Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

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FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

 

WEB TV: TELE WEB ITALIA

 

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

Descrizione: TANGENTOPOLI.jpg

 

LA MAFIA TI UCCIDE, TI AFFAMA, TI CONDANNA

IL POTERE TI INTIMA: SUBISCI E TACI

LE MAFIE TI ROVINANO LA VITA. QUESTA ITALIA TI DISTRUGGE LA SPERANZA

UNA VITA DI RITORSIONI, MA ORGOGLIOSO DI ESSERE DIVERSO

 

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

Se la religione è l’oppio dei popoli, il comunismo è il più grande spacciatore. Lo spaccio si svolge, sovente, presso i più poveri ed ignoranti con dazione di beni non dovuti e lavoro immeritato. Le loro non sono battaglie di civiltà, ma guerre ideologiche, demagogiche ed utopistiche. Quando il nemico non è alle porte, lo cercano nell’ambito intestino. Brandiscono l’arma della democrazia per asservire le masse e soggiogarle alle voglie di potere dei loro ipocriti leader. Lo Stato è asservito a loro e di loro sono i privilegi. Come tutte quelle religioni con un dio cattivo, chi non è come loro è un’infedele da sgozzare. Odiano il progresso e la ricchezza degli altri. Ci vogliono tutti poveri ed al lume di candela. Non capiscono che la gente non va a votare perché questa politica ti distrugge la speranza.    

Quando il più importante sindaco di Roma, Ernesto Nathan, ai primi del ‘900 scoprì che tra le voci di spesa era stata inserita in bilancio, la TRIPPA, necessaria secondo alcuni addetti agli archivi del comune, per nutrire i gatti che dovevano provvedere a tenere lontani i topi dai documenti cartacei, prese una penna e barrò la voce di spesa, tuonando la celeberrima frase: NON C'È PIÙ TRIPPA PER GATTI, il che mise fine alla colonia felina del Comune di Roma. 

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ogni tema trattato sinteticamente in quest'opera è oggetto di approfondimento analitico in un saggio dedicato.

Alcune puntualizzazioni sul Diritto di Cronaca, Diritto di Critica, Privacy e Copyright.

In seguito al ricevimento di minacce velate o addirittura palesi nascoste dietro disquisizioni giuridiche, al pari loro si palesa quanto segue. I riferimenti ad atti ed a persone ivi citate, non hanno alcuna valenza diffamatoria e sono solo corollario di prova per l'inchiesta. Le persone citate, in forza di norme di legge, non devono sentirsi danneggiate. Ogni minaccia di tutela arbitraria dei propri diritti da parte delle persone citate al fine di porre censura in tutto o in parte del contenuto del presente dossier o vogliano spiegare un velo di omertà sarà inteso come stalking o violenza privata, se non addirittura tentativo di estorsione mafiosa. In tal caso ci si costringe a rivolgerci alle autorità competenti.

Come è noto, il diritto di manifestare il proprio pensiero ex art. 21 Cost. non può essere garantito in maniera indiscriminata e assoluta ma è necessario porre dei limiti al fine di poter contemperare tale diritto con quelli dell’onore e della dignità, proteggendo ciascuno da aggressioni morali ingiustificate. La decisione si trova in completa armonia con altre numerose pronunce della Corte. La Cassazione, infatti, ha costantemente ribadito che il diritto di cronaca possa essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, costituendo così causa di giustificazione della condotta a condizione che vengano rispettati i limiti della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Orbene, è fondamentale che la notizia pubblicata sia vera e che sussista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti. Il diritto di cronaca, infatti, giustifica intromissioni nella sfera privata laddove la notizia riportata possa contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti. Il principio di continenza, infine, richiede la correttezza dell’esposizione dei fatti e che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obiettività. A tal proposito, giova ricordare che la portata diffamatoria del titolo di un articolo di giornale deve essere valutata prendendo in esame l’intero contenuto dell’articolo, sia sotto il profilo letterale sia sotto il profilo delle modalità complessive con le quali la notizia viene data (Cass. sez. V n. 26531/2009). Tanto premesso si può concludere rilevando che pur essendo tutelato nel nostro ordinamento il diritto di manifestare il proprio pensiero, tale diritto deve, comunque, rispettare i tre limiti della verità, pertinenza e continenza.

Diritto di Cronaca e gli estremi della verità, della pertinenza e della continenza della notizia. L'art. 51 codice penale (esimente dell'esercizio di un diritto o dell'adempimento di un dovere) opera a favore dell'articolista nel caso in cui sia indiscussa la verità dei fatti oggetto di pubblicazione e che la stessa sia di rilevante interesse pubblico. In merito all'esimente del Diritto di Cronaca ex art. 51 c.p., la Suprema Corte con Sentenza n 18174/14 afferma: "la cronaca ha per fine l'informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell'intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione". Il diritto ad esprimere delle proprie valutazioni, del resto non va represso qualora si possa fare riferimento al parametro della "veridicità della cronaca", necessario per stabilire se l'articolista abbia assunto una corretta premessa per le sue valutazioni. E la Corte afferma, in proposito: "Invero questa Corte è costante nel ritenere che l'esimente di cui all'art. 51 c.p., è riconoscibile sempre che sia indiscussa la verità dei fatti oggetto della pubblicazione, quindi il loro rilievo per l'interesse pubblico e, infine, la continenza nel darne notizia o commentarli ... In particolare il risarcimento dei danni da diffamazione è escluso dall'esimente dell'esercizio del diritto di critica quando i fatti narrati corrispondano a verità e l'autore, nell'esposizione degli stessi, seppur con terminologia aspra e di pungente disapprovazione, si sia limitato ad esprimere l'insieme delle proprie opinioni (Cass. 19 giugno 2012, n. 10031)".

La nuova normativa concernente il rapporto tra il diritto alla privacy ed il diritto di cronaca è contenuta negli articoli 136 e seguenti del Codice privacy che hanno sostanzialmente recepito quanto già stabilito dal citato art. 25 della Legge 675 del 1996. In base a dette norme chiunque esegue la professione di giornalista indipendentemente dal fatto che sia iscritto all'elenco dei pubblicisti o dei praticanti o che si limiti ad effettuare un trattamento temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli saggi o altre manifestazioni del pensiero:

può procedere al trattamento di dati sensibili anche in assenza dell'autorizzazione del Garante rilasciata ai sensi dell'art. 26 del D. Lgs. 196 del 2003;

può utilizzare dati giudiziari senza adottare le garanzie previste dall'art. 27 del Codice privacy;

può trasferire i dati all'estero senza dover rispettare le specifiche prescrizioni previste per questa tipologia di dati;

non è tenuto a richiedere il consenso né per il trattamento di dati comuni né per il trattamento di dati sensibili.

Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore del libro che racconta della vicenda. A tal fine posso assemblarle o per fare una rassegna stampa.'''

 

(* Per gli appalti truccati, qui accennato, ho scritto appositamente un libro a parte).

(* Per i concorsi pubblici e per gli Esami di Stato, qui accennato, ho scritto appositamente un libro a parte).

(* Per l’esame truccato di avvocato, qui accennato, ho scritto appositamente un libro a parte).

(* Per il malgoverno, sprechi e disservizi ho scritto appositamentedei libri a parte).

 

Di Antonio Giangrande

 

 

 

 

 

 

SOMMARIO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande).

INTRODUZIONE

SILVIO E BETTINO, I LUPI DELLA MILANO DA BERE.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

GABRIELE CAGLIARI E GLI ALTRI. SONO STATI SUICIDATI?

DEVASTATI DA MANI PULITE.

LA REPUBBLICA GIUDIZIARIA, ASPETTANDO LA TERZA REPUBBLICA.

RICORDANDO BETTINO CRAXI.

FIGLI DI PUTIN...

MANI GOLPISTE.

TANGENTOPOLI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

I GIORNALISTI. I KILLER DELLA PRIMA REPUBBLICA.

TANGENTOPOLI. UN TEMA STORICO.

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

CHI FA LE LEGGI? 

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

ONESTA’ E DISONESTA’

IL GIUSTIZIALISMO GIACOBINO E LA PRESCRIZIONE.

POOL MANI PULITE, MAGISTRATURA DEMOCRATICA E COMUNISMO: ATTRAZIONE FATALE PER FAR FUORI AVVERSARI POLITICI E MAGISTRATI SCOMODI!

CRAXI E LE INTERPRETAZIONI DELLA STORIA TRA MANETTARI E GARANTISTI.

OPERATORI DI (IN)GIUSTIZIA…..

ANTONIO GIANGRANDE, GABRIELLA NUZZI, SILVIO BERLUSCONI: LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI.

IL PARTITO INVISIBILE. ASTENSIONISMO, VOTO MIGRANTE E VOTO DI PROTESTA: I MOTIVI DI UNA DEMOCRAZIA INESISTENTE.

LA PATRIA DELLA CORRUZIONE.

LE BUGIE DEI POLITICANTI CHE SCHIAVIZZANO I NOSTRI GIOVANI.

MINISTRI. UNA IMPUNITA' TUTTA PER LORO.

PER GLI ONOREVOLI...NON C'E' FRETTA.

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

TUTTI DENTRO CAZZO!

VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

IGNORANTI IN PARLAMENTO.

IGNORANTI NELLA SOCIETA’ CIVILE.

LADRI IN PARLAMENTO. TANGENTOPOLI ED IL POOL MANI PULITE: LA GENESI.

IL POOL DI MANI PULITE: FRANCESCO SAVERIO BORELLI. ILDA BOCCASSINI. PIERCAMILLO DAVIGO. ARMANDO SPATARO. GERARDO D'AMBROSIO. GHERARDO COLOMBO. FRANCESCO GRECO. ANTONIO DI PIETRO. TIZIANA PARENTI.

LE MITICHE TANGENTI ROSSE.

TANGENTOPOLI E TIFO DA STADIO, 20 ANNI DOPO.

LA CASTA. CON L'IMMUNITA' PARLAMENTARE SI DIFENDE.

"1992": LA STORIA SCRITTA DAI VINCITORI.

DA QUALE PULPITO VIEN LA PREDICA. CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO E DELLA SOCIETA' CIVILE.

LA SINISTRA: IERI DIVERSI. OGGI CATTIVI E DANNOSI...OSSIA UGUALI.

A SINISTRA: DA ACCUSATORI AD ACCUSATI LE COSE CAMBIANO.

SPUTTANATI E SPUTTANANDI.

CON LO SPUTTANAMENTO C'E' LA GALERA...ANCHE I MAGISTRATI.

REATO IMPUNITO: LA FUGA DI NOTIZIE.

LE COOP ED IL SISTEMA SCOPPIATO.

TANGENTOPOLI ED IL POTERE DELLE FONDAZIONI.

TANGENTOPOLI E LE CONSULENZE TRUCCATE. 

LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. GIUSEPPE ORSI.

LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. BETTINO CRAXI.

LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. SILVIO BERLUSCONI.

LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. PASQUALE CASILLO.

SE SGARRI A PARLARE, I MANETTARI TI QUERELANO.

TOGHE ROSSE…E TOGHE BIANCHE.

TOGHE COLLUSE.

IL PARTITO DEI GIUDICI.

IL PARTITO DELLE TASSE E DELLE MANETTE…PER GLI ALTRI.

TANGENTI E MASSONERIA.

FILIPPO FACCI: UN TESTIMONE DI MANI PULITE.

NON SOLO MANI PULITE.

MIRACOLATI. I SALVATI DA MANI PULITE.

IN MEMORIA DI RENATO ALTISSIMO: L’INGANNO DI TANGENTOPOLI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

 c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

 ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori. 

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!      

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Caro Caselli, il blocco dei soccorsi lo ha realizzato un magistrato, scrive Piero Sansonetti il 30 agosto 2018 su "Il Dubbio".  Nell’intervista molto ampia e argomentata che ci ha rilasciato, e che abbiamo pubblicato sul giornale di ieri, Gian Carlo Caselli, ex procuratore di Torino e di Palermo che nella sua vita è stato per lunghi anni impegnato in primissima linea, e con buoni successi, nell’attività investigativa su terrorismo e mafia ha sostenuto diverse idee che in buona parte non condivido. Caro Caselli, il blocco dei soccorsi lo ha realizzato un magistrato. Qui però mi interessa discutere su due soli punti, che mi sono sembrati i più importanti nella sua esposizione. Il primo riguarda l’anomalia italiana in fatto di rapporti tra politica e magistratura. Il secondo riguarda l’intervento della magistratura in questioni che forse – a mio, ma non a suo giudizio – dovrebbero essere di competenza esclusiva della politica. Sul primo punto Gian Carlo Caselli ha una tesi molto chiara che riassumo trascrivendo due brevi frasi pronunciate nell’intervista alla nostra Giulia Merlo. Prima frase: «Ed ecco lo scatenarsi, ormai da oltre 25 anni, di una crociata anti-giudiziaria senza eguali nelle democrazie occidentali». Seconda frase: «Nel nostro paese è antico e diffuso il malvezzo di ostacolare i magistrati scomodi perché adempiono il loro dovere senza riguardi per nessuno e con troppa indipendenza». Ora io faccio questa considerazione. Chiedo: a parità di livelli di corruzione (come ci dicono molti dati statistici raccolti dall’Eurispes e da vari altri istituti internazionali di statistica, l’Italia è nella media europea) esistono altri paesi, in Occidente, dove siano stati inquisiti in più occasioni il Presidente del Consiglio, più una trentina di ministri, più i governatori di quasi tutte le Regioni (o forse tutte: vado a memoria e non ricordo governatori inquisiti solo in Toscana)? Per non contare i sindaci: a occhio in questo quarto di secolo ne sono stati inquisiti più di mille. No, non esiste nessun altro paese. E oltretutto la grandissima maggioranza di questi esponenti della politica è stata prosciolta o assolta (basta dire che il capofila degli inquisiti, e cioè Berlusconi, ha collezionato almeno 70 tra assoluzioni, proscioglimenti e prescrizioni, e solo una condanna, per evasione fiscale, peraltro assai discutibile e comminata in via definitiva da un magistrato che è oggi un abituale commentatore del Fatto di Travaglio). Non mi risulta che tra i magistrati che hanno condotto in questo venticinquennio l’azione contro la politica ci siano molte teste cadute, o che qualcuno di loro abbia pagato un prezzo (tranne, forse, lo stesso Caselli, che fu sbarrato dalla politica quando concorreva per diventare Procuratore nazionale antimafia). Ci sono dei magistrati che hanno perso processi su processi contro i politici (o i loro parenti….) e continuano ad operare, peraltro godendo di molta fama e sostenuti come eroi da diversi giornali. Mi pare difficile dire che c’è stato un assalto della politica alla magistratura e non il contrario. Chiedo ancora: qualcuno, in questi anni, ha toccato l’indipendenza della magistratura, fissata dalla Costituzione? No. Qualcuno ha separato le carriere dei magistrati? No. E poi chiedo: Qualcuno ha toccato l’immunità parlamentare o quella dei ministri? Sì, è stata abolita l’autorizzazione a procedere, stabilita anch’essa dalla Costituzione. Qualcuno ha varato qualche legge che rende incandidabile e ineleggibile un esponente politico condannato da un tribunale in primo grado? Si, l’ha varata il governo Monti a furor di Parlamento. Passo al secondo punto, che è quello più attuale. L’opportunità dell’intervento del Procuratore di Agrigento Patronaggio che ha indagato Salvini. Caselli difende Patronaggio, sostenendo che ha solo fatto il suo dovere, avendo riscontrato un reato, e cioè la limitazione della libertà dei 150 eritrei, e avendo riscontrato anche la violazione dell’articolo 13 della Costituzione che regola il diritto alla libertà personale. Anch’io penso che Salvini abbia violato l’articolo 13 della Costituzione. Ma questa è una questione assolutamente politica, oppure è una questione che riguarda la legittimità delle sue decisioni di impedire lo sbarco. Assumere una iniziativa politica in contrasto con la Costituzione è una cosa molto grave, in termini politici, ma di per sé non costituisce il reato. A Caselli io vorrei porre questa semplice domanda: non crede che l’intervento della magistratura nelle scelte politiche dei governi sia estremamente pericoloso per la tenuta della democrazia (e anche per la tenuta e la credibilità della magistratura)? Per questa semplice ragione: che il singolo magistrato – il singolo: una persona sola – ha un potere spropositato. Vi ricordo che la situazione nella quale Salvini ha operato, bloccando la Diciotti, si è creata perché precedentemente era stato realizzato (non da Salvini) il blocco dei soccorritori nel Mediterraneo. Questo blocco non era stato provocato o deciso dalla politica, ma proprio da un magistrato: da un singolo magistrato. Il procuratore di Catania, che ha aperto un’inchiesta – con forte sostegno di stampa – contro le Ong e le navi dei soccorritori. L’inchiesta non aveva alcuna base giuridica – e infatti si è conclusa con un flop – ma aveva una gigantesca potenza politica. Il Procuratore di Catania con quell’inchiesta – e quella campagna di stampa – ha scardinato e demolito l’intero sistema dei soccorsi in mare, ed in questa situazione favorevole è poi intervenuto Salvini. La scomparsa della navi di soccorso ha provocato un incredibile aumento dei morti nei naufragi. Siamo sicuri che questa scelta – assolutamente politica – di ripulire il mare dalle Ong spettasse a un magistrato, e siamo sicuri che non mettesse a rischio la Costituzione assai più delle trovate propagandistiche e un po’ ciniche di Salvini?

Mi piacerebbe se si riuscisse a discutere più approfonditamente di queste cose. Non si tratta solo di discutere sulla divisione dei poteri tra politica e magistratura. Ma anche di controllo dei poteri. Di questi poteri. Un parlamentare non possiede neanche un’oncia del potere che ha in mano un giovanissimo sostituto procuratore (anche perché, come sappiamo tutti, il contrappeso dei Gip è, di solito, praticamente inesistente). E’ giusto lasciare che le cose restino così, e che i magistrati (non la magistratura) abbiano un potere politico molto superiore a quello dei politici? In nome di che? Di un’idea dell’Etica, francamente, molto discutibile.

La sinistra sovranista riparte da Che Guevara: «Patria o muerte». Dalla retorica del capo storico dei guerriglieri, a Ho Chi Min, Mao, e anche alla tradizione del Pci di Togliatti, scrive Paolo Delgado il 2 Settembre 2018 su "Il Dubbio". “Patria o muerte. Venceremos”: non il grido di battaglia di qualche formazione ultranazionalista iberica o latino- americana. Era la formula comunemente usata per chiudere tutte le sue lettere e i messaggi dal massimo idolo politico del lontano ‘ 68, Ernesto “Che” Guevara. Nell’Unione sovietica, ma anche nella Russia di Putin, la definizione per noi comune “Seconda Guerra Mondiale” è poco conosciuta e ancor meno adoperata: quella contro il nazismo è la “Grande Guerra Patriottica”. Casomai qualcuno, nelle nebbie della memoria lontana, dovesse dimenticare che la chiamata alle armi in difesa della Patria Socialista, dopo l’avvio dell’Operazione Barbarossa, l’invasione tedesca, mobilitò con il richiamo alla Patria più che con quello al socialismo. Ha fatto molto scandalo un articolo di Stefano Fassina, ex ministro nel governo Renzi, ex Pd, oggi deputato di LeU, nel quale venivano rivendicate parole che nella sinistra non avevano quasi più corso almeno dagli anni settanta: “Patria” e Nazione”. Fassina, che è un sovranista di sinistra, merce rara in Italia ma molto meno nel resto d’Europa, sottolinea la continuità con la tradizione storica del Movimento operaio italiano e del Pci. Cita un noto brano di Togliatti del 1945, da un articolo uscito su Rinascita: ‘ Assai spesso i nemici dei lavoratori tentano di contestare il patriottismo dei comunisti e dei socialisti, invocando il loro internazionalismo e presentandolo come una manifestazione di cosmopolitismo, di indifferenza e di disprezzo per la patria. Anche questa è una calunnia’. Ricorda che nel simbolo del Partito la bandiera rossa con la falce e il martello si accompagnava al tricolore, pare per insistenza con Renato Guttuso (che disegnò quel simbolo) dello stesso Togliatti. Segnala che nella Costituzione italiana un solo dovere è definito addirittura “sacro”, quello di cui si parla nell’art. 52: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. Per il Pci, durante la Resistenza e dopo, tra patriottismo e lotta per l’emancipazione dei lavoratori non solo non c’era contraddizione ma si trattava al contrario quasi di sinonimi. Fino agli anni ‘ 80 e all’uscita del libro di Claudio Pavone sulla Resistenza Una guerra civile, la storiografia comunista aveva sempre rifiutato, e anche con sdegno, l’interpretazione della Resistenza come “guerra civile”. Era la “Guerra di Liberazione Nazionale” e dubitarne significava esporsi al sospetto d’eresia. Del resto il giornale dell’Anpi si chiamava, e ancora si chiama Patria Indipendente. Nel clima della guerra fredda, nel 1957, il Pci votò contro la ratifica dell’oggi sempre osannato Trattato di Roma, quello che istituiva la Cee, la Comunità economica europea, detta abitualmente all’epoca Mec, Mercato comune europeo. “Il Mec – spiegava allora la scelta del partito il relatore Giuseppe Berti – è la forma sovranazionale che assume nell’Europa occidentale il capitale monopolistico”. Solo negli anni tra il 1979 e il 1984, con l’adesione di Altiero Spinelli al Pci e con una serie di spostamenti direttamente ispirati dal segretario Berlinguer il Pci avrebbe capovolto la sua posizione trasformando- si in partito compiutamente europeista. Non si tratta solo dell’ennesima specificità del caso italiano. Tanto più negli anni della decolonizzazione, socialismo e patriottismo formavano davvero una coppia inscindibile. Ho Chi Minh spiegava così la straordinaria capacità del popolo vietnamita di resistere prima alla Francia e poi agli stessi Stati Uniti: “La nostra gente è ispirata da un ardente patriottismo che è una nostra irrinunciabile tradizione e la nostra più grande forza”. Il presidente Mao concordava: “Un comunista, per essere internazionalista, deve per forza essere un patriota”. L’elenco di dichiarazioni sulla medesima lunghezza d’onda, da Bela Kun a Thomas Sankara, sarebbe in realtà infinito. A lungo l’internazionalismo è stato interpretato a sinistra come rifiuto del tantativo delle singole nazioni di sottometterne altre, non delle differenze e delle specificità nazionali. Il citato articolo di Togliatti, del resto, mirava proprio a negare l’accusa di “cosmopolitismo” rivolta ai comunisti. Fassina prova dunque a recuperare una tradizione della sinistra storica a lungo considerata archiviata una volta per tutte ma che inevitabilmente torna in campo in una fase storica segnata proprio dalla reazione, non solo in Europa ma in Europa più che altrove, a un superamento degli Stati nazionali che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse. Non è certo un caso se due delle principali formazioni di sinistra in Europa, Podemos in Spagna e France Insoumise in Francia, ricorrono senza esitare a suggestioni patriottiche, sia pur declinate in senso molto diverso e spesso opposto a quello del sovranismo di destra di cui è principale esponente in Europa il premier ungherese Viktor Orban. Naturalmente c’è una distanza incommensurabile tra l’idea compiutamente reazionaria di patria che sbandiera l’ungherese e quella dello spagnolo Iglesias, che qualche anno fa spiegava: “La patria non è una spilletta sulla giacca, non è un braccialetto, la patria è quella comunità che assicura che si proteggano tutti i cittadini, che rispetta le diversità nazionali, che assicura che tutti i bambini, qualunque sia il colore della loro pelle, vadano puliti e ben vestiti a una scuola pubblica, la patria è quella comunità che assicura che i malati vengano assistiti nei migliori ospedali con le migliori medicine, la patria è quella comunità che ci permette di sognare un paese migliore”. Tuttavia un punto in comune c’è, e vistoso: quel nodo della sovranità nazionale che sembra essere la causa della crisi dell’Unione europea e invece di quella crisi è il prodotto.

Quel saggio su Proudhon con cui Bettino Craxi segnò la storia della sinistra in Italia. Nell’agosto del 1978 il segretario del Psi pubblicava sull'Espresso il "vangelo" del suo socialismo. Uno spartiacque per la sinistra di ieri. Un modello per gli aspiranti leader di oggi? Scrive Marco Damilano il 30 agosto 2018 su "L'Espresso". Il Vangelo socialista, lo titolò il direttore dell’Espresso Livio Zanetti, con malizia, perché dopo tanto girovagare il popolo socialista aveva finalmente trovato il suo messia: una buona novella, soprattutto per lui, l’autore del testo, il segretario del Psi Bettino Craxi. «Un baedeker ideologico e un argomento di discussione», si leggeva nel sommario, «il segnale d’avvio di un’offensiva destinata a tenere alta la temperatura tra il Pci e il Psi per molte settimane», precisava nell’introduzione Paolo Mieli, giornalista del settimanale di via Po, come ci chiamavano all’epoca sugli altri giornali, ma alla fine il saggio firmato da Craxi si rivelò molto di più. «Un colpo di fucile, o piuttosto di cannone», lo ha definito Ernesto Galli della Loggia, la rottura con il comunismo di matrice leninista ma anche gramsciana. Il taglio della barba del profeta Karl Marx, scrisse a botta calda Eugenio Scalfari su “Repubblica”: «L’articolo sull’Espresso segna una data storica nella vita del Partito socialista italiano». Uscì il 27 agosto 1978, quarant’anni fa, alla fine di un mese in cui era morto un papa (Paolo VI), era stato appena eletto un altro (il patriarca di Venezia Albino Luciani con il nome Giovanni Paolo I, morirà 33 giorni dopo), Mina aveva tenuto il suo ultimo concerto pubblico al Bussoladomani di Viareggio e la politica si apprestava a riprendere il suo cammino dopo i giorni del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro, le dimissioni del presidente della Repubblica Giovanni Leone, i referendum per abrogare la legge Reale sull’ordine e la sicurezza e soprattutto il finanziamento pubblico dei partiti, che aveva raccolto il 46 per cento dei sì nonostante la contrarietà di tutte le forze politiche tranne i radicali, ben più di un campanello d’allarme per il sistema politico. Vacillava il governo di solidarietà nazionale, il monocolore dc di Giulio Andreotti con il Pci in maggioranza, il Psi si era smarcato con due mosse clamorose, la rottura del fronte della fermezza con le Brigate rosse nel caso Moro e l’elezione di Sandro Pertini alla presidenza della Repubblica, il primo socialista al Quirinale. Ma il giovane segretario del Psi Craxi, 44 anni in quel momento, aspettava di fare un passo in più. La definizione di una nuova carta di identità: dire chi si è, prima ancora di cosa si vuole fare. Un manifesto ideologico, come nell’Ottocento. Curioso che a intestarsi la battaglia delle idee fosse un leader pragmatico, per nulla attratto dalle fumisterie teoriche, considerato spregiudicato e privo di scrupoli: Bettino l’Amerikano, il tedesco del Psi, come lo appellavano gli avversari. Se ne sorprese il vecchio Pietro Nenni che il 5 settembre annotava sul suo diario: «Continua la polemica aperta da Bettino sul marxismo e sul leninismo. Il partito cerca in essa una qualificazione che però potrà venire solo dai fatti». Più stupiti di tutti i comunisti, l’oggetto polemico del saggio craxiano. «Non si esita a dare versioni incredibilmente semplificate e unilaterali dell’esperienza storica del movimento operaio, a presentare un’immagine quanto mai riduttiva e sommaria di una personalità come quella di Lenin (e ancor di più di quella di Gramsci), e a tacere dell’elaborazione originale dei comunisti italiani», si lamentò Giorgio Napolitano sull’Unità. In linea con il giudizio dello storico Paolo Spriano: «Toni e espedienti idonei all’addestramento dei commandos delle teste di cuoio ma non al dibattito culturale». Ancora più brutale il vicecapogruppo del Pci alla Camera Fernando Di Giulio: «Perché Craxi ha scelto Proudhon, questo strano modesto pensatore francese? Secondo alcuni, perché ricorda una marca di champagne». Eppure era stato Enrico Berlinguer ad aprire lo scontro ideologico. Con una lunga intervista a Scalfari su Repubblica, il 2 agosto, in cui il segretario del Pci aveva rivendicato «la complessa eredità» del leninismo, affermando che «il Pci è nato sull’onda della rivoluzione proletaria dei soviet, e su impulso di Lenin»: «siamo continuatori, ma anche critici e interpreti» di quel «patrimonio ricchissimo e complesso». E aveva concluso: «La verità è che ci si vorrebbe sentir dire: ci siamo sbagliati a nascere, evviva la socialdemocrazia, unica forma di progresso politico e sociale. Allora i nostri esaminatori si direbbero soddisfatti: “la risposta è esatta, sciogliete il partito e tornatevene a casa”». Tra gli esaminatori, Berlinguer indicava il Psi di Craxi: «C’è una neo-vocazione a farci l’esame da parte dell’attuale gruppo dirigente socialista. È un fatto nuovo e preoccupante». Il direttore dell’Espresso Zanetti chiese una reazione a Craxi, il segretario socialista fece sapere che voleva pensarci, poi si ricordò di aver commissionato al giovane sociologo Luciano Pellicani un saggio su leninismo e socialismo per un volume dell’Internazionale socialista in onore di Willy Brandt. Quindici cartelle, le rimaneggiò personalmente prima di partire per le vacanze ad Hammamet e le spedì all’Espresso. «Avevo citato molti autori, ma Proudhon fece più effetto», ammise in seguito Pellicani. Pierre-Joseph Proudhon, vissuto tra il 1809 e il 1865, promotore di un socialismo anti-scientifico, liberale, anarchico, mutualista, contrario alla violenza. Chi avrebbe mai detto che sarebbe diventato lui il primo profeta del socialismo craxiano? Andò così, anche se nel saggio erano nominati tanti altri autori. Rosa Luxemburg, l’ex comunista jugoslavo Milovan Gilas, il francese Gilles Martinet, Bertrand Russell, Carlo Rosselli, Norberto Bobbio con il riferimento che chiudeva lo scritto: «Il socialismo è la democrazia pienamente sviluppata, dunque è il superamento storico del pluralismo liberale e non già il suo annientamento. È la via per accrescere e non per ridurre i livelli di libertà e di benessere e di uguaglianza». La sintesi delle idee di Pellicani, poi direttore di Mondoperaio, un pensatore in polemica con tutte le dottrine politiche dei “fini ultimi”, depositarie della salvezza e del paradiso in terra destinato a trasformarsi in un inferno per gli uomini, come lo descrive Giovanni Scirocco nel volume “Il vangelo socialista” (Aragno). Il saggio firmato da Craxi fu uno spartiacque per i rapporti a sinistra. «Nella sua polemica anti-marxista il segretario socialista arriva a Robespierre e ai giacobini della Rivoluzione francese, avesse avuto più spazio, c’è da giurare che nella sua condanna avrebbe coinvolto anche Rousseau. Ideologia e cultura a parte, la posizione di Craxi significa che l’unità a sinistra è rotta per sempre», profetizzò Scalfari, a ragione. Scontro ideologico e politique politicienne si tenevano insieme, all’interno delle pagine craxiane L’Espresso pubblicava un box sulla rottura tra comunisti e socialisti negli enti locali, a San Benedetto del Tronto, a Comiso, a Quartu Sant’Elena, dove il Psi mollava i comunisti per tornare alle giunte di centro-sinistra con i democristiani. Da Proudhon a Quartu, si anticipava il ritorno del Pci all’opposizione e il pentapartito degli anni ’80. E anche fenomeni di più lungo periodo: «Il Vangelo socialista dimostra quanto Craxi sia convinto della possibilità di spingere anche in Italia in direzione di un’americanizzazione del partito politico», commentò Paolo Franchi sul settimanale del Pci Rinascita. E Enzo Forcella su Repubblica: «Bastano poche paginette, qualche contrapposizione azzeccata tipo Proudhon e Marx, la scelta del momento e del canale giusti per segnare una data storica nella vita del Psi. Per quel che riguarda il modo di fare politica, stiamo soltanto ora entrando veramente nella dimensione delle comunicazioni di massa». Riletto oggi il saggio di Craxi appare irrimediabilmente datato per il linguaggio e per i contenuti, ma per nulla semplificatorio e superficiale, soprattutto se paragonato a quanto visto e letto nelle stagioni successive e in quella attuale, di svolte epocali annunciate via twitter. Nell’immaginario Craxi è ancora il Capo delle scenografie congressuali a forma di piramide, dei templi dorici e delle discoteche, del rampantismo vorace e insaziabile, di Tangentopoli. Ma in quel saggio lontano dell’ex presidente del Consiglio condannato e morto nel 2000 in Tunisia, sepolto in un piccolo cimitero accanto alla tomba di un francese ricoperta dalla sabbia e dalla salsedine, si ritrova un leader inserito in una formazione secolare, impegnato in una cosa antica e buona della politica: la tenzone delle idee, la svolta affidata a uno scritto che riconosce la storia precedente anche quando intende superarla. Un politico di sinistra, attrezzato ad affrontare lo scontro sul terreno ideologico, convinto che non esista una politica con l’ambizione di vincere senza un sistema di idee alle spalle. Un capo-partito che almeno all’inizio della sua avventura si era circondato di intellettuali, non di yesmen, ghostwriter, inventori di hashtag come oggi: la redazione raccolta attorno a Mondoperaio, intelligenze inquiete, competenze raffinate (Federico Coen, Luciano Cafagna, Paolo Flores d’Arcais, Ernesto Galli della Loggia, Giampiero Mughini, Luciano Pellicani), alcune pronte ad andarsene al primo segnale di degenerazione, in quella fase nascente del craxismo che è stata il momento più fecondo. Non era del resto una disputa teologica quella che voleva affrontare il quarantenne segretario del Psi, ma una dura battaglia di egemonia, di potere. Ma sapeva che un’idea, in politica, è l’arma più dirompente. Dopo ha pensato che per vincere servisse altro: soldi, poltrone, rendite di posizione non solo politiche. E ha cominciato a perdere, rovinosamente. Nel merito, su chi avesse ragione e torto tra Berlinguer e Craxi su leninismo e socialismo, fu lo stesso segretario del Pci tre anni dopo ad abiurare di fronte alle telecamere ammettendo all’indomani del colpo di Stato in Polonia che la spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre si era esaurita. Il Pci si è sciolto, senza diventare compiutamente socialdemocratico, come Berlinguer temeva nel 1978, e solo l’esperienza originale del comunismo italiano è riuscita a far trapassare il partito, l’organizzazione, i dirigenti oltre la fine del blocco sovietico. Ma il Psi di Craxi non è riuscito a costruire su quell’identità di socialismo liberale un’alternativa di sinistra (parola che nel saggio ricorre appena tre volte), fino ad arrivare alla dissipazione e alla scomparsa, qualcosa che pesa ancora sul nostro presente. Un vuoto che nessuno è riuscito a colmare, tantomeno gli epigoni craxiani slittati a destra, nel berlusconismo, come satelliti fuori orbita. La storia di una doppia sconfitta, catastrofica. Rousseau è ora il nome della piattaforma del Movimento 5 Stelle, ma del progetto politico non ha l’auto-coscienza, la consapevolezza di sé. Manifesti politici gli aspiranti leader ne producono spesso, un foglio di giornale o un libro da presentare in giro, ma sono nel migliori dei casi un’elencazione di cose da fare, un catalogo di wiki-programmi senza anima, i cento punti, i mille punti e via numerando. L’ultimo tentativo di stilare una carta di identità è stato il manifesto dei valori del Partito democratico di Walter Veltroni nel 2008, ma si è visto com’è andata. E si potrebbe concludere che questa è la modernità politica, vincere (e perdere) senza dire chi sei: pragmatismo puro, appiattimento sull’esistente. O arrivare alla conclusione opposta: che senza una visione della società, senza una lettura della realtà non si può costruire nulla di solido, come dimostrano le esperienze a sinistra degli ultimi 25 anni. Oggi il socialismo muore in Europa e risorge negli Stati Uniti, dove socialisti si definiscono i candidati più giovani del nuovo Partito democratico che prova a ricostruirsi nell’era Trump. Chissà se ci penserà qualcuno, nei prossimi mesi di congressi, di leadership da inventare, di una presenza culturale da ritrovare. E se qualcuno sbotterà: aveva ragione Craxi, maledizione, ci serve un Proudhon!

Craxi dagli osanna alla polvere. Memorie del socialismo, scrive Gaetano Cellura su Licata net il 5 agosto 2018. De Martino gli lasciò un partito al minimo storico. E su quel risultato influì anche la campagna elettorale del 1976. Condotta sulla falsariga che votare per il Psi o per il Pci fosse la stessa cosa. Pure Berlinguer diceva questo, ma perché gli conveniva: il successo del suo partito – un 34 per cento mai toccato prima – appariva fuori discussione. Così come l’assorbimento del Partito socialista e del suo elettorato. Ma nessuno aveva ancora fatto i conti con lui. Né a sinistra. Né dentro lo stesso partito. Dove la sua elezione a segretario, in un momento di forte scontro tra demartiniani e nenniani, venne considerata debole e di transizione. A chi si mostrava preoccupato per il calo elettorale del partito, Craxi rispose: “Tranquilli, con l’otto per cento si governa l’Italia”. E già da queste parole si capiva che non sarebbe stato affatto un segretario di transizione. La politica la conosceva e capiva sin da bambino. Da quando suo padre, viceprefetto di Milano e poi prefetto di Como, accompagnava gli ebrei al confine per metterli in salvo dai nazifascisti. Alle elezioni del 1948 faceva già propaganda per il padre, candidato con il Fronte democratico. Entrato in parlamento nel 1968, dopo l’esperienza di consigliere comunale a Milano, Bettino Craxi la sua Bad Godesberg l’aveva elaborata nella propria testa ancora prima della svolta del 1959 dei socialdemocratici tedeschi. E divenuto segretario del Psi uno dei suoi primi atti di revisionismo ideologico fu l’articolo pubblicato sull’Espresso e intitolato Il Vangelo socialista. Proudhon al posto di Marx. Rifiuto totale del leninismo. Eliminazione della falce e martello dal simbolo del Partito. “Il socialismo – scrisse – non coincide con lo stalinismo: è il superamento storico del pluralismo liberale, non già il suo annientamento”. Con lui nasceva finalmente il partito riformista che era sempre mancato all’Italia. E non è un caso – nulla in fondo è davvero casuale nella storia – che sette anni dopo la sua elezione a segretario e l’avvio di una nuova politica, Craxi sarà il primo presidente del consiglio socialista. Ora ne sono passati trentacinque da quel 4 agosto del 1983. Presidente della repubblica era un altro socialista, Sandro Pertini. E il Psi di Craxi era cresciuto di voti e di seggi – e ancora sarebbe aumentato nel 1987 – rispetto al partito in deperimento ereditato da De Martino. Non staremo qui a ripercorrere le tappe di quel governo pentapartito. Molto note e quasi tutte significative. Nella politica estera e nella politica interna. E neppure gli scontri durissimi con il Pci. Che riservò a quel governo un’opposizione mai vista verso i governi democristiani. Vogliamo solo ricordare come in un decennio sia radicalmente mutato l’umore degli italiani. E d’altra parte – piazzale Loreto docet – non era neppure la prima volta che un leader osannato finiva poi nella polvere. Non era la prima volta che il popolo si faceva tribunale e plotone d’esecuzione. Certo, di mezzo c’erano stati un fatto epocale, come la caduta del muro di Berlino, e la più grande inchiesta giudiziaria contro la classe politica a partire dal 1992. Ma la constatazione (non solo storica) che siamo un popolo di voltagabbana, bravo a rinnegare un sistema in cui si riconosceva ci sta tutta. Un popolo facile a passare dagli osanna al lancio delle monetine e al grido: “Chi non salta socialista è!” “Lanciatori di rubli” – li chiamava Craxi mentre usciva dall’hotel Raphaël. Certo d’esser vittima di un complotto comunista. Molti di quelli che lanciavano monete venivano da un comizio del Pds. E c’erano pure dei “moralizzatori” di altri partiti o schieramenti che avrebbero fatto politica nella seconda repubblica e sarebbero stati arrestati per corruzione. Il giorno prima nessuno aveva osato contestare il suo discorso in parlamento sul processo “storico e politico ai partiti che per lungo tempo hanno governato il paese”. E quattro delle sei richieste di autorizzazione a procedere furono respinte. Ciononostante Craxi venne lasciato solo. Parte di quel parlamento sperava in fondo di poterla far franca e che lui avrebbe pagato per tutti. E quanto agli italiani plaudenti di un tempo, forse erano sicuri che bastava il “lavacro del Raphaël” a ripulire anche loro. Gaetano Cellura

Craxi, il leader dimenticato che voleva un'Italia globale. Un saggio a più mani per ripensare un politico, travolto da Tangentopoli, che aveva una visione lungimirante, scrive Roberto Chiarini, Lunedì 07/05/2018, su "Il Giornale". La figura di Craxi è rimasta sinora ostaggio della polemica politica che ha individuato in lui l'icona prediletta per etichettare e combattere tutti i mali della politica italiana odierna. Il segretario del Psi è stato additato, di volta in volta, come l'emblema della dilagante corruzione partitocratica della Prima Repubblica, del diffondersi negli anni della «Milano da bere» dell'individualismo, dell'edonismo e del consumismo, del degrado morale della classe politica e dei partiti, della commistione perversa di politica, impresa e finanza, per non dire della personalizzazione della politica e della sua deriva leaderistica e autoritaria in atto. Talora si è andati ancor più per le spicce. Al leader socialista si sono ricondotti un po' tutti insieme questi vizi che a partire dagli anni Ottanta avrebbero fatto tralignare la Repubblica italiana in una democrazia a rischio, o meglio: di una democrazia a perdere. Raramente il politico Craxi è diventato materia su cui si sia seriamente esercitata la riflessione storiografica con quello spirito di comprensione del passato che, se non si deve tradurre in una sua piatta giustificazione, non può nemmeno risolversi in una sua mera esecrazione. Non è stata giudicata indispensabile una valutazione di merito del suo operare politico, delle motivazioni riconducibili al suo orizzonte ideale, delle scelte da lui operate, dell'impatto da queste esercitato nel breve e nel lungo periodo sul sistema politico e, più in generale, sul sistema Paese. Ne è conseguito il paradosso che Craxi, il fautore di un nuovo riformismo, il temerario fautore di una Bad Godesberg italiana sino allora rifiutata dalla sinistra nostrana, caparbiamente refrattaria alle implacabili repliche della storia, è stato relegato nel girone dei rinnegati. Al contrario Berlinguer, il comunista convinto, l'intemerato apostolo di una velleitaria quanto indeterminata «fuoriuscita dal capitalismo», è stato innalzato alla gloria dell'altare con l'aureola di santo protettore della sinistra, della sinistra di sempre, anche di quella seguita al crollo dell'Urss, destinata a prescindere totalmente dagli schemi classici della tradizione comunista, a divenire cioè riformista: fuor dai denti, di una sinistra chiamata a riconciliarsi col capitalismo. Ne discende il paradosso di una sinistra che, sintonizzatasi da ultimo - in ritardo di oltre mezzo secolo dal resto dell'Europa e solo dopo il collasso del socialismo reale - sulla lunghezza d'onda del riformismo, ha continuato a richiamarsi al magistero di un indefettibile profeta del comunismo e a rifuggire viceversa da un convinto fautore del socialismo democratico. C'è un secondo nodo storiografico e politico da sciogliere a proposito di Craxi. Quanti pensano di aver saldato, una volta per tutte, i conti con il leader socialista inserendolo come personaggio centrale nel grande romanzo criminale di Tangentopoli devono decidersi se lo vogliono inserire nella galleria dei leader storici della sinistra o viceversa in quella opposta, in quanto alfiere della destra in gestazione, tenuta poi a battesimo da Berlusconi. Non è una differenza di poco conto. È di tutta evidenza che a seconda della parte politica cui lo si attribuisce, cambia di segno la sua esperienza politica. Cambia il senso complessivo della sua attività di leader di partito e di capo del governo come pure quello dei suoi singoli atti. Sciogliere quesiti del genere significa non solo mettere a fuoco i tratti caratterizzanti di un leader di partito e capo di governo la cui azione ha contrassegnato un'intera stagione della vita pubblica nazionale. Comporta conferire altresì un diverso senso, orientamento e continuità alla storia repubblicana. Cambia di netto la prospettiva se si considera il craxismo l'apoteosi e insieme l'epilogo di una Repubblica dei partiti, depredatrice, collusa con poteri occulti e con settori malavitosi della società, fonte e fomite di corruzione, disposta persino a conculcare principi e istituti cardine della Costituzione pur di perpetuarsi come regime o viceversa l'avvio, stentato, contraddittorio, velleitario fin che si vuole ma pur sempre di una modernizzazione dell'impianto istituzionale e delle politiche - sia economica che di welfare - utili a riattrezzare e rivitalizzare una democrazia in crescente affanno di fronte alle impegnative sfide provenienti dalla società post-fordista e dalla globalizzazione. Quesiti cruciali e laceranti ieri come oggi, eppur irrisolti: il che dimostra come sia per questo carica di attualità, e per questo motivo ineludibile, una riflessione critica sull'azione di governo di Craxi in un'Italia che accusa ancor oggi un ritardo incontenibile, per usare un'espressione di Mauro Calise, «nel passaggio dal corporate millenium al secolo monocratico».

Quando Montanelli mi disse: “Caro Foa…” E gliene sono ancora grato, scrive Marcello Foa il 21 luglio 2018 su “Il Giornale". Il 22 luglio 2001 Montanelli ci lasciava e mi perdonerete se questa volta mi permetto un post personale e non di analisi politica. Indro fu l’idolo della mia adolescenza.  C’era chi sognava il Che Guevara e chi solo calciatori, io divoravo i suoi libri, leggevo i suoi articoli su il Giornale, che egli fondò quando ero bambino e se sono diventato giornalista lo devo, verosimilmente, a lui, perché fu Montanelli a far nascere in me la passione per quella che resta la più bella professione del mondo. Iniziai a Lugano, da studente lavoratore, alla Gazzetta Ticinese e poi al Giornale del Popolo. Non avevo tempo di andare all’università: studiavo a casa al mattino e al pomeriggio andavo in redazione, fino a tarda sera. Poi, quando avevo 26 anni, accadde il miracolo: fui assunto proprio al Giornale dal mio idolo e da subito con la carica di vice responsabile degli Esteri. Il primo giorno di lavoro bussai alla sua porta, per ringraziarlo, ancora una volta, per quella straordinaria opportunità. Indro usciva da una delle sue ricorrenti depressioni, era cordiale ma malinconico, mi guardò con i suoi occhi azzurri ancora velati dal male oscuro, fu cortese e alla fine mi disse: “Mi raccomando, non deludere”. Quegli occhi che con il passare delle settimane tornarono ad essere scintillanti. Da subito, poco più che pivello, partecipavo alle riunioni di redazione e fu lui a Presto fui messo alla prova sul campo. Mi mandò a Mosca poco prima del crollo dell’Unione sovietica e a Berlino a seguire la riunificazione economica delle due Germanie. Quando rientravo mi riceveva nella sua stanza, pregandomi di raccontare gli aneddoti, gli imprevisti, le emozioni che avevo provato in quei viaggi. Lo faceva con tutti noi, soprattutto con i più giovani, che erano i più entusiasti e per i quali dimostrava un’affettuosa simpatia, come se volesse rivivere, tramite i nostri palpitanti racconti, quei momenti, lui che divenne direttore suo malgrado e che nell’animo continuò a sentirsi innanzitutto un inviato speciale, forse il più grande di tutti i tempi. Poi, nel dicembre 1992, una sera pensai di scrivergli una lettera. Erano i tempi di Mani Pulite e l’Italia era attraversata da tensioni e trasformismi che mi turbavano e finita la lunga, nel cuore della notte, la vergai. Il giorno dopo gliela portai nel suo ufficio, che varcavo sempre in punta di piedi, in giovanile e ineludibile rispetto per il mio mito.  Indro la prese e, senza leggerla, la ripose sulla scrivania, congedandomi. Non mi aspettavo nulla e nulla mi fece sapere. Dopo due giorni la pubblicò nella rubrica più letta, quella in cui dialogava con i lettori, titolandola “Sul carro degli onesti” e aggiungendo una sola riga di commento: "Questa lettera, caro Foa, potrei averla scritta io". Il giorno dopo scesi in tipografia e recuperai l’originale con la frase scritta a penna di suo pugno. Sono passati quasi 25 anni da quel giorno e questo resta il riconoscimento più bello e fino ad oggi più intimo, non avendone mai parlato pubblicamente. Talvolta mi sorprendo a pensare cosa scriverebbe Montanelli di questa Italia se fosse ancora tra noi. Domanda sciocca: la storia non si fa con le ipotesi e Indro apparteneva al suo tempo. Però di una cosa sono certo: mai avrebbe approvato la violenza verbale di certa stampa e avrebbe denunciato con forza il conformismo intimidatorio, che ben conosceva avendolo subito per lunghi anni della sua carriera. Era un anarchico conservatore, ma soprattutto un uomo libero che riteneva doveroso per un giornalista pensare con la propria testa, soprattutto quando è scomodo e rischioso uscire dal coro, perché solo così si onora davvero la professione. Questo insegnava a noi, suoi giovani allievi, e non l’ho mai dimenticato.

(Marcello Foa, “Sul carro degli onesti”, lettera pubblicata sul “Giornale” del 21 dicembre 1992 dall’allora direttore Indro Montanelli, che in calce alla missiva aggiuse: «Questa lettera, caro Foa, potrei avrela scritta io». Lo rammenta lo stesso Foa, in un affettuoso ricordo che dedica a Montanelli sul blog “Il cuore del mondo”, pubblicato sul “Giornale” il 21 luglio 2018. Impegnato a denunciare le ipocrisie dei mediamainstream con saggi di successo come “Gli stregoni della notizia”, oggi Foa condanna l’ostracismo moralistico del vecchio establishment, ostile a Salvini e al sovranismo democratico “gialloverde”).

Caro direttore, ci risiamo. L’Italia opportunista, l’Italia che, come sempre è accaduto nella sua storia, è maestra nell’abbandonare i perdenti salendo sul carro dei vincenti, sta prevalendo ancora una volta, appropriandosi i risultati di quella che fino ad oggi era stata la battaglia della parte pulita del paese. Sembra un paradosso, eppure purtroppo non lo è. Ricorda com’era la situazione a febbraio, quando scoppiò lo scandalo della Baggina? Il regime era solido e potente, poteva ancora sperare di limitare i danni, di far apparire quella vicenda un episodio isolato attribuibile ai “mariuoli”, o addirittura di insabbiare tutto con la complicità di giudici compiacenti. Di Pietro non si lasciò intimidire e, se ha potuto proseguire arrivando dove tutti sappiamo, il merito in parte è anche nostro, di quella fetta dell’opinione pubblica che sin dall’inizio si è schierata con entusiasmo dalla parte del “giustiziere di Tangentopoli”. A febbraio eravamo in pochi a gioire e a combattere. Era l’Italia pulita, onesta, che non ama gli schiamazzi di piazza. Tra questi pochi c’erano in blocco i nostri lettori. Per qualche giorno, Di Pietro ci ha fatto rivivere le emozioni degli anni ‘70: si tifava per lui come si tifava per Montanelli contro la tracotanza dei comunisti e le pallottole delle Brigate Rosse. Ma oggi a quale spettacolo assistiamo? Sul carro della denuncia di Tangentopoli sono saliti tutti gli onesti e le persone per bene, certo, ma anche i corrotti, i furbastri, gli opportunisti. Insomma, il peggio del paese. Ed è proprio la loro voce a tuonare sempre più forte, surclassando quella dell’Italia dal volto pulito. Sono questi maestri della propaganda e del conformismo ad aver ispirato alcune delle recenti spettacolari iniziative e a coniare gli slogan più incisivi a sostegno dei giudici di Milano, così brillanti da far apparire naif è un po’ patetiche le scritte sui muri “Forza Di Pietro” che ci entusiasmavano la primavera scorsa. C’è da preoccuparsi. Quelle centinaia di persone che oggi gareggiano a chi urla nelle piazze gli insulti più virulenti contro i potenti caduti in disgrazia sono le stesse che fino a pochi mesi fa bazzicavano nelle anticamere del potere, nella speranza di partecipare alla spartizione del malloppo. Portaborse, intellettuali alla moda, giornalisti di regime, arrampicatori e affaristi. Il loro scopo è evidente: appropriarsi la bandiera dell’Italia onesta e introdursi nelle forze politiche emergenti (Lega, Rete, Msi, movimenti referendari) per continuare a fare quel che hanno sempre fatto ho sognato di fare: la dolce vita e le carriere facili a spese del paese. Ormai manca solo che anche mafiosi e camorristi esprimano solidarietà e appoggio a Di Pietro. Per questo, caro direttore, “Il Giornale” vada ancora una volta controcorrente, iniziando una di quelle battaglie per le quali i nostri lettori dal 1974 ci appoggiano con passione ed entusiasmo. Come nel 1988, quando svelammo lo scandalo dell’“Irpiniagate”. Come agli inizi degli anni 80, quando fummo i primi a denunciare la corruzione della partitocrazia e a invocare la riforma del sistema elettorale. Continuiamo a schierarci con Di Pietro, ma fuori del gregge dell’ormai gratuito “dipietrismo”. Lasciamo ad altri le chiassate di piazza e diamoci da fare per smascherare gli eterni furbi d’Italia.

Parnasi favoriva i politici. Parola di pm. Il Gip: "Finanziava i partiti per realizzare gli interessi del gruppo". Gravi accuse ma il suo entourage lo difende. Storia di un imprenditore rampante, scrive Valeria Di Corrado il 14 Giugno 2018 su "Il Tempo". Cambiare per restare uguali a se stessi. La seconda Repubblica ha lasciato il posto alla terza, la politica è diventata 2.0, al Governo sono saliti due leader populisti. Per i magistrati ci sono cose, però, che in Italia non mutano mai: come la corruzione che permea chi sta al potere. Anzi, con la crisi economica, ci si accontenta di poco per vendere la propria funzione pubblica. «Un modello di corruzione sistemica – spiegano i pm romani Paolo Ielo e Barbara Zuin – insensibile ai mutamenti politici e istituzionali», che si concretizza in tangenti «pulviscolari». Per la procura lo spiega con parole ancor più eloquenti l’imprenditore Luca Parnasi, che, dopo lo stadio della Roma, aveva in progetto di costruire quello del Milan. «Io spenderò qualche soldo sulle elezioni...che poi con Gianluca vedremo come vanno girati ufficialmente coi partiti politici. Anche questo è importante perché in questo momento noi ci giochiamo una fetta di credibilità per il futuro. Ed è un investimento che io devo fare, molto moderato rispetto a quanto facevo in passato, quando ho speso cifre che manco te le racconto...Però la sostanza è che la mia forza è che alzo il telefono e...». Non serve molta fantasia - lasciano intendere gli inquirenti - per capire come si conclude la frase di Parnasi, omissata nell’ordinanza...

Follie di casa nostra, scrive Mauro del Bue il 30-06-2018 su "Avanti On Line". Salvini, per rispondere a chi accusa la Lega dei 48 milioni spariti e non giustificati, dichiara che i soldi sono stati spesi. Resta il fatto di sapere come. Ma é troppo per un movimento che non è più lo stesso. La Lega non è più la Lega nord. Dunque che c’entrano loro anche se sono quelli di prima? Parnasi, il costruttore dello stadio della Roma che per ora é come l’araba fenice, sostiene, con minuzia di particolari, di aver pagato tutti i principali partiti per farseli buoni. Non certo il Psi e neppure i radicali. Tutti, compreso il movimento Cinque stelle hanno intascato denaro dell’imprenditore che doveva tenersi buoni i politici, attraverso le rispettive fondazioni e anche direttamente. Neanche pochi. Per la Lega sarebbero 250mila euro, 130 per il Pd, non si conosce la cifra esatta per i grilliini concordata col grande brasseur d’affaires che era questo Lanzalone, ancora in carcere. Il Tevere emana uno strano odore. Non sarà la prima volta, ma stavolta inaspettato e improvviso. Il primo ministro Conte partecipa da avvocato al vertice di Bruxelles e viene preso in giro da Macron che gli vorrebbe insegnare come si legge un ordine del giorno, poi dal premier svedese Stefan Loften, che gli ricorda d’aver fatto il saldatore, mentre quello bulgaro ha subito aggiunto il suo mestiere precedente: il pompiere. Meno male che il presidente del Consiglio italiano non era Di Maio. Cosa avrebbe dichiarato? Conte si é detto soddisfatto all’80 per cento dei risultati e nessuno ha capito perché. Si é portato a casa 500milioni contro i tre miliardi della Turchia e l’impegno degli altri paesi ad approntare campi di accoglienza, ma su base volontaria. Cioè nulla, giacché gl impegni solenni già non si mantengono. Figurarsi quelli su base volontaria. Intanto sul Mediterraneo si continua a morire. Un’imbarcazione al largo delle coste libiche é naufragata e cento persone sono morte nell’indifferenza generale. Tre cadaveri di bambini sono stati recuperati. La colpa non sarà del governo italiano, ma questa indifferenza alla sorte di uomini, donne e bambini che fuggono dalla miseria é allucinante. Chiudere i porti e criminalizzare tutte le Ong dove ci porterà? Meno male che Giggino Di Maio si é portato a casa i vitalizi, la cui modifica, con l’introduzione del contributivo integrale che non solo non si applica a nessun’altra categoria di pensionati, ma non si applica nemmeno ai senatori, verrà bocciata perché contiene larghi tratti di incostituzionalità. Serve per recuperare 40 milioni, 8 in meno di quelli che si è fottuti la Lega, ma Di Maio, che considera ladri non Lanzalone, né quelli che hanno preso i soldi da Parnasi, ma gli ex deputati che hanno fatto la storia della nostra democrazia, gongola contento. Salvini respinge i migranti, lui ruba ai ladri (tranne a quelli di casa sua). Un furbone.

Parnasi ai magistrati, "ho pagato tutti i partiti". Il costruttore ammette le dazioni per accreditarsi, scrive la Redazione ANSA il 28 giugno 2018. "Ho pagato tutti i partiti". E' quanto avrebbe confermato agli inquirenti Luca Parnasi, il costruttore romano interrogato per quasi 11 ore nell'ambito dell'inchiesta sul nuovo stadio della Roma. Nel corso dell'interrogatorio, l'indagato avrebbe ammesso di avere elargito denaro alla politica per tornaconto personale, per accreditarsi, per avere rapporti con tutti i partiti. E' terminato l'interrogatorio, durato complessivamente 11 ore, di Luca Parnasi, figura chiave dell'indagine della Procura capitolina sul nuovo stadio della Roma. Dopo la prima tranche di ieri che si è protratta fino alle 22, oggi nuovo confronto tra il costruttore e i pm di piazzale Clodio durato circa cinque ore. L'atto istruttorio si è svolto nel carcere di Rebibbia dove Parnasi si trova detenuto dopo il trasferimento dal San Vittore di Milano. Primo faccia a faccia tra il costruttore e i pm capitolini - In una saletta del carcere di Rebibbia, si è svolto il primo confronto tra il costruttore Luca Parnasi e i pm della Procura capitolina che hanno chiesto il suo arresto nell'ambito dell'inchiesta sul nuovo stadio della Roma. Un atto istruttorio voluto dallo stesso Parnasi e che potrebbe rappresentare un punto di svolta nella maxinchiesta dei pm di piazzale Clodio. L'imprenditore, accusato anche di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, aveva infatti scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere davanti al gip nell'interrogatorio di garanzia, svolto dopo il suo arresto a Milano. Un lungo faccia a faccia con gli inquirenti che puntano a chiarire il "sistema Parnasi", ossia quel meccanismo di finanziamento ai partiti, organizzazioni, associazioni e onlus che il 40enne romano ha fatto diventare una sorta di 'core business' della sua attività imprenditoriale. Questa prima tranche dell'interrogatorio avrebbe riguardato le contestazioni presenti nell'ordinanza di custodia cautelare, il suo ruolo nella società Eurnova e il rapporto con Luca Lanzalone, l'ex presidente di Acea, e consulente "di fatto" del Comune di Roma nella trattativa, datata gennaio-febbraio del 2017, per l'abbattimento delle cubature nel progetto stadio. Domani l'atto istruttorio potrebbe approfondire la pulviscolare attività di erogazione di denaro al mondo della politica, che avveniva spesso in modo del tutto tracciabile ma sulla quale i pm vogliono andare fino in fondo. Un approccio quello di Parnasi che emerge spesso nelle carte dell'inchiesta. "Io pago tutti", ammette Parnasi in una delle tante intercettazioni presenti negli atti. "Un investimento molto moderato - ammette in un altro dialogo registrato - rispetto a quanto facevo in passato quando ho speso cifre che manco te racconto però la sostanza è che la mia forza è quella che alzo il telefono...". In base all'impianto accusatorio, il gruppo Parnasi avrebbe garantito finanziamenti a molte formazioni politiche o ad organizzazioni ad esse vicine. Nelle carte vengono citati i 250 mila euro erogati, tramite una società del gruppo, all'associazione "Più Voci" vicina alla Lega. E' lo stesso Parnasi ad ammettere nelle intercettazioni il suo modus operandi. In un dialogo si lamenta del fatto di dover "elargire somme ai politici" per avere "le autorizzazioni". In una informativa i carabinieri scrivono che "nella conversazione sul finanziamento ad esponenti politici, Parnasi indica nominativi e quote da corrispondere: Francesco Giro 5 (5000 euro), Ciocchetti 10 (10 mila euro), Buonasorte 5 (5000 euro): allo stato non e' chiaro se Parnasi stia parlando di finanziamenti leciti o meno, anche se il riferimento a fatture emesse a giustificazione dell'erogazione lascia presumere la natura illecita della stessa", annotano gli investigatori. In un passaggio il costruttore precisa: "domani c'ho un altro meeting dei Cinque stelle, perchè pure ai Cinque Stelle gliel'ho dovuti dare".

Marco Travaglio: “Tangentopoli, embè?”, scrive Marco Travaglio – il Fatto Quotidiano del 30 giugno 2018 – “Soldi a tutti i partiti”, “Ho pagato tutti i partiti”, “Mazzette a tutti da sempre”. Chi legge i titoli sull’interrogatorio fiume di Luca Parnasi, il palazzinaro romano arrestato per corruzione sul nuovo stadio della Roma e altri affari, dirà: oddio, adesso chissà che succede. Invece è molto probabile che non succeda niente o quasi in aggiunta alla retata di metà giugno. Eppure i fatti sono gravissimi. Un imprenditore che contratta con la Pubblica amministrazione, cioè con partiti o loro emissari, non dovrebbe poter pagare nessuno di coloro che ha trovato o che troverà dall’altro capo del tavolo delle trattative per affari che lo riguardano. E nessun partito dovrebbe poter ricevere denaro da imprenditori che hanno ricevuto o riceveranno appalti dai suoi amministratori. Ma purtroppo, per le nostre leggi, non è così. Non sempre i fatti gravi – quando a commetterli sono colletti bianchi – coincidono con i reati, soprattutto nell’Italia post-1992-’93 che, anziché darsi gli anticorpi contro il riprodursi di Tangentopoli (lo scandalo), si è data quelli contro il ripetersi di Mani Pulite (l’inchiesta). In una parola: ha legalizzato le mazzette. Vedremo cosa dirà la Cassazione quando esaminerà i ricorsi degli arrestati. C’è la questione giuridica, non da poco, della figura del superconsulente dei 5Stelle Luca Lanzalone, ritenuto da pm e gip un “pubblico ufficiale di fatto” perché delegato dalla sindaca Raggi di seguire il dossier stadio e poi nominato presidente della società mista Acea. Se la Corte confermerà quel ruolo, l’accusa di corruzione reggerà. In caso contrario, senza il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, crollerà, anche se il fatto (gravissimo) sarà accertato: e cioè che, mentre trattava o dopo aver trattato con Parnasi sullo stadio per il Comune, Lanzalone accettò consulenze legali per le società del costruttore per oltre 100 mila euro. A quel punto i pm potrebbero ripiegare sul traffico d’influenze, reato tipico del mediatore che chiede soldi o altri vantaggi per raccomandare il privato al pubblico ufficiale. Però quel reato non prevede intercettazioni né manette, dunque bisognerebbe pure chiedere scusa agli arrestati. L’accusa di corruzione riguarda una miriade di politici locali del Pd, di FI ecc. che da Parnasi avrebbero ricevuto denaro o altre utilità (qualche migliaio di euro o la promessa di assunzione di un figlio). Essendo politici, assessori o consiglieri comunali o regionali, non c’è dubbio che siano pubblici ufficiali: ma bisognerà dimostrare il “nesso causale” fra soldi (o favori) ricevuti e decisioni assunte a favore di Parnasi. Decisioni – quelle sullo stadio – che la Procura ritiene corrette. È vero che la Cassazione considera corrotto anche l’amministratore pubblico che sta sul libro paga di un privato non in cambio di questo o quell’atto, ma una volta per tutte, “a disposizione”. Ma l’asservimento permanente di un politico non può valere poche migliaia di euro. Infatti i legali di Parnasi sostengono che quelle di Parnasi ai politici non erano mazzette, ma finanziamenti elettorali (in parte leciti perché dichiarati, in parte illeciti perché in nero) per avere buoni rapporti con tutti ed evitare che qualcuno si mettesse di traverso. Due anni fa, su Libero, Franco Bechis pubblicò la lista dei politici romani finanziati da Parnasi in campagna elettorale: erano di tutti i principali partiti di centrosinistra e centrodestra, salvo i Radicali e il M5S (che infatti lo costrinsero a dimezzare il mega-progetto dello stadio rispetto a quel monumento alla speculazione che era l’iniziale progetto Marino-Caudo). È normale che un palazzinaro che vuol costruire uno stadio sui propri terreni e, per farlo, necessita del via libera del Comune e della Regione, paghi le campagne elettorali a chi quel via libera ha dato o dovrà dare? No, è una vergogna: eppure era tutto lecito, tant’è che Bechis aveva tratto quelle informazioni da fonti “aperte”. Ora si scopre che Parnasi finanziò pure il Pd con 50 mila euro per la campagna elettorale di Sala (che lo ringraziò), visto che a Milano voleva realizzare il mega-stadio del Milan; versò 150 mila euro alla fondazione Eyu, legata al Pd renziano; e ne scucì 200 mila alla onlus leghista Più Voci. E il bello (si fa per dire) è che quasi certamente è tutto lecito, anche se l’abbiamo scoperto perlopiù dalle intercettazioni: perché onlus, fondazioni & altre casse occulte dei partiti possono coprire i loro finanziatori con la privacy. Non solo: partiti e singoli politici, grazie alla legge del governo Letta, possono non dichiarare finanziamenti fino a 100 mila euro se i donatori chiedono l’anonimato. Intervistato dal Fatto, il sottosegretario leghista Giorgetti ha detto che occorreva cambiare la legge e il vicepremier Di Maio ha promesso nuove norme sui fondi a partiti, politici, fondazioni, onlus e altre opere pie per imporre trasparenza assoluta. Se possiamo permetterci, suggeriremmo una norma di tre articoli semplici semplici:

1. “Il partito o il politico o l’associazione a essi legata che riceve fondi superiori a 10 euro deve dichiararli in un apposito registro presso la segreteria del partito, o l’assemblea o l’organismo in cui il politico è stato eletto o candidato, o nel bilancio della società.

2. Il privato che finanzia partiti, politici o associazioni a essi legate deve registrare i contributi nei bilanci della sua società o nella dichiarazione dei redditi e non potrà contrattare né operare con la PA nei 10 anni successivi.

3. Chi contravviene agli articoli 1 e 2 commette il reato di illecito finanziamento dei partiti, punibile col carcere fino a 10 anni e, se esercita pubbliche funzioni, decàde subito e diventa ineleggibile in perpetuo. Se si tratta di un partito, perde i finanziamenti pubblici diretti e indiretti ed è escluso dalle successive elezioni”.

