborazione di quegli anni che non si può consumare solo nelle aule giudiziarie. Per me Battisti non è un guerriero sconfitto, ma un cittadino italiano che, a suo dire ora, ha commesso degli omicidi. È giusto dica la verità, paghi una sanzione ma anche che abbia la possibilità di riparare. Insomma, che ci sia la possibilità che la giustizia sia riparativa. La verità ripara un pezzo, ma un altro pezzo lo deve riparare l'elaborazione storica».

E come si dovrebbe portare avanti questa elaborazione storica?

«Con il lavoro che facciamo tutti i giorni attraverso i testi storici. Studiando. Su quegli anni c'è stato, per fortuna, negli ultimi tempi un lavoro enorme degli storici. Un lavoro di supplenza all'elaborazione politica. In Sudafrica, dopo l'apartheid, c'è stata una commissione di verità e giustizia che ha cercato di creare un possibile passaggio da un'epoca drammatica a una di comunità condivisa. In Italia c'è il lavoro, enorme, fatto da Il Libro dell'incontro - Vittime e responsabili della lotta armata a confronto. Non per creare una memoria condivisa - sarebbe irrispettoso per le famiglie, i sopravvissuti e per gli stessi responsabili - ma per cercare di trovare una storia lì dove ci sono ancora lacerazioni e buchi. Se noi pensiamo a Battisti semplicemente come un omicida, in realtà ci togliamo la possibilità anche di capire come in una determinata epoca storica ci possano essere stati così tanti omicidi. Faccio il professore di storia e cerco di farlo cercando di dare valore alla complessità. Già chiamare quelli "anni di piombo" ci fa perdere qualcosa: gli anni '70 sono stati anni di tante cose. Di omicidi, violenze terribili ma anche di grandissime riforme sociali e di lotte importantissime. Di emancipazioni e di stragi le cui ferite sono ancora aperte, da quelle di Stato al delitto Moro».

Oggi Francia e Brasile devono chiedere scusa? E gli intellettuali? E gli intellettuali italiani?

«Ma quello che si chiedeva con quell'appello del 2004 non è diverso da quello che è poi accaduto. Quell'appello chiedeva verità e un processo giusto. Che a questa verità si sia arrivati con anni di ritardo e attraverso un percorso giudiziario così complicato è certo una sconfitta. Quell'appello chiedeva anche un'altra cosa: una riflessione sulle misure di repressione poliziesca di quegli anni - leggi speciali e dintorni - affinché la sconfitta del terrorismo non passasse per una riduzione dei responsabili della violenza armata o a pentiti o a reduci. Se devo chiedere scusa, lo faccio. Ma oggi firmerei un altro appello per la richiesta di verità e giustizia di vittime e famiglia».

Non auguro il carcere a nessuno, aveva detto a Open dopo la fine della latitanza di Cesare Battisti.

«A me interessa soprattutto la verità, ma voglio che la sanzione sia giusta e che faccia sì che la vita che resta a Cesare Battisti sia tesa a riparare a quello che ha fatto, non soltanto a soffrire come lui stesso ha inferto sofferenza. Sarebbe uno spreco per tutta la cittadinanza. Se la sua confessione è utile, è utile anche che ci aiuti a capire meglio quella pagina della nostra storia».

«La lotta armata ha impedito lo sviluppo culturale, sociale e politico dell'Italia», ha detto Battisti ai pm.

«Battisti si è improvvisato scrittore. Non si improvvisasse storico. Spero che queste verità riescano a venire fuori anche senza una giustizia vendicativa come si è visto in questo caso. Mi dispiace che Battisti interpreti le lotte collettive a suo uso e consumo. Mi dispiace che si prenda la responsabilità dei suoi atti alle volte in senso personale, alle volte in senso collettivo: gli omicidi sono personali. Mi piacerebbe che le confessioni degli omicidi - che sono personali - non dovessero passare anche, sempre, per un'abiura. Non serve a capire alla verità ma a pensare a uno Stato in guerra: e per fortuna non siamo più in guerra».

Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 26 marzo 2019. Joëlle Losfeld è una editrice francese molto apprezzata. La maison che porta il suo nome fa parte del gruppo Gallimard e ha pubblicato due libri di Cesare Battisti: « Dernières cartouches » (1998), storia di un rapinatore che aderisce alla lotta armata, e « Cargo sentimental » (2003), racconto di un italiano che dopo gli anni di piombo si rifugia a Parigi. Nel 2004 assieme a molti altri intellettuali francesi Losfeld prese le difese di Battisti. Oltre che editrice è - tuttora - sua amica. Al telefono le diamo la notizia della confessione.

Signora Losfeld, ha saputo delle ammissioni di Battisti?

«No, non ne sapevo nulla, me lo dice lei adesso».

In questi anni ha cambiato opinione su di lui?

«No, perché ho letto con attenzione il libro di Fred Vargas La Vérité sur Cesare Battisti e ho saputo dei vizi di forma e della altre cose sconcertanti dei processi contro Cesare».

Ma i processi avevano accertato la verità, lui adesso ha confessato gli omicidi.

«Non sono esperta di diritto, immagino che siano gli avvocati ad avergli consigliato di ritornare sulla sua linea di difesa dopo essersi sempre proclamato innocente, ma non ne so di più».

Sa quanto in Italia si sia parlato del sostegno francese a Battisti. L' opinione prevalente è che da voi sia riuscito a spacciarsi per un nobile combattente della libertà quando invece era un delinquente.

«Ma anche in Francia sapevamo che ha cominciato come delinquente comune, e lui non lo ha mai negato, ha sempre detto di essere entrato in prigione per la prima volta per delitti comuni, ed è in prigione che si è politicizzato. Poi si è rifatto una vita in Francia, non ha mai più commesso delitti, si è conformato alla condotta richiesta dalla dottrina Mitterrand, cioè abbandonare la violenza e vivere tranquillamente».

Avete difeso Battisti che si era sottratto al processo, ma negli anni Settanta l' Italia non ha mai smesso di essere una democrazia, con un sistema giudiziario che tutelava i diritti dell' imputato. La percezione, anche a sinistra, è che Battisti sia riuscito a ingannare l' ambiente intellettuale parigino.

«So bene che Battisti in Italia è detestato, anche dalle persone che stavano dalla sua stessa parte politica, ma dobbiamo ricollocarci al tempo degli anni di piombo, in un contesto politico completamente diverso. C' era una guerra tra l' estrema destra e l' estrema sinistra, sono successe cose gravi, era un altro periodo. Battisti e altri volevano rovesciare una classe politica troppo normativa. Adesso, io non ho vissuto gli anni di piombo, ho conosciuto Cesare Battisti in Francia, l' ho conosciuto come scrittore, mi ha raccontato la sua storia. Non c' era motivo per cui io non credessi alla sua versione. Voglio dire, non sono io che l' ho fatto venire in Francia, c' era un accordo tacito tra i governi italiano e francese. C' è anche il problema dei pentiti, che hanno accusato altre persone in cambio di sconti di pena, una volta che Cesare ha lasciato l' Italia qualcuno gli ha addossato tutte le responsabilità».

Pensa ancora di avere fatto bene a sostenerlo?

«Sì».

Lei sa quanto questo appoggio faccia discutere.

«Lo so, ho amici italiani che mi vogliono bene comunque. Sanno che ho difeso Cesare Battisti perché è un amico. Non faccio analisi politiche riguardo ai miei amici, credo a quel che mi dicono».

Ma adesso che lui riconosce i fatti non si sente tradita?

«Non sono abbastanza informata, non ho ancora parlato al telefono con la figlia e non conosco adesso la sua linea di difesa, forse non può fare altro che confessare. Io sono contraria alla lotta armata, mi sono impegnata a favore di Cesare, per anni e anni, indipendentemente dal fatto di essere una delle sue editrici, perché c' era una parola data dalla Francia e bisognava rispettarla. Lo abbiamo difeso perché la Francia aveva preso un impegno».