Tutto il resto è chiacchiera. […]

Le mani sulla città? Macché: stadiopoli è un film di Monicelli…Presunte mazzette pagate via bonifico e un paio di assunzioni. Nell’inchiesta romana però manca una cosa: la pistola fumante…, scrive Davide Varì il 15 giugno 2018 su "Il Dubbio". C’è l’imprenditore che “unge” gli ingranaggi, i politici e i burocrati che si fanno oliare e c’è l’immancabile faccendiere. Anzi due: l’eterno Luigi Bisignani e Luca Lanzalone, l’uomo di Grillo e Di Maio: il famigerato “Wolf risolvo problemi”, premiato dai grillini con la presidenza dell’Acea. E c’è addirittura il controllo dell’informazione, rappresentata, pare, da un giovane cronista di Dagospia al quale era stato gentilmente chiesto di correggere un articolo sulla vita privata di Lanzalone. Insomma, in uno scenario degno del miglior Gianfranco Rosi di Mani sulla città, nell’inchiesta “stadiopoli” dei pm romani non manca quasi nulla. C’è solo una cosa che non si riesce a trovare, a mettere a fuoco: la famosa pistola fumante, la prova provata della corruzione. E’ chiaro che chiunque mastichi un po’ di diritto sa che la prova prende forma in dibattimento. Dunque il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, lo stesso che ha combattuto e perso nel processo Mafia capitale, avrà modo e tempo di mostrare ai giudici, imputati e pubblica opinione quale sia la prova madre dell’inchiesta “stadiopoli” e come si concretizzi quel «sistema pulviscolare» che, come un «crescendo rossiniano» (parole dei pm) ha infettato Roma. Perché scorrendo tra le centinaia di pagine dell’ordinanza, non è chiarissimo quale sia il centro del sistema corruttivo. Si parla di passaggi di soldi: ma tutti bonificati e rendicontati: e di certo sarebbe la prima volta di mazzette via Iban. E se davvero fosse così, altro che Gianfranco Rosi: ci troveremmo dentro I soliti ignoti di Monicelli. L’altro capitolo riguarda i favori: posti di lavoro promessi per amici e congiunti ma, tranne nel caso del figlio dell’ex assessore Civita, niente più che promesse. In ogni caso, come in tutti i “film” politico- giudiziari degli ultimi anni, tutto ha inizio con un’intercettazione. Nel foglio numero 9 dell’ordinanza viene infatti riportato il colloquio tra Luca Parnasi, il centro del “sistema pulviscolare”, e il suo collaboratore Gianluca Talone: «Io – spiega Parnasi – spenderò qualche soldo sulle elezioni. È un investimento che devo fare, molto moderato rispetto a quanto facevo in passato, quando ho speso cifre che manco te lo racconto”. Non solo, gli stessi pm sono costretti ad ammettere (foglio numero 11) che i “finanziamenti talvolta hanno natura lecita». Poi c’è la politica. Il primo obiettivo è il capogruppo 5Stelle in Campidoglio Paolo Ferrara. Il consigliere grillino che aveva un posto nel tavolo per l’approvazione dello Stadio, avrebbe “ricevuto”, non soldi, ma un progetto di restyling per il lungomare di Ostia. Il che lascerebbe pensare che “il Ferrara” abbia aziende a cui affidare l’eventuale appalto. Macché, Ferrara non ha niente di niente ma i magistrati sanno bene che il solo nome di Ostia evoca alla mente dell’opinione pubblica il clan Fasciani e quello degli Spada, che peraltro sono tutti in “gattabuia”. D’un tratto, e non si sa bene come e perché, tra le pagine dell’ordinanza spunta anche il nome di Roberta Lombardi, un pezzo grosso dei 5Stelle. Un nome speso dai pm per mettere in luce il livello di pervasività «del Parnasi». Ma nelle carte non emerge nulla di illecito: se non un incontro – che sarà il primo e l’ultimo – avvenuto in Parlamento. Ma per i pm tanto basta a classificarlo come «attività di promozione in favore del candidato alla Regione, Roberta Lombardi». Ma anche qui, ovviamente, non c’è neanche l’ombra di una mazzetta. E in questo caso neanche di un “restyling”. Poi c’è il lungo capitolo del presidente dell’Acea Lanzalone, l’uomo della Casaleggio, il bersaglio grosso della procura. Secondo i pm Lanzalone «svolgeva le funzioni di assessore per lo stadio». E nell’ordinanza il gip va oltre: «Le indagini hanno offerto elementi concreti per ritenere che le figure istituzionali interessate, a cominciare dal sindaco Raggi, non solo hanno tollerato tale funzione di fatto esercitata, ma al contrario le hanno dato piena legittimazione». Insomma, Lanzalone, nel disegno dei pm, è l’uomo che conduce alla sindaca Raggi, la quale, sempre secondo i pm, era a conoscenza del “sistema pulviscolare”. Infine c’è la questione Lega. Anche qui la posizione dei pm non è chiarissima. Si parla di un finanziamento all’associazione “Più voci”, vicina al Carroccio. Ma qui i pm, almeno per il momento, si limitano alla censura morale. Insomma, l’unica, evidente pistola fumante emerge dalla penosa vicenda dell’ex assessore regionale Michele Civita il quale, senza più lo straccio di una poltrona, chiede e (forse) ottiene da Parnasi un posto di lavoro per il figlio disoccupato. E qui si staglia il faccione grottesco di Alberto Sordi nella commedia all’italiana. Altro che Mani sulla città.

Il Pantheon dei capri espiatori. La storia politica dell’Italia repubblicana raccontata attraverso l’odio per il singolo, scrive Francesco Damato il 17 Aprile 2018 su "Il Dubbio". L’articolo di Angela Azzaro in difesa del Pd, e del suo ex segretario, diventato la sentina di tutti i mali della politica e persino della società italiana dopo i risultati elettorali del 4 marzo, mi ha fatto tornare alla mente un po’ di capri espiatori nella storia più che settantennale ormai della Repubblica. Tutto sommato, Matteo Renzi può sentirsi in buona compagnia, pur con tutti gli errori che ha sicuramente compiuti, compreso quello che personalmente gli ho più volte rimproverato di avere negato il Pantheon della sinistra riformista italiana a Bettino Craxi. Di cui pure, volente o nolente, lui ha ripercorso alcune tappe nell’azione di partito e di governo, persino quelle delle reazioni più scomposte e indegne dei suoi avversari, che ne hanno sognato l’arresto, sprovvisto com’era prima dell’elezione a senatore di Scandicci, di quel poco che è rimasto della vecchia immunità parlamentare. O lo hanno più semplicemente scambiato per un aspirante tiranno, come fece appunto con Craxi nel 1983 l’allora segretario del Pci Enrico Berlinguer. Che pure Renzi è tornato anche di recente a preferire al leader socialista nella galleria della sinistra.

Nel 1953 il ruolo del capro espiatorio toccò addirittura al protagonista della ricostruzione post- bellica del Paese: Alcide De Gasperi. Al quale non fu rimproverata, per quanto neppure scattata nelle elezioni di quell’anno, una legge chiamata “truffa” perché contemplava un premio di maggioranza in Parlamento per chi avesse raccolto il 50 per cento più uno dei voti. Roba da ridere rispetto ai premi adottati o tentati durante la cosiddetta seconda Repubblica. Il povero De Gasperi subì l’onta della sfiducia parlamentare ad un governo appena formato, l’ottavo della sua storia personale, e si ritirò fra le montagne del suo Trentino per morirvi praticamente di crepacuore. E ciò mentre il suo successore alla guida della Dc, l’allora giovane Amintore Fanfani, si vantava di essere stato da lui stesso aiutato a subentrargli. «Una fantasia», soleva commentare a labbra strette Giulio Andreotti, che di De Gasperi era stato il braccio destro.

Toccò poi al medesimo Fanfani diventare il capro espiatorio di una rivolta di partito che lo estromise contemporaneamente da segretario, da presidente del Consiglio e da ministro degli Esteri. Furono utilizzati contro di lui persino alcuni incidenti ferroviari per dargli del menagramo. E appendergli in fotografia al collo un corno, come fece in una copertina un settimanale allora in voga – Il Borghese – fondato da Leo Longanesi.

Aldo Moro, succeduto a Fanfani come segretario della Dc nel 1959 e poi anche come presidente del Consiglio alla testa, nel 1963, del primo governo “organico” di centrosinistra, con tanto di trattino, divenne nel 1968 il capro espiatorio del mancato successo elettorale dell’unificazione socialista. Che pure lui aveva cercato di favorire, fra le proteste della maggiore corrente della Dc, quella dei “dorotei”, sponsorizzando nel 1964 l’elezione del suo ministro degli Esteri Giuseppe Saragat al Quirinale. Dove peraltro qualche mese prima il democristiano Antonio Segni era stato colto da ictus in un alterco proprio con Saragat. Fu proprio la mancanza dell’appoggio di Saragat, nell’estate del 1968, a determinare l’allontanamento di Moro da Palazzo Chigi. «Non lasciatemi morire con Moro», si lasciò supplicare quell’estate Pietro Nenni, che ne era stato il vice al vertice del governo. Estromesso dalla presidenza del Consiglio per convergenza di interessi e risentimenti democristiani e socialisti, Moro divenne il bersaglio persino del coltissimo ed ecumenico Giovanni Spadolini. Che da direttore del Corriere della Sera ne contestò in un fondo domenicale il voto espresso nella competente commissione della Camera a favore di un emendamento comunista alla riforma degli esami di Stato, approvato per garantire la promozione dello studente in caso di parità di giudizi. In quel voto Spadolini vide addirittura tracce o indizi della Repubblica conciliare, anticipatrice di quello che sarebbe poi diventato con Berlinguer il progetto del “compromesso storico”. Ricordo ancora lo sconforto confidatomi da Moro per essere stato frainteso da un professore universitario dimentico – mi disse l’ex presidente del Consiglio – che anche un imputato va assolto a parità di voti. Debbo dire che poi Moro, quando gli capitò da presidente del Consiglio, in un bicolore Dc- Pri con Ugo La Malfa, di far nominare Spadolini ministro gli ‘ regalò’ – mi disse – il Ministero dei Beni Culturali fornendogli con un decreto legge il portafogli di cui quel dicastero non disponeva ancora. Dopo tre anni Moro, nel frattempo detronizzato di nuovo da Palazzo Chigi, sarebbe stato sequestrato e ucciso dalle brigate rosse. Il capro espiatorio anche di quella vicenda, e non solo di un presunto deterioramento dei rapporti fra società civile e politica avvertito dal Pci nei risultati stentati di un referendum contro la legge che disciplinava il finanziamento pubblico dei partiti, fu Giovanni Leone. Il quale fu costretto dalla mattina alla sera a dimettersi da presidente della Repubblica, quando mancavano solo sei mesi alla scadenza del mandato quirinalizio.

Così il povero Leone pagò pure, o soprattutto, la colpa di essersi messo di traverso alla linea della fermezza adottata dal governo di fronte al sequestro del presidente della Dc. Di cui invece il capo dello Stato aveva voluto tentare uno scambio predisponendo la grazia per Paola Besuschio, compresa nell’elenco dei tredici detenuti che i terroristi avevano chiesto di liberare per restituire vivo l’ostaggio.

Il turno successivo di capro espiatorio toccò ad Arnaldo Forlani, dimessosi da presidente del Consiglio nel 1981 per le liste della loggia massonica P2 di Licio Gelli, in cui c’era anche il nome di un prefetto che era il suo capo di Gabinetto. Poi Forlani dovette difendersi in una causa alla Corte dei Conti per i danni subiti dai massoni, e risarcibili dallo Stato, a causa della diffusione delle liste, per quanto avvenuta d’intesa tra il governo e la competente autorità giudiziaria. Una vicenda tutta italiana per confusione, caccia alle streghe e quant’altro.

Decisamente più drammatica fu, come capro espiatorio, la sorte di Bettino Craxi, perseguito con «una durezza senza uguali», certificata dopo anni con lettera dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano alla vedova, per il finanziamento illegale della politica, e reati connessi. Come se Craxi non avesse ereditato ma inventato lui quel fenomeno, per giunta coperto nel 1989 con un’amnistia che aveva consentito a un bel po’ di politici di farla franca.

Giulio Andreotti divenne invece negli stessi anni il capro espiatorio delle carenze nella lotta alla mafia, per quanto il suo ultimo governo avesse trattenuto con un decreto legge di controversa costituzionalità un bel po’ di mafiosi che avevano maturato il diritto di uscire dal carcere. E avesse arruolato al Ministero della Giustizia, proprio per la lotta alla mafia, un campione come il giudice Giovanni Falcone, eliminato per questo dai criminali con la strage di Capaci. Processato, in sovrappiù, ed assolto anche per il delitto Peccorelli, il sette volte presidente del Consiglio, nonché senatore a vita di nomina quirinalizia avendo «illustrato la Patria – secondo la formula dell’articolo 59 della Costituzione – per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario», si è portata nella tomba l’onta, ancora rimproveratagli ogni volta che gli capita dal pubblico accusatore Gian Carlo Caselli, di una prescrizione del reato di associazione a delinquere, prima che diventasse concorso esterno in associazione mafiosa. Da cui in ogni modo Andreotti fu assolto, per ammissione anche di Caselli.

Passati dalla prima alla seconda Repubblica, ci siamo dovuti accontentare, sempre nel campo politico, di capri espiatori, diciamo così, più alla buona. Come il povero Achille Occhetto, sostanzialmente deposto nel 1994 da Massimo D’Alema al vertice dell’ex Pci per la sorprendente e strepitosa vittoria elettorale conseguita sulla sinistra dall’esordiente Silvio Berlusconi. E poi lo stesso Berlusconi per le sue abitudini di vita non da seminario, o per i suoi affari, analoghi a quelli di tutti gli altri imprenditori della sua stazza finanziaria, o persino per le speculazioni subite dai titoli del debito pubblico italiano nell’estate del 2011, quando irruppe sulla scena il loden austero di Mario Monti.

Il ruolo di capro espiatorio è inoltre toccato a D’Alema per essere subentrato nel 1998 a Romano Prodi senza passare per gli elettori con le elezioni anticipate, e per una certa spocchia rimproveratagli a volte a ragione ma a volte anche a torto.

Il povero Fausto Bertinotti, a dispetto delle buone maniere che tutti gli riconoscono, è stato buttato dal mio amico Giampaolo Pansa tra le fiamme come ‘ il parolaio rosso’ per non aver voluto a suo tempo sostenere i governi Prodi oltre le loro materiali capacità di resistenza politica.

Walter Veltroni divenne nel 2009 il capro espiatorio di alcuni rovesci locali del Pd da lui stesso fondato due anni prima, scampando al torto più consistente e per lui dannoso di essersi apparentato a livello nazionale nelle elezioni del 2008 con Antonio Di Pietro, subendone la linea. Matteo Renzi chiude, per ora, la lista per le rottamazioni sbagliate, o per quelle incompiute. E per sopravvivere fisicamente alle sue dimissioni da segretario del Pd dopo la sconfitta del 4 marzo. Già, perché la sua stessa presenza fisica sembra infastidire i vecchi e nuovi avversari politici. E’ incredibile ma vero in questo Paese che continua a chiamarsi Italia.

Vittorio Feltri e la tragica verità su Bettino Craxi: "Ho dato io il via alla caccia del Cinghialone, ma...", scrive il 19 Settembre 2018 "Libero Quotidiano". Pubblichiamo un capitolo del libro del direttore Vittorio Feltri "Il borghese. La mia vita e i miei incontri da cronista spettinato", in libreria per Mondadori. Si tratta del ricordo di Bettino Craxi: dal Raphael alla morte ad Hammamet. Conobbi Bettino Craxi nel periodo in cui collaboravo con Enzo Biagi nel suo programma tv. Erano gli anni Ottanta. Quella sera erano ospiti della trasmissione sia Craxi sia Gianni Agnelli. Quest' ultimo indossava un vestito grigio di flanella, calzava scarpe di camoscio, un paio di Clarks, e se ne stava seduto con le gambe divaricate come fosse un cowboy tornato a casa sfinito dalla cavalcata. Bettino, che gli era accanto, invece, era abbigliato come un manichino, eppure alla vista risultava sciatto. Non era una trasandata eleganza la sua, che pure sarebbe stata chic, sembrava più pigrizia nel selezionare i capi. Craxi era alto quasi due metri e corpulento, il suo aspetto da gigante mal si conciliava con la pacatezza e la cordialità dei modi. Era affabile persino con me, che ero un semplice autore che si muoveva dietro le quinte. Restai colpito e affascinato dal suo essere mellifluo. Allorché alcuni anni dopo andai a dirigere L' Europeo, feci un titolo riferito proprio a Bettino: Figlio di un dio minore. Craxi non godeva di un numero esorbitante di voti, eppure comandava l'Italia. La titolazione non suscitò molte proteste. Anche il mio editore, la Fiat, non ebbe nulla da ridire al riguardo, del resto era cosa nota che i rapporti tra la casa editrice e Bettino non fossero propriamente idilliaci. A quell' epoca Dc e Psi iniziavano a perdere appeal mentre il consenso alla Lega, su cui nessuno avrebbe scommesso un soldo, lentamente cresceva. Intuivo che si stava apprestando un cataclisma. E così fu così. Ero appena passato alla direzione dell'Indipendente quando scoppiò il caso "Mani pulite". Il sostituto procuratore Antonio Di Pietro condusse le indagini che si estesero fino a inglobare esponenti politici di rilievo, tra cui Bettino Craxi, che finì sotto tiro e divenne l'emblema del malaffare. Scrissi che sarebbe stato opportuno acciuffare "il cinghialone", che era appunto il leader dei socialisti. Lo battezzai io con questo simpatico epiteto, che peraltro gli calzava a pennello considerata la sua mole. Da quel momento, per tutti Craxi fu "il cinghialone" e fu davvero perseguitato. Sembrava insomma che l'unico ladro fosse lui, eppure tutti i partiti, incluso quello comunista, si facevano finanziare. Il caprone espiatorio - Il caprone espiatorio di Mani pulite un bel dì mi telefonò chiedendomi un incontro. Il suo tono era intimo, quasi disperato, diceva che voleva assolutamente parlarmi di persona. Quindi mi scomodai e raggiunsi la capitale un po' impietosito da quell' uomo che io avevo contribuito a mettere alla gogna e un po' incuriosito dal vis-à-vis con la bestia. Il cinghialone mi aspettava presso l'hotel Raphaël, nel quale si favoleggiava che Bettino avesse un attico stratosferico dagli anni Settanta e vivesse nel lusso sfrenato grazie ai soldi delle tangenti. L' albergo aveva un certo fascino visto dall' esterno, forse anche per il manto di leggende che lo avvolgeva, ed era ricoperto di edera. Sceso dal taxi, sollevai d' istinto lo sguardo per scorgere l'appartamento del leader semidecaduto. Poi raggiunsi l'ultimo piano e, uscito dall' ascensore, mi ritrovai in una sorta di topaia. In quei locali regnava la sciatteria: i posacenere erano traboccanti di cicche di sigarette, l'odore di fumo era avvinghiato alle pareti, le tappezzerie erano vecchie e logore, i divani sdruciti, l'atmosfera squallida e fané. Ero alquanto impressionato, ma cercai di nasconderlo, intanto Bettino aveva cominciato il suo discorso, lo stesso che poi fece alla Camera. Sembrava che volesse tenere al mio cospetto l'esercitazione preliminare, che avesse deciso che io dovessi essere lo spettatore e l'ascoltatore primo di ciò che egli aveva da raccontare all' Italia intera. Erano le prove generali. Il cinghialone vomitò lì la verità, liberandosi: disse che il sistema era completamente marcio, che in molti ne avevano approfittato, non soltanto lui e i membri del suo partito. Aggiunse che aveva preferito non intervenire per porre fine a tale andazzo malsano in quanto sarebbe stato preso per matto. «Non è che si rubasse per il partito, si rubava anche al partito» spiegò. Nessuno lo ammise, l'unico a farlo fu Craxi. E lo fece in quella stanza di albergo, davanti a me, che ero amico di Antonio Di Pietro e rappresentante numero uno dei manipulitisti, e poi anche in tribunale. Da allora, dopo profonde riflessioni, cambiai registro. Bettino fu condannato dal Tribunale di Milano. Quando la sentenza divenne definitiva, al fine di scampare la carcerazione, si rifugiò ad Hammamet. Lontano dalla Madre Patria, dai sontuosi palazzi del potere, da quello che per due decenni era stato il suo appartamento all' ultimo piano dell'hotel Raphaël, dai tribunali festanti perché Giustizia era stata fatta ma non appagati perché il cinghialone era fuggito via prima della cattura, Bettino quasi tutte le sere, puntuale come un orologio svizzero, alle ore 23 mi telefonava a casa, a Milano, affamato di notizie e desideroso di dire la sua su quanto succedeva. Era un modo per non sentirsi del tutto tagliato fuori, estromesso senza lode e senza onori dalla storia italiana. Bettino si fidava di me, capiva che ero in buonafede. Si dice che per costruire un sentimento di fiducia tra due persone siano necessari diversi lustri, ma è una balla. Esso può nascere all' improvviso, guardandosi negli occhi in una stanza piena di posacenere sudici, in un pomeriggio qualunque in cui un uomo disperato si mette nelle mani di colui che gli ha sferrato uno dei colpi meglio piazzati, aizzando la folla. Io sbagliai. E lo ammetto. E ho imparato dal mio errore. Durante le nostre conversazioni dall' Africa all' Italia, Bettino esprimeva le sue opinioni, sosteneva che Berlusconi, in procinto di fare il suo ingresso sulla scena politica, non sarebbe riuscito a governare come Dio comanda e che non disponesse dell'esperienza e della duttilità indispensabili a un leader. La mia era una sorta di nota politica, in quanto, nel luogo in cui si trovava Bettino, i quotidiani arrivavano in ritardo. Craxi non lasciava trasparire le sue emozioni, c'era in lui un amaro sentimento di abbandono. Era un tifoso di Garibaldi, possedeva un marcato spirito patriottico, perciò gli mancava in modo insopportabile la partecipazione alla vita pubblica. In fondo, egli era stato un perno della politica italiana, sebbene la gente ora lo disprezzasse e lo volesse linciare come quella famosa sera del 30 aprile 1993, quando, dopo essersi rifiutato di uscire dal retro dell'albergo in cui viveva al fine di evitare la folla, fu assalito dai dimostranti che gli tirarono addosso monetine, accendini, sassi e qualsiasi altra cosa capitasse loro a tiro. E l'impavido Bettino, salito in macchina, li osservava dal finestrino con un sorriso strano, come se lo stessero festeggiando. Le nostre telefonate furono intercettate e su tutti i giornali fu pubblicata la notizia come si trattasse di uno scandalo o un gravissimo reato: il direttore del Giornale, Vittorio Feltri, conversa con Bettino Craxi. Il contenuto di quelle chiamate non era un segreto e i nostri discorsi erano persino noiosi. Insomma, nulla di avvincente. Fui sputtanato, ma io me ne fregai e continuai a parlare con Bettino, che mi piaceva anche perché era stato tradito da tutti, persino dai suoi compagni. Lo rispettavo e provavo pena per lui; proprio io, che all'inizio lo avevo attaccato in modo brutale, ora lo difendevo. Era un tipo in gamba, l'unico italiano ad avere capito che il comunismo era morto, quando ancora nessuno lo sospettava. Lo rivalutai completamente, imparando a stimarlo poiché era lucido, sagace e anche simpatico. Tra noi si instaurò una speciale empatia e diventai anche amico della figlia, iniziando a frequentare la famiglia Craxi. La sua morte fu un vero dolore per me. Il telefono alle 23 non squillò più da un giorno all' altro, proprio quando avevo convinto Bettino a scrivere per me in qualità di collaboratore per il Giornale. Il politico, che già aveva diverse problematiche di salute, fu stroncato dal logorante malessere interiore che gli procurava quella insopportabile emarginazione.

1993: quel giorno al Raphael Craxi non uscì dal retro. Certo non gli mancava il fegato, a Bettino Craxi. Gli avevano suggerito di uscire dal retro dell'hotel Raphael, per evitare la folla che assiepava davanti, ma lui non ne aveva voluto sapere. E allora – è la sera del 30 aprile 1993 – la affronta, quella folla. E succede quel che tutti sappiamo, scrive Alessandro Marzo Magno il 17 Settembre 2011 su "L'Inchiesta". «“La macchina è pronta?”. “Sì”, “Bene”. Una pausa. “Allora andiamo”. Carica la giacca blu sulla spalla, e un poliziotto si precipita alla porta. Passa Craxi e dà un altro calcione tipo saloon, è fuori, è un boato. La sera è illuminata a giorno da flash e faretti, a guardarla in televisione sembra un primo pomeriggio. Eccolo, eccoli, salgono sulla Thema marroncina, Nicola alla guida, il fotografo Umberto Cicconi affianco, Craxi e Josi dietro, e volano urla, sassi, monetine, accendini, pacchetti di sigarette, un ombrello, Cicconi sanguina alla testa, Josi si è preso qualcosa in un occhio, Craxi niente, sorride, è pazzo, e intanto sono pugni sul vetro, colpi di casco e sacchetti di sassi sulla carrozzeria, non c’è filtro tra l’auto e i dimostranti, i poliziotti sono tutti spersi o travolti, via, si parte, via, Craxi sorride ancora rivolto al finestrino, “tiratori di rubli”, mormora». Certo non gli mancava il fegato, a Bettino. Gli avevano suggerito di uscire dal retro del Raphael, per evitare la folla che assiepava davanti, ma lui non ne aveva voluto sapere. E allora – è la sera del 30 aprile 1993 – la affronta, quella folla. E succede quel che tutti sappiamo: gli tirano le monetine, gli sventolano banconote da 1000 lire urlando: «Prenditi anche queste». Accade quel che Filippo Facci rievocherà dieci anni dopo, nel brano citato all’inizio. Le monetine del Raphael entreranno nella storia. La sera prima, il 29 aprile, la Camera aveva salvato Bettino Craxi negando l’autorizzazione a procedere per quattro delle sei imputazioni a suo carico. Lo stato maggiore del Psi si riunisce a festeggiare nella suite dell’albergo romano dove il segretario socialista viveva dagli anni Settanta, il Raphael, appunto. Si fa vivo anche un imprenditore amico di Craxi, Silvio Berlusconi, che però, lui sì, ha l’accortezza di uscire dal retro. «Che rispetto potremmo avere di noi stessi», dichiarerà Berlusconi ai giornalisti, «se essendo amici di qualcuno da anni dovessimo voltargli le spalle proprio nei momenti della cattiva sorte e della difficoltà? Sono amico di Bettino Craxi da vent’anni, e da amico, personalmente, sono contento per lui. Mi sembra che basti». Forse, in quel suo ostinato ripetere «non farò la fine di Craxi», Berlusconi ha ben viva la memoria del Raphael e forse è proprio quella la «piazza urlante che grida, che inveisce, che condanna» citata da Berlusconi nel video della sua discesa in campo. La sera del 29 aprile, quindi, i socialisti festeggiano lo scampato pericolo del voto parlamentare, il Tg1 di Luca Giurato fa finta di niente e nemmeno riferisce delle mancate autorizzazioni a procedere. Parla del governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi (alla presidenza della Repubblica siede Oscar Luigi Scalfaro) e poi passa a un servizio su Gino Giugni, socialista, e padre dello Statuto dei lavoratori. Articolo su La Stampa del 1 maggio 1993 firmato da Augusto Minzolini, oggi direttore del Tg1. Il 30 Craxi se ne sta chiuso tutto il giorno nel suo alloggio. Ci entravano le ragazze, in quelle stanze, ma non a decine per volta, invece ne entrava soprattutto una che ne valeva decine: Moana Pozzi. La pornostar ha avuto una relazione col leader socialista di cui tutta Roma mormorava, ma entrambi sono stati ben accorti a non farla finire sui giornali. La Repubblica, quel giorno titola: “Vergogna, assolto Craxi”. Tutti i quotidiani pubblicano editoriali di fuoco. L’Italia è quella di sempre: pronta a osannare i vincitori e altrettanto veloce ad abbandonare al proprio destino gli sconfitti; è già successo, accadrà ancora. Craxi è finito, ormai è chiaro, la questione non è più “se”, ma “quando”. Verso sera, saranno le 18, il segretario socialista si affaccia alla finestra dell’albergo. «Cos’è questo casino?», domanda. Giù, in Largo Febo si sta riunendo una folla sempre più rumorosa. Proprio lì vicino, in Piazza Navona, si sta tenendo un comizio a cui partecipano Giuseppe Ayala, ex magistrato antimafia al tempo parlamentare repubblicano, Francesco Rutelli, al tempo non ancora baciabanchi, e Achille Occhetto, al tempo segretario del Pds. A mano a mano che passa il tempo, contingenti crescenti di militanti, soprattutto del Pds, lasciano Piazza Navona per andare a protestare sotto le finestre dell’albergo dove vive Craxi. Scandiscono slogan: «In galera», «Suicidio», «Un sogno nel cuore, Craxi a San Vittore». Intanto Occhetto finisce il suo intervento, si ode un boato, il comizio si scioglie e una parte della folla converge in Largo Febo. «Perché non li cacciano?», aveva chiesto Craxi guardando i manifestanti e subito erano partite telefonate per il capo della polizia, Vincenzo Parisi. Questi tranquillizza e rassicura, ma intanto manda un gruppo di agenti in tenuta antisommossa sotto il Raphael. I poliziotti sono pochissimi e capiscono subito che se la situazione degenerasse, non potrebbero farci nulla. Nicola, l’autista del segretario socialista, fa da ambasciatore tra i dirigenti della polizia, nella hall, e i piani alti. Craxi deve andare a registrare un’intervista con Giuliano Ferrara, l’appuntamento è per le otto, e cercano di convincerlo a uscire dal retro, evitare la protesta e svignarsela senza dare nell’occhio. Lui decide altrimenti. A un certo punto, riferisce Filippo Facci, si sente un colpo secco. Craxi ha spalancato la porta dell’ascensore con una pedata. È facile a infuriarsi, ma ora è assolutamente freddo. Si scusa con alcuni turisti per la confusione. Non degna nemmeno di un’occhiata i dirigenti di polizia che lo invitano a andarsene alla chetichella. Gli agenti si aprono e gli fanno ala, si avvicina alla porta d’ingresso, la apre con un calcio pure quella, e...Qualcuno dirà che Craxi è morto quel giorno. Certo è invece che tutto è cambiato perché nulla cambi. La Chiesa, al tempo, si schiera apertamente; il cardinale Carlo Maria Martini che invita i cittadini alla «veglia dei lavoratori» fa apparire ancora più assordante l’attuale silenzio del cardinale Tarcisio Bertone. Riccardo De Corato, allora orgogliosamente missino, si ammanetta per un paio d’ore in Piazza Duomo, a Milano, inalberando il cartello: «Craxi in libertà, manette all’onestà». Umberto Bossi marcia su Milano. Dalla sede della Lega, allora in via Arbe, arringa i suoi accorsi con bandieroni verdi. Minaccia di tirare “un sac de tumat” (un sacco di pomodori, per i non lumbard) a chi vuol tenere in piedi il governo. Dice che bisogna approvare la nuova legge elettorale per la Camera, e poi: «Tutti a votare entro giugno, tangentisti a casa e si ricomincia a lavorare». Altri tempi.

Con una fuga di notizie infilzarono Craxi. 25 anni fa la congiura che lo escluse da palazzo Chigi, scrive Francesco Damato il 10 giugno 2017 su "Il Dubbio". Dopo la strage di Capaci e l’elezione in 48 ore di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale, dove per quindici votazioni avevano inutilmente tentato di arrivare, con candidature formali o sotterranee, Arnaldo Forlani, Giulio Andreotti e persino il presidente uscente e dimissionario Francesco Cossiga, nulla fu più uguale sul piano politico. Terminato di comporre il suo staff al Quirinale il 4 giugno con la nomina del generale Paolo Scaramucci a consigliere militare, Scalfaro predispose le consultazioni per la formazione del nuovo governo: quello di esordio della legislatura nata con le elezioni del 5 e 6 aprile. Ma la prima sfilata delle delegazioni dei partiti davanti al capo dello Stato terminò il 10 giugno senza altro risultato che la constatazione di un clima politico irrespirabile, con veti e controveti all’interno e all’esterno della maggioranza uscente composta da democristiani, socialisti, socialdemocratici e liberali. Era una maggioranza peraltro troppo risicata per fronteggiare una difficile situazione economica e un’ancora più difficile situazione politica nel contesto delle indagini giudiziarie in corso a Milano su Tangentopoli. Scalfaro non riuscì a venirne a capo neppure moltiplicando le sue preghiere alla Madonna di Lourdes, dove peraltro si era proposto prima della imprevista elezione a capo dello Stato di recarsi in pellegrinaggio. Si scusò della rinuncia esortando gli organizzatori del viaggio a pregare anche perché lui venisse illuminato. In attesa di un secondo giro di consultazioni formali, il presidente della Repubblica vide o sentì privatamente un’infinità di amici, fra i quali i ministri uscenti dell’Interno e della Giustizia: il democristiano Enzo Scotti e il socialista Claudio Martelli, invitati insieme al Quirinale formalmente per discutere di un provvedimento in gestazione per intensificare la lotta alla mafia dopo la strage di Capaci. Ma il discorso scivolò subito sul tema della formazione del governo. Vuoi su sollecitazione di Scalfaro, come poi avrebbe raccontato Martelli, vuoi di iniziativa dei due ministri, il capo dello Stato ricavò l’impressione, a torto o a ragione, che fossero entrambi convinti di potere insieme tentare la formazione di un governo di decantazione, scambiandosi i ruoli di presidente e vice presidente, capace di guadagnarsi se non l’appoggio, almeno la benevola opposizione del Pds- ex Pci guidato da Achille Occhetto. Informato, non si è mai ben capito se dallo stesso Scalfaro, col quale aveva allora eccellenti rapporti, tanto da averne sostenuto con la solita baldanza l’elezione prima a presidente della Camera e poi a capo dello Stato, Marco Pannella confidò la cosa a Bettino Craxi. Che – convinto di avere ancora buone carte da giocare per tornare a Palazzo Chigi, da dove riteneva di essere stato allontanato malamente da Ciriaco De Mita nel 1987, con la storia di una staffetta con Andreotti prima promessa per l’ultimo anno della legislatura e poi negata – a sentire Pannella cadde dalle nuvole. Ma di brutto, perché se la prese subito con Martelli, essendo ancora convinto che Scalfaro gli fosse leale, come lo era stato al Ministero dell’Interno nei quattro anni di governo da lui presieduto: tanto leale non solo da avere rifiutato di prestarsi a fare il governo elettorale offertogli da De Mita, come ho già ricordato qui, ma anche da avere cercato e trovato una decina d’anni prima negli archivi del Viminale un documento da tutti negato in precedenza, ma utile alla difesa dei socialisti finiti sotto processo a Milano per gli attacchi ai pubblici ministeri che avevano indagato per l’assassinio di Walter Tobagi. Era un’informativa dei servizi segreti che nel 1980 aveva inutilmente segnalato il pericolo di un imminente agguato mortale delle brigate rosse al famoso giornalista del Corriere della Sera, peraltro amico personale del leader socialista. Notizia di quell’informativa era stata data personalmente a Craxi all’indomani dell’uccisione del povero Walter dal generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa. Craxi girò la confidenza di Pannella sull’incontro di Scotti e Martelli con Scalfaro al segretario della Dc Arnaldo Forlani, facendo cadere dalle nuvole pure lui. Ed entrambi si ripromisero di punire, diciamo così, i due giovani aspiranti alla guida del nuovo governo o non confermandoli ai loro posti o lasciandoli proprio fuori. Ma né l’uno né l’altro ebbero poi la voglia di raccontare come fossero veramente andate le cose, dopo molti anni, ai magistrati di Palermo che li interrogarono sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia della stagione stragista. Essi diedero agli inquirenti l’impressione di essere stati sacrificati perché contrari a quelle trattative, contribuendo così all’impianto accusatorio del processo contro mafiosi, generali e uomini politici ancora in corso a Palermo. Ma da cui è stato già assolto, avendo scelto il rito abbreviato, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, che pure era stato accusato di essere stato addirittura il promotore della trattativa per scongiurare una minaccia della mafia alla sua vita. Non ci fu tuttavia soltanto l’incidente o l’equivoco della coppia Scotti- Martelli durante le consultazioni informali di Scalfaro per la formazione del nuovo governo. Ci fu anche, fra l’altro, una rovinosa fuga di notizie sui documenti pervenuti dalla Procura di Milano alla Camera, e assegnati subito alla giunta delle cosiddette autorizzazioni a procedere per Tangentopoli sul conto degli ex sindaci di Milano Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli, entrambi socialisti. Il “verde”, ed ex direttore del Manifesto, Mauro Paissan fu indicato, a torto o a ragione, come fonte di quella fuga con interpretazioni troppo estensive di alcune parti dei fascicoli, da cui avrebbe ricavato, come esponente dell’apposita giunta di Montecitorio, l’impressione di un coinvolgimento anche di Craxi nelle indagini chiamate Mani pulite. Ricordo ancora nitidamente quella giornata in cui le agenzie avevano inondato le redazioni dei giornali di lanci a dir poco allarmanti sulla posizione giudiziaria del segretario socialista ancora in corsa per il ritorno a Palazzo Chigi. Nelle prime ore del pomeriggio, tornando a piedi da casa alla redazione del Giorno, di cui ero direttore, incrociai per caso in Piazza della Scala Antonio Di Pietro, il magistrato ormai simbolo di quell’inchiesta che stava demolendo la cosiddetta prima Repubblica. Allontanata la scorta con un cenno di mano, “Tonino” mi disse che nelle carte partite da Milano per la Camera non c’erano elementi contro Craxi, di cui lui parlava volgendo lo sguardo verso la Galleria, cioè verso gli uffici milanesi del segretario del Psi. E mi preannunciò un comunicato della Procura, che in effetti fu diffuso dopo qualche ora per precisare che nulla risultava “allo stato” delle indagini contro Craxi. Il quale tuttavia il giorno dopo si trovò su tutte le prime pagine dei giornali ugualmente come uno ormai compromesso nell’inchiesta. Non ricordo se l’ho già riferito ai lettori del Dubbio in altre circostanze riferendo del biennio “terribile” 1992- 93, ma il clima nei giornali, ormai di tutte le tendenze, era tale che la sera di quel giorno mi telefonò l’amico Ugo Intini, portavoce di Craxi, per chiedermi come avessi deciso di uscire con la prima pagina del Giorno. Alla confidenza che sarei uscito col titolo sul comunicato di smentita diffuso dalla Procura, che ai miei occhi costituiva l’unica notizia certa della giornata rispetto a tutte le voci col condizionale diffuse dalle agenzie, Ugo mi chiese se poteva consigliare al comune amico Roberto Villetti, direttore dell’Avanti, di chiamarmi. Cosa che Villetti fece subito, ma non per consultarsi, come si aspettava il povero Intini, bensì per dissentire fermamente dal modo garantista in cui avevo deciso di titolare. Rimasi francamente di stucco. Neppure Scalfaro al Quirinale dovette rimanere convinto del comunicato della Procura milanese se volle parlarne direttamente col capo Francesco Saverio Borrelli, peraltro figlio di un suo vecchio collega ed amico. L’impressione che ne ricavò l’uomo del Colle fu di paura di mandare a Palazzo Chigi un “amico” – quale ancora egli considerava il suo ex presidente del Consiglio – destinato prima o dopo ad essere davvero coinvolto nelle indagini, come avvenne a fine anno con i primi avvisi di garanzia, e poi anche con richieste di arresto. Lo stesso Craxi mi raccontò di essersi sentito dire da Scalfaro all’incirca così: “Tu sai quanto ti stimi e ti voglia bene, ma è opportuno, anche nel tuo interesse, che tu faccia un passo indietro in questo momento. Dimmi tu stesso il nome di un socialista al quale io possa dare l’incarico”. E il 10 giugno, nel secondo ed ultimo giro di consultazioni, Craxi maturò la decisione del doloroso passo indietro. Che annunciò personalmente all’uscita dall’ufficio del capo dello Stato dicendo di avergli indicato “in un ordine non solo alfabetico” Giuliano Amato, già ministro con De Mita e suo sottosegretario a Palazzo Chigi, Gianni De Michelis e Claudio Martelli. La delegazione della Democrazia Cristiana, ricevuta per ultima, non ebbe così neppure la possibilità di proporre Craxi, contro la cui destinazione si erano già espressi nel partito alcuni esponenti, fra i quali De Mita, convinti che Palazzo Chigi spettasse ancora alla Dc, nonostante il ritorno di un democristiano al Quirinale dopo il movimentato settennato di Cossiga. Pertanto fu Amato l’uomo al quale Scalfaro diede l’incarico, che fu espletato con una certa difficoltà, avendo impiegato il nuovo presidente del Consiglio una decina di giorni, sino al 28 giugno, per la definizione del programma e soprattutto della lista. Dove Scotti risultò spostato dal Viminale alla Farnesina, che formalmente era una promozione, da lui però rifiutata perché Forlani aveva deciso di sperimentare dentro la Dc la incompatibilità fra le cariche di ministro e di deputato o senatore. Scotti reclamò inutilmente una deroga per conservare il mandato parlamentare, che alla fine preferì alla guida della diplomazia italiana. Martelli invece entrò nella lista all’ultimo momento, dopo essere andato da Craxi, su suggerimento dello stesso Amato, per chiedergli di essere confermato al Ministero della Giustizia, come poi mi avrebbe raccontato lo stesso Craxi, per portare a termine il lavoro svolto col povero Giovanni Falcone, suo prezioso collaboratore sino alla morte – e che morte – come direttore degli affari penali del dicastero di via Arenula. E Craxi acconsentì, parendogli – mi disse – “una richiesta umanamente ragionevole”, lungi forse dall’immaginare che Martelli fosse destinato pure lui dopo qualche mese ad essere investito da Tangentopoli e costretto alle dimissioni. Comunque, Martelli fu l’ultimo ministro e il primo governo di Amato l’ultimo sul quale il leader socialista riuscì a dire la sua, perché di fatto in quel mese di giugno di 25 anni fa al falconicidio col sangue, preceduto dall’ostracismo in vita praticatogli da tanti colleghi, seguì il craxicidio senza sangue. I rapporti di Craxi con Scalfaro rimasero buoni ancora per poco. Col procedere delle indagini e del linciaggio politico da cui pochi lo difesero, neppure quando subì il famoso lancio di monetine e insulti davanti all’albergo romano dove abitava, e donde usciva per andare ad una trasmissione televisiva dopo essere scampato a scrutinio segreto ad alcune, le più gravi, delle autorizzazioni a procedere chieste contro di lui dalla magistratura, il leader socialista si fece del presidente della Repubblica l’idea da lui stesso espressa in una serie di litografie raffiguranti falsi “extraterrestri”: finti inconsapevoli del finanziamento generalmente illegale della politica e delle forzature con le quali la magistratura aveva deciso di trattarlo. Oltre a Scalfaro, furono definiti extraterrestri anche Achille Occhetto, Eugenio Scalfari, Giorgio Napolitano e l’ormai compianto Giovanni Spadolini, la cui foto fu sostituita con un manifesto bianco listato a lutto. Craxi stesso mi raccontò nel suo rifugio di Hammamet di avere scritto più volte al presidente della Repubblica, anche come presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, contro gli eccessi che stavano compiendo i magistrati, ma di non avere mai ricevuto una risposta, né diretta né indiretta. Il Quirinale non lo considerò più degno di riconoscimento alcuno. Ci vollero del resto la morte di Craxi e l’arrivo sul colle più alto di Roma di Giorgio Napolitano perché un presidente della Repubblica parlasse di lui riconoscendone il servizio politico reso al Paese e lamentando, fra le solite proteste dei manettari in servizio permanente effettivo, irriducibili anche di fronte alla morte, “la severità senza uguali” con cui era stato trattato dalla magistratura. Proprio alla magistratura, vantando di averne fatto parte, Scalfaro nel suo discorso di insediamento, pronunciato il 28 maggio a Montecitorio, davanti alle Camere in seduta congiunta con la partecipazione dei delegati regionali, aveva chiesto “energia, serenità e perseveranza” parlando della “questione morale”. Di energia e perseveranza sicuramente i magistrati si dimostrarono capaci nei mesi e negli anni successivi. Di serenità, francamente, un po’ meno, nella sostanziale e incresciosa disattenzione proprio di chi l’aveva reclamata insediandosi al vertice dello Stato sull’onda peraltro di una strage neppure citata per luogo e per nomi nel discorso alle Camere, essendosi Scalfaro limitato a parlare di una “criminalità aggressiva e sanguinaria”, forse aiutata anche da qualche mano straniera. Di cui nessuno, a dire il vero, aveva avuto sentore a Capaci e dintorni.

Così la sentenza Stato-mafia è un teorema per incolpare il Cav. Ogni evento rimanda a Berlusconi. Che non era imputato, scrive Luca Fazzo, Sabato 21/07/2018, su "Il Giornale". La bellezza di 5.252 pagine scritte in appena novanta giorni (media di quasi 60 al giorno, sabati e domeniche compresi) dal giudice Alfredo Montalto per sancire che lo Stato scese a patti con la mafia: la sentenza del processo di Palermo è un documento colossale, che nessun cronista ha ancora letto per intero, ma il cui obiettivo appare chiaro. Perché gli imputati per la Corte d'assise sono tutti colpevoli (tranne l'ex ministro Mannino) ma ancor più colpevole è un signore che imputato non era, e che si chiama Silvio Berlusconi. È lui il coimputato di pietra, la figura che aleggia su tutte le 5.252 pagine, evocato come terminale e referente ultimo del patto scellerato. Eh sì, perché della presunta trattativa tra Cosa Nostra e pezzi delle istituzioni, avviata secondo i giudici all'epoca del governo di Giuliano Amato, la sentenza non indica alcun vantaggio concreto di cui i mafiosi avrebbero goduto né all'epoca del governo Amato né di quello - succedutogli nell'aprile 1993 - di Carlo Azeglio Ciampi. Il favore postumo ai boss sarebbe stato ovviamente promesso dal governo Berlusconi, salito al potere nel maggio 1994. Fino al dicembre 1994, scrive la sentenza, Marcello Dell'Utri incontrava Vittorio Mangano «per le problematiche relative alle iniziative che i mafiosi si attendevano dal governo». La sentenza, citando il pentito Gaspare Spatuzza, dice che Dell'Utri avrebbe informato Mangano di una imminente modifica legislativa in materia di arresti per mafia. «Ciò dimostra che Dell'Utri informava Berlusconi dei suoi rapporti con i clan anche dopo l'insediamento del governo da lui presieduto, perché solo Berlusconi da premier avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo come quello tentato e riferirne a Dell'Utri per tranquillizzare i suoi interlocutori». Il percorso logico è già di per se piuttosto ardito: si prende per certo ciò che dice lo stragista Spatuzza, e se ne deduce che se Dell'Utri parlava di modifiche legislative il mandante poteva essere solo Berlusconi. Ci si aspetterebbe che a questo teorema inquietante la sentenza indichi un qualche riscontro anche labile, una legge o almeno un disegno di legge, un progetto, una dichiarazione d'intenti, insomma una traccia qualunque che confermi che in quel periodo ben determinato di tempo - tra maggio e dicembre 1994 - il governo abbia almeno ipotizzato un intervento legislativo di alleggerimento sul trattamento dei mafiosi. Invece di quel riscontro non c'è traccia, per il semplice motivo che nulla accadde. Anzi, negli otto mesi del primo governo Berlsconi finiscono in galera cento boss mafiosi. Ed è ancora con Berlusconi al governo, nell'aprile 2006, che viene arrestato Bernardo Provenzano, che la Procura di Palermo indica come il terminale ultimo della trattativa, e che morirà in carcere tredici anni dopo. Un affarone, per i clan, la trattativa con Berlusconi. Spatuzza insomma parla a vanvera, almeno in questo caso. Ma per i giudici palermitani è credibile come lo è l'altro testimone chiave, Giovanni Brusca, il capo del commando di Capaci, che pure in aula ha detto cose senza capo né coda. Ma il capolavoro vero, nella sentenza-kolossal, è quando si teorizza - sfidando ogni logica - che la trattativa abbia causato o almeno anticipato la strage di via D'Amelio e la morte di Paolo Borsellino. Non c'è scritto, nella sentenza, che il vero colpevole della morte di Borsellino è Berlusconi. Ma il concetto è quello.

Il Tempo, la prima pagina epocale per Silvio Berlusconi: adesso basta, il titolo cubitale, scrive il 21 Luglio 2018 Libero Quotidiano”. Una reazione d'orgoglio, nel silenzio generale. "Siamo tutti Berlusconi". Così il Tempo, in prima pagina, titola a caratteri cubitali. Un sostegno al Cav nella settimana più dura, quella che riassume le accuse di 25 anni di fango con il video rubato delle serate con le olgettine e le motivazioni della sentenza sulla trattativa Stato-Mafia pubblicate a poche ore di distanza l'uno dalle altre. "Dalla pedofilia alle stragi - scrive il Tempo -, non se ne può più". Per questo il quotidiano romano smonta punto per punto tutti gli attacchi all'ex premier.

SIAMO TUTTI BERLUSCONI. Dalla pedofilia alle stragi, 25 anni di fango. Ora pure il video con le Olgettine. Non se ne può più nemmeno della Trattativa: Il Tempo smonta le accuse al Cav, scrive Luca Rocca il 21 Luglio 2018 su “Il Tempo”. Non è provato che Marcello Dell’Utri abbia «minacciato» Silvio Berlusconi, però Dell’Utri è ugualmente colpevole perché, ipoteticamente, potrebbe averlo fatto. Sta tutto qui il fallace ragionamento della Corte d’Assise di Palermo che due giorni fa ha depositato le motivazioni alla sentenza del processo sulla «trattativa» Stato-mafia; sta tutto, dunque, nell’ammissione dell’assenza della «prova regina», che pure si tenta di scavalcare con quelle che il giudice Alfredo Montalto chiama «ragioni logico-fattuali». La tesi della procura di Palermo, accolta dai giudici, è chiara: verso la fine del 1993, i boss Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca avrebbero contattato Vittorio Mangano, stalliere di Arcore negli anni ’70, chiedendogli di riferire a Dell’Utri che, se non avessero ottenuto dei benefici di legge, le stragi di mafia sarebbero riprese. E Dell’Utri, processato per «minaccia a Corpo politico dello Stato», stando alle accuse avrebbe recapitato quella minaccia a Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio dall’aprile al dicembre del 1994. Ma, come detto, la Corte d’Assise di Palermo è costretta ad ammettere che questo assunto non è dimostrato, tanto da scrivere che «se pure non vi è prova diretta dell’inoltro della minaccia mafiosa da Dell’Utri a Berlusconi, perché solo loro sanno i contenuti dei loro colloqui, ci sono ragioni logico-fattuali che inducono a non dubitare che Dell’Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa Cosa nostra mediati da Vittorio Mangano». La prova non c’è, dunque, ma non potendosi escludere che da qualche parte ci sia, si condanna ugualmente Dell’Utri a 12 anni di galera. I giudici, poi, sottolineano che la disponibilità dell’ex senatore a porsi come intermediario tra i clan e Berlusconi fornì «le premesse della rinnovazione della minaccia al governo quando, dopo il maggio del 1994, questo sarebbe stato appunto presieduto dallo stesso Berlusconi». In questo senso si ritiene provata, dunque, la teoria della «cinghia di trasmissione» della minaccia di Cosa nostra all’ex premier. Ma davvero quella «filiera» sarebbe dimostrata? I fatti dicono il contrario. Intanto, Brusca ha affermato di aver saputo della permanenza di Mangano ad Arcore, fatto notorio in mezza Sicilia, leggendo l’Espresso. Il pentito, inoltre, ha collocato l’incontro in cui avrebbe chiesto a Mangano di riprendere i rapporti con Dell’Utri nell’aprile del 1994, sostenendo di aver ricevuto una risposta pochi giorni dopo. Peccato che quando si trattò di precisare il momento esatto, lo associò a un furto di vitelli avvenuto a Partinico nel novembre del 1993. In sostanza, a voler dar retta al capo mandamento di San Giuseppe Jato, l’incarico a Mangano di contattare Dell’Utri sarebbe avvenuto nell’aprile del 1994 e la risposta...cinque mesi prima...

L’ardua verità del patto. Il compito più duro per gli storici sarà quello di far quadrare la memoria «politica» di ciò che accadde nel 1992-94 con le incongruenze di quella «giudiziaria», scrive Paolo Mieli il 23 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". Prima di archiviare l’ennesimo giudizio (stavolta di primo grado) sulla trattativa Stato-mafia, è opportuno mettere agli atti qualche considerazione. Fortunati gli storici del futuro i quali, per quel che attiene ai rapporti tra vertici istituzionali italiani e Cosa nostra, avranno a disposizione sentenze, le più varie, al cui interno potranno trovare pezze d’appoggio a qualsiasi congettura li abbia precedentemente affascinati. Ad esser baciati dalla fortuna saranno, beninteso, solo gli storici disinvolti. Per gli altri — quelli seri che non cercano riscontri a ciò che avevano già «intuito» ma, anzi, si impegnano, con metodo, ad individuare elementi di contraddizione con le proprie ipotesi di partenza — saranno dolori. Perché la magistratura, allorché si è occupata di vicende nazional-siciliane, ha da tempo accantonato la terraferma che dovrebbe esserle propria, quella del «sì sì, no no», per immergersi nell’immensa palude del «dico e non dico», delle circonlocuzioni ipotetiche, delle allusioni non esplicite, delle porte né aperte né chiuse, dei verdetti double face. Gli imputati eccellenti in genere sono usciti indenni dai giudizi definitivi. Ma tali giudizi definitivi non lo sono mai per davvero perché, nei tempi successivi ad ogni sentenza, nuovi processi sono tornati (e torneranno) ad occuparsi delle stesse vicende, talché qualche macchia inevitabilmente resterà sugli abiti dei suddetti imputati. Anche nel caso in cui siano stati assolti dall’ultima sentenza prima del loro decesso. Ma il compito più arduo per gli storici sarà quello di far quadrare la memoria «politica» di ciò che accadde tra il 1992 e il 1994 con le incongruenze di quella «giudiziaria». Per la memoria politica si ebbero in quel biennio (allungatosi poi al 1995) due stagioni tra loro assai diverse. La prima — dal ’92 ai primi mesi del ’94, sotto la regia dell’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro — fu in terremotata continuità con la cosiddetta Prima Repubblica e conobbe due capi di governo di sinistra moderata: Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi. È in questo biennio che, mentre la vita parlamentare veniva sconvolta da Tangentopoli, si verificarono i più rilevanti fatti di sangue riconducibili alla mafia: l’uccisione di Falcone e Borsellino (’92), gli attentati di via Fauro a Roma, di via dei Georgofili a Firenze, di via Palestro a Milano oltreché alle basiliche romane di San Giovanni e San Giorgio al Velabro, i quali provocarono complessivamente 15 morti e decine di feriti (’93). Ed è proprio in questo periodo che, stando alla sentenza appena depositata, tre carabinieri di medio-alto rango, Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, con la mediazione dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, avrebbero preso contatto con il vertice di Cosa Nostra (Totò Riina) provocando un’«accelerazione» dell’azione criminosa. A nome di chi si sarebbero mossi Mori, Subranni e De Donno? La sentenza non lo dice in modo esplicito ma lascia intendere che esponenti del governo Ciampi abbiano avallato l’iniziativa dei tre magari, come ha già fatto notare su queste pagine Giovanni Bianconi, senza averne una effettiva «consapevolezza». Sarà arduo per gli storici del futuro dare conto dell’attività di questa nutrita schiera di «inconsapevoli» che da Scalfaro in giù si attivarono per quasi due anni a favorire l’«improvvida iniziativa» di Mori arrivando nell’autunno 1993 a «liberare dal 41 bis», per decisione del ministro della Difesa Giovanni Conso, 334 mafiosi. Mafiosi che forse non erano di primissimo piano ma la cui uscita dal carcere duro fu — secondo i magistrati — un segnale a Cosa nostra dei passi avanti compiuti, appunto, dalla trattativa di cui si è detto. Dopodiché venne una seconda stagione, più breve (otto mesi tra il 1994 e il gennaio ‘95), in cui dominus politico fu Silvio Berlusconi alla sua prima esperienza di governo. Berlusconi, tramite Marcello Dell’Utri, avrebbe proseguito, intensificandola, l’interlocuzione con Cosa nostra avviata dai suoi predecessori. Strano: la memoria politica ci dice che tra Scalfaro e Berlusconi i rapporti furono pessimi e lo stesso discorso vale, anche se con minore intensità, per presidenti del Consiglio e ministri dei governi della legislatura ’92-’94: tutti, nessuno escluso, ostili a Berlusconi e Bossi. Marco Taradash ha fatto notare che l’unico campo in cui — stando alla sentenza — ci sarebbe stata un’assoluta opaca continuità tra la stagione dominata da Scalfaro e quella successiva di Berlusconi sarebbe stato il terreno dei patteggiamenti tra lo Stato italiano e Cosa nostra. Per i giudici questo non è un problema ma per gli storici lo sarà quando dovranno spiegare come mai le due Italie, quella berlusconiana e quella antiberlusconiana, si scontrarono su tutto tranne che sul rapporto con Riina e i suoi successori sul quale l’intesa fu pressoché totale. E come mai queste diaboliche relazioni siano iniziate ai tempi dell’ultimo centrosinistra quando la «discesa in campo» di Berlusconi era (forse) solo nei propositi del padrone della Fininvest. La sentenza lascia intendere — ma è un’interpretazione nostra — che ci sarebbe stato un salto dalla stagione della «inconsapevolezza» a quella della «consapevolezza», quando Berlusconi sarebbe stato informato da Dell’Utri (che aveva nello «stalliere» Vittorio Mangano il trait d’union con Cosa nostra) di ogni passaggio della trattativa, trattativa alla quale avrebbe dato incremento con specifici atti di governo. Prendiamo per buona questa tesi. C’è però un particolare di cui si è accorto Marco Travaglio che è destinato a complicare il lavoro degli storici. Di che si tratta? Procediamo con ordine: nell’estate del ’94 (13 luglio) ci fu il decreto del ministro della Giustizia berlusconiano Alfredo Biondi, che avrebbe dovuto porre un argine agli arresti dei corrotti, ma anche favorire i mafiosi. Quasi tutti i giornali si accorsero della parte che riguardava gli imputati di Mani Pulite talché quel pacchetto di norme fu ribattezzato «decreto salvaladri». Il capo del pool giudiziario milanese, Francesco Saverio Borrelli, fece caso al fatto che il decreto Biondi fosse stato approvato all’unanimità (e subito controfirmato da Scalfaro) mentre ai mondiali di calcio era in corso una partita contro la Bulgaria (vinta dall’Italia): il magistrato ironizzò sulla circostanza che il governo volesse nascondere quel suo atto di considerevole rilievo «dietro un pallone». Subito dopo i pm di Milano Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco e Gherardo Colombo protestarono a gran voce e chiesero pubblicamente di essere assegnati «ad altro e diverso incarico». Al che il ministro dell’Interno leghista Roberto Maroni «scoprì» che il testo del dispositivo era diverso da quello approvato in Consiglio dei ministri e nel giro di poche ore Berlusconi fu costretto a ritirare il decreto. Passarono pochi mesi, a fine anno il governo cadde e, con quello che fu definito un «ribaltone», venne sostituito da un nuovo gabinetto guidato da Lamberto Dini, ex titolare berlusconiano del Tesoro, futuro ministro del centrosinistra. Il tutto ancora una volta sotto la regia di Scalfaro. E qui veniamo al punto messo in evidenza dal direttore del Fatto: nel 1995, quella norma del decreto Biondi riguardante i mafiosi (solo quella) fu entusiasticamente votata dalle due Camere ai primi di agosto, quando Scalfaro, dopo aver negato a Berlusconi le elezioni anticipate, aveva ripreso in mano le redini dell’intera politica italiana. E fu approvata, sottolinea Travaglio, «grazie al fondamentale apporto del centrosinistra». E nel silenzio, aggiungiamo noi, di tutta (o quasi) la società civile che si era ribellata al «salvaladri». Tutti di nuovo «inconsapevoli»? Curiosa coda della «trattativa»… È facile per i giudici collocare una tale bizzarra successione di eventi sullo sfondo sfocato della loro ricostruzione. Ma sarà problematico per gli studiosi di storia dar conto in maniera rigorosa e ad un tempo plausibile di come in quei mari in tempesta l’unica imbarcazione che riuscì a navigare tranquilla, trovando sponde compiacenti sia sul versante del centrodestra che su quello antiberlusconiano, sia stata la zattera, non priva di falle, del generale trattativista.

La farsa di Palermo, scrive Piero Sansonetti il 20 gennaio 2018 su "Il Dubbio". La grande stampa nazionale ha deciso di risolvere il problema tacendo, o scrivendo solo qualche riga. Un po’ per pudore, un po’ probabilmente per imbarazzo. Come si fa a riferire delle fantasiosissime requisitorie che in questi giorni vengono pronunciate al processo di Palermo – quello sulla trattativa stato mafia – senza riderne un po’ o senza chiedersi come sia possibile che nella solennità di un aula di tribunale vengano lanciate accuse folli, e senza il briciolo di un briciolo di un briciolo di prova, verso personaggi che hanno avuto una grande rilievo nella storia recente dell’Italia? Non sembra più neanche un processo, sembra la ribalta di uno spettacolo trash, dove tutti tirano palle di fango. Perciò la maggior parte dei direttori ha deciso di glissare. Perché le possibilità sono solo due: o fai finta di niente, vista la assoluta inattendibilità delle cose che vengono dette; oppure t’indigni e chiedi che qualcuno intervenga. Purtroppo, a occhio e croce, nessuno è in grado di intervenire. E così ieri abbiamo sentito un Pm dire che Riina è stato venduto da Provenzano agli inquirenti. In particolare al generale Mori e probabilmente al capitano Ultimo, che lo catturò. Il Pm ha detto che la cattura di Riina è stata una vergogna per l’Italia. E ha finito per mettere sul banco degli imputati i giudici, che hanno già ampiamente assolto Mori da questa accusa, e anche l’ex procuratore di Palermo Caselli, che ancora recentemente ha sostenuto che la cattura di Riina è stata la salvezza per il paese. Poi i Pm hanno indicato l’ex presidente della Repubblica Scalfaro come responsabile, a occhio e croce, del reato di alto tradimento. E con lui il ministro Conso, il ministro Mancino e qualcun altro. Indizi? Prove? No: «Fidatevi di noi». Davvero non c’è nessuna possibilità che qualche autorità intervenga, interrompa questo scempio della storia e del diritto, e disponga, se serve, anche un po’ di aiuto psicologico per i Pm?

Il processo Stato-mafia finisce in farsa, scrive Piero Sansonetti il 27 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Il pm Di Matteo chiede sei anni di galera per Mancino, 12 per Dell’Utri, 15 per il generale Mori e zero per il boss Brusca. Se volete leggere questo articolo dovete mettervi nello stato d’animo di chi non si stupisce di niente. Altrimenti lasciate stare. I Pm del processo di Palermo (il famoso processo sulla presunta trattativa Statomafia) hanno chiesto una novantina d’anni di galera per alcuni degli imputati. Tra i quali un paio di mafiosi e una decina tra esponenti della politica e dell’arma dei carabinieri. Cinque anni li hanno chiesti per il giovane Ciancimino, Massimo, figlio di Vito (ex famigerato sindaco di Palermo), accusato di calunnia contro gli altri imputati. La sua testimonianza, giudicata calunniosa, è in realtà l’unico puntello alle tesi dell’accusa (ma questa cosa naturalmente fa un po’ sorridere, o sobbalzare, l’osservatore poco informato – non è l’unico non sense prodotto dal processo). Poi hanno chiesto 15 anni per il generale Mori, 12 per Marcello Dell’Utri e 6 per l’ex presidente del Senato Nicola Mancino. Non hanno potuto chiedere anni di galera per l’ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, perché nel frattempo è morto, ma nelle loro requisitorie lo hanno più volte indicato come il capintesta di tutta la congiura. Naturalmente è molto complicato qui dirvi di quale congiura si tratti. Perché i Pm ne hanno delineate almeno un paio e tra loro in netta contraddizione. Basta dire che al vertice del gruppo criminale, secondo le requisitorie, ci sarebbero stati lo stesso Scalfaro e Berlusconi. Capite? Scalfaro e Berlusconi, cioè i due personaggi più lontani tra loro di tutto lo scenario politico degli anni novanta. Del resto i Pm hanno mostrato una conoscenza molto superficiale di quello scenario politico, e dunque non c’è molto da stupirsi che possano confondere la sinistra Dc con Forza Italia e cose del genere. Tuttavia l’aspetto più preoccupante di questa vicenda non sta neanche nelle richieste cervellotiche, o nell’osservazione che non c’è uno straccio di prova a carico degli imputati, e neppure nel fatto che si chiedano pene per delitti che altri processi (a Mori stesso, all’on Calogero Mannino e ad altri) hanno già accertato non esistere. L’aspetto più preoccupante è l’impostazione dell’accusa. Leggete qui con quali parole il Pm Di Matteo (che ora è diventato uno dei procuratori nazionali antimafia) ha spiegato il senso del processo: «Questo è un processo che punta a scoprire livelli più alti e causali più complesse. Legati non a un fatto criminoso ma a una strategia più ampia».

Che vuol dire? Vuol dire che i Pm di Palermo (o quantomeno Di Matteo, non sappiamo se gli altri si dissociano da questa idea) ritiene che il suo compito non sia quello di perseguire i reati ma di stabilire, con la sua autorità, la verità storica, e poi di sanzionare questa verità con delle esemplari punizioni. In questo modo Di Matteo aggira l’ostacolo principale di questo processo, e cioè il fatto che non c’è uno straccio di prova dei reati contestati agli imputati. Dice Di Matteo, in sostanza: «E che io devo stare lì col misurino a vedere se c’è qualche reato? Io sto più in alto: a me interessano le grandi strategie». Per dirla con parole ancora più semplici, il Pm dichiara in modo esplicito che quello di Palermo non è un processo penale ma un processo politico. Veniamo al merito della vicenda. Dunque, questo è un processo che è stato avviato dieci anni fa, il dibattimento va avanti da cinque anni, si riferisce ad avvenimenti di 26 anni fa, nessuno è in grado di stabilire quanto sia costato ai contribuenti. La tesi dell’accusa è che quando la mafia, all’inizio degli anni novanta, alzò il tiro sullo Stato, compiendo stragi, uccidendo magistrati, leader politici e comuni cittadini, ci fu un pezzo dello Stato (pezzo di governo, pezzo dei carabinieri e pezzo dei servizi segreti) che si adoperò per cercare di frenare queste stragi, ed evitare nuovi morti, trattando con i vertici mafiosi. Scambiò la fine delle stragi con alcuni benefici carcerari, compresa l’abolizione del 41 bis. Il punto però è che non esiste nessun indizio che questa trattativa ci fu. Anche perché nei processi paralleli a questo di Di Matteo e degli altri Pm palermitani, sono piovute assoluzioni. Il generale Mori, ad esempio, è stato già dichiarato innocente. E così Calogero Mannino, ex ministro, che fin qui è l’unico rappresentante del governo che è stato accusato di aver trattato.

Ora uno si chiede: ma se noi sappiamo che non trattò il governo, non trattarono i servizi segreti, non trattarono i carabinieri, ma che diavolo di trattativa fu? E poi sappiamo anche che nessuno dei benefici indicati dagli accusatori fu concesso. Mancano i protagonisti del reato e manca il bottino. Voi capite che sembra una commedia surreale. Ma è più surreale ancora perché assieme all’accusa verso lo Stato (e fondamentalmente verso la sinistra Dc) di avere trattato con la mafia, c’è anche l’accusa a Dell’Utri (e quindi a Berlusconi) di avere fatto la stessa cosa, ma, sembrerebbe, con un intento opposto. Perché l’accusa immagina i berlusconiani che trattano con la mafia per destabilizzare la Dc, la quale intanto tratta con la mafia per stabilizzare. C’è da diventare pazzi. Sembra una farsa. Una farsa, però, fino a un certo punto. Oltre il quale diventa davvero un dramma. E un po’ indigna. Indigna per esempio il modo nel quale è stato trattato l’ex presidente del Senato. Nessuno al mondo riesce a capire di cosa sia accusato Nicola Mancino, 86 anni, prestigiosissimo leader democristiano, più volte ministro, ex presidente del Senato. Dicono che non si ricordi di un incontro che forse ha avuto con il magistrato Borsellino, prima che Borsellino fosse ucciso dalla mafia, e che non si ricordi nemmeno di una telefonata di Claudio Martelli, che l’avrebbe messo in guardia su alcuni comportamenti dei Ros che non lo convincevano. Embé?

Si tratta di cose avvenute un quarto di secolo fa. E nessuno sa se l’incontro e la telefonata ci furono oppure no. E comunque, anche se ci furono, furono episodi normalissimi che non c’è nessun bisogno di nascondere. Eppure i magistrati chiedono che Mancino trascorra sei anni in carcere. Qui c’è poco da scherzare. C’è da avere seriamente paura. Qualche Pm una mattina si sveglia e ha il potere, sulla base di nulla, di riempire di fango un padre della democrazia italiana, e di chiedere, con arroganza, che sia sbattuto in carcere. E per di più questo Pm confessa bellamente che lui non cerca reati, ma “strategie più complessive”. Siamo sicuri che non esistano le condizioni per intervenire, da parte delle istituzioni? Sicuri che sia giusto che un magistrato rivendichi che la sua funzione non è quella di accertare i reati ma quella di processare la politica seguendo sue idee e teorie? Diceva Piero Calamandrei: «Non spetta alle toghe giudicare la storia di un paese». Già, Calamandrei. Chissà se i Pm di Palermo conoscono il nome di Calamandrei. Certo che se Calamandrei avesse conosciuto i Pm di Palermo, sarebbe inorridito…

Trattativa Stato-mafia, i pm: "Provenzano vendette Riina ai carabinieri". A ripercorrere l'arresto del padrino, finito in manette dopo decenni di latitanza il 15 gennaio del 1993, è Vittorio Teresi, scrive il 19 gennaio 2018 "La Repubblica". "L'arresto di Riina fu frutto di un compromesso vergognoso che certamente era noto ad alcuni ufficiali del Ros come Mori e de Donno, fu frutto di un progetto tenuto nascosto a quegli esponenti delle istituzioni e quei magistrati che credevano invece nella fermezza dell'azione dello Stato contro Cosa nostra". La cattura del boss corleonese Totò Riina come snodo della seconda fase della trattativa tra parte delle istituzioni e la mafia è al centro dell'udienza odierna del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, dedicata alla prosecuzione della requisitoria dei pubblici ministeri Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi. A ripercorrere l'arresto del padrino, finito in manette dopo decenni di latitanza il 15 gennaio del 1993, è il pm Teresi certo, secondo quanto prospetta l'ipotesi accusatoria, che Riina venne "consegnato" ai carabinieri dall'ala di Cosa nostra vicina a Bernardo Provenzano. Riina, con cui i militari del Ros imputati al processo avevano intavolato un dialogo finalizzato a far cessare le stragi, era ritenuto un "interlocutore" troppo intransigente. Perciò gli si sarebbe preferito Provenzano, fautore della linea della sommersione, e lontano dall'idea del "papello", l'ultimatum che Riina avrebbe presentato allo Stato tramite i carabinieri. Provenzano dunque, dopo le stragi del '92, sarebbe entrato in gioco e avrebbe consentito la cattura del compaesano con la complicità del Ros pretendendo, tra l'altro, che il covo del capomafia "venduto" non fosse perquisito. "Era chiaro che tutto questo doveva essere tenuto segreto - ha spiegato Teresi - E dopo la cattura di Riina e l'uscita di scena anche di Ciancimino le linee dell'accordo sono chiare e si passa ai fatti". "Così come per i carabinieri è fondamentale mantenere il segreto sulla cattura di Riina - ha aggiunto il magistrato - altrettanto è importante, per la mafia, che nulla trapeli sul fatto". La Procura descrive uno Stato diviso in due: da una parte pezzi delle istituzioni pronti a trattare dopo gli attentati a Falcone e Borsellino per "paura e incompetenza", dall'altra un "manipolo" di uomini come l'ex Guardasigilli Claudio Martelli e l'ex capo del Dap Nicolò Amato, convinti che si dovesse mantenere la linea dura contro Cosa nostra. I timori e l'incapacità di far fronte all'emergenza dunque avrebbero portato alcuni rappresentanti delle istituzioni a piegarsi al ricatto nell'illusione che alcuni cedimenti, come ad esempio, una attenuazione all'odiato 41 bis, potesse far cessare le bombe mafiose. "Non si comprese, ha detto il pm, che la mafia avrebbe letto tutto questo come il segno che si poteva rilanciare come avvenne con gli attentati nel Continente e trattare ancora per ricevere altri benefici". Teresi ha ricostruito tutta la parte dell'impianto accusatorio relativa alle concessioni fatte dallo Stato a Cosa nostra, nel 1993, sulla politica carceraria: dalla sostituzione dei vertici del Dap, come Amato, ritenuto troppo duro e allontanato senza preavviso dal suo incarico, alla revoca del 41 bis nelle carceri di Poggioreale e Secondigliano a febbraio del 1993, alla nomina al ministero della Giustizia di Giovanni Conso che prese il posto di Claudio Martelli, il politico che, dopo le stragi del '92, aveva istituito il regime carcerario duro per i mafiosi. E ha fatto nomi e cognomi di chi "per paura o incompetenza" avrebbe avallato la politica della distensione: l'ex capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, l'ex Guardasigilli Giovanni Conso, Aldalberto Capriotti, subentrato ad Amato al Dap e il suo vice Francesco Di Maggio. Sullo sfondo, nella ipotesi dell'accusa, restano entità non precisate che avrebbero consigliato a Cosa nostra la strategia da seguire. "Centri occulti che hanno suggerito alla mafia cosa fare per indurre lo Stato a cedere. Ci fu un'intelligenza esterna che ha orientato i comportamenti di Cosa nostra e si è fatta comprimario occulto dell'azione mafiosa riuscendo ad agire indisturbata perché poteva confidare nella linea della distensione scelta da pezzi delle istituzioni". "Se avesse prevalso la durezza - ha aggiunto il magistrato - nessuno spazio ci sarebbe stato per un dialogo che ha invece rafforzato la mafia e la sua azione terroristica. Se avesse prevalso la durezza, i consiglieri dei mafiosi sarebbero stati individuati e assicurati alla giustizia, ma nel clima di compromesso che ci fu, tutto si è confuso".

Trattativa Stato-mafia: condannati Mori, Dell'Utri e Ciancimino. Assolto Mancino. Dopo la morte del capomafia Totò Riina, erano 9 gli imputati: condannati gli ex vertici del Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, l'ex senatore di Fi Marcello Dell'Utri, i boss Leoluca Bagarella e Nino Cinà, scrive Felice Cavallaro il 20 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". Per dire che il processo sulla «trattativa Stato-mafia» era sbagliato, definendo un errore il riferimento al reato di «minaccia a corpo politico dello Stato», erano scesi in campo giuristi di gran fama, a cominciare dal professore Giovanni Fiandaca, il cattedratico di Palermo con il quale studiò e si laureò l’ex pm Antonio Ingroia. E invece la corte di assise presieduta da Alfredo Montalto, confermando la tesi dell’accusa, ha condannato a pene severissime sia Marcello Dell’Utri, uno dei fondatori di Forza Italia indicato come gran manovratore della presunta trattativa nel ’94 con il governo Berlusconi, sia i vertici del Ros, gli ufficiali dei carabinieri ritenuti responsabili di sotterranee intese a cavallo delle grandi stragi sfociate nei massacri di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e delle loro scorte.

Dell’Utri gran manovratore. Una pagina di storia che grazia l’ex presidente del Senato Nicola Mancino, assolto dal sospetto di una falsa testimonianza, e si rovescia invece su boss e apparati investigativi. Scomparsi Totò Riina e Bernardo Provenzano, scattata la prescrizione per il pentito Giovanni Brusca, la responsabilità della trama e della stagione di sangue viene attribuita con una pena di 28 anni di carcere soprattutto al cognato di Riina, lo stragista Leolucua Bagarella già in cella, e al boss Antonino Cinà, 12 anni. Ma ad alimentare polemiche sul piano giudiziario e politico è il verdetto che si abbatte sui destini degli ex generali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, condannati a 12 anni di reclusione come Dell’Utri, ritenuto il trait d’union fra politica, mafia e apparati, già in cella per un altro processo. Durissima la Corte anche con l’ex colonnello Giuseppe De Donno, otto anni. Stessa pena attribuita a Massimo Ciancimino, il superteste del processo, il rampollo dell’ex sindaco mafioso che con le sue rivelazioni consentì alla Procura di riaprire le indagini, a sua volta accusato di calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Ciancimino jr. può però tirare un sospiro di sollievo perché assolto dall’accusa di associazione mafiosa.

Lo sconforto dei carabinieri. Bisognerà leggere le motivazioni di questa sentenza che arriva dopo 5 anni e sei mesi di processo, ma alla evidente euforia dei magistrati, a cominciare da quella di Nino Di Matteo che rilevò la sostanziale guida del dibattimento dopo la corsa di Ingroia verso la politica, corrisponde la delusione di Mori, De Donno e Subranni. A cominciare da quest’ultimo, anziano e malato: «Andremo avanti, in appello, per contestare una sentenza ingiusta. Le responsabilità che ci attribuiscono non sono state affatto commesse. Ma non posso dire niente, senza leggere le motivazioni...». Dello stesso tono l’amarezza del generale Mori confidata al legale dei tre ufficiali, Basilio Milio, che a sua volta parla di «grande sconforto e sbigottimento», certo però che «la verità è dalla nostra parte». E ai suoi assistiti concede un barlume di fiducia: «Possiamo sperare che finalmente, dopo 5 anni, in appello vi sarà un giudizio. Perché questo è stato un pregiudizio caratterizzato dall’adesione alle istanze della Procura e quasi mai della difesa. Una sentenza dura che non sta né in cielo né in terra perché questi fatti sono stati già smentiti da quattro sentenze definitive».

I supporter di Nino di Matteo. Di opposto parere i cinquanta supporter dei pm raccolti davanti all’aula bunker del carcere Pagliarelli dalle associazioni Agende rosse e Scorta civica, fra grandi applausi per i pm Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi e Nino Di Matteo. Con quest’ultimo incisivo e solenne: «Che la trattativa ci fosse stata non occorreva che lo dicesse questa sentenza. Ciò che emerge oggi e che viene sancito è che pezzi dello Stato si sono fatti tramite delle richieste della mafia. Mentre saltavano in aria giudici, secondo la sentenza, qualcuno nello Stato aiutava Cosa nostra a cercare di ottenere i risultati che Riina e gli altri boss chiedevano. Qualcuno dello Stato ha trattato con Riina e Bagarella e altri stragisti, trasmettendo le richieste, i messaggi di Cosa nostra ai governi. Prima si era messa in correlazione Cosa nostra con il Silvio Berlusconi imprenditore, adesso questa sentenza per la prima volta la mette in correlazione col Berlusconi politico. Le minacce subite attraverso Dell’Utri non risulta che il governo Berlusconi le abbia mai denunciate e Dell’Utri aveva veicolato tutto. Ecco perché è una sentenza storica». Una ragione in più perché il meno giovane dei pm, Teresi, affondi con un commento lapidario: «Questo processo e questa sentenza sono dedicati a Paolo Borsellino, a Giovanni Falcone e a tutte le vittime innocenti della mafia».

Fiandaca e l’accusa sbagliata. La sentenza spiazza uno dei maestri dei pm palermitani, appunto il professore Fiandaca: «Mi aspettavo un esito assolutorio per la difficoltà tecnica di configurare il reato di ‘minaccia a corpo politico dello Stato’, il reato previsto dall’articolo 338 del codice penale. La sua applicazione agli occhi di un giurista di professione -e non sono soltanto io a pensarlo- è sbagliata sotto il profilo di una interpretazione sistematica...». Ed ancora: «La questione è abbastanza tecnica e probabilmente una corte di assise in cui sono presenti i giudici popolari, di solito non molto esperti di diritto, non è la sede più adatta per approfondire questioni di questo tipo... Ma comprendo che il problema era la rilevanza penale della trattativa. E la linea della procura ha vinto, pur persistendo le mie riserve di giurista, convinto che la materia offrirà spunti di riflessione in appello e in Cassazione».

Graziano Nicola Mancino. Come dire che, a un quarto di secolo dai fatti e dopo cinque anni di processo, ci vorrà ancora tempo per un definitivo accertamento della verità giudiziaria. Non per l’unico assolto, Nicola Mancino, coinvolto anche per le sospette telefonate al Quirinale durante la presidenza di Giorgio Napolitano. Rilassato, ma segnato dalle accuse l’ex presidente del Senato: «Relegato per anni in un angolo, posso ora dire di non aver atteso invano. Ma che sofferenza...». Poi una riflessione più generale su questi anni: «Ho sempre avuto fiducia che a Palermo ci fosse un giudice. La lettura del dispositivo che esclude la mia responsabilità nel processo sulla cosiddetta trattativa ne è una solenne conferma. Sono stato vittima di un teorema che doveva mortificare lo Stato e un suo uomo, che tale è stato ed è tuttora...».

Sistemi criminali. Caso Mancino a parte, lo Stato non ne esce bene ed è come se riprendesse forma la vecchia inchiesta sui “sistemi criminali” avviata tanti anni fa dall’allora pm Roberto Scarpinato. Un’inchiesta che teorizzava un presunto golpe che avrebbe visto protagonisti negli anni Novanta, in un tentativo di destabilizzazione del Paese, Cosa nostra, massoneria deviata, pezzi di Stato ed eversione nera. Indagine poi archiviata, ma fu allora che si ipotizzò per la prima volta il reato oggi convalidato da una sentenza di primo grado: la violenza o minaccia a corpo politico dello Stato.

Di Maio ringrazia. Immediati i riflessi politici di una sentenza non a caso commentata con un twitter dal capo politico dei Cinque Stelle, Luigi Di Maio, da sempre in contatto con Di Matteo: «La trattativa Stato-mafia c’è stata. Con le condanne di oggi muore definitivamente la Seconda Repubblica. Grazie ai magistrati di Palermo che hanno lavorato per la verità». Passeranno almeno un paio di mesi per le motivazioni di una sentenza che condanna gli imputati anche al risarcimento in solido dei danni in favore della parte civile della Presidenza del consiglio dei ministri liquidati in 10 milioni di euro. Pagano tutti. Tranne chi ha ha premuto il pulsante della strage di Capaci, Giovanni Brusca, lo stesso che sciolse il piccolo Giuseppe di Matteo nell’acido, ormai pentito. Un quadro complessivo che lascia zone d’ombra, oltre la verità giudiziaria. 

Trattativa Stato-mafia: gli attentati, gli ufficiali, il presunto accordo con i boss. Ecco cos’è, dall’omicidio Lima a Ciancimino. La mafia avrebbe alzato il tiro contro le istituzioni dopo la sentenza definitiva sul maxiprocesso, lo Stato, per fermare l’ondata di sangue avrebbe intavolato un dialogo segreto con i boss. Le fonti di prova (e i punti deboli) del teorema, scrive Claudio Del Frate il 17 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera".

Personaggi e interpreti. Il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia ha fatto «ballare» politica e giustizia in Italia per una ventina d’anni. L’accusa si è mossa sulla base di un «teorema» in base al quale di fronte all’offensiva di Cosa Nostra che insanguinò l’Italia a partire dagli anni ‘90, lo Stato avrebbe risposto cercando un accordo con i capi della mafia. Sul banco degli imputati davanti alla Corte d’Assise di Palermo si sono trovati rappresentanti delle istituzioni (gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno) , Marcello Dell’Utri e i capimafia Antonio Cinà, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca. All’inizio delle udienze nel processo erano accusati anche Totò Riina e Bernardo Provenzano, poi deceduti. Stralciata la posizione degli ex ministri Calogero Mannino (nel frattempo assolto) e Nicola Mancino (quest’ultimo accusato solo di falsa testimonianza).

La rottura: l’omicidio Lima. Il fatto da cui sarebbe scaturita la trattativa viene fissato dai pm di Palermo nell’omicidio dell’europarlamentare Dc Salvo Lima (marzo 1992): ritenuto contiguo ai clan, Lima agli occhi dei boss sarebbe stato ucciso in quanto non più in grado di garantire i rapporti tra Cosa Nostra e istituzioni. La frattura avviene in particolare dopo la sentenza definitiva sul maxiprocesso di Palermo. Rotti questi equilibri, la mafia si sarebbe vendicata alzando il tiro contro lo Stato. Tale strategia sarebbe passata attraverso gli omicidi «eccellenti» di Falcone e Borsellino, gli attentati del ‘93 a Milano, Firenze e Roma, tutti attribuiti a Totò Riina e ai suoi complici.

Mannino diede il via alla trattativa? Sempre nel quadro «disegnato» dall’accusa, il primo passo dello Stato verso la mafia viene compiuto da Calogero Mannino: divenuto bersaglio di minacce l’indomani dell’omicidio Lima (gli viene recapitata una corona funebre), l’esponente Dc contatta i vertici dei carabinieri e questi ultimi avrebbero a loro volta avvicinato l’ex sindaco di Palermo condannato per mafia Vito Ciancimino. Da qui si sarebbe dipanata la trattativa i cui «segnali» sarebbero stati la revoca del carcere duro per oltre 300 condannati per mafia nel ‘93, la cattura di Riina («venduto ai carabinieri» in cambio della latitanza per Provenzano), l’omicidio Borsellino (ucciso perché contrario alla trattativa) e presunti incontri tra capimafia (ad esempio i fratelli Graviano) ed esponenti della politica. E più avanti un abboccamento per far convergere i voti di Cosa Nostra su Forza Italia attraverso Cinà e Dell’Utri.

Il «papello» mai trovato. Cuore della trattativa sarebbe però il cosiddetto «papello»: un documento fatto recapitare da Riina agli esponenti delle istituzioni (attraverso i carabinieri) con una serie di richieste. Tra esse ci sarebbero state l’abolizione del carcere duro per i mafiosi e del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso. In cambio di quelle richiesta veniva promessa una «pax» mafiosa e la cessazione degli attentati. Quel pezzo di carta, tuttavia, non è mai stato ritrovato. Anzi: una copia messa a disposizione degli inquirenti da parte di Massimo Ciancimino, figlio di Vito, si è rivelato una «patacca». Costata l’incriminazione allo stesso Ciancimino junior.

Le fonti di prova? I pentiti. Le fonti di prova per questa trama portate dalla procura all’attenzione della Corte sono state essenzialmente le deposizioni dei pentiti. Giovani Brusca in primis, ma anche Salvatore Cancemi, Nino Giuffrè e Gaspare Spatuzza. Tutti (ma solo loro) avvalorano il fatto che l’indomani del delitto Lima e degli attentati venne avviato il dialogo tra i carabinieri e i capimafia. Anche alcune sentenze avvalorano l’ipotesi che sia esistito un patteggiamento tra Stato e malavita organizzata ma sempre sulla scorta dei collaboratori di giustizia. Vengono ritenute inoltre rilevanti le intercettazioni in carcere dei colloqui di Totò Riina con un compagno di cella. In particolare una frase («Sono loro che si sono fatti sotto...») che alluderebbe secondo i pm a una volontà dello Stato di avvicinare i capi della mafia per intavolare la trattativa.

I punti deboli dell’accusa. L’impianto dell’accusa, tuttavia, ha subito alcuni colpi che ne hanno messo in dubbio la solidità. Questi colpi sono arrivati in particolare da sentenze «esterne» al processo Stato-mafia ma ad esso connesse. Ad esempio, Calogero Mannino è già stato assolto in primo grado da tutte le accuse: dunque nel suo comportamento non è stato ravvisato alcun «avvicinamento» con le cosche. Anche il generale dei carabinieri Mario Mori è stato assolto dall’accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano: questa avrebbe dovuto essere una delle «monete di scambio» tra la mafia e le istituzioni. E infine era già crollata la credibilità di Massimo Ciancimino, le cui presunte rivelazioni (ad esempio sulla partecipazione di un fantomatico «signor Franco» dei servizi segreti alla partecipazione delle stragi mafiose) sono rumorosamente crollate a dispetto della loro eco mediatica.

Trattativa Stato-mafia, condannati Mori, De Donno, Dell'Utri e Bagarella. Assolto Mancino. La sentenza della corte d’assise di Palermo dopo 5 anni di processo. I giudici accolgono la ricostruzione della procura sulla stagione del 1992-1993. Mancino: "Ho avuto sempre fiducia che a Palermo ci fosse un giudice". Di Matteo: "Sentenza storica". Maxi risarcimento per la presidenza del consiglio: dieci milioni di euro, scrive Salvo Palazzolo il 20 aprile 2018 su "La Repubblica". Condannati gli uomini delle istituzioni e i mafiosi per la trattativa Stato-mafia. Dodici anni per gli ex generali Mario Mori e Antonio Subranni, dodici anni per l'ex senatore Marcello Dell'Utri, 8 anni per l'ex colonnello Giuseppe De Donno. Ventotto anni per il boss Leoluca Bagarella. Assolto l'ex ministro Nicola Mancino, perché il fatto non sussiste. Massimo Ciancimino, il supertestimone del processo, è stato condannato a 8 anni per calunnia nei confronti dell'ex capo della polizia Gianni De Gennaro, è stato invece assolto dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. E' scattata la prescrizione per il pentito Giovanni Brusca. Dopo 5 anni e 6 mesi di processo, 5 giorni di camera di consiglio, ecco il verdetto della Corte d’assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto (giudice a latere Stefania Brambille) nel processo chiamato a indagare sulla terribile stagione del 1992-1993, insanguinata dalle stragi Falcone e Borsellino e poi dagli attentati di Roma, Milano e Firenze. All’ex ministro Mancino era stata contestata la falsa testimonianza; agli altri uomini delle istituzioni, il reato di concorso in minaccia a un corpo politico dello Stato, minaccia lanciata dai mafiosi con le bombe. La condanna attribuisce la responsabilità agli ufficiali del Ros per il periodo 1992-1993; a Dell'Utri, per il "periodo del governo Berlusconi". Ovvero, il 1994. I giudici hanno anche stabilito un maxi risarcimento dei danni nei confronti della presidenza del consiglio dei ministri: 10 milioni di euro. Secondo i pubblici ministeri Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi, in quei mesi uomini dello Stato avrebbero trattato con i vertici di Cosa nostra: la finalità dichiarata era quella di bloccare il ricatto delle bombe, ma per l’accusa gli ufficiali dei carabinieri avrebbero finito per veicolare il ricatto lanciato dai mafiosi, trasformandosi in ambasciatori dei boss. Era questo il cuore dell’atto d’accusa dei magistrati, che nella requisitoria avevano chiesto pesanti condanne. Le motivazioni della sentenza arriveranno fra novanta giorni.

Esulta Mancino, che aveva scelto di aspettare a casa la lettura della sentenza: "Ho sempre avuto fiducia che a Palermo ci fosse un giudice. Sono stato vittima di un teorema che doveva mortificare lo Stato e un suo uomo, che tale è stato ed è tuttora. Sono stato volutamente additato ad emblema di una trattativa, benchè il mio capo di imputazione, che oggi è caduto, fosse di falsa testimonianza". In aula, il pm Nino Di Matteo parla invece di una "sentenza storica". Dice: "Ora abbiamo la certezza che la trattativa ci fu. La corte ha avuto la certezza e la consapevolezza che mentre in Italia esplodevano le bombe nel '92 e nel '93 qualche esponente dello Stato trattava con Cosa nostra e trasmetteva la minaccia di Cosa nostra ai governi in carica. E questo è un accertamento importantissimo, che credo renda un grosso contributo di chiarezza del contesto in cui sono avvenute le stragi. Contesto criminale e purtroppo istituzionale e politico. Ci sono spunti per proseguire le indagini su quella stagione". "Prima si era messa in correlazione Cosa nostra con il Silvio Berlusconi imprenditore, adesso questa sentenza per la prima volta la mette in correlazione col Berlusconi politico - dice ancora Di Matteo - le minacce subite attraverso dell'Utri non risulta che il governo Berlusconi le abbia mai denunciate e Dell'Utri ha veicolato tutto. I rapporti di Cosa nostra con Berlusconi vanno dunque oltre il '92".

LA PRIMA TRATTATIVA. Secondo l'accusa, nel 1992, "i carabinieri del Ros avevano avviato una prima trattativa con l'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, che avrebbe consegnato un ‘papello’ con le richieste di Totò Riina per fermare le stragi". Circostanza negata dai carabinieri imputati. Mori ha negato anche di avere incontrato l'ex sindaco mafioso prima della strage Borsellino, i primi contatti sarebbero stati tenuti da De Donno. La procura riteneva diversamente. E la corte ha accolto la ricostruzione della procura. Durante l'inchiesta "Trattativa" è emerso che un mese dopo la morte di Falcone, l'allora capitano De Donno chiese una "copertura politica" per l'operazione Ciancimino (il dialogo segreto con l'ex sindaco) al direttore degli Affari penali del ministro della Giustizia Liliana Ferraro, che però rimandò l'ufficiale ai magistrati di Palermo. Il 28 giugno, la Ferraro parlò del Ros e di Ciancimino a Borsellino, che le disse: "Ci penso io". E da quel momento, il mistero è fitto. Cosa sapeva per davvero Borsellino? A due colleghi disse in lacrime (un'altra circostanza emersa nell'inchiesta di Palermo): "Un amico mi ha tradito". Chi è "l'amico" che tradì? Resta il giallo.

L'ACCUSA A MANCINO. Sono state le parole dell'allora ministro della Giustizia Claudio Martelli ad aver messo nei guai l'ex ministro dell'Interno Mancino. "Mi lamentai con lui del comportamento del Ros", ha messo a verbale l'ex ministro della Giustizia davanti ai giudici di Palermo. "Mi sembrava singolare che i carabinieri volessero fare affidamento su Vito Ciancimino". Martelli ha affermato senza mezzi termini di aver chiesto conto e ragione a Mancino dei colloqui riservati fra gli ufficiali del Ros e l'ex sindaco mafioso di Palermo. Mancino ha sempre negato: ha detto di non avere mai parlato del Ros e di Ciancimino con Claudio Martelli. Lo ha ribadito poco prima che i giudici entrassero in camera di consiglio. E la Corte ha creduto alla sua versione.

LA SECONDA TRATTATIVA. Secondo l’accusa, dopo l'arresto di Riina, avvenuto il 15 gennaio 1993, i boss avrebbero avviato una seconda Trattativa, con altri referenti, Bernardo Provenzano e Marcello Dell'Utri. Mentre le bombe mafiose esplodevano fra Roma, Milano e Firenze, un altro ricatto di Cosa nostra per provare a ottenere benefici. "Dell'Utri ha fatto da motore, da cinghia di trasmissione del messaggio mafioso", hanno accusato i pubblici ministeri. "Il messaggio intimidatorio fu trasmesso da Dell'Utri e recapitato a Berlusconi". E ancora:

"Nel 1994, Dell'Utri riuscì poi a convincere Berlusconi ad assumere iniziative legislative che se approvate avrebbero potuto favorire l'organizzazione". All’esito di questa seconda trattativa, sosteneva l’accusa, sarebbe stato attenuato il regime del carcere duro.

Trattativa Stato-Mafia: tutti condannati tranne Nicola Mancino. Lo scambio di favori ci fu. Così la corte d'assise palermitana ha espresso condanne da 12 a 28 anni di reclusione per Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, Marcello Dell'Utri, Antonio Subranni, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Massimo Ciancimino, scrive Maurizio Tortorella il 20 aprile 2018 su "Panorama". Ci fu veramente la “Trattativa” tra Stato e Cosa nostra? Dopo cinque anni di processo, arriva una risposta, per quanto provvisoria. E la risposta è sì, almeno secondo i giudici della seconda sezione della Corte d’assise di Palermo. Quei giudici, riuniti in camera di consiglio da lunedì 16 aprile, hanno pronunciato il verdetto di primo grado nell’aula-bunker del carcere Pagliarelli, nella periferia a sud-ovest della città: la stessa aula sorda e beige dove per oltre cinque anni, inanellando 212 udienze e intrecciando migliaia di ore nell’ascolto di oltre 200 testimoni (tra i quali, nell’ottobre 2014, l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano), si è celebrato uno dei procedimenti penali più difficili, complicati e controversi nella storia d’Italia. Sempre per la prima volta nella storia, del resto, con l’inchiesta sulla “Trattativa Stato-mafia” la Procura di Palermo ha messo insieme sul banco degli imputati capi mafiosi, alti ufficiali delle forze dell’ordine e uomini delle istituzioni. Attraverso di loro, la Procura ha voluto a tutti i costi processare il “patto illecito” che sarebbe stato ordito nel 1992-93 da pezzi delle istituzioni con i vertici di Cosa nostra, uniti in un inconfessabile scambio: l’organizzazione criminale avrebbe dovuto interrompere la stagione delle stragi (Capaci, Palermo, Firenze, Milano…) in cambio di un allentamento del regime carcerario duro riservato ai boss mafiosi. La Corte d’assise palermitana, presieduta da Alfredo Montalto, ha deciso oggi che quell’accusa avesse un fondamento e per questo ha condannato sette imputati su otto. L’unico assolto è l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, che era stato accusato di falsa testimonianza. Per il reato di minaccia e violenza a un corpo politico dello Stato, invece, la Corte ha inflitto 28 anni di reclusione al boss Leoluca Bagarella; 12 anni ad Antonino Cinà, il medico del boss Totò Riina; 12 anni all'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri (già in carcere perché condannato in via definitiva a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa). Sono dure anche le condanne inflitte all’ex capo del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri Antonio Subranni (12 anni), al suo vice del tempo Mario Mori (12 anni) e all’allora capitano Giuseppe De Donno (otto anni). Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, è stato condannato infine a otto anni di reclusione per calunnia. 

Gli inizi. Tutto era cominciato nel 2008-2009. L’inchiesta sulla “Trattativa” era nata allora, con il diverso nome in codice “Sistemi criminali”, per iniziativa del pubblico ministero palermitano Antonio Ingroia (poi dedicatosi alla politica con fortuna inversamente proporzionale all’intensità degli ideali). A dare il via all’inchiesta di Ingroia era stato proprio uno degli imputati del processo sulla “Trattativa”: Massimo Ciancimino, sedicente depositario delle “verità” che negli ultimi 30 anni si sarebbero accumulate nei rapporti tra mafia, politica e servizi segreti. Ciancimino jr aveva rivelato anche l’esistenza di un documento scritto, il cosiddetto “papello” vergato da suo padre, contenente i termini dell’accordo. Di quel documento, contestato dai periti delle difese, non è però mai stata fornita una versione originale ma soltanto fotocopie. Teste controverso e più volte screditato, Massimo Ciancimino è poi paradossalmente entrato nel processo sulla “Trattativa” cui lui stesso ha contribuito perché accusato di avere calunniato l’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro. Per lo stesso reato di calunnia, peraltro, Ciancimino è già stato condannato (in primo grado) per ben tre volte a Palermo, Bologna e Caltanissetta. E attualmente è in carcere perché condannato per concorso in associazione mafiosa, per riciclaggio di denaro e per detenzione d’esplosivo. Contro le tesi di Ingroia e dei suoi successori, per tutti questi anni gli avvocati degli imputati e i critici dell’inchiesta sulla “Trattativa” hanno sempre sottolineato il carattere ideologico-politico dell’inchiesta, e criticato l’inconsistenza e l’inverosimiglianza delle accuse. Alcuni grandi giuristi e tecnici del diritto penale, come Giovanni Fiandaca, ne hanno addirittura contestato le stesse fondamenta giuridiche, sostenendo che la politica aveva e ha il pieno diritto costituzionale d’intervenire in ogni materia, anche per cercare di fermare le stragi di mafia.

Le richieste. Lo scorso 26 gennaio i quattro pubblici ministeri Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia avevano concluso le loro requisitorie presentando alla Corte queste richieste di pena per gli otto imputati: 12 anni per i mafiosi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, e altrettanti per Marcello Dell’Utri (già in carcere perché condannato in via definitiva a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa). I pm avevano chiesto sei anni per l’ex ministro Nicola Mancino e avevano stabilito invece il “non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato” nei confronti del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, e la Corte d’assise ne ha convenuto. Per Antonio Subranni e per l’allora capitano Giuseppe De Donno la Procura aveva chiesto 12 anni, mentre ne aveva domandati 15 per Mario Mori. Per la calunnia attribuita a Massimo Ciancimino, infine, la Procura aveva chiesto 5 anni. Il procuratore aggiunto Teresi aveva concluso così la requisitoria: “Noi siamo convinti che tutte le tessere che abbiamo ricostruito e abbiamo offerto, dagli anni Settanta fino alla metà degli anni Novanta, si incastrino in un quadro d’insieme che ha a che fare con i reati contestati. Un quadro nel quale qualche tessera è sporca del sangue delle vittime di quelle stragi. Possiamo dire che la strage di Capaci è una strage consumata per vendetta e per fermare quella grande evoluzione normativa che Giovanni Falcone aveva impresso dal ministero della Giustizia...”. Nel processo, il cui svolgimento in aula era cominciato il 7 marzo 2013, gli imputati inizialmente erano 11. In questi ultimi cinque anni, però, i due boss Totò Riina e Bernardo Provenzano sono morti in carcere, da ergastolani. L’undicesimo imputato, l'ex ministro democristiano Calogero Mannino, l’unico ad avere scelto il rito abbreviato, è invece stato assolto il 4 novembre 2015 dall'accusa di violenza e minaccia a corpo politico dello Stato "per non aver commesso il fatto": per lui, all’epoca, la Procura di Palermo aveva chiesto nove anni di reclusione. Nel suo caso, inutilmente. E anche questa incongruenza, probabilmente, peserà sull’inevitabile giudizio d’appello.

Trattativa Stato-mafia, cold case all'italiana. Criticato anche da molti magistrati, il processo è rimasto digiuno di prove. Ormai è solo materiale per film e serie tv (Sabina Guzzanti docet), scrive Claudio Martelli il 9 agosto 2017 su "Panorama". Si chiamano cold case, casi - o delitti - raffreddati, cioè remoti, irrisolti e archiviati. Ogni tanto qualcuno di questi casi che, dopo molto scalpore, lasciò più domande che risposte, riemerge. A risollevarli sono talvolta i parenti delle vittime, più spesso un giornalista o uno sceneggiatore televisivo che, spulciando, trova spunto in qualche vecchio caso. In America ai cold case alcuni distretti di polizia riservano un ufficio: didattica per le teste calde o passatempo sull'orlo della pensione. Invece la tv ne ha fatto una specializzazione, una branca delle serie Crime. Anche in Italia l'archeologia giudiziaria è un'attività fiorente e ha fatto la fortuna di produttori, registi e attori. Di diverso c'è che da noi alcuni magistrati hanno costruito le loro carriere e conquistato la fama dedicando centinaia di indagini e decine di anni di processi sempre agli stessi, pochi, fatti e alle stesse, moltissime, dicerie e supposizioni mai provate. A questo genere appartiene certamente il processo alla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia. Criticato anche da molti magistrati, il processo spettacolare negli annunci è rimasto digiuno di prove e riscontri. Come stupirsi? Alla vigilia del rinvio a giudizio, il pm Antonio Ingroia, che l'aveva imbastito, pensò bene di trasferirsi in Nicaragua per conto dell'Onu. Non prima di aver dato alle stampe un suo libricino intitolato Io so. Chissà l'umore dei colleghi che ereditarono l'indagine nel leggere il seguito di Io so. Testualmente: "Io so ma non lo posso dimostrare". Così è toccato a Nino Di Matteo osare quel che Ingroia aveva fallito. Intanto, in altri processi paralleli, le corti mandavano assolti gli ufficiali del Ros che la Procura di Palermo aveva posto al centro della trattativa, colpevoli di non aver perquisito il covo di Riina e di non aver arrestato Provenzano. Analoga assoluzione ha ottenuto l'ex ministro Calogero Mannino, accusato di essere stato la mente della trattativa. Viceversa è stato sbugiardato e arrestato quel Massimo Ciancimino che la Procura aveva elevato a eroe dell'antimafia. Così, orfano, il processo alla trattativa è diventato materiale per film e serie tv. Sabina Guzzanti ne ha fatto un docufilm e l'ha presentato alla mostra di Venezia. La trama ha lo stesso assunto dell'inchiesta di Palermo e anche la stessa efficacia probatoria. In breve: tra il '92 e il '94 la mafia siciliana delusa dai vecchi partiti che si erano messi a contrastarla cerca nuovi referenti politici e prima ancora che fosse nata e che vincesse le elezioni si affida a Forza Italia tramite Marcello Dell'Utri il quale giace sì in carcere, ma che da questa accusa è stato assolto dalla Cassazione. A febbraio Sabina presenta il suo film a Catanzaro in una serata tutta 5 Stelle. A luglio la Procura replica il copione: stessi pentiti, stesse accuse, stessa trama. Al patto tra Stato e mafia avrebbe aderito anche la 'ndrangheta calabrese "con l'avallo di massoneria e servizi segreti deviati". Il canovaccio originale che "i pm calabresi hanno acquisito e aggiornato" è sempre quello: l'inchiesta sui cosiddetti "Sistemi criminali" di Roberto Scarpinato. L'inchiesta fu archiviata ma i diritti d'autore, non c'è dubbio, sono suoi.

Stato-Mafia, così la sentenza Mannino seppellisce il teorema della trattativa. Il legale di Mori: "Ora serve un'indagine sugli enormi costi giudiziari a carico della collettività", scrive Anna Germoni il 7 novembre 2016 su "Panorama". "Questa sentenza è una ulteriore pietra tombale sul teorema della trattativa. Già nel 2013 i giudici della quarta sezione del tribunale di Palermo, che assolsero il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu, demolirono tali fantasie (quelle della trattativa Stato-mafia, ndr) scrivendo 1.322 pagine. Ora ne arrivano altre 500, con l'assoluzione di Calogero Mannino, che mi sembrano anche un atto d'accusa contro alcuni metodi d'indagine in uso a Palermo”. Con queste parole molto dure nei confronti dei magistrati titolari dell'inchiesta Stato-mafia, l'avvocato Basilio Milio, legale dei prefetto Mario Mori, commenta le motivazioni del gup, Marzia Petruzzella, che il 3 novembre del 2015 aveva assolto l'ex ministro Dc, per “non aver commesso il fatto”. Milio aggiunge, “sarebbe ora che ci si interrogasse sulle vere ragioni di tali processi e si avviasse un'indagine sugli enormi costi giudiziari a carico della collettività”. Una stoccata al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al Csm e al sindacato dei magistrati, l'Anm. Calogero Mannino era accusato di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato ma aveva scelto il rito abbreviato, mentre il processo principale è in corso a Palermo, con imputati, tra gli altri, Riina, Bagarella, Mori, De Donno e Mancino. Secondo l'accusa, il politico aveva cercato di aprire un canale con i boss temendo per la propria incolumità. Subito dopo il verdetto i pm dichiararono di ricorrere in appello, mentre il procuratore capo Lo Voi, più cauto commentò di voler “valutare dopo le motivazioni”. Ebbene le motivazioni sono arrivate, dopo un anno dalla sentenza di assoluzione. Il giudice per le udienze preliminari, scusandosi per il ritardo del deposito, ha scritto oltre 500 pagine di motivazioni della sentenza, sviscerando e analizzando una mole di faldoni impressionanti, considerando che nel processo in corso sono stati depositati oltre un milione di pagine. La giudice Petruzzella, nelle motivazioni più volte ammonisce i magistrati dell'inchiesta Stato-mafia, Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Antonino Di Matteo per l'impianto accusatorio, anzi sarebbe meglio scrivere per l'assenza di impianto accusatorio. E la Petruzzella non va tenera.

Gup contro Pm. La gup scrive: “il procedimento “trattativa” si inserisce nell’alveo di un’altra nutrita serie di indagini (i cui atti sono in parte pure compresi nel fascicolo del Pm), svolte nell’ultimo trentennio soprattutto dalle Procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze, ché, parallelamente alla celebrazione dei processi contro mandanti ed esecutori materiali, via via individuati, hanno sondato se dietro la strategia stragista di quegli anni si annidasse una regia politica occulta. Vi rientrano: l’indagine contro Berlusconi e Dell’Utri, dalla Procura di Caltanissetta, archiviata nel 2002, e quella della stessa Procura, cosiddetta "mandanti occulti bis", archiviata nel 2003, l’indagine della Procura di Palermo denominata “sistemi criminali”, archiviata nel 2001, oltre la già più volte richiamata primigenia indagine “trattativa” della Procura di Palermo iscritta nel 2000 (…) la Procura di Palermo nel 2008 ha continuato invece a privilegiare l’ipotesi della trattativa stato-mafia, secondo l’originaria formulazione (del papello ricattatorio di Riina con la partecipazione alla trattativa di Vito Ciancimino), considerando Massimo Ciancimino una fonte di una qualche “criticità” ma tuttavia suscettibile di sviluppi validi a chiudere il quadro degli interrogativi, che erano rimasti aperti al momento della archiviazione del 2004, soprattutto sull’ipotesi che l’invio della lista di richieste di Riina fosse stata sollecitata da Mori, quale intermediario per conto di una parte istituzionale". Analizzando gli elementi probatori la gup sottolinea la linea “unidirezionale prescelta dal Pm nella lettura della serie di dati di fatto messi in rilievo e posti a sostegno del suo impianto” e che “molti degli elementi indicati dall’organo dell’accusa afferiscono a situazioni in realtà notorie o pacifiche, che quindi non avrebbero bisogno di essere provate, o persino irrilevanti (quando suscettibili di plausibili letture alternative). E ancora, “la consequenzialità logica di questa analisi del Pm appare molto fragile ed affetta da un evidente vizio di circolarità” (…) “i Pm si sono soffermati ad illustrare il compendio probatorio posto a sostegno della loro complessa rappresentazione accusatoria (..) ma in un’ottica più ampia di quella adottata qui dal Pm (tutti tratti dagli oltre cento faldoni, che compendiano la documentazione dell’indagine e quella affluita nel corso dell’udienza preliminare) il giudice deve restituire a questo processo “la necessaria dialettica, rimasta inevitabilmente frustata dalle caratteristiche del rito abbreviato, unite alla straordinarie dimensioni della documentazione prodotta dalla pubblica accusa, ed acuita, appunto, dalla lettura unidirezionale dei fatti adottata dal Pm”. Il giudice infine nelle ultime pagine delle motivazioni della sentenza assolutoria nei confronti dell'ex ministro Dc, ammonisce i magistrati: “gli indizi devono essere, infatti, prima vagliati singolarmente, per accertarne il valore probante individuale in base al grado di inferenza dovuto alla loro gravità e precisione, per poi essere esaminati unitariamente per porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo, univoco e pregnante contesto dimostrativo. Ogni "episodio" va dapprima considerato di per sé come oggetto di prova autonomo onde poter poi ricostruire organicamente il tessuto della "storia" racchiusa nell'imputazione”.

Il "papello" di Massimo Ciancimino. Sul papello ci eravamo già soffermati, anticipando nel 2013 le dichiarazioni della giudice Petruzzelli, non per vaticinio ma per aver analizzato gli atti processuali. Il gup scrive che “l'analisi integrale delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino ne ha rivelato l'assenza di coerenza e ha reso palese la strumentalità del comportamento processuale, la gravità degli artifici adoperati per rendere credibili le sue sensazionali rivelazioni e giustificare le sue molteplici contraddizioni e per tenere sulla corda i pubblici ministeri col postergare la promessa di consegnar loro il papello, carpirne così la considerazione e mantenere sempre alta su di sé l'attenzione generale, accompagnato nel suo luminoso cammino dalla stampa e dal potente mezzo televisivo, stuzzicati con altrettanta astuzia". "In particolare - prosegue il gup - sul finire del 2008 il Ciancimino creava abilmente nei pm, che lo interrogavano sulla trattativa tra il padre e i due carabinieri del Ros, l'aspettativa del papello, che forniva solo in fotocopia sul finire del 2009, dopo averli riempiti di documenti del padre, selezionati a suo scelta e consegnati nei tempi da lui decisi, e di informazioni modulate a seconda delle evoluzioni del suo racconto e delle contraddizioni in cui andava incespicando. Non può mancarsi di notare ancora una volta: che l'autore del papello consegnato dal Ciancimino in copia ai Pm non è stato identificato". Il gup elenca tutti i punti oscuri della collaborazione di Ciancimino che, con le sue rivelazioni, ha dato vita a un'indagine già archiviata in passato: come le dichiarazioni sul misterioso signor Franco, 007 che, da dietro le quinte, avrebbe mosso i fili della trattativa. "Non ha fornito alcun dato autentico e utile ad identificarlo", scrive il gup che definisce "defatiganti, dispendiose e del tutto inutili" le ricerche investigative per identificare l'agente dei Servizi. Il giudice ricorda anche il documento falso predisposto da Ciancimino "ai danni di Gianni De Gennaro, all'epoca capo della polizia, e la vicenda dei candelotti di dinamite, fatti rinvenire ai Pm nel giardino della sua abitazione a Palermo, nell'aprile del 2011, per la cui detenzione ha già ricevuto una condanna". Ciancimino "lo ha fornito solo in fotocopia senza dare di ciò alcuna motivazione plausibile, posto che la circostanza che si trovasse in cassaforte all'estero non avrebbe impedito la consegna dell'originale; - scrive il gup - ed è evidente che le fotocopie, con l'uso di carte e inchiostri datati, impediscano l'accertamento delle epoche degli originali, oggetto della copiatura; non ha voluto rivelare chi gli avesse spedito il papello dall'estero, come da lui sostenuto, né perché non potesse dirlo ai pm e ha detto di non conoscerne l'autore". "E naturalmente - stigmatizza il giudice - non si può non sottolineare come il castello accusatorio si sia fondato su documenti prodotti da Massimo Ciancimino in semplice fotocopia e non in originale".

La scarsa attendibilità di Giovanni Brusca. Il gup ha anche parole pesanti nei confronti del collaboratore di giustizia, Giovanni Brusca. Così scrive: “le sue dichiarazioni a causa della loro farraginosità e delle modalità del loro progredire si rivelano di scarsa attendibilità. È soprattutto l’insieme delle caratteristiche e dei contesti in cui dette dichiarazioni del collaboratore si sviluppano, che impedisce di dar loro peso processuale” soprattutto “quello della retrodatazione dell’invio del papello o il ripensamento su altri aspetti relativi alla cronologia degli eventi, connessi all’avvio e ai fatti seguiti alla medesima trattativa, che in astratto potrebbero considerarsi dovuti a naturali difetti della memoria e di poco conto ai fini della valutazione dalla credibilità del dichiarante, invero nel contesto in cui sono avvenute si rivelano frutto di suggestioni o di scelte personali di Brusca, indotte anche dal ruolo d’eccezione di cui si è sentito investito nei processi”. E ancora la Petruzzelli aggiunge che “da quanto illustrato emerge che l’eccesso di interrogatori in Brusca determinò ad un certo punto un inevitabile condizionamento mentale, accentuando la sua tendenda a reputarsi depositario di molte verità non rivelate e a non distinguere più le opinioni dai fatti da lui conosciuti” e che dai pm “sono state attribuite a Brusca cognizioni di fatti, facoltà interpretative e ricostruttive che all’atto pratico il collaboratore ha mostrato di non possedere. L’esame degli interrogatori passati in rassegna evidenzia le evoluzioni dichiarative di Brusca, la confusione dei suoi ricordi, soprattutto con riferimento ai tempi degli episodi chiave, e l’innegabile e ingiustificata progressione delle sue accuse, dimostrando “invero di avere sulle situazioni di cui riferisce, su tali temi, delle conoscenze frammentarie e limitate”.

L'opinione su Ciancimino. Giudizio pesante del gup, non solo nei confronti del teste su cui ruota tutto l'impianto accusatorio della “Trattativa”, ma anche nei confronti dei magistrati titolari del processo, “i Pm tra i cento interrogatori documentati di Massimo Ciancimino, hanno indicato come maggiormente organici e significativi (ai quali pertanto il giudice nella sua attività decisoria avrebbe dovuto fare speciale riferimento), solo quattro di essi, espletati tra febbraio e marzo del 2010” e “un’autentica valutazione dell’attendibilità del Ciancimino non potrebbe certo fondarsi sull’esame di quattro dei cento interrogatori cui il medesimo è stato sottoposto nel tempo” ma “al contrario, esaminare il complesso degli interrogatori di Massimo Ciancimino è indispensabile innanzitutto per comprendere cosa abbia determinato la necessità del loro protrarsi per una così lunga durata, considerato che fin dall’inizio il campo dei temi di interesse degli inquirenti era ben delineato (l’esistenza di referenti politici dietro i Ros, quando andarono a trattare con Vito Ciancimino, le date dei loro colloqui, i contatti di Vito Ciancimino con altri, e soprattutto il papello e le circostanze che avrebbero portato alla sua spedizione) e le risposte al riguardo di Massimo Ciancimino rivelavano quali effettive informazioni sarebbe stato possibile trarne, oltre che la sua non linearità”. Il gup spiega che “dalla lettura delle registrazioni integrali degli interrogatori di Massimo Ciancimino, salta agli occhi una sua forte suggestionabilità, con la tendenza ad assecondare la direzione data all’esame dai Pm” con “una propensione alla rappresentazione fantasiosa e spettacolare, e al contempo manipolatoria”.

Nessun ricatto allo Stato. “Gli eventi stragisti del ‘93- così scrive la Petruzzella - possono avere spiegazioni diverse e maggiormente plausibili di quelle sposate dai Pm e non essere stati necessariamente determinati dai contatti che i Carabinieri nel ’92 ebbero con Vito Ciancimino. Le informazioni che ci sono giunte attraverso i mafiosi che sono diventati poi collaboratori di giustizia e la somma dei risultati delle lunghe inchieste sui mandanti occulti delle stragi e sui portatori di “interessi convergenti”, ci rivelano che sullo sfondo di quella azioni ci furono scenari molto più fluidi e dinamiche molto più irrazionali e imprevedibili di quelle della trattativa e del subentrare di Provenzano al posto di Riina, ritenuta dal Pm” e che l'idea di colpire i monumenti “era già dal ’92 presente nelle menti dei Brusca, Bagarella, Messina Denaro e Graviano”. Dunque gli attentati stragisti si conclusero con “con l’attentato a Totuccio Contorno in Toscana, preceduti dalla preparazione del più enigmatico attentato all’Olimpico di Roma. Dopo di che il gruppo si sfaldò, per dissapori tra i suoi membri, dovuti a ragioni di interesse economico e allo scoraggiamento generale, dovuto al fallimento della strategia, dal momento che lo Stato non si era piegato al loro ricatto, i collaboratori di giustizia aumentavano, il maxiprocesso non fu rivisto, la repressione di polizia non cessò, l’indignazione dell’opinione pubblica si acuì”.

Le reazioni. Nicoletta Piergentili Piromallo, difensore di Nicola Mancino, unitamente al legale Massimo Krogh, dopo aver letto le motivazioni della sentenza di assoluzione dell'ex ministro Calogero Mannino, a Panorama.it dichiara che “ tale sentenza esamina i temi processuali evidenziando incertezze e approssimazioni (dell'impianto accusatorio ndr) e che “vengono valutate analiticamente anche le testimonianze dall'accusa nei confronti del ministro Mancino, per ricavarne incongruenze e contraddizioni, viceversa nessuna critica viene espressa all'operato del ministro degli Interni ( di quel periodo ndr). Per questo esprimiamo la nostra piena fiducia nei giudici (della corte d'Assise di Palermo dove il processo è ancora in corso ndr) auspicando una decisione breve”. Francesco Antonio Romito, difensore dell'ex ufficiale dell'Arma Giuseppe De Donno, dichiara: “Nel rispetto della Corte che deve giudicare i coimputati di Mannino mi riduco a poche osservazioni: è davvero onorevole il fatto che giudice si scusi per il ritardo nel deposito delle motivazioni, ma tale lungo tempo è la garanzia di un miglior esame degli atti processuali. Con riserva di approfondire meglio, mi pare di leggere che sotto il profilo del dolo non ci sono neanche quei tanto pallidi quanto ambigui elementi indiziari presenti nella condotta del coimputato Mannino, che, penso, per questo, avrebbe   meritato un'assoluzione con formula più favorevole; se sotto il profilo del dolo non esistono neanche pallidi indizi, l'eventuale appello della Procura ancora più difficilmente potrà sortire un ribaltamento della assoluzione. E ciò conforta ancor più la professione di innocenza dei pubblici ufficiali coimputati nostri assistiti”.

Mancino: «Io distrutto per un teorema. Grazie ai giudici». Parla l’ex ministro dell’Interno assolto al processo per la trattativa Stato-mafia, scrive Fiorenza Sarzanini il 20 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". «Si può uccidere con le bombe, ma anche con le parole e loro me l’hanno ammazzato. Se non ci fossimo stati io, mia figlia e i nipotini non so che cosa sarebbe successo». Si commuove Gianna Mancino ripercorrendo questi cinque anni di processo contro suo marito Nicola, l’ex ministro dell’Interno accusato di aver mentito. Ma poi non riesce a contenere la gioia per l’assoluzione e gli passa il telefono.

Presidente Mancino si aspettava questa sentenza?

«Non poteva andare diversamente perché io ho sempre servito lo Stato e ho sempre combattuto in ogni modo la criminalità organizzata esponendomi in prima persona».

Lei è stato assolto ma gli stessi giudici hanno ritenuto che trattativa c’è stata visto che hanno emesso dure condanne nei confronti di chi l’avrebbe condotta.

«Potranno pure averla fatta ma io non ne ho mai saputo nulla. E sono contento perché finalmente questa verità viene riconosciuta dai giudici».

L’ex ministro Claudio Martelli ha raccontato di essersi lamentato con lei, all’epoca al Viminale, proprio perché i carabinieri del Ros erano andati a parlare con Vito Ciancimino. Lei lo ha negato ed è scattata l’accusa di falsa testimonianza.

«La prima volta in cui Martelli ha parlato di questa circostanza ha detto “propendo per Mancino”, solo in seguito è stato più netto, ma dopo aver parlato anche del mio predecessore Vincenzo Scotti. Adesso lo posso ripetere confortato dal giudizio della Corte d’Assise: non ho mai parlato del Ros con Martelli».

Finora non le avevano creduto.

«Ho presentato numerosi esposti nella precedente gestione della procura, ma evidentemente il procuratore di Palermo ha fatto il sordo».

Si riferisce all’ex capo dell’ufficio Francesco Messineo?

«È tutto documentato. E invece loro dicevano che mi ribellavo senza fondamento».

Sta dicendo che c’è stato un accanimento personale?

«Sicuramente c’era malanimo nei miei confronti. Hanno detto che io non avevo coraggio. Io ho sempre stimato Scotti e non dico che non fosse un duro, ma io certamente non mi sono mai piegato a nessuno. E mi sono difeso in ogni modo possibile perché avevo il dovere di farlo anche rispetto alle mie origini umili e ai sacrifici fatti dalla mia famiglia».

Con chi ce l’ha?

«Io sono stato mandato a giudizio su richiesta dei pm. Durante le indagini ci sono stati molti momenti delicati e complicati. Filtravano notizie sul fatto che sarei stato il prossimo indagato. Per me è stato un tormento, anche per il ruolo che ricoprivo».

Era vicepresidente del Csm. Non crede sarebbe stato giusto dimettersi?

«Sarebbe stata una resa e invece, come si vede adesso, avevo ragione. Ma questo ha avuto comunque gravi conseguenze su di me che volevo difendere a tutti i costi lo Stato di diritto anche in questo modo. Sapevo che era un teorema e non potevo cedere. Mi hanno distrutto e ora risorgo. Per questo adesso ringrazio i giudici».

Sua moglie ha raccontato che per questa vicenda lei non ha più chiamato il capo dello Stato Giorgio Napolitano.

«Lo avevo contattato quando lui era al Quirinale e io al Csm per gli auguri di Natale e poi dopo il discorso del 31 dicembre attraverso la batteria del Viminale. Uscirono le notizie che esistevano le intercettazioni e io mi sono vergognato. Non ho più chiamato».

È stato quello il momento più difficile?

«È stato tutto molto complicato. Ho sempre vissuto con la paura che qualcuno pensasse che avevo fatto qualcosa di male. E invece io non ho mai fatto niente che non fosse al servizio dello Stato».

Il pm Di Matteo: «Messi in evidenza rapporti mafia-Berlusconi politico». Il magistrato e la trattativa tra Stato e Cosa nostra: «Dell’Utri cinghia di trasmissione», scrive Giovanni Bianconi il 20 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". «Finora avevamo una sentenza che metteva in correlazione Cosa nostra con Berlusconi imprenditore, ora ne abbiamo un’altra che per la prima volta la mette in correlazione con il Berlusconi politico». Nino Di Matteo, divenuto il pm simbolo dell’inchiesta e del processo sulla trattativa Stato-mafia, ora in servizio alla procura nazionale antimafia, commenta a caldo il verdetto della corte d’assise.

Da che cosa deriva questa sua analisi?

«La sentenza dice che Marcello Dell’Utri ha fatto da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa nostra e l’allora governo Berlusconi, che si era da poco insediato. Non risulta che il governo Berlusconi abbia mai denunciato le minacce subite attraverso Dell’Utri. I rapporti di Cosa nostra con Berlusconi vanno dunque oltre il 1992».

Al di là di quella singola posizione, qual è il significato di questa sentenza?

«Che la trattativa ci fosse stata non occorreva che lo dicesse questa sentenza, lo aveva già stabilito la corte d’assise di Firenze sostenendo che aveva rafforzato Riina nell’idea che la strategia delle bombe fosse pagante. Ciò che emerge oggi è che pezzi dello Stato si sono fatti tramite delle richieste mafiose mentre saltavano in aria giudici e cittadini comuni. Abbiamo dimostrato che qualcuno nello Stato aiutò Cosa nostra a cercare di ottenere i risultati che Riina e gli altri boss chiedevano. È una sentenza storica».

Lo dice perché per voi, più volte e da più parti finiti sotto accusa per come avete istruito il processo, si tratta di una rivincita?

«Per noi non è importante avere il consenso, ma che i cittadini sappiano che abbiamo fatto solo il nostro dovere, considerando tutti uguali davanti alla legge. Il lavoro dei magistrati può essere criticato, anche in maniera aspra e perfino cattiva, ma noi siamo stati accusati di perseguire finalità politiche ed eversive, e di fronte a questo nessuno ci ha difeso. Oggi la corte d’assise ha detto che non era così».

Questo verdetto è uno spunto per continuare le indagini ancora aperte sulle stragi di mafia?

«Io credo e spero che oltre ai fatti reati già accertati, le inchieste aperte a Caltanissetta, Firenze e alla Procura nazionale antimafia vadano avanti per stabilire se oltre a quelle dei macellai di Cosa nostra sono configurabili altre responsabilità, ad altri livelli».

Quindi il vostro lavoro non è finito?

«No».

"Sentenza storica dedicata a Borsellino, vittima della trattativa Stato-mafia". Parla l'ex Procuratore Nazionale antimafia Franco Roberti, scrive Maria Antonietta Calabrò il 20 aprile 2018 su "Huffingtonpost.it".  È contento della sentenza di Palermo, Franco Roberti, ex Procuratore Nazionale antimafia che ha seguito passo passo le indagini della Procura di Palermo sulla trattativa Stato-Mafia, nell'arco di questi anni, essendo stato nominato dal CSM il 25 luglio 2013, fino al suo pensionamento avvenuto lo scorso 16 novembre 2017.

"Sono lieto che sia stato riconosciuta dalla Corte di assise palermitana la fondatezza dell'impianto accusatorio. La sentenza mi conforta. Laicamente ho sempre sostenuto che fosse doveroso cercare la verità fino in fondo e senza riguardi per nessuno".

Le condanne sono state pesanti. Anche per Marcello Dell'Utri.

"Il punto non è solo vedere le singole posizioni processali o le singole condanne, che potrebbero essere riformate in appello. Leggeremo tra qualche tempo le motivazioni della sentenza. Quello che mi preme sottolineare è che la ricostruzione complessiva di quanto è avvenuto, portata avanti dai pubblici ministeri, è stata confermata dalla sentenza. Questo è un dato molto importante".

Il pm Nino Di Matteo ha parlato di sentenza storica. Condivide?

"Senz'altro: è una sentenza storica, non c'è alcun dubbio su questo".

Perché?

"Perché aiuterà a capire quello che è successo in Italia nei primi anni Novanta. E che tanto pesa ancora oggi sullo sviluppo democratico del nostro Paese. Sono stato io che ho applicato il sostituto procuratore nazionale antimafia Di Matteo, insieme al collega Francesco Del Bene, al processo sulla trattativa Stato-mafia, in modo che anche dopo la sua nomina a Roma potesse continuare il suo lavoro e il nuovo incarico non fosse considerato una fuga da quel processo".

Questa sentenza segnerà veramente la fine della seconda Repubblica come ha dichiarato il leader M5S Di Maio?

"Oggi c'è fame e sete di chiarezza e di verità per permettere all'Italia di andare avanti. Tragedie come quelle di Aldo Moro o le stragi di mafia - con i loro lati ancora oscuri - continuano a pesare sullo sviluppo democratico del nostro Paese. La sentenza di Palermo è fondamentale perché può costituire l'inizio di un percorso di ricerca della verità sulle complicità esterne ai gruppi criminali, ancora non accertate".

Il coordinatore del pool dei pubblici ministeri, Vittorio Teresi ha dedicato questa sentenza a Paolo Borsellino, perché Borsellino?

"Il 18 luglio dell'anno scorso, in occasione della commemorazione davanti al Consiglio superiore della Magistratura del venticinquesimo anniversario della strage di via D'Amelio, ho sostenuto in presenza del Capo dello Stato che la decisione di uccidere Borsellino fu accelerata proprio perché egli sarebbe stato d'ostacolo alla trattativa Stato- mafia, appena avviata dopo la strage di Capaci. Tanto più Borsellino se fosse divenuto Procuratore nazionale antimafia, dopo la morte di Giovanni Falcone. Borsellino era percepito come un macigno sulla strada della trattativa: ecco perché Cosa nostra decise subito di ricorrere ad una nuova strage. Borsellino si sarebbe certamente opposto alla trattativa, da qui la necessità di ricorrere a un secondo clamoroso delitto in così breve tempo".

Basilio Milio: «Se fosse vivo Riina, festeggerebbe». Intervista di Giovanni M. Jacobazzi del 21 Aprile 2018 su "Il Dubbio". «Sono sbigottito», dice l’avvocato Basilio Milio, difensore del generale dei carabinieri Mario Mori, al termine della lettura della sentenza del processo sulla trattativa Stato- mafia».

Avvocato, la condanna è pesantissima.

«Aspettiamo di leggere le motivazioni, però è chiaro che 12 anni di carcere non lasciano dubbi sulla decisione della Corte d’Assise di Palermo».

Si aspettava una sentenza del genere?

«Guardi, a favore del generale Mori c’erano già quattro sentenze dove era stato sempre assolto per fatti analoghi».

Allora perché questa condanna?

«Non so proprio darmi una spiegazione».

Forse ci sono stati errori nella linea di difesa?

«Abbiamo fatto tutto quello che bisognava fare. Anche di più. Sotto quest’aspetto non possiamo recriminare nulla.

Nessuna scelta di cui pentirsi, quindi?

«No. E voglio essere anche positivo».

Cioè?

«C’è in me oggi un barlume di contentezza, in un mare di sconforto. Sono contento perché sono consapevole che la verità è dalla nostra parte. Questo è un giorno di speranza. Possiamo sperare che in appello ci sarà un giudizio perché questo é stato un pregiudizio».

Ha delle contestazioni da muovere alla Corte d’Assise di Palermo ed al presidente Alfredo Montalto?

«Non ho intenzione adesso di lamentarmi su come è stato condotto questo dibattimento. Dico solamente che ci sono stati tagliati molti testi e impedito di depositare centinaia di documenti che erano importanti per la difesa».

Quali testi non sono stati ammessi?

«I magistrati Ilda Boccassini, Antonio Di Pietro e Giuseppe Ayala. Strano, no?»

Analogo atteggiamento di chiusura c’è stato nei confronti della Procura?

«La Procura di Palermo in questi anni ha prodotto ogni tipo di documento possibile. E’ stato addirittura depositato tutto il fascicolo personale del generale Mori acquisito al Comando generale dell’Arma dei carabinieri. Senza contare tutte le intercettazioni dei colloqui in carcere del boss Giuseppe Graviano. Giorni, anzi, settimane di intercettazioni che abbiamo dovuto ascoltare con uno sforzo senza pari».

La Corte d’Assise si è “appiattita” in questi anni di processo sulla Procura?

«La Corte ha quasi sempre aderito alle istanze dei pm e mai alle nostre. I pm di Palermo sono andati anche in Sud Africa per interrogare Gianadelio Maletti (ex numero due del Sid negli anni Settanta, ndr) sui rapporti avuti con Mori quando prestava servizio alle sue dipendenze dal 1972 al 1975».

Mi permetta una riflessione.

«Prego».

Era difficile per chiunque affrontare un simile dibattimento condizionato da una pressione mediatica senza pari. Alcuni giornali hanno sposato per anni le tesi del pm Nino Di Matteo, dal M5S considerato un eroe tanto da essere proposto come ministro in un futuro governo Di Maio.

«Sì, la pressione c’è stata. E’ indubbio. Un circo mediatico messo su da chi sappiamo bene. Però in questo processo non c’era nulla, e dico nulla, che potesse configurare un qualsiasi reato a carico di Mori. Questo è stato un processo senza reato ma con una ben precisa finalità: “mascariare” (sporcare, ndr) il generale quando invece l’Italia intera dovrebbe ringraziarlo. Mori è stato un grande servitore del Paese ed invece è stato perseguitato. E’ una sentenza dura che non sta né in cielo né in terra. E faccio anche una considerazione».

Dica pure.

«Se Totò Riina fosse ancora vivo avrebbe gioito di tutto questo. E io mi sono un po’ vergognato di essere italiano sentendo la condanna a 12 anni per colui che ha fatto arrestare il feroce boss corleonese».

Stravince Di Matteo: assolto il mafioso, punito il nemico dei boss. Accolte le tesi dei pm Di Matteo. Dopo cinque anni, il primo grado del processo sulla cosiddetta trattativa Stato–mafia si chiude con condanne pesanti, scrive Errico Novi il 21 Aprile 2018 su "Il Dubbio". La trattativa con la mafia ci fu. In due fasi: prima la condussero gli ufficiali del Ros, poi il senatore Marcello Dell’Utri. A dirlo è la Corte d’assise di Palermo, al termine di un processo durato 5 anni, con una sentenza piena di paradossi, e interpretata in modo altrettanto illogico da un festante Nino Di Matteo. Primo: come fanno notare i difensori del generale Mario Mori (Basilio Milio) e del cofondatore di Forza Italia (Giuseppe Di Peri), «mai la Procura di Palermo ha indicato i luoghi e le circostanze in cui gli uomini delle istituzioni avrebbero presentata la minaccia di Cosa nostra ai vertici dello Stato». Eppure boss e “intermediari” sono condannati, con pene che vanno dai 28 anni per Bagarella agli 8 inflitti al colonnello De Donno, per “minaccia a corpo politico dello Stato”. Secondo: i maggiori imputati (sempre i boss e i loro “portavoce istituzionali”) sono condannati anche a risarcire per 10 milioni la presidenza del Consiglio. Cioè, Dell’Utri dovrebbe risarcire Berlusconi. Eppure il pm Di Matteo ha il coraggio di dire che la sentenza «dimostra l’esistenza di rapporti tra la mafia e il Berlusconi politico». È vero che non c’è nulla che abbia senso, nell’emozionata pronuncia di Alfredo Montalto, presidente del collegio. Ma sorprende come gli unici a parlare, doverosamente, di sentenza «assurda» siano i radicali, in un comunicato in cui ricordano che «Mori e i suoi uomini, Totò Riina l’hanno pur sempre arrestato». E invece: Montalto, la giudice a latere Stefania Brambille e i 7 giudici popolari si sono convinti che pezzi di Stato avrebbero trattato con i boss stragisti. Condannato anche il teste chiave, ma non per concorso esterno, ipotesi caduta in prescrizione: Massimo Ciancimino incassa una pena di 8 anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gian- ni De Gennaro, superiore dunque ai 5 anni chiesti dalla Procura. L’unico assolto è l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, sul quale pendeva una richiesta di 6 anni per falsa testimonianza. È la vittoria dei pm palermitani, tutti (tranne ovviamente l’ex aggiunto Antonio Ingroia, dimessosi dalla magistratura) presenti in aula: Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e il succitato Di Matteo. Premiata la tesi di una pressione esercitata prima dai vertici del Ros, fino al 1993, e poi dal braccio destro di Berlusconi, dopo il 1993, affinché fossero accolte le pretese avanzate, a suon di stragi, dalla mafia. Ma come fa notare il difensore del generale Mori. Eppure, come ricorda l’avvocato Di Peri, «c’erano già state precedenti sentenze che avevano respinto le stesse ipotesi per il mio assistito e per gli ufficiali dei Ros: quella sulla mancata perquisizione al covo di Riina e la pronuncia Mori– Obinu». Quei giudizi si rovesciano: la trattativa ci fu. E come detto, in due tempi distinti, con Dell’Utri che avrebbe veicolato le minacce di Cosa nostra, nel breve periodo del primo governo Berlusconi, tra maggio ’ 94 e gennaio ’ 95. «Quell’esecutivo mai denunciò quanto aveva subito», dichiara trionfante Di Matteo. Evidentemente non ha importanza, per lui, il fatto che le presunte richieste non siano mai state accolte in alcun provvedimento. Circostanza che, a voler seguire la sentenza, fa del Cavaliere un eroe dell’antimafia. Di Matteo segue invece la pseudologica delle suggestioni storiografiche: «Prima si era messa in correlazione Cosa nostra con il Silvio Berlusconi imprenditore, adesso questa sentenza per la prima volta la mette in correlazione col Berlusconi politico e si chiarisce dunque che i suoi rapporti con Cosa nostra vanno oltre il ’ 92». Rapporti? Sì, in cui il Cavaliere sarebbe vittima. Quisquilie.

LE CONDANNE. I vuoti logici in parte si giustificano con la mancanza delle motivazioni, che saranno depositate entro novanta giorni. Allora, forse, si comprenderà meglio il senso di alcune difformità fra le richieste dei pm e le condanne inflitte. Nel caso dei boss, è stata dichiara la prevista prescrizione per il reato ascritto a Giovanni Brusca, viene confermata la pena di 12 anni invocata per Antonino Cinà ma è innalzata di molto quella relativa a Leoluca Bagarella: dai 16 anni chiesti ai 28 comminati. Identiche a quanto atteso dalla Procura sono le condanne per Dell’Utri e il generale del Ros Antonio Subranni: 12 anni. Di poco più bassa quella per il generale Mario Mori (12 anni di carcere anziché 15). Il terzo ufficiale dell’Arma, il colonnello Giuseppe De Donno, è punito con 8 anni di carcere contro i 12 richiesti. Mancino come detto è il solo a poter esprimere la propria gioia, affidata all’avvocata Nicoletta Piergentili e alle agenzie: «Sapevo che c’era un giudice a Palermo, è stato smentito il teorema costruito contro di me, ma ho vissuto 8 anni di sofferenza».

I PM E LA REAZIONE DI FI. Tutti e quattro i pm si immergono nella selva di taccuini un minuto dopo la lettura del dispositivo. Vittorio Teresi dedica la vittoria «a Falcone e Borsellino», Tartaglia trova una conferma: «Abbiamo lavorato bene». Nessuno degli inquirenti dà conto però di un vulnus enorme. Di carattere logico, che rende urgentissimo il giudizio d’appello: su quello conclusosi ieri si ha l’impressione di un peso straordinario dei giudici popolari. Il vulnus è nella lunga parte della sentenza legata ai risarcimenti: il più clamoroso ammonta a 10 milioni di euro, da dividersi tra i mafiosi, Dell’Utri e i Ros, e andrà destinato alla presidenza del Consiglio. Cioè a Berlusconi. Che dunque per i giudici è vittima. Di Matteo ribalta tutto: «La Corte intanto ritiene provato il fatto che dopo il rapporto con il Berlusconi imprenditore c’è quello con il politico». Un’interpretazione temeraria che Forza Italia spiega anche «con la partecipazione del dottor Di Matteo alle iniziative dei cinquestelle» e che «sarà oggetto dei necessari passi in ogni sede».