La difesa di Battisti davanti al pm: “Non sono un killer, c’era un movente ideologico”. Il terrorista ha risposto così al magistrato di Milano che lo ha interrogato nel carcere di Oristano, scrive il 26 marzo 2019 La Repubblica. “Io non sono un killer" ma un uomo animato da un "movente ideologico". E’ questa la difesa del terrorista Cesare Battisti durante l’interrogatorio reso nel carcere di Oristano, tra sabato e domenica scorsa, davanti al pm di Milano Alberto Nobili. "Voglio precisare che lei mi ha parlato di freddezza - si legge nel documento - che sembrerebbe che io abbia manifestato nei casi in cui ho sparato. In merito, intendo evidenziare che io non sono un killer ma sono stato una persona che ha creduto in quell'epoca nelle cose che abbiamo fatto e quindi la mia determinazione era data da un movente ideologico e non da un temperamento feroce, quando credi in una cosa, sei deciso e determinato. A ripensarci oggi provo una sensazione di disagio ma all'epoca era così". Nell'interrogatorio in cui ammette i quattro omicidi per i quali è stato condannato all'ergastolo, Battisti definisce "pura fantasia" la circostanza che abbia avuto dei rapporti con i servizi segreti francesi. "Escludo di avere mai avuto rapporti logistici o finanziari da soggetti italiani per favorire la mia latitanza - si legge in un verbale - quando ero in Brasile mi fu anche contestato da un giudice che io avrei avuto rapporti con i servizi segreti francesi che mi avrebbero favorito, si tratta di pura fantasia". Battisti afferma di essere evaso dal carcere di Frosinone nel 1981 "grazie all'aiuto di appartenenti a gruppi armati di differente collocazione nel mondo della lotta armata in quanto ritenevano che io avrei potuto incontrare alcuni elementi e portare un messaggio che poi sarebbe stato finalizzato a cessare l'attacco armato nei confronti dello Stato ma a mantenere la disponibilità delle armi per scopi difensivi e ad aiutare compagni ad evadere". "In realtà - spiega nel verbale - io già dentro di me covavo l'idea della dissociazione e non a caso, pochi mesi dopo, circa due, decisi di abbandonare tutto e tutti e di rifugiarmi in Francia". Negli interrogatori resi nel carcere di Oristano, Cesare Battisti ricostruisce uno a uno i quattro omicidi per i quali è stato condannato all'ergastolo. "Il mio primo omicidio è stato quello del maresciallo Santoro, capo delle guardie carcerarie di Udine - racconta al pm Alberto Nobili - l'indicazione di commettere l'azione venne dai compagni del Veneto per le 'torture' commesse nel carcere a carico dei detenuti politici. Partecipai all'azione esplodendo soltanto i colpi di arma da fuoco che causarono la morte del Santoro. Non so indicare per quale motivo esatto venne deciso di ucciderlo, a differenza di quanto fu fatto per l'agente di custodia Nigro, in quanto ero appena giunto nel gruppo armato e l'azione era già stata decisa. Per quello che posso dire - prosegue l'ex terrorista - ho appreso che il Santoro si era comportato in modo più violento di Nigro". "Per quanto riguarda l'omicidio di Andrea Campagna - continua Battisti - cui ho partecipato sparando, l'indicazione è stata data dal collettivo di zona Sud, in quanto era ritenuto uno dei principali responsabili di una retata di compagni del collettivo Barona che erano poi stati torturati in caserma. Lui conosceva bene i soggetti del collettivo Barona in quanto il 'suocero' abitava in quella zona. Per lui fu decisa la morte nel corso di una riunione dei Pac e mi sono reso disponibile all'azione". L'ex leader dei Pac precisa di non essere in grado "di riferire i nomi di coloro dei collettivi del territorio che nei vari casi chiesero il nostro intervento, non per una volontà omertosa, bensì perchè essendo io in quel periodo clandestino non era opportuno che avessi contatti che vivevano pubblicamente il territorio. Non voglio coprire nessuno, voglio solo dire come erano le cose". Il terrorista esclude di avere ricevuto appoggi da italiani durante la sua latitanza. "Tra gli italiani - dice - nessuno mi ha mai aiutato o ha favorito la mia latitanza; io sono stato sostenuto per ragioni ideologiche e di solidarietà e posso anche dire che non so se queste persone si siano mai chieste se io fossi effettivamente responsabile dei reati per cui sono stato condannato". L'ex leader dei Pac sostiene invece di essere stato sostenuto nella latitanza "da partiti, gruppi di intellettuali, soprattutto nel mondo editoriale, come sostegno ideologico e logistico". Così spiega l'appoggio di cui ha goduto per oltre tre decenni: "Sono stato appoggiato per una pluralità di ragioni che vanno sia dal fatto che mi proclamavo innocente, sia dal fatto che in molti Paesi esteri non è concepibile una condanna in contumacia e sia perchè cercavo di dare di me l'idea di un combattente della libertà, come io mi sentivo per i fatti degli anni '70". Sollecitato dal pm, Battisti si sofferma anche sulla "gambizzazione" del medico Diego Fava alla fine degli anni '70. "La prima azione contro persone fisiche cui ho partecipato - ricorda - fu commessa a Milano nei confronti del dottor Fava su segnalazione dei compagni operanti all'interno del collettivo dell'Alfa Romeo per ragioni che in questo momento non ricordo con precisione. Contro il dottor Fava - prosegue - sparammo io e l'altra persona indicata in sentenza. Preciso, affinchè il mio discorso sia più chiaro, che io preferisco non fare nomi, sia per un fatto personale sia perchè sarebbe inutile in quanto relativo a soggetti già identificati e condannati". Battisti afferma di avere sostenuto "la linea" di ferire e non uccidere Pierluigi Torregiani e Lino Sabbadin, i due commercianti che invece poi vennero ammazzati. "Ci tengo in particolare a questa precisazione - afferma Battisti - che non cambia nulla circa la mia posizione perchè per anni sono stato 'massacrato' dalla stampa e dall'opinione pubblica quale principale responsabile della morte di Torreggiani e Sabbadin". "C'erano state discussioni accese sulla morte di Sabbadin e Torregiani ma alla fine era prevalsa la linea che io, insieme ad altri, avevamo sostenuto, ovvero ferire e non uccidere".

ECCO I VERBALI DELL’INTERROGATORIO DI CESARE BATTISTI IN CARCERE. Luca Fazzo per “il Giornale” il 27 marzo 2019. Sa com' è, dottore: volevamo fare la rivoluzione. Alla fine, è questa la sintesi disarmante della confessione di Cesare Battisti, il terrorista dei Pac chiuso nel carcere di Sassari. Due verbali il 23 e il 24 marzo, resi noti ieri dall' agenzia Agi: in cui Battisti bada soprattutto a minimizzare le sue colpe. Quando ammazza, è perché gliel' ha ordinato qualcun altro. Quando ad a ammazzare è qualcuno su suo ordine, spiega che lui voleva solo un ferimento. Ma a risultare indigesta è soprattutto la leggerezza con cui, secondo lo stesso Battisti, si ammazzava in quegli anni: a volte senza neanche sapere perché. «Sono stato fatto evadere dal carcere di Frosinone grazie all' aiuto di alcuni appartenenti a gruppi armati di differente collocazione nel mondo della lotta armata, in quanto ritenevano che io avrei potuto incontrare alcuni elementi e portare un messaggio finalizzato a cessare l'attacco armato nei confronti dello Stato ma mantenere e armi a scopi difensivi ed aiutare altri compagni ad evadere. In realtà io già covavo dentro di me l' idea della dissociazione». «Essendo stato iscritto alla Fgci e poi a Lotta Continua ho dato diverse volte somme di denaro provento di furti e rapine per la causa comunista». «Nel 1974 fui arrestato per una rapina e rinchiuso nel carcere di Latina. Durante la mia carcerazione ebbi modo di individuare concretamente un gruppo già consolidato nell'ambito della lotta armata (...) uscito nel 1976 ero fortemente intenzionato a militare stabilmente in un gruppo armato (..) nel carcere di Udine ho conosciuto Arrigo Cavallina, parlavamo spesso di politica e di lotta armata e concordammo nell' idea che quando fossi uscito mi sarei aggregato al suo gruppo che poi diventerà i Proletari armati per il comunismo». «La prima azione contro persone fisiche cui ho partecipato fu commessa a Milano nei confronti del dottor Fava su segnalazione di compagni operanti all' interno del collettivo dell' Alfa Romeo per ragioni che in questo momento non ricordo con precisione». «Il primo omicidio è quello del maresciallo Santoro, capo delle guardie carcerarie di Udine. L'indicazione di commettere l'azione venne dai compagni del Veneto per le torture commesse nel carcere a carico dei detenuti politici. Partecipai all' azione esplodendo soltanto io i colpi d' arma da fuoco che causarono la morte del Santoro. Non so indicare per quale motivo esatto venne deciso di uccidere il maresciallo». «Sia il Torregiani che il Sabadin erano due commercianti che ai nostri occhi si erano resi responsabili di aver ucciso due rapinatori, noi chiamavamo costoro miliziani" (...) meritavano dal nostro punto di vista una punizione. Nella nostra ottica i rapinatori uccisi erano proletari che cercavano di riappropriarsi di quanto tolto loro dal capitalismo (...) la maggioranza dei Pac, me compreso, aveva deciso di procedere, per ragioni politiche, al solo ferimento, proprio per non metterci al loro stesso livello, quello di giustizieri (..) Tuttavia accadde che il Torregiani reagì sparando e pertanto il volume di fuoco nei suoi confronti fu tale da determinarne la morte. Per quanto riguarda il Sabadin, azione cui partecipai come copertura, anche per lui la maggioranza del nostro gruppo aveva deciso di procedere al solo ferimento. Accadde però che la persona incaricata dell' azione lo uccise». «Lei mi ha parlato di freddezza che sembrerebbe che io abbia manifestato nei casi in cui ho sparato. Io non sono un killer ma una persona che ha creduto in quell' epoca nelle cose che abbiamo fatto e quindi la mia determinazione era data da un movente ideologico e non da un temperamento feroce, quando credi in una cosa sei deciso e determinato. A ripensarci oggi provo una sensazione di disagio». «Io sono stato sostenuto per ragioni ideologiche di solidarietà, non so se queste persone si siano mai chieste se io fossi effettivamente responsabile dei reati per cui sono stato condannato. Io ho sempre professato la mia innocenza e ciascuno è stato libero di interpretare questa mia proclamazione come meglio ha creduto, ma per molti di questi il problema non si poneva, andava semplicemente sostenuta la mia ideologia dell' epoca dei fatti». «Sono andato in Messico in aereo grazie a una colletta tra compagni; in Messico sono stato accolto dal sindacato Situam, sono stato lì otto anni, nei primi tempi mi sono mantenuto grazie alla solidarietà dei compagni (...) in Brasile dal 2004 al 2007 ho vissuto in semi-clandestinità mantenuto grazie al sostegno del Sindacato Universitario Sintusp, ideologicamente schierato a sinistra (...) in Bolivia in mente avevo frequentato un individuo, di cui non ricordo il nome, che io conoscevo come presidente della gioventù di Evo Morales (...) si tratta del soggetto che dalla frontiera Brasile/Bolivia, ovvero da San Matias, mi ha accompagnato sino a Santa Cruz della Síerra. Si è trattato di una condotta di solidarietà nei miei confronti tra il Movimiento Sen terra e il Sintusp che hanno preso contatti con il governo Boliviano». Battisti dice di avere saputo solo dopo che il suo accompagnatore era un malavitoso. «Chiedo scusa ai familiari delle vittime pur non potendo rinnegare che in quell' epoca per me e per tutti gli altri che aderirono alla lotta armata si trattava di una guerra giusta. Parlare oggi di lotta armata per me è qualcosa privo di senso».