Sentenza grillina sulla Trattativa. La Corte d’assise di Palermo condanna Mori, Subranni e Dell’Utri e apre una nuova stagione di assedio giudiziario contro il Cav. Le sentenze ignorate, il mistero del pataccaro Ciancimino, il trionfo del circo mediatico, i populismo dei giudici popolari, scrive Giuseppe Sottile il 20 Aprile 2018 su "Il Foglio". Chapeau. Il galateo istituzionale insegna che di fronte a una sentenza emessa in nome del popolo italiano non c’è altro da fare che scappellarsi. Dopo cinque anni di discussioni e di polemiche la Corte di assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, ha stabilito che negli anni delle stragi di mafia, alcuni funzionari dello Stato scesero a patti con i boss di Cosa nostra. Magari con la migliore intenzione, che poi era quella di fermare il fiume di sangue. Ma la trattativa ci fu. Ed è bastata questa convinzione per spingere i giudici togati e i giudici popolari a distribuire condanne pesantissime a tutti gli imputati. A cominciare dai due generali dei carabinieri, Mario Mori e Antonio Subranni, che tra il 1992 e il 1994 si trovarono nell’inferno di Palermo e, da bravi investigatori, attivarono tutti i mezzi per contrastare il disegno eversivo di Totò Riina e dei sanguinari corleonesi. La sentenza non gli riconosce una sola attenuante e li condanna a dodici anni di carcere. Prima di restare impigliati nel processo istruito dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e sostenuto in aula con particolare forza dal pubblico ministero Antonino Di Matteo, i due alti ufficiali dell’Arma erano addirittura convinti di dovere ricevere prima o poi una medaglia a nome di tutti gli italiani: perché erano riusciti a fermare la strategia delle bombe; e perché avevano arrestato e sepolto nel carcere duro Totò Riina, il capo dei capi. Invece sono stati costretti per oltre dieci anni a salire e scendere le scale dei tribunali. E pur avendo collezionato assoluzioni nei processi specifici – a cominciare da quello per la mancata cattura di Bernardo Provenzano, il boss che secondo il teorema della trattativa avrebbe tradito il capo dei capi, consegnandolo agli sbirri – si sono ritrovati oggi nell’aula bunker del Pagliarelli sotto il maglio impietoso di una condanna difficilmente sopportabile. Ovviamente, i loro avvocati presenteranno appello. Ma ci vorranno almeno altri due o tre anni prima che si possa arrivare a una sentenza di secondo grado. Intanto il calvario si allunga: da qui al 2021, se tutto filerà liscio, avranno collezionato quindici anni di sofferenze, di sospetti, di gogna, di disperazione di morte civile. Né Mori né Subranni sono più dei giovanotti. E quando si è vecchi, annotava Luis de Góngora, “ogni caduta è un precipizio”. Farà i conti con la propria età e con una giustizia senza fine anche Marcello Dell’Utri, l’ex braccio destro di Silvio Berlusconi, in carcere già da quattro anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo i giudici di Palermo ha avuto anche lui un ruolo nella Trattativa e ai sette anni precedenti, quelli inflitti per concorso esterno, andranno cumulati altri dodici anni. Fine pena mai. In fondo è andata meglio ai mafiosi. Leoluca Bagarella, cognato di Riina, sulle cui spalle gravavano già una decina di ergastoli, aggiunge al suo casellario giudiziario un’ulteriore condanna a ventotto anni. Ma il pluriassassino Giovanni Brusca, l’uomo che nel maggio del ’92, premette il telecomando e fece saltare in aria a Capaci il giudice Giovanni Falcone, se l’è cavata alla grande: il reato gli è stato prescritto, forse in virtù del fatto che da quando è stato catturato – con grande clamore e giubilo delle forze dell’ordine – lui ha molto opportunamente abbracciato la professione di “pentito” con un programma a maglie larghe che gli ha consentito anche di godersi un po’ di bella vita. Ma la sorpresa più clamorosa sta nella condanna inferta a Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, e testimone centrale di tutta la trama accusatoria. Al giovane Massimuccio – già in carcere pure lui per altre ribalderie consumate mentre Ingroia lo elevava al rango di “icona dell’antimafia” e il fratello di Paolo Borsellino lo abbracciava e lo baciava nelle pubbliche manifestazioni – la Corte d’assise ha riconosciuto il ruolo di pataccaro: difatti lo ha condannato a otto anni per le calunnie rivolte all’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro e non per concorso esterno in associazione mafiosa. Dimenticando, probabilmente, un dettaglio: che Massimo Ciancimino era il teste chiave di questo processo. Anzi. Questo processo non si sarebbe potuto imbastire senza le sue clamorose “rivelazioni”. Lui, furbissimo, si era trasformato nel ventriloquo di suo padre e in quanto tale raccontava non solo a Ingroia ma anche a tutti i giornalisti che lo intervistavano gli incontri che il vecchio Don Vito, corleonese e amico di Riina e Provenzano, aveva avuto non solo con il generale Mario Mori, ma anche con il capitano Giuseppe De Donno, anch’egli processato e condannato a otto anni di carcere. Come si dice in questi casi, per chiarire un dubbio bisognerà doverosamente aspettare le motivazioni della sentenza. Intanto però il dubbio resta in piedi: se il principale teste è un pataccaro, su quali elementi i giudici hanno costruito le granitiche certezze che li hanno spinti a formulare condanne così gravi e ferrose? Ciancimino – giudiziariamente parlando, per carità – era stato fatto a pezzi già nel novembre del 2015 dal giudice Marina Petruzzella che con rito abbreviato aveva giudicato e assolto l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, imputato nella trattativa alla stregua di Mori, di Subranni e di Dell’Utri. Le sue dichiarazioni, stando alla valutazioni di Marina Petruzzella, erano da considerare “contraddittorie, confuse, divagatorie e incoerenti”. Eppure quelle dichiarazioni hanno trovato spazio e accoglimento nel maxi processo concluso oggi con sette durissime condanne. (L’unica assoluzione è stata quella dell’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, imputato di falsa testimonianza). Come mai? La credibilità assegnata dalla Corte al pataccaro Ciancimino non è tuttavia l’unico mistero che i giudici dovranno chiarire nel momento in cui si siederanno a un tavolo per scrivere le motivazioni. Bisognerà capire anche per quali ragioni siano stati ignorati i verdetti delle precedenti assoluzioni. Secondo l’impostazione originaria data da Antonio Ingroia la presunta Trattativa tra i boss e alcuni settori, ovviamente deviati, dello Stato si basava su alcuni riscontri, su alcuni fatti strani e inquietanti: primo, Mori e i suoi carabinieri avevano tutti gli elementi in mano per catturare Bernardo Provenzano, il numero di due di Riina, ma non lo hanno fatto per avere in cambio la “soffiata” che li avrebbe portati alla cattura del mammasantissima; secondo, sempre Mori e i suoi carabinieri, dopo avere ammanettato Riina, avrebbero dovuto immediatamente perquisire il covo di via Bernini dove il capo dei capi aveva vissuto la latitanza, ma non lo hanno fatto per consentire ai più stretti complici del boss, come Leoluca Bagarella, di fare sparire tutte le carte, soprattutto quelle che avrebbero potuto portare le indagini ai santi protettori, anche politici, della mafia. Ma questi riscontri, chiamiamoli così, erano stati polverizzati da due sentenze di assoluzione pronunciate dai tribunali chiamati a giudicare, per quei reati, sia Mori che De Donno. Con quale criterio la Corte d’assise li ripesca e li fa propri? Quali solidi argomenti, insomma, hanno spinto il collegio presieduto da Alfredo Montalto a ignorare la sentenza di Marina Petruzzella e i due verdetti dei tribunali che non hanno trovato macchia nel comportamento dei carabinieri? Probabilmente – e non sarebbe il primo caso – una spiegazione andrebbe ricercata nel fatto che, nelle Corti d’assise, un peso non indifferente viene assegnato ai giudici popolari. I quali, per definizione, risentono maggiormente degli umori che pervadono la comunità. Il giudice togato ha un distacco professionale, ha una “terzietà” costruita con i propri studi e lungo la propria carriera. I giudici popolari, no. Hanno assistito e probabilmente assimilato un processo mediatico durato quasi dieci anni. Ricordate Ingroia che, pur di collegarsi con tutti i talk-show e predicare le sue verità sulla trattativa se n’era persino andato in Guatemala? E ricordate Massimo Ciancimino che parlava in nome del padre e denunciava le più improbabili nefandezze di uomini, come Mori o De Gennaro, che invece avevano rischiato la vita pur di arginare la litania dei massacri testardamente voluta da Totò “u’ curtu”, da Bagarella, da Brusca e dagli altri scellerati corleonesi? E ricordate quanti altri giudici e quanti giornalisti si erano accodati al populismo facile della tesi secondo la quale Berlusconi, tramite Dell’Utri, palermitano e amico del boss Antonino Cinà, era sceso a patti con la mafia? E ricordate i riconoscimenti e le cittadinanze onorarie che i magistrati della Trattativa, primo fra tutti Nino Di Matteo, andavano raccogliendo nei comuni piccoli e grandi d’Italia per il semplice fatto di credere nelle accuse che Ingroia e Ciancimino avevano costruito e che altri tribunali avevano invece demolito? Comizi, conferenze, riconoscimenti, associazioni adoranti – come Agende rosse, come Scorta civica – avevano trasformato i pubblici ministeri di questo processo in eroi, in campioni buoni per le piazze soprattutto grilline. E non è certamente un caso che proprio Di Matteo fosse stato indicato da Beppe Grillo come probabile ministro di un eventuale governo a cinque stelle. Potevano i giudici popolari girarsi dall’altra parte? Oggi, dopo la lettura della sentenza il pm Di Matteo si è presa la sua legittima soddisfazione. “Nella nostra impostazione accusatoria, che ha retto completamente, si sostiene che Dell’Utri sia stato la cinghia di trasmissione tra Cosa nostra e il governo Berlusconi”, ha detto. E così dicendo ha sollevato un altro dubbio. Nella sentenza che quattro anni fa ha spedito in carcere l’ex senatore per concorso esterno era scritto e stabilito che l’imputato aveva mantenuto rapporti con i boss fino al 1992. La sentenza smentisce questo assioma, verificato persino dalla Cassazione, e sostiene che Dell’Utri entra in gioco nel ’93 e continua a mafiare tranquillamente fino al ’94 quando Berlusconi è già a Palazzo Chigi. Su quali prove? Lo diranno, se sapranno dirlo, le motivazioni. Intanto la squadra che fa capo a Di Matteo prepara una nuova stagione giudiziaria. Bisognerà tornare alle stragi, alle trame oscure, ai registi occulti e a tutto il campionario della giustizia populista. Per altri vent’anni, se Dio gli darà vita, Berlusconi non avrà pace.

La sentenza tra politica, circo e populismo giudiziario. Tortora in primo grado fu condannato come camorrista. In questo caso è diverso. A Napoli si limitarono a brindare alcuni giornalisti, qui si è applaudito in aula. E’ iniziata la terza repubblica, commenta Di Maio, scrive Massimo Bordin il 21 Aprile 2018 su "Il Foglio". E’ stata una sentenza politica quella di ieri sulla “trattativa”. Da vari punti di vista. C’è un aspetto, diciamo così, tecnico e qui se ne era già parlato un paio di mesi fa, presentandolo come l’unico rischio che la difesa correva: rispetto alle quattro sentenze che hanno assolto Mario Mori su vicende relative alla trattativa, questa di ieri a Palermo è stata pronunciata da una corte d’assise, ovvero è stata l’unica con giuria popolare. Leoluca Orlando, commentando entusiasta la sentenza, ha parlato di verità storica che diviene verità giudiziaria, laddove per verità storica devono intendersi le intere mensole di libri, molti scritti da magistrati, che per una decina d’anni hanno consacrato le tesi dell’accusa prima del giudizio. La verità storica di Orlando si costruisce nelle procure, si ufficializza nelle pubblicazioni dei pm e dei loro addetti stampa e consente al pregiudizio di sostanziarsi in verità giudiziaria grazie a una giuria popolare, nel tripudio in aula del popolo delle agende rosse e della “scorta civica” del dottore Di Matteo. Fosse solo un problema giudiziario saremmo nel campo di un orrore ben noto. Enzo Tortora in primo grado fu condannato a dieci anni come camorrista. In questo caso è diverso. A Napoli si limitarono a brindare alcuni giornalisti, qui si è applaudito in aula. E’ iniziata la terza repubblica, quella dei cittadini, ha commentato Luigi Di Maio. Forse precorre i tempi, siamo ancora a Weimar, ma almeno in Germania, un magistrato che trovò il modo di assolvere Dimitrov pure ci fu, quando le cose erano già precipitate e la “Terza Repubblica” si stava già insediando. Ieri ci si è limitati a Mancino.

Stato- mafia: seconda requisistoria: «Niente prove, ma non servono», scrive il 17 Dicembre 2017 "Il Dubbio". Per i magistrati ci sarebbe “un elemento costituito dalle stesse perle di Mori e De Donno alla Corte d’Assise di Firenze”. Davanti alla Corte d’assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, va in scena la seconda puntata della requisitoria dei pm del processo per la “trattativa” Stato- mafia. È stata la volta di sostituto della Procura nazionale antimafia, Nino Di Matteo, che cita in primo luogo l’audizione, il 20 marzo 1992, nelle commissioni parlamentari dell’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi e del ministro dell’interno, Vincenzo Scotti. “Il decreto sul carcere duro, il 41 bis, – ha detto Di Matteo – nacque esclusivamente sull’asse Martelli- Scotti, ministri della Giustizia e dell’Interno. Fu varato l’otto giugno 1992 anche se la prima vera applicazione avvenne dopo la strage di via D’Amelio. Il clima nel nostro Paese era di scontro totale: il 41 bis era una questione che assillava Cosa nostra ed è su questo terreno che si assiste in quel periodo alla contrapposizione tra due linee: quella della fermezza (Scotti- Martelli) e quella della prudenza dettata dal timore che dopo Capaci, Cosa nostra proseguisse nel suo progetto contro i politici. In quello che Riina ave- va definito la “puliziata dei piedi”, ovvero eliminare i rami secchi, cioè i politici che non avevano rispettato i patti, prima di iniziare un nuovo percorso con nuovi referenti’. ‘ In questo clima arroventato – ha continuato Di Matteo – si inserisce il dialogo, la mediazione o per meglio dire la trattativa – tra il Ros, i suoi massimi vertici, cioè Subranni, Mori e De Donno, con Vito Ciancimino’. E Vito Ciancimino viene individuato quale ‘ canale privilegiato per avviare la trattativa – ha aggiunto – in virtù dei pregressi rapporti esistenti tra Mario Mori e l’avvocato Ghiron, quest’ultimo divenuto poi legale di Vito Ciancimino’. Il pm traccia lo scenario: ‘ Voglio partire da una elemento di prova acquisito quando nessuno ipotizzava di aprire una indagine sui vertici del Ros e su Vito Ciancimino. Questo elemento di prova è costituto dalle stesse parole di Mori e De Donno davanti alla Corte d’assise di Firenze. Parole chiare – secondo Di Matteo – inequivoche che non lasciano spazio al dubbio sull’esistenza della trattativa”.

Trattativa Stato-mafia, Calenda: "Preoccupano i pm alle riunioni di partito". Il ministro dimissionario contro Di Matteo. Forzisti all'attacco. Di Maio: "Sentenza che fa da spartiacque". L'associazione Rita Atria: "No ai berlusconiani nel governo", scrive Claudio Reale il 21 aprile 2018 su "La Repubblica". "Non conosco i fatti a sufficienza e in mancanza di approfondimento tendo a non commentare sentenze della magistratura. Sul piano della comunicazione magistrati che vanno a riunioni di partito e fanno dichiarazioni che vanno oltre le sentenze mi preoccupano". Il ministro dimissionario Carlo Calenda va all'attacco il giorno dopo la sentenza sulla trattativa Stato-mafia e soprattutto sulle polemiche seguite alle dichiarazioni di Nino Di Matteo, che ieri aveva parlato di un verdetto che "sancisce i rapporti col Berlusconi politico". Su Di Matteo piovono soprattutto gli strali forzisti: "A pensar male si fa peccato - dice la deputata Micaela Biancofiore - ma mi sembra perlomeno curiosa la coincidenza della presenza ad Ivrea al convegno dei 5 stelle del pm Di Matteo, con relativa ovazione contro Berlusconi, e il fatto che alla vigilia della sentenza di ieri, sia saltato proprio il governo dato per fatto centro destra-5 stelle. Forse qualcuno sapeva e ha rivelato l'esito della sentenza per impedire la soddisfazione del voto espresso dagli italiani". Le conseguenze, del resto, sono intrinsecamente politiche. "Siamo in un momento del Paese, da ieri, in cui stiamo riscrivendo i libri di storia - dice il capo politico del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio - È un nuovo futuro. La sentenza di ieri di Palermo è uno spartiacque tra passato e futuro del Paese". "Noi - dice l'associazione Rita Atria - chiediamo che le forze politiche parlamentari, elette in rappresentanza del popolo italiano, isolino politicamente Forza Italia (non ci risulta che all'interno di Forza Italia sia stato aperto un dibattito sulla problematica e quindi riteniamo siano ancora compatti con il loro leader e fondatore), la cui genesi ormai è scritta in due sentenze di due tribunali italiani, e rifiutino come irricevibile ogni proposta di governo che contempli la presenza del partito tra le forze di maggioranza o in appoggio esterno all'esecutivo". "La mia considerazione - commenta il presidente della Lombardia, il leghista Attilio Fontana - è che forse questa sentenza è caduta in un momento non del tutto opportuno. E diciamo che forse sarebbe stato meglio non subordinare scelte politiche a questioni extrapolitiche. Non voglio ventilare nulla, ma dico che casualmente cade male e ora sarà il nostro segretario Matteo Salvini a fare le scelte del caso". Il mondo dell'antimafia, dal canto suo, adesso tira le somme. "Avevamo sempre saputo e sospettato che vi fosse una trattativa tra Stato e mafia - dice Alice Grassi, figlia di Libero, l'imprenditore ucciso dalla mafia per essersi ribellato al racket - Proprio in quegli anni, nel 1991 è stato ucciso mio padre, o lo Stato non aveva gli strumenti o palesemente non interveniva per debellare questo fenomeno. Mio padre in quell'intervista rilasciata a Michele Santoro, a Samarcanda, parla della qualità del consenso. Se era la mafia che condizionava il voto, è ovvio che ci ritrovavamo tra i nostri legislatori la gente che difendeva i 'diritti' dei mafiosi e non della gente perbene". Sulla stessa linea d'onda il sindaco di Palermo Leoluca Orlando: "I palermitani - dice - lo sanno, lo hanno sempre saputo; oggi grazie al lavoro coraggioso e puntiglioso di alcuni magistrati, ai quali non è mai mancato il sostegno e l'incoraggiamento della società civile e del Comune di Palermo, abbiamo anche le prove confermate da una sentenza: in quegli anni un pezzo importante dello Stato tradì lo Stato e i cittadini per farsi mafia, permettendo alla mafia di farsi Stato".

La crociata di Di Matteo, pm anti Berlusconi e "ministro" dei grillini. Il magistrato attacca il leader azzurro che ha fatto saltare il governo Lega-M5s, scrive Domenico Di Sanzo, Domenica 22/04/2018, su "Il Giornale". La solita tempistica della toga. Silvio Berlusconi attacca il Movimento Cinque Stelle e Nino Di Matteo, magistrato antimafia innamorato dei grillini, se la prende con il leader di Forza Italia. Il Cavaliere è colpevole, soprattutto di aver fatto saltare i piani di Luigi Di Maio per un governo Lega-M5s. E venerdì, nel giorno della sentenza di primo grado del processo sulla presunta trattativa tra lo Stato e la mafia, è partita la contraerea. Di Matteo ha così argomentato, in merito alla condanna di Marcello Dell'Utri: «Oggi la correlazione con Cosa Nostra non riguarda il Silvio Berlusconi imprenditore ma il Silvio Berlusconi politico». Il magistrato, nell'intervista rilasciata al Corriere della Sera, ha proseguito: «Dell'Utri ha fatto da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa Nostra e l'allora governo Berlusconi, che si era da poco insediato». Forza Italia ha annunciato querela, ma quello che desta maggiore sospetto nell'intemerata dell'eroe della trattativa è, appunto, il tempismo. Berlusconi nella stessa giornata aveva stroncato ogni ipotesi di accordo tra il centrodestra e il M5s. E Di Matteo, che per molti sarà pure una specie di santino, di certo non è imparziale. L'amore con i 5 Stelle, dopo anni di abboccamenti reciproci, scoppia ufficialmente a fine maggio del 2017. Il pm della trattativa, sostituto alla Direzione Nazionale Antimafia, va a Montecitorio e partecipa al convegno organizzato dai deputati del Movimento sulle «visioni e questioni della giustizia». Nel parterre ci sono anche Marco Travaglio, giornalista preferito dei grillini, e Piercamillo Davigo, l'ex pm di Mani Pulite che Beppe Grillo voleva addirittura come candidato premier. Già allora si parlava di Di Matteo come del possibile Ministro dell'Interno del governo a 5 Stelle. Lui si schermiva: «L'impegno in politica di un pm non mi scandalizza». E a chi gli domandava se volesse sedersi sulla poltrona del Viminale non rispondeva. Né conferme né smentite. Ma si dice che l'operazione non gli dispiacesse affatto. Nel frattempo l'eroe, dopo la dipartita di Antonio Ingroia, a Palermo ha continuato ad occuparsi del processo sulla trattativa. E, all'inizio di novembre dell'anno scorso, ha convinto la Procura di Firenze a riaprire il procedimento sulle stragi del '92-93. Per la toga amica dei 5 Stelle toccava ripartire dalle dichiarazioni del pentito Giuseppe Graviano, che parlavano di Berlusconi come del «mandante» di quelle bombe. Ma la fedeltà grillina e l'ossessione per il Cav non sono bastate per la scalata al Viminale o al Ministero della Giustizia. Luigi Di Maio, nella sua squadra di ministri, ha indicato, rispettivamente, per i due dicasteri la criminologa dell'Università Link Campus Paola Giannetakis e il fedelissimo avvocato siciliano Alfonso Bonafede. Però Di Matteo non ha abbandonato il campo dell'impegno tra le fila pentastellate. Il 7 aprile scorso, a Ivrea durante la kermesse organizzata da Davide Casaleggio, l'intervento del pm è stato tra i più applauditi. In quell'occasione Di Matteo aveva parlato di un «patto tra Berlusconi e la mafia durato 18 anni». Standing ovation del pubblico. Dallo stesso palco la star giudiziaria del M5s si era fatta portavoce del programma di Di Maio sulla giustizia. Dagli «agenti provocatori» anti corruzione fino «all'ampliamento dell'uso delle intercettazioni». Insomma, niente di nuovo sotto le 5 stelle.

Stato-Mafia, sulla trattativa di governo irrompe quella con Cosa nostra, scrive il 21 Aprile 2018 Francesco Specchia su “Libero Quotidiano”. Non è solo una decisione storica striata di politico, ammettiamolo. Non è soltanto una bomba sganciata al cuore aritmico delle istituzioni, alla sacralità del «corpo dello Stato», la sentenza della Corte di Assise di Palermo che condanna, assieme ai mafiosi, gli ex vertici del Ros e Marcello Dell' Utri, protesi extraparlamentare di Berlusconi (e che quindi, per sillogismo, condannerebbe moralmente pure Berlusconi...). Dopo anni di processi e migliaia d' imputati, di cadaveri, di fascicoli e riesami, la consacrazione giudiziaria della trattativa Stato/mafia non dà solo corpo a «ai rapporti esterni della mafia con le istituzioni negli anni delle stragi sotto i governi Ciampi e Berlusconi». No. Essa, oggi, letta in controluce, assume quasi la funzione di grimaldello per scardinare lo stallo tra Lega e Cinque Stelle nella formazione del nuovo governo. Quasi un'accelerata, dal tempismo innaturale, per eliminare del tutto Berlusconi dalla pochade delle consultazioni con la coda fra le gambe. Basta scorrere i commenti del Movimento.

«La trattativa Stato-mafia c' è stata. Con le condanne di oggi muore definitivamente la Seconda Repubblica. Grazie ai magistrati di Palermo che hanno lavorato per la verità», twitta Luigi Di Maio. Ed ecco che gli si accodano gran parte dei Cinque Stelle che contano. Riccardo Fraccaro dice: «Dell' Utri fece da tramite tra Cosa nostra e Berlusconi: politicamente è una pietra tombale sull' ex Cavaliere.

Ora Salvini decida». Carlo Sibilia scrive: «Berlusconi è una persona che deve sparire dalla scena politica nazionale».

Di Battista rincara: «Ora il Caimano sarà ancora più nervoso. Il suo sistema di potere gli sta franando sotto i piedi...».

E il tutto può esser interpretato sia come un invito affinchè la Lega si mondi dal peccato originale arcoriano; sia, soprattutto, come un sotterraneo sostegno a smuoversi verso il Pd. Se la lettura politica della sentenza si basa su una temperie di ammicchi e percezioni, quella giudiziaria è una mazzata. Gli ex vertici del Ros Mario Mori e Antonio Subranni sono stati condannati a 12 anni per minaccia a corpo politico dello Stato. A 12 anni, per lo stesso reato, è stato condannato l'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell' Utri; a 28 anni, sempre per minaccia a corpo politico dello Stato, il capo mafia Leoluca Bagarella. Per lo stesso reato dovrà scontare 12 anni il boss Antonino Cinà. Otto anni all' ex ufficiale del Ros Giuseppe De Donno, per le stesse imputazioni. Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo - che con ambigue rivelazioni nel 2008 riaprì il caso che era già stato archiviato per ben due volte- già accusato in concorso in associazione mafiosa e calunnia dell'ex capo della polizia De Gennaro, si è beccato 8 anni. Prescritte le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca. Assolto, invece (l'unico) dall' accusa di falsa testimonianza l'ex ministro Dc Nicola Mancino, la cui intercettazione con l'ex Presidente Giorgio Napoletano fu oggetto di burrascose polemiche. Oggi la trattativa Stato/mafia è comunque stata acclarata.

E questo nonostante lo scenario storico-politico sia completamente cambiato rispetto rispetto agli anni 90, quando la miccia s' era accesa. Una miccia lunga. Antonio Ingroia, l'ideatore del teorema giudiziario sulla trattativa dello Stato con i boss non è più pm, è diventato un aspirante politico poi trombato e successivamente indagato egli stesso. Il suo successore, il pm Nino Di Matteo, si è trasferito alla Dna a Roma; ed è -guarda caso- considerato un potenziale ministro della Giustizia da molti grillini. I principali imputati boss, Bernardo Provenzano e Totò Riina, sono defunti. Inoltre esistono comunque delle sentenze a latere che ne avevano smontato l'impianto accusatorio: quella, per stralcio, dell'ex ministro Calogero Mannino; o quella del generale Mori, per la mancata cattura di Provenzano. E, se vogliamo, ci sono pure le sentenze di condanna, come quelle che sbugiardano, appunto, il teste chiave, Massimo Ciancimino. Ciononostante, fermo restando che la legge è legge, la tempistica rivela quasi un'efficienza inusitata per la giustizia italiana...di Francesco Specchia

Palermo, trattativa Stato-Mafia parla Mancino: «Nessun accordo, ho detto la verità», scrive Lunedì 16 Aprile 2018 "Il Messaggero". La sentenza è attesa per la fine di questa settimana. Oggi però, nel corso dell'ultima udienza, ha preso la parola l'ex ministro Nicola Mancino. Si è rivolto alla corte d'assise di Palermo che dovrà emettere la sentenza e ha ripetuto quel che da sempre va dicendo: lui la mafia l'ha combattuta senza arretrare mai. Mancino è l'unico imputato del processo sulla cosiddetta trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra a rivolgersi ai magistrati prima della camera di consiglio che deciderà le sorti del dibattimento. «Ho sofferto in tutto questo periodo e soffro ancora pur essendo consapevole di avere sempre detto la verità», dice respingendo l'imputazione per cui è finito a giudizio: l'avere mentito davanti ai giudici che processavano il suo attuale coimputato, il generale Mario Mori, per favoreggiamento al boss Bernardo Provenzano. Un giudizio «clone» rispetto a quello in corso sulla trattativa conclusosi con l'assoluzione dell'ufficiale. Il reato che si contesta a Mancino e per cui i pm hanno chiesto la condanna a 6 anni è dunque la falsa testimonianza. Altra cosa rispetto alla minaccia a Corpo politico dello Stato e al concorso in associazione mafiosa contestate agli altri imputati: i boss Leoluca Bagarella e Nino Cinà, Massimo Ciancimino, Marcello Dell'Utri, il pentito Giovanni Brusca e gli ex vertici del Ros. Mancino avrebbe detto il falso, negando che l'allora Guardasigilli Claudio Martelli, già nel '92, gli avesse accennato ai suoi dubbi sull'operato dei carabinieri di Mori e sui suoi rapporti con l«ex sindaco mafioso Vito Ciancimino. «​Non ne abbiamo mai parlato»​, ha sempre detto Mancino, smentendo il collega di governo. «​E non capisco perché tra me e Martelli si debba credere a lui»​, ribadisce oggi. In effetti sulla discordanza tra le testimonianze un tribunale si è già pronunciato, sollevando dubbi forti sulla ricostruzione dell'ex Guardasigilli. Ma questo non è bastato a  salvare l'ex ministro dell'Interno messo, secondo i pm, alla guida del Viminale perché fautore di una linea più soft verso la mafia rispetto al suo predecessore Vincenzo Scotti. Una scelta che, per l'accusa, rientrava tutta nella trattativa intavolata dallo Stato, tramite il Ros di Mori, e fatta di concessioni e impunità ai boss in cambio della fine della stagione stragista. Su un punto, però, Mancino accenna a un'autocritica: a posteriori penso che sarebbe stato preferibile non telefonare a D'Ambrosio. Ma ero preoccupato, eravamo in piena bufera giornalistica, spiega ai giudici ricordando le conversazioni intercettate con l'ex consigliere giuridico del Colle in cui l'ex ministro cercava di evitare il confronto, chiesto dalla Procura, con Martelli. Intercettazioni che, secondo l'accusa, proverebbero il timore di Mancino nell'affrontare davanti al tribunale l'ex collega. «​Per me era un confronto inutile - spiega però - E a Grasso (Piero Grasso, allora capo della Dna ndr) non chiesi mai l'avocazione dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, ma solo il coordinamento dell'azione delle sei procure coinvolte nell'indagine. C'era troppa confusione: basta pensare che nessun ufficio inquirente riteneva attendibile Ciancimino, mentre Ingroia, allora alla Procura di Palermo, dichiarava che avrebbe valutato le sue dichiarazioni volta per volta»​. Subito dopo la difesa di Mancino la corte entra in camera di consiglio. L'accusa si era congedata con una polemica finale con le difese e i toni tenuti durante le arringhe. Ma gli avvocati non replicano. Il verdetto è atteso nei prossimi giorni: per la procura sarà presente anche Nino Di Matteo, pm storico del processo ora in Dna.

Stato-mafia. Martelli. Condannato chi arrestò Totò Riina, scrive il 21 aprile 2018 agenpress.it. “Sono contento per Mancino assolto, ma non comprendo una responsabilità così grave in capo ai vertici del Ros, giudicata in precedenza in modo totalmente difforme dallo stesso Tribunale di Palermo. Un rompicapo pirandelliano generato da giudizi difformi. Sembravano più robusti gli elementi nell’accusa di aver lasciato libero Provenzano, o non aver perquisito il covo di Riina, ossia un accordo in cambio di sconti di pena o dell’impunità”. Lo dice al Messaggero Claudio Martelli, all’epoca della trattativa Stato-mafia ministro della Giustizia, per il quale è singolare che siano state “rimosse le responsabilità politiche” e riconosciuto il dolo dei vertici del Ros. “Gli ufficiali dei carabinieri condannati sono gli stessi che hanno guidato l’arresto del capomafia per eccellenza, Riina. Suscita sgomento assiemare i birri e gli sbirri, direbbe Manzoni, e solleva interrogativi e perplessità”. Il loro comportamento, afferma, “fu poco chiaro, scorretto. Mai però li ho considerati ufficiali felloni. Ho pensato a un eccesso di potere nello sviluppare indagini in proprio, nel cercare coperture politiche dal ministero della giustizia o dal presidente della commissione parlamentare antimafia Violante, nel non riferire alla Dia, ai magistrati. Mai però ho immaginato che quel comportamento configurasse un reato così grave. Quale sarebbe il corpo politico dello Stato sottoposto a minacce o violenza?”.

Claudio martelli in difesa dei vertici del ros: sono state rimosse le responsabilità politiche, scrive il 21 aprile 2018 Marco Ventura per “il Messaggero”. «Gli ufficiali dei carabinieri condannati sono gli stessi che hanno guidato l’arresto del capomafia per eccellenza, Riina. Suscita sgomento assiemare i birri e gli sbirri, direbbe Manzoni, e solleva interrogativi e perplessità». Per Claudio Martelli, all’ epoca ministro della Giustizia, è singolare che siano state «rimosse le responsabilità politiche» e riconosciuto il dolo dei vertici del Ros. Il loro comportamento «fu poco chiaro, scorretto. Mai però li ho considerati ufficiali felloni. Ho pensato a un eccesso di potere nello sviluppare indagini in proprio, nel cercare coperture politiche dal ministero della giustizia o dal presidente della commissione parlamentare antimafia Violante, nel non riferire alla Dia, ai magistrati. Mai però ho immaginato che quel comportamento configurasse un reato così grave. Quale sarebbe il corpo politico dello Stato sottoposto a minacce o violenza?»

Il governo?

«Quale governo? L’accusa al governo Andreotti regge poco, Mannino è uscito assolto dallo stralcio di processo, e già era paradossale accusarlo di violenza o minaccia all’esecutivo di cui faceva parte. Sono contento per Mancino assolto, ma non comprendo una responsabilità così grave in capo ai vertici del Ros, giudicata in precedenza in modo totalmente difforme dallo stesso Tribunale di Palermo. Un rompicapo pirandelliano generato da giudizi difformi. Sembravano più robusti gli elementi nell’ accusa di aver lasciato libero Provenzano, o non aver perquisito il covo di Riina, ossia un accordo in cambio di sconti di pena o dell’impunità.»

Quali le responsabilità politiche rimosse?

«C’era una pista non trascurabile: le dichiarazioni di Conso, l’ex ministro della Giustizia che mi sostituì nel febbraio ’93, che forse in un eccesso di generosità, forse nell’ intento di non nascondersi chiamando in causa livelli più alti del suo, si assunse la responsabilità confessando d’ aver voluto dare un segnale di disponibilità all’ ala moderata di Cosa Nostra con la revoca a centinaia di mafiosi del regime carcerario del 41bis».

Due pesi e due misure, verso il Ros e verso i politici?

«Mannino era uscito dal processo, Conso è morto, né si può intentare un processo alla memoria di Scalfaro, se ne occuperanno semmai gli storici».

Perché Scalfaro?

«Ci sono alcuni episodi, dalla sostituzione di Scotti con Mancino ministro dell’Interno a quella improvvisa di Niccolò Amato direttore degli Affari penitenziari con un uomo segnalato a Scalfaro dai cappellani delle carceri. Lui li convoca, loro si lamentano della durezza di Amato, lui chiede il nome di un magistrato che lo sostituisca, lo si individua, e Amato viene rimosso. Colpisce che il Presidente si occupi di questo. E che la strategia rigorosa mia, di Scotti e di Falcone, stroncare cupola ed esercito della mafia, sia stata interrotta, il che non ha impedito poi l’arresto di tutti i latitanti… Difficile che Conso, grande giurista ma non esperto di lotta a Cosa Nostra, da solo si fosse immaginato lo stop alle stragi attraverso il 41bis. E che avesse coscienza già nella primavera 93 che esistevano due linee nella Cupola: Riina stragista, Provenzano trattativista».

E la condanna di Marcello Dell’ Utri?

«La sua responsabilità sembra arrestarsi al ’93, prima che il governo Berlusconi si insediasse. Di Maio la butta in politica e così rischia in realtà di buttarla in cagnara, aggiungendo veleni alla partita che si è aperta nel centrodestra. Non mi sembra che Berlusconi sia direttamente coinvolto.»

La verità qual è?

«C’ è stato un brusco cambio di strategia anti-mafia all’ indomani delle mie dimissioni, sapevano che la linea di Conso io non l’avrei mai perseguita anzi l’avrei denunciata. Però ho sempre parlato di responsabilità politiche, ho raccontato la visita del capitano De Donno alla vice di Falcone, Ferraro, in cui chiedevano cose che non dovevano chiedere: la copertura politica a un’indagine fatta in solitudine. Questo mi inquietò, chiesi spiegazioni, ne informai Borsellino, ma mai ho pensato che ci fosse dolo. Sull’altro fronte mi colpisce che le responsabilità politiche affiorate di tanto in tanto siano state tenute in non cale».

Con una fuga di notizie infilzarono Craxi. 25 anni fa la congiura che lo escluse da palazzo Chigi, scrive Francesco Damato il 10 giugno 2017 su "Il Dubbio". Dopo la strage di Capaci e l’elezione in 48 ore di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale, dove per quindici votazioni avevano inutilmente tentato di arrivare, con candidature formali o sotterranee, Arnaldo Forlani, Giulio Andreotti e persino il presidente uscente e dimissionario Francesco Cossiga, nulla fu più uguale sul piano politico. Terminato di comporre il suo staff al Quirinale il 4 giugno con la nomina del generale Paolo Scaramucci a consigliere militare, Scalfaro predispose le consultazioni per la formazione del nuovo governo: quello di esordio della legislatura nata con le elezioni del 5 e 6 aprile. Ma la prima sfilata delle delegazioni dei partiti davanti al capo dello Stato terminò il 10 giugno senza altro risultato che la constatazione di un clima politico irrespirabile, con veti e controveti all’interno e all’esterno della maggioranza uscente composta da democristiani, socialisti, socialdemocratici e liberali. Era una maggioranza peraltro troppo risicata per fronteggiare una difficile situazione economica e un’ancora più difficile situazione politica nel contesto delle indagini giudiziarie in corso a Milano su Tangentopoli. Scalfaro non riuscì a venirne a capo neppure moltiplicando le sue preghiere alla Madonna di Lourdes, dove peraltro si era proposto prima della imprevista elezione a capo dello Stato di recarsi in pellegrinaggio. Si scusò della rinuncia esortando gli organizzatori del viaggio a pregare anche perché lui venisse illuminato. In attesa di un secondo giro di consultazioni formali, il presidente della Repubblica vide o sentì privatamente un’infinità di amici, fra i quali i ministri uscenti dell’Interno e della Giustizia: il democristiano Enzo Scotti e il socialista Claudio Martelli, invitati insieme al Quirinale formalmente per discutere di un provvedimento in gestazione per intensificare la lotta alla mafia dopo la strage di Capaci. Ma il discorso scivolò subito sul tema della formazione del governo. Vuoi su sollecitazione di Scalfaro, come poi avrebbe raccontato Martelli, vuoi di iniziativa dei due ministri, il capo dello Stato ricavò l’impressione, a torto o a ragione, che fossero entrambi convinti di potere insieme tentare la formazione di un governo di decantazione, scambiandosi i ruoli di presidente e vice presidente, capace di guadagnarsi se non l’appoggio, almeno la benevola opposizione del Pds- ex Pci guidato da Achille Occhetto. Informato, non si è mai ben capito se dallo stesso Scalfaro, col quale aveva allora eccellenti rapporti, tanto da averne sostenuto con la solita baldanza l’elezione prima a presidente della Camera e poi a capo dello Stato, Marco Pannella confidò la cosa a Bettino Craxi. Che – convinto di avere ancora buone carte da giocare per tornare a Palazzo Chigi, da dove riteneva di essere stato allontanato malamente da Ciriaco De Mita nel 1987, con la storia di una staffetta con Andreotti prima promessa per l’ultimo anno della legislatura e poi negata – a sentire Pannella cadde dalle nuvole. Ma di brutto, perché se la prese subito con Martelli, essendo ancora convinto che Scalfaro gli fosse leale, come lo era stato al Ministero dell’Interno nei quattro anni di governo da lui presieduto: tanto leale non solo da avere rifiutato di prestarsi a fare il governo elettorale offertogli da De Mita, come ho già ricordato qui, ma anche da avere cercato e trovato una decina d’anni prima negli archivi del Viminale un documento da tutti negato in precedenza, ma utile alla difesa dei socialisti finiti sotto processo a Milano per gli attacchi ai pubblici ministeri che avevano indagato per l’assassinio di Walter Tobagi. Era un’informativa dei servizi segreti che nel 1980 aveva inutilmente segnalato il pericolo di un imminente agguato mortale delle brigate rosse al famoso giornalista del Corriere della Sera, peraltro amico personale del leader socialista. Notizia di quell’informativa era stata data personalmente a Craxi all’indomani dell’uccisione del povero Walter dal generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa. Craxi girò la confidenza di Pannella sull’incontro di Scotti e Martelli con Scalfaro al segretario della Dc Arnaldo Forlani, facendo cadere dalle nuvole pure lui. Ed entrambi si ripromisero di punire, diciamo così, i due giovani aspiranti alla guida del nuovo governo o non confermandoli ai loro posti o lasciandoli proprio fuori. Ma né l’uno né l’altro ebbero poi la voglia di raccontare come fossero veramente andate le cose, dopo molti anni, ai magistrati di Palermo che li interrogarono sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia della stagione stragista. Essi diedero agli inquirenti l’impressione di essere stati sacrificati perché contrari a quelle trattative, contribuendo così all’impianto accusatorio del processo contro mafiosi, generali e uomini politici ancora in corso a Palermo. Ma da cui è stato già assolto, avendo scelto il rito abbreviato, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, che pure era stato accusato di essere stato addirittura il promotore della trattativa per scongiurare una minaccia della mafia alla sua vita. Non ci fu tuttavia soltanto l’incidente o l’equivoco della coppia Scotti- Martelli durante le consultazioni informali di Scalfaro per la formazione del nuovo governo. Ci fu anche, fra l’altro, una rovinosa fuga di notizie sui documenti pervenuti dalla Procura di Milano alla Camera, e assegnati subito alla giunta delle cosiddette autorizzazioni a procedere per Tangentopoli sul conto degli ex sindaci di Milano Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli, entrambi socialisti. Il “verde”, ed ex direttore del Manifesto, Mauro Paissan fu indicato, a torto o a ragione, come fonte di quella fuga con interpretazioni troppo estensive di alcune parti dei fascicoli, da cui avrebbe ricavato, come esponente dell’apposita giunta di Montecitorio, l’impressione di un coinvolgimento anche di Craxi nelle indagini chiamate Mani pulite. Ricordo ancora nitidamente quella giornata in cui le agenzie avevano inondato le redazioni dei giornali di lanci a dir poco allarmanti sulla posizione giudiziaria del segretario socialista ancora in corsa per il ritorno a Palazzo Chigi. Nelle prime ore del pomeriggio, tornando a piedi da casa alla redazione del Giorno, di cui ero direttore, incrociai per caso in Piazza della Scala Antonio Di Pietro, il magistrato ormai simbolo di quell’inchiesta che stava demolendo la cosiddetta prima Repubblica. Allontanata la scorta con un cenno di mano, “Tonino” mi disse che nelle carte partite da Milano per la Camera non c’erano elementi contro Craxi, di cui lui parlava volgendo lo sguardo verso la Galleria, cioè verso gli uffici milanesi del segretario del Psi. E mi preannunciò un comunicato della Procura, che in effetti fu diffuso dopo qualche ora per precisare che nulla risultava “allo stato” delle indagini contro Craxi. Il quale tuttavia il giorno dopo si trovò su tutte le prime pagine dei giornali ugualmente come uno ormai compromesso nell’inchiesta. Non ricordo se l’ho già riferito ai lettori del Dubbio in altre circostanze riferendo del biennio “terribile” 1992- 93, ma il clima nei giornali, ormai di tutte le tendenze, era tale che la sera di quel giorno mi telefonò l’amico Ugo Intini, portavoce di Craxi, per chiedermi come avessi deciso di uscire con la prima pagina del Giorno. Alla confidenza che sarei uscito col titolo sul comunicato di smentita diffuso dalla Procura, che ai miei occhi costituiva l’unica notizia certa della giornata rispetto a tutte le voci col condizionale diffuse dalle agenzie, Ugo mi chiese se poteva consigliare al comune amico Roberto Villetti, direttore dell’Avanti, di chiamarmi. Cosa che Villetti fece subito, ma non per consultarsi, come si aspettava il povero Intini, bensì per dissentire fermamente dal modo garantista in cui avevo deciso di titolare. Rimasi francamente di stucco. Neppure Scalfaro al Quirinale dovette rimanere convinto del comunicato della Procura milanese se volle parlarne direttamente col capo Francesco Saverio Borrelli, peraltro figlio di un suo vecchio collega ed amico. L’impressione che ne ricavò l’uomo del Colle fu di paura di mandare a Palazzo Chigi un “amico” – quale ancora egli considerava il suo ex presidente del Consiglio – destinato prima o dopo ad essere davvero coinvolto nelle indagini, come avvenne a fine anno con i primi avvisi di garanzia, e poi anche con richieste di arresto. Lo stesso Craxi mi raccontò di essersi sentito dire da Scalfaro all’incirca così: “Tu sai quanto ti stimi e ti voglia bene, ma è opportuno, anche nel tuo interesse, che tu faccia un passo indietro in questo momento. Dimmi tu stesso il nome di un socialista al quale io possa dare l’incarico”. E il 10 giugno, nel secondo ed ultimo giro di consultazioni, Craxi maturò la decisione del doloroso passo indietro. Che annunciò personalmente all’uscita dall’ufficio del capo dello Stato dicendo di avergli indicato “in un ordine non solo alfabetico” Giuliano Amato, già ministro con De Mita e suo sottosegretario a Palazzo Chigi, Gianni De Michelis e Claudio Martelli. La delegazione della Democrazia Cristiana, ricevuta per ultima, non ebbe così neppure la possibilità di proporre Craxi, contro la cui destinazione si erano già espressi nel partito alcuni esponenti, fra i quali De Mita, convinti che Palazzo Chigi spettasse ancora alla Dc, nonostante il ritorno di un democristiano al Quirinale dopo il movimentato settennato di Cossiga. Pertanto fu Amato l’uomo al quale Scalfaro diede l’incarico, che fu espletato con una certa difficoltà, avendo impiegato il nuovo presidente del Consiglio una decina di giorni, sino al 28 giugno, per la definizione del programma e soprattutto della lista. Dove Scotti risultò spostato dal Viminale alla Farnesina, che formalmente era una promozione, da lui però rifiutata perché Forlani aveva deciso di sperimentare dentro la Dc la incompatibilità fra le cariche di ministro e di deputato o senatore. Scotti reclamò inutilmente una deroga per conservare il mandato parlamentare, che alla fine preferì alla guida della diplomazia italiana. Martelli invece entrò nella lista all’ultimo momento, dopo essere andato da Craxi, su suggerimento dello stesso Amato, per chiedergli di essere confermato al Ministero della Giustizia, come poi mi avrebbe raccontato lo stesso Craxi, per portare a termine il lavoro svolto col povero Giovanni Falcone, suo prezioso collaboratore sino alla morte – e che morte – come direttore degli affari penali del dicastero di via Arenula. E Craxi acconsentì, parendogli – mi disse – “una richiesta umanamente ragionevole”, lungi forse dall’immaginare che Martelli fosse destinato pure lui dopo qualche mese ad essere investito da Tangentopoli e costretto alle dimissioni. Comunque, Martelli fu l’ultimo ministro e il primo governo di Amato l’ultimo sul quale il leader socialista riuscì a dire la sua, perché di fatto in quel mese di giugno di 25 anni fa al falconicidio col sangue, preceduto dall’ostracismo in vita praticatogli da tanti colleghi, seguì il craxicidio senza sangue. I rapporti di Craxi con Scalfaro rimasero buoni ancora per poco. Col procedere delle indagini e del linciaggio politico da cui pochi lo difesero, neppure quando subì il famoso lancio di monetine e insulti davanti all’albergo romano dove abitava, e donde usciva per andare ad una trasmissione televisiva dopo essere scampato a scrutinio segreto ad alcune, le più gravi, delle autorizzazioni a procedere chieste contro di lui dalla magistratura, il leader socialista si fece del presidente della Repubblica l’idea da lui stesso espressa in una serie di litografie raffiguranti falsi “extraterrestri”: finti inconsapevoli del finanziamento generalmente illegale della politica e delle forzature con le quali la magistratura aveva deciso di trattarlo. Oltre a Scalfaro, furono definiti extraterrestri anche Achille Occhetto, Eugenio Scalfari, Giorgio Napolitano e l’ormai compianto Giovanni Spadolini, la cui foto fu sostituita con un manifesto bianco listato a lutto. Craxi stesso mi raccontò nel suo rifugio di Hammamet di avere scritto più volte al presidente della Repubblica, anche come presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, contro gli eccessi che stavano compiendo i magistrati, ma di non avere mai ricevuto una risposta, né diretta né indiretta. Il Quirinale non lo considerò più degno di riconoscimento alcuno. Ci vollero del resto la morte di Craxi e l’arrivo sul colle più alto di Roma di Giorgio Napolitano perché un presidente della Repubblica parlasse di lui riconoscendone il servizio politico reso al Paese e lamentando, fra le solite proteste dei manettari in servizio permanente effettivo, irriducibili anche di fronte alla morte, “la severità senza uguali” con cui era stato trattato dalla magistratura. Proprio alla magistratura, vantando di averne fatto parte, Scalfaro nel suo discorso di insediamento, pronunciato il 28 maggio a Montecitorio, davanti alle Camere in seduta congiunta con la partecipazione dei delegati regionali, aveva chiesto “energia, serenità e perseveranza” parlando della “questione morale”. Di energia e perseveranza sicuramente i magistrati si dimostrarono capaci nei mesi e negli anni successivi. Di serenità, francamente, un po’ meno, nella sostanziale e incresciosa disattenzione proprio di chi l’aveva reclamata insediandosi al vertice dello Stato sull’onda peraltro di una strage neppure citata per luogo e per nomi nel discorso alle Camere, essendosi Scalfaro limitato a parlare di una “criminalità aggressiva e sanguinaria”, forse aiutata anche da qualche mano straniera. Di cui nessuno, a dire il vero, aveva avuto sentore a Capaci e dintorni.

È Stato contro la mafia. Chi era per la linea dura. Il caso di Scotti e Martelli, scrive Francesco Bechis su Formiche.net il 22 aprile 2018. Dalle rogatorie dei pm del processo "Stato-Mafia" emerge un volto (buono) della politica che nessuno vuole raccontare: il caso degli ex ministri Vincenzo Scotti e Claudio Martelli. La politica esce malconcia, ma non distrutta, dalla sentenza della Corte d’Assise di Palermo sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia, in cui vertici dello istituzioni e delle forze armate si sarebbero ritrovati a scendere a patti con Cosa Nostra per porre fine alla stagione stragista del 1992-1993. Una sentenza di primo grado, che dunque lascia intatta la presunzione di innocenza degli imputati: è bene ricordarlo a chi, preso dall’euforia, ha dato per chiusa la fase processuale apertasi nel 2013. Se è giusto sottolineare l’impatto dirompente che la sentenza letta venerdì pomeriggio dal presidente della corte Alfredo Montalto avrà sullo scenario politico italiano, è altrettanto doveroso ricordare che non tutta la politica di quegli anni è finita sul banco degli imputati. Oltre all’ex ministro Nicola Mancino, assolto dall’accusa di falsa testimonianza perché “il fatto non sussiste”, la chiusura della prima fase del processo lascia integra, fra le altre, la figura di due uomini di Stato protagonisti di quella stagione politica che a più riprese sono stati sentiti dai magistrati in questi anni: l’ex ministro dell’Interno democristiano Vincenzo Scotti e l’ex ministro della Giustizia socialista Claudio Martelli. E in particolare gli atti, le dichiarazioni e le vicende politiche dell’attuale presidente della Link Campus sono state usate come supporto delle tesi accusatorie, confermando la totale estraneità di Scotti e Martelli ai fatti al vaglio dei pubblici ministeri. La lunga requisitoria dei pm ha fatto ampio ricorso alla vicenda pubblica di Scotti, che fu a capo del Viminale dall’ottobre del 1990 al giugno del 1992. Significativi a riguardo alcuni stralci tratti dall’esposizione degli elementi accusatori da parte del pm Roberto Tartaglia il 14 dicembre del 2017 e del pm Nino Di Matteo il 15 dicembre e l’11 gennaio 2018. Secondo l’accusa tre sono i passaggi che provano la ferrea volontà dell' “asse Scotti-Martelli” nella lotta senza compromessi contro la mafia. Il primo consiste nel “cambio di passo” impresso da Scotti alla politica di contrasto alla criminalità organizzata una volta ottenuto l’incarico agli Interni. Spiega Tartaglia il 14/12: “Cosa Nostra vede in questi tre soggetti e in questi tre poli (Scotti, Martelli, Falcone), l’emblema, l’immagine del cambiamento dell’azione politica […]”. Un cambio di passo che prese forma in una serie di iniziative concrete. Decisivo, ha spiegato Tartaglia, fu il decreto legge n. 60 del 1 marzo 1991 che delegava all’ “interpretazione autentica” del governo il calcolo della decorrenza dei termini di custodia cautelare. Un intervento che rimise in carcere 43 imputati mafiosi del maxi-processo che meno di un mese prima erano stati liberati dopo una condanna di primo grado e che il pm nella requisitoria definisce “un segnale devastante per le aspettative di Cosa Nostra”. Rilevanti nella lotta alla mafia furono due riforme giudiziarie introdotte dall’allora guardasigilli: la regola della turnazione nei ricorsi di mafia in deroga del principio di competenza per materia, e infine l’introduzione, il 15 gennaio del 1993, del 41-bis, il regime carcerario duro per i mafiosi la cui paternità ancora oggi Martelli rivendica con orgoglio. Poi il secondo passaggio della requisitoria che sottolinea la linea di fermezza del ministro Scotti con il crimine organizzato: si tratta delle sue prese di posizione pubbliche durante il mandato, dove non mancò mai di mettere al corrente l’opinione pubblica e gli organi dello Stato di un piano “sovversivo” di Cosa Nostra. Riecheggiano ancora oggi le dure parole del titolare del Viminale, a pochi giorni dall’omicidio di Salvo Lima, in un’audizione parlamentare del 17 marzo 1992: “Oggi, dopo questo omicidio, siamo in presenza di un fenomeno che non mira a distruggere le istituzioni ma a piegarne gli apparati ai propri fini, a condizionarli”. Preoccupazioni ribadite il 20 marzo successivo davanti alla commissione Affari Costituzionali del Senato: “Nascondere ai cittadini che siamo di fronte ad un tentativo di destabilizzazione delle istituzioni da parte della criminalità organizzata è un errore gravissimo. Io ritengo che ai cittadini vada detta la verità e non edulcorata, la verità: io me ne assumo tutta la responsabilità”. L’allora premier Giulio Andreotti definì “una patacca” l’allarmismo del suo ministro, scatenando involontariamente un polverone mediatico che non fu privo di strumentalizzazioni. A dare ulteriore conferma della rettitudine dell’operato di Scotti e Martelli, secondo i pm del processo sulla “trattativa”, ci sarebbe infine la tesi del “golpe bianco”. Nella requisitoria dello scorso 11 gennaio il pm Nino Di Matteo sostiene che la “prima condizione essenziale nel 1992 per portare avanti la linea del dialogo con la mafia era quella di cacciare Scotti dalla titolarità del Viminale”. L’avvicendamento del ministro dell’Interno con Nicola Mancino nel giugno 1992, che portò Scotti alla guida della Farnesina (su indicazione del presidente della Dc Ciriaco De Mita) mentre Giuliano Amato entrava a Palazzo Chigi, fu letto da molti come un promoveatur ut amoveatur. Anche l’uscita di Martelli dal Ministero della Giustizia nel febbraio del 1993 attirò gli stessi sospetti. Di Matteo è sicuro che non si è trattato di due semplici avvicendamenti: il pm palermitano l’11 gennaio ha affermato che è stata messa in atto piuttosto una strategia per “liberarsi di chi della contrapposta linea del rigore e delle intransigenza aveva fatto la sua bandiera e lo aveva dimostrato con i fatti”. Chiamato a parlare davanti alla Corte d’Assise di Palermo, Martelli in questi anni ha confermato la tesi della “rimozione forzata” del 1993, dovuta soprattutto, a suo parere, all’introduzione del 41-bis. Scotti invece ha preferito una linea di maggior riserbo, pur avendo manifestato davanti ai giudici le sue perplessità su quel cambio di vertice al Viminale.

Trattativa Stato mafia, anomalo riferimento a Berlusconi nella sentenza, scrive il 21 aprile 2018 Affari Italiani. "Marcello Dell'Utri è colpevole del reato ascrittogli limitatamente alle condotte contestate come commesse nei confronti del Governo presieduto da Silvio Berlusconi": così i giudici della corte d'assise, nel dispositivo della sentenza del processo sulla trattativa Stato-mafia, "circoscrivono" la responsabilità penale di Marcello Dell'Utri. L'ex senatore di Forza Italia, imputato di minaccia a Corpo politico dello Stato, è stato condannato a 12 anni. Un dispositivo ritenuto dagli addetti ai lavori "anomalo" perchè la corte non si limita a un riferimento temporale "dopo il '93", ma fa espressamente riferimento a Berlusconi. Anomalia ancora più evidente se si ritiene che per gli altri imputati, i vertici del Ros, condannati per lo stesso reato nel lasso temporale precedente al '93 la formula cambia. E manca completamente il riferimento specifico al premier in carica all'epoca. E tra i politici di Forza Italia c'è chi grida alla sentenza politica, sottolineando la vicinanza tra il pm Di Matteo e il M5s. 

Altro che patti con la mafia, ecco tutti i boss messi in galera dai governi Berlusconi. L'assurda sentenza di Palermo non dice che il centrodestra ha raggiunto i maggiori risultati sul campo. Scovati i latitanti più pericolosi, scrive Luca Fazzo, Domenica 22/04/2018, su "Il Giornale". Una casupola bianca e un po’ malconcia in una masseria sulle colline di Montagna dei Cavalli, fuori Corleone: un braccio che si allunga per ritirare un pacco di biancheria lasciato da poco lì fuori. «Via, entriamo», dice la radio dei trenta poliziotti arrivati fin lassù, nel silenzio del martedì di aprile. Finisce così, dopo quarantatré anni, la latitanza di Bernardo Provenzano, Binnu u’ Tratturi. Era l’11 aprile 2006. Da tredici anni, dalla cattura di Totò Riina, Binnu era il numero uno di Cosa Nostra, il latitante più importante d’Italia. Bisogna ripartire da quel fotogramma, dal braccio che si sporge, per capire quanto stia in piedi la teoria di un governo Berlusconi addomesticato ai voleri di Cosa Nostra, come sostengono trionfanti i pm di Palermo dopo la indiscutibile vittoria ottenuta nel processo per la presunta trattativa Stato- Mafia. Bisogna partire da quella foto, guardare le date, ragionare. Provenzano viene arrestato nella fase finale della XIV legislatura. Ministro dell’Interno è Beppe Pisanu, capo del governo è Silvio Berlusconi: cioè l’uomo politico che secondo la tesi della Procura di Palermo, fatta propria dalla sentenza di ieri, avrebbe ricevuto «una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura per gli aderenti a Cosa Nostra». Una trattativa in tre fasi, l’ultima - secondo i pm - gestita in prima persona da Provenzano medesimo. Che però viene catturato e sepolto in un carcere di massima sicurezza. Ne uscirà solo dieci anni dopo, ormai demente, per andare a morire in una stanza d’ospedale. Cosa era accaduto tra il 1993 della presunta trattativa e l’arresto di Provenzano? Si potrebbe ipotizzare che gli accordi di non belligeranza tra Stato e mafia avessero dispiegato un qualche effetto, almeno nella prima fase. Macché. Berlusconi va a Palazzo Chigi la prima volta il 10 maggio 1994, ci resta fino al 17 gennaio successivo; ministro dell’Interno è Roberto Maroni. Una manciata di mesi: ma nello stesso periodo finiscono in galera quasi cento latitanti per reati di mafia, criminali inseguiti da anni da mandati di cattura. Sono camorristi, ’ndranghetisti, ma il prezzo più alto lo paga Cosa Nostra, anche nelle sue propaggini internazionali: il 20 luglio 1994 a Long Island viene catturato dallo Sco, Paolo Lo Duca, latitante dal 1990, l’uomo di raccordo tra Cosa Nostra, i clan americani e il cartello di Medellin, un personaggio chiave nell’economia mafiosa. Tre mesi dopo a Palermo la Mobile arresta Francesco Inzerillo, cugino del boss ammazzato dai Corleonesi nel 1980, e interfaccia in Sicilia dei Gambino di New York. A novembre in Canada viene individuato e preso Salvatore Ferraro, successore di «Piddu » Madonia alla testa di Cosa Nostra a Caltanissetta. Si azzannano i tentacoli della Piovra oltreconfine. Berlusconi torna al governo nel 2001, al Viminale vanno prima Scajola e poi Pisanu. E la musica non cambia. La «Lista dei Trenta», l’elenco dei latitanti più pericolosi, deve venire aggiornata di continuo, perché uno dopo l’altro i boss cadono nella rete. Il 16 aprile 2002 a Roccapalumba tocca a Antonino Giuffrè: è il sanguinario braccio destro di Provenzano, in fuga da nove anni, condannato a otto ergastoli. Appena arrestato si pente e comincia ad accusare Marcello Dell’Utri e Forza Italia. L’anno dopo, a luglio, finiscono le latitanze anche di Salvatore Rinella e Salvatore Sciarabba: sono gli uomini che proteggono Provenzano. Il cerchio intorno a «Binnu» si sta stringendo. Saranno questi, i «benefici di varia natura» di cui parla la Procura di Palermo? Ad aprile 2006 tocca a Provenzano. Due settimane più tardi si vota, il centrodestra lascia Palazzo Chigi. Ci torna due anni dopo, l’8 maggio 2008. Premier è di nuovo Berlusconi, ministro degli Interni di nuovo Bobo Maroni. E la musica riprende. È il periodo d’oro della caccia ai boss, quello in cui Maroni a conti fatti potrà vantare l’arresto di 6.754 mafiosi, compresi ventotto della «Lista dei Trenta». Vengono smantellati santuari della criminalità organizzata in tutto il Mezzogiorno. La ’ndrangheta, che nel 2004 aveva visto la fine della interminabile latitanza di Giuseppe Morabito, «Peppe Tiradrittu» tra il 2008 e il 2009 vede finire in cella imprendibili di lungo corso come Francesco e Antonio Pelle; il 10 dicembre 2008 termina la fuga di Giuseppe De Stefano, «il top della ’ndrangheta» nelle parole del procuratore Giuseppe Pignatone. Il 17 novembre 2010 catturano nella sua Casal di Principe il superboss della camorra Antonio Iovine: «Abbiamo preso un re nel suo regno», commenta il procuratore antimafia Piero Grasso. «Questa è l’antimafia dei fatti», dice Maroni. Ma è in Sicilia, nella terra dove il progetto della trattativa avrebbe preso forma e sostanza, che l’assedio alla criminalità mafiosa continua con i risultati maggiori. Matteo Messina Denaro non si trova, ma - come all’epoca di Provenzano polizia e carabinieri fanno terra bruciata intorno al padrino in fuga. A settembre 2009 viene catturato Domenico Raccuglia, il collaboratore che gestisce la latitanza di Messina Denaro. A dicembre nello stesso giorno vengono presi a Palermo il giovane boss rampante Giovanni Nicchi e a Milano Gaetano «Tanino» Fidanzati, 78 anni, uno dei primi uomini d’onore a sbarcare al nord. Nel giugno successivo prendono Giuseppe Falsone, il capo di Cosa Nostra ad Agrigento: vive sotto falso nome a Marsiglia, la città dove Provenzano era riuscito a farsi operare alla prostata durante la latitanza. E poi centinaia di arresti solo apparentemente minori, esponenti di seconda fila dei clan e anche semplici gregari: che però costituiscono l’ossatura dei clan, la pianta organica senza la quale il potere dei boss diventa una scatola vuota. Sono risultati imponenti, figli del lavoro oscuro e tenace delle forze dell’ordine. E di una volontà politica.

"Con me al Viminale li catturammo tutti. Salvini non cada nella trappola del fango". L'ex ministro: "Illazioni ridicole. Berlusconi alla mafia ha fatto un c...o così", scrive Giannino Della Frattina, Domenica 22/04/2018, su "Il Giornale". «Trattativa con la mafia? Il governo Berlusconi alla mafia ha fatto un culo così. Che ancora se lo ricordano. Mi scusi il francesismo».

Presidente Roberto Maroni, lei è stato due volte ministro dell'Interno e la prima proprio in quel 1994 toccato dalla sentenza della corte di Assise di Palermo.

«Un primo grado. Aspetterei prima di parlare di teorema confermato».

Cosa ha provato sentendo una sentenza che accusa lo Stato di essere sceso a patti con Cosa Nostra?

«Prima la gioia per l'assoluzione di Nicola Mancino, mio predecessore al Viminale. Un galantuomo».

Mai avuto dubbi?

«Arrivato al ministero mi sono fatto portare dal direttore del Sisde Domenico Salazar i dossier. C'erano quelli sui partiti, quello sulla Lega Nord. E ce n'era uno anche su Mancino».

Il ministro dell'Interno dossierato dai servizi?

«Si figuri se poteva essere lui al centro di una trattativa con la mafia».

Non ha avuto alcun sentore di possibili accordi. Del famoso «papello» con le richieste di Totò Riina?

«Lo escludo. Il capo del Sisde e poi della polizia era Vincenzo Parisi, un uomo che mai avrebbe permesso una cosa simile. Un maestro per me».

Perché è così sicuro?

«Veniva ogni mattina al ministero e quando parlavamo di mafia voleva che scendessimo in giardino. Non c'erano le intercettazioni di oggi, ma lui diceva che era meglio così».

E Berlusconi?

«Garantisco che non solo non si è mai permesso di ostacolare il mio lavoro, ma anzi mi ha sempre spronato a combattere la criminalità organizzata».

All'arresto del camorrista Antonio Iovine nel novembre del 2010, lei parlò di 6.754 mafiosi in manette con il governo Berlusconi con un incremento del 34 per cento.

«Non solo, noi arrestammo 28 dei 30 latitanti più pericolosi».

Quindi non ci fu indulgenza?

«Di più, fummo noi a far diventare legge la proposta di Giovanni Falcone per colpire la mafia nei patrimoni. Oltre 35mila beni sequestrati o confiscati».

Come?

«Prima i beni venivano sequestrati ai mafiosi in quanto pericolosi. Ma in caso di morte o intestazione ai nipotini (come succedeva speso), tutto tornava agli eredi. Noi abbiamo separato la misure di prevenzione personali da quelle patrimoniali. E ha funzionato».

Fu Pietro Grasso, in altri tempi, a chiedere «un premio speciale a Silvio Berlusconi e al suo governo per la lotta alla mafia».

«Mi ha fatto piacere perché le misure di aggressione ai patrimoni mafiosi le ho introdotte io: l'Agenzia nazionale per la gestione dei beni sequestrati e confiscati e il Fug, il Fondo unico giustizia che con i soldi della criminalità aiuta le vittime e i testimoni di giustizia».

Importante.

«Abbiamo consegnato alle forze dell'ordine le auto sequestrate. Sa cosa significa polizia e carabinieri in un quartiere mafioso con la macchina che fino al giorno prima era del boss?».

Berlusconi la incitava alla lotta alla mafia o le diceva di frenare?

«Ogni mese facevo una relazione al consiglio dei ministri. E quando nel '94 Berlusconi presentò il governo al senato, io non c'ero e la sinistra mi criticò».

Come mai?

«Ero in Sicilia dove un sindaco aveva trovato una testa di vitello mozzata sulla porta di casa. Berlusconi mi disse di lasciar perdere il Senato e di andare lì. Era la prima volta che vedevano il ministro con il procuratore di Palermo che era Gian Carlo Caselli, i capi di polizia e carabinieri. Altro che trattativa».

Eppure c'è questa sentenza.

«Questi sono i fatti, non opinioni. Quelle le lascio ai professionisti dell'antimafia di Sciascia».

Ora quella trattativa entra in un'altra trattativa, quella per il governo.

«Lo scrivono i giornali, non vedo proprio come possa influire».

Sarà un appiglio per i 5 Stelle.

«Sono cose che danno fastidio, ma sono anni che si dice di Berlusconi e lui è sempre lì».

Il momento è cruciale.

«Io dico a Matteo Salvini di lasciar perdere tutto questo fango buttato in giro. Non cada nella trappola e mantenga salda la guida del centrodestra. Se questa alleanza scompare, a vincere saranno gli altri».

Avesse saputo di una trattativa Stato-mafia, l'avrebbe denunciata?

«Immediatamente».

"Il Cavaliere mi ordinò di attuare il carcere duro contro Cosa nostra". L'ex presidente del Senato: "Mafia colpita con il 41bis reso stabile e i sequestri dei beni", scrive Mariateresa Conti, Domenica 22/04/2018, su "Il Giornale". Altro che obbedire alle richieste del «papello» di Riina, prima tra tutte quella sull'abolizione del 41 bis, il carcere duro. Altro che avere favorito la mafia con i provvedimenti del governo, come accusa il pm Di Matteo. Renato Schifani, oggi senatore di Forza Italia ma in passato capogruppo e presidente del Senato azzurro, non ci sta. E ricorda, dal 41 bis reso definitivo dal centrodestra alle norme sui sequestri dei beni ai mafiosi. Tutte leggi promosse da Berlusconi.