Cesare Battisti: «All’estero con l’aiuto di partiti e sindacati. Ho scritto per Playboy». Pubblicato da Giuseppe Guastella mercoledì, 27 marzo 2019 su Corriere.it. Cesare Battisti consegna agli atti solo minini riferimenti per lo più già noti o ininfluenti su chi, organizzazioni o persone, lo ha aiutato in 37 anni di latitanza, ma negli interrogatori dopo l’espulsione in Italia dalla Bolivia descrive come ha guadagnato la fiducia di intellettuali, politici e sindacalisti che hanno voluto vedere in lui un perseguitato politico e non un condannato all’ergastolo per quattro omicidi e altri gravi reati commessi in Italia fino al 1979 quando faceva parte dei Pac. Dopo aver chiesto scusa per il male che ha fatto e «riconosciuto con sofferenza, ma senza infingimenti, la propria responsabilità per i fatti per cui è stato condannato», afferma Davide Steccanella, l’avvocato che lo assiste, l’ex terrorista risponde alle domande del capo del pool antiterrorismo della Procura di Milano, Alberto Nobili. Premette che non fa nomi, anche perché i complici dei suoi delitti sono già tutti nelle sentenze passate in giudicato. Parte dall’evasione dal carcere di Frosinone nell’ottobre 1981: «Decisi — dichiara — di abbandonare tutto e tutti e di rifugiarmi in Francia». Se non fosse evaso, probabilmente si sarebbe dissociato dalla lotta armata. Quando Nobili gli chiede se qualcuno in Italia o all’estero ha favorito la sua latitanza, la prende larga. «Sono stato sostenuto da partiti, gruppi di intellettuali, soprattutto nel mondo editoriale, come sostegno ideologico e logistico, ma nessuno in Italia», dice, aggiungendo di non sapere se costoro si chiedessero se fosse innocente o no. «Ero ritenuto un intellettuale, scrivevo libri, ero insomma una persona ideologicamente motivata», «non più pericolosa», per «questo nessuno mi ha dato più la caccia». «Mi sono mantenuto in Francia — prosegue — grazie alla solidarietà di alcune formazioni, come la Liga Rivolutionaire» fino al 1982 quando, «grazie a una colletta tra compagni, sono andato in aereo in Messico dove sono stato accolto dal sindacato Situam. Sono stato lì 8 anni». Dalla capitale Città del Messico si trasferì a San Miguel de Allende, fondò la rivista Via Libre e aprì il ristorante Corto Maltese producendo «pasta che vendevamo a vari esercizi». Quando il presidente Mitterand garantì a coloro che venivano considerati rifugiati politici di non essere estradati nei Paesi di origine se non commettevano reati, nel 1990 tornò in Francia lavorando alla scrittura di libri e articoli su riviste come Acqua e Playboy, ma sotto pseudonimo, o per mini serie tv su F3 e Antenne 2, guadagnando abbastanza da comprare una casa nella regione di Parigi. Una vita normale, che di colpo nel 2004 deve fare i conti con un nuovo vento politico. Venne arrestato per essere estradato in Italia. «Ci furono molte manifestazioni di piazza a mio favore perché per 14 anni avevo operato a livello sociale e culturale ed ero conosciuto per le mie battaglie contro degrado ed emarginazione», dichiara a Nobili, aggiungendo che quando dopo 19 giorni fu scarcerato decise di fuggire. Raggiunse il Brasile dove visse «in semiclandestinità grazie al sostegno del sindacato universitario Sintusp, ideologicamente schierato a sinistra ma senza connotazioni di violenza». Nuovamente arrestato nel 2007 per essere estradato in Francia, fu scarcerato nel 2011 rimanendo in Brasile grazie alla residenza concessagli dal presidente Lula. «Un giudice mi contestò rapporti con i servizi segreti francesi che mi avrebbero favorito. Si tratta di pura fantasia», ci tiene a dichiarare a verbale. «Ho svolto vari lavori come custode di abitazioni e nell’editoria. Ho pubblicato 4 libri, ho fatto traduzioni». L’aria cambiò di nuovo per Battisti con l’elezione di Bolsonaro nel novembre 2018 vira verso l’estradizione in Italia. «Decisi di scappare in Bolivia dove avevo contatti per la scrittura del libro “Chilometro zero”, che probabilmente verrà intitolato “Verso il sole morente”, un romanzo storico sulla conquista portoghese del Brasile», dice a Nobili. Stavolta l’aiuto arriva dal «movimento Sem Terra e dal Sintusp che presero contatti con il governo boliviano». Non dura: arresto ed espulsione in Italia. Sull’aereo per Roma un poliziotto gli rivela che uno dei personaggi che lo avevano aiutato tra il Brasile e la Bolivia era legato alla criminalità comune: «Mi ha accompagnato fino a Santa Cruz della Sierra» per «solidarietà». Con lui solo un paio di contatti per andare in città a fare la spesa.

Battisti ha confessato. Io no, scrive Piero Sansonetti il 27 Marzo 2019 su Il Dubbio. Si dovrebbero vergognare – sento dire – personaggi come Gabriel Garcia Marquez e Francois Mitterrand. Cioè il più grande scrittore latino americano del novecento e uno dei più autorevoli leader politici europei del dopoguerra (insieme, forse, a De Gaulle, a Brandt, a Moro). Dovrebbero vergognarsi – se capisco bene – perché Cesare Battisti ha confessato quattro omicidi. Glielo chiede il più importante giornale italiano, cioè il Corriere della Sera. Glielo chiedono quasi tutti gli opinionisti di un certo livello. Quale è il motivo della vergogna? Avere sostenuto i propri dubbi sulla completezza e la regolarità dei processi ai terroristi italiani negli anni Settanta e Ottanta, e in particolare dei processi a Cesare Battisti, celebrati in contumacia. Lo dico in un altro modo: dovrebbero vergognarsi di avere preteso la superiorità dello Stato di diritto. Marquez e Mitterrand non sono più tra noi e non possono difendersi. Non credo che avrebbero difficoltà a farlo. Nel mio sedicesimo al quadrato io posso farlo. Cesare Battisti ha confessato. Io no. Sono sommerso da messaggi, da assalti twitter, da intimazioni: “tu lo hai difeso, ora che ha confessato perché non chiedi scusa, perché non ti vergogni?”. Ieri sera mi ha telefonato anche Cruciani, della trasmissione radio “la Zanzara”, e mi ha processato più o meno come se io fossi un fiancheggiatore delle Brigate Rosse o dei Pac. Cruciani però me lo aspettavo. Ha sempre sostenuto la sua certezza sulla colpevolezza di Battisti e ne ha fatto un cavallo di battaglia. Non si è mai impancato a garantista. Mi hanno colpito di più gli anatemi di intellettuali liberali di primissimo ordine, come Pigi Battista e Carlo Nordio. Battista, appunto, è quello che ha preteso la vergogna, Nordio, che è un giurista preparatissimo, ha preteso le scuse. Preparatissimo, sicuramente, ma alle volte, forse, un po’ troppo passionale. Vorrei intanto spiegare quale è stata la mia posizione, e quella di quasi tutta la minuscola minoranza di persone che in questi anni non si è arruolata all’esercito degli accusatori. Non ho mai sostenuto l’innocenza o la colpevolezza di Cesare Battisti, non avrei potuto farlo sulla base delle mie conoscenze: ho solo fatto osservare che per condannare una persona occorrono le prove, e che queste prove devono essere esibite al processo, devono essere al di là di ogni ragionevole dubbio e devono riguardare la responsabilità della singola persona nel singolo crimine. E ho sostenuto la tesi, non particolarmente spericolata, che negli anni Settanta – e soprattutto negli anni Ottanta – i processi ai terroristi erano un po’ grossolani e spesso si basavano esclusivamente sulla testimonianza e sulle accuse dei pentiti. Così andò anche il processo a Battisti, e io penso che questo fu un errore e che le condanne furono assai discutibili. La stessa cosa pensarono – non solo su Battisti, ma su molti fuggiaschi italiani, di sinistra e di destra – le autorità di diversi paesi stranieri, che non si fidavano dei nostri tribunali e dei modi nei quali da noi si svolgevano i processi. E per questa ragione rifiutarono, e in parte ancora rifiutano, l’estradizione. Io credo che tra la metà degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta la politica italiana commise un errore drammatico. Spaventata dal montare del terrorismo ( e su un altro versante della mafia) delegò alla magistratura il compito di vincere la guerra. Dicendo alla magistratura proprio così: “Siamo in guerra, radete al suolo”. E consentendole di usare i mezzi giustificati dai fini, ma non dal diritto. Da allora la politica non è più riuscita a riprendersi lo scettro. Ha pagato un prezzo esorbitante in termini di autonomia. Battisti – ho letto – nella sua dichiarazione ha detto che lui era in guerra. Già, lo sapevo. Io però non ero in guerra. Io all’epoca ero giovane, ma ero un militante del Pci, un giornalista dell’Unità e la mia battaglia contro il terrorismo l’ho combattuta fino in fondo, in modo rigorosissimo, anche prendendo i rischi che qualunque giornalista serio, in quegli anni, prendeva ( oggi sento intimazioni di resa da molte persone che allora non erano schierati dalla stessa parte); e tuttavia, anche in polemica con molti esponenti del mio partito e del mio schieramento, credevo che la lotta andasse condotta, da noi, solo all’interno dello stato di diritto. Che questo fosse essenziale. Pensavo che si ci fossimo fatti trascinare in guerra dal partito della lotta armata, in quello stesso momento avremmo perso. Lo feci allora, lo faccio ancora oggi. Non capisco l’obiezione che mi fanno: “in questo modo oltraggi le vittime”. Non ci penso nemmeno a oltraggiare le vittime, per le quali ho sempre avuto ( e, quando mi è capitato, ho dimostrato) un grande rispetto e anche affetto. Chiedere garanzie per gli imputati – provo a spiegarlo spesso, con scarsa fortuna – non vuol dire offendere le vittime. La gravità o l’odiosità di un reato non prevede la riduzione delle garanzie e dei diritti, casomai ne prevede l’innalzamento. Se ti condanno senza prove per divieto di sosta, poco male, se ti condanno per strage è diverso. Ancora ieri molti mi hanno detto: “Ma ora ha confessato. Non è questa una prova? E non è la prova che il processo era giusto?”. No. E non perché posso avere anche dei dubbi sulla confessione di una persona detenuta, in isolamento, e con la prospettiva di restare in isolamento tutta la vita ( posso prendere in considerazione la confessione solo se su questa base si svolgesse un nuovo processo). Ma per un’altra ragione: le prove devono venire prima della condanna, non dopo. Non mi sembra un concetto troppo astruso. Eppure pare di sì. Se oggi, per assurdo, saltassero fuori le prove che il capitano Alfred Dreyfus effettivamente passò i segreti militari ai tedeschi, durante la guerra franco- prussiana, questo non toglierebbe nulla alla follia del processo che subì. Perché quel processo fu assolutamente irregolare. E il j’accusedi Zola resterebbe un monumento al Diritto e un pilastro della modernità. So che è molto difficile spiegare la differenza tra Stato di Diritto e giustizia universale, o tra Stato di Diritto e verità suprema. Però vi assicuro che esiste questa differenza, e ciò che garantisce il crescere della civiltà non è la giustizia universale e unica, né la verità suprema: è lo Stato di Diritto.

Così l'intellighenzia rossa ha coperto 50 anni di bugie. Sostenitori delle Br e firmatari contro Calabresi: in nome della superiorità morale hanno giustificato ogni errore, scrive Alessandro Gnocchi, Mercoledì 27/03/2019 su Il Giornale. Un po' di aritmetica. Prendiamo i sostenitori di Cesare Battisti e sommiamoli ai firmatari della lettera aperta contro il commissario Luigi Calabresi. Il risultato è: cinquant'anni di cultura di sinistra forte di verità ideologiche che si sono sempre rivelate menzogne. Cinquant'anni di conformismo così soffocante da far precipitare la cultura italiana nell'irrilevanza. Battisti ammazza quattro persone? Per gli intellettuali è un complotto della magistratura contro il «grande scrittore» di noir prestato alla lotta armata e alle rapine. Per decenni dunque sono piovuti appelli e dichiarazioni in favore della primula rossa firmati, tra gli altri, da Erri De Luca, Tiziano Scarpa, Christian Raimo, Valerio Evangelisti, Wu Ming, Fred Vargas e molti altri. Battisti ora confessa di essere un assassino? Gli intellettuali spariscono. I pochi che almeno ci mettono la faccia dicono le seguenti cose. Evangelisti, intervistato da Repubblica, si nasconde dietro a un dito: mai detto questo, mai detto quello, i metodi dei magistrati restando discutibili, era una guerra, adesso basta. Joëlle Losfedl, l'editrice francese di Battisti, non crede alla confessione e dichiara al Corriere della sera: «Qualcuno gli ha addossato tutte le responsabilità». Raimo avrebbe fatto «come in Sudafrica per l'Apartheid: una grande amnistia» per porre fine a una «guerra civile». Le cose sono sempre andate in questo modo. Memorabile purtroppo la mobilitazione del 1971 contro il commissario Luigi Calabresi, accusato di aver buttato l'anarchico Pinelli dalla finestra della questura di Milano. Un falso. Invece è vero che tutti i firmatari della lettera aperta all'Espresso sono considerati maestri non solo nel proprio campo. Qualche nome? Norberto Bobbio, Federico Fellini, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Vito Laterza, Giulio Einaudi, Inge Feltrinelli, Gae Aulenti, Alberto Moravia, Toni Negri, Margherita Hack, Dario Fo, Giorgio Bocca, Furio Colombo e mi fermo qui ma le firme sono 757. L'appello isolò Calabresi che fu ucciso da Lotta continua, una fucina di talenti da Adriano Sofri (condannato come mandante) al citato Erri De Luca passando per Gad Lerner. Qualcuno poi chiese scusa. Ad esempio, Eugenio Scalfari ammise l'errore. Con calma, nel 2007. E le Brigate Rosse? A lungo si è sostenuto che non avessero alcun rapporto con la sinistra istituzionale. Fino a quando non venne fuori che appartenevano all'album di quella famiglia. E Mao Tse Tung? Un rivoluzionario da cui imparare. Salvo scoprire che era un omicida. E l'Unione sovietica? Il caso Kravcenko (1948) e ancora prima i libri di altri dissidenti avevano dimostrato che l'Urss era una prigione a cielo aperto. Poi vennero Budapest, Praga, Solzenicyn, Arcipelago Gulag e il Muro di Berlino, il crollo dell'impero sovietico. Niente, gli intellettuali ancora sventolavano bandiere rosse, solo un po' stinte, e stavano lì a distinguere tra socialismo e socialismo reale. Gli intellettuali comunisti e post-comunisti hanno sempre ritenuto di essere interpreti autorizzati della Storia e di essere moralmente superiori al resto d'Italia. Il popolo, secondo loro, è sempre attratto dal «fascismo eterno» teorizzato da Umberto Eco. Scrittori e artisti si battevano per valori come l'uguaglianza (la libertà è sempre stata di destra) e si battono per l'accoglienza. Il socialismo è diventato umanitario. La prossima rivoluzione sarà in nome della bontà e delle porte spalancate all'immigrazione. Sergio Ricossa ha scritto nel 1980: «È un errore credere per ragioni umanitarie ad un socialismo che di umanitario ha più nulla» (Straborghese). Ma Ricossa era libertario quindi i nostri intellettuali ne conoscono a stento il nome.

Silenzi e assoluzioni a oltranza: i suoi fan amici non si pentono. Le parole di chi lo difende. Vauro: no a condanne senza appello, scrive Gian Maria De Francesco, Mercoledì 27/03/2019 su Il Giornale.  «Gli appoggi di cui ho goduto sono stati il più delle volte di carattere politico rafforzati dal fatto che io ero ritenuto un intellettuale, scrivevo libri; era anche una precisa garanzia che ero ormai una persona non più da ritenersi pericolosa». Nel verbale di interrogatorio il terrorista Cesare Battisti ha fornito un'analisi molto più lucida di quella fornita dai suoi sostenitori, «spiazzati» dalla confessione dei quattro omicidi compiuti tra il 1978 e il 1979. A partire dalla sua editrice francese, Joëlle Losfeld che al Corriere della Sera ha confermato il proprio appoggio all'ex componente dei Pac. «Sanno che ho difeso Cesare Battisti perché è un amico. Non faccio analisi politiche riguardo ai miei amici, credo a quel che mi dicono», ha dichiarato aggiungendo che «non c'era motivo per cui non credessi alla sua versione, una volta che ha lasciato l'Italia qualcuno gli ha addossato tutte le responsabilità». Infine, una minima presa di distanza: il sostegno è stato anche una forma di patriottismo. «Lo abbiamo difeso perché la Francia aveva preso un impegno». Anche i firmatari dell'appello del 2004 contro la sua estradizione dalla Francia (evitata grazie alla fuga in Brasile) non hanno mostrato segni di resipiscenze. Lo scrittore Valerio Evangelisti a Repubblica «quarant'anni dopo non ha senso accanirsi su una persona» e che «i metodi seguiti nei processi di quegli anni erano discutibili». La stessa spiegazione è stata fornita dal collettivo Wu Ming che, pur non commentando, ha ribadito sia la propria contrarietà alla legislazione antiterrorismo che l'auspicio di un'amnistia. Stesso discorso per il vignettista Vauro che, però, qualche mese fa aveva parzialmente ridiscusso la propria adesione. «Potrebbe trattarsi di una strategia per ottenere sconti di pena ma nessuno può affermarlo senza la minima incertezza», ha sostenuto precisando che «non è il caso di fare condanne morali senza appello; quello che posso dire è che 15 anni fa, quando fu promosso quell'appello, certi comportamenti discutibili di Battisti non si erano manifestati». Ancor più radicale lo scrittore Christian Raimo. «Sono perplesso sul modo in cui questa confessione arriva: dopo mesi di isolamento, di carcere disumano», ha dichiarato interrogandosi se si tratti di una confessione credibile o dell' «unica possibilità che aveva Battisti per sperare di rivedere la sua compagna e i suoi figli e avere qualche anno di libertà». Anche Raimo ha rinnovato l'appello a «una riflessione e un intervento politico sugli anni Settanta che non riduca la verità storica a una verità giudiziaria spesso vendicativa, che non costringesse i responsabili della violenza armata a dichiararsi pentiti o reduci per avere una qualche possibilità di non finire all'ergastolo». Il retropensiero è che lo Stato per questi intellettuali continui a rappresentare una sorta di potere nemico. Forse questa tesi sovversiva viene sostenuta anche per non sconfessare la scelta di appoggiare quello che s'è rivelato un criminale comune. Forse sarebbe stato meglio un imbarazzato silenzio come quello nel quale si sono rinchiusi i francesi Bernard-Henri Levy e Fred Vargas.