Senatore Schifani, si aspettava che il pm Di Matteo coinvolgesse Berlusconi nella trattativa Stato-mafia?

«Lo ritengo strumentale sotto il profilo politico e mediatico. Tra l'altro Berlusconi non è stato mai imputato né indagato in questo processo. Ed inoltre la sentenza Dell'Utri, definitiva, esclude ogni rapporto di Berlusconi e di Forza Italia con la mafia. Il pm Di Matteo, assiduo frequentatore di convegni Cinque stelle, si è lasciato andare a dichiarazioni più politiche che giudiziarie. Dando per scontata la colpevolezza di pezzi dello Stato e di Dell'Utri il pm dimentica che i livelli di giudizio sono tre e che quindi nessuna responsabilità penale è ancora acclarata definitivamente».

La condanna di Dell'Utri è pesante, pensa che potrà incidere sulla sua vicenda?

«Non è detta l'ultima parola. Attendiamo che la Cedu si pronunci sulla legittimità della sentenza definitiva di condanna, visto che il caso Dell'Utri è perfettamente assimilabile al caso Contrada, per il quale la Cedu ha stabilito che il concorso esterno non era definito giuridicamente prima del '94».

Berlusconi ha sempre rivendicato l'attività contro la mafia dei suoi governi...

«Per esperienza vissuta, ha ragione. Nel 2002, Dell'Utri era parlamentare e io capogruppo. Mi pervenne dal governo Berlusconi il ddl che prorogava di tre anni il 41 bis, il carcere duro. Sino ad allora si era andati avanti a proroghe, e queste ingeneravano aspettative nella mafia, se ne trova traccia nel papello di Riina. Mi confrontai con Berlusconi e gli chiesi se era d'accordo a trasformare quell'istituto in un modello permanente. Da lui ebbi immediato consenso e il provvedimento fu approvato, al Senato e alla Camera. Fu un passaggio delicato, ci rendevamo conto di cosa significasse per la mafia. In Berlusconi non trovai alcuna titubanza, al contrario ebbi il suo totale sostegno, soprattutto a me che ero siciliano».

Altri provvedimenti?

«L'inasprimento del sequestro dei beni. Nel 2008 abbiamo introdotto una norma più incisiva, che ci ha consentito di combattere la mafia aggredendola di più sui patrimoni. Il mafioso si vede profondamente ferito e colpito quando lo si priva dei beni. L'aggressione ai patrimoni è un'arma più efficace per indebolire il fenomeno mafioso. Il governo Berlusconi è stato coraggioso».

Come nacque?

«Era il 2008, da presidente del Senato ero intervenuto alla Festa della Polizia a Palermo. Nel mio discorso istituzionale avevo detto che ero pronto a recepire suggerimenti per il pacchetto sicurezza Maroni/Alfano. Al termine della cerimonia alcuni inquirenti mi segnalarono l'esigenza di intervenire sulla Rognoni-La Torre perché non si poteva intervenire su alcuni beni dei mafiosi, quelli ereditari e quindi legittimi in sostituzione di quelli illegittimi venduti a terzi. Chiesi un appuntamento all'allora procuratore antimafia Grasso che venne a trovarmi subito e mi disse che si poteva. Così preparai una bozza di emendamento e ne parlai con Berlusconi. Anche in questo caso, pieno via libera. Nacque così il sequestro per equivalente, che per me si chiama Silvio Berlusconi».

Grasso disse che i governi Berlusconi meritavano un premio speciale per le norme antimafia...

«Da Grasso ci dividono le idee politiche, ma fu corretto con noi, le nostre normative antimafia sono senza precedenti».

Questa sentenza è caduta nel mezzo delle trattative per il governo e qualcuno dice che ha favorito i grillini...

«Non cambia nulla. Forza Italia è orgogliosa della propria storia e del proprio leader. Di Maio ha sempre sostenuto di non volersi sedere al tavolo con Berlusconi, e quindi intende trarre dalla sentenza basso e strumentale profitto. Non ha vinto le elezioni e si è assunta la responsabilità di paralizzare il paese con i suoi giochetti da doppio forno. Il centrodestra resta unito perché questa è stata e sarà sempre la sua forza».

Dell’Utri senza scampo: deve morire in cella. Marcello Dell’Utri proprio due giorni fa è rientrato a Rebibbia, dopo due mesi di ricovero per effettuare la radioterapia a causa di un tumore alla prostata, scrive Valentina Stella il 21 Aprile 2018, su "Il Dubbio". «Siamo profondamente delusi e sorpresi: è una sentenza che non ci aspettavamo assolutamente perché eravamo sicuri di aver dimostrato che l’ipotesi accusatoria non aveva alcun fondamento», così ha commentato al Dubbio l’avvocato Francesco Centonze a pochi minuti dalla sentenza che ha condannato Marcello Dell’Utri, accusato di “violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario” – art. 338 cp -, a 12 anni di carcere e all’“interdizione perpetua dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale durante la pena” nel processo sulla Trattativa Stato Mafia. Dell’Utri, secondo l’accusa, si sarebbe fatto “portavoce” delle minacce mafiose presso il governo Berlusconi. «Noi ritenevamo – prosegue il legale – di aver dimostrato contro ogni ragionevole dubbio l’assoluta innocenza di Dell’Utri in questa vicenda. Siamo ansiosi di leggere come i giudici motiveranno questa decisione. Ricorreremo ovviamente in appello». Come possiamo leggere nella memoria difensiva di quasi 300 pagine presentata dall’avvocato Centonze “la tesi della pubblica accusa della formulazione di una minaccia stragista da parte di Cosa Nostra non ha trovato alcun supporto nell’istruttoria dibattimentale. Nessuno dei testimoni della Procura ha mai fatto cenno a messaggi intimidatori da parte dell’organizzazione criminale a Dell’Utri e al Presidente Silvio Berlusconi”. Aspetto ancora più rilevante, evidenziato dalla difesa, è che “all’esito del dibattimento non c’è la prova che Mangano (lo stalliere di Arcore, ndr.) abbia incontrato Marcello Dell’Utri dopo aver ricevuto le indicazione da Giovanni Brusca (ex boss della mafia, poi divenuto collaboratore di giustizia, ndr.) e, anche ammesso che si siano incontrati, in ogni caso, non è stato dimostrato che Mangano abbia effettivamente trasmesso a Dell’Utri il messaggio minatorio”. Intanto Marcello Dell’Utri proprio due giorni fa è rientrato nel carcere romano di Rebibbia, dopo essere stato per circa due mesi ricoverato al Campus biomedico di Roma per effettuare la radioterapia a causa di un tumore alla prostata. Deve scontare ancora un anno e mezzo di detenzione per la condanna definitiva a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. La situazione giudiziaria alquanto complessa di Dell’Utri comprende al momento anche un ricorso pendente alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo attraverso cui, in sintesi, si chiede di applicare quanto già deciso per Bruno Contrada, ossia l’annullamento della sentenza per concorso esterno in associazione mafiosa perché all’epoca dei fatti contestati a Contrada, così come a Dell’Utri, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non era sufficientemente tipizzato, quindi il processo sarebbe stato celebrato illegittimamente. Lo scorso marzo la seconda sezione della Corte d’Appello di Caltanissetta aveva rigettato la richiesta di revisione di tale processo, decisione che i legali di Dell’Utri intendono impugnare in Cassazione. Probabilmente la pronuncia della Cedu arriverà dopo l’estate: se la richiesta dei legali venisse accolta l’Italia poi dovrebbe riconoscere l’eventuale accoglimento ottenuto in sede europea; considerando i tempi della giustizia si prevede che Dell’Utri dovrà scontare tutta la pena residua in cella.

Travaglio di bile. Il Fatto vuole dimostrare che Berlusconi è un "delinquente naturale". Ma anche il condannato Travaglio è delinquente, scrive Vittorio Sgarbi, Venerdì 20/04/2018, su "Il Giornale". Se le dicono e se le cantano fra loro. Sul Fatto, sono sempre loro, Travaglio o Gomez. E adesso anche Gregorio De Falco. Questa volta Travaglio si è messo in testa di dimostrare che Berlusconi è un «delinquente naturale». Perché delinque, egli dice. Più o meno come lui, condannato a pagare 150mila euro per diffamazione degli onesti magistrati del processo Mori. Numerose sono le condanne di Travaglio. Per accusare Berlusconi, Travaglio e i suoi ricorrono spesso al tema della corruzione di un senatore. Se le sentenze che lo dimostrano sono quelle del caso De Gregorio, stiamo freschi. Conclusioni insensate, basate sulle dichiarazioni di un personaggio palesemente in contrasto con tutto quello che è agli atti del Senato. Ma è inutile dirlo: i Travaglio e i Gomez, innamorati del «delinquente naturale», non ascoltano e non verificano. Perché comprare un senatore che non era più di centrosinistra, non era più nel gruppo di «Italia dei valori», ma era passato, fin dal 2006 (due anni prima della caduta del governo Prodi), nel Gruppo misto, per stare con il centrodestra, che lo avrebbe nominato presidente della commissione Difesa del Senato? Basta leggere gli atti. Solo quando non le critica lui, per Travaglio le sentenze sono infallibili. E se dobbiamo ritenerle tali, anche il condannato Travaglio è delinquente, e per di più recidivo, e per di più contro magistrati. Insomma, l'altra faccia della medaglia di Berlusconi.

La trattativa Stato-mafia c’è stata, forse. E con questo? Scrive Rocco Todero il 21 Aprile 2018 su "Il Foglio". La storiografia più accreditata è da tempo concorde nel sostenere che durante la seconda guerra mondiale il Governo degli Stati Uniti chiese aiuto alla mafia, soprattutto a quella di New York, per tirarsi fuori dalla drammatica situazione che imperversava nello specchio delle acque territoriali americane dove i sottomarini tedeschi, con la probabile complicità di agenti segreti del loro servizio d’intelligence acquartierati dentro il porto della Grande Mela, imperversavano senza trovare ostacolo alcuno nell’affondare decine di navi destinate a trasportare aiuti per sostenere lo sforzo bellico d’Inghilterra e Francia contro Adolf Hitler. Le autorità militari, a torto o a ragione (questo ancora non è chiaro), erano persuasi del fatto che solo coloro che detenevano l’effettivo controllo del porto di New York avrebbero potuto fornire un fondamentale contributo per non rendere vani gli sforzi statunitensi contro l’aggressore tedesco. La trattativa coinvolse gente del calibro di Lucky Luciano, Meyer Lansky, Benjamin Siegel, Joe Adonis e Frank Costello, la cupola della più potente mafia americana allora in attività. I “mangia spaghetti” furono, inoltre, il canale d’informazione principale per l’organizzazione dell’operazione Husky, nome in codice con il quale fu identificato lo sbarco delle truppe alleate in Sicilia nel luglio del 1943. Lucky Luciano e suoi “compari” riuscirono a fare in modo che i soldati a stelle e strisce trovassero la minore resistenza possibile nell’Isola e potessero beneficiare, già nel momento stesso in cui avessero messo piede sulle spiagge, di una rete di “picciotti” fidati capaci di descrivere a menadito, strade, postazioni nemiche, ed ogni sorta di anfratto. Per i servizi resi durante il conflitto bellico Lucky Luciano (assassino, sfruttatore di prostitute, commerciante di droga, estorsore e corruttore) fu liberato anticipatamente ed estradato in Italia grazie ad un provvedimento firmato da Thomas Edmund Dewey, il procuratore distrettuale della contea di New York che lo aveva fatto condannare ad un pena “non inferiore a 30 anni” qualche anno prima e che era poi divenuto Governatore di quello stesso Stato. Questo squarcio di storia del novecento racconta in tutta la sua drammaticità della fortissima tensione alla quale può essere sottoposto lo Stato di diritto nei momenti più difficili della vita delle liberal democrazie, soprattutto quando esse sono sotto attacco, allorché, cioè, praticare l’eccezione alla regola di diritto potrebbe rappresentare l’unica soluzione per salvare l’intero sistema della convivenza civile. Si tratta di una deviazione dall’ordinario, da quella che dovrebbe essere l’inviolabile regola del “governo delle leggi”, che conduce nel sentiero ambiguo, fosco, e discrezionale del “governo degli uomini”. Non vi è da parte dei rappresentanti del governo complicità col sodalizio criminale, né volontà di rafforzarne il potere e la struttura organizzativa, ma soltanto il desiderio di tentare di evitare mali maggiori in un contesto di grave debolezza istituzionale cui non è possibile porre rimedio repentinamente. Non si assiste nemmeno ad una sospensione della lotta fra il bene e il male, quanto più semplicemente all’individuazione di un pericolo di maggior rilievo da sventare in una situazione di grave svantaggio nei confronti del nemico che potrebbe preludere a guai ben maggiori. Dopo la liberazione di Lucky Luciano le autorità americane ripresero senza indugio la loro battaglia contro la malavita organizzata italoamericana e diedero filo da torcere per anni ad infinite schiere di boss e famiglie mafiose. A Palermo, invece, un Tribunale della Repubblica italiana ci ha fatto sapere che per gli ufficiali dei Carabinieri che avrebbero tentato (ammesso che così sia stato) di fermare la mattanza di politici, giudici, poliziotti ed inermi cittadini, fatti esplodere in aria e ridotti a brandelli sulle autostrade siciliane, in pieno centro cittadino a Palermo o in ogni altra parte d’Italia, può esserci solo il carcere. Nonostante la gravissima debolezza del corpo e dell’anima dello Stato in quei terribili mesi, resa evidente dal caos istituzionale e dalla incapacità di organizzare una risposta investigativa immediatamente idonea a mettere a riparo la vita di rappresentanti delle istituzioni e di ignari cittadini, malgrado il concreto pericolo che la Repubblica crollasse definitivamente sotto i colpi serrati della più spietata organizzazione criminale italiana mai vista, sebbene la lotta alla mafia quegli autori della trattativa non avrebbero poi mai smesso di continuare senza sosta alcuna, il tentativo di far riprendere fiato alle istituzioni democratiche deve essere considerato, secondo i pubblici ministeri ed i giudici della Corte, alla stregua di un crimine ingiustificabile. A nulla vale argomentare che il nemico ti aveva messo oramai il coltello alla gola e che avevi ritenuto necessaria una tregua (e non una resa) per riprendere le forze, non soccombere definitivamente e contrattaccare. A nulla vale sottolineare che anche la pubblica accusa in questo processo sulla presunta trattativa è consapevole che non ci fu mai, nemmeno per un momento, la volontà da parte dei rappresentati dello Stato di concorrere con la mafia nel disegno criminale portato avanti dai corleonesi per più di trent’anni. A nulla serve ricordare che la trattativa (ammesso ci sia stata) avrebbe permesso comunque di assestare un colpo micidiale al Capo dei capi e, da lì a qualche anno, all’intera organizzazione malavitosa. Il fanatismo, infatti, quello massimamente manicheo, quello assolutamente intransigente, quello disumano, ti spiega, con fare censorio e teatrale allo stesso tempo, che non avresti dovuto nemmeno parlare con il nemico (ammesso che tu lo abbia fatto), piuttosto avresti dovuto preferire farti ammazzare dopo avere assistito al disfacimento generale di quello che sarebbe rimasto dello Stato di diritto, soprammobile d’arredo, a quel punto, ad uso e consumo della mafia che avremmo voluto sconfiggere.

"Sentenza Trattativa, Stato fallito che non protegge i suoi servitori", scrive il 21 Aprile 2018 la Redazione de La Pressa. Stefano Parisi, segretario di Energie per l’Italia: "Politicizzazione del pm Di Matteo, fanno di tale caso uno dei punti più bassi del nostro stato di diritto". “È incredibile come si possa gioire della sentenza di Palermo che condanna dei servitori dello Stato che hanno arrestato Totò Riina e, con la loro azione, inferto dei colpi durissimi alla mafia. Uno Stato che non protegge i suoi servitori è uno Stato fallito. A supporto di questa sentenza non ci sono prove ma solo dichiarazioni di pentiti la cui totale assenza di credibilità è stata già provata”. Lo ha scritto su Facebook Stefano Parisi, segretario di Energie per l’Italia commentando la sentenza di Palermo che condanna Mori e De Donno. Parisi aggiunge: “La spinta mediatica intorno alla presunta trattativa Stato-mafia, la forte ed esplicita politicizzazione del pm Di Matteo, fanno di questo caso uno dei punti più bassi del nostro stato di diritto. I leader politici che in queste ore esultano rappresentano il dramma ultimo che sta vivendo il nostro Paese. Che il neoeletto presidente della Camera dei deputati inneggi a questa sentenza è senza dubbio un fatto molto grave a cui il Parlamento dovrebbe dare una risposta chiara a difesa della nostra democrazia e dello stato di diritto”.

Un amaro processo, la guerra alla mafia. Perché le coscienze non possono tacere, scrive Marco Tarquinio sabato 21 aprile 2018 su Avvenire. "Gentile direttore, quando le armi urlano le coscienze tacciono e, quando la coscienze tacciono, non esistono più né regole né onore ma solo eroi. Me lo diceva sempre mio nonno, combattente in Africa durante la Seconda guerra mondiale, ogni qual volta gli confidavo di voler fare il carabiniere. Ciò, in un periodo in cui più che mai la mafia sparava, metteva le bombe e uccideva innocenti. Poi, un giorno mi sono ritrovato “in guerra” e, solo allora, ho capito che cosa mio nonno volesse dire. Apprendo con grande rammarico della condanna del generale Mori e degli altri carabinieri che hanno operato in contesti in cui «le coscienze erano atterrite dall’urlo delle armi e regole ed onore erano prerogativa solo degli eroi». Di questa storia non posso e non voglio giudicare i fatti e neppure le “carte”, che non conosco, sono sicuro, però, che a volte le carte dicono cose diverse rispetto ai fatti. Così, mi viene ancora in mente un’altra cosa che mio nonno ogni tanto ribadiva: «Nipotino mio, quando sei in guerra e combatti veramente, ti possono succedere solo cose brutte, puoi morire, rimanere ferito o, se proprio sei “fortunato”, essere fatto prigioniero. La differenza però è che, se muori o rimani ferito, indipendentemente da come è successo, vieni ricordato come un eroe, se invece ti fanno prigioniero, rimani semplicemente uno che si è arreso». Io so che il Generale e gli altri carabinieri, dopo lunghi anni di “guerra” alla mafia, stanno ancora combattendo per non essere fatti prigionieri, ai posteri giudicare chi è stato il loro vero nemico, se lo Stato o la mafia. Vincenzo Drosi, maresciallo dei Carabinieri in congedo".

È davvero emozionata ed emozionante, gentile maresciallo Drosi, questa sua lettera sulla prima sentenza nel processo sulla «trattativa Stato-mafia». E mi ha molto colpito. Di lei so ciò che lei stesso mi dice, e cioè che ha servito nell’Arma, ma anche che è stato posto in congedo prima del previsto a causa di gravi ferite riportate facendo il suo dovere. Ciò che racconta di suo nonno, aiuta ancor meglio me e gli altri amici lettori a capire di che pasta anche lei è fatto e quali ideali l’hanno formata: certamente improntati al quel binomio «disciplina e onore» che la nostra Costituzione propone come misura e stile del servizio reso da quanti esercitano, a ogni livello e con diverso grado di responsabilità, un ruolo pubblico. Tutto ciò mi induce a considerare con ancora più rispetto le sue parole e a fare ogni sforzo per comprendere la sua amarezza. Non conosco abbastanza neppure io le “carte” del processo su quella che abbiamo definito sulla nostra prima pagina di ieri «la malatrattativa» e commentato con il lucido e coraggioso fondo di Danilo Paolini. E quel che so non mi autorizza ad azzardare sul complesso dell’operato dei magistrati giudizi che sarebbero pregiudizi. Ma conosco molti uomini delle Forze dell’ordine e, tra loro, non pochi che vestono la divisa dei Carabinieri. So bene che non sono infallibili, ma so altrettanto bene che le “mele marce” sono la triste eccezione che conferma la regola di una grande pulizia di vita e d’azione e di una generosa fedeltà alla Repubblica (che non è un’entità astratta, ma siamo tutti noi), regola sulla quale gli stessi uomini delle forze dell’ordine sono chiamati a vigilare con speciale attenzione. Per quel che vale, a mia volta sono certo che il generale Mori e gli uomini del Ros oggi condannati continueranno a battersi per dimostrare la giustezza del proprio operato. Conosco, poi, molti dei fatti. E ciò che conosco mi aiuta a rendermi conto che qualcosa di molto serio e poco limpido accadde dietro le quinte degli anni concitati e decisivi della «risposta dello Stato» che seguirono la terribile stagione stragista di “cosa nostra” del 1992-93. Certo accaddero anche cose riprovevoli, come in ogni guerra. Ed è proprio questo che ha mosso un processo giudiziario che ha scosso e inquietato anche me. I lettori sanno che nell’estate del 2012 mentre questa vicenda processuale toccava e coinvolgeva in modo clamoroso importanti personalità e tra esse persone «per bene» che in anni di lavoro ho avuto la possibilità di conoscere, vedere all’opera e stimare, non esitai a dire e scrivere parole ferme e chiare di preoccupazione. E di dissenso. Penso in particolare a come venne investito tramite intercettazioni “impossibili” Loris D’Ambrosio, uomo e magistrato di grande levatura morale e professionale, morto letteralmente di crepacuore. E penso a ciò che ha dovuto vivere in questi anni Nicola Mancino, già ministro dell’Interno e presidente del Senato, ora assolto totalmente dall’accusa di falsa testimonianza. Mancino – da giurista e politico galantuomo qual è – si è difeso “nel processo e non dal processo”, mostrando ancora una volta a non pochi protagonisti di quella che a lungo è stata chiamata «nuova politica» (oggi ormai vecchia e quasi archiviata) che cosa significhi nutrire autentico senso delle Istituzioni anche davanti a una palese ingiustizia aggravata dallo stringersi di una tenaglia politico-mediatica mirata a tagliarti fuori, e con immeritata ignominia, dalla vita pubblica. Un amico molto profondo, che veste a sua volta la toga del magistrato, mi ha consegnato in questi giorni una riflessione che considero molto utile e saggia e sono certo che non si dorrà se la richiamo qui, ora, sia pure un po’ sommariamente. «Se una “trattativa” tra uomini dello Stato e uomini della mafia ci fu, va giudicata politicamente e storicamente. Si potrà dire che è stata un grave errore politico o, al contrario, che fu necessitata. Ma, in ogni caso, non la si potrà chiudere nel “vestitino” di una norma penale. Comunque sia andata, l’elemento psicologico che può aver mosso uomini di Stato a un contatto con uomini della mafia non sarà mai lo stesso dei mafiosi». Di questo sono convinto anch’io. Così come sono consapevole del fatto che ci sono verità storiche (e morali) che non sempre coincidono con quelle che possono essere rincorse e accertate (eppur si deve...) in un’aula giudiziaria. Un ultimo pensiero è per la fulminante frase con cui lei, gentile maresciallo ha aperto la sua lettera. Ne capisco il senso e posso intenderne anche la buona intenzione, ma sono di un’altra scuola. Quando le armi urlano, le coscienze non possono tacere. E questo l’«eroismo», cristiano e civile, che ci è chiesto di vivere con semplicità e tenacia e che motiva ogni resistenza al male, all’ingiustizia, all’indifferenza, alla mafia.

Il giurista che definì il processo sulla trattativa Stato-Mafia una "boiata" non cambia idea dopo la sentenza: "Non andava fatto". Lo studioso di diritto penale Giovanni Fiandaca critico verso l'accusa, scrive il 21/04/2018 "Huffingtonpost.it". Qualche anno fa, in piena bufera mediatica, quando quello sulla trattativa Stato-mafia veniva definito il processo del secolo, usò parole dure, bollando l'atto di accusa della Procura di Palermo come una "boiata pazzesca". Oggi Giovanni Fiandaca, tra i massimi studiosi italiani di diritto penale, non usa la scure, ma ribadisce dubbi e perplessità manifestati da sempre sul lavoro dei pm palermitani dicendo che il processo non si doveva fare. Il commento arriva dopo il verdetto che, invece, ha accolto praticamente in pieno l'impianto dei magistrati condannando a pene pesantissime quelli che sarebbero stati i protagonisti del dialogo tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra negli anni delle stragi: dall'ex generale del Ros Mario Mori, all'ex senatore di Fi Marcello Dell'Utri condannati a 12 anni di carcere. Le critiche di Fiandaca sono tutte in diritto. "Fermo restando che aspettiamo di leggere le motivazioni della sentenza - dice - rimangono invariate le mie perplessità sul reato ipotizzato: la minaccia a Corpo politico dello Stato. Il Governo italiano non è un organo politico ma costituzionale e la tutela degli organi costituzionali è assicurata da un'altra norma del codice penale: l'articolo 289 che, peraltro, è stato modificato nel 2006. La nuova formulazione non parla di minaccia ma di 'atti violenti', ed è questo il motivo per cui la Procura alla fine ha ripiegato sull'articolo 338. Resta il nodo di fondo: la pressione sul governo da parte della mafia e dei concorrenti, ipotizzata dall'accusa, ricade solo nella previsione dell'articolo 289. La scelta del reato dunque è sbagliata". Questioni in diritto complesse che - e questa è un'altra criticità individuata da Fiandaca - troppo spinose per una Corte d'Assise composta da giudici popolari. "Io ritengo che siano questioni di competenza di un giudice solo professionale", dice. La Corte d'Assise come competente a celebrare il processo venne individuata dal gup che dispose i rinvii a giudizio sulla base della ricostruzione della procura che vedeva nell'omicidio dell'erurodeputato Salvo Lima, reato di competenza della corte, uno degli snodi da cui avrebbe preso il via la cosiddetta trattativa. Che quella della Procura sia stata comunque una vittoria a 360 gradi il professore non lo crede. "Ciancimino è stato assolto dal concorso in associazione mafiosa - dice - e Mancino dalla falsa testimonianza: a mio avviso in questo modo vengono meno due punti chiave della ricostruzione. Sono curioso di capire il ragionamento seguito dai giudici". Di una cosa Fiandaca è sicuro. Nonostante il verdetto. Quello sulla trattativa è un processo che non si doveva avviare. "La mia - spiega - è un'opinione condivisa anche da altri giuristi, ma negli ultimi anni sempre meno noi professori e i magistrati ci siamo capiti, nel senso che la magistratura in buona fede ricorre a interpretazioni estensive delle norme incriminatrici anche sorvolando su questioni di stretto diritto pur di arrivare ai risultati repressivi che ritiene necessari". "E un problema generale - conclude - che prescinde dal processo trattativa. C'è la tendenza, diventata crescente, di alcuni magistrati a percepire il proprio ruolo come quello di difensori contro il crimine a dispetto del garantismo individuale".

La sentenza di Palermo. C’era una volta il Diritto. La sentenza di Palermo sulla presunta trattativa Stato-mafia lascia perplessi, scrive Piero Sansonetti il 21 Aprile 2018 su "Il Dubbio". È una sentenza che lascia perplessi. Dico meglio: lascia un po’ sbigottiti. Per cinque ragioni.

La prima è che non ci sono prove contro gli imputati. Soprattutto contro gli imputati di maggiore valore mediatico: il generale Mori (e i suoi collaboratori) e l’ex senatore Dell’Utri. Non ci sono neanche indizi. La tesi dell’accusa si fonda tutta o su alcune testimonianze giudicate false da questo e da altri tribunali, o sulla parola di qualche mafioso, o su ricostruzioni dei pubblici ministeri molto interessanti ma costruite esclusivamente su ipotesi o sulla letteratura.

La seconda è che prima che si concludesse questo processo se ne erano svolti altri, paralleli e sulle stesse ipotesi di reato, e si erano conclusi tutti, logicamente, con le assoluzioni degli imputati (tra i quali lo stesso Mori e l’on. Mannino). Questa sentenza, nella sostanza, ci dice che sì, probabilmente non ci fu il reato, ma ci sono i colpevoli.

La terza ragione dello stupore è il reato per il quale sono stati condannati gli imputati eccellenti. Il reato si chiama così: «Attentato e minaccia a corpo politico dello Stato». Gli esperti e i professori dicono che nella storia d’Italia questo reato è stato contestato una sola volta. Nessuno però ricorda bene quando. Ma comunque quella volta non fu per minacce nei confronti del governo – ed è di questo che sono accusati Mori e Dell’Utri – perché esiste nel codice un reato specifico, scritto nell’art 289 del codice penale, che prevede appunto l’attentato contro un organismo costituzionale (cioè il governo).

La quarta ragione non è di diritto ma è di buon senso. E sta nella assoluzione (seppure per prescrizione) del capo della mafia (Giovanni Brusca, uno dei boss più feroci del dopoguerra) che sarebbe l’autore della minaccia, contrapposta alla condanna del generale Mo- ri che è forse il militare che ha catturato più mafiosi dai giorni dell’Unità d’Italia ad oggi e che dalla mafia è stato sempre considerato nemico acerrimo.

La quinta ragione del nostro sincero sbigottimento sta nello scenario kafkiano che viene disegnato da questa sentenza. Lasciamo stare per un momento il dettaglio dell’assenza di prove. Cerchiamo di capire cosa l’accusa e la giuria ritengono che sia successo nel 1993- 94. Sarebbe successo questo: la mafia, guidata da Riina avrebbe minacciato lo Stato, prima e dopo le uccisioni di Falcone, Borsellino e delle loro scorte. Avrebbero chiesto l’allentamento del rigore carcerario con un ricatto: «Altrimenti seminiamo l’Italia di stragi». In una prima fase questa minaccia sarebbe stata mediata sempre da Dell’Utri e Mori, evidentemente con Ciampi e Scalfaro. Questa però è solo la tesi dell’accusa, perché la giuria non ci ha creduto, gli è parsa davvero troppo inverosimile. Poi succede che Mori – evidentemente mentre trattava con lui – arresta Riina assestando alla mafia il colpo più pesante dal dopoguerra. In una seconda fase, dopo gli attentati del ‘ 93 (uno dei quali contro un giornalista Mediaset molto legato a Berlusconi, e cioè Maurizio Costanzo) la minaccia sarebbe stata portata a Berlusconi, che nel frattempo era diventato Presidente del Consiglio, attraverso Marcello Dell’Utri e forse attraverso lo stesso Mori, evidentemente colpito da un fenomeno grave di schizofrenia. Nessuna delle richieste dei mafiosi, però, fu accolta. E questo, in teoria, dimostrerebbe un comportamento rigorosissimo di Berlusconi: uomo davvero incorruttibile. E infatti la sentenza condanna gli imputati a risarcire con 10 milioni la presidenza del Consiglio, cioè Berlusconi. Le richieste mafiose che Dell’Utri, e forse Mori, avrebbero portato a Berlusconi (e forse a Mancino, ministro dell’Interno, che però ha negato, è stato imputato per falso e poi assolto) erano contenute in un “papello” consegnato dall’ex sindaco Ciancimino, così sostiene il figlio dell’ex sindaco che però è stato a sua volta condannato per calunnia (e dunque il papello è falso).

Ma una persona che legge queste cose qui e ha un po’ di sale in zucca, che deve pensare? Beh, probabilmente gli viene in mente un’idea molto semplice: che quello di Palermo sia stato semplicemente un processo politico. E qualche conferma a questo sospetto viene da un paio di elementi. Il primo è che il Pubblico ministero che ha condotto l’accusa fino all’ultimo minuto, si è candidato a fare il ministro coi 5 Stelle, ha partecipato a diversi convegni politici dei 5 Stelle, ha presentato a nome dei 5 Stelle un programma per riformare la giustizia, e, appena emessa la sentenza, ha rilasciato dichiarazioni feroci contro Berlusconi, che oltretutto è parte lesa e non imputato. Possiamo tranquillamente dire che il Pubblico ministero era un uomo politico. Il suo predecessore, quello che avviò il processo (si chiama Antonio Ingroia) ha partecipato recentemente alle elezioni in qualità di candidato premier con una lista di sinistra. Anche questa circostanza (almeno in forma così esplicita) è senza precedenti, credo, in tutti i paesi dell’Occidente. Il secondo elemento sta in tutto quello che ha preceduto il processo. E cioè il processo mediatico, che difficilmente non ha condizionato fortemente la giuria di Palermo. Ho sentito molti commentatori dire che comunque ci sarà un processo di appello, che potrà correggere gli errori del primo grado. Vero. Per fortuna l’impianto della nostra giustizia è solido. Però è difficile digerire l’arroganza del processo di Palermo, e la sua superficialità, e l’ingiustizia palese di alcune condanne, come quella contro il generale Mori. Ed è difficile non considerare il fatto che l’ex senatore Dell’Utri, che sta in cella in condizioni di salute gravissime, difficilmente, dopo questa nuova stangata, potrà sperare di ottenere cure adeguate e di rivedere il cielo senza sbarre. No, non è stata una bella giornata.

Stato-Mafia, Mancino, il legale: «Intercettato per mesi senza essere indagato», scrive il 16 Febbraio 2018 Il Mattino. «Per molti mesi Nicola Mancino è stato intercettato senza neppure essere iscritto nel registro degli indagati». Così, l'avvocato Nicoletta Piergentili proseguendo la sua arringa difensiva al processo sulla trattativa tra Stato e mafia che vede imputato l'ex Presidente del Senato Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza. «Le sue parole intercettate - dice ancora Piergentili - provano in ogni caso una linearità di comportamenti e dichiarazioni che si pretende costituiscano prove di accuse contro la falsa testimonianza, mentre non c'è nessuna traccia di quello che sarà la sua tesi. Quello che traspare sono disorientamento, non solo di Nicola Mancino ma anche, e soprattutto, del suo interlocutore, Loris D'Amborsio, poi scomparso prematuramente». D'Ambrosio era il consigliere giuridico dell'ex Capo dello Stato Giorgio Napolitano, morto per un infarto nel luglio del 2012. Secondo la Procura di Palermo dietro quelle conversazioni si celava il tentativo dell'ex ministro di condizionare le indagini. «In modo suggestivo l'accusa ha fatto notare che il cittadino Mancino si rivolgeva a persone di alto rango, persino al Presidente della Repubblica - dice l'avvocato Piergentili, che difende Mancino con il collega Massimo Krogh - ma costoro erano i rappresentanti delle istituzioni a lui più vicine per la carica e il ruolo ricoperto, sono persone che hanno fatto parte del suo mondo, un mondo dal quale è stato spazzato via». E cita alcune intercettazioni: «Colpisce - dice Piergentili - lo stupore del consigliere D'Amborsio, nella telefonate del 25 novembre 2011, quando Mancino lo chiama alle nove di sera per comunicargli che è stato di nuovo convocato per il successivo 6 dalla Procura come persona informata dei fatti. E questo è il motivo per il quale sono state disposte le telefonate». «Nessun dialogo - dice l'avvocato - tra Mancino ed esponenti delle istituzioni, nessuna telefonata parla di quello che si andrà a dire».

L’omicidio Lima è stato il grimaldello per ottenere la giuria popolare. La strategia della procura per andare in Corte d’Assise, scrive il 26 Aprile 2018 "Il Dubbio". Il processo sulla “trattativa” Stato- mafia, conclusosi la scorsa settimana con le pesanti condanne degli allora vertici del Raggruppamento operativo speciale dell’Arma dei Carabinieri, i generali Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, offre all’interprete e all’operatore del diritto argomenti di riflessione sulla disciplina codicistica relativa alla competenza per materia del giudice penale. Il processo “trattativa”, com’è noto, si è celebrato davanti alla Corte d’Assise di Palermo. Il motivo del radicarsi della competenza davanti alla Corte composta anche da giudici popolari è stato determinato dal fatto che parte integrante della presunta “trattativa” era l’omicidio, avvenuto a Palermo a marzo del 1992, dell’europarlamentare della Dc Salvo Lima. Le difese degli alti ufficiali dell’Arma avevano chiesto di essere giudicati dal Tribunale monocratico in quanto l’articolo 338 del codice penale, rubricato “violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario”, contestato agli imputati, è punito con la reclusione nel massimo di sette anni. Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza, aveva invece chiesto di essere giudicato dal Tribunale dei ministri, in quanto il fatto per cui era accusato, la falsa testimonianza, sarebbe stato commesso in ragione dell’aver rivestito la carica di ministro della Repubblica. La competenza veniva contestata dalle difese non soltanto sotto il profilo della composizione dell’organo del giudice, ma anche con riferimento alla competenza territoriale: se una “trattativa” fra lo Stato e la mafia era avvenuta, il luogo di consumazione del reato non poteva che essere Roma, capitale del Paese e sede del Governo. L’omicidio di Lima era per la Procura di Palermo un «dato fondante del castello accusatorio, il primo atto del ricatto che mafia e pezzi delle Istituzioni fecero allo Stato», disse l’allora procuratore aggiunte Vittorio Teresi, esultando per la decisione del presidente della Corte d’Assise Alfredo Moltalto di respingere ogni eccezione presentata dalle difese, sposando appieno le considerazione della Procura e dando dunque il via a luglio del 2013 al dibattimento. Con il senno di poi, un cattivo presagio per gli imputati. Lo stesso Di Matteo, che cinque anni dopo accuserà l’Anm e il Csm di averlo lasciato solo, fu estremamente contento della decisione di Montalo, presidente “di una autorevole Corte d’assise che ha eliminato critiche pregiudiziali all’indagine radicando il processo a Palermo”. La Corte d’assise giudica i reati più gravi e di grande allarme sociale come, appunto, l’omicidio volontario. In virtù del collegamento con l’omicidio di Salvo Lima, la competenza è passata alla Corte d’assise di Palermo, cosi chiamata a giudicare non per tale fatto di sangue ma sul reato, il 338 codice penale, che senza questo filo conduttore sarebbe stato di esclusiva competenza del giudice togato monocratico. Il 338 cp è, come stato ripetuto più volte, un reato rispetto al quale non esiste ampia giurisprudenza e che vede la necessità di definizioni di concetti squisitamente tecnico giuridici come quello delle nozioni di “corpo politico” e di “turbamento”, idonei alla sua configurazione. E’ sufficientemente attrezzato sotto questo aspetto un giudice popolare? Senza contare, poi, il condizionamento mediatico che questo dibattimento ha innegabilmente avuto, con una martellante campagna colpevolista nei confronti degli imputati. Inoltre, bisogna ricordare l’incredibile lunghezza di tale dibattimento che ha, a memoria, ben pochi precedenti in termini di durata nella storia della Repubblica. Oltre 220 udienze in cinque anni costituiscono un vero record per un giudizio di primo grado. Per fare un esempio, il processo alla maxi tangente Enimont, “la madre di tutte le tangenti” nell’indagine Mani pulite, si celebrò in sole 44 udienze ed in meno di un anno. Già questi numeri dovrebbero far riflettere. In Francia è in corso di approvazione una riforma della procedura penale che limita drasticamente il ricorso alle giurie popolari. La sperimentazione è già in atto in alcuni distretti. Da ora in poi saranno di competenza della Corte d’assise solo i reati punibili con l’ergastolo e quelli con gravi casi di recidiva. Sarebbe auspicabile che anche in Italia si aprisse un serio dibattito sulle giurie popolari, per evitare che fattispecie di reato eccessivamente “tecniche” vengano giudicate da persone non del tutto adeguate. Anche sotto l’aspetto che non “appaiano” preparate al ruolo.

Nel 1993 fu la Consulta a revocare il 41bis ai boss. Si opposero soltanto i Ros di Subranni e De Donno, scrive Damiano Aliprandi il 28 Aprile 2018, su "Il Dubbio". Esiste la sentenza della Corte costituzionale citata da Luciano Violante, ovvero quella che avrebbe influenzato l’ex ministro della giustizia Giovanni Conso riguardante la decisione di non prorogare il 41 bis a 334 detenuti. L’altro ieri, durante la deposizione al processo d’appello all’ex ministro Calogero Mannino, assolto in primo grado dall’accusa di minaccia a Corpo politico dello Stato, Violante ha detto le testuali parole: « Le revoche dei 41 bis ai mafiosi disposte dal ministro Conso nel ’ 93, furono conseguenza di una sentenza della Corte costituzionale che impose valutazioni individuali per ciascun provvedimento di carcere duro a differenza di quanto era avvenuto in precedenza e in passato per i terroristi» . Ricordiamo che, secondo l’impianto accusatorio (al processo Stato- Mafia), le revoche di diversi provvedimenti di 41 bis decise da Conso sarebbero state uno dei segnali mandati dallo Stato alla mafia a dimostrazione della linea soft scelta nel contrasto ai clan in ossequio alla cosiddetta trattativa e in cambio della fine delle stragi. La sentenza della Consulta c’è stata e Il Dubbio l’ha potuta visionare. È la numero 349 e depositata in cancelleria il 28 Luglio del 1993. Ricordiamo che il 29 ottobre – quindi 3 mesi dopo la sentenza – lo stesso Dipartimento di amministrazione penitenziaria inviò un documento in cui si chiedeva a diverse autorità – dalla magistratura alle forze dell’ordine – un parere sull’eventuale proroga del provvedimento a oltre trecento persone detenute. A questo si aggiunge un altro particolare. Il 30 Luglio del’ 93 – quindi due giorni dopo la sentenza della Consulta – l’ufficio dei carabinieri relativo al coordinamento servizi sicurezza degli istituti di prevenzione e pena ha chiesto un parere sull’eventuale proroga dei detenuti al 41 bis direttamente ai Ros. A rispondere fu l’allora generale di brigata comandante Antonio Subranni – condannato assieme a Mori in primo grado per avere partecipato alla presunta trattativa – che ripose di essere favorevole all’applicazione del 41 bis «per ottenere la recisione dei detenuti interessati dalle loro organizzazioni criminale, nonché la collaborazione di giustizia in favore dell’attività investigativa». Quindi anche questo dettaglio – non di poco conto perché mette in discussione l’accusa nei confronti dei Ros che avrebbero trattato con la mafia – conferma le parole di Conso quando disse di aver agito in solitudine e secondo coscienza. I Ros erano contrari a concedere questo beneficio (se di beneficio si può parlare) ai detenuti. Conso, giurista, ex vicepresidente del Csm e della Corte Costituzionale, ministro tecnico nel governo di Carlo Azeglio Ciampi, non poteva disattendere ad alcune indicazioni tratte dalla sentenza della Consulta. Da dove aveva attinto l’imposizione di valutazioni individuali? Il passaggio è a pagina 9 del dispositivo: «Misure di tal genere – è bene sottolinearlo – devono uniformarsi anche ai principi di proporzionalità e individualizzazione della pena, cui l’esecuzione deve essere improntata; principi, questi ultimi, che a loro volta discendono dagli artt. 27, primo e terzo comma, e 3 della Costituzione (cfr. sent. n. 50 del 1980 e n. 203 del 1991) nel senso che eguaglianza di fronte alla pena significa proporzione della medesima alle personali responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguono (cfr. sent. n. 299 del 1992 e n. 306 del 1993) – ed implicano anch’essi l’esercizio di una funzione esclusivamente propria dell’ordine giudiziario». Altro passaggio cruciale della sentenza è a pagina 11: «Deve ritenersi implicito – anche in assenza di una previsione espressa nella norma, ma sulla base dei principi generali dell’ordinamento – che i provvedimenti ministeriali debbano comunque recare una puntuale motivazione per ciascuno dei detenuti cui sono rivolti ( in modo da consentire poi all’interessato un’effettiva tutela giurisdizionale), che non possano disporre trattamenti contrari al senso di umanità, e, infine, che debbano dar conto dei motivi di un’eventuale deroga del trattamento rispetto alle finalità rieducative della pena». La Corte, pur riconoscendo la costituzionalità dell’applicazione del regime duro, aveva indicato che la modalità di esecuzione del regime rispettasse il diritto di libertà senza reprimerlo in modo assoluto. Fu proprio per garantire, tra gli altri, il rispetto dell’art. 27 della costituzione che la stessa Consulta, con le osservazioni sopra riportate, impose di personalizzare la valutazione nel caso di applicazione del regime del carcere duro, anche in ragione dell’obbligatorietà della motivazione, che avrebbe cosi reso effettivo il diritto del detenuto di richiedere una valutazione dell’autorità giudiziaria. La finalità riabilitativa della detenzione non può essere derogata, soppressa o sospesa nemmeno per esigenze di ordine e sicurezza. L’allora ministro e uomo di diritto come Conso, non poteva quindi disattendere le indicazioni della consulta.

E ALLORA PERCHÉ NON PROCESSANO I GIURISTI, TUTTI CELEBERRIMI, CHE EMISERO LA SENTENZA NEL ‘ 93? FORSE PERCHÈ SANNO GIÀ COSA RISPONDEREBBERO: «QUESTO È IL DIRITTO, VOSTRO ONORE…»

La storia messa alla rovescia. I Ros dissero no, la Consulta disse sì. La storia messa alla rovescia, scrive Piero Sansonetti il 29 Aprile 2018 su "Il Dubbio".  Nell’articolo qui accanto, Damiano Aliprandi spiega come andò la decisione di revocare il 41 bis (carcere duro) a 334 detenuti, presa nell’autunno del 1993 dal ministro Giovanni Conso. Quella fu l’unica misura che potesse essere considerata un beneficio ai mafiosi. Quindi se bisogna parlare di trattativa tra Stato e mafia (come ha fatto la sentenza di Palermo) bisogna riferirsi prima di tutto a quella decisione di Conso. Prima però bisogna chiarire chi era Giovanni Conso. Non era un ministro prodotto dai “berluscones” o dai “partiti corrotti”. I “berluscones” ancora non si vedevano all’orizzonte. I “partiti corrotti” boccheggiavano sotto i colpi di Di Pietro. Conso era un giurista di primissimo ordine, e come tecnico era stato chiamato a far parte del governo tecnico di Carlo Azeglio Ciampi. Il quale a sua volta era uno tra gli economisti più prestigiosi di Europa. Conso in realtà era entrato anche nel precedente governo, quello di Giuliano Amato, il 2 febbraio del 1993 per sostituire Claudio Martelli, affondato da un avviso di garanzia del pool di Milano. Conso era stato chiamato proprio per il valore della sua figura, sia sul piano culturale che su quello morale, in un momento di crisi politica devastante, nella quale i partiti, come dicevamo, erano stati rasi al suolo dalla magistratura e dalla stampa. Benissimo: Conso si è sempre assunto la responsabilità di quella decisione. Non ha mai scaricato le responsabilità. Perché la prese? Ci fu una trattativa? No – spiega nel suo articolo Aliprandi, e ha accennato due giorni fa Violante – la decisione fu presa sulla base di una sentenza della Corte Costituzionale depositata in cancelleria il 28 luglio del 1993. Questa sentenza stabiliva che il 41 bis può essere applicato solo caso per caso, e deve essere motivato adeguatamente. Non può essere deciso in blocco per una categorie di detenuti. Per esempio quelli accusati di mafia. E siccome il 41 bis era stato invece assegnato a quei 334 in blocco, non era valido e non poteva essere rinnovato. Giovanni Conso, in novembre, quando prese la decisione, non poteva fare altro che rispettare la sentenza della Corte. Poi, se volete divertirvi, potete giocare al gioco delle coincidenze con le date. La sentenza dell’alta Corte fu depositata in cancelleria la mattina dopo l’attentato di via Palestro, a Milano (5 morti), esattamente due mesi dopo l’attentato a Firenze (cinque morti). E la decisione di Conso fu operativa qualche giorno dopo il fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma (che, se fosse riuscito, avrebbe provocato decine e decine di morti) che è del 31 ottobre. Ma i processi non si fanno con il gioco delle coincidenze. Poi però ci sono delle cose che non sono coincidenze ma fatti reali. Per esempio è un fatto che i carabinieri del Ros, che oggi sono stati condannati per aver favorito (o addirittura realizzato) la trattativa, furono consultati prima della revoca del 41 bis. Fu chiesto loro: «Siete d’accordo su questa revoca?». Sapete cosa risposero, con una nota firmata dal generale Subranni in persona? Risposero secco: «No». Personalmente nutro moltissimi dubbi sulla legittimità della risposta di Subranni. Il quale disse: niente revoca perché il 41 bis serve per favorire dissociazioni e pentimenti. A me pare che una misura cautelare (come mi dicono sempre sia il 41 bis) non possa essere usata come strumento di pressione sul detenuto, per farlo parlare, confessare, pentire o altro. Ma oggi non è questa polemica che ci interessa. Ci interessano i fatti. Risulta che il governo Berlusconi non fece nulla per favorire i detenuti, risulta che non fece nulla il governo Amato, e risulta che il governo Ciampi prese una misura che era imposta da una sentenza della Corte Costituzionale. Risulta che a questa sentenza si opposero quasi solo i Ros, e cioè i carabinieri che poi sono stati condannati. Capite bene che c’è qualcosa che non va. Se davvero i magistrati di Palermo sono convinti che la trattativa ci fu, dovrebbero forse interrogare i giudici dell’Alta Corte che presero quella decisione. Chi erano? Erano il gotha del diritto italiano. Giuristi del calibro di Francesco Paolo Casavola (che era il Presidente), Ugo Spagnoli, Vincenzo Caianiello, Mauro Ferri, Enzo Cheli, Renato Granata, Cesare Mirabelli, Francesco Greco, Gabriele Pescatore, Fernando Santosuosso. I magistrati dovrebbero, col piglio che ha contrassegnato tutti gli interrogatori a questo processo, chiedere loro: «chi vi spinse a emettere una sentenza che portava benefici ai detenuti sospettati o condannati per mafia». Loro risponderebbero, all’unisono: «Il diritto, signor Pubblico Ministero. Il diritto che in uno stato di diritto vale più di ogni altra cosa».

Mannino: «La mia Dc espulse Ciancimino e fui punito da Cosa Nostra». Intervista con Calogero Mannino: «Nel nono congresso espulsi Vito Cincimino e vinse il rinnovamento: Mattarella, Nicolosi e io». Intervista di Giovanni M. Jacobazzi del 28 gennaio 2017 su "Il Dubbio".  Calogero Mannino è un politico di razza. Esponente di punta della Prima Repubblica, è stato più volte ministro. Arrestato nel 1994 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, dopo nove mesi di carcere, tredici di arresti domiciliari e una trafila giudiziaria estenuante, nel 2010 è assolto definitivamente dalla Cassazione perché il fatto non sussiste. Le traversie giudiziarie non hanno piegato il suo orgoglio di uomo del Sud. Attualmente è titolare di una azienda vinicola a Pantelleria dove produce un eccellente passito. Oltre all’attività imprenditoriale, dal 2012 è di nuovo sul banco degli imputati nel processo trattativa Stato- Mafia.

Onorevole Mannino, la procura di Palermo non molla?

«Nel 2012 ho scelto di essere processato con il rito abbreviato. Rito che si basa solo sugli elementi di prova portati dall’accusa. Ero certo dalla mia innocenza. Nel 2015, sono stato assolto in udienza preliminare per non aver commesso il fatto. La procura, nelle scorse settimane, ha presentato appello. I pm di Palermo sono convinti da sempre che io abbia nel corso della mia vita intessuto rapporti con Cosa nostra. E’ una narrazione “funambolica” che si trascina da anni».

Lei è stato un dirigente della Dc siciliana negli anni in cui Cosa nostra è cresciuta…

«Prima dell’approvazione del disegno di legge La Torre sul 416bis, vorrei ricordare che il tema del contrasto a Cosa nostra è un punto qualificante della mozione presentata dalla Dc alla fine del 1979, poi discussa ed approvata in parlamento il 2 febbraio 1980. In quella mozione si approvavano le conclusioni della Commissione antimafia. I relativi lavori interessarono le due legislature precedenti. Quella mozione era stata scritta da me in rappresentanza del gruppo parlamentare della Dc su incarico dell’allora presidente Gerardo Bianco. In un primo momento questa mozione doveva portare la firma dell’On. La Torre e del gruppo del Pci. Il lavoro di preparazione era stato intenso. Sia da parte mia e di Bianco che da Di Giulio e La Torre per il Pci. Il Pci di Berlinguer aveva, però, poi fatto marcia indietro, sfilandosi dalla politica di solidarietà nazionale. E non sottoscrisse più la mozione. Nel 1980 optò per una propria mozione anche se nel merito condivideva la mozione della Dc. L’atto fondamentale sul piano politico istituzionale con il quale la politica si accingeva ad affrontare Cosa nostra alla fine degli anni ‘ 70 e ‘ 80 è dato dalle proposte contenute nella mia mozione. Dopo il governo Cossiga fu la volta di Forlani e poi di Spadolini. Il 1982 anno tragico: assassinio di Dalla Chiesa e dello stesso La Torre. Fu a quel punto che il governo diede la propria adesione al testo approvando l’introduzione del 416bis».

Tornando alla procura di Palermo, il pool segnò un cambiamento nel forme di contrasto a Cosa Nostra?

«Il pool ha avuto una genesi particolare. Un gruppo di lavoro composto da magistrati della procura della Repubblica e dall’Ufficio istruzione. Giovanni Falcone ebbe il merito di aver avuto l’intuizione investigativa di puntare sui collaboratori di giustizia, con il primo pentito Tommaso Buscetta. E’, però, indiscutibile che questa operazione segnò non solo la storia giudiziaria della lotta alla mafia ma la storia del Paese non si sarebbe potuta realizzare senza il consenso della linea politica assicurata dalla Dc siciliana di quegli anni. Voglio ricordare che nessuno, neanche Salvo Lima, nel 1983 volle i voti di Vito Ciancimino. Al nono congresso regionale della Dc siciliana, l’ex sindaco di Palermo offrì ben 45mila voti. Io espulsi Ciancimino e vinse il rinnovamento. Salvo Lima sconfitto, Vito Ciancimino umiliato. La Dc siciliana sceglieva l’immagine dei quarantenni, Sergio Mattarella, Rino Nicolosi ed io. Chi ha voglia di leggere il libro di Ciancimino junior troverà che questa estromissione avrebbe segnato l’inizio del suo “percorso giudiziario”».

Che ricordo ha di Giovanni Falcone?

«Una mente finissima. Anche se in vita Falcone fu spesso osteggiato. Non superò le votazioni per il Csm. E lo stesso Csm gli negò la responsabilità dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. In pochi giorni il Ministro istituì allora il posto di aggiunto alla procura della Repubblica in modo che potesse avere una posizione di rilevo all’interno dell’ufficio».

Come legge il 1992, l’anno delle stragi?

«Cosa nostra ritenne di dover dare l’ultima battaglia contro lo Stato. Molti dei suo esponenti erano in galera, ma non tutti. Quelli che erano fuori puntavano alla vendetta. Gli episodi stragisti, in coincidenza con i fatti di tangentopoli, determinarono la crisi del sistema politico. Il parlamento venne sciolto e le elezioni, con un sistema elettorale di tipo maggioritario, segnarono la fine della Dc. Nessuno può negare che le stragi di quel periodo segnarono un cambiamento radicale dell’impianto istituzionale. A ciò si devono aggiungere i processi Andreotti e Mannino. Cosa nostra è stato un mezzo per spazzare via un sistema che aveva governato dalla fine delle seconda guerra mondiale. La narrazione giornalistica fornisce, però, un altro quadro».

E veniamo al processo trattativa Stato-Mafia…

«Io non so se c’è stata una trattativa con Cosa nostra. Non so cosa abbiamo fatto gli ufficiali dei Carabinieri, i Generali Mori e Subranni con cui sono coimputato. Dico solamente che il Ros di Mori consegnò al procuratore capo Caselli un finto pentito, Gioacchino Pennino, “il Buscetta della politica palermitana”. Pennino era un medico chirurgo della Palermo bene che aveva fatto fortuna con i casinò in Croazia. Nel marzo del ’ 94 è stato arrestato ed estradato per associazione a delinquere. Decide di collaborare accettando l’estradizione per associazione mafiosa. Pennino si definisce “un vero cataro”. Parla, anzi straparla, e io fui arrestato. I fatti dimostrano che io ero la vittima designata. Per la mia storia non mi vedo come un riferimento in una trattativa. Solo la mia forza d’animo mi sta aiutando a sopportare questo calvario. Certo, a volte penso cosa possa indurre i Pm su queste tesi. Non si rendono conto dell’abbaglio?» 

Mario Mori: breve storia del generale che e colpì al cuore Cosa nostra. Figlio di un ufficiale dei carabinieri, nel ’93 arrestò Totò Riina, scrive Giulia Merlo il 27 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Di Mario Mori, quando lo si incontra, colpisce la fredda serietà. Non alza mai la voce, nemmeno in mezzo al rumore. Si muove secco, dritto come un fuso. Calibrato in ogni affermazione, ricorda spesso che la memoria non l’ha mai tradito ma che, se anche lo facesse, dal 1982 compila ogni giorno un’agenda con nomi e orari e fatti. Un piccolo brigadiere della Dalmazia, con i capelli bianchi e i baffi corti che porta sulle spalle tutto il peso di un nome che è parte della storia d’Italia: per chi lo accusa, è il capo dei servizi deviati che sono scesi a patti con la mafia. Per chi lo difende, è il generale che ha servito lo Stato negli anni più bui della repubblica. Nato nel 1939 in terra di frontiera, a Postumia Grotte, una cittadina «ex Trieste» passata alla Jugoslavia nel 1947, come ogni figlio di un ufficiale dei carabinieri segue gli spostamenti del padre: medie a Trento, liceo a Roma, poi l’accademia militare di Modena e la Scuola di applicazione di Torino. Entra nell’arma nel 1966 e si guadagna presto i gradi di capitano: così arriva al Sid, l’allora servizio segreto militare comandato da Vito Miceli (il generale arrestato nel 1974 per cospirazione contro lo Stato nell’inchiesta sulla Rosa dei Venti, poi assolto nel 1978) e Gianadelio Maletti.

L’ANTITERRORISMO. Dopo qualche anno passato a Napoli, Mori prende servizio a Roma, a capo della Sezione Anticrimine del Reparto Operativo, il 16 marzo del 1978: il giorno del sequestro di Aldo Moro. La sua sezione opera sotto il Nucleo speciale Antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che era stato sciolto nel 1976 ma ricostituito in tutta fretta dall’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti. Nei 55 giorni di prigionia è a capo delle indagini ed è in piedi vicino al ministro dell’Interno Francesco Cossiga, davanti alla Renault rossa, il 9 maggio. Dopo l’uccisione di Moro, sotto la direzione di Dalla Chiesa, il gruppo guidato da Mori mette a segno duri colpi alle Br: prima l’individuazione del covo di via Montenevoso, a Milano, dove furono rinvenute le lettere di Moro e il cosiddetto memoriale, poi, negli anni successivi, gli arresti eccellenti della colonna romana delle Br, come quello di Barbara Balzerani nel 1985. Da Dalla Chiesa, Mori assimila un metodo che utilizzerà poi anche nelle indagini sulla mafia in Sicilia e che pone a fondamento dei principi guida del Ros: conoscere e possibilmente anche usare il vocabolario e le tecniche degli avversari per essere in grado di individuare il filo conduttore dei loro ragionamenti e di anticipare le loro mosse: “Sapere il più possibile dell’avversario, far sapere il meno possibile di noi”. Di Mori, il generale Dalla Chiesa nella valutazione finale scrive: “Ufficiale molto serio, molto riflessivo, molto responsabile ha dato nuova conferma di un patrimonio brillante di qualità intellettuali, morali, militari e di carattere. Nel particolare e delicato incarico della lotta frontale alla eversione, ha attinto a piene mani alla sua esperienza ed alla sua qualificata preparazione tecnico- professionale per condurre un’azione penetrante, responsabile, generosa, per offrire una collaborazione permeata di entusiasmo e di spirito di sacrificio e per garantire, con tatto ed efficacia, relazioni proficue con organi paralleli e con la stessa Autorità Giudiziaria. Gli esprimo la mia gratitudine. Rendimento pieno e sicuro”.

ROS. Mori viene mandato in Sicilia nel settembre 1986, durante il primo maxiprocesso alla mafia. L’allora comandante dell’Arma decide di chiamare sull’isola ufficiali di provata esperienza ma senza precedenti di servizio sul territorio, che potessero agire senza condizionamenti ambientali e personali. Così a Palermo arriva un capitano triestino, che non capisce il dialetto siciliano ma che coglie subito lo spirito siciliano: i carabinieri sono come i piemontesi invasori, e per la mafia vale la stessa tecnica usata coi terroristi: bisogna prima di tutto impararne la lingua. Forte di quell’esperienza professionale, nel 1990 Mori torna al comando generale con il mandato di organizzare un nuovo reparto dell’Arma: il Raggruppamento operativo speciale, il Ros. Una struttura che ancora oggi si occupa di contrasto alla mafia e al terrorismo in tutta Italia, derogando alla rigida logica territoriale dei carabinieri. Principale sostenitore del progetto: il magistrato Giovanni Falcone, che Mori aveva conosciuto nei suoi anni in Sicilia. La sede del nuovo reparto diventa la caserma di via Talamo, vicino a Villa Ada a Roma, che era stata occupata a suo tempo dell’Antiterrorismo, e a capo viene nominato il generale Antonio Subranni. Con la carica di comandante di reparto, Mori torna in Sicilia e riprende l’inchiesta “mafia e appalti”, avviata nel suo primo soggiorno sull’isola e che teorizzava il rapporto tra la mafia e il settore economico imprenditoriale. A sostenerlo c’è di nuovo Giovanni Falcone e, dopo la sua morte, Paolo Borsellino. Entrambi la considerano un salto di qualità nella lotta a Cosa nostra, e Borsellino la ritiene causa scatenante della strage di Capaci. Proprio durante la conduzione di questa inchiesta, tuttavia, sorgono i primi dissapori tra il Ros di Mori e la Procura di Palermo, in particolare a causa delle indagini sulle presunte connivenze tra i boss e una parte della politica del capoluogo. A conferma dei timori di Mori, “Mafia e appalti” si chiude con gli arresti di una serie di imprenditori molto vicini ai vertici di Cosa nostra ma la Procura chiede l’archiviazione delle posizioni dei politici indagati, proprio il giorno dopo la strage di via D’Amelio.

L’ARRESTO DI RIINA. Il boss dei boss di Cosa nostra, Totò Riina, viene arrestato il 15 gennaio 1993 e a Palermo è una giornata d’inverno isolano, 11 gradi e nemmeno una nuvola in cielo. L’indagine che porta alla cattura del capo della più grande organizzazione criminale d’Europa è iniziata nell’infuocata estate del 1992, cioè nella stagione in cui l’aggressività contro lo Stato della strategia mafiosa voluta da Riina ha visto la sua escalation con le stragi di Capaci e di via D’Amelio. In quell’anno, Mario Mori viene nominato vicecomandante del Ros, con responsabilità dell’attività operativa del reparto. Forma così un’unità speciale e a capo nomina Sergio De Caprio, il capitano Ultimo: la peculiarità del gruppo è di operare in modo svincolato dall’organizzazione dei carabinieri per evitare qualsiasi fuga di notizie e limitare qualsiasi contatto con il mondo esterno. Le informazioni iniziano ad arrivare: prima il fatto che Riina si nasconde da qualche parte nel quartiere della Noce, capeggiata dalla famiglia mafiosa dei Ganci. Poi che uno dei figli del boss, Domenico, si reca spesso in un complesso residenziale in via Bernini. La svolta, però, arriva quando viene arrestato a Novara Baldassare Di Maggio, boss che inizia a collaborare col giudice Giancarlo Caselli e racconta del cosiddetto “fondo Gelsomino” dove avvengono le riunioni di Cosa nostra e di due costruttori palermitani favoreggiatori del latitante Riina (già noti ai carabinieri perchè indagati durante l’inchiesta “mafia e appalti”). E’ questa l’informazione chiave: nel complesso di via Bernini risulta un’utenza telefonica intestata a loro. Il 13 gennaio scatta l’operazione: su un furgone “balena”, con impianto per le riprese audiovisive, sono appostati gli uomini di Ultimo e il boss Di Maggio, che riconosce in un’auto che entra nel condominio la moglie di Riina, Ninetta Bagarella. Il secondo giorno di appostamento, a bordo di una Citroen ZX che esce dal complesso residenziale, Di Maggio riconosce un uomo d’onore alla guida e, accanto a lui, Totò Riina in persona. La squadra di Ultimo, coordinata da Mori, fa scattare la trappola pochi chilometri dopo in un motel Agip e cattura entrambi i boss. L’uomo più ricercato d’Italia, l’ultrapotente Riina, è in trappola. Eppure, il generale lo considera il suo più grande rimpianto professionale: «Non ho avuto la forza di aspettare, di andare avanti nel pedinamento, se avessi atteso ancora qualche chilometro prima di dare l’ordine li avremmo presi tutti: seppi poi che Riina si stava dirigendo a una riunione della “commissione” provinciale di Cosa nostra. La correttezza era quella di andare avanti come insegnava la dottrina Dalla Chiesa, ma sentivo idealmente sopra di me il peso del comando generale dell’Arma del ministero dell’Interno e mi mancò il coraggio di attendere». Dalla sua operazione più brillante, prende corpo il primo processo a suo carico. Mori viene rinviato a giudizio dalla procura di Palermo per favoreggiamento aggravato nei confronti di Cosa nostra, per aver ritardato la perquisizione nell’ultimo covo di Riina. Il giorno dell’arresto, il magistrato torinese Caselli ha assunto le funzioni di procuratore della Repubblica di Palermo e proprio lui viene convinto da Mori e De Caprio ad aspettare ad entrare nella casa di via Bernini. «Una richiesta assolutamente coerente con la dottrina investigativa e la tecnica operativa dell’antiterrorismo dei Carabinieri, secondo le quali da ogni azione si dovevano ricavare i presupposti per poter proseguire l’indagine con efficacia», ha scritto Mori. In altre parole, se la perquisizione fosse avvenuta immediatamente, tutte le persone che avevano frequentato il covo si sarebbero sentite bruciate. Così si consuma l’ennesima rottura con la procura di Palermo: il Ros di Mori vuole evitare l’intervento e sfruttare la superiorità informativa; i magistrati palermitani subentrati nell’operazione, invece, richiedono un’osservazione costante, incompatibile secondo i carabinieri con il luogo senza venire notati. Così De Caprio sospende l’osservazione con le modalità richieste dai pm, dopo alcuni giorni, e procede alla perquisizione della casa vuota. L’incomprensione porta al procedimento penale: «Il danno e la beffa, perché la responsabilità del ritardo nella perquisizione ricadde esclusivamente su me e De Caprio», ha commentato successivamente Mori. I due carabinieri, però, vengono assolti il 20 febbraio 2006 e i pm Antonio Ingroia e Michele Prestipino non presentano ricorso in appello. La sentenza conferma che si è trattata di una scelta investigativa legittima e che “l’accettazione del rischio fu condivisa da tutti”.

L’AFFARE PROVENZANO. Dopo l’arresto di Riina, le indagini si spostano sul suo braccio destro Bernardo Provenzano, detto Binnu ‘ u tratturi per la ferocia con cui elimina gli avversari, latitante dal 1964. Un primo tentativo di indagine viene portato avanti grazie alla collaborazione di don Tano Badalamenti, boss di Cinisi detenuto in America, nel carcere federale di Memphis, ed esponente della cosiddetta mafia tradizionale, uscita perdente dalla guerra contro i corleonesi di Riina e Provenzano. Il boss si fida del maresciallo Nino Lombardo e sembra disposto a qualche forma di collaborazione di giustizia, ma il suicidio di Lombardo in seguito a notizie di una sua presunta collusione con la mafia (pronunciate durante la trasmissione di Michele Santoro da parte del sindaco di Palermo Leoluca Orlando) blocca l’operazione. L’iniziativa del Ros è già però oggetto di maldicenze: in particolare si fa circolare la voce che che i carabinieri volessero favorire il ritorno della vecchia mafia. Chiuso quel tentativo, nel 1996 viene chiesto un impegno operativo del Ros alla Dda di Reggio Calabria e Mori cessa le sue attività in Sicilia, ma il nome di Provenzano (catturato nel 2006) torna, sempre attraverso un’iniziativa della Procura di Palermo. Nel 2008 i sostituti procuratori Antonio Ingroia e Nino Di Matteo sostengono l’accusa contro Mori e il colonnello Mauro Obinu per aver assecondato la latitanza di Provenzano, col movente di garantire un patto siglato tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra. La tesi del pm si incrocia con l’inchiesta sulla presunta trattativa Stato- mafia, che negli stessi giorni inizia il suo iter processuale. La linea accusatoria è che “Mori e Obinu, obbedendo a un indirizzo di politica criminale, hanno ritenuto di trovare una sciagurata soluzione nell’assecondare le fazioni più moderate di Provenzano e di Cosa nostra” e ancora che si è trattato di “una scelta sciagurata di politica criminale, e cioè la prosecuzione della latitanza di Provenzano. Allo stesso modo il governo e il Dap assecondarono il dialogo agendo in questa ottica di trattativa”. Secondo i pm, infatti, proprio il mancato arresto di Provenzano fa parte delle clausole del patto tra mafia e istituzioni. All’origine delle accuse ci sono le dichiarazioni del colonnello Michele Riccio, che ha sostenuto di avere ricevuto la soffiata da un pentito di un summit nelle campagne di Mezzojuso a cui avrebbe partecipato anche il nuovo capo di Cosa nostra e di essersi visto negare la possibilità di fare un blitz e procedere all’arresto: «Quel blitz non fu possibile perché i vertici del Ros non misero a disposizione i mezzi necessari». In primo grado viene messa in dubbio l’attendibilità del testimone d’accusa, poi indagato per falsa testimonianza, e Mori e Obinu sono assolti con formula piena perché “il fatto non costituisce reato”. Il procuratore generale Roberto Scarpinato fa appello ridimensionando l’imputazione, ma la Corte ribadisce l’assoluzione aggiungendo che “Non può ritenersi provato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che gli imputati abbiano posto in essere la condotta loro contestata con la coscienza e la volontà di favorire il latitante Bernardo Provenzano”, ma soprattutto che “le risultanze processuali sono inidonee a provare la sussistenza del movente della trattativa”. Per i giudici c’è stata una “omissione” e una “sottovalutazione dell’importanza dello spunto investigativo”, ma nulla più. Infine, nel 2016 la Cassazione ritiene inammissibile il ricorso della procura di Palermo. «Avendo la coscienza a posto, sono sempre stato molto tranquillo», è stato il lapidario commento del generale al termine dell’ultimo grado di giudizio.