Quegli intellettuali dalla parte dei terroristi, scrive Nicola Porro il 27 marzo 2019. Ricevo queste condivisibili e intelligenti osservazioni da Edoardo Loewenthal, classe 1962. È un imprenditore di successo nel settore Internet. Interessato alla politica nazionale ed internazionale ed allergico alle fake news. Meglio di mille articoli di giornale di questi giorni ci spiega la follia comunicativa che da anni riguarda il terrorista Battisti e gli attacchi che Israele da decenni riceve. «Non riesco a togliermi dalla testa quest’idea che la vicenda di Battisti assomigli in qualche modo a quella di Israele. Provo a spiegare perché. Vediamo i fatti: Battisti, condannato con sentenze passato in giudicato per 4 omicidi (2 commessi materialmente e 2 in concorso), evade nel 1981 e trova rifugio in Francia. Dopo qualche anno di peregrinazioni da latitante torna in Francia. Qui viene arrestato ma riesce a beneficiare della cosiddetta “dottrina Mitterand”: non vengono estradati latitanti se si ritiene che si tratti di ricercati “per atti di natura violenta ma d’ispirazione politica”. Peraltro in questi (quasi) quarant’anni Battisti si è sempre dichiarato innocente, completamente estraneo ai fatti per cui è stato condannato, dichiarando di essere perseguitato dallo stato italiano per motivi politici. Fin qui abbiamo un assassino in fuga che si proclama innocente e beneficia (indebitamente) di uno sorta di status di rifugiato politico. Ma la cosa insolita è il fatto che si sia creato, negli anni, un movimento d’opinione, transfrontaliero, che si è “bevuto” la sua versione dei fatti (quindi un intellettuale perseguitato per le sue idee politiche, vittima di processi “farsa” e quindi condannato ingiustamente). E da Fred Vargas a Erri de Luca, da Daniel Pennac a Bernard Henry Levy, tutti quanti a sostenere pubblicamente Battisti denunciando le ingiustizie da lui subite. E la lista è lunga. Nel 2004 è stato pubblicato in Francia il “Manifesto per liberare Battisti”, firmato da decine di intellettuali, nel quale si evocava chiaramente una congiura contro il povero Battisti, ordita da chi aveva l’interesse a tacitarlo per sempre. Come è finita lo sappiamo: Battisti, finalmente estradato e rinchiuso in un carcere italiano, davanti al PM ha ieri ammesso gli omicidi per cui è stato condannato riconoscendo che le ricostruzioni fatte nei processi erano veritiere. Rapine, furti, ferimenti, omicidi. Uno squallido e crudele criminale comune che ha distrutto la vita di molte famiglie. E le decine di intellettuali e politici che lo hanno difeso in questi anni urlando ai quattro venti la sua innocenza? Tacciono. Ora cosa c’entra tutto ciò con Israele? Ecco sulla questione palestinese si è creato, a livello mondiale, un movimento d’opinione, che si estende dalle stanze della politica di molti paesi alle redazioni dei giornali ed arriva anche all’interno delle commissioni dell’Onu, che dipinge un quadro a tinte fosche. Ovvero: Israele è uno stato che occupa territori abusivamente, nel quale vige l’apartheid, che assedia affamando la povera gente nella striscia di Gaza, uccide civili inermi, imprigiona gli oppositori politici. Una ragazzina palestinese fanatica che si diverte a schiaffeggiare i soldati è diventata un’icona mondiale della lotta per la libertà. Quello che accomuna questi temi alla questione di Battisti è molto semplice. La creazione di movimenti d’opinione che nascono, crescono, si diffondono a macchia d’olio con la totale mancanza di fact-checking. Cioè credendo, aprioristicamente, a quanto viene sbandierato senza il minimo spirito critico o volontà di approfondire. Gli intellettuali che supportano il movimento BDS (Boycott Israel) sono mai stati in Israele? Lo sanno che più del 20% della popolazione è araba, e che vive perfettamente in pace con il resto della nazione? (Anzi, per dirla tutta, Israele è l’unico paese in medio oriente dove una donna araba si può laureare in medicina). Lo sanno che la striscia di Gaza è governata da una organizzazione terroristica – Hamas – e che Israele deve difendersi dai continui – quotidiani – attacchi che da lì partono a colpire civili inermi? Si sono chiesti perché, oltre ad Israele, anche l’Egitto ha chiuso le frontiere? Cosa direbbero, se, ad esempio, da San Marino, ogni giorno partissero dei missili che si abbattono su Rimini uccidendo famiglie, sosterrebbero il mantenimento delle frontiere aperte in modo da far transitare dall’Italia armi per raggiungere San Marino ed uccidere civili italiani? Lo sanno, gli oppositori di Israele, che l’Autorità Palestinese ha ammesso di stanziare ogni anno centinaia di milioni di dollari per pagare le famiglie dei terroristi attentatori suicidi, secondo lo schema “più ammazzi più ti paghiamo”? E sanno che a Gaza l’11 settembre di ogni anno la gente scende in piazza per festeggiare l’attentato alle torri gemelle? Eppure il “bias” di chi ci dovrebbe informare (la libera stampa) è spesso di parte. Un esempio? Il 15 marzo, dalla striscia di Gaza, vengono lanciati due missili su Israele. L’esercito risponde, cercando di colpire le basi militari che hanno effettuato l’attacco. Qual è il titolo che compare sul sito dell’Ansa? “Israele lancia raid aerei su Gaza” La diffusione di informazioni distorte, la presa di posizione di tanti influenti – ma disinformati – personaggi, la mancanza di una banalissima verifica dei fatti da parte di chi esprime un giudizio, la formazione di movimenti di opinione volti a dipingere, aprioristicamente, una parte come vittima e l’altra come carnefice senza neanche provare a fare un minimo fact-checking, ecco, sono tutti elementi che, a mio avviso, accomunano la storia di Battisti con la questione israelo-palestinese. Edoardo Loewenthal, 27 marzo 2019»

DALLE FOIBE A GLADIO. ECCO COME NACQUE L'ANTICOMUNISMO IN ITALIA. Scrive Saverio Paletta il 10 febbraio 2018 su “L’indygesto.it". Parla Giacomo Pacini, storico delle organizzazioni paramilitari segrete. Nazionalisti? «Sicuramente, ma, non sembri un paradosso, erano per certi versi più nazionalisti gli jugoslavi, partigiani prima e militari subito dopo, a cui si contrapponevano». Possiamo definirli patrioti? «Certamente. Perché nella brigata partigiana Osoppo, c’era di tutto: cattolici (la maggioranza) giellini, repubblicani, laici. E avevano in comune due dati: la provenienza dall’Esercito, quindi una certa preparazione militare, e l’antifascismo». Parla Giacomo Pacini. Toscano doc, storico e saggista, Pacini è uno studioso esperto di servizi segreti e organizzazioni paramilitari, a cui ha dedicato alcuni importanti volumi, tra cui Le organizzazioni paramilitari nell’Italia repubblicana (Prospettiva Editori, Roma 2008) e Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia. 1943-1991 (Einaudi, Torino 2014). L’argomento della conversazione che segue è la nascita di Gladio, il più importante (e l’unico davvero conosciuto) organismo Stay Behind in Italia. Una nascita avvenuta nel cuore della Resistenza nel momento più tragico della fine della Seconda guerra mondiale: l’invasione jugoslava dei confini orientali, col contorno di stragi di civili che ne conseguì. Al punto che oggi, dopo anni di rimozioni, c’è chi parla di pulizia etnica a danno degli italiani. Gladio, com’è noto anche grazie alle ricerche di Pacini, nacque dalla brigata Osoppo. Poi, come conseguenza della politica jugoslava, soprattutto della sua influenza sul Pci (e quindi sulla brigata comunista Garibaldi), iniziò a diventare altro. Cioè una struttura segreta armata, anche a causa delle violenze subite dagli italiani.

È corretto parlare di pulizia etnica?

«Io non mi impegnerei a dare una risposta a un tema storiografico ancora troppo dibattuto. Tuttavia si può affermare una cosa: la resistenza jugoslava rispetto alla resistenza comunista italiana era più incline a saldare l’aspetto etnico nazionale con quello marxista rivoluzionario. In parole povere, di sicuro gli jugoslavi erano più nazionalisti dei comunisti italiani e perseguivano una politica annessionista».

Quindi l’antifascismo funzionò anche da copertura per operazioni di pulizia etnica?

«Sì, ma nella misura in cui è legittimo parlare di pulizia etnica alla luce dei risultati della storiografia recente. I partigiani titini colpirono molti italiani che non erano stati fascisti né avevano avuto particolari legami politici. Ma l’aspetto ideologico dell’antifascismo, che fu un collante tra la resistenza slava e parte di quella italiana, ebbe un suo peso autonomo. A ciò si deve aggiungere anche il ruolo forte di Mosca, che fino a un certo punto, cioè fino alla rottura tra Stalin e Tito, teneva le redini del discorso. L’analisi da fare è più complessa. Al netto di tutto, resta comunque un dato incontrovertibile: per gli jugoslavi la resistenza e la lotta antifascista furono anche occasioni per risolvere a loro favore frizioni etniche plurisecolari».

Non solo nei confronti degli italiani.

«Certo, anche i croati e gli sloveni filofascisti o legati a progetti politici non jugoslavisti ebbero ripercussioni pesanti. Il panslavismo fu anche un processo di nazionalizzazione violenta».

Torniamo alla vicenda di Gladio e della brigata Osoppo e dei rapporti di quest’ultima con la brigata Garibaldi.

«Gli osovani, così si chiamavano i militanti della Osoppo, erano in prevalenza cattolici, tuttavia fino a un certo punto collaborarono con i garibaldini».

Poi il legame si spezzò.

«La diffidenza tra cattolici e comunisti c’era anche prima, ma la rottura iniziò a delinearsi a partire dall’ottobre 1944, in seguito all’incontro tra Palmiro Togliatti e Milovan Gilas, durante il quale Togliatti diede il via libera alla collaborazione tra i garibaldini e i partigiani del IX Korpus sloveno».

Una collaborazione che, in realtà, era una vera e propria subordinazione. In pratica, i comunisti fecero da quinta colonna.

«In quella fase storica fu così, purtroppo. Ma val la pena di ricostruirne in sintesi i passaggi salienti. Tutto inizia da una lettera inviata nel settembre 1943 da Edvard Kardelj a Vincenzo Bianco, delegato da Togliatti presso il Fronte di liberazione sloveno. In questa missiva Kardelj ordina la subordinazione della brigata Garibaldi al IX Korpus. Ancora oggi fa una certa impressione un passaggio piuttosto esplicito di questa lettera, in cui l’esponente titino afferma: «Difficilmente comprendo perché alcuni di voi insistano sul tema dell’italianità»».

I vertici del Pci come la accolsero?

«Rimasero perplessi: Longo e perfino Secchia, ad esempio, temevano che questa disposizione di tipo militare ma sostanzialmente politica avrebbe creato spaccature all’interno della Resistenza. Come di fatto avvenne. Alla lettera seguì l’incontro, a Bari, nella notte tra il 16 e il 17 ottobre 1944 tra Togliatti e Gilas, a cui partecipò Kardelj. Quest’ultimo redasse il verbale della riunione, in cui affermava che il segretario del Pci non aveva messo in discussione «che Trieste spetti alla Jugoslavia»».

Forse perché, visto che l’iniziativa jugoslava aveva la benedizione di Mosca, non c’erano troppe alternative.

«Anche questo, certo. Va detto che non siamo in possesso della versione di questi colloqui di Togliatti anche se è nota una ulteriore lettera che egli inviò a Bianco il 18 ottobre in cui definiva positivo l’accordo con gli jugoslavi e sosteneva che il Partito Comunista doveva partecipare attivamente «alla organizzazione di un potere popolare in tutte le regioni liberate dalle truppe di Tito»».

Insomma, Togliatti cedette su tutta la linea. Ma era davvero d’accordo?

«A livello tattico sì. A livello strategico, invece, anche lui temeva che l’occupazione slava avrebbe alienato molti consensi ai comunisti».

Comunque i dissidi tra osovani e garibaldini iniziano proprio in seguito al via libera di Togliatti.

«Inevitabilmente. La scelta della Garibaldi di porsi alle dipendenze del IX Corpus costituì uno snodo cruciale nella storia della Resistenza nel Nord-Est e sarebbe stata foriera di pesanti conseguenze per il futuro della regione».

Può farsi risalire a questa fase l'idea primigenia che avrebbe poi portato alla creazione di Gladio?

«Diciamo che fu in quel momento che tra gli osovani cominciò a radicarsi la convinzione che la propria missione non si sarebbe esaurita con la sconfitta del fascismo e che, anche a guerra finita, si doveva restare armati contro un nuovo nemico: il comunismo».

Anche perché l’accordo Togliatti-Gilas non fu l’unico trauma.

«Infatti: il 7 febbraio 1945 ci fu l’eccidio di Porzus, in cui 17 osovani furono passati brutalmente per le armi dai garibaldini. A quel punto il dissidio divenne ostilità aperta; nella memoria collettiva degli osovani la strage di Porzus (partigiani che uccido altri partigiani) divenne un qualcosa di indelebile e, insieme ai successivi quaranta giorni di occupazione slava di Trieste, costituì un momento chiave nel processo che portò alla decisione di creare il complesso delle strutture anticomuniste di tipo Stay Behind»

Al punto che gli osovani, in nome dell’italianità, tentarono di accordarsi con i marò del principe Borghese?

«Si può oggi affermare con ragionevole certezza che ci fu più di un contatto. Per esempio; se il pretesto per la strage di Porzus fu un presunto incontro tra il capo osovano Bolla e uomini di Borghese in realtà mai avvenuto, è vero che di una possibile collaborazione tra osovani e marò della Decima si era discusso fin dal gennaio 1945 in un incontro riservato svoltosi a Vittorio Veneto fra il capitano Manlio Morelli della stessa X-mas e il comandante osovano Verdi (Candido Grassi). Quel progetto rimase però lettera morta. Un estremo e documentato tentativo di accordo tra Osoppo e X-mas vi fu a fine febbraio 1945 con la mediazione di Antonio Marceglia, già capitano di vascello della marina militare e noto per essere stato tra gli affondatori delle corazzate inglesi Queen Elizabeth e Valiant. Marceglia (detto in estrema sintesi) fu inviato nei territori del nord su disposizione del controspionaggio americano per preservare gli impianti del triangolo industriale dai tedeschi in ritirata e per cercare di operare al fine di favorire proprio un'intesa fra reparti dell'esercito di Salò in disfacimento, uomini della Decima e, appunto, le brigate Osoppo. L'obiettivo era creare una sorta di fronte italiano che avrebbe dovuto combattere in funzione sia antinazista, sia anticomunista e difendere l'italianità della regione da qualunque forza straniera. Ma fu tutto inutile, perché in una relazione che scrisse a fine febbraio, Marceglia sostenne che la Xmas era ormai troppo malridotta, soffriva di una eccessiva dispersione nel territorio e comunque molti dei suoi uomini non avrebbero accettato di collaborare con una formazione partigiana, seppur anticomunista. Cosa che, almeno stando ai documenti di cui disponiamo, Borghese avrebbe invece avallato».

Il peggio sarebbe arrivato con la fine della guerra.

«Fu il terzo trauma. Il primo maggio 1945 gli jugoslavi entrarono a Trieste e, come noto, vi rimasero per 40 giorni. Furono giorni terribili per i triestini, molti dei quali subirono le stesse violenze capitate agli istriani e agli abitanti della parte orientale della Carnia. In quell’occasione, c’è da dire, iniziò a maturare anche la rottura all’interno del Pci tra i fedeli alla linea jugoslava e quelli che, al contrario, presero posizione a favore dell’italianità».

I titini miravano all’annessione di Trieste.

«Miravano certamente ad annettere più territorio italiano possibile. Anche questa fretta di giungere a una conclusione spiega le violenze nei riguardi della popolazione. In ogni caso, l’occupazione jugoslava fu uno shock profondissimo per molti triestini e fece definitivamente maturare, negli osovani, l’idea di proseguire la propria attività antislava anche dopo la guerra. Infatti, a partire dal ’46, la Osoppo rinacque come struttura segreta, sotto il comando del colonnello Luigi Olivieri».

Ma anche nel campo comunista si verificò una cosa simile.

«Sì, nella storia degli organismi segreti anti-titini operanti nel Nord-Est fino ai primi anni cinquanta, vi è anche il particolare caso di gruppi armati facenti capo al rappresentante dell'ala filo-sovietica del Partito Comunista del Tlt, Vittorio Vidali, uno stalinista fedele a Mosca, già combattente nella guerra civile spagnola. Questi gruppi si tenevano in contatto coi servizi segreti militari italiani e si dichiaravano pronti a prendere la difesa dell’Italia in caso di un’altra invasione jugoslava. È una storia, questa, per certi versi ancora tutta da scrivere».

Un trauma anche per loro.

«Indubbiamente. A dare ancora più solidità a questa sorta di patto segreto anti-slavo arrivò poi la nota risoluzione del Cominform del 28 giugno 1948 che sancì lo strappo fra Stalin e Tito. La spaccatura in seno ai comunisti della regione divenne a quel punto insanabile con l'ala filoslava capeggiata da Babic che uscì dal partito e fondò il cosiddetto Fronte Popolare italo-slavo. In seguito a ciò, nella Zona B sotto controllo slavo, i titini diedero inizio a una dura persecuzione verso quei comunisti istriani schieratisi su posizioni cominformiste o che avevano dimostrato sentimenti italiani. Diego De Castro (nel dopoguerra rappresentante diplomatico italiano presso il Governo Militare Alleato) ha raccontato che in quei mesi, in alcuni incontri riservati che ebbe con Vidali, questi promise che non avrebbe esitato a mettere a disposizione uomini armati qualora fosse stato necessario fermare le mire titine».

Ma a questo punto la Osoppo era già una struttura segreta consolidata di cui la Democrazia cristiana e alcuni settori militari conoscevano l’esistenza.

«E nel 1956 divenne Gladio. Ricordo che allora era ministro della Difesa l’ex partigiano Paolo Emilio Taviani».

Ma quale peso effettivo ha avuto Gladio nella storia repubblicana?

«Fu essenzialmente un deterrente. Questa struttura, inserita nel progetto Stay Behind della Nato, non fu mai operativa, perché per fortuna non ce ne fu mai bisogno. Certo, i membri di Gladio si addestravano per tenersi pronti, ma l’unico episodio bellico oggi conosciuto avvenne proprio lungo il fronte orientale e prima della nascita di Gladio. Fu un breve scontro armato coi soldati jugoslavi a Topolo, un piccolo villaggio di confine, subito dopo le elezioni del ’48».

Nel 1990 Andreotti rivelò l’esistenza di Gladio e fornì una lista parziale dei suoi componenti.

«Ci si interroga ancora oggi sui motivi per cui Giulio Andreotti fece quella rivelazione e soprattutto con quelle modalità. Fu un caso unico in tutto l’Occidente. È parere ormai unanime che egli volesse tentare la corsa al Quirinale e, per farlo, cercò, anche attraverso la rivelazione di Gladio, di ingraziarsi il Pci, ma è anche vero che dando in pasto all'opinione pubblica Gladio consentì di tenere nascoste altre strutture, diverse e distinte da Gladio e che verosimilmente potrebbero aver avuto un ruolo in alcune vicende oscure della storia d'Italia».