IL SISDE. I’ 1 ottobre 2001, a meno di un mese dall’attacco alle Torri Gemelle, Mori viene trasferito da Milano a Roma, per prendere servizio come direttore del Sisde, il servizio segreto civile. E’ il suo ultimo incarico operativo prima della pensione, nel 2006. Mori affronta il nuovo compito con le stesse tecniche imparate nel contrasto con il terrorismo politico e la mafia e, durante gli anni a capo del servizio, mette a segno arresti eccellenti sul fronte internazionale: il primo, quello del boss mafioso Giovanni Bonomo, tra i trenta ricercati più pericolosi e latitante dal 1996, rifugiato all’estero in Costa d’Avorio e catturato in Senegal; poi, la cattura degli assassini del colonnello Antonio Varisco, ucciso a Roma dalle Br nel 1979. «Avevo un debito da saldare nei confronti di un caro amico», ha detto Mori. I membri del gruppo di fuoco erano Prospero Gallinari, Rita Algranati, Alessio Casimirri e Antonio Savasta e gli ultimi tre erano ancora latitanti, in Nicaragua e Maghreb. Non riuscì a catturare Casimirri e Savasta, mentre Algranati, nota come la “compagna Marzia”, venne fermata al Cairo nel 2004, dopo averne seguito gli spostamenti in tutto il nord Africa. Infine, con l’operazione “Tramonto rosso”, fornì alla Digos di Milano, coordinata da Ilda Boccassini, gli strumenti necessari per sgominare le nuove Br, che stavano progettando l’omicidio del giuslavorista Pietro Ichino, arrestando tutti i membri.

TRATTATIVA STATO- MAFIA. La storia del generale Mori, forse uno degli investigatori più noti nella storia dell’Arma, avrebbe potuto concludersi con la pensione. Invece, dopo i due processi e le due assoluzioni, la Procura di Palermo porta avanti contro di lui un terzo filone di indagine. La tesi richiama in modo diretto quella sostenuta nel processo per il mancato l’arresto di Provenzano e anche i pm sono gli stessi: Antonio Di Matteo, Antonio Ingroia, con Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia. Del resto, il procuratore capo Scarpinato, che Mori ha conosciuto negli anni Novanta e con il quale da capo del Ros non ha mai instaurato alcun rapporto di fiducia, ha sostenuto più volte che: «C’è un filo rosso che attraversa tutte le vicende di cui il generale Mario Mori si è reso protagonista». Nel caso del processo sulla Trattativa Stato- Mafia, Mori è considerato l’anello di congiunzione tra pezzi deviati dello Stato e Cosa nostra, in una trattativa che punta a fermare lo stragismo mafioso “concedendo” una tregua. Tra i punti di questa tregua, proprio la latitanza di Provenzano, capo dei capi succeduto a Riina. Caposaldo dell’ipotesi di una trattativa, secondo la Procura palermitana, è l’incontro tra Mori e l’ex sindaco di Palermo, il democristiano in odore di mafia, Vito Ciancimino, nel 1992. Per la procura, è l’inizio del dialogo con Cosa nostra. Per Mori, Ciancimino è una tra le fonti da sondare per arrestare Riina e del cui contatto non venne allertata la Procura di Palermo, con la quale i rapporti di fiducia si erano molto compromessi dopo l’archiviazione di “mafia e appalti”. «Mi avvalsi delle mie facoltà e decisi di non comunicare alla procura che stavamo tentando di acquisire come fonte Vito Ciancimino», ha spiegato Mori, allora convinto che «non tutti i pubblici ministeri di Palermo fossero decisi a combattere Cosa nostra». Su questo elemento si fonda l’inchiesta per minaccia a corpo politico dello Stato e la Corte accoglie la tesi della Procura: il capo di imputazione per Mori non è identico a quello su Provenzano per cui è stato assolto dalla Cassazione, perché il fatto storico del mancato arresto nel 1995 viene considerato dall’accusa come conseguenza del dialogo avviato nel 1992 e non è l’oggetto principale. Dopo 5 anni di udienze, nel 2018 il Tribunale di Palermo condanna in primo grado Mario Mori a 12 anni di carcere, quale anello di congiunzione della trattativa, insieme a chi all’epoca dei fatti collaborava con lui nel Ros. Assolve invece per prescrizione il boss Leoluca Bagarella e perché il fatto non sussiste il politico Dc Nicola Mancino. A chi gli domanda come abbia affrontato il processo, di cui ha presenziato ad ogni udienza, Mori risponde secco: «con la testa». E a chi gliene ha chiesto conto prima della sentenza, ha sempre replicato che i processi si discutono nelle aule di tribunale. In attesa della sentenza, ha preso parte a un documentario- intervista dal titolo “Generale Mori, un’Italia a testa alta”, che suscita polemiche dovunque venga presentato, delle quali lui si cura molto poco. Del resto, nella sua biografia “Ad alto rischio” (scritta a quattro mani col giornalista Giovanni Fasanella) ha sintetizzato così il suo stato d’animo: «Se sono amareggiato? No. Conosco la storia del mio paese con tutte le sue anomalie, so che servire lealmente lo Stato colpendo interessi consolidati, come abbiamo fatto io e i miei commilitoni, comporta dei rischi». Il rischio, per lui, sono stati vent’anni di processi e la condanna più odiosa: quella per collusione con il sistema mafioso, affrontata con la stessa freddezza di sempre. Infatti, dopo la lettura del dispositivo nell’aula bunker di Palermo, non ha rilasciato alcun commento.

La mafia e Berlusconi: furono loro i mandanti di Di Pietro e Davigo! Scrive Piero Sansonetti il 19 Dicembre 2017 su "Il Dubbio".  Le pensate del Pm Di Matteo. È molto istruttivo leggere le requisitorie o le interviste del dottor Di Matteo, ex Pm palermitano ora passato alla Procura nazionale antimafia. Raramente ci si trovano elementi interessanti dal punto di vista giuridico, ma sono affascinanti le sue teorie politiche o le sue ricostruzioni storiche, sempre molto fantasiose e impreviste. La mafia e il Cav: furono loro i mandanti di Di Pietro e Davigo! L’ultima fatica di Di Matteo è stata la requisitoria pronunciata un paio di giorni fa al famoso processo sulla trattativa stato- mafia. I giornali non ne hanno parlato molto, perché ormai, in realtà, hanno capito un po’ tutti che questa storia della trattativa non sta in piedi. In effetti, nella requisitoria, della trattativa si è parlato poco poco, perché i Pm in tutti questi anni non sono riusciti a trovare uno straccio di prova, e poi perché la maggior parte degli imputati è stata già assolta in vari stralci del processo condotti col rito abbreviato. Di Matteo però si è concentrato su una storia parallela all’ ipotetica e improbabile trattativa: la storia della nascita di Forza Italia, e in particolare del ruolo svolto da Marcello Dell’Utri. Probabilmente perché, date le ultime vicende (il rifiuto da parte del tribunale di sorveglianza della scarcerazione di Dell’Utri per ragioni di salute) Di Matteo ha intuito che il tema avrebbe potuto incontrare l’interesse della stampa, al quale lui non è mai del tutto indifferente. In effetti Il Fatto Quotidiano gli ha concesso un discreto spazio. Con un bel titolo in prima pagina e un titolo ancora più forte in pagina interna. Il titolo di prima dice: «Dopo Capaci, Riina puntò su Dell’Utri e B.». Il titolo interno dice: «Dell’Utri andò dai boss prima di fare Forza Italia». Il racconto di Di Matteo è molto articolato, però è costruito su terribili pasticci di date, e questi pasticci producono effetti davvero strabilianti. E cioè accreditano una ipotesi un po’ grottesca, che è quella contenuta nel titolo di questo articolo: e cioè l’ipotesi che Riina e Berlusconi siano i mandati dell’inchiesta “Mani Pulite” che spazzò via la prima Repubblica. Seguiamo il racconto di Di Matteo. Primo capitolo: attentati della mafia alla Standa di Catania. La Standa apparteneva a Berlusconi. Siamo nel 1990, quasi quattro anni prima della fondazione di Forza Italia. Secondo Di Matteo, dopo gli attentati, Berlusconi mandò Dell’Utri a Catania per trattare con la mafia affinché smettesse di colpire la Standa. Per dimostrare questa sua tesi, Di Matteo non si limita a citare un paio di pentiti (non dei maggiori e comunque senza alcun riscontro) ma cita la famosa intercettazione realizzata nel 2013, nella quale Totò Riina, parlando con un infiltrato al 41 bis, dice tra l’altro che dopo l’attentato qualcuno ( probabilmente Berlusconi) « mandò a quello di Palermo che parlò con uno e si mise d’accordo… questo senatore però poi finì in galera…» . Di Matteo ha commentato: «Lascio a voi capire chi è il senatore che scese e poi finì in galera». Qui si pone un primo problema di date. Perché l’intercettazione di Riina è dell’agosto del 2013, come dicevamo, mentre Dell’Utri finisce in prigione nell’aprile del 2014. Riina aveva la palla di vetro? Potrebbe, in via teorica, esserci una spiegazione, ma non regge molto: in realtà Dell’Utri nel 1995 andò in prigione per qualche giorno per una storia, credo, di falsi in bilancio. Molto improbabile che Riina si riferisse a quell’episodio, poco conosciuto e brevissimo, ma diamolo per buono. Secondo capitolo. Di Matteo racconta il Fatto Quotidiano, che è considerato il giornale di famiglia del Pm – sostiene che il primo contatto di Cosa Nostra con Dell’Utri, dopo Lima, «arriva da Catania, con gli attentati alla Standa, e gli incendi furono decisi dai corleonesi, e fu deliberato di attaccare la Standa per assoggettare Berlusconi e realizzare un nuovo progetto politico». Nasce così Forza Italia, destinata a sostituire la Dc travolta dalla fine della prima Repubblica. Dunque Berlusconi non mandò Dell’Utri per far finire gli attentati, ma per fondare un partito. Qui però c’è un nuovo inguacchio di date. Gli attentati alla Standa avvennero due anni prima del delitto Lima, non dopo. E immaginare che la mafia nel 1990 avesse in mente di sostituire la Dc con Berlusconi è davvero un’impresa difficile, persino per una persona convincente come Di Matteo. Nel 1990 la Dc era ancora fortissima in sella, e il suo declino era assolutamente inimmaginabile. Ma ammettiamo pure che i pasticci di date che rendono molto poco credibile tutta la requisitoria siano semplici incidenti tecnici. Ok. Dunque la mafia e Dell’Utri e Berlusconi nel 1990 e poi “con le riunioni della cupola dell’autunno del 91 che conducono alla formazione di Forza Italia” (cito sempre “Il Fatto”) stabiliscono che è ora di far fuori la Dc. Ma a chi affidano il compito? Chi è che poi, concretamente, si incarica di eliminare la Dc e di radere al suolo la sua Prima Repubblica? Beh, questa risposta è facile: il pool dei magistrati milanesi guidati da Di Pietro e Davigo. Dunque torna la teoria del complotto, che fin qui era stata una esclusiva di qualche ambiente socialista. I socialisti però hanno sempre puntato il dito sugli americani. Ora invece, clamorosamente, si rovescia tutto: Di Pietro e Davigo erano uno strumento nelle mani dei corleonesi, di Dell’Utri e di Berlusconi. E per conto loro agirono aprendo la strada al successo elettorale del cavaliere del 1994. Tutto questo, naturalmente, non ha niente a che vedere con l’ipotesi di una trattativa tra Stato (all’epoca guidato dalla Dc) e mafia, che dovrebbe in realtà essere l’oggetto del processo. Anzi, è una ricostruzione storica che smonta alla radice l’ipotesi della trattativa. La mafia, secondo Di Matteo, se ne fregava della Dc perché stava tramando per andare al potere con Forza Italia, e dunque non aveva nessuna ragione per trattare con la Dc che considerava in estinzione. E dunque? Non so, le conclusioni le lascio a voi. Anche perché il dottor Di Matteo, nella sua requisitoria, si è lanciato in un invettiva contro i giornali “di nicchia” che lo criticano e lo delegittimano. Chiarendo qual è la sua idea “imperiale” sul ruolo e i diritti della magistratura: unica istituzione autorizzata a sfuggire al diritto di critica dei giornali. Persino di quelli di nicchia…

Ingroia: «Berlusconi sa che meriterebbe l’arresto». L’ex pm a un Giorno da pecora su Rai Radio1: «Lui ha una serie di condanne, di fatti penali, politici ed etico morali pesantissimi. E, ciò nonostante, oggi è ancora a controllare la politica del nostro Paese», scrive Franco Stefanoni il 22 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Antonio Ingroia, ex pm tra coloro che interrogarono Silvio Berlusconi e oggi leader della Lista del Popolo, con Giulietto Chiesa, ha parlato, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, di Silvio Berlusconi. Ingroia, dopo tutti i suoi `scontri´ verbali col Cavaliere quando lei faceva il Pm, lo ha più incontrato? «No, è capitato solo che quando si faceva l’ultima campagna elettorale, lui mi fece il gesto delle manette». Un gesto simpatico... «Un gesto simpatico, ma lui sotto sotto lo sa che meriterebbe di essere arrestato». Ancora lo meriterebbe? «Sempre lo meriterebbe», ha detto Ingroia a Un giorno da pecora. Come dovrebbe esser giudicato Berlusconi da Strasburgo? «Lui ha una serie di condanne, di fatti penali, politici ed etico morali pesantissimi. E ciò nonostante, oggi è ancora a controllare la politica del nostro paese». E cosa bisognerebbe fare per sconfiggerlo? «Bisogna abbatterlo politicamente».

Gasparri: «È solo un cacciatore di poltrone». «Ingroia parla come un guerrigliero e dice di arrestare e abbattere Berlusconi. Poi scodinzola davanti a Musumeci, nuovo presidente della Sicilia, per mantenere le immeritate poltrone di sottogoverno che ha preteso da Crocetta. Già stratrombato dagli elettori e sconfitto nei processi intentati a eroici carabinieri, fonda partitini destinati al disastro. Davvero un esempio emblematico dell’Italia peggiore. Rivoluzionario alla radio, si spaccia per cacciatore di Berlusconi, ma si rivela solo un cacciatore di poltrone nelle anticamere di Palermo. Più che la mossa del cavallo ama il salto della quaglia». Lo dichiara in una nota il senatore di Forza Italia e vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri.

Ingroia, torna l'ossessione per Silvio Berlusconi: "Andrebbe arrestato immediatamente", scrive il 23 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". Ci sono ossessioni difficili da metabolizzare, come quella dell'ex magistrato Antonio Ingroia per Silvio Berlusconi. Non pago dell'umiliazione elettorale subita con l'omonima lista nel 2013, Ingroia è tornato in pista accanto al giornalista Giulietto Chiesa per lanciare una roboante Lista del Popolo. Il programma del nuovo partito è chiaro già dai primi passi, l'antiberlusconismo è tornato vivo e vibrante come ai tempi d'oro, tanto che Ingroia lo ripropone in una epocale rispolverata a Un giorno da pecora su Radiouno. All'ex magistrato è stato chiesto se avesse mai incontrato Berlusconi. Così ha ripescato quell'incrocio memorabile di qualche anno fa: "È capitato solo quando si faceva l'ultima campagna elettorale, lui mi fece il gesto delle manette". Che il senso dell'umorismo facesse un po' difetto all'ex pm era fatto noto, con il passare del tempo però sembra essere molto peggiorato. Al punto che ricordando quel gesto simpatico, Ingroia ha sparato: "Un gesto simpatico sì, ma lui sotto sotto lo sa che meriterebbe di essere arrestato". Ancora? Gli chiedono in studio, lui non ha dubbi: "Sempre lo meriterebbe". Raddrizza il tiro però quando gli viene chiesto come si dovrebbe fermare uno come il Cav: "Bisogna abbatterlo politicamente". Roba da brividi.

Grasso, la persecuzione di Ingroia. Si può capire l'ex pm quando critica su Repubblica il presidente del Senato, ma a tutto c'è un limite, scrive Massimo Bordin il 5 Dicembre 2017 su "Il Foglio". In fondo Antonio Ingroia, se non giustificare, si può comprendere. Non ci sono solo questioni professionali, ormai antiche ma tutt'ora presenti alla memoria. Il problema è che l’ascesa politica di Pietro Grasso rischia di essere vissuta dall’ex pm dei due mondi come una persecuzione personale. La storia, che ricorda quella di Paperino e Gastone, inizia nel 2013 quando Ingroia si sospende da magistrato per candidarsi a presidente del Consiglio alla testa di un raggruppamento a sinistra del Pd. Fu un disastro di notevolissime proporzioni e mentre Ingroia rimaneva fuori non solo da Palazzo Chigi ma anche da Montecitorio, Grasso entrava a palazzo Madama, eletto nel Pd, e diventava presidente del Senato nel giro di pochi giorni. Ora Ingroia ritenta con una lista bizzarramente battezzata "La mossa del cavallo" senza che nemmeno i circoli degli scacchi se ne siano accorti, mentre Grasso raccoglie ovazioni, titoli di apertura sui giornali e grandi foto, sia pure con Speranza, Fratojanni e Civati che non sono un gran che ma sempre meglio di Giulietto Chiesa. Si può capire dunque l’ex pm quando critica Grasso su Repubblica, è una reazione umana. A tutto c’è comunque un limite, che viene ampiamente superato quando da parte sua si sostiene la necessità di facce nuove in politica e quando, dopo aver comunque perorato la candidabilità dei magistrati si aggiunge che "dovrebbe essere loro vietato di tornare in magistratura dopo aver fatto politica" contando evidentemente sul fatto che tutti si siano dimenticati come si comportò dopo la sua mancata elezione.

Tutti i silenzi sul caso Ingroia. Quando gli indignati tacciono, scrive Salvo Toscano Martedì 19 Dicembre 2017 su "Live Sicilia". Dopo la prima inchiesta un'altra. Ma i professionisti dell'indignazione non se ne sono accorti. C'è qualcosa che colpisce dopo la notizia della nuova indagine per peculato a carico di Antonio Ingroia. Non si sente ma colpisce. È un'assenza pesante, un rumoroso silenzio. Quello dell'esercito dei professionisti dell'indignazione. Quelle truppe di moralizzatori in servizio permanente effettivo pronte a intonare il peana a ogni avviso di garanzia o notizia d'inchiesta finita sui giornali. I cantori devoti delle gesta delle italiche procure, insofferenti verso ogni forma di garantismo, che da quelle parti è sempre per definizione “peloso”, confermano una prassi ben collaudata: si distraggono quando il moralizzatore finisce moralizzato e disinnescano in quel caso l'automatismo della richiesta di dimissioni. Quella che scatta quando sotto la lente d'ingrandimento dei magistrati inquirenti finisce il quisque de populo slegato dalla conventicola dell'indignazione o peggio ancora l'avversario politico da fare a pezzi. E' la parrocchia del mantra degli "impresentabili", che rinfaccia l'avviso di garanzia anche al cugino di secondo grado. Farà lo stesso con l'ex pm oggi politico che alle prossime elezioni battezzerà la sua Lista del Popolo? Vedremo. Per ora tutto tace. Non pervenute le penne fustigatrici, l'antimafia col bollino blu e la politica dell'onestà. Quella che per una Monterosso s'è vestita da sanculotto e che adesso non si fa sentire, vedi alla voce Cinque stelle. E dire che la vicenda presenta delle peculiarità che colpiscono. In particolare la circostanza che per una storia che sembrerebbe analoga, un'inchiesta c'era già stata a carico dell'ex pm. La precedente indagine, giunta alle battute finali come ha ricostruito Riccardo Lo Verso, si concentrava sulle retribuzioni dal 2013 al 2016. Ora i pm indagano sul 2017. La questione riguarda i suoi emolumenti tra stipendi, premi e rimborsi spese, anche per hotel di lusso e noti ristoranti, per l'incarico di sottogoverno attribuitogli da Rosario Crocetta alla guida di Scilia e-servizi. Nel marzo scorso, ricorda Livesicilia, Ingroia era stato pure interrogato dai suoi ex colleghi. L'ex pm, che spera di mantenere il posto dopo il cambio a Palazzo d'Orleans, ha sempre rivendicato la correttezza del suo operato. E sembrerebbe che dopo le prime contestazioni dei suoi ex colleghi, Ingroia abbia ritenuto di tirare dritto – era “una storia totalmente infondata", disse all'epoca, “correggendo” i pm (da quando ha lasciato la toga l'avvocato Ingroia ha dispensato diverse bacchettate ai meno celebri ex colleghi) – finendo così nella seconda inchiesta. Quando forse prudenza, vista l'inchiesta in corso, avrebbe potuto suggerire altra condotta. Ma questa è in effetti una annotazione che spetterebbe ai professionisti dell'indignazione. Se non fossero distratti. 

SILVIO E BETTINO, I LUPI DELLA MILANO DA BERE.

Berlusconi racconta Craxi: «Bettino morì e la famiglia non aveva neanche i soldi del funerale». Sul palco del Teatro Franco Parenti di Milano, il leader di Forza Italia per presentare il libro di inediti del leader socialista, scrive il 30 ottobre 2018 Nino Luca su Corriere tv.

Berlusconi tra nostalgia e minacce: “Salvini lasci questo governo o rompiamo le alleanze”. Invitato al lancio del libro di pensieri di Bettino Craxi, il leader di Forza Italia, in un’atmosfera più di nostalgia che di energia, parte all’attacco dei Cinque Stelle e invoca il ritorno di Matteo Salvini, scrive il 30 ottobre 2018 L’Inkiesta. «Oggi ho guardato lo specchio e ho visto un signore che conoscevo. “Tu sei quello che più di 20 anni fa ha salvato l’Italia dai comunisti”, ho detto. “È incredibile che sia ancora tu, adesso che devi salvare l’Italia dai grillini”». Applausi, sorrisi e inchino da seduto. Silvio Berlusconi rompe il silenzio degli ultimi giorni e sale sul palco del Parenti per ricordare Bettino Craxi insieme a Sallusti e Stefania Craxi, in occasione della presentazione del libro di scritti del leader socialista intitolato “Uno sguardo sul mondo”. E sfodera il sorriso di una volta. Ma è una delle poche cose rimaste. Il pubblico – complice la pioggia battente – non è certo quello delle grandi occasioni. Gli applausi cadono, ma si dividono tra quelli per Craxi e quelli per lui. Doveva essere una commemorazione della Prima Repubblica ed è diventata, quasi in modo impercettibile, una cerimonia di ricordo della Seconda. I ricordi, le frasi al passato, espressioni come “il mio governo fu”, o “il mio governo fece”, si alternavano ad altri ricordi, ad altre frasi al passato, a “il suo governo fu” e “il suo governo fece”. Berlusconi amico di Bettino, e Berlusconi come continuazione di Bettino. «Lui voleva un’Italia attenta al Mediterraneo, in quanto unico luogo in cui poteva giocare una funzione di leadership. E l’ultimo atto di politica estera in questa direzione è stata la firma degli accordi con la Libia di Gheddafi, fatti dal governo Berlusconi». Appunto, una vita fa. Il passaggio dal Milan al Monza non poteva essere più chiaro. Eppure, anche se si tratta di un campetto di periferia, è pur sempre un campo. E Silvio Berlusconi, rallentato e acciaccato, non vuole smettere di scenderci. Prima di tutto, all’ingresso al teatro, comunica il suo no alla manovra del governo. «Non è per il timore di una procedura di infrazione. Ma è perché fa il male degli italiani». Poi si scaglia contro il reddito di cittadinanza: «L’assistenzialismo non ha mai fatto crescere il Paese». Poi ancora, dal palco, picchia di nuovo sui Cinque Stelle: «Questi sono peggio del Pds di Occhetto: coltivano l’assistenzialismo, vanno avanti con il giustizialismo e sono anche incompetenti». E: «Non hanno mai lavorato: non si può affidare un’impresa a chi non sa come si gestisce un’impresa». «È fondamentale mandare a casa questo governo. Una nuova maggioranza, con questo stesso Parlamento, è possibile», Silvio Berlusconi. Ma soprattutto, lancia la zampata del campione: «A quelli della Lega diciamo: dateci una data con cui metterete fine a questa innaturale alleanza. Tra poco ci sono elezioni regionali, cittadine. Come potremo presentarci insieme se ignorate il programma elettorale – scritto da me e ripreso da Salvini – con cui avete tradito il voto dei vostri elettori?». Insomma, tra la nostalgia per le glorie di Pratica di Mare («Con cui continuai lo spirito della politica estera di Bettino Craxi») e la leggenda dei «cinque colpi di Stato» che si sarebbero susseguiti durante i suoi governi (chi se la ricordava più questa), Berlusconi riesce a piazzare la minaccia di far saltare tutte le coalizioni locali. «È fondamentale mandare a casa questo governo. Una nuova maggioranza, con questo stesso Parlamento, è possibile». E se non lo fosse, «dovremo andare subito a nuove elezioni». Eppure, nonostante la lotta per il potere non sia ancora finita, qualcosa è cambiato. Lo si vede anche nei dialoghi sul palco. I temi trattati da Craxi, cioè la critica alla globalizzazione, all’immigrazione dall’Africa e agli accordi di Maastricht (il leader socialista sosteneva, già negli anni ’90, che andassero rivisti), ormai sono moneta corrente della nuova Lega di Matteo Salvini. Anche il lessico («Craxi fu un vero patriota») viene da lì. E poco conta che Silvio si dica «europeista», se poi aggiunge che «questa non è la nostra Europa». L’egemonia culturale, per usare parole da professoroni, gli è stata strappata di mano. Restano i ricordi, però. Le rivendicazioni. Le vendette e le denunce. Una è già un leitmotiv: «Questo spread è diverso da quello del 2011». Allora si trattava di «un complotto, appoggiato dalla sinistra italiana e da una persona che abitava uno dei Colli più alti di Roma, con cui è stato fatto cadere il governo». E così rivela, proprio nel giorno in cui Angela Merkel annuncia la fine, de facto, della sua esperienza politica, che si trattava di una punizione, da parte della Germania, per aver fatto nominare Mario Draghi a capo della Bce. «Fui io, con la mia abilità, a mettere d’accordo i rappresentanti dei vari Paesi del Mediterraneo. Creai un fronte comune che non si aspettavano» e si decise di andare contro la volontà tedesca. E così, quando la Cancelliera Angela Merkel presentò come candidato il presidente della Bundesbank, «lo votarono solo in tre: la Germania, la Francia di Sarkozy e la Finlandia. Sì, anche la Finlandia». Ma perché mai? «Perché – sorride – il presidente finlandese fu l’unico che non riuscii a raggiungere al telefono». E cadono altri applausi, altre risate, e di nuovo, un inchino da seduto. Berlusconi è ancora qua.

Stefania Craxi: “Berlusconi l’unico vero leader a seguire le orme di mio padre, anche lui vuole riformare l’Europa”, scrive il 27 ottobre 2018 Agen Press. Agenpress. C’è sempre stata una forte affinità tra la politica estera di Craxi e quella di Berlusconi. Stefania Craxi, figlia dello statista socialista, senatrice di Forza Italia, vicepresidente della commissione Esteri di Palazzo Madama, spiega la ragione per la quale ha voluto accanto a sé l’ex premier e leader azzurro alla presentazione, lunedì 29 ottobre a Milano alle 18 al teatro Parenti, insieme con il direttore del “Giornale” Alessandro Sallusti, del libro di Bettino Craxi “Uno sguardo sul mondo” (Mondadori), a cura della Fondazione Craxi. Se l’Europa fosse stata costruita in modo più equo e solidale – dichiara Stefania Craxi – forse il mondo non sarebbe in preda alle diseguaglianze che provocano guasti: dall’immigrazione incontrollata al divario sempre più grande tra ricchezza e povertà, fino a una nuova riedizione della guerra fredda con la corsa al riarmo di questi giorni. Quelle lezioni contenute nel libro sono ancora oggi di estrema attualità. Craxi voleva che l’Europa si costruisse secondo regole e principi di giustizia sociale, di solidarietà tra Nazioni aperte al mondo, un’Europa vicina ai cittadini. Oggi Craxi avrebbe lavorato per la riforma dell’Europa. Sigonella è la dimostrazione che si può stare all’interno di sistemi nazionali e sovranazionali e al tempo stesso difendere gli interessi nazionali. È stato grave non averlo ascoltato allora, sarebbe grave non ascoltarlo oggi. C’ è una forte affinità nella politica estera di cambiamento tra Craxi e Berlusconi. Craxi lavorò per la fine della guerra fredda; Berlusconi ha lavorato per l’accordo (Usa-Russia) di Pratica di Mare. Craxi aveva una visione di insieme nel Mediterraneo e del ruolo chiave dell’Italia; Berlusconi firmò quel capolavoro diplomatico che fu il trattato di cooperazione e amicizia con la Libia. L’Europa Craxi voleva riformarla. È quella stessa intuizione che oggi viene rilanciata senza intenti distruttori da Berlusconi.

SILVIO E BETTINO, I LUPI DELLA MILANO DA BERE, scrive Nicolò Zuliani il 14 maggio 2018 su The Vision. Silvio Berlusconi nasce a Milano nel 1936. A vent’anni lavora come cantante sulle navi da crociera insieme al suo migliore amico, Fedele Confalonieri, poi vende aspirapolveri porta a porta. A 25 anni, dopo la laurea in giurisprudenza, acquista il primo terreno per 190 milioni di lire grazie alla fideiussione di Carlo Rasini, titolare della banca Rasini dove lavorava suo padre. È una banca particolare: puoi diventarne cliente solo tramite raccomandazione, possiede quote di società offshoree custodisce i soldi di personaggi del calibro di Filippo Calò, Totò Riina, Bernardo Provenzano – e, soprattutto, è una banca collegata a Michele Sindona. Inizia così la carriera imprenditoriale di Silvio Berlusconi, che fonda la Cantieri Riuniti Milanesi Srl e inizia a costruire. Sono gli anni del boom, in cui esplode il settore edilizio e Silvio, coi suoi 28 anni, è un giovanissimo imprenditore rampante.

Bettino Craxi nasce a Milano nel 1934. Dimostra da subito un carattere aggressivo e turbolento, e per correggerlo i genitori lo mandano in un collegio cattolico. A 17 anni, seguendo l’esempio del padre, prende la tessera del partito socialista. Studia giurisprudenza, poi scienze politiche; all’università tiene i primi discorsi in pubblico, entra nel Nucleo Universitario Socialista, organizza conferenze e dibattiti; poi, a 23 anni, entra nel comitato centrale del partito e nel 1968, dopo esser stato consigliere comunale, diventa deputato. La sera mangia a L’Angolo, una trattoria di Brera, ritrovo di pittori e artisti, e il proprietario – comunistissimo – li fa mangiare a sbafo in cambio di quadri. A Craxi piace l’ambiente, gli permette di ascoltare le conversazioni tenendosi in disparte, per farsi un’idea dei discorsi e delle opinioni della sinistra; ed è qui che conosce Filippo Panseca, artista squattrinato di fervente fede socialista, di cui diventa amico. L’Italia di quegli anni è attraversata da omicidi, gambizzazioni, studenti che parlano di alzare il livello dello scontro, simpatizzano con le Brigate Rosse e che insieme agli operai aspettano l’arrivo della rivoluzione proletaria. Alcuni, con le armi, cercano di anticiparla. A metà degli anni Settanta, gli italiani sono sfiniti dagli omicidi della malavita organizzata, dagli attentati, dall’odio che impregna le strade e senza promettere di risolversi; Milano, soprattutto, è stanca di vivere in un mondo dove persino le fantasie delle camicie o gli sport diventano simboli borghesi da abbattere. Divertirsi sembra un reato, ma in questa cappa di miseria, paura e desolazione, in via Carducci c’è un posto dove si trovano i milanesi benestanti: si chiama Vogue club, e per entrare serve una chiave d’oro che viene assegnata a discrezione del proprietario. Non è ancora il tempio del jet set che diventerà di lì a poco, ma è molto intimo. Si ballano pezzi come “Superstition” o “Lady Bump”, gli uomini portano la cravatta, i pantaloni dei completi sono a zampa; è il periodo d’oro dei liquori amari, mentre i cocktail vengono snobbati. Grazie all’amicizia con Bettino, Filippo Panseca è diventato “artista del Psi”, fa lo scenografo e lavora sull’immagine e sull’estetica dei socialisti, precorrendo i tempi del marketing, fino ad allora reputato frivolo e inutile. È di questo che stanno parlando un venerdì notte Filippo e Bettino, quando si imbattono in Silvio Berlusconi: ha appena fondato la Fininvest, con metodi e manovre economiche controverse, e ha grandi progetti per il futuro. Prima di chiunque in Italia ha compreso il potenziale della televisione e reputa i socialisti l’unica sinistra possibile, perché davvero progressisti, a differenza del Pci. Nel 1976, con la caduta del governo Moro, il Partito Comunista ha un’impennata, mentre il gradimento del Psi è sotto il 6%. De Martino, il segretario, è costretto a dimettersi. L’Italia cambia a un ritmo vertiginoso e tutto ciò che appare tradizionale o tradizionalista rappresenta il male. Si può essere solo giovani o vecchi, e i vecchi sono il nemico. In un clima di lotta generazionale, parlare di rinnovamento in un partito di sessantenni è improbabile, e Craxi ha appena 40 anni: è un volto nuovo, ma con alle spalle oltre 28mila voti e una lunga gavetta. I socialisti lo eleggono segretario “di transizione”, credendolo, a torto, un ragazzino manipolabile: Craxi è davvero il rinnovamento, con tutte le contraddizioni del caso. Come quando, pochi mesi dopo l’elezione, rilascia un’intervista in cui spiega come e dove gli piace scopare. Sistema i suoi uomini nei ruoli chiave del partito. Delega a Panseca il compito di ripensare il simbolo del Psi, toglie la falce e il martello e ci mette un garofano rosso, il fiore usato dagli operai il 1° maggio. Con il Presidente della Repubblica Sandro Pertini ha un rapporto di amore e odio: quando lo convoca nel 1979 al Quirinale, Craxi si presenta sì in giacca e cravatta, ma come pantaloni indossa un paio di jeans. Pertini lo rispedisce a casa, intimandogli di tornare in abito scuro “o di non scomodarsi a tornare”. Quello che Craxi sta cercando di fare, riuscendoci, è trasformare la forma e l’immagine del Psi dalle fondamenta. Dà indicazioni ai suoi uomini su come vestire e comportarsi e persino su dove andare a ballare e a divertirsi, in un Paese bacchettone che deve presentarsi come serio e impegnato a ogni costo. Essere socialista, per lui, significa essere di sinistra, ma più sorridenti. Il ‘77 è l’anno della televisione a colori e con la sua diffusione arrivano spot pubblicitari che incitano a uscire, bere, godersela: Craxi intuisce che all’Italia basta un pretesto per scrollarsi di dosso l’orrore e il grigiore degli anni di piombo.

Silvio Berlusconi, intanto, nel ’78 compra Telemilano – poi ribattezzata Canale 5 – e altre stazioni televisive, tutte regionali. In Italia infatti non esiste ancora una legge che regoli la diffusione sulle frequenze nazionali delle televisioni private. Poi va a Cannes, acquisisce le serie tv più belle dell’epoca (tra cui Magnum PI, Dallas e Uccelli di rovo), strappandole alla Rai che si era presentata in ritardo e offrendo pochi soldi. Negli studi di Milano, Berlusconi programma 12 ore di trasmissioni, le registra, organizza un ponte via elicotteri, aerei e taxi e recapita quelle registrazioni a tutte stazioni tv che ha acquistato in giro per il Paese. Ufficialmente sono tutte emittenti regionali, ma nella pratica formano una tv nazionale. L’audience di Canale 5, comunque, non è abbastanza alta, così Berlusconi, racconta il giornalista Jean Claude Bourret, manda in giro suoi emissari a caccia delle famiglie che possiedono il Meter, una scatola collegata al proprio televisore che misura l’audience nazionale. Una volta trovate, viene loro offerto un televisore ultimo modello e 500mila lire di rimborso per la corrente elettrica. In cambio viene chiesto solo di tenere il vecchio televisore sintonizzato su Canale 5 ventiquattr’ore su ventiquattro, senza mai spegnerlo – va bene anche tenerlo chiuso in un armadio, con il volume regolato al minimo. Tutti accettano, l’audience di Canale 5 schizza alle stelle e le aziende pagano uno spazio pubblicitario il doppio che su un canale nazionale. C’è uno spot dell’Amaro Ramazzotti del 1979 che racchiude tutta la mentalità italiana, appena prima dell’esplosione di tracotanza degli imminenti anni Ottanta. “Ma dai, venite fuori. Fuori è tutta un’altra cosa. Basta un niente per divertirsi: per esempio, basta sapersi divertire.” La deflagrazione definitiva si manifesta nei clacson e nelle bandiere che inondano il Paese nell’estate del 1982, quando l’Italia arriva in finale contro la Germania. Di quella partita tutti ricordano Pertini in tribuna che dopo il terzo goal di Altobelli muove il dito a destra e sinistra urlando “I tedeschi non ci prendono più” – una frase che, pronunciata da un partigiano, ha decisamente impatto. Un giornalista domanda al Presidente se quell’entusiasmo non corrisponda a una fuga dai veri problemi della Nazione: “Ma buon Dio,” sbotta Pertini, “Dopo sei giorni di lavoro viene la domenica, no? Ebbene, chi ha lavorato i sei giorni ha il diritto di andare con la famiglia a gioire sulla spiaggia, o in montagna, o altrove. E gli si dovrebbe dire: “Come mai tu gioisci quando ti attende il lunedì?” Io penso a gioire la domenica, per il lunedì verrà il suo tempo!”. Gli anni di piombo finiscono in quel momento. All’improvviso, divertirsi, avere successo e arricchirsi diventano le uniche cose per cui valga la pena preoccuparsi. I soldi si fanno in borsa, dove un normale operatore guadagna un miliardo e mezzo l’anno. “Girls just wanna have fun” canta Cindy Lauper. Il pranzo “è per chi non ha niente da fare” dice Gordon Gekko in Wall Street. Esplode il mito dell’abbondanza e dell’opulenza; le donne devono essere maggiorate, come Carmen Russo su Drive in per i padri, e Margot di Lupin III per i figli. Gli uomini devono adattarsi al canone di palestrati, giovani, belli, in carriera e non dormire mai. I vestiti diventano abbondanti, i capelli cotonati, i drink si tingono di colori fluo e decorazioni esagerate. Giorgio Armani diventa famoso con American gigolò e il Made in Italy decolla; Cerrutti, Ferragamo, Armani, Versace, fanno capi richiesti in tutto il mondo, venduti a prezzi incredibili. Durante le settimane della moda le strade traboccano di donne stupende che si riversano nei club di grido, dove vengono sedotte da imprenditori, politici e playboy. Nell’instancabile vita notturna milanese il Vogue diventa quello che è il Dorsia in American psycho: il locale più ambito, dove chiunque conti, in Italia come nel mondo, deve passare. Berlusconi, intanto, continua la sua conquista del mondo dei media e acquista nel 1982 l’emittente televisiva Italia 1. Il 4 agosto 1983, mentre buona parte del Paese cerca di sopravvivere a una delle estati più calde della Storia d’Italia, Craxi diventa presidente del Consiglio. Berlusconi ne è felice – con buona pace di Indro Montanelli, che dalle pagine de Il Giornale (dal 1979 di proprietà di Berlusconi) definisce il governo Craxi “una jattura” e chiama Bettino “un guappo di cartone”. Nel 1983 un operaio generico guadagna 600mila lire. E mentre un caffè costa 400 lire, al Vogue una cena ne costa circa 100mille, le bottiglie di champagne 500mila e un grammo di cocaina 50mila. Il culto della bella vita è obbligatorio, e i soldi sembrano spuntare dal nulla. Le banche espongono monitor che registrano i livelli delle azioni in tempo reale, davanti ai quali è comune vedere gente accalcata che si abbraccia come di fronte a una partita. In periferia, intanto, una dose di eroina costa quanto un grammo di coca nei locali e tutto vale per procurarsela. In mezzo a questi due mondi, Craxi non si fa problemi a farsi fotografare in costume da bagno, sorridente, mentre indossa un pareo o una giacca di pelle. In politica è uno schiacciasassi: trasforma l’ora di religione da obbligatoria a facoltativa, scioglie il vecchio comitato centrale creando un’assemblea socialista e trasformandola in un circo. Dalle panche deserte e l’atmosfera sonnacchiosa si passa a un pienone di personalità della moda, attrici di grido, cantanti, intellettuali; essere presenti all’assemblea è fondamentale per la propria immagine, essere socialisti è cool. Fanno persino cantare Frank Sinatra al Palatrussardi. È proprio all’assemblea che Berlinguer prende i fischi, e Bettino se la gode non poco, perché detesta quella politica grigia, burocratica e verbosa di chi “non ha neanche la televisione a colori e parla di futuro”. I politici socialisti vivono in mezzo alla gente; mangiano a Brera, al Matarel di via Mantegazza Solera, alla Trattoria dell’Angolo in via Fiori Chiari o al Garibaldi di via Monte Grappa. Bevono al bar Jamaica e al club Turati, di Carlo Ripa di Meana. Gianni De Michelis, vicepresidente del Consiglio, pubblica con Mondadori Dove andiamo a ballare questa sera?, la guida a 250 discoteche italiane. Dopo Italia 1, Berlusconi acquista Rete 4 e si guadagna il soprannome di “sua emittenza”; dai canali televisivi dipinge un mondo di festa e allegria posticcia, che gli italiani reduci dagli anni di piombo bevono come acqua fresca. Fa concorrenza diretta alla Rai e il suo strapotere inizia a destare qualche sospetto, tanto che i questori di Torino, Pescara e Roma gli sequestrano gli impianti e gli danno un ultimatum: interrompere l’interconnessione entro il 16 ottobre 1984, pena l’oscuramento. Per Berlusconi sarebbe un disastro, dovrebbe rimborsare tutti i clienti che pagano la pubblicità sui suoi canali, finendo sul lastrico. Lo salva Bettino Craxi: in un giorno fa approvare un decreto legge che liberalizza il settore audiovisivo italiano permettendo ai privati di avere diffusione nazionale e, salvando così l’impero finanziario di Berlusconi. Il 19 ottobre 1987 i monitor fuori dalle banche cominciano a segnalare i negativi. A Wall street è in atto il più grande crollo economico della Storia, il Dow Jones perde il 22% e vengono bruciati 11mila miliardi. Anche se si tratta di un crollo anomalo, è il segnale che gli anni Ottanta stanno finendo. Arriverà Tangentopoli, i pianti sotto la doccia di Berlusconi, le detenzioni preventive, la fuga di Craxi nella sua villa ad Hammamet dopo essere stato identificato come il male assoluto della politica. Tutte le feste, prima o poi, finiscono. Di quegli anni molti si domandavano cosa sarebbe restato: per tanti hanno costituito un’epoca dei sogni, dove tutto era possibile e il mondo era dietro l’angolo; per altri, l’epoca dell’infanzia, dei giocattoli da collezionisti, dei cartoni animati e degli spot del Mulino bianco. Per altri ancora, soprattutto, è stata quella di Berlusconi.

BERLUSCONI, CRAXI E 10 MILIARDI, scrivono Piero Colaprico e Luca Fazzo il 24 novembre 1995 su "la Repubblica". Da una parte Silvio Berlusconi. Dall'altra Bettino Craxi. In mezzo, una matassa di collaboratori, prestanome, conti cifrati svizzeri, società off shore di mezzo mondo. Per un anno il pool Mani pulite si è dedicato a un solo obiettivo: dipanare i grovigli di questa matassa. E l'obiettivo è stato raggiunto quasi all' improvviso, in una limpida e gelida notte di novembre, un anno esatto dopo la notte in cui l'allora presidente del consiglio venne colpito dall' invito a comparire che lo associò d' ufficio al popolato club di Tangentopoli. I magistrati scoprono che quella matassa nascondeva lo straordinario andirivieni di quindici miliardi. Soldi che partono dai fondi esteri di Silvio Berlusconi, approdano nelle casse svizzere di Bettino Craxi, e da qui - evento assolutamente inedito - un terzo della somma ritorna al mittente. Lo scambio avviene in tre rate, undici giorni in tutto, durante l'ottobre 1991: mancavano quattro mesi all' esplodere di Mani pulite, Bettino Craxi era forse il politico più potente d' Italia, Silvio Berlusconi il presidente della Fininvest. Mercoledì, dopo il tramonto, la svolta nelle indagini. Per violazione alla legge sul finanziamento pubblico dei partiti, il giudice preliminare Maurizio Grigo dispone l'arresto di Bettino Craxi, dei suoi prestanome Mauro Giallombardo e Giorgio Tradati, e di un fondamentale dirigente Fininvest: Giorgio Vanoni, responsabile del settore estero del gruppo di Silvio Berlusconi. E' il manager accusato di avere gestito in prima persona una galassia di società-schermo, create dalla Fininvest nei paradisi fiscali. Uno solo degli ordini viene eseguito dai finanzieri: Tradati, amico d' infanzia dei fratelli Craxi, lascia la casa milanese di Porta Venezia per San Vittore, tredici mesi dopo il suo primo, breve arresto. Degli altri "catturandi", l'unico di cui si hanno notizie precise è Craxi: saprà di aver ricevuto il quarto ordine di custodia nella tranquilla oasi giudiziaria di Hammamet. Giallombardo dovrebbe essere in Lussemburgo, Giorgio Vanoni da qualche parte nel mondo, forse a Londra. Di prima mattina, i finanzieri perquisiscono anche gli uffici della Fininvest e trovano - almeno a giudicare dai sorrisoni in mostra nel pomeriggio - nuove conferme documentali del quadro d' accusa disegnato dal pool, quello che trascina per la prima volta nello stesso filone d' inchiesta i più indomiti tra gli indagati di Mani pulite: Bettino Craxi e Silvio Berlusconi. Il nome di Berlusconi potrebbe essere già stato iscritto nel registro degli indagati: all' accusa di finanziamento illecito rischia di aggiungersi quella ancora più grave di falso in bilancio. Da molti mesi il pool scavava sul mistero della All Iberian, la società panamense con conti a Lugano da cui nell' ottobre 1991 erano partiti i miliardi per Bettino Craxi. Le rogatorie del pool si erano scontrate con le opposizioni continue degli avvocati svizzeri della oscura società. Ma il muro difensivo salta grazie alla clamorosa confessione di una gola profonda dall'interno della Fininvest: si chiama Giovanni Romagnoni e ricopre una carica delicata, è responsabile della tesoreria di gruppo. I magistrati hanno raccolto parecchio materiale, hanno realizzato più d' un interrogatorio utile (non trapela mezza parola) e Romagnoni, mercoledì sera, non può non fornire al pool Mani pulite il tassello che manca: All Iberian, dice, è controllata da Fininvest, i soldi che muove sono soldi che vengono dalla Silvio Berlusconi Finanziaria SA, società lussemburghese che - spiega - è la cassaforte estera del Biscione. Non è la prima volta che questa società compare nelle indagini: con il suo nuovo nome - Société financière internationale d'investissement - si batte per impedire l'assistenza svizzera al pool milanese. Interrogato Romagnoni, i pm Boccassini, Colombo e Greco ottengono l'ordine di custodia in carcere per i quattro indagati. Sei pagine dense di accuse: "Craxi Benedetto detto Bettino, quale segretario del Psi e deputato al Parlamento" è accusato insieme ai suoi prestanome di avere incassato i quindici miliardi dalla Fininvest. L' accusa si regge su documenti, accertamenti bancari, testimonianze: tra queste, le dichiarazioni dei funzionari dello studio londinese Carnelutti-Mackenzie-Mills, che si occupò di creare la rete delle società off shore. "Dal complesso degli atti sopraindicati - si legge nell' ordine di cattura - emerge che la società All Iberian, gestita da Vanoni Giorgio ed alimentata con finanziamenti diretti della Silvio Berlusconi Finanziaria, ebbe ad erogare a Craxi Bettino, sul conto Northern Holding, la somma di 10 miliardi; che, inoltre, in un primo momento, ebbe a bonificare un'ulteriore somma di 5 miliardi, che su disposizione personale di Craxi venne retrocessa alla stessa All Iberian". Il provvedimento parla anche di un "preciso disegno finalizzato ad impedire la ricostruzione dell'operazione e, soprattutto, la riconducibilità della stessa al gruppo Fininvest". "Solo quest' ultima società poteva avere interesse a finanziare, seppure illecitamente, il Craxi, di cui sono noti i legami ed i rapporti con gli alti dirigenti del gruppo Fininvest". Se le cose stanno così come si legge, resta in sospeso una domanda: perché il gruppo Berlusconi fece avere a Craxi dieci miliardi? E' quanto cercano di capire gli inquirenti: "L' inchiesta - dice il pm Piercamillo Davigo, lasciando il palazzo - è all' inizio". Frase già sentita. La Repubblica 02/08/2005, pag.38-39 Pietro Citati, 2 agosto 2005

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.

Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.

Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.

L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.

Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.

Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.

Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.

Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.

Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Erano dei Ladri!!!

Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Sono dei ladri!!!

Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?

Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.

Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.

Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!

Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza. 

Una vita senza libertà è una vita di merda…

Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.

Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.

La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.

È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.

Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.

Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.

In Italia, purtroppo, vigono due leggi.

La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.

La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».

Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.

Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.

Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.

Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  

«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».

Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?

«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».

Cosa racconta nei suoi libri?

«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».

Qual è la reazione del pubblico?

«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».

Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?

«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».

Qual è la sua missione?

«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché è orgoglioso di essere diverso?

«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.

Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.

Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.

Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.

Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Lettera ad un amico che ha tentato la morte.

Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.

Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.

Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza. 

Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.

Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.

Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.

Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.

Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.

La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!

Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.

Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.

Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.

Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.

Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.

Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.

Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.

Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.

Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.

Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.

Volere è potere.

E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.

Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!

Non si deve riporre in me speranze mal riposte.

Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?

Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.

Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.

E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.

Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.

Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.

Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.

La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.

Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.

Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.

Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”. 

IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier. 

LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”. 

IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”. 

LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.

Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.

Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?

Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.

E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.

Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.

La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.

Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.

Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.

Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.

Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.

Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.

Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.

I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?

La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.

GABRIELE CAGLIARI E GLI ALTRI. SONO STATI SUICIDATI?

Da Tangentopoli ai crac internazionali: ecco i suicidi eccellenti. Non hanno retto il peso di scandali finanziari e si sono tolti la vita. La storia della finanza italiana e internazionale annovera numerosi suicidi di manager, investitori e operatori finanziari. Con qualche giallo, scrive Vito Lops su "Il Sole 24 ore" il 7 marzo 2013.

1. Gabriele Cagliari (Eni) e il giallo del sacchetto di plastica. Siamo in piena mani pulite. Il presidente dell'Eni, Gabriele Cagliari, viene arrestato con l'accusa di aver pagato tangenti. Contestato il suo ruolo nella valutazione di Enimont fatta dall'Eni in fase di acquisizione. Il 20 luglio 1993 viene ritrovato morto nelle docce del carcere di San Vittore, dove ha trascorso quattro mesi di carcerazione preventiva. Secondo la ricostruzione si è ucciso soffocandosi con un sacchetto di plastica. La vicenda presenta contorni pochi chiari. Sul corpo sono state trovate contusioni che gettano un'ombra di dubbio sul suicidio. Inoltre alcuni testimoni, fra poliziotti penitenziari e compagni di cella, hanno raccontato che il sacchetto era ancora gonfio quando è stato ritrovato. Lasciando il sospetto che fosse ancora in vita. Giallo anche sulle lettere che avrebbe spedito alla famiglia per giustificare il gesto, che sarebbero state ricevute dai famigliari circa due settimane prima della morte.

2. Raul Gardini e lo scandalo Tangentopoli. Sposato con la figlia di Serafino Ferruzzi, Raul Gardini acquisisce le deroghe operative dell'aziende dopo la morte di Ferruzzi in un incidente aereo. Negli anni Ottanta mette a segno la celebre scalata Montedison, dopo le spregiudicate manovre finanziarie dell'amministratore Mario Schimberni, con l'assenso si Enrico Cuccia. In seguito guida la fusione delle attività chimiche con Eni, fondando Enimont. Negli anni Novanta, in piena Tangentopoli (1992), Gardini – quando vengono alla luce le tangenti generate dalla vendita del 40% di Enimont – si toglie la vita. Viene trovato morto nella sua casa di Milano, il settecentesco palazzo Belgioioso, il 23 luglio del 1993, tre giorni dopo la morte del presidente dell'Eni Gabriele Cagliari.

1992: questa è la realtà, non la fiction. La lettera del suicida Gabriele Cagliari, scrive “Tempi”. Grazie alla serie in onda su Sky si torna a parlare di Tangentopoli e Mani Pulite. Ripubblichiamo il messaggio inviato alla famiglia dall’allora presidente di Eni prima di togliersi la vita in carcere. Grazie alla fiction in onda su Sky, “1992”, in Italia si è tornato a parlare di Tangentopoli e Mani Pulite. A nostro modesto avviso, non c’è modo migliore per capire cosa accadde in quegli anni che rileggere questa lettera di Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni arrestato nel 1993 dai pm milanesi Fabio De Pasquale ed Antonio Di Pietro. Cagliari fu accusato di aver versato ai partiti una maxi tangente. Dopo quattro mesi nel carcere di San Vittore a Milano si suicidò il 20 luglio del 1993. Questa è la lettera che inviò alla sua famiglia il 10 luglio 1993. «Miei carissimi Bruna, Stefano, Silvano, Francesco, Ghiti: sto per darvi un nuovo, grandissimo dolore. Ho riflettuto intensamente e ho deciso che non posso sopportare più a lungo questa vergogna. La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto. Ci trattano veramente come non-persone, come cani ricacciati ogni volta al canile. Sono qui da oltre quattro mesi, illegittimamente trattenuto. Tutto quanto mi viene contestato non corre alcun pericolo di essere rifatto, né le prove relative a questi fatti possono essere inquinate in quanto non ho più alcun potere di fare né di decidere, né ho alcun documento che possa essere alterato. Neppure potrei fuggire senza passaporto, senza carta d’identità e comunque assiduamente controllato come costoro usano fare. Per di più ho sessantasette anni e la legge richiede che sussistano oggettive circostanze di eccezionale gravità e pericolosità per trattenermi in condizioni tanto degradanti. Ma, come sapete, i motivi di questo infierire sono ben altri e ci vengono anche ripetutamente detti dagli stessi magistrati, se pure con il divieto assoluto di essere messi a verbale, come invece si dovrebbe regolarmente fare. L’obbiettivo di questi magistrati, quelli della Procura di Milano in modo particolare, è quello di costringere ciascuno di noi a rompere, definitivamente e irrevocabilmente, con quello che loro chiamano il nostro “ambiente”. Ciascuno di noi, già compromesso nella propria dignità agli occhi della opinione pubblica per il solo fatto di essere inquisito o, peggio, essere stato arrestato, deve adottare un atteggiamento di “collaborazione” che consiste in tradimenti e delazioni che lo rendano infido, inattendibile, inaffidabile: che diventi cioè quello che loro stessi chiamano un “infame”. Secondo questi magistrati, a ognuno di noi deve dunque essere precluso ogni futuro, quindi la vita, anche in quello che loro chiamano il nostro “ambiente”. La vita, dicevo, perché il suo ambiente, per ognuno, è la vita: la famiglia, gli amici, i colleghi, le conoscenze locali e internazionali, gli interessi sui quali loro e loro complici intendono mettere le mani. Già molti sostengono, infatti, che agli inquisiti come me dovrà essere interdetta ogni possibilità di lavoro non solo nell’Amministrazione pubblica o parapubblica, ma anche nelle Amministrazioni delle aziende private, come si fa a volte per i falliti. Si vuole insomma creare una massa di morti civili, disperati e perseguitati, proprio come sta facendo l’altro complice infame della magistratura che è il sistema carcerario. La convinzione che mi sono fatto è che i magistrati considerano il carcere nient’altro che uno strumento di lavoro, di tortura psicologica, dove le pratiche possono venire a maturazione, o ammuffire, indifferentemente, anche se si tratta della pelle della gente. Il carcere non è altro che un serraglio per animali senza teste né anima. Qui dentro ciascuno è abbandonato a stesso, nell’ignoranza coltivata e imposta dei propri diritti, custodito nell’inattività nell’ignavia; la gente impigrisce, si degrada e si dispera diventando inevitabilmente un ulteriore moltiplicatore di malavita. Come dicevo, siamo cani in un canile dal quale ogni procuratore può prelevarci per fare la propria esercitazione e dimostrare che è più bravo o più severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione alcuni giorni prima o alcune ore prima. Anche tra loro c’è la stessa competizione o sopraffazione che vige nel mercato, con differenza che, in questo caso, il gioco è fatto sulla pelle della gente. Non è dunque possibile accettare il loro giudizio, qualunque esso sia. Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto, stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro Stato autoritario, al loro regime della totale asocialità. Io non ci voglio essere. Hanno distrutto la dignità dell’intera categoria degli avvocati penalisti ormai incapaci di dibattere o di reagire alle continue violazioni del nostro fondamentale diritto di essere inquisiti, e giudicati poi, in accordo con le leggi della Repubblica. Non sono soltanto gli avvocati, i sacerdoti laici della società, a perdere la guerra; ma è l’intera nazione che ne soffrirà le conseguenze per molto tempo a venire. Già oggi i processi, e non solo a Milano, sono farse tragiche, allucinanti, con pene smisurate comminate da giudici che a malapena conoscono il caso, sonnecchiano o addirittura dormono durante le udienze per poi decidere in cinque minuti di Camera di consiglio. Non parliamo poi dei tribunali della libertà, asserviti anche loro ai pubblici ministeri, né dei tribunali di sorveglianza che infieriscono sui detenuti condannati con il cinismo dei peggiori burocrati e ne calpestano continuamente i diritti. L’accelerazione dei processi, invocata e favorita dal ministro Conso, non è altro che la sostanziale istituzionalizzazione dei tribunali speciali del regime di polizia prossimo venturo. Quei pochi di noi caduti nelle mani di questa “giustizia” rischiano di essere i capri espiatori della tragedia nazionale generata da questa rivoluzione. Io sono convinto di dover rifiutare questo ruolo. E’ una decisione che prendo in tutta lucidità e coscienza, con la certezza di fare una cosa giusta. La responsabilità per colpe che posso avere commesso sono esclusivamente mie e mie sono le conseguenze. Esiste certamente il pericolo che altri possano attribuirmi colpe non mie quando non potrò più difendermi. Affidatevi alla mia coscienza di questo momento di verità totale per difendere e conservare al mio nome la dignità che gli spetta. Sento di essere stato prima di tutto un marito e un padre di famiglia, poi un lavoratore impegnato e onesto che ha cercato di portare un po’ più avanti il nostro nome e che, per la sua piccolissima parte, ha contribuito a portare più in alto questo paese nella considerazione del mondo. Non lasciamo sporcare questa immagine da nessuna “mano pulita”. Questo vi chiedo, nel chiedere il vostro perdono per questo addio con il quale lascio per sempre. Non ho molto altro da dirvi poiché questi lunghissimi mesi di lontananza siamo parlati con tante lettere, ci siamo tenuti vicini. Salvo che a Bruna, alla quale devo tutto. Vorrei parlarti Bruna, all’infinito, per tutte le ore e i giorni che ho taciuto, preso da questi problemi inesistenti che alla fine mi hanno fatto arrivare qui. Ma in questo tragico momento cosa ti posso dire, Bruna, anima dell’anima mia, unico grandissimo amore, che lascio con un impagabile debito di assiduità, di incontri sempre rimandati, fino a questi ultimi giorni che avevamo pattuito essere migliaia da passare sempre insieme, io te, in ogni posto, e che invece qui sto riducendo a un solo sospiro? Concludo una vita vissuta di corsa, in affanno, rimandando continuamente le cose veramente importanti, la vita vera, per farne altre, lontane come miraggi e, alla fine, inutili. Anche su questo, soprattutto su questo, ho riflettuto a lungo, concludendo che solo così avremo finalmente pace. Ho la certezza che la tua grande forza d’animo, i nostri figli, il nostro nipotino, ti aiuteranno a vivere con serenità e a ricordarmi, perdonato da voi per questo brusco addio. Non riesco a dirti altro: il pensiero di non vederti più, il rimorso di avere distrutto i nostri anni più sereni, come dovevano essere i nostri futuri, mi chiude la gola. Penso ai nostri ragazzi, la nostra parte più bella, e penso con serenità al loro futuro. Mi sembra che abbiano una strada tracciata davanti a sé. Sarà una strada difficile, in salita, come sono tutte le cose di questo mondo: dure e piene di ostacoli. Sono certo che ciascuno l’affronterà con impegno e con grande serenità come ha già fatto Stefano e come sta facendo Silvano. Si dovranno aiutare l’un l’altro come spero che già stiano facendo, secondo quanto abbiamo discusso più volte in questi ultimi mesi, scrivendoci lettere affettuose. Stefano resta con un peso più grave sul cuore per essere improvvisamente rimasto privato della nostra carissima Mariarosa. Al dolcissimo Francesco, piccolino senza mamma, daremo tutto il calore del nostro affetto e voi gli darete anche il mio, quella parte serena che vi lascio per lui. Le mie sorelle, una più brava dell’altra, in una sequenza senza fine, con le loro bravissime figliole, con Giulio e Claudio, sono le altre persone care che lascio con tanta tristezza. Carissime Giuliana e Lella, a questo punto cruciale della mia vita non ho saputo fare altro, non ho trovato altra soluzione. Ricordo Sergio e la sua famiglia con tanto affetto, ricordo i miei cugini di Guastalla, i Cavazzani e i loro figli. Da tutti ho avuto qualcosa di valore, qualcosa di importante, come l’affetto, la simpatia, l’amicizia. A tutti lascio il ricordo di me che vorrei non fosse quello di una scheggia che improvvisamente sparisce senza una ragione, come se fosse impazzita. Non è così, questo è un addio al quale ho pensato e ripensato con lucidità, chiarezza e determinazione. Non ho alternative. Desidero essere cremato e che Bruna, la mia compagna di ogni momento triste o felice, conservi le ceneri fino alla morte. Dopo di che siano sparse in qualunque mare. Addio mia dolcissima sposa e compagna, Bruna, addio per sempre. Addio Stefano, Silvano, Francesco; addio Ghiti, Lella, Giuliana, addio. Addio a tutti. Miei carissimi, vi abbraccio tutti insieme per l’ultima volta. Il vostro sposo, papà, nonno, fratello. Gabriele»

Gabriele Cagliari, lettere dal 1993. Il figlio Stefano racconta in «Storia di mio padre», curato da Costanza Rizzacasa d’Orsogna (Longanesi), il presidente dell’Eni suicida in carcere durante Mani Pulite, scrive Luigi Ferrarella l'1 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". Gabriele Cagliari era nato a Guastalla, Reggio Emilia, il 14 giugno 1926. Presidente dell’Eni dal 1989, venne arrestato l’8 marzo 1993 con l’accusa di avere autorizzato il pagamento di tangenti. Si tolse la vita 134 giorni dopo, il 20 luglio, nel carcere milanese di San Vittore. «Il carcere e i suoi problemi, la sua gestione paradossale, sono argomenti che devono interessare la gente: il mondo non è fatto di buoni e cattivi; tutti possiamo essere a volte cattivi anche se siamo normalmente buoni». Le 28 lettere inedite (come questa del 18 luglio 1993, 2 giorni prima del suicidio a San Vittore) scritte in carcere dal 67enne presidente dell’Eni Gabriele Cagliari nei 134 giorni di custodia cautelare, e recuperate nel 2016 dal figlio Stefano in soffitta, adesso insieme a quelle già note vengono proposte dalla riflessione del figlio in Storia di mio padre (a cura di Costanza Rizzacasa d’Orsogna per Longanesi) in una chiave per certi versi sorprendente. Al punto da risultare arnesi inservibili tanto a chi non si trattiene dal praticare con spregiudicatezza l’uso contundente dei suicidi a fini di revisionismo storico-giudiziario di Mani Pulite, quanto a chi cinicamente sorvola sui destini personali delle persone coinvoltevi e non ammette altro che esaltazione integrale di quella stagione. Il libro di Stefano Cagliari, «Storia di mio padre», a cura di Costanza Rizzacasa d’Orsogna, è edito da Longanesi (prefazione di Gherardo Colombo, pp. 264, euro 18,80). Non somiglia infatti a una polemica italiota, ma a una sorta di tragedia greca quella evocata da Stefano Cagliari, all’epoca architetto 35enne: a cominciare dal crudele tempismo di un destino che, lo stesso 8 marzo dell’arresto di suo padre per tangenti, vede abbattersi una diagnosi infausta su suo fratello Silvano (che morirà tre anni dopo), e sulla propria moglie Mari l’incurabilità di una malattia che la ucciderà due mesi dopo, lasciandolo solo con un bimbo di 3 anni. Un arresto quasi annunciato dalle cronache sulle indagini, e tuttavia inatteso perché «era un po’ come stare sotto le bombe: si sperava solo che la prossima non colpisse te ma qualcun altro», ma «nessuno in casa osava parlarne». Nessuno, salvo l’agghiacciante inconsapevolezza del nipotino che, preso in braccio dal nonno pochi giorni prima dell’arresto, ripete parole ascoltate all’asilo: «“In galera! in galera!”, gridò. Rimanemmo tutti di sasso». Solo l’arroganza di psicologismi d’accatto può pensare di spiegare i motivi per i quali una persona si toglie la vita. E se il libro vi rifugge è anche grazie alla franchezza con cui il figlio racconta il proprio «dolore in quegli anni» nel «pensare non solo che il sistema, che dava soldi ai partiti secondo uso consolidato e illegale, fosse sbagliato, ma che mio padre vi si fosse adeguato e lo considerasse necessario. Mi sentivo tirato da due parti opposte. Ci aveva insegnato a scegliere l’interesse generale (...), ma in questo caso qual era l’interesse generale? Nelle sue lettere la polemica coi magistrati continuava a crescere. Ormai per lui erano il pericolo per il Paese». È in fondo la stessa lacerazione restituita dalle lettere alla moglie Bruna (morta nel 1998). Quelle nelle quali Cagliari scrive «sono la vergogna della famiglia»; constata che «certamente era molto meglio non commettere alcun reato reale o presunto (…) ma spero che questo lavoro vada avanti con mani più “pulite” delle nostre che non abbiamo saputo (o potuto?) evitare»; e radiografa quanti «non si sono resi conto di cadere in compromissioni irrimediabili e sono stati colti di sorpresa, io tra questi ed è giusto che paghi». Ma anche quelle in cui addita «l’ideologia del rancore» sotto «l’obiettivo dichiarato» di «questi giudici certamente meritevoli e coraggiosi ma anche ambiziosi di potere e di gloria», dai quali si sente trattenuto «in violazioni di leggi al solo scopo di farmi rivelare chissà quali segreti segreti», per «scalzare ciascuno di noi dal nostro ambiente rendendoci inaffidabili in qualche modo pubblico». È la medesima lacerazione che prova ora a comprendere anche Gherardo Colombo, uno dei pm di Cagliari in quei mesi, quando nella prefazione ragiona di cosa «accada usualmente» a una persona arrestata: «Cagliari si sente perseguitato, io credo, anche perché non può sapere come procedono le indagini, non sa cosa si nasconde dietro le domande, si ritiene vessato e non può vedere che le indagini seguono tempi e modi dipendenti da una serie di variabili a lui sconosciute. Due mondi che non comunicano. La difficoltà sta qui: nell’unire in maniera razionale e umana queste due diverse esigenze, queste due facce del processo penale». Voleva pagare, dice il figlio, «ma senza coinvolgere altri»: intento incompatibile con il compito dei magistrati di disvelare le ulteriori illegalità intuite in Eni. Cresce così, nota il figlio, una «guerra di nervi» nella quale il padre, «per 31 lunghissimi giorni non più interrogato, quando altri imputati rilasciavano nuove dichiarazioni, le confermava ma non era mai proattivo». Fino a maturare la percezione soggettiva di non «sentirmela più di sopportare ancora a lungo (...) minacce infamanti, promesse denegate, vita da canile». E fino all’episodio, rievocato senza enfasi nel libro, degli arresti domiciliari nel filone Eni-Sai prima promessi e poi (secondo il racconto degli avvocati) negati nel parere del pm De Pasquale al gip Grigo, di cui Cagliari non attenderà la decisione («Anche questa volta ci è andata male e non capisco di preciso perché (…). Non vorrei diventare uno dei pochi capri espiatori»), accennandone alla moglie in una lettera da non aprire però subito: «È ormai molto tempo che penso a questa come l’unica risposta possibile» a «questa tortura della prigione per costringermi a confessare l’impossibile». Presagio che nel libro, per la prima volta, il cappellano don Luigi Melesi ricollega a un’uscita improvvisa di Cagliari in giugno: «Ci vuole un gesto forte. Se si suicida un detenuto a San Vittore fa un clamore passeggero, ma se si suicidano in dieci cambia il sistema carcerario».

ECCO LA STORIA DI UN BUSINESS EREDITATO DAI FIGLI DI PAPA' GABRIELE. Scrive il 13 giugno 1992 "La Repubblica". Eurotecnica nasce nel lontano agosto del 1962 per opera di un gruppo di ingegneri chimici usciti qualche anno prima dall' Eni. Vi troviamo Osvaldo Sacco, Augusto Panciera e Gabriele Cagliari, tutti e tre intorno ai quarant' anni, vogliosi di muoversi in proprio al di fuori della logica dell'ente di Stato. E successo ne devono avere avuto parecchio, se quella società, partita trent' anni fa con un capitale di pochi milioni di lire, oggi ne conta per dodici miliardi. Raccontano gli amici di Cagliari, socialista quasi dalla nascita, che la quota del futuro presidente dell'Eni, arrivato per ultimo nel gruppo, fosse del 15 per cento circa. Invano però se ne cerca traccia al giorno d' oggi: presidente della holding è infatti Panciera, i consiglieri di amministrazione sono il già citato Sacco e poi personaggi nuovi: il kuweitiano Hamdan Deep Moussa, il lussemburghese Jean Claude Wolter, Giuseppe Panciera, che della società è il responsabile amministrativo, e poi Stefano Cagliari, nato nel 1957, figlio di Gabriele. Il giovane Cagliari diventa consigliere di Eurotecnica il 29 luglio del 1991, appena due mesi dopo l'aumento di capitale, e con l'inizio dell'anno nuovo entra nel comitato esecutivo. Quasi tutti gli stessi personaggi si ritrovano anche nella consociata Eurotecnica Contractors and Engineering, il cui capitale, di 200 milioni al momento della fondazione nel marzo del 1982 (c' erano in qualità di soci fondatori i soliti Cagliari, Sacco e Panciera) arriva oggi a dieci miliardi. Ma oltre a loro e a Oscar Chiari, Liborio Satariano, Adalberto Bestetti, Claudio Gatti e a Stefano Cagliari troviamo nel consiglio anche l'altro figlio del presidente dell'Eni, Silvano Cagliari, nato nel 1962. Stefano entra in questa società nell' aprile del 1989, Silvano due anni dopo, nel 1991. E' chiara dunque la presenza della famiglia Cagliari nel capitale di Eurotecnica, che nei primi anni della sua esistenza opera ai margini del sistema delle PPSS: qualcosa a Terni, qualcos'altro al nord, in genere si tratta di contratti modesti. Poi, nel 1980 avviene un fatto strano. Gabriele Cagliari rientra nel sistema Eni. Lo troviamo prima all' Anic. Poi nel 1983 Gianni De Michelis lo vuole come membro della giunta dell'Eni in rappresentanza del partito del garofano. Ottiene due mandati consecutivi ma nel 1989, all' epoca dei fatti (contratto per Ravenna e inizio dei lavori del tubo d' oro) non pensa di poter arrivare ai vertici dell'Eni. Al massimo spera di diventare presidente di Enimont, la joint-venture tra Eni e Montedison che sta già sperimentando i primi contrasti. Ma l'appoggio dell'accoppiata socialista De Michelis Martelli gli consente di superare la diffidenza di Bettino Craxi e di arrivare all' ultimo piano.

Davigo e i detenuti dimenticati. "Sono qui da oltre quattro mesi, illegittimamente trattenuto". Sono le parole ai familiari di Gabriele Cagliari, prima di suicidarsi in carcere nel 1993, scrive Vittorio Sgarbi il 10 marzo 2017. "La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. Ci trattano come non-persone, come cani ricacciati ogni volta al canile. Sono qui da oltre quattro mesi, illegittimamente trattenuto". Sono le parole ai familiari di Gabriele Cagliari, prima di suicidarsi in carcere nel 1993, "trattenuto" dagli amici di Piercamillo Davigo che, ora, con disgustoso cinismo, si assume la responsabilità di quel crimine non riconoscendo eccessi nell’uso della misura cautelare, se non nelle scarcerazioni (sic!). Cagliari se lo erano dimenticato. Come mi disse, all’epoca, il gip di Mani pulite, Italo Ghitti, il vero reato di quei magistrati è di "corruzione di immagine". 

Vittorio Sgarbi condannato a pagare 60 mila euro ai pm del pool di Mani Pulite, scrive il 21 Maggio 2015 "Libero Quotidiano". Dopo vent'anni di processi attraverso tutti i gradi di giudizio, la Cassazione ha condannato Vittorio Sgarbi a pagare un risarcimento di 60 mila euro a tre ex pubblici ministero del pool di Mani pulite Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo e Francesco Greco. La vicenda è nata nel 1994, quando Sgarbi era fresco deputato di Forza Italia e conduttore in tv di Sgarbi quotidiani. In quel periodo il critico d'arte aveva definito dalle pagine de Il Giornale e Avvenire "assassini" i magistrati, dopo i suicidi di Raul Gardini e Gabriele Cagliari. Sgarbi aveva aggiunto che i tre pm: "avevano fatto morire delle persone" e aveva definito il pool: "Associazione a delinquere con libertà di uccidere". La sentenza - Sgarbi era stato già condannato in appello nel 2011. Nella sentenza i giudici avevano scritto che: "neanche la più benevola concezione del limite della continenza verbale potrebbe mai giungere ad ammettere che tali espressioni non violino quel limite". La sfuriata ventennale di Sgarbi gli costerà 60 mila euro, cifra contestata dall'ex parlamentare, ma secondo i giudici non è un cifra "esorbitante" considerando "il lavoro svolto" dai tre magistrati offesi, "la gravità degli addebiti loro mossi e l'impatto sociale di affermazioni così drastiche". La responsabilità - Inascoltate anche le proteste di Sgarbi che non aveva accettato di essere condannato in solido da solo, senza il coinvolgimento degli editori che avevano pubblicato le sue parole. Secondo il critico, dovevano essere i giornalisti a "verificare la violazione del limite di continenza verbale". Ma la sua richiesta è arrivata solo nove anni dopo l'inizio del procedimento giudiziario.

Il senso de La Repubblica per “l’informazione completa”. Gli SMS di Di Maio e la “memoria” di Davigo per Mani Pulite: chi ricorda come morì Gabriele Cagliari? Scrive Fuori dal Coro Fabio Cammalleri il 18 Febbraio 2017 su "La Voce di New York". Le proteste del quotidiano La Repubblica, per le invettive del M5S, in margine alla questione SMS dell’On. Di Maio, vorrebbero proporre l’immagine di un presidio di libertà, ora sottoposto a minaccia. Ma, come si dice, chi semina vento... Il caso dei suicidi di Mani Pulite.

Breve premessa. In questi ultimi giorni, sta correndo violenta una polemica fra il M5S e Repubblica, in seguito alla nota vicenda degli SMS scritti e ricevuti dall’On. Di Maio. Ne era oggetto Raffaele Marra, già Vice-capo di Gabinetto del Sindaco di Roma, Virginia Raggi, in atto in custodia carceraria per corruzione ed altro. “Marra è uno dei miei”, avrebbe scritto Di Maio a Raggi, secondo Repubblica; no, replica Di Maio, il testo era: “sui miei, il Movimento fa accertamenti ogni mese”, quindi “L’importante è non trovare nulla”. Come a dire: “anche sui miei”, perciò anche su Marra, che pure non lo è. Aveva ragione il M5S. Repubblica ha provato a metterci una pezza, affermando, in una nota, che “un responsabile di turno ha modificato una frase del testo on line”. Insomma, ora abbiamo anche il giornalista “a sua insaputa”. Ne sono seguite reazioni violente e minacciose (“killeraggio”), non inconsuete da parte di M5S. Ma l’insinuazione e la parzialità travisante, caratteri costitutivi della nota maison giornalistica, sono essi violenza al sommo grado. E sono stati l’abbecedario di un avvelenamento violento che ha corrotto la coscienza critica di vari milioni di italiani, per almeno un paio di generazioni: e di cui M5S costituisce solo un’espressione epigonale. Sicchè questo, fra giornale “colto” e movimento “incolto”, appare solo un dissidio fra maestro e allievo. E, giusto oggi, ne abbiamo un altro clamoroso esempio. Fine della premessa. C’è un video, infatti, presentato sulla prima pagina di Repubblica. Vi si può sentire il dott. Piercamillo Davigo, che ricorda, nel 25° anniversario, Mani Pulite. Dura 7’ e 19’’, ed è un monologo. Mi preme soffermarmi brevemente su due sue proposizioni, connesse.

La prima, in termini così perentori, non è molto usuale, ed è resa al minuto 5’:02’’: “nessun nostro detenuto si è suicidato, nessuno… questa è una della varie bugie che sono state alimentate”. Ne ricordo solo uno. Nella notte fra l’8 e il 9 Marzo 1993 Gabriele Cagliari, Presidente dell’ENI, fu tratto in arresto. Era stato ordinato dal G.i.p. Italo Ghitti, su richiesta del Pool. Era accusato di corruzione e di violazione della Legge sul finanziamento dei partiti. Ammise, già all’inizio del suo primo interrogatorio, tutti i fatti posti a fondamento dell’ordinanza di custodia cautelare. Lo stesso giorno, si dimise da Presidente dell’Ente. Dal momento che la confessione era stata completa e spontanea, l’avvocato di Cagliari ne chiese la liberazione, o, in via subordinata, gli arresti domiciliari. Gherardo Colombo condusse il primo interrogatorio. L’11 Marzo, durante un secondo interrogatorio, Cagliari descrisse i negoziati che erano intercorsi, sul gas naturale, tra l’Algeria e una azienda dell’Eni, che aveva pagato un mediatore. L’episodio non gli era stato contestato ed era appena presente ai magistrati. Ciònonostante, il Pubblico Ministero espresse parere sfavorevole alla remissione in libertà, e il Giudice Ghitti in effetti la negò. Il 16 Marzo fu ancora interrogato da Colombo; a questo punto, interviene Di Pietro. Cagliari aveva fornito spiegazioni particolareggiate sul finanziamento dei partiti politici da parte dell’ENI; e, pur non volendo in un primo momento accusare altri, poi cedette: identificando il mediatore di questi pagamenti: Francesco Pacini Battaglia, banchiere, il cui ruolo era stato, fino a quel momento, completamente ignorato. Dopo questo interrogatorio, l’avvocato di Cagliari presentò un’altra richiesta di remissione in libertà. Ancora rigetto. Al 9 Giugno 1993, aveva già trascorso più di tre mesi nella sua cella, piena di detenuti. E, per quel “titolo” (la singola contestazione), i termini della custodia cautelare erano scaduti. Tuttavia, non ne era seguita la remissione in libertà, sia perchè il Gip Ghitti aveva emesso un’altra ordinanza di custodia cautelare in carcere; sia perché, il 26 Maggio, un altro magistrato del Pool, il dott. Fabio De Pasquale, aveva formulato un ulteriore richiesta custodiale: accolta da un altro Gip, il dott. Grigo, e fondata su un’ipotesi di illecita gestione dei contratti di assicurazione/vita dei dipendenti ENI. Per Cagliari, era allora cominciato un nuovo conteggio trimestrale, salva la revoca. Nel frattempo aveva compiuto 67 anni, e gli era morta la giovane nuora. Gli era stato comunicato che non si sarebbe potuto recare ai funerali, a meno che non avesse accettato l’umiliazione di partecipare ai funerali in ceppi, e sotto scorta armata.

Il 17 Giugno, Ghitti dispose gli arresti domiciliari per la sua seconda ordinanza. Ma rimaneva “in piedi” l’altra ordinanza di custodia in carcere, quella emessa dal giudice Maurizio Grigo. Il dott. De Pasquale, che ne aveva chiesto l’emissione indagando su ENI/SAI, era infatti tornato ad interrogare Cagliari: cercava quel nome, che allora non venne, ed espresse parere negativo: il Gip rigetta ancora. Il 15 Luglio, “l’indagato” chiese di essere interrogato di nuovo. Non accadeva da quasi un mese; sembrava che i magistrati, dal 17 Giugno, si fossero dimenticati di lui. Arriva De Pasquale. Cominciano alle 5:30 del pomeriggio. Distrutto da una lunga detenzione, Cagliari aveva ora deciso di “arricchire” la sua confessione. Tuttavia, avrebbe rischiato di contraddire le sue precedenti dichiarazioni, sia nella loro dinamica interna, sia nel rapporto con le altre acquisizioni investigative. In questo contesto caotico, finalmente, Craxi fu menzionato. Quasi che Cagliari avesse voluto mandare un segnale: si stava piegando ad accusare altri, solo per ottenere la libertà. Sembrava funzionasse, però. De Pasquale, con un commento piuttosto vibrante, apparve soddisfatto; a verbale rimase questa più asciutta dichiarazione: “La devo mandare a casa, anche se l’ultima parte non mi convince. Così c’è l’ha fatta a guadagnare la sua libertà”. L’interrogatorio si era concluso tardi, erano le 08:40. Così l’avvocato di Cagliari, confidando nell’annunciato parere positivo, il giorno successivo presentò l’istanza di scarcerazione (da L’Espresso, 1 Agosto 1993, pag. 52; di Chiara Beria D’Argentine e Leo Sisti). La mattina ancora dopo, l’avvocato di Cagliari, lesse il parere del PM su un giornale: ma era negativo. Domenica 19, Cagliari, da cinque mesi recluso, seppe. Nel frattempo De Pasquale era andato nella nativa Sicilia, per un periodo di vacanza.

La mattina del 20, lunedì, il giovane avvocato Luigi Gianzi, dello studio legale che difendeva Cagliari, varca la sala colloqui di San Vittore. Portava i due libri che “il detenuto” aveva chiesto. Attese per venti minuti. Chiese agli agenti di custodia di controllare. Per altri dieci minuti, ancora niente. Ma Gianzi non era preoccupato: Cagliari poteva essere in infermeria. Alle 10:15, si presentò il capo-turno preposto alla sala-colloqui, e gli disse semplicemente: “Mi segua”. Lo condusse dal Direttore del carcere, che lo informò. Probabilmente quella stessa mattina, Cagliari era andato nel bagno della cella, quindi, annodandosi un sacchetto di plastica in testa, si era ucciso soffocandosi.

La seconda proposizione che Davigo consegna a quel video, invece, è una sorta di costante, e si può udire al minuto 5’:10’’: “…dicevano che noi mettevamo la gente in carcere per farla parlare, non è vero… è vera però una cosa: che quando parlavano li mettevamo fuori, perché chi parla, chi collabora, diventa inidoneo a commettere questi reati” . Probabilmente nella notte fra il 19 e il 20, Gabriele Cagliari aveva scritto una lettera alla moglie: “…La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati… ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto. Ci trattano veramente come non-persone, […] L’obiettivo di questi magistrati, quelli della Procura di Milano […] è quello di costringere ciascuno di noi a rompere, definitivamente e irrevocabilmente, con quello che loro chiamano il nostro “ambiente”. Ciascuno di noi,… deve adottare un atteggiamento di “collaborazione”, che consiste in tradimenti e delazioni… i magistrati considerano il carcere nient’altro che uno strumento di lavoro, di tortura psicologica… Siamo cani in un canile, dal quale ogni procuratore può prelevarci per fare la sua propria esercitazione e dimostrare che è più bravo o più severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione alcuni giorni prima, o alcune ore prima… Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto: stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro stato autoritario… Io non ci voglio essere”. Tre giorni dopo Cagliari, com’è noto, anche Raul Gardini fece la sua scelta. Non era detenuto; probabilmente temeva di diventarlo. Due diverse ispezioni ministeriale hanno escluso responsabilità disciplinari in capo ai magistrati. Peraltro, il suicidio rimane un mistero assoluto. E tale dovrebbe essere considerato sempre. Solo che il 24 luglio, Repubblica titolò: “Sangue sul Regime”. L’insinuazione mai sazia, che si fa violenza, orrenda maledizione: e siamo tornati al punto di partenza. Tuttavia, che Davigo oggi insista col suo racconto, “nessun nostro detenuto si è suicidato, nessuno…”, sembrando negare persino quanto costituisce materia formale e indiscutibile, la detenzione e il procedimento, non finisce di stupire. Invece, non riesce a stupire che quel giornale glielo lasci dire, senza uno schizzo di nota a margine. Forse verrà un tempo in cui certo cotè intellettuale ritrovi la via della decenza. Ma fino a quel momento, di fronte al sempre più insistito sciamare di bocche che digrignano, di volti che schiumano, di verità retrattili, sarebbe meglio che taluni, certe pose da vittima della venticinquesima ora, neppure tentassero di assumerle. Perché i nostri nonni dicevano: chi semina vento…

GABRIELE CAGLIARI. Il caso del presidente Eni suicida in carcere: la sua morte non convince a distanza di 23 anni (Il Labirinto, oggi 2 giugno 2016). Gabriele Cagliari, presidente Eni morto suicida in carcere nel 1993. La sua storia di "in-giustizia" al centro della nuova puntata del programma di Rete 4, Il Labirinto, scrive il 2 giugno 2016 "Il Sussidiario". La morte di Gabriele Cagliari sarà al centro della nuova puntata de "Il Labirinto - Storie di ordinaria in-giustizia”, il nuovo programma della seconda serata di Rete 4 condotto da Carmelo Abbate ed in onda stasera 2 giugno. Il caso di Gabriele Cagliari fu destinato a fare molto scalpore nei primi anni '90, mettendo in discussione l'uso della custodia cautelare come strumento adottato dalla magistratura. Cagliari fu nominato presidente dell'ENI nel 1989 su indicazione del PSI e morì suicida in carcere quattro anni dopo sebbene la sua morte fu intrisa di alcuni aspetti che restano ancora oggi un mistero. Siamo negli anni di Tangentopoli quando la Procura di Milano richiese l'arresto di Gabriele Cagliari con l'accusa di aver autorizzato il pagamento di tangenti in favore di una commessa alla Nuovo Pignone, società del gruppo del quale era presidente. Sebbene fosse stato definito una persona perbene da tutti e lontano dalle accuse che gli furono mosse, gli inquirenti milanesi furono convinti del contrario. Cagliari rimase rinchiuso in una cella di San Vittore e trattenuto nella condizione di carcerazione preventiva per quattro mesi prima di quel 20 luglio 1993, quando fu trovato senza vita nelle docce del carcere. Secondo la ricostruzione dei fatti il presidente dell'Eni si sarebbe ucciso soffocandosi con un sacchetto di plastica e il suo suicidio sarebbe stato preannunciato da una lettera scritta alla famiglia circa due settimane prima nella quale giustificava il gesto puntando il dito contro i magistrati e dando l'addio a tutti. La versione fornita dagli inquirenti, tuttavia, portò con sé una serie di polemiche ma soprattutto dubbi sulle reali dinamiche della morte di Gabriele Cagliari. Il suo gesto di estrema disperazione, seppur comprensibile, fu seguito da una serie di circostanze poco chiare, a partire dai risultati dell'autopsia che sottolineò come sul suo corpo ci fossero contusioni difficilmente riconducibili alla dinamica del suicidio. Secondo quanto riferito da alcuni testimoni (tra agenti penitenziari e altri detenuti del medesimo carcere), inoltre, pare che il sacchetto utilizzato da Cagliari per togliersi la vita fosse ancora gonfio al momento del suo ritrovamento. A destare ulteriori dubbi, infine, anche la stessa lettera inviata ai parenti e che giustificava il suicidio. A distanza di quasi 23 anni, dunque, la sua morte ancora non convince del tutto, riaccendendo il dibattito su un caso di “in-giustizia” che all’epoca destò molto clamore.

Per questo mio padre Gabriele Cagliari decise di uccidersi. Stefano Cagliari è il figlio dell’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, aveva 35 anni quando suo padre, accusato di avere autorizzato il pagamento di tangenti, venne arrestato e, dopo 134 giorni nel carcere di San Vittore, la mattina del 20 luglio decise di suicidarsi, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 18 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Stefano Cagliari è il figlio dell’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, aveva 35 anni quando suo padre, accusato di avere autorizzato il pagamento di tangenti per fare aggiudicare una commessa alla Nuovo Pignone, venne arrestato il 9 marzo 1993 su ordine della Procura di Milano. Dopo 134 giorni trascorsi nel carcere milanese di San Vittore, la mattina del 20 luglio, Gabriele Cagliari decise di suicidarsi infilando la testa in un sacchetto di plastica. Due giorni prima si era sottoposto ad un ennesimo interrogatorio, ammettendo gli addebiti, davanti al pm Fabio De Pasquale, titolare del filone d’inchiesta sulle tangenti Eni-Sai. Secondo il legale di Cagliari, al termine dell’interrogatorio, il pm aveva promesso di mandarlo ai domiciliari. In realtà il giorno stesso aveva dato parere negativo alla scarcerazione ed era partito per le vacanze estive. Fu il colpo di grazie per Cagliari che, stanco e malato, scelse di farla finita per sempre. Durante la sua permanenza in carcere, l’ex presidente dell’Eni scrisse una serie di lettere alla moglie, ai figli e agli amici per spiegare che non poteva più sopportare il trattamento disumano riservatogli dai magistrati. «Secondo questi magistrati, a ognuno di noi deve dunque essere precluso ogni futuro, quindi la vita, anche in quello che loro chiamano il nostro ambiente. La vita, dicevo, perché il suo ambiente, per ognuno, è la vita: la famiglia, gli amici, i colleghi, le conoscenze locali e internazionali, gli interessi sui quali loro e i loro complici intendono mettere le mani. Già molti sostengono, infatti, che agli inquisiti come me dovrà essere interdetta ogni possibilità di lavoro non solo nell’Amministrazione Pubblica o parapubblica, ma anche nelle Amministrazioni delle aziende private, come si fa a volte per i falliti. Si vuole insomma creare una massa di morti civili, disperati e perseguitati, proprio come sta facendo l’altro complice infame della Magistratura che è il sistema carcerario. La convinzione che mi sono fatto è che i Magistrati considerano il carcere nient’altro che uno strumento di lavoro, di tortura psicologica, dove le pratiche possono venire a maturazione, o ammuffire, indifferentemente, anche se si tratta della pelle della gente. Il carcere non è altro che un serraglio per animali senza teste né anima. […] Come dicevo, siamo cani in un canile dal quale ogni Procuratore può prelevarci per fare la propria esercitazione e dimostrare che è più bravo o più severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione alcuni giorni prima o alcune ore prima. […] Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto, stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro Stato autoritario, al loro regime della totale asocialità. Io non ci voglio essere». Le lettere di Cagliari sono tremendamente attuali e mettono in luce come molto poco sia cambiato in questo quarto di secolo in tema di custodia cautelare, strapotere della magistratura, gogna mediatica, stato delle carceri. Stefano Cagliari, architetto, attualmente è un imprenditore nel settore dell’energia con interessi nel ramo immobiliare e nella finanza, ha voluto raccoglierle in un libro, “Storia di mio padre”, curato dalla saggista Costanza Rizzacasa d’Orsogna ed edito da Longanesi. Oltre a ciò ha creato il sito gabrielecagliari.it dove sono liberamente consultabili i verbali degli interrogatori di suo padre. «Ritengo che ciò sia un dovere civile da parte mia, affinché chi ha vissuto quegli anni ripensi a quanto accaduto e dica ai suoi figli cosa è successo», afferma Stefano Cagliari. In questi venticinque anni ha rilasciato pochissime interviste. Questa è una di quelle. Troppo grande il dolore. Nel 1993, oltre al padre, Stefano perse la moglie 37enne, colpita da un tumore, e il fratello minore Silvano, morto di Aids. Dopo un lungo e faticoso lavoro su stesso, Stefano Cagliari ha deciso di riabilitare la figura del padre e accendere una luce su un periodo buio della storia del Paese.

Architetto, cosa ha provato nel rileggere dopo 25 anni queste lettere?

«Riprendere in mano la storia di mio padre è stata un’operazione molto dolorosa».

Le lettere di suo padre offrono una visione tremendamente lucida del sistema giustizia italiano.

«Mio padre pensava che con Mani pulite la magistratura stesse facendo un colpo di Stato, aprendo la strada a un regime poliziesco».

Il regime poliziesco non c’è, però la magistratura è diventata potentissima…

«In quegli anni la magistratura diede un colpo fortissimo alla politica. E quando un potere perde importanza, altri prendono il suo posto. Fino agli anni 80 la politica gestiva anche la magistratura. Da allora non fu più così».

Come nasce Mani pulite?

«È difficile pensare che tutto nasca all’improvviso nel 1992, dopo oltre trent’anni di gestione di un sistema, oliatissimo, basato sul rapporto Dc- Psi».

E allora?

«La magistratura divenne molto aggressiva in quanto appoggiata dalla piazza. Il Paese soffriva una situazione difficilissima dove il debito avevo superato il Pil e la Lira era stata svalutata del 25%. E poi una serie di concause».

Tipo?

«Il Psi dava fastidio a molti, soprattutto agli Stati Uniti. Il “salotto” buono dell’economia era cambiato. E molti imprenditori cercavano spazio.

A proposito di imprenditori, uno di questi, Silvio Berlusconi alle fine del 1993 decise di fondare Forza Italia.

«Lo scopo primario di Berlusconi fu quello di difendere se stesso e le aziende dalle inchieste che, inizialmente, aveva appoggiato con le sue televisioni. Berlusconi capì per primo che gli italiani erano stanchi di questi arresti continui».

E la sinistra sconfitta reagì in maniera violenta.

«Sì. Ci fu uno scontro di potere fortissimo che è durato vent’anni. Dove Berlusconi ha cercato in tutti i modi di limitare il potere della magistratura».

Ma non c’è riuscito.

«Ha agito in modo troppo scoperto. Forse ha ragione Piercamillo Davigo quando dice che Matteo Renzi, su questo aspetto, è stato più bravo».

Per suo padre i magistrati avevano una missioni “salvifica” della società.

«Gherardo Colombo, uno dei magistrati che indagò mio padre, ha scritto la prefazione del libro. E lui il primo ad affermare che la magistratura non può eliminare i fenomeni corruttivi con la sola repressione. Il problema è di tipo culturale».

Non tutti la pensano come Colombo. Da parte di molti c’è la richiesta di nuove pene e maggiore carcere.

«Questa è una logica molto superficiale. Come scrisse mio padre, “il carcere è un moltiplicatore di malavita”».

Cosa non funziona in questo Paese?

«Ci sono troppe regole, che si sovrappongono e si contraddicono. Oltre a favorire la corruzione, la conseguenza è che il burocrate cerca sempre di proteggersi avendo paura di cosa possa accadere. Il Paese è completamente ingessato».

Come funzionava il sistema delle tangenti in quegli anni?

«Tutte le grandi aziende pagavano i partiti che allora avevano costi altissimi. Chi non pagava era fuori dalle stanze del potere. Le regole erano queste. Se dopo quindici giorni non avevi capito come fare, qualcuno veniva a spiegartelo».

I partiti avevano un peso fortissimo?

«Certamente. Oltre ai soldi, volevano influenzare le scelte strategiche delle aziende. Ricordo che mio padre, pur essendo socialista, litigava spesso con Bettino Craxi».

Quando ha capito suo padre che il vento stava cambiando?

«Mio padre capì subito cosa stava succedendo. Parlo del conflitto fra poteri. Da uomo Eni, cerco di salvare dalla tempesta, soprattutto quella mediatica, l’azienda. Penso, ad esempio, al filone sulle tangenti pagate all’Algeria. “Appena viene fuori una informazione del genere, questi rompono subito”, diceva».

Per avere le commesse era necessario pagare tangenti?

«Il discorso è complesso. Pensiamo all’estero: le aziende italiane avevano, e hanno, competitor di alto livello, penso ai francesi, agli inglesi. In certi Paesi i rapporti si decidono in base alla qualità delle relazioni e alla fiducia reciproca. Siamo certi che Eni oggi, oltre a pagare tangenti, non paghi anche le milizie che difendono militarmente i pozzi? E come spendono i miliziani questi soldi? Questo è il mondo. Se lo si affronta con la visione del burocrate non si fa molta strada».

Bisogna fare “squadra” nell’interesse del Paese?

«La magistratura applica la legge ma non sempre fa l’interesse del Paese. Ma, ripeto, il problema è essenzialmente culturale. Questo Paese sta in piedi grazie alle aziende che esportano. Non grazie ad uno Stato che spreme tutto il possibile e ai burocrati ottusi. Rischiamo di fare la fine degli abitanti dell’isola di Pasqua che, dopo aver tagliato tutti gli alberi, si sono estinti».

Ha mai pensato di fare politica?

«Sono rimasto molto scioccato da quanto è successo. E ho sempre temuto che la figura di mio padre potesse essere strumentalizzata. Comunque nessuno mi ha mai chiesto nulla».

Non crede agli imprenditori prestati alla politica?

«L’imprenditore è una persona capace di gestire le aziende. Un decisionista. La politica è mediazione, equilibrio, penso servano altre caratteristiche. Poi bisogna rimanere sempre con i piedi per terra. Il potere è una droga».

RAOUL GARDINI E GABRIELE CAGLIARI DUE FALSI SUICIDI MASSOMAFIOSI RIMASTI IMPUNITI, scrive "Avvocati Senza Frontiere il 30 novembre 2010 riprendendo Giorgio Bongiovanni su Antimafia Duemila e L’Espresso del 10/8/2006. Il 20 luglio 1993, il presidente dell’ENI Gabriele Cagliari, primo gruppo siderurgico italiano, viene trovato morto per soffocamento, in circostanze misteriose e mai chiarite dalla Procura di Milano, con un sacchetto di plastica infilato in testa e legato al collo con una stringa da scarpe, nei bagni di San Vittore, dov’era andato per farsi la doccia. Il 23 luglio 1993, tre giorni dopo la morte di Cagliari, alle sette del mattino, il maggiordomo di Palazzo Belgioioso trova riverso sul letto, Raoul Gardini, ras della chimica italiana e patron del gruppo Ferruzzi-Montedison, il quale si sarebbe anche lui suicidato in circostanze misteriose, e mai chiarite dalla Procura di Milano, sparandosi un colpo di pistola con una Walter Pkk, stranamente trovata sulla sponda opposta di dove si trovava il corpo inanimato dell’imprenditore ravennate fulminato da un unico proiettile alla tempia. Due misteriosi falsi suicidi da collegarsi alle attività criminali delle massomafie che controllano l’economia e l’alta finanza, riciclando i capitali della mafia, derivanti dal narcotraffico, come avevano intuito Falcone e Borsellino, prima di venire trucidati su ordine di quei “poteri esterni” che governano nell’ombra il Paese da oltre 150 anni, mettendo a tacere chiunque interferisce o si oppone ai loro progetti. Il (finto) suicidio di Cagliari si è cercato farci credere sino ad oggi sia da imputare allo scandalo che aveva travolto i vertici dell’ENI, per una maxi tangente di 17 miliardi, in buona parte versati a quasi tutti i partiti politici a conclusione di un accordo esclusivo tra l’ENI e la società assicuratrice SAI di Salvatore Ligresti (grazie alla cui megatangente si era riusciti a far fuori l’INA). Ma nella versione ufficiale secondo cui Cagliari non avrebbe retto allo scandalo che lo aveva coinvolto e al prolungarsi della carcerazione sono rimasti in pochi a crederci, forse neanche gli stessi magistrati di Milano. Se è pur vero che Cagliari sperava di essere a breve scarcerato, come aveva lasciato trapelare il P.M. Fabio De Pasquale, è anche vero che, proprio in quei giorni, il 19 luglio, era stato arrestato Salvatore Ligresti, che aveva reso una versione dei fatti contrastante rispetto a quella forse più credibile fornita dal presidente dell’Eni, che avrebbe potuto iniziare a vuotare il sacco (anzichè infilarselo in testa…) e risultare assai scomodo a quei poteri occulti che hanno ordinato di trucidare anche gli stessi giudici Falcone e Borsellino che stavano indagando proprio sui rapporti tra mafia, economia legale, istituzioni e massoneria. In quest’ottica appare inverosimile che Cagliari abbia deciso repentinamente di togliersi la vita, quando ormai sapeva di potere uscire dal carcere, per di più con modalità talmente atroci e da manuale di criminologia. E’ più probabile invece che sia stato indotto da menti subdole e raffinate ad inscenare l’intenzione di suicidarsi per anticipare l’ordine di scarcerazione, inviando lettere disperate alla moglie, come fanno spesso taluni detenuti per fare più o meno consapevolmente pressione sui giudici. Certamente la delusione per il ritardo nella scarcerazione, dovuto all’arresto di Ligresti e al rischio di inquinamento delle prove, può avere provocato nel presidente dell’ENI una profonda prostrazione, ma non tale da indurlo ad uscire così repentinamente dalla scena, cosa che giovava sicuramente a vantaggio solo di chi poteva temere sue nuove rivelazioni. Ed, infatti, appena settantadue ore dopo, ecco il secondo (finto) suicidio eccellente, anzi eccellentissimo del suo grande antagonista nella vicenda Enimont. Quello del patron della chimica italiana Raoul Gardini, con cui veniva tappata per sempre la bocca a un altro scomodo protagonista di quel perverso connubio tra mafia, alta finanza, politica e massoneria, che aveva deciso di collaborare, raccontando tutto ai magistrati di “mani pulite”. La discesa di Raoul Gardini era cominciata l’anno prima, nel 1991 quando estromesso dalla gestione della Ferruzzi gli erano subentrati il cognato Carlo Sama e l’amministratore Giuseppe Garofano. La mattina del finto suicidio avrebbe dovuto incontrare i magistrati di “mani pulite” per definire la sua situazione: c’era nell’aria un ordine di cattura, ma lui sperava di evitarlo mostrandosi disposto a una piena collaborazione. A preoccuparlo c’era stato l’arresto di Giuseppe Garofano, avvenuto due giorni prima, il 24. Al centro delle accuse nei confronti suoi e della Ferruzzi la “enorme” tangente Enimont, di circa tre miliardi versati alla DC di Forlani. Una storia che Garofano conosceva benissimo. Secondo la versione ufficiale, alle sette di mattina, Gardini ha già fatto la doccia, è ancora in accappatoio quando gli portano i giornali, il cappuccino e un croissant: ed è proprio mentre si accinge a fare colazione che l’occhio gli cade su un titolo di prima pagina di “Repubblica”: “Tangenti Garofano accusa Gardini”. L’imprenditore ravvenate Ras della chimica italiana e coraggioso uomo di mare che aveva superato ben altre difficoltà e venti contrari a quel punto avrebbe capito che è finita e aprendo il cassetto del comodino vicino al letto si sarebbe sparato un colpo mortale alla testa. Gardini magnate dell’industria e della finanza che aveva anche sponsorizzato il Moro di Venezia all’American Cup non lascia testamento o lettere, fatta eccezione di un biglietto lasciato lì in bella vista con scritto sopra un semplice “grazie”. Ma si scoprì poi che risaliva al Natale precedente ed era la risposta a un regalo che aveva ricevuto dalla moglie Irina…Anche a questo secondo plateale “suicidio”, frettolosamente inscenato solo poche ore prima che Raoul Gardini potesse rendere le sue confessioni, sono rimasti a crederci i soli magistrati di Milano, che altrettanto frettolosamente hanno archiviato uno dei più scottanti casi della storia dell’alta finanza italiana e del suo rapporto con la mafia. E, forse, anche sè stessi…In concomitanza muoiono infatti anche “mani pulite” e le speranze degli italiani di svoltare pagina.

L’ombra delle massomafie sulla morte di Raoul Gardini riapre l’inchiesta sul suicidio. A distanza di oltre 13 anni dall’archiviazione dell’intera operazione denominata “mani pulite”, voluta dai poteri forti e dalle massomafie, ecco il colpo di scena che sembra riaprire il caso dei falsi suicidi dei due tra i maggiori protagonisti della Tangentopoli finanziaria italiana e dei rapporti collusivi tra Stato e mafia. Nell’agosto 2006, dopo le indagini sui legami tra la Calcestruzzi S.p.A. e la mafia palermitana, la Procura di Caltanissetta chiede alla Dia di riesaminare il caso, come già riferito anche dalla stampa: “I pubblici ministeri hanno ordinato agli investigatori di ripartire da zero, senza trascurare nulla”. Alla base delle nuove indagini, “la convinzione dei pm che sia stata Cosa Nostra a determinare la scomparsa del “Contadino” che aveva sfidato la finanza e la politica…”. (E, aggiungiamo noi: “la Massoneria”, N.d.r.). Ci sarebbero stati almeno due elementi della scena del crimine che non convincevano appieno gli inquirenti dell’ipotesi suicidio, riferiscono le cronache dell’epoca. Così, fu chiesta una nuova perizia balistica perché, come rivelato da L’espresso, citando fonti giudiziarie, “la pistola esplose due colpi, una modalità insolita per un suicidio, tanto più che nessuno sentì le detonazioni e solo diversi minuti dopo il corpo venne trovato in un lago di sangue”. La Procura di Caltanissetta prese in considerazione anche il biglietto lasciato da Gardini ai familiari con la scritta “Grazie”: “Secondo un esperto – scrive il settimanale – poteva essere stato scritto anche mesi prima”. L’inchiesta della Procura di Caltanissetta si ricollega alle ipotesi già vagliate da una vecchia indagine della Procura di Palermo, ribattezzata “Sistemi criminali”, secondo la quale “dietro le stragi del 1992-93 ci sarebbe stata la volontà di Cosa Nostra di impedire ogni inchiesta sul monopolio degli appalti“. Ora però, i magistrati nisseni avrebbero potuto disporre di fatti nuovi, a partire dagli sviluppi nella ricostruzione dei rapporti tra i Buscemi, padrini palermitani di Passo di Rigano, vicini a Totò Riina, e i Gardini, per cui il gip di Caltanissetta Giovanbattista Tona, su richiesta della Procura, fece scattare alcuni ordini di custodia nei confronti dei gestori di una cava nissena e di due dipendenti della società Calcestruzzi, poi assorbita nel gruppo Italcementi. Più recentemente sono venute alla luce le clamorose deposizioni rilasciate da Luigi Ilardo, un pentito infiltrato che già nel gennaio 1994 aveva inascoltatamente denunciato i legami del Gotha di Cosa nostra con Marcello Dell’Utri, Salvatore Ligresti, Raul Gardini e altri famosi imprenditori del suo entourage, dei quali taluni verranno poi condannati per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Ma Ilardo non si ferma qui, denuncia anche un patto politico-elettorale con il nascente partito di Forza Italia, facendo i nomi di influenti politici, tra cui, oltre a Dell’Utri, quello dell’attuale Ministro della Difesa, Ignazio La Russa e di suo fratello Vincenzo, che secondo tali rivelazioni e fonti giudiziarie “legherebbero la famiglia La Russa e la famiglia Ligresti a Cosa nostra”. Noi non sappiamo se tali accuse siano fondate, ma è cosa certa che dal 1994 ad oggi ogni verità falsa o vera che sia, ci è stata subdolamente celata e non è stata svolta alcuna indagine. Ciò mentre il povero Ilardo veniva tradito e ucciso dallo Stato che stava servendo, proprio poco dopo aver rivelato ai Ros dei Carabinieri, dove si trovava l’ ”introvabile” covo del superlatitante Bernardo Provenzano, che oltre a non venire arrestato nè attenzionato, sarà lasciato indisturbatamente libero di frequentare e agire, mandando pizzini a destra e a manca, per ben sei anni successivi alle informative ai Ros e all’uccisione di Luigi Ilardo. Il caso di Luigi Ilardo che in pochi mesi aveva fatto decapitare le famiglie mafiose di tutta la Sicilia orientale, legate alla fazione più cruenta di Totò Riina, è quindi emblematico del patto scellerato tra istituzioni e massomafie, ovvero del fatto che Stato e mafia siano ormai divenute da oltre 40 anni una “Cosa sola”. Alla luce di tutto ciò chiediamo quindi al Procuratore Nazionale Antimafia Grasso come mai a distanza di 18 anni ancora oggi nessuno ha ancora scoperto la verità sul duplice “omicidio-suicidio” di Gabriele Cagliari e Raoul Gardini e sulla catena di morti sospette e stragi che hanno insanguinato l’Italia, riaprendo la pista della Duomo connection di Falcone e Borsellino?

GARDINI E I PADRINI. A riguardo, riprendendo alcuni stralci di un articolo de L’Espresso, ricordiamo che pochi giorni dopo le rivelazioni di Leonardo Messina, primo mafioso a pentirsi dopo la strage di Capaci, che accettò di collaborare con il pm Paolo Borsellino, collegando gli investimenti e le attività di Cosa nostra con quelli dell’alta finanza italiana e del sistema dei partiti, quest’ultimo venne frettolosamente trucidato. Infatti, in quell’interrogatorio Messina, piccolo boss dalle rivelazioni sconvolgenti sulla rete planetaria di Cosa nostra, disse senza mezzi termini: “Totò Riina i suoi soldi li tiene nella calcestruzzi”. All’inizio venne verbalizzato con la ‘c’ minuscola, come se si trattasse di una qualunque fabbrica di cemento, ma l’uomo d’onore precisò subito: “Intendo dire la Calcestruzzi spa”. Ossia il colosso delle opere pubbliche, leader italiano del settore posseduto dall’ancora più potente famiglia Ferruzzi ma, secondo quel mafioso della provincia nissena, controllato in realtà dal padrino più feroce. Borsellino rimase colpito da quelle parole: all’indomani dell’uccisione di Giovanni Falcone aveva riaperto il dossier del Ros sul monopolio degli appalti. Una radiografia dell’intreccio tra cave e cantieri che costituisce il polmone di Cosa nostra: permette di costruire relazioni con i politici e con la borghesia dei professionisti, di creare posti di lavoro e marcare il dominio del territorio. E guadagnare somme sempre più grandi. “Ma se ci sono tante persone che possono riciclare qualche miliardo di lire”, dichiarò Borsellino all’indomani dell’interrogatorio di Messina, “quando bisogna investire centinaia di miliardi ci sono pochi disposti a farlo. Imprenditori importanti, di cui i mafiosi non si fidano ma non possono nemmeno fare a meno. È uno dei fronti su cui stiamo lavorando”. Il magistrato siciliano non ebbe il tempo di andare avanti: 19 giorni dopo fu spazzato via dall’autobomba di via d’Amelio. Un anno più tardi, anche Gardini uscì di scena. Due morti che, secondo la Procura di Caltanissetta, sono direttamente collegate. Per questo i magistrati nisseni riaprirono l’inchiesta sul suicidio di Gardini, a cui la moglie Idina Ferruzzi, non ha mai creduto, ripartendo da un’ipotesi, già percorsa invano con un’indagine ribattezzata ‘Sistemi criminali’ e chiusa con l’archiviazione: “dietro le stragi del 1992-93 ci sarebbe stata la volontà di Cosa nostra di impedire ogni inchiesta sul monopolio degli appalti”.

Ora, proseguiva L’Espresso, nel 2006, “i pm di Caltanissetta dispongono di fatti nuovi, alcuni ancora segreti, a partire dagli sviluppi nella ricostruzione dei rapporti con i Buscemi, padrini di Passo di Rigano: il feudo di Salvatore Inzerillo, a loro affidato da Totò Riina per la fedeltà dimostrata in guerra e in affari…”. “Già dieci anni fa si era scoperto che il Gruppo Gardini e i Buscemi erano sostanzialmente soci: ciascuno controllava il 50 per cento della Finsavi, creata per fare affari nell’isola. Poi nel ’97 la Compart, nata dal crollo della Ferruzzi, vende tutto a Italcementi. In Sicilia, però, secondo le indagini, le mani della mafia restano avvinghiate alla Calcestruzzi. Poco dopo finiscono in carcere il capomafia di Riesi, Salvatore Paterna, impiegato della Calcestruzzi Spa; Giuseppe Ferraro, proprietario della cava Billiemi e Giuseppe Giovanni Laurino, detto ù Gracciato, responsabile locale dell’azienda…”. Possono personaggi così provinciali custodire segreti che hanno sconvolto il Gotha della finanza italiana? Alcuni dei più importanti pentiti nell’ultimo decennio, tra loro Giovanni Brusca e Angelo Siino, hanno sottolineato come la questione del calcestruzzo fosse strategica per i corleonesi.

Anche Falcone e Borsellino si sarebbero mossi sulla stessa traccia. Nella richiesta di archiviazione dell’inchiesta ‘Sistemi criminali’ i pm scrivono: “Già le loro indagini nel 1991 avevano aperto scenari inquietanti e se fossero state svolte nella loro completezza e tempestività, inquadrandole in un preciso contesto temporale, ambientale e politico avrebbero avuto un impatto dirompente sul sistema economico e politico italiano ancor prima o contestualmente a Tangentopoli”. In ballo c’erano investimenti miliardari e relazioni fondamentali per il potere mafioso, che andavano difese a tutti i costi. Dopo le bombe che hanno eliminato i due migliori magistrati della storia del ns. Paese, pare che altre fossero pronte per l’ex P.M. Di Pietro, come rivelato dal pentito Maurizio Avola e a posteriori dallo stesso Di Pietro. Fino alla tarda serata del 23 luglio 1993, poco prima dell’inscenato suicidio, Gardini era deciso a presentarsi ai magistrati di mani pulite per rispondere alle accuse mossegli sulla megatangente Enimont e le relazioni tra il Gruppo Ferruzzi e il sistema dei partiti. Cosa che, all’epoca, riferirono i suoi stessi avvocati, con i quali “fino a poche ore prima aveva discusso della deposizione, mostrando la determinazione di sempre”. La mattina dopo, invece, Gardini viene trovato morto. Possibile, si interrogano i magistrati nisseni, che le pressioni di Cosa nostra abbiano pesato su questo gesto? Possibile che si sia trattato di un omicidio? I pm, prosegue L’Espresso, senza che sia mai stata data alcuna concreta risposta, chiedono alla Dia di usare ogni strumento per non lasciare dubbi. E di approfondire ogni possibile legame anche con la bomba di Milano, esplosa all’indomani dei funerali in via Palestro. Secondo gli atti del processo, gli attentatori sbagliarono bersaglio di alcune centinaia di metri. E Palazzo Belgioioso, residenza di Gardini, era poco lontano. “Tanti fantasmi siciliani”, a cui Sergio Cusani, fiduciario del sistema dei partiti, non ha mai dato stranamente credito, seppure fossero molto concreti e capaci di seminare morte: “La Calcestruzzi godeva di una autonomia assoluta perché Lorenzo Panzavolta l’aveva creata e la gestiva come un autocrate”, ha spiegato in un’intervista: “A un certo punto, dopo un attentato, saltò fuori il nome di questo Buscemi. Gardini fu molto seccato da questa storia e all’interno del gruppo si aprì un’inchiesta. Cusani ricorda che Panzavolta presentò Buscemi “come un manager dell’azienda comprata in Sicilia”. E descrive Gardini turbato, tanto da pensare di liberarsi dell’azienda: “Mi disse: ‘Vendo la Calcestruzzi e così vendo anche Panzavolta’”. Ma, conclude il settimanale L’Espresso: “Era qualcosa che Gardini poteva fare? Si poteva dire di no ai soci palermitani? E si poteva licenziare Panzavolta, l’ex comandante partigiano romagnolo che teneva i rapporti tra Ferruzzi e Pci, ma soprattutto gestiva i grandi appalti nazionali della famiglia di Ravenna? Da: “Gardini e padrini”, L’Espresso del 10/8/2006

Lettera aperta al C.S.M. e alla Procura di Palermo sulle bugie e i silenzi di Cusani. Agli interrogativi dei magistrati nisseni e del settimanale L’Espresso a distanza di oltre 5 anni la DDA non ha ancora risposto e neppure il C.S.M. e la Procura di Palermo alla lettera aperta del giornalista di Antimafia 2000, Antonio Bongiovanni, di cui pubblichiamo alcuni stralci, onde consentire ai lettori di comprendere come siano andate le cose e quanto ci sia ancora da scoprire dietro ai falsi suicidi di Gabriele Cagliari e Raoul Gardini, ovvero dietro ai torbidi rapporti tra alta finanza, mafia, sistema dei partiti, massoneria e capacità di condizionamento dell’attività giudiziaria. “Vorrei richiamare la vostra attenzione sulla notizia apparsa lo scorso 23 novembre sul Corriere della sera riguardante le informazioni rilasciate dal collaboratore di giustizia Angelo Siino relative alla collusione tra cooperative rosse e mafie in relazione al suicidio del ’93 di Raul Gardini. Le dichiarazioni del pentito circa le cause della morte del finanziere imputano la totale responsabilità del fatto alla mafia. Ciò contrasta con la tendenziosa smentita di Cusani che, ricordiamo, nell’ambito dell’inchiesta “Mani Pulite” fu condannato, per corruzione, a 4 anni di carcere. In qualità di giornalista mi permetto quindi di intervenire, focalizzando alcuni fatti rilevanti, per poter meglio chiarire la posizione di Sergio Cusani, del gruppo Ferruzzi – Gardini e del loro legame con i fratelli Buscemi di Cosa Nostra. Come abbiamo già pubblicato nel numero di maggio della rivista ANTIMAFIA Duemila, riportiamo integralmente le affermazioni inquietanti del direttore dello SCO, Alessandro Pansa, inerenti le cause della morte del Gardini: “Si grandi interessi economici in una realtà criminale come Cosa Nostra hanno come esigenza assoluta elementi di mediazione, di coloro cioè che mettono in contatto il criminale con il mondo economico. Se guardiamo al territorio nazionale, ad esempio, la Sicilia scopriamo che i collegamenti fra i livelli più bassi a quelli più elevati che si sono stabiliti tra il mondo economico e il mondo criminale sono stati quelli della politica. Nel momento in cui le inchieste del passato sono state mirate ad individuare questa relazione tra politica e mafia, senza considerare che il ruolo della politica era un ruolo intermedio, strumentale, non era lo scopo finale, si scopre forse anche il perché alcune inchieste sono fallite e il livello economico non è stato interamente perseguito, perché ancora oggi noi non ci siamo spiegati bene perché Calvi si è suicidato o è stato ammazzato, perché Sindona si è suicidato o è stato ammazzato e forse oggi sorge anche il dubbio di altri personaggi come Raoul Gardini che si è suicidato o è morto perché è morto” (tali affermazioni sono registrate in una documentazione audio, a disposizione della Magistratura). Riscontri importantissimi emergono dalle inchieste del P.M. della DDA di Palermo, Dott.ssa Franca Imbergamo, sui rapporti tra il gruppo Ferruzzi – Gardini della Spa in Sicilia e i fratelli Buscemi, capi di Cosa Nostra per il mandamento di Passo di Rigano – Boccadifalco di Palermo. Di particolare interesse è l’inchiesta riguardante la perizia legale fatta su alcune di queste società e il loro forte coinvolgimento con i Buscemi. La prima dichiarazione in assoluto fu quella del Dott. Falcone che nell 1989/’90 disse che “la mafia era entrata in borsa”, in coincidenza con l’ingresso, appunto in borsa, del gruppo Ferruzzi – Gardini. La conferma che Falcone fece riferimento a queste due organizzazioni ci arriva proprio dai suoi amici, detentori delle sue confidenze. Gli stessi elementi emergono in due requisitorie: quella del PM Luca Tescaroli per la strage di Capaci, che comprende le testimonianze di Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca e di altri collaboratori di giustizia, e quella dei P.M. La Palma e Nino Di Matteo per quanto riguarda il processo Borsellino. Concludendo, è ormai provato che i fratelli Buscemi (ai quali il Tribunale ha sequestrato centinaia di miliardi di capitali in beni immobili) collaboravano con il gruppo Ferruzzi – Gardini tramite Lorenzo Panzavolta. A dimostrazione di ciò che emerge dalle indagini della magistratura palermitana, risultano false e in cattiva fede le smentite dell’ex detenuto Sergio Cusani delle deposizioni del pentito Angelo Siino. Auspichiamo che i magistrati della DDA di Palermo, in particolare il procuratore Grasso, chiedano di interrogare Sergio Cusani e Lorenzo Panzavolta, come persone informate sui fatti, sulla questione degli affari della Ferruzzi – Gardini in Sicilia, per cercare di scoprire la verità sulle stragi che nel ’92/’93 hanno insanguinato l’Italia”. Da 10 anni, aggiungiamo noi, oggi, questi auspici e interrogativi devono ancora trovare risposta, malgrado le buone intenzioni del Procuratore Grasso che se ne va in giro per Tv a mostrare il volto gentile ma impotente del potere giudiziario (n.d.r.). Sant’Elpidio a Mare, lì 30 novembre 2000. In Fede: Giorgio Bongiovanni Antimafia Duemila.

Gardini e la telefonata misteriosa. «Eliminarlo è stato facile». Mesi dopo il suicidio alla polizia arrivò una intercettazione inquietante che tirava in ballo l'imprenditore e il figlio Ivan, scrive Alessandro Cicognani il 22/07/2018 su "corriereromagna.it. Domani saranno 25 anni esatti. Il 23 luglio, il giorno del Patrono di Ravenna, la mattina in cui Raul Gardini estrasse una Walter PPK dal suo comodino, la puntò verso se stesso e mise fine a una vita da leader. Per il “corsaro” della chimica, che aveva sfidato il salotto buono dell’imprenditoria italiana e la politica tutta, quel 23 luglio di venticinque anni fa non era affatto un giorno come tutti gli altri. Due appuntamenti si trovavano nella sua agenda. Nella tarda mattinata avrebbe preso parte ai funerali di Gabriele Cagliari, l’allora presidente dell’Eni che tre giorni prima si era suicidato con un sacchetto in testa nel carcere di San Vittore a Milano.

Una morte violenta quella del numero uno dell’Ente nazionale idrocarburi, ma di protesta. Un grido contro il pool di Mani Pulite e la misura del carcere preventivo, utilizzato per far confessare le menti delle tangenti alla politica che i magistrati Di Pietro, Davigo, Colombo e Greco stavano cercando.

La morte. A metà pomeriggio, in una caserma milanese, l’imprenditore ravennate sarebbe invece dovuto comparire proprio davanti ai pm, per il primo interrogatorio su quella che verrà poi definita la madre di tutte le tangenti: il caso Enimont. Ma a quei due appuntamenti, già lo sappiamo, Raul Gardini non andrà mai. Il suo corpo senza vita, dicono le indagini di allora, venne trovato verso le 8.30 dal maggiordomo di palazzo Belgioioso, che subito svegliò il figlio Ivan per dirgli dell’accaduto. Da qui in poi fu quasi solo confusione. Un rimbalzarsi di colpe che ancora oggi alcuni ritengano sia esplicativo di un suicidio quanto meno “misterioso”. I barellieri che portarono via il corpo di Gardini ritenendo che fosse ancora vivo, ma assicurarono agli inquirenti di non aver toccato la pistola. Maggiordomo e segretaria che diedero orari contrastanti sulla vicenda. La polizia che addirittura venne mandata nel posto sbagliato.

L’inquietante intercettazione. La morte di Raul Gardini venne archiviata dopo due anni come suicidio. Questa è la verità giudiziaria e non c’è motivo per metterla in discussione. Tuttavia oggi il Corriere Romagna è in grado di dare conto di un’intercettazione fortuita fino ad ora sconosciuta. È il 9 febbraio del 1994. L’imprenditore ravennate è morto da quasi sette mesi e il figlio Ivan ha preso il suo posto alla guida della Gardini spa. Una casalinga di Padova, L.A., alza la cornetta del telefono di casa per fare una chiamata. Da mesi sta segnalando alla società telefonica di avere un problema con la linea, dato che spesso le sue telefonate si bloccano e sente delle interferenze con altre chiamate. Quello che sente quella mattina è però da brividi e la fa scattare in piedi per dirigersi in questura. Una donna e due uomini stanno parlando, quando a un certo punto la donna afferma: «Eliminare Gardini è stato facile, per il figlio sarà un gioco da ragazzi». Domanda a cui uno dei due uomini risponde: «È già tutto pronto». Non è ovviamente chiaro se il senso di quel “eliminare” sia da attribuirsi a un contesto imprenditoriale o addirittura fisico.

Sentendo quei cognomi la donna capisce la gravità e corre alla polizia per denunciare il fatto. L.A. è deceduta nel 2007, ma la figlia ricorda benissimo quella telefonata. «Mia madre parlò poche volte a noi figli di questo episodio, perché si rendeva conto della gravità di quanto avesse sentito. Ricordo che era un periodo in cui, purtroppo, quando usavamo il telefono sentivamo delle interferenze. Ma, chissà perché, dopo che mia madre fece quella denuncia ci sistemarono subito il problema».

Ad oggi non è ancora chiaro se siano state fatte indagini su quella interferenza, il cui contenuto se fosse vero potrebbe riscrivere un pezzo importante della storia d’Italia. La questura di Ravenna, come risulta da una nota di servizio di quei giorni, tuttavia la ritenne abbastanza credibile da organizzare in tempi strettissimi un’intensificazione dei controlli fuori dalle abitazioni di Ivan Gardini. A questo si aggiunge un altro elemento inedito, raccontato dal capo delle guardie di sicurezza di Gardini, l’amico Leo Porcari. Si tratta delle telecamere di video sorveglianza che vennero fatte installare in tutto Palazzo Belgioioso. «Le installò una ditta di Venezia che le aveva messe anche a Cà Dario – racconta Porcari –, ma guarda caso quella mattina erano state spente. Perché?». La domanda forse non troverà mai risposta.

Raul Gardini, chi si suicida con due colpi? Scrive il 23 luglio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Matteo Cavezzali, Giornalista. Venticinque anni fa moriva Raul Gardini. Archiviata come suicidio, la sua morte sancì la fine di un’epoca. Era il 23 luglio 1993, quella mattina avrebbe dovuto testimoniare a Di Pietro e al pool di Mani Pulite sul più grave scandalo di corruzione mai avvenuto in Italia: “la madre di tutte le tangenti”, al centro di Tangentopoli. Ma a quell’incontro Gardini non arrivò mai. Quando la polizia arrivò sul luogo della sua morte non c’era più niente. Il corpo era scomparso, anche le lenzuola del letto. Rimaneva solo un materasso intriso di sangue, e una pistola, posata sul comodino da cui mancavano due proiettili. Chi si suicida con due colpi? Pensarono in molti. Chi guadagnò qualcosa da quella morte? Da quel silenzio? Molte persone. Troppe. Facciamo un passo indietro. Nel luglio 1993 da poco più di tre anni era caduto il muro di Berlino, il comunismo aveva cessato di esistere come orizzonte politico. L’Italia era stata il paese del blocco occidentale in cui il partito comunista era più forte, e aveva addirittura rischiato di finire al governo. Ma ormai il “pericolo rosso” non faceva più paura, nemmeno a Washington. I sistemi di “protezione dal comunismo” si allentarono, e questo favorì il nascere dell’inchiesta Mani Pulite, e gli permise di manifestarsi con tutta la sua forza devastante. In pochi mesi Tangentopoli fece scomparire il sistema politico che aveva governato l’Italia dalla fine della Seconda guerra mondiale fino a quel momento. La Democrazia cristiana implose, il primo presidente socialista, Bettino Craxi, fu costretto a fuggire e nascondersi in Tunisia. I sistemi di potere economico e massonico, allarmati da quel sisma, si misero a lavorare nell’ombra per non perdere terreno. La mafia intanto metteva le bombe, uccideva e terrorizzava, perché aveva paura di rimanere senza più appoggi nello Stato. In mezzo a tutto questo c’era un uomo, uno dei più potenti e ricchi imprenditori del paese: Raul Gardini, che rimase stritolato in questo terribile gioco di potere. Morì improvvisamente, il “Re di Ravenna”, il cui impero andava dagli USA alla Russia passando per il Sud America, e con sé portò molti misteri che rimarranno per sempre senza nome e senza volto. Partendo da questa vicenda ho scritto “Icarus. Ascesa e caduta di Raul Gardini”, appena pubblicato da minimum fax. Credo che, dopo 25 anni, sia giunto il momento di raccontare questa storia da un altro punto di vista. Eccone un piccolo estratto. «Ci sono mille modi di raccontare una storia. Soprattutto una storia che ha contorni sfocati e molti punti poco chiari. Una storia torbida in cui colpevoli e vittime hanno la stessa faccia. Chi racconta una storia decide i ruoli e assegna le parti. Ho sentito parlare della vicenda di Gardini da decine di persone, e ognuno raccontava una storia completamente diversa. Colpevole o vittima? Inebriato dal potere o incastrato da un complotto? Visionario o pazzo? Sognatore o assetato di denaro? A Ravenna tutto è un mosaico, ma a differenza di quelli bizantini, che visti da lontano tratteggiano volti di imperatori e santi, questo mosaico è molto più ambiguo. Ci sono dentro sia imperatori che santi, ma è difficile, quasi impossibile, identificarli. A Sant’Apollinare Nuovo, la basilica di culto ariano fatta costruire tra il V e il VI secolo da Teodorico, re degli Ostrogoti, è rappresentato il palazzo di Teodorico con la sua corte. Quando nel 540, dopo la morte di Teodorico, i bizantini riconquistarono Ravenna, non distrussero la chiesa, troppo bella per essere data alle fiamme, ma la convertirono al culto cattolico. Cancellarono dalla città tutti i segni dei precedenti dominatori. Tolsero Teodorico e i suoi uomini dal mosaico, tessera dopo tessera, sostituendoli con tasselli neri. Però l’operazione fu fatta in velocità, in maniera grossolana. Così, ancora oggi, se si guarda bene tra le colonne di quel palazzo deserto, si possono vedere spuntare una mano, un braccio, un’ombra. È ciò che rimane di quello che era e che si è voluto dimenticare. Senza però riuscirci completamente».

L'INTERVISTA di Federica Angelini del 21 luglio 2018 su "Ravennaedintorni.it". Tra narrazione e indagine, la parabola di Raul Gardini e di un’epoca. In libreria Matteo Cavezzali con Icarus, a metà tra romanzo e inchiesta: «È stato un momento di passaggio, in cui la città è stata capitale per poi tornare di colpo invisibile». È in libreria dal 5 luglio il primo libro di Matteo Cavezzali, classe 1983, per noi innanzitutto uno storico collaboratore, diventato negli ultimi anni anche l’apprezzato direttore artistico della rassegna “Il tempo ritrovato” e del festival “ScrittuRa”, l’uomo insomma che sta portando in città le firme nazionali e internazionali del mondo editoriale. E ora si trova per la prima volta in veste di scrittore, con un libro, Icarus, che sta a metà tra la cronaca e la fiction, con cenni autobiografici. Su un tema destinato a suscitare molta attenzione, sicuramente in città, ma non solo: la vicenda di Raul Gardini, a 25 anni dalla morte avvenuta il 23 luglio 1993. L’editore è Minimum Fax, combattiva casa editrice romana nota per lo straordinario catalogo e la qualità della proposta. Non potevamo che approfittarne per intervistarlo, anche perché, premessa necessaria, il libro è un interessante mix di registri, orchestrato in modo da creare suspense senza rinunciare alla profondità dell’analisi, a tratti anche molto divertente, decisamente appassionante. E oltre a raccontare la parabola di un uomo, comunque la si pensi, fuori dall’ordinario, soprattutto ricostruisce il clima di un’epoca di passaggio cruciale.

Matteo, quale urgenza ti ha spinto a scrivere un libro su Raul Gardini?

«È una storia che mi ha sempre affascinato, credo che delle vicende che sono successe a Ravenna negli ultimi anni, dal Dopoguerra a oggi, sia quella che ha colpito l’immaginario di tutti, una parabola fulminante che ha portato la città agli apici del mondo per poi farla risparire dalle mappe, dopo la sua morte».

Su Gardini sono state però già scritte tante cose in questi venticinque anni…

«Sì, soprattutto cose saggistiche, mancava invece una narrazione romanzesca della vicenda. Mi sembrava che si fosse cercato sempre di afferrare qualcosa che però non era afferrabile con gli strumenti della cronaca».

Il tuo libro è di fatto un ibrido, in effetti, dove c’è una parte di inchiesta che ricostruisce fatti, alternata a parti (in corsivo nel testo) dove invece sei tu a immaginare dialoghi, incontri, situazioni. Un mix a cui non siamo troppo abituati da queste parti, come ci hai lavorato?

«Da molto tempo volevo fare qualcosa su Gardini, ma non sapevo da che parte prendere questa storia, perché è una vicenda con buchi e zone buie in cui non si sa cosa sia successo, ma senza i quali la storia non fila, non torna. Allora ho pensato di colmarli con il romanzo inventando alcuni passaggi che potessero rendere comprensibile questa storia. E ho anche deciso che dentro dovevano starci tutti i punti di vista, anche i pezzi dissonanti tra loro, in modo da permettere al lettore di farsi un suo percorso e una sua idea. In Italia operazioni così non sono molto frequenti, ma per esempio in Sudamerica con il “realismo magico” la narrativa sta raccontando tante verità mai venute a galla, come quella dei desaparecidos».

Tra i misteri naturalmente che avvolgono la vita di Gardini c’è quello sulla morte. C’è chi non ha mai creduto all’ipotesi del suicidio. Nel libro ne parli diffusamente ma non sembri prendere posizione. Anche se emerge chiaramente che l’indagine è stata per lo meno affrettata…

«Quando è arrivata la polizia non c’era più niente, neanche il cadavere. E oggetti come l’arma del delitto erano stati spostati. Come si fa a fare un’indagine? Ed è stata sicuramente chiusa in tempi molto rapidi. Evidentemente c’era la fretta di non creare un caso che potesse bloccare le altre inchieste».

Tu metti quella di Gardini in fila con altre quattro morti…

«Sì, in una serie di cinque morti collegate in quegli anni, tutti o suicidi che non erano tali o morti naturali che non sembravano naturali. Di questi cinque almeno di tre siamo quasi sicuri che fu una messa in scena. Volevo tenere aperte tutte le piste su come potrebbe essersi svolta quella mattinata e una cosa è sicura, da quella stanza sono passate molte persone quella mattina, che hanno preso documenti».

Siamo all’epoca in piena tangentopoli, Gardini doveva essere proprio quel giorno ascoltato da Di Pietro…

«Sì, si è trattato di un passaggio storico per il nostro paese e credo che sia una vicenda che valga la pena riscoprire perché in quel momento tutte le trame peggiori e i complotti sono giunti al pettine».

A un certo punto si ipotizza che tutto avvenga perché crollato il muro di Berlino non ci sia più timore che i comunisti vadano al potere. Credi davvero nello zampino della Cia?

«Secondo me non può essere un caso che tutto avvenga proprio in quel momento. Un sistema finisce nel momento in cui non serve più».

Dopo Mani Pulite andò al potere Berlusconi. Come sarebbe stata l’Italia se invece Gardini fosse sceso in campo?

«Gardini ha anticipato l’antipolitica: lui detestava i politici e per questo molti lo amavano. Riusciva a fare cose nonostante la politica, se fosse sceso in campo lui non è difficile immaginare che avrebbe preso molti voti e forse, chissà, avrebbe puntato sull’innovazione. Avrebbe anche avuto uno sguardo internazionale che i politici di oggi non hanno. Certo avrebbe anche lui avuto un notevole conflitto di interessi…».

Eppure, come provi a ricostruire, lui è considerato colpevole di aver pagato quella che fu definita la madre di tutte le tangenti. Come è possibile che anche qui in città, più passa il tempo e più assistiamo a un processo quasi di beatificazione?

«Allora Di Pietro era un idolo popolare, oggi che Di Pietro è finito in disgrazia, non c’è più quel conflitto e per la città resta solo la parte migliore di Gardini. Però a livello narrativo e forse celebrativo credo che per rendere giustizia a una figura bisogna ricordare anche gli aspetti negativi, per evitare di creare santini che hanno poco a che fare con ciò che è stato».

Tu per esempio ricordi sentenze che vedono Cosa Nostra coinvolta nella Calcestruzzi, il ruolo dell’Opus Dei nello smistare le tangenti e arrivi a ipotizzare addirittura un’affiliazione di Gardini alla massoneria, pur senza convinzione…

«Era un momento in cui si era capito che sarebbe cambiato l’equilibrio di poteri e tutte le forze volevano riposizionarsi, sono momenti pericolosi nessuno si sente al sicuro e quindi è facile che persone scompaiano e muoiono. Diciamo che a Ravenna la massoneria ha sempre avuto un ruolo determinante nella vita pubblica e un’influenza nazionale forte e non è impossibile che un personaggio di grande rilievo non sia stato avvicinato da questa realtà. Paolo Mondani, giornalista di Report, mi ha fatto notare che c’erano alcuni elementi in tutta la vicenda che portò alla morte di Gardini che sembravano segnali rivolti a un pubblico di affiliati. E quindi ho immaginato che questo contatto fosse avvenuto. Ma mi sono anche fatto l’idea che Raul Gardini fosse un uomo molto solitario, che difficilmente faceva cose con altri, era uno che si metteva in relazione con i poteri che avrebbero potuto aiutarlo o danneggiarlo, ma senza perdere la propria indipendenza. E questo del resto l’ha portato alla fine tragica».

Una fine tragica e misteriosa è stata anche quella di Serafino Ferruzzi, suocero di Gardini, colui che davvero costruì dal nulla un impero.

«Sì, le analogie con quella di Mattei, di cui condivideva molte idee, sono evidenti. Forse si è capito davvero che impero fosse il suo solo alla sua morte, perché Serafino Ferruzzi era l’opposto di Gardini. Non rilasciava interviste, non amava la visibilità. Forse Raul invece aveva così bisogno di apparire anche per dimostrare di meritare quel ruolo che gli era capitato improvvisamente».

In comune hanno però avuto la scelta di mantenere a Ravenna il cuore dei loro imperi.

«Sì, ma secondo me per ragioni diverse. Ferruzzi era un uomo all’antica che teneva alle sue abitudini, voleva dormire nel suo letto. Gardini invece forse amava come qui la città girasse attorno a lui, di fatto».