Però a Gladio fu attribuito di tutto. Soprattutto gli si attribuì un ruolo determinante negli episodi più oscuri della strategia della tensione.

«A quasi trent’anni dalla rivelazione di Gladio, c’è un dato ormai certo: non è spuntata una prova di un suo coinvolgimento in attività eversive. Gladio, che fu composta essenzialmente da partigiani antifascisti, fu una struttura segreta a orientamento anticomunista. E questo anticomunismo si coagulò nel confine orientale d’Italia attorno alla paura del pericolo jugoslavo, una paura che continuò a lungo, soprattutto a Trieste». (a cura di Saverio Paletta)

Le altre Gladio e le altre stragi: conversazione con Giacomo Pacini, su "Parentesi Storiche" del 27 agosto 2017. A cura di Enrico Ruffino, Venezia. Giovane storico non accademico, tra i più apprezzati nel panorama nazionale, Giacomo Pacini è anche uno degli studiosi più disponibili al dialogo. Capita spesso che se hai qualche dubbio, non riesci ad associare un volto ad una persona, un fatto ad un evento, lui è sempre lì pronto a sciorinarti vita, morte e miracoli di un personaggio, associarlo ad un evento, inquadrarlo in una storia più grande. Si può dire che Pacini è una enciclopedia vivente, una risorsa preziosa per un paese che naviga nei meandri delle mezze verità, che viaggia sulla linea d’onda di ricostruzioni poco accurate che, spesso o volentieri, tralasciano alcuni scenari. Oggi gli abbiamo chiesto della sua più recente fatica, Le altre Gladio (Einaudi, 2015). Il nuovo libro di Giacomo Pacini, Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia, 1943-1991 (Einaudi, 2016), ma anche di lavori in corso, appena abbozzati, per i quali non ha mancato di darci ricostruzioni preziose. Un’intervista che va letta interamente per capire cosa accade nella nostra, martoriata prima Repubblica. 

Voglio iniziare con una provocazione: sei di destra o di sinistra?

«E io voglio evitare di cavarmela con la scontata risposta: “Ma oggi cosa sono destra e sinistra?” Diciamo che mi sono sempre riconosciuto in un’area definibile di sinistra, ma mi piacerebbe una sinistra che, accanto ai pur fondamentali diritti civili, si ricordasse degli altrettanto importanti diritti sociali.  Altrimenti non ti devi stupire se vinci ai Parioli e perdi nelle periferie».

Naturalmente la provocazione non era fine a se stessa, era finalizzata al tuo lavoro su le altre gladio. Le poche critiche che hai ricevuto per quell’imponente ricerca sono provenute da sinistra, la quale ti ha additato una certa propensione al “filo-atlantismo” o “propagandismo di destra”. Personalmente, non riesco a capire perché, a fronte di un dispendioso lavoro di archivio, si cerchi ancora di valutare le grandi questioni con criteri politici. Quindi, ti domando: a cosa credi sia dovuto questo atteggiamento?

«Premesso che qualsiasi recensione, anche la più negativa, se fatta in buona fede va sempre accettata, in questo caso stiamo davvero parlando di un qualcosa di minimale. Nello specifico, una “studiosa” in una recensione on-line ha sostenuto che l’aver parlato di un alto numero di morti nelle foibe mi equiparerebbe, appunto, a certi “sfegatati propagandisti” (di destra naturalmente). Non solo, ella ha addirittura scoperto che per il mio libro mi sarei ispirato nientemeno che a un articolo uscito sulla rivista di destra Area nel 1997 (quando ancora facevo le superiori). Che dire? E’ chiaro che non si può che sorridere. Diciamo che alla recensitrice non è andato giù soprattutto il secondo capitolo del libro (e viene il sospetto abbia letto solo quello) dove trattavo dei presupposti ideologici delle organizzazioni Stay Behind, ricostruendo, tra le altre cose, la storia dell’insanabile contrasto che si creò tra i partigiani comunisti delle brigate Garibaldi e i partigiani cattolici e liberali delle brigate Osoppo. Nel farlo, inevitabilmente, ho dovuto trattare di tragedie come le foibe, la strage di Porzus o i cosiddetti quaranta giorni di occupazione slava di Trieste (dei quali secondo l’autrice della recensione “da un punto di vista storiografico” non sarebbe accettabile parlare). Tutto questo non è piaciuto. Me ne faccio una ragione, in fondo il libro ha avuto un tale numero di recensioni positive su gran parte della stampa nazionale e su riviste scientifiche da lasciarmi stupito e (bando alla falsa modestia) inorgoglito, considerando che è stato un lavoro molto impegnativo anche perché svolto in totale autofinanziamento, senza nemmeno un centesimo di sostegno pubblico. Per cui ci mancherebbe non accettare delle recensioni negative».

E più in generale?

«Più in generale, diciamo che è vero che parte della storiografia ha avuto, e parzialmente ha ancora, difficoltà a studiare sine ira et studio un fenomeno complesso come l’anticomunismo. Che in Italia ha avuto degenerazioni terribili e penso di averne scritto in abbondanza. Per esempio, perdona l’antipatica autocitazione, personalmente credo di aver contribuito a portare alla luce uno dei documenti più eloquenti (come lo ha definito Vladimiro Satta commentandolo nel suo libro I nemici della Repubblica) circa l’interesse del servizio segreto militare nell’attuare azioni di provocazione contro la sinistra. Si tratta di una relazione del cosiddetto Ufficio Rei del Sifar risalente al settembre 1963 e nella quale, in coincidenza con la nascita del primo governo organico di centrosinistra, si programmavano appunto in modo esplicito azioni mirate per danneggiare il Pci. E altro potremmo citare»

Mi saltano in mente le parole di Aldo Giannulli che in più occasioni ha sostenuto che si è ben studiato l’antifascismo ma mai bene l’anticomunismo. Tuttavia non ti sembra un po’ riduttivo quest’interpretazione in chiave tutta anticomunista?

«La storia dell’anticomunismo in Italia può davvero essere ridotta solo a una questione di bombe e stragi? E si può sul serio sostenere che da Portella della Ginestra in poi tutto debba sempre e comunque essere inserito nello scenario secondo il quale fascisti a libro paga dei servizi segreti venivano utilizzati per creare tensione e favorire un colpo di stato anticomunista? La risposta mi sembra ovvia; no. Se nessuno può negare che più di una volta il Pci abbia difeso le istituzioni e la democrazia pagandone anche un caro prezzo, è altrettanto vero che il quarantennio democristiano non può essere descritto solo come una sorta di catena di complotti per fermare la democratica ascesa del Pci stesso. Tutto questo non solo non corrisponde al vero, ma ha anche impedito alla sinistra di elaborare fino in fondo una seria riflessione su quanto, dal 1948 a gran parte degli anni settanta, abbia indirettamente pesato nel mancato ricambio della classe dirigente al potere la dicotomia tra l’inserimento del Pci in una democrazia occidentale e il suo legame mai pienamente scisso con l’Urss. Quella che (mi rendo conto, in modo un po’ semplicistico) viene solitamente chiamata “doppiezza”. Sinceramente, mi sembrano considerazioni perfino banali, ma talvolta chi ha ancora la testa rivolta al Novecento fatica a accettarle».

Infatti, il tuo libro va in tutt’altra strada.

«Come mi è capitato di dire in alcune presentazioni, il mio libro è stato un tentativo (naturalmente non sta a me dire se riuscito) di ricostruire la storia legale e non legale della lotta anticomunista in Italia. Ma evitando giudizi categorici o perentori e per questo se al termine della lettura chi ritiene che la lotta anticomunista in Italia sia stata solo una sequela di bombe e stragi e chi, al contrario, nega che tale lotta abbia conosciuto anche simili degenerazioni, rimarrà deluso, credo che il libro avrà raggiunto uno dei suoi obiettivi. 

Attorno a Gladio (quale Gladio, poi?) è stata costruita una grande “tragediografia”. E’ stata assunta, un po’ come la P2, a grande deus ex machina della tragedia repubblicana.

«Quando nell’ottobre 1990 Andreotti rivelò l’esistenza di Gladio scoppiò una vera e propria bufera politica. Per mesi la vicenda riempì le prime pagine di tutti i giornali (nei due anni successivi è stato calcolato che furono scritti oltre 3000 articoli) alimentando infiniti dibattiti che culminarono in una richiesta di “impeachment” mossa contro il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. D’altronde, le illazioni che per anni erano circolate intorno all’esistenza di un servizio segreto parallelo che operava nell’ombra sembravano aver trovato un riscontro ufficiale e improvvisamente Gladio diventò la chiave per capire ogni mistero della storia d’Italia, dalle stragi, ai tentati colpi di stato, agli omicidi politici. Oggi sappiamo che non era così; Gladio era una porzione di un sistema di sicurezza molto più complesso e articolato che ho cercato di ricostruire nel mio libro, intitolato appunto Le Altre Gladio».

Cos’era Gladio?

«Nello specifico, la Gladio (o Stay Behind italiana) era un’organizzazione segreta che fu creata nell’autunno 1956 e che essenzialmente aveva il compito di attivarsi in caso di invasione del territorio italiano da parte di un esercito straniero (nella fattispecie ovviamente le truppe del Patto di Varsavia). Fino ai primi anni 70, la dottrina militare italiana era imperniata sul concetto della cosiddetta Difesa Arretrata e Manovra in Ritirata, che, in estrema sintesi, voleva dire il lasciare volutamente, all’inizio delle ostilità, una parte del territorio nazionale in mano all’avversario ingaggiando combattimenti non per arrestare il nemico ma per rallentarne l’avanzata e logorarlo al fine di poter arretrare le proprie forze e sistemarle in posizioni più idonee da dove poi doveva partire la controffensiva. Da qui l’importanza del ruolo di Gladio, divisa in 5 cosiddetta Unità di Pronto Impiego (Upi), che allo scoppio delle ostilità avrebbero dovuto raggiungere le zone del confine orientale loro assegnate e dare inizio alla lotta partigiana proprio in quella parte di territorio nazionale lasciata volutamente sguarnita ed in cui l’esercito invasore doveva essere, diciamo così, impantanato e poi bloccato. Questa tattica mutò nel 1972 allorché furono varate da Shape (comando supremo delle potenze alleate in Europa) nuove tecniche di guerra non ortodossa e, per quanto riguarda l’Italia, fu adottata la dottrina della cosiddetta Difesa Avanzata, che in sostanza voleva dire una difesa ancorata, fissa, appoggiandosi ai rilievi montuosi lungo la frontiera alpina e una difesa mobile nella fascia di pianura tra Udine e l’Adriatico.  In fondo, se ci pensiamo bene, di per sé Gladio non aveva nulla di veramente originale. Addirittura dai tempi delle guerre napoleoniche esistevano strutture di questo tipo, contigue alle forze armate e capaci di utilizzare tecniche di guerriglia contro un eventuale esercito che avesse invaso il proprio territorio. Gladio, in particolare, traeva la sua origine da similari organizzazioni armate a carattere segreto che erano state attive durante la seconda guerra mondiale nei territori occupati dai tedeschi. Alla base della nascita di Gladio stava poi anche l’idea che la Guerra Fredda avrebbe cambiato per sempre il modo di combattere, ossia che non ci sarebbe più stato soltanto un canonico conflitto militare tra eserciti, ma che, appunto, la cosiddetta guerra di guerriglia avrebbe assunto un’importanza sempre maggiore».

Quanto Gladio, in quel 1990, era spendibile politicamente?

«Una questione mai del tutto chiarita è perché Andreotti nel 1990 decise di rivelare, con quella modalità, l’esistenza di Gladio. Naturalmente la fine della Guerra Fredda aveva ormai reso superflua quella struttura (che peraltro nel corso degli anni ottanta aveva subito molti cambiamenti interni), ma quello di renderne nota l’esistenza fu ugualmente una decisione improvvisa, avvenuta a totale insaputa, per esempio, dell’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga (che conosceva Gladio dal 1966, anno in cui divenne sottosegretario alla Difesa) o della stessa Nato. Certamente Andreotti lo fece perché pressato dalla magistratura, che da tempo era alla ricerca di una organizzazione segreta, della cui esistenza, come accennato, si vociferava da anni (dai tempi del caso dell’inchiesta sulla cosiddetta Rosa dei Venti del giudice istruttore padovano Giovanni Tamburino). Ma si è anche spesso sostenuto, probabilmente con più di una ragione, che Andreotti lo fece per lanciare una sorta di ponte alla sinistra e ottenerne quantomeno una non ostilità in vista della futura nomina a Presidente della Repubblica per la quale all’epoca egli sembrava il naturale candidato. Poi, come noto, gli eventi dei primi mesi del 1992 cambiarono completamente le carte in tavola».

Ci sono dei passaggi nella storia dell’Italia repubblicana che sono stati completamente omessi sia dal discorso pubblico che, ancora più grave, dalla storiografia stessa. Uno di questi è il ruolo che il terrorismo palestinese ha assunto in Italia. Pochi ricordano le stragi palestinesi (entrambe all’aeroporto di Fiumicino in anni diversi) e si trovano ben poche (nessuna che io conosca) che analizzino l’altro terrorismo. Non pensi che Gladio possa essere stato un parafulmine per rimuovere anche questa storia? Oltre che per coprire le altre organizzazioni paramilitari, quelle “illegali”? Insomma, come spieghi la rimozione dal discorso pubblico del ruolo del terrorismo palestinese in Italia?

«Che Gladio sia servita come parafulmine di altre strutture, realmente coinvolte in alcune oscure vicende della storia italiana, è un’ipotesi che ho cercato di sviluppare nell’ultima parte del libro e che credo abbia trovato un riscontro assolutamente positivo. Quanto al terrorismo palestinese e alla scarsa attenzione a esso dedicata, io allargherei la questione. Naturalmente non bisogna generalizzare, ma, con le dovute e lodevoli eccezioni, va detto che la storiografia non sempre ha brillato per dinamismo e innovazione e ha oggettivamente accumulato dei ritardi (che finalmente cominciano a essere colmati) su molte delle vicende post-1945, non solo sul terrorismo palestinese. Per dire, allorché si parla del ruolo dell’Italia nella Guerra Fredda capita che lo si studi ancora quasi esclusivamente nel contesto del conflitto est-ovest, ignorando il fondamentale scenario mediterraneo. Ossia, il conflitto, per così dire, “nord-sud” per l’approvvigionamento delle risorse petrolifere.  Anche per questo vicende come, appunto, le stragi palestinesi di Fiumicino (o casi come quello dell’aereo Argo 16) sono ancora quasi del tutto ignoti. Ci aggiungerei un’altra vicenda; quanti per esempio, anche tra autorevoli storici dell’Italia Repubblicana, conoscono la storia della scomparsa della nave Hedia, affondata nel Mediterraneo nel marzo 1962?  Ne ha parlato qualche tempo fa Mimmo Franzinelli. Fu una vera e propria Ustica dei mari, morirono 19 italiani e un gallese e recenti ricerche hanno evidenziato che con quel mercantile venivano trasportati clandestinamente verso l’Algeria aiuti per i ribelli del Fronte di Liberazione Nazionale. E potremmo continuare; è proprio la storia della diplomazia parallela che l’Italia condusse nel Mediterraneo che attende ancora di essere conosciuta nella sua interezza».

Volevo arrivare al “Lodo Moro”. Innanzitutto, è esistito o non è esistito? E se si, che ruolo ha assunto?

«Il Lodo Moro è una verità storica acclarata. Naturalmente ancora molto materiale documentale dovrà emergere prima di avere un quadro esaustivo, ma sulla esistenza di un patto di non belligeranza tra l’Italia e la galassia palestinese non vi sono più dubbi. Sulla base del materiale oggi disponibile, si evince che i primi contatti tra funzionari dei Servizi segreti italiani e emissari palestinesi avvennero a fine 1972 nell’ambito di una trattativa che portò alla liberazione di due militanti del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (Fplp) arrestati nel precedente agosto per aver nascosto un ordigno in un mangianastri portato inconsapevolmente su un aereo israeliano da due turiste inglesi. Fu però con il ritorno di Aldo Moro al ministero degli Esteri nell‘estate 1973 che il patto prese davvero forma. In particolare dopo l’arresto avvenuto a Ostia nel settembre 1973 di 5 palestinesi trovati in possesso di missili Strela che intendevano usare per abbattere un aereo israeliano. Nell’ambito delle complesse trattative che portarono alla loro liberazione (e che coinvolsero anche la Libia) l’Olp si impegnò ufficialmente a non effettuare più azioni di guerra sul suolo italiano. Tuttavia le frange più estremiste della galassia palestinese non accettarono quell’intesa e si resero responsabili della strage di Fiumicino del 17 dicembre 1973. Fu solo dopo quella tragedia che il cosiddetto Lodo Moro cominciò a diventare qualcosa di davvero strutturato e funzionante, grazie soprattutto al fondamentale lavoro di mediazione svolto del colonnello Stefano Giovannone, capo centro Sismi a Beirut, funzionario dei Servizi molto legato a Aldo Moro».

Credi che in futuro, come per esempio ha sostenuto il magistrato Rosario Priore, il Lodo Moro possa consentire di riscrivere parti della storia italiana?

«Riscrivere la storia è un’affermazione molto impegnativa. Diciamo che certamente consentirà di rileggere parte della storia della politica estera italiana degli anni settanta. Ti faccio un esempio; il 23 gennaio 1974 Moro di fronte alla Commissione Esteri del Senato pronunciò uno dei suoi discorsi più appassionati in favore dei palestinesi, affermando che essi non stavano cercando assistenza, ma una patria ed era perciò assolutamente necessario che finisse l’occupazione israeliana dei territori. Un intervento che, come dimostrano alcuni dispacci giunti dai nostri ambasciatori dalle capitali arabe, fu molto apprezzato e elogiato in gran parte del Medio Oriente. Con l’apparente paradosso che alcuni giorni dopo, quando Moro si trovava in visita al Cairo, fu lo stesso ministro degli Esteri egiziano, Ismail Fahni, a fargli presente che era andato perfino oltre nel suo sostegno all’Olp e che la questione di una patria per i palestinesi andava affrontata solo quando ci sarebbero state le condizioni opportune. Grazie al materiale documentale di cui oggi disponiamo, possiamo con ragionevole certezza affermare che quel discorso Moro lo pronunciò proprio nel contesto delle trattative riservate di quei giorni e che dovevano portare alla messa a punto definitiva del Lodo. Fu, in qualche modo, un segnale all’universo palestinese della reale disponibilità italiana, al fine di evitare che si potessero ripetere tragedie come quella di Fiumicino del precedente dicembre 1973. Questo è un esempio di cosa intendo quando affermo che i documenti sul Lodo Moro ci possono consentire di avere una ricostruzione più ampia della storia della politica estera italiana. Sono argomenti di cui ti parlo qui in modo sintetico, ma che spero in futuro di poter trattare ampiamente in un saggio specifico».