Nel libro racconti anche il tuo lavoro di indagine. Dove speravi di arrivare e non sei arrivato?

«Sicuramente nel fatto di non essere riuscito a intervistare alcuni testimoni. Panzavolta, per esempio (della Calcestruzzi Spa, ndr), che fu fermato dall’avvocato. E soprattutto la moglie, Idina. Credo abbia preferito non incontrarmi da un lato per il dolore di una esperienza che è stata per lei devastante, dall’altra forse c’è anche il timore di ritirare fuori questioni che possono creare problemi e vecchi fantasmi».

Tra i momenti di alleggerimento del libro ci sono i camei autobiografici, in fondo avevi 10 anni quando Gardini morì.

«Il senso di quegli inserti è far capire che anche l’ultimo dei ravennati è stato toccato da quei macro avvenimenti, non basta ignorarli perché non ti riguardino».

Raul Gardini. Era un raider, fu travolto da poteri più forti di lui. Ravenna vada oltre il rimpianto, scrive Roberta Emiliani Giovedì 19 Luglio 2018 su "Cervianotizie.it. Intervista allo storico Andrea Baravelli sulla vicenda e sulla figura di Raul Gardini in rapporto a Ravenna, a 25 anni dalla morte. Sono trascorsi venticinque anni dalla morte di Raul Gardini, ma il mito di questo imprenditore che ha posto fine ai suoi giorni nello stesso giorno del patrono della sua città, il 23 luglio 1993, a Ravenna è ancora intatto. Per chi l’ha conosciuto ma anche per molti che hanno semplicemente seguito le sue vicende da lontano, Raul Gardini è stato un imprenditore di successo, pieno d’intuizioni, oltre che un personaggio che ha dato lustro alla città. In questi giorni in cui Ravenna si appresta a ricordare l’anniversario di quella morte tragica e per molti versi ancora piena di misteri, abbiamo cercato di rileggere la vicenda di Raul Gardini in una chiave un po’ diversa, non celebrativa, cercando di mettere in luce luci e ombre della sua figura, con le sue varie sfaccettature, con uno storico, il professor Andrea Baravelli. Baravelli e il collega Alessandro Luparini, fra l'altro, hanno ricostruito in un libro sull’esperienza di sindaco di Pier Paolo D’Attorre negli anni immediatamente successivi alla morte di Gardini e al crack del Gruppo Ferruzzi. Incontriamo il professor Baravelli in un afoso pomeriggio nel bar pasticceria che si affaccia sui portici di Piazza San Francesco. Proprio a due passi da qui, nella basilica che dà il nome alla piazza, 25 anni fa si svolsero i funerali di Raul Gardini. Allora la piazza e il portico erano gremiti di persone: accorsero in migliaia per l’ultimo saluto a Raul.

“Quando si parla di Raul Gardini - esordisce il professor Baravelli - si finisce sempre per oscillare tra un mito iperpositivo e la decontestualizzazione, come se tutto si riducesse a Ravenna, come se non esistesse altro fuori dai nostri confini. In realtà la storia di quegli anni ci racconta qualcosa di diverso anche su Ravenna”.

Proviamo a raccontarla allora questa storia.

“Gardini fu un raider (lo chiamavano il Corsaro, ndr), una persona che rischiò tantissimo sapendo che si stava mettendo contro il sistema. Lui ha avuto un grande successo, che alla fine ha pagato caro. Perché, come per tutti i raider, o la va o la spacca. Gardini, a un certo punto, si trovò con un’esposizione spaventosa nei confronti delle banche e chiese alla politica di dargli una mano per risolvere il problema”.

Una delle tesi che hanno contribuito alla costruzione del mito positivo di Gardini è che lui sia stato fagocitato dal sistema dei partiti, cioè che sia stato una vittima di questo sistema.

“Io non la vedo così: dal momento che decide di addentrarsi in certe dinamiche di potere, Gardini non può non essere consapevole delle regole del gioco. Gardini non è stato un imprenditore sconfitto dalla politica, ma un raider che, come ho detto, ha rischiato tantissimo consapevole di quelle che erano le regole in quel momento. Non riesce però a rapportarsi ad esse, tanto che ad un certo punto chiede alla politica di salvarlo. Ma la politica nel 1991 e 1992 è una politica ormai debole, che non può proteggerlo come avrebbe potuto fare in un altro momento, o non può piegare le regole economiche come aveva fatto per altri solo pochi anni prima. Qui sta forse l’errore di prospettiva finale di Gardini. Negli anni Novanta si consuma la fase finale della destrutturazione dell’autorevolezza dei partiti che continuano ancora ad esistere come forma, ad andare avanti per un decennio, ma ormai la credibilità l’hanno persa”.

Gardini non è solo rimasto nel cuore di molti ravennati, ci sono personaggi importanti della vita economica e culturale italiana che hanno avuto un rapporto importante di stima e affetto con lui.

“Gardini è stata una persona indubbiamente di grande fascino, un imprenditore con molte qualità. Aveva un progetto industriale intelligente ma che poteva avverarsi solo se si avverava anche il progetto finanziario. Gardini, secondo me, è uno dei primi imprenditori che capisce l’importanza della comunicazione. Prima di lui c’è solo Berlusconi in Italia che ha la capacità di legare la sua vita privata alla costruzione del personaggio. Con una differenza: Berlusconi riesce ad ottenere quello di cui ha bisogno in un momento in cui la politica può ancora difenderlo, ma soprattutto ha ben chiaro il fatto che un imprenditore moderno, se non ha una grande tradizione di famiglia alle spalle, deve essere un personaggio pubblico. Gardini questo lo ha capito. Io vedo nell’ostentazione delle sue origini, nell’aver portato a Ravenna e in altre città della Romagna la redazione del Messaggero, nel suo impegno per fare tornare grande il volley ravennate, la costruzione della sua diversità. C’è una logica di comunicazione interna, tutta proiettata su Ravenna. Ricordo in quegli anni la forte presenza e anche l’invadenza, sul piano locale, di Gardini, del suo Gruppo e degli industriali, che in quel momento si raccontavano anche come potere alternativo al potere politico della città. C’è a Ravenna un imprenditore con idee originali, che non si mischia agli altri imprenditori, ha il suo elicottero privato che lo porta su e giù… Questa la narrazione. Sì, secondo me c’è una scelta comunicativa molto moderna da parte di Gardini da questo punto di vista”.

Se lei come storico volesse scrivere un libro su Raul Gardini, da dove partirebbe?

“Partirei proprio da qui, da Ravenna e dal mito di Gardini. A me Gardini interessa ancor più che come imprenditore, per questa sua capacità di creare un mito che resiste nel tempo, il mito di un personaggio che in un territorio come quello ravennate finisce per diventare il genius loci”.

Un mito che, dicevamo, è ancora vivissimo.

“Certo. Se uno pensa ad un ravennate famoso dice Gardini, non ti viene in mente nessun altro. A me piacerebbe indagare i meccanismi della costruzione di quel mito, quando Gardini era ancora in vita e poi la sua trasformazione nel corso degli anni. Il mito di Gardini è qualcosa di molto ravennate, ma da Ravenna non c’è l’eco. Fuori dalla nostra percezione, Gardini è uno dei protagonisti di Mani pulite. Più famoso di Cusani, diverso da Chiesa, ma viene percepito come un protagonista della vicenda di Mani pulite. Punto. Non è altra cosa. Questo dovrebbe farci pensare”.

Continuando in questa chiave di lettura per molti ravennati l’era Gardini ha rappresentato il massimo, il punto più alto per la nostra città. Ravenna era capitale e adesso è tornata palude.

“No, no, non è così. È la nostra percezione di ravennati di essere stati una capitale in quel momento. La favola di Gardini è una favola che nasce nella prima metà degli anni Ottanta e finisce nei primi anni Novanta. Questi sono anche gli anni di massimo splendore della tv commerciale. Sono gli anni di Dallas se vogliamo prendere un archetipo di quella tv. Il momento d’oro della parabola di Raul Gardini coincide con il periodo più prospero degli anni Ottanta, un momento in cui il nostro Paese si illude di aver messo da parte gli anni Settanta e la crisi. Ricorda quando Craxi diceva che avevamo superato l’Inghilterra come potenza industriale? Dal 1984 al 1989 l’Italia è un paese che sembra lanciatissimo. A questo si aggiunge la presenza di Gardini a Ravenna: l’idea che i ravennati si fanno è quella di Raul Gardini portatore di grande ricchezza”.

Invece, secondo lei non è così.

“Anzi, nel momento cui tutto è finito ha tolto molto e quando finisce il sogno ti senti perduto ancora di più. A questo proposito ricordo le parole molto dure dell’allora sindaco Pier Paolo D’Attorre, parole che furono accolte malissimo da gran parte dei ravennati”.

Parole che molti non hanno ancora digerito.

“D’Attorre scrive in quelle settimane in maniera molto lucida relativamente al fatto che alla comunità ravennate serve una sferzata di orgoglio, serve qualcuno che dica: ce la faremo egualmente e non finisce nulla”.

In particolare la famosa frase di D’Attorre “Ravenna non è in ginocchio” venne letta come l’incapacità di riconoscere la gravità del momento, fu interpretata quasi come un “atto di lesa maestà”.

“Invece Pier Paolo D’Attorre aveva perfettamente ragione. Da grande storico economico qual era, avendo svolto studi approfonditi sul territorio, sapeva benissimo che il tessuto economico ravennate era solo in minima parte Gardini. All’epoca c’era un sistema cooperativo forte, c’era ancora un’industria chimica che reggeva. C’erano insomma le possibilità di poter superare quel momento di difficoltà provocato dal crollo del Gruppo Ferruzzi. Però l’esortazione di D’Attorre a reagire fu sentita come uno schiaffo, fu vissuta come l’incapacità di provare empatia nei confronti di un dolore terrificante che l’intera comunità ravennate stava provando. Un conto però è provare empatia per l’uomo. Un conto inquadrare il personaggio storicamente per quello che è stato e ha fatto”.

Approfondiamo questo aspetto.

“Ho letto un libro di Claudio Martelli, molto bello, molto franco. Martelli scrive che il progetto di Gardini era in realtà un ottimo progetto. L’idea di una Montedison capace di sviluppare un percorso di chimica di eccellenza mettendo in un angolo l’Eni che aveva un altro core-business, l'idea di strapparne il 40 per cento per riportarlo all’interno della galassia Montedison era un ottimo progetto. Dopodiché è lo stesso Martelli che dice che Gardini non fa i conti con il fatto che l’Eni è un’impresa di Stato ed ha la politica pronta a difenderla con le unghie e con i denti. Gardini non poteva non esserne consapevole. Il grande imprenditore si deve rendere conto che non sta dando l’assalto alla borsa di Chicago. Quante volte Gardini dice: abbiamo conquistato la borsa di Chicago. Un conto è fare la grande impresa in un mercato come quello americano. Un’altra cosa è cercare di fare lo stesso in una situazione come quella italiana, che ha ben altre regole. La mia sensazione è che la debolezza imprenditoriale di Gardini sia stata quella di sottovalutare la forza di interdizione che il sistema economico e politico che faceva riferimento all’industria di Stato aveva la capacità ancora di produrre. E dal momento che Gardini non riesce a raggiungere il suo scopo, arriva la tragedia. Lui deve uscire da una situazione in cui non riesce a rastrellare quel 40 per cento, in cui non riesce a diventare la chimica sono io, come disse”.

Sulla vicenda Enimont s’innesca quella che è stata ribattezzata la madre di tutte le tangenti.

“Che negli anni Ottanta l’utilizzo delle tangenti fosse generalizzato questo lo sappiamo, non è solo senso comune. Una cosa però è la tangente generalizzata che opera su settori privati, una cosa è la tangente che riguarda l’industria di Stato. In quest’ultimo caso non sono soltanto soldi che devi pagare ai politici, ma la tangente è anche legata alla funzionalità che quel settore ha ai fini della politica. Mi spiego: Gardini non avrebbe mai potuto pensare in quelle condizioni di potersi portare via un pezzo dell’economia di Stato solo pagando. Quella parte dell’economia di Stato era anche potere”.

Gardini, Cuccia, Mediobanca.

“Quando si parla del rapporto di Gardini con Mediobanca quest’ultima sembra sempre un po’ come la Spectre, ma in realtà Mediobanca è il capitalismo italiano. Mediobanca è stata dalla metà degli anni Cinquanta fino al Duemila il simbolo del capitalismo italiano che è stato o un capitalismo di Stato, fintanto che è esistita l’IRI, oppure un capitalismo familiare, con le grandi famiglie che usavano Mediobanca come uno strumento di controllo del mercato finanziario. Alla fine Gardini viene travolto da quelli che sono poteri più forti di lui, perché Mediobanca e Cuccia hanno cinquant’anni di potere relazionale sulle spalle”.

Mistero è il termine più usato, per non dire più abusato quando si parla della tragica vicenda di Raul Gardini. Il mistero, è tesi piuttosto diffusa, avvolge il suo suicidio come quelli di Cagliari e di Sergio Castellari.

“Come storico io mi occupo soprattutto degli anni Settanta e di terrorismo e anche quando si affrontano quelle pagine della storia del nostro Paese si è costruito un genere complottistico, per cui tutto ciò che non rientra in uno schema, tutti i buchi di una ricostruzione vengono utilizzati come prova di una manchevolezza e vengono riorganizzati in una ricostruzione appunto di tipo complottistico. Questo è avvenuto, secondo me, anche nella vicenda di Gardini. Su questo versante io sono sempre molto scettico: mi devi dimostrare, atti giudiziari alla mano, che le inchieste sono state fatte con la volontà di non arrivare alla verità. In particolare sul fatto che Gardini possa essersi suicidato oppure no: lui era in attesa di alcuni documenti che, a suo parere, avrebbero dovuto in un qualche modo giustificare la sua condotta. Il giorno dopo avrebbe dovuto recarsi da Di Pietro. Quei documenti non gli arrivano: non mi sembra così improbabile che l’eventualità di presentarsi a Di Pietro senza quei documenti e di uscire dagli uffici della Procura di Milano in manette possa avere indotto un uomo come Gardini a quella tragica decisione. Io sono convinto che adesso, dopo 15, 20 anni di devastazione dell’immagine pubblica, se un politico o un manager venisse portato via in manette dall’ufficio di un magistrato non si suiciderebbe, almeno questa è la mia convinzione. All’epoca invece era un brutto colpo da un punto di vista psicologico per uno come Gardini, cioè un imprenditore che si è costruito un’immagine da vincente. Comprendo benissimo che chi gli era vicino faccia fatica a credere al suo suicidio, ma a me non sembra così improbabile”.

Torniamo a Ravenna: cos’hanno veramente rappresentato gli anni di Gardini per la nostra città? E che cosa è rimasto?

“Secondo me hanno rappresentato un momento di grande euforia collettiva: è stato un po’ come vincere i mondiali di calcio. Ravenna in realtà non è cambiata rispetto a com’era in quegli anni. La presenza di Gardini e la sua morte hanno funzionato dagli anni Novanta in poi come una sorta di giustificazione per un’inerzia che è tale da sempre. L’imprenditoria privata c’è a Ravenna: si vede? Ha mai avuto un ruolo pubblico, è stata in grado di uscire fuori dal piccolo recinto della provincia? Il periodo d’oro di Gardini è stata una parentesi e poi dopo ha funzionato in negativo. Il ricordo nostalgico di Gardini, di quegli anni di grandeur, alla fine è stato un male per Ravenna perché ha giustificato il fatto che si può rimanere così, nell’aurea mediocritas. Uscire dalla mediocrità significa mettersi di fronte a rischi che non vuoi correre, oppure esci dai confini territoriali come ha fatto la Cmc. Se vuoi essere un grande player devi trasformarti in un grosso soggetto globale. Ma siamo un territorio che non ha una grande tradizione industriale. Cosa è rimasto di Gardini a Ravenna? Del rimpianto, certo, ma dopo 25 anni sarebbe il caso di andare oltre questo rimpianto”. A cura di Roberta Emiliani

Il Moro di Venezia: la barca più amata dagli italiani. Vi abbiamo chiesto di indicarci in un sondaggio online quale fosse per voi la barca mito della storia della vela: non avete avuto dubbi. Il Moro di Venezia, a 25 anni dalle sue imprese, scalda ancora gli animi. Vi raccontiamo, con l'aiuto di due "moristi" di eccezione (Dudi Coletti e Max Procopio) di come il sogno del “Comandante” Raul Gardini divenne quello di un paese intero: e di come nei bar, nel 1992, si parlasse di bompressi invece che di calcio, scrive il 21 ottobre 2017 La Redazione di "giornaledellavela.com". Non avete avuto dubbi. Non c’è Azzurra né Luna Rossa che tenga. Il Moro di Venezia, a 25 anni dalla storica vittoria della Louis Vuitton Cup di San Diego e dalla finalissima di Coppa contro America3, è la barca che vi suscita le emozioni più grandi. E che avete eletto come “più mitica di tutte” nel sondaggio che vi abbiamo proposto sul nostro sito. Mentiremmo se dicessimo che il risultato ci ha sorpresi. La saga del Moro è ancora vivissima nel nostro cuore. Grazie a Raul Gardini, l’imprenditore romagnolo il cui sogno (quello di strappare la “vecchia brocca” agli americani) divenne quello di tutti gli italiani. Che si scoprirono all’improvviso velisti, che mandarono i propri figli alle scuole di vela, che sostituirono nei loro discorsi da bar gol e traversoni con bompressi e strambate. Grazie al gruppo affiatato e competente che il Comandante (uno dei soprannomi affibbiati al tycoon ravennate) seppe creare e che, al giorno d’oggi, influenza la vela mondiale in ogni sua branca: velai (Guido Cavalazzi, Davide Innocenti), progettisti e tecnici (German Frers, Claudio Maletto, Roberto Biscontini, Giovanni Belgrano solo per citarne alcuni), regatanti (Paul Cayard, Andrea Mura, Cico Rapetti, Lorenzo Mazza, Tommaso Chieffi), dirigenti (Enrico Chieffi, Marco Cornacchia), professionisti del mare (Max Procopio, Dudi Coletti). Grazie alle barche gloriose che portano questo nome sulla poppa, otto per la precisione (tre maxi e cinque IACC – International America’s Cup Class), che ancora oggi navigano sparse per i mari del mondo. “Al giorno d’oggi i miti rimangono in piedi per poco tempo, fagocitati dal turbine del web e dei social”, ci ha raccontato Max Procopio, che sul Moro fu imbarcato come grinder, “allora non fu così. Il Moro di Venezia rimase nell’immaginario collettivo a lungo, come a lungo restò sulle pagine dei giornali, italiani ed esteri”. Il contesto storico era propizio: la prosperità, i soldi che giravano, la convinzione che l’Italia fosse la “settima potenza” del mondo. E un uomo che incarnava lo spirito dei tempi, Raul Gardini, visionario e abituato a rischiare. Come a livello imprenditoriale (si distinse per uno “stile” fatto di colpi di genio, acquisizioni, monopoli, che trasformarono il gruppo agricolo di Serafino Ferruzzi, suo genero, in un impero industriale, la Montedison), così nella vela. “Quando parlavi con lui”, rivela Procopio, “tutto ti sembrava semplice, anche la più impossibile delle imprese”. Era un buon velista, il ravennate: dalle prime piccole derive in gioventù era passato ai Finn, poi all’altura su barche progettate da Dick Carter: l’11 metri Blu Optimist, l’Orca43, di 13 metri e mezzo, con cui vinse il Campionato del Mediterraneo 1971, il 15 metri Naif in lamellare con cui prese parte all’Admiral’s Cup del 1973. Poi l’incontro con Frers, all’epoca assistente dello studio Sparkman & Stephens, che seguì la progettazione del primo maxi in legno lamellare che avrebbe portato quel nome mitico, il Moro di Venezia: era il regalo di Serafino a lui e al cognato Arturo Ferruzzi per i loro risultati a livello imprenditoriale. Era il 1975. La grande saga del Moro era appena iniziata. Dopo la morte di Serafino Ferruzzi, per un incidente aereo, nel 1979, gli eredi affidarono a Gardini il futuro dell’azienda e il Comandante iniziò la sua ascesa. Intanto, nel 1983, un altro Maxi affiancava il gioiello di Frers, Il Moro di Venezia II. Proprio nell’anno in cui l’Avvocato Agnelli aveva fatto il grande passo, promuovendo la prima sfida italiana di Coppa America, Azzurra, che giunse alle semifinali della Louis Vuitton e fece conoscere la vela nel nostro paese. Non possiamo sapere con precisione quando si accese il “lumino” nella testa di Gardini, ma sicuramente un momento chiave è il 1984, quando la figlia Eleonora, in vacanza a Porto Cervo, assiste alla Sardinia Cup e all’impresa di un giovane americano, Paul Cayard, che arrivato in fretta e furia per sostituire al timone Lorenzo Bortolotti su Nitissima, 50 piedi di Nello Mazzaferro, stravince la regata. Gardini volle conoscerlo per testarne il talento, l’occasione fu a Palma di Maiorca in regata sul Moro di Venezia II. Si piacquero: dal 1984 al 1992, Cayard fu a bordo di quasi tutte le barche di Gardini, il quale non ebbe dubbi quando si trattò di scegliere lo skipper per la campagna di Coppa. Paul Pierre Cayard, classe 1959, da San Francisco. Ottimo helmsman, starista di livello, ma soprattutto forte di un talento gestionale che spingerà Gardini a commissionargli anche il difficilissimo incarico di general manager dell’operazione. Ma il problema della nazionalità? Secondo il Deed of Gift, il regolamento della Coppa, la barca avrebbe dovuto timonarla un italiano. Per Gardini, abbiamo detto, nulla era impossibile: Cayard, dopo aver firmato un contratto da 200 milioni di lire l’anno (“guadagno come un giocatore medio di NBA, confessò all’equipaggio una volta”, racconta Procopio) prese la residenza a Milano. Adesso bisognava occuparsi delle barche e del team, dopo che nel novembre del 1988 la sfida, sottoscritta dalla Compagnia della Vela di Venezia, era stata consegnata a San Diego. Per le prime, con un’operazione da cinquanta miliardi, venne fondato a Marghera, davanti ai capannoni Montedison il cantiere Tencara, in cui confluirono le aziende della holding capitanata da Gardini con il loro know-how. Un polo di eccellenza tecnologica, che avrebbe fatto capire agli americani e al mondo intero che l’Italia non era soltanto il paese di pizza, spaghetti e mandolino. Le selezioni dell’equipaggio furono dure: “La filosofia di Raul, riguardo all’equipaggio”, spiega Procopio, “era quella di creare un gruppo di persone solido, senza che ci fossero troppi ‘galli nel pollaio’. Le selezioni del team partirono a Venezia a bordo dei Maxi di Gardini nel 1989-90: Cayard si fece aiutare dai fratelli Chieffi. Era una vita dura, fatta di sacrifici: molti gettarono la spugna”. Intanto, con una cerimonia sontuosa nel cuore di Venezia, a marzo del 1990 venne varato il primo Moro di Venezia IACC e iniziarono i test. L’entourage si spostò a giugno a Puerto Portals, a Palma di Maiorca, dove le condizioni meteo avrebbero dovuto rispecchiare meglio quelle di San Diego. Ad agosto arrivò anche Il Moro di Venezia II, mentre il 19 dicembre del 1990 la base operativa si spostò a San Diego. Dove ad aprile del ’91 arrivò anche Il Moro di Venezia III, fresco di varo, con cui il team vinse a maggio il Campionato del Mondo classe Coppa America. A giugno fu la volta del Moro IV, utilizzato solo come barca prova, mentre a dicembre toccò l’acqua Il Moro V (ITA-25), la barca più competitiva con cui il sindacato di Gardini avrebbe preso parte alla Louis Vuitton Cup. “Vivevamo in un clima di spionaggio costante a San Diego: gli elicotteri solcavano i cieli per fotografare dall’alto le barche degli avversari. Io ero anche addetto alla camera oscura perché mi dilettavo di fotografia, passavo le notti a sviluppare le foto di Carlo Borlenghi, ingaggiato come “spia” oltre che come fotografo”, ricorda Procopio. E mentre Il Moro conquistava i Round Robin (le fasi eliminatorie della regata), si capì che lo spionaggio serviva. Soprattutto nella finale di Louis Vuitton contro Team New Zealand di Rod Davis e Michael Fay: Il Moro era sotto di 3-1 ma grazie alle foto di Borlenghi si riuscì a dimostrare che i neozelandesi stavano utilizzando il bompresso come punto di mura del gennaker, una soluzione non consentita dal regolamento. Il loro quarto punto venne annullato, i kiwi accusarono il colpo e i ragazzi di Gardini conquistarono la Louis Vuitton vincendo 5-3. Quella che andò in scena dal 9 al 16 maggio del 1992, probabilmente, è la parte più nota della storia. Da un lato Il Moro di Venezia V, che in patria aveva risvegliato la voglia di vela italiana, grazie anche alle dirette di Telemontecarlo e ai commenti di Cino Ricci. Dall’altro il miliardario Bill Koch e Buddy Melges, a bordo di quello squalo bianco chiamato America3. Una barca più brutta del Moro, ma più veloce: “Siamo arrivati in finale carichi di speranza”, ricorda Dudi Coletti, all’epoca trimmer, “ma abbiamo visto fin da subito che non ci sarebbe stata storia: loro avevano più passo, la barca con aria leggera era più performante, anche perché il regolamento permetteva loro di cambiare le appendici a seconda del vento che avrebbero incontrato. Anche quando vincemmo l’unica prova, quella del momentaneo 1-1, lo facemmo a gomitate, per 3 secondi soltanto, grazie all’intuizione di Cayard di mollare lo spi e lasciarlo cadere in avanti all’arrivo”. Quattro a uno. Gardini aveva perso, ma riuscì, da grande comunicatore, a tramutare la sconfitta in vittoria. In Italia, al rientro, organizzò una festa a Ravenna, poi a Venezia, dove l’equipaggio, a bordo dei Maxi di Gardini, venne osannato dalla città intera. Era nato il mito del Moro di Venezia. Sopravvive ancora oggi.

Che fine hanno fatto i ragazzi del Moro di Venezia? Scrive il 15 luglio 2018 La Redazione di "giornaledellavela.com". Vi abbiamo raccontato la storia del Moro di Venezia, la barca più amata dagli italiani il cui mito sopravvive ancora oggi. Grazie al gruppo affiatato e competente che Raul Gardini seppe creare e che, al giorno d’oggi, influenza la vela mondiale in ogni sua branca: velai (Guido Cavalazzi, Davide Innocenti), progettisti e tecnici (German Frers, Claudio Maletto, Roberto Biscontini, Giovanni Belgrano solo per citarne alcuni), regatanti (Paul Cayard, Andrea Mura, Cico Rapetti, Lorenzo Mazza, Tommaso Chieffi), dirigenti (Enrico Chieffi, Marco Cornacchia), professionisti del mare (Max Procopio, Dudi Coletti). Qua sotto vi raccontiamo cosa stanno combinando, oggi, alcuni dei “ragazzi del Moro”.

COSA COMBINANO DIECI RAGAZZI DEL MORO AL GIORNO D’OGGI

Cico Rapetti. L’uomo dell’albero Francesco Rapetti continua a regatare ad altissimi livelli sui Maxi: è stato il primo italiano a vincere la Coppa con Alinghi (nel 2003, oltre che nel 2007) ed era a bordo di Luna Rossa nel 1999-2000.

Tommaso Chieffi. Con 27 titoli iridati vinti è uno dei velisti più forti al mondo. Dopo l’esperienza del Moro come stratega, in Coppa è stato su Oracle nel 2003, su +39 per un breve periodo nel 2005 e su Shosholoza nel 2007. Nel 2005-06, ha vinto la Volvo Ocean Race con Abn Amro I. Ora è l’uomo chiave su My Song, il maxi di Pigi Loro Piana.

Max Procopio. Max Procopio, grinder del genoa sul Moro, ha imparato il suo mestiere attuale proprio durante la sua esperienza nel gruppo di Gardini: ora è uno stimato professionista della comunicazione e con la sua Marine Partners ha clienti in tutto il mondo: team sportivi, produttori, porti ed eventi nautici.

Dudi Coletti. Duilio Coletti (per gli amici Dudi), dopo l’esperienza del Moro (in qualità di trimmer), ha deciso di aprire una scuola di vela a Riva di Traiano (Sailing Roma) dove in tantissimi sono passati diventando grandi velisti e appassionati di mare. Per 12 anni è stato poi al comando di barche da 24 a 30 metri, organizzando viaggi e crociere in tutto il mondo. Adesso ritornerà a dirigere la scuola di vela.

Claudio Maletto. Claudio Maletto, dopo l’esordio in Coppa con il team del Moro, ha continuato a progettare barche di successo da regata e crociera (Grand Soleil). Ha firmato con Peterson lo scafo di Luna Rossa del 2000, il “silver bullet” che ci fece sognare vincendo la Louis Vuitton.

Paul Cayard. Di recente lo abbiamo intervistato mentre era imbarcato sul J70 italiano Calvi Network: Cayard, reso celebre da Gardini, dopo il Moro ha continuato a regatare ai massimi livelli, sia in altura che in Coppa (nel ’95 al timone di Star & Stripes, nel 2000 di America One). Quando può, balza a bordo della Star, la sua barca preferita.

Guido Cavalazzi. Dopo aver disegnato le vele per Il Moro (le prime della storia in carbonio!), Cavalazzi venne assunto dagli americani nel 1995 (Young America), poi ingaggiato da Bertelli, con Luna Rossa, dal 2000 al 2007. Vanta, in qualità di velaio North Sails, svariati titoli mondiali e una Admiral’s Cup. Ora si occupa di vele d’epoca.

Andrea Mura. Il randista del Moro è al giorno d’oggi uno dei velisti oceanici più famosi di Italia: dopo la Coppa del 1992 fu assorbito dalla sua attività di velaio, poi scoprì la navigazione in solitario. Dal 2007, sul suo Open 50 Vento di Sardegna, se ne è tolte di soddisfazioni, vincendo Route du Rhum, Quebec-Saint Malo, Twostar e due Ostar in tempo reale.

Enrico Chieffi. Quattro anni dopo la sua esperienza di tattico e navigatore sul Moro, il fratello di Tommaso ha vinto il mondiale Star e ha partecipato alle Olimpiadi di Atlanta. Adesso è vice presidente del prestigioso cantiere Nautor’s Swan.

Giovanni Belgrano. Belgrano è uno degli ingegneri strutturisti nautici più quotati al mondo: dopo l’esperienza sul Moro nel gruppo di progettazione, è stato con Luna Rossa nella campagna del 2000. Contattato dai kiwi, si è trasferito ad Auckland con la famiglia per mettersi al servizio di Team New Zealand.

Gherardo Colombo: “La fine di Gardini aprì gli occhi di tutti sul sistema tangenti”. L'ex magistrato di Mani Pulite, a 25 anni dalla morte del manager, racconta: “Tanti non ricordano più eppure la conoscenza è la base della democrazia”, scrive Piero Colaprico su "La Repubblica" il 22 luglio 2018.  Dottor Gherardo Colombo, 25 anni fa è un quarto di secolo, ma sembra un'era geologica, visti i cambiamenti successivi. Il 23 luglio 1993 Raul Gardini, il Pirata, uno degli uomini più ricchi d'Europa, si spara e un titolo di giornale è "L'Enimont uccide ancora". Ricorda quella mattina? "Ricordo, anche se si tratta di eventi così traumatici che non sempre la memoria li registra appieno. Il peso di tragedie simili in qualche misura ti induc..

Estratto dell’articolo di Piero Colaprico per "la Repubblica".

Dottor Gherardo Colombo, 25 anni fa è un quarto di secolo, ma sembra un'era geologica, visti i cambiamenti successivi. Il 23 luglio 1993 Raul Gardini, il Pirata, uno degli uomini più ricchi d' Europa, si spara e un titolo di giornale è "L' Enimont uccide ancora". Ricorda quella mattina?

«(…) Raul Gardini aveva dormito a casa sua, in via Belgioioso, era libero ed era previsto per la mattina che Antonio Di Pietro lo interrogasse. Quando ci arriva la notizia del suicidio, ci troviamo tutti noi del pool Mani Pulite nell' ufficio o di Borrelli, o di D' Ambrosio, non ricordo. Erano passati pochi giorni da quando ero andato a San Vittore, in cella, dov' era stato trovato morto Gabriele Cagliari, la figura di riferimento dell'Eni. (…) Erano giorni davvero tragici e drammatici, ed anche preoccupanti: un paio di mesi prima era scoppiata una bomba a Firenze, il 27 luglio sarebbe esplosa l'autobomba di Cosa Nostra in via Palestro, cinque persone uccise sia nel primo che nel secondo attentato. Ero in questa stanza, quando ho sentito il fragore dell'esplosione».

Il giorno della morte di Gardini, noi cronisti vediamo Di Pietro camminare a testa bassa e lei che dice: "Guardateli a vista, avete capito, a vista". Dopo capimmo che si riferiva agli altri arrestati, a Carlo Sama, il cognato di Gardini, o al finanziere Sergio Cusani.

«Recentemente Sergio Cusani ed io siamo stati invitati a parlare di Tangentopoli in una scuola, e Sergio ha ricordato che aveva delle difficoltà a sottrarsi alla vista degli agenti anche quando andava in bagno, gli dicevano: "Ci spiace, il dottor Colombo ha ordinato così". Raggiunsero poi un compromesso, e Cusani ottenne un minimo di riservatezza».

E che cosa temevate?

«Temevamo che qualcun altro facesse lo stesso. Era insopportabile il senso di vuoto che questi eventi lasciavano. E ti veniva da pensare ai familiari, al loro dolore. Cercavi di prevenire. Io, nello stesso tempo, ero invaso dagli interrogativi sul perché di quei gesti».

Nell' obitorio di Lambrate si trovarono le due salme, di Cagliari per la cremazione e di Gardini per andare a Ravenna, una accanto all' altra. In quei giorni Giorgio Bocca scriveva: "Suonano le campane a morto per i ladri e i corrotti della prima Repubblica".

«Era emerso con chiarezza il sistema della corruzione. Ovunque ti girassi, trovavi tangenti: per la metropolitana, gli autobus, le strade, i tram, la Malpensa. Quando l'anno prima m' ero occupato dell'Ipab, avevo scoperto che in quel consiglio d' amministrazione tutti, messi lì dai partiti, prendevano soldi. Erano esclusi solo quelli di Democrazia proletaria e del Movimento sociale, non so se per questioni morali o perché non contavano nulla. Ad alti livelli la corruzione era un vero e proprio sistema anche perché era connessa rigorosamente con il finanziamento illecito ai partiti; intendo dire che i soldi della corruzione finivano per buona parte nelle casse dei partiti. Sono state coinvolte nelle indagini tutte le imprese di primaria importanza e i vertici dei partiti. Quel che abbiamo scoperto è, o meglio era, sotto gli occhi di tutti».

Era in che senso?

«Oggi in tanti non ricordano molto, e in tanti non sono in grado di ricordare, perché non c' erano ancora e nessuno ha raccontato loro quel che avvenne; o meglio molti hanno scritto di quel che avvenne, ma chi ha la responsabilità di tramandare una memoria storica, anche nel contesto istituzionale, raramente lo fa. Del resto succede così un po' per tutto, cambiano le generazioni e si perde il passato. Mi è capitato di parlare in licei in cui i ragazzi attribuiscono la strage di Piazza Fontana alle Brigate Rosse, oppure ignorano completamente la strage di Brescia a Piazza della Loggia». (…)

Beh, abbiamo fatto un'inchiesta tra gli universitari di Milano, tra Statale e Cattolica era una risicata minoranza a conoscere la parola "Tangentopoli".

«(…) Dopo tredici anni di indagini e processi sulla corruzione - tanto è durata Mani Pulite - e dopo due anni come giudice in Cassazione, nel 2007 mi sono dimesso, perché sono convinto che se si vuol contribuire a far sì che le regole vengano osservate è necessario occuparsi di educazione. Bisogna andare nelle scuole per comprendere insieme il senso delle regole che, come le nostre, si basano sulla messa al bando della discriminazione, perché a ciascuno di noi - e quindi anche a lei e a me - siano garantite opportunità pari a quelle degli altri. Senso delle regole che, per tornare al tema della corruzione, dovrebbe indicare il modo di interpretare la funzione pubblica. Non per interesse individuale o di parte, ma per l'interesse di tutti».

SUICIDI E LACRIME SU MANI PULITE, scrive Bernardo Valli l'1 agosto 1993 su "La Repubblica". Le lacrime dei pubblici ministeri sono rare. Quelle di Francesco Greco, la mattina di venerdì ventitré luglio, erano nascoste dietro occhiali scuri, ma secondo i cronisti non c' erano dubbi: il pm Greco piangeva. Anche il pm Di Pietro era sconvolto. Al punto che deambulava nel corridoio della procura strisciando una spalla contro il muro, quasi avesse perduto l'equilibrio. Gherardo Colombo, il pm intellettuale, era stordito, non tanto però da dimenticare gli indagati dell'Enimont: diceva a un ufficiale della Finanza di guardarli a vista, di non perderli d' occhio. Potevano infatti svignarsela, nel dramma provocato dal suicidio di Raul Gardini. Gardini si era appena sparato alla tempia in Palazzo Belgioioso. Settantadue ore prima, a San Vittore, Gabriele Cagliari aveva infilato la testa in un sacchetto di plastica. Recupero queste immagini della cronaca recente perché compongono il ritratto della procura milanese in un momento cruciale. Quel ventitré luglio, prima delle dieci, i pubblici ministeri di Mani Pulite sono sotto il trauma della morte voluta di Gardini, aggiuntasi a quella di Cagliari come una seconda mazzata. In quella prima mattina si tocca il punto in cui le emozioni possono cambiare il corso delle vicende umane: possono frenarle, deviarle, o addirittura farle arretrare. E' insomma un momento di verità. Alle dieci, quando al Policlinico di viale Francesco Sforza Raul Gardini è già cadavere da più di mezz' ora, i pubblici ministeri in preda a lacrime e tormenti entrano nell' ampio ufficio del procuratore capo Borrelli. Ne escono pochi minuti dopo e i cronisti notano che Di Pietro ha ripreso l'andatura normale e che il pianto non contrae più la faccia di Greco. L' inchiesta continua, senza ritardi, gli arresti decisi prima del suicidio di Gardini sono mantenuti, saranno eseguiti di lì a poco, nell'ambito della stessa famiglia Ferruzzi in lutto. Greco e Di Pietro, rinfrancati, raggiungono il luogo del suicidio in piazza Belgioioso per le indagini d' uso. Un napoletano che non esagera nei gesti Non che prima i toni fossero da commedia leggera, ci sono stati altri suicidi e altri atti di terrorismo, ma con i fatti di fine luglio i colori di Mani Pulite diventano da tragedia. Mentre le tinte si incupiscono e le emozioni possono appunto piegare, diluire sia pure per un attimo l'azione della giustizia, le schiene dei pubblici ministeri si raddrizzano e i loro occhi si asciugano subito nell' ufficio del procuratore capo Borrelli. Semmai affiorano indugi, Borrelli li tronca. Anche una semplice esitazione in quel momento risulterebbe un cedimento. Un ripensamento discrezionale. Dunque, niente pausa di lutto. Non penso proprio che in quel giorno di emozioni lo sguardo di Francesco Saverio Borrelli si sia inumidito o che lui abbia barcollato sotto l'impatto di quei suicidi. Ignoro i suoi sentimenti, quelli intimi che gli appartengono, non so quanto sia duro o tenero il suo cuore: nella forma il procuratore è un napoletano che certo non esagera nei gesti. La mattina del ventitré è stato temperato anche nelle parole. Quelle che ha pronunciato in pubblico erano essenziali per la sua funzione e al tempo stesso non prive di attenzione per i morti. Riassumevano il personaggio: "... anche per il rispetto dovuto alla scelta di chi ha voluto rinunciare alla vita è nostro dovere... percorrere con la massima celerità la via che porterà al chiarimento totale...". E con la massima celerità, senza intervalli emotivi, discrezionali, sono scattati gli arresti e sono proseguiti gli interrogatori, gli uni e gli altri tendenti ad illuminare l'affare Enimont, segnato da un "triplice marchio di morte". In quest' ultima lapidaria espressione il procuratore ha incluso i tre suicidi (compreso quello incerto di Castellari). Nel dramma un testimone sensibile alla storia patria poteva rilevare comportamenti non frequenti nella vita nazionale: i magistrati e per la verità anche gli indagati, accusatori e accusati, per dovere o per orgoglio o per disperazione, hanno svolto in quei giorni i loro ruoli sino in fondo: come in una società che fa sul serio: in cui si paga con la vita e non si sfugge alle responsabilità. La tragedia ha invaso la commedia dell'arte. Una tragedia con i volti dei protagonisti scoperti. Le stragi senza le facce degli assassini, le auto-bomba, rientrano nell' altra nostra lunga storia di viltà. In un diverso e ignobile album di famiglia. Ho incontrato Borrelli nel vasto ufficio al palazzo di giustizia: luogo da cui esercita un potere senza precedenti per un magistrato. E forse senza pari oggi nel paese, se non altro per le conseguenze delle sue iniziative giudiziarie. La contenuta cortesia del procuratore è stata più volta illustrata. La sua immagine la riflette abbastanza bene. Le descrizioni sono ormai superflue. Borrelli ha senz' altro fatto la tara degli elogi che gli vengono indirizzati. Lo spero. Sfogliando gli scritti che gli sono stati dedicati negli ultimi mesi ho trovato piaggerie tali da far arrossire un uomo di vistosa presunzione. Raggiungono o addirittura superano le adulazioni un tempo rivolte a Bettino Craxi, l' ex padrone di Milano al quale lui, Borrelli, ha fatto recapitare un elevato numero di avvisi di garanzia. Se quelle lusinghe gli dessero alla testa sarebbe un bel guaio con tutta l'autorità che la situazione gli attribuisce. Borrelli dice di essere timido. Non è sempre una garanzia. La timidezza, quando era giovane magistrato, l'avrebbe dissuaso dal diventare pubblico ministero. Un pm deve infatti parlare in pubblico e avere le qualità di un investigatore. Anche molto più tardi, dopo i cinquant' anni (oggi ne ha sessantatré), ha esitato ad abbandonare il ruolo di presidente della terza Corte d' Assise quando gli è stato suggerito di diventare aggiunto nella procura milanese di cui è adesso il capo. Se non avesse superato le perplessità giovanili forse la cronaca nazionale non sarebbe la stessa. Un procuratore con un altro temperamento le avrebbe imposto ritmi differenti. Borrelli non è più un giudice da una decina d' anni, come non lo è Di Pietro, né lo sono Davigo, Colombo, Dell' Osso, D' Ambrosio e gli altri sostituti e aggiunti, anche se la gente continua a chiamarli così: i giudici. Questo confonde le idee. Perché un pm è un'altra cosa. Oltre alla timidezza, Borrelli aveva davanti a sé - sempre a suo avviso - un secondo ostacolo che rendeva difficile il passaggio, la conversione al pubblico ministero. Lui è un uomo di riflessione, di problemi, come è appunto un giudice. Mentre un pm, un procuratore, è un uomo d' azione. Il primo, il giudice, nella travagliata attesa di prendere una decisione è immerso nei dubbi. Il secondo, il pm, deve avere invece una linea precisa e deve perseguirla indipendentemente dai dubbi: il suo compito è di rafforzare, sostenere, razionalizzare l'impostazione dell'accusa: lui non è tenuto ad evere la certezza matematica di poter centrare l'obiettivo. Nel rispetto dei diritti dell'individuo, deve agire col fiuto e il gusto del rischio tipico del giocatore. Nei cromosomi le tracce di un poliziotto Ho tracciato questo sommario ritratto del pubblico ministero, magistrato investigatore, con espressioni rubate a Borrelli. Il quale, perlomeno nell' aspetto, è rimasto un giudice. Benché nei suoi cromosomi ci siano le tracce di un bisnonno poliziotto nella Napoli dei Borboni. Bisnonno diventato poi giudice conciliatore in un comune vesuviano. Da allora nella famiglia non ci sono stati che magistrati: il nonno, il padre, lui Francesco Saverio, il figlio. Se sottolineo in lui il giudice, l'uomo più adatto a risolvere problemi che a svolgere indagini, più riflessivo che intuitivo, non significa che vedo nel suo esatto opposto, in Porfirij Petrovic, il tipico magistrato investigatore. Porfirij Petrovic è il pm (Dostoevskij dice giudice istruttore, ma io lo vedo come il nostro pm) che interroga Raskolnikov in Delitto e Castigo: è grassoccio e rotondetto. E parla sempre, parla, parla, un fiume di parole, e strizza gli occhi umidi e ammicca, cerca di stabilire una losca quasi oscena complicità con l'indagato, con la vittima, per poi incastrarlo. Il vizio impenitente di estrarre dai romanzi personaggi celebri e di affiancarli a quelli della realtà a volte serve. Altre è fastidioso. I pm della squadra Borrelli hanno ben poco in comune con Porfirij Petrovic. Al quale il suo creatore dà toni grotteschi, perché così vuole rappresentare il principio intellettuale e investigativo della mente umana. Mentre il tono tragico spetta al delitto. La realtà milanese corrisponde a un'altra morale. Ci ritorno. Mi trovavo nell' ufficio di Piercamillo Davigo, uno dei sostituti, quando è entrato Antonio Di Pietro. Per riflesso ho pensato al titolo di una sua biografia, a un libro delle edizioni paoline: "Il giudice terremoto - l'uomo della speranza": in cui si racconta di suo nonno Giovannino e di sua nonna Pazienza, ed anche della masseria molisana natale, della stalla, delle mucche, delle pecore, del seminario e di Elsa il primo amore. Evoco dentro di me quel libro delle edizioni paoline senza ironia, mentre stringo rapidamente la sua mano, larga come un badile. Poi lui si allontana nel corridoio della procura. Penso alla biografia di Di Pietro come a un pozzo di energie, a una miniera di elementi naturali che si trovano in profondità, dopo tanti strati di antichi e sofisticati vizi e virtù. Una forza che si è affinata, affiancando umanità, esperienza, computer e passione del segugio. Lanciata in una situazione politica senza intralci, come in una prateria senza steccati, quella forza composita dà un pubblico ministero di intuizioni fulminanti. Così le definisce Borrelli. L' apparente semplicità del personaggio contribuisce a renderlo popolare. Il simbolo di una società stanca, in questo momento, delle proprie ambiguità. Perlomeno di quelle dei potenti decaduti. Le lettere dal carcere di Cagliari Le lettere dal carcere di Cagliari non possono essere dimenticate, conducono ad alcune considerazioni. E' senz' altro negativo, troppo vecchio stile, il pm minaccioso. Quello che cerca o cercava di spaventare l'indagato. Meglio quello che sa mettere a suo agio l'interlocutore. Ma un eccessivo coinvolgimento del pm presenta dei rischi: può trascinare l'accusato pentito a dire quel che pensa che il magistrato si aspetta da lui; e il magistrato a credere tutto quel che gli viene detto. Un rapporto passionale come può accadere tra il confessore e il penitente. Un rapporto angoscioso, su cui pesa il dosaggio del carcere preventivo, su cui può giocare il pm, sia pure sotto il controllo del gip, il giudice delle indagini preliminari. Di Pietro crede nel rito cattolico della confessione e rifiuta con veemenza di essere preso per un prete che suscita tormenti nell' anima del peccatore indagato. Ricavo queste sue reazioni da frasi pronunciate in seguito a uno dei primi suicidi di Tangentopoli, che lo sconvolse. Quello dell'anziano socialista di Lodi Renato Amorese. L' eccesso di zelo di un pm non è comunque poi tanto raro, e si carica facilmente di veleni psicologici. Il suicidio di Cagliari ne è un esempio. Piercamillo Davigo è un quarantenne. Pensa che nella classificazione medievale clero-mercante-soldato il magistrato corrisponderebbe al primo, al clero. In quella induista sarebbe il bramino-filosofo. Il sostituto Davigo si considera, lui, un sacerdote? La sua affermazione non va interpretata in questo modo: in quella gerarchia platonica il magistrato in sostanza non è il denaro e neppure le armi. Davigo è un lombardo - piemontese. In politica mi dicono sia un liberale. Nel senso liberal. Non ha lo spirito dell'inquisitore. Ha piuttosto uno spiccato senso logico che innestato sulle intuizioni dell'investigatore dà filo da torcere a indagati e difensori. Davigo mi sembra in egual misura sofisticato e passionale. Ha lavorato con Alessandrini e con Galli, uccisi dai terroristi. Se li ricorda, ricorda che sono morti per garantire la continuità dello Stato, dello Stato corpo delle leggi. Non c' è paese in cui lo Stato venga interpellato polemicamente con tanta frequenza: cosa fa lo Stato? dov' è? cosa vuole? perché non funziona? ma esiste? perché ci svena? è cieco, vuoto, inerte, esoso, disattento, ingiusto, freddo, necessario... Anche questa procura milanese è una faccia dello Stato. Lo è più che mai. E' parte essenziale di una delle sue rare istituzioni che funzionano. Anzi, l'unica, per questo è quasi onnipotente. E i pm Di Pietro e Davigo ne sono due volti. Un altro è Pierluigi Dell' Osso. Dell'Osso fa parte della procura milanese ed anche della superprocura nazionale. Era pubblico ministero al processo per la bancarotta dell'Ambrosiano. Quando sono uscito dal suo ufficio era da tempo passata l'ora di cena e un uomo della sua scorta mi ha guidato, come in un labirinto, verso la sola uscita dal palazzo di giustizia ancora aperta. Dell' Osso è rimasto a lavorare nella stanza dove fa spicco una croce. Più come decorazione, mi è sembrato, che come segno religioso. Oppure ha le due funzioni. A differenza di un giudice civile, al quale si chiede una grande umiltà, un pm remissivo non rende. Va rispettato il suo carattere. Vanno stimolati e al tempo stesso disciplinati i suoi slanci. Borrelli si comporta così con aggiunti e sostituti. Gerardo D' Ambrosio è descritto come un investigatore nato. Ha condotto l'indagine sulla strage di piazza Fontana e sulla morte di Pinelli. E' uno dei pilastri portanti della procura. Gherardo Colombo si considera un notaio della giustizia. L'ha perlomeno detto a dei colleghi francesi lasciandoli scettici. Con quei magistrati d' oltralpe, durante una tavola rotonda, Colombo ha affrontato un argomento chiave e controverso: l'obbligo costituzionale dell'azione penale che condurrebbe per mano i magistrati italiani, rendendoli immuni dai condizionamenti politici e sociali. Come mai allora Mani Pulite è stata più una conseguenza che la causa di un dato momento politico? C' è sempre qualcosa di politico nell' esercizio della giurisdizione, anche se non ci sono intenzioni politiche. Borrelli è il difensore e l'allenatore della squadra dei pm milanesi. Li protegge, li stimola, coordina il loro lavoro. E poiché quei pubblici ministeri conducono inchieste da cui dipende in buona parte l'immediato avvenire del paese, la sua autorità è rilevante. Quel 23 luglio, nel suo ufficio, davanti ai pm in preda a lacrime e tormenti ha dato ancora una volta prova della sua influenza e della sua determinazione. Nella sua procura sono allineate centinaia di confessioni fatte alla presenza di avvocati, quindi incontestabili domani, durante i processi: e in quelle deposizioni c' è la storia del vecchio regime. Francesco Saverio Borrelli ha nelle mani il destino di una buona parte della classe politica ed economica italiana. Insomma quel signore di contenuta cortesia è destinato a pesare nella storia patria. Col suo garbo non dimentica di ricordare che lui rappresenta la pars destruens. Ad altri di essere la pars construens. I pubblici ministeri non hanno il compito di rifare una società. Lui lo sa come magistrato che ha conservato il carattere del giudice, personaggio immerso nei problemi, nei dubbi, e non trincerato nelle certezze dell'investigatore che possono essere effimere. Una nazione con tante culture Tiro le somme del viaggio. L' ho cominciato nel profondo Sud e ad ogni tappa ho trovato la conferma di quanto il paese sia più un continente che una nazione. Nel senso che vi convivono tante culture. Ed è nell' ambito di queste diverse culture che avviene la rivoluzione legale. Là, in Sicilia, cerca di gettare le basi reali di uno Stato sinora rimasto formale; altrove, in Calabria, tenta di far rispettare la legge in un far west mediterraneo; a Napoli si sforza di stabilire le regole indispensabili in una metropoli civile; e qui, nel Nord, ha avviato un' operazione affinché l' economia di mercato non sia gestita da politici e industriali con criteri mafiosi, in definitiva affinché il capitalismo sia animato attraverso il gioco della libera concorrenza e non con la corruzione e la concussione. La società civile, un po' per codardia un po' per saggezza, un po' perché non c'era nessun altro, ha affidato ai magistrati la regia di questo aggiornamento democratico che talvolta assume toni e ritmi da rivoluzione non più tanto soft. Per quel che ne so è, nella storia, la prima rivoluzione dei pubblici ministeri.

Dopo 20 anni Di Pietro è senza pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci", scrive Stefano Zurlo, Lunedì 22/07/2013, su "Il Giornale".  La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

LA MAXI TANGENTE ENIMONT. SE CARLO SAMA COMINCIA A PARLARE. Scrive Cristiano Mais il 15 luglio 2018 su "La Voce delle Voci". Dalle sue ricche piantagioni in Paraguay, dopo un quarto di secolo racconta le sua verità sulla madre di tutte le tangenti, Enimont, Carlo Sama, che sposò una delle figlie, Alessandra, dell’ex imperatore del grano, Serafino Ferruzzi. Una delle pagine più sconvolgenti di Tangentopoli, per la morte – “suicidio?” – di Raul Gardini, patròn del gruppo e marito di un’altra rampolla di casa Ferruzzi, Idina. La mattina stessa che avrebbe dovuto verbalizzare davanti al pm di ferro, Antonio Di Pietro, preferì spararsi una rivoltellata in testa. Un po’ come fece il capo Eni Gabriele Cagliari, che scelse un sacchetto intorno alla testa piuttosto che affrontare la gogna giudiziaria. Un paginone del Corriere della Sera griffato Stefano Lorenzetto, torna su quei buchi neri, su quelle vicende che ancora ammorbano la storia italiana e rappresentano un’autentica macchia nella giustizia (sic) di casa nostra. Titolo del pezzo: “Io, mio cognato Gardini e il colpo di pistola 25 anni fa”. Scrive Lorenzetto: “Il protagonista del processo Enimont, inchiodato dal pm Antonio Di Pietro per aver pagato ‘la madre di tutte le tangenti’ e riabilitato di recente dal tribunale di sorveglianza di Bologna, vive tra Montecarlo e il Sudamerica”. Beato lui. Novello Hemingway, narra Sama: “Nel bosco mi sono costruito una casa di legno (progettino firmato Fuksas?, ndr) su un albero a 20 metri da terra, ma confesso che non ci ho ancora dormito… Ho paura dei giaguari: quelli si arrampicano”. E quelli di Tangentopoli gli facevano il solletico? Da una rimembranza all’altra. “Avevamo il monopolio mondiale del propilene. Ma bisognava investire centinaia di miliardi in ricerca. La Shellera pronta. Avremmo riportato a casa i pozzi petroliferi in Adriatico. E l’Edison. L’advisor dell’operazione era Romano Prodi, affiancato da Claudio Costamagna, attuale presidente della Cassa Depositi e Prestiti”. Arieccoli. “Perchè a 60 anni Gardini si uccise?”, chiede Lorenzetto. “Non certo per disonore: non aveva fatto nulla. Temeva di finire come Gabriele Cagliari. 134 giorni nel canile. Quando il presidente dell’Eni si suicidò in cella, Raul mi telefonò: ‘E’ morto da eroe’. Pensava solo a quello, all’arresto. Di Pietro lo teneva sulla graticola. Non si lavora una vita per finire in ginocchio da chi ti accusa”. Nel libro “Corruzione ad Alta Velocità” firmato vent’anni fa da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato, si parla ovviamente della maxi tangente Enimont e dei protagonisti dell’affaire. Ecco un paio di stralci. Il primo fa riferimento ad una sigla acchiappa lavori & tangenti, TPL, un vero e proprio scrigno. “In questo intreccio di mazzette resta centrale la figura di Francesco Pacini Battaglia, il quale avrebbe reso possibile la costituzione di fondi neri societari all’estero, nel tentativo di rendere invisibili i beneficiari di quel denaro. Tutto questo – lo ricordiamo – lo scopriranno i magistrati di Perugia”. Ecco l’interrogativo clou: “Ma perchè, pur incappando, cinque anni prima, negli affari sporchi della Tpl, Antonio Di Pietro, e con lui Gherado Colombo, non erano riusciti a venire a capo di nulla? Eppure sempre nel 1993, interrogato dai magistrati del pool di Milano, il finanziere Sergio Cragnotti, all’epoca amministratore delegato di Enimont e buon amico di Raul Gardini, aveva raccontato di aver ricevuto dalla Tpl 5 miliardi di lire, soldi poi bonificati da Pacini Battaglia. 2 miliardi – aveva riferito Cragnotti – li aveva tenuti per sé, 2 erano finiti a Gardini e l’ultimo a Necci (allora presidente dell’Enimont) e Pacini Battaglia”. Passiamo al secondo stralcio con le parole di Imposimato, un vero e propro j’accuse: “Sono andato a rileggere l’elenco dei nomi dei principali imputati del processo Enimont: non nascondo che un brivido mi ha attraversato la schiena. Alcuni di quegli imputati come Gabriele Cagliari furono letteralmente torturati psicologicamente e tenuti in carcere fino alla morte. Per sucidio. Altri, come Raul Gardini, furono minacciati senza pietà di arresto fino alla morte. Per suicido. Altri ancora – è il caso di Cragnotti e Pacini Battaglia – il carcere lo hanno visto appena (il primo) o, almeno a Milano, non l’hanno mai visto (il secondo)”. E’ la giustizia, bellezze. E non ha caso mai da aggiungere qualcosa di più corposo, da Montecarlo a dalla capannuccia in Paraguay, l’altro uomo (oltre Francesco Pacini Battaglia) di tutti i segreti Enimont, Carlo Sama?

Raul Gardini, spuntano le carte segrete. Le lettere ad Andreotti e a Gabriele Cagliari. La lite con Craxi. L’agenda riservata. E la prima richiesta d’arresto che avrebbe potuto evitare il suicidio. Dopo 25 anni, ecco i documenti inediti dell’ex re della chimica che si uccise nel luglio 1993, fra Tangentopoli, stragi di mafia e misteri italiani, scrivono Paolo Biondani ed Alessandro Cicognani il 23 luglio 2018 su "L'Espresso". Raul Gardini e Gabriele Cagliari. I loro nomi sono rimasti accostati, nel libro nero di Tangentopoli, dalla tragica fine. Due uomini di vertice dell’industria italiana, privata e pubblica, si tolgono la vita uno dopo l’altro, nel luglio 1993. Entrambi schiacciati dal peso di accuse che stanno facendo crollare l’intero sistema politico ed economico. La cosiddetta Prima Repubblica muore in quella torrida estate di 25 anni fa, tra crisi del debito pubblico, inchieste su enormi casi di corruzione, stragi di mafia con troppi misteri. E quelle morti eccellenti, traumatiche, proprio al culmine delle indagini milanesi sull’Eni e sul gruppo Ferruzzi-Montedison. Due suicidi in tre giorni (Cagliari il 20 luglio, Gardini il 23) che scuotono l’Italia. E listano a lutto uno snodo cruciale della nostra storia, che oggi si può ripercorrere, per capirne di più, grazie a nuovi documenti scoperti da L’Espresso. Come una prima richiesta d’arresto di Gardini, rimasta ineseguita, che avrebbe potuto salvarlo. O una lettera personale di Gardini proprio a Cagliari, che documenta la stima e il rispetto che univa i due capi-azienda anche nei mesi dello scontro sull’affare Enimont: l’alleanza tra Eni e Montedison poi naufragata in un mare di tangenti. «Caro Cagliari», gli scrive Gardini, di suo pugno, l’otto febbraio 1990, in questa missiva finora inedita, «voglio avere con lei il rapporto che ho con le persone che stimo... Io ragiono sempre di quello che si può fare al meglio e per durare nel tempo. Voglio bene alla gente e se non è impossibile do una mano anche quando posso fare molto male. Mi piace credere che gli uomini sono fatti così: tutti. Ogni tanto ne incontro uno e mi volto per andare con lui volentieri. Cordialità». Mani Pulite è il nome dell’indagine che in meno di tre anni, dal febbraio 1992 al dicembre 1994, ha scoperchiato decenni di corruzione in Italia. Il bilancio finale è un pezzo di storia: oltre 1.200 condanne definitive per tangenti e reati collegati. Nata a Milano da una bustarella in un ospizio, già nei primi mesi l’inchiesta si allarga, da un arresto all’altro, da una confessione all’altra, fino a coinvolgere centinaia di imprenditori, politici e burocrati. Dagli appalti locali, i magistrati risalgono agli affari nazionali, ai parlamentari, ministri e leader dei partiti di governo. La lotta alla corruzione ha un fortissimo sostegno popolare, gli imprenditori fanno la coda per confessare. Nel 1993 Mani Pulite arriva ai vertici dell’economia: anche i grandi gruppi industriali pagano tangenti, con fondi neri nascosti all’estero. I flussi più imponenti escono dalle casse dell’Eni, l’azienda statale del gas e petrolio, e del gruppo Ferruzzi-Montedison, il colosso privato dell’agroalimentare e della chimica. Il 20 luglio 1993 Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni, si uccide nel carcere di San Vittore, dove era detenuto dall’8 marzo. Tre giorni dopo si spara Raul Gardini, nel suo palazzo di Milano. Per quel 23 luglio il suo primo impegno, annotato in un’agenda finora rimasta riservata, erano proprio i funerali di Cagliari. Lo stesso giorno era segnato un altro appuntamento: un interrogatorio con Antonio Di Pietro, allora pm simbolo di Mani Pulite. Luogo fissato: una caserma. Anche se Gardini si aspettava un ordine di carcerazione. Lo shock dei due suicidi incrina, per la prima volta, il consenso di massa per Mani Pulite. Dalle tv di Berlusconi, che è ancora solo imprenditore, partono i primi violentissimi attacchi ai magistrati. Il 27 luglio a Milano irrompe la mafia stragista: un’autobomba uccide cinque persone in via Palestro, mentre altri attentati devastano due chiese di Roma. Cosa Nostra fa terrorismo politico. Strategia della tensione. Il premier Ciampi, capo di un governo tecnico, colpito da un misterioso blackout a Palazzo Chigi, arriva a temere un golpe. Al procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio sembra di rivivere i giorni neri di Piazza Fontana. Su quei fatti carichi di storia, dolore e tensione, oggi i documenti offrono qualche certezza. E svelano più di un segreto. Se il suicidio di Cagliari è una disperata protesta contro la disumanità del carcere, come scrive il figlio Stefano nel recente libro “Storia di mio padre”, la morte di Gardini ha un’altra trama. Il suo difensore, Marco De Luca, che fu l’ultimo a incontrarlo, non ha dubbi sul suicidio, ma non se lo spiega: «Quella sera, con Giovanni Maria Flick, siamo rimasti con Gardini fino alle 23. Lui sapeva che stava per essere arrestato, era uscita la notizia delle confessioni del presidente del gruppo, Giuseppe Garofano. Prima di vederci Gardini era preoccupato, temeva che si scaricasse ogni colpa su di lui. Gli abbiamo spiegato che da una persona come Garofano non doveva temere falsità: aveva solo confermato le accuse che Gardini si aspettava. E cioè il sistema dei fondi neri gestito da Berlini. Anche sul carcere, l’abbiamo rassicurato. Gli abbiamo detto che avevamo parlato con Di Pietro, quando non poteva più smentire di aver chiesto l’arresto. E che il pm si era impegnato a interrogarlo in una caserma, con lealtà, evitandogli il carcere». Di qui l’appunto nell’agenda. Ma allora perché si è ucciso? «Me lo sono chiesto per anni», risponde De Luca. «Quella sera era molto logorato. Però sapeva che non sarebbe neppure entrato in carcere. Oggi penso che abbia voluto proteggere la sua storia di imprenditore. E la sua famiglia. Non poteva accettare di tornare a Ravenna con il marchio di corruttore. Si è tolto di mezzo perché la sua famiglia fosse lasciata in pace». Al tribunale di Milano L’Espresso ha trovato quegli atti fatali. I pm chiedono l’arresto la sera del 21 luglio. Il giudice Italo Ghitti firma l’ordinanza due giorni dopo, alle 9.15. Gardini si è già ucciso da un’ora. Tra le carte, però, spuntano anche documenti inediti: c’è una prima richiesta di arrestare Gardini, firmata dai pm Di Pietro, Davigo e Greco, che risale al 5 luglio. Cinque giorni dopo, il giudice respinge l’arresto, per cui tutto resta segreto. Quella prima richiesta riguarda già il «sistema Berlini»: fondi esteri «fino a un miliardo di dollari». I primi a parlarne, però, erano due dirigenti che non gestivano quei soldi. Quindi il giudice Ghitti nega l’arresto per insufficienza di indizi. Ora è più chiaro perché Di Pietro, su Gardini, ripete da sempre che «se avessimo potuto arrestarlo, si sarebbe salvato». Dal 10 luglio, dopo il primo no del giudice, i pm raccolgono molte più prove. Come le confessioni di Garofano e altri dieci indagati, tra cui Lorenzo Panzavolta, il boss della Calcestruzzi. La nuova richiesta viene accolta, ma per Gardini è tardi. Il caso dell’arresto negato lascia sbalordito l’avvocato De Luca: «Non ne sapevo niente». A chiudere il quadro ora emerge anche un memoriale sequestrato nel palazzo di Milano dopo il suicidio: dieci pagine scritte al computer (o dettate) in prima persona da Gardini. La sua ammissione che le società offshore gestite da «B», cioè Berlini, erano arrivate a gestire fondi neri «per circa mille miliardi di lire». Il memoriale è diviso in capitoli che corrispondono ai capi d’accusa dell’ordine d’arresto del 23 luglio: Gardini, insomma, era pronto a confessare. «Non ho mai visto quel memoriale, ma gli avevo chiesto di prepararlo», conferma De Luca. Il 23 luglio finiscono agli arresti gli altri accusati. Berlini è il primo ad ammettere di aver gestito «fino a un miliardo di dollari» in Svizzera. E di aver mandato denaro in Italia anche per pagare politici «già dalle elezioni del 1987». In carcere, poi, è il manager Carlo Sama a vuotare il sacco su Enimont: nel 1992, dopo la rottura con Gardini, il gruppo ha versato «circa 150 miliardi di lire», attraverso Sergio Cusani, ai partiti di governo e a decine di parlamentari. La sentenza definitiva condanna Sama e gli altri imputati anche per la prima ondata di tangenti del ‘90-’91. In cambio, fu l’Eni a versare al gruppo Ferruzzi, per il 40 per cento di Enimont, 2.805 miliardi di lire: una cifra che lo stesso Gardini, sentito come testimone a Roma il 17 febbraio 1993, definì «sicuramente eccessiva, maggiore del valore reale di circa 600 miliardi». Al cambio di oggi, insomma, le tangenti (circa 75 milioni di euro) hanno garantito ai privati almeno 300 milioni in più di soldi pubblici. Il quadruplo. Archiviata Tangentopoli, Gardini viene dimenticato dall’Italia che conta. Solo nella sua amata Ravenna amici e conoscenti ricordano ancora il corsaro dell’economia, il vero erede del fondatore dell’impero Serafino Ferruzzi. Ai tempi d’oro, però, i potenti facevano la fila per vedere Gardini. Nelle agende trovate dall’Espresso sono annotati tutti i suoi incontri dal 1987 al 1991. Decine di imprenditori, politici, banchieri. Tra centinaia di appuntamenti, spiccano i nomi di Gianni Agnelli, Enrico Cuccia, il banchiere d’affari Rothschild. Tra i finanzieri, i più assidui sono Gianni Varasi e Jean Marc Vernes, che lo aiutarono a scalare Enimont. Tra i politici, i socialisti Claudio Martelli e Gianni De Michelis, ma anche Craxi, con cui litiga su Enimont: Bettino telefona, Gardini si nega. E pochi mesi dopo scrive una lettera riservata all’allora premier Giulio Andreotti, con una sfacciata allusione ai vizi della sua Dc. «Caro presidente Andreotti, mi ha confortato sentir dire che dobbiamo aspirare a una chimica aperta alla competizione mondiale. Si può ancora fare... È indispensabile in questa società che sia forte il senso dell’orgoglio e della virtù, dimenticando il vergognoso passato... Tutti, meno i ladri, lo aspettano con ansia». Gardini frequenta anche le persone che governeranno l’Italia dopo Tangentopoli. Con Berlusconi parla solo di affari, come la Standa. Con Romano Prodi, ex presidente dell’Iri, si contano centinaia di telefonate e incontri. «Parlavamo dell’Italia e di come stava cambiando il mondo», racconta oggi Prodi, «e mi raccontava dei suoi progetti. Era un romagnolo vero, con tutti i pregi e i difetti che questo comporta. Gardini era un outsider negli Stati Uniti per l’alimentare e in Italia per la chimica. Picchi e cadute si devono al suo carattere: non teneva conto degli equilibri, dell’establishment. Sui carburanti alternativi, non è che la storia gli abbia dato torto. Ma allora non andava bene e lasciò un gruppo smembrato. Quando si suicidò provai un grande dolore: per me era un amico». Ai funerali fu Prodi ad accompagnare la vedova, Idina Ferruzzi, nella chiesa di San Francesco a Ravenna.

TANGENTOPOLI. GARDINI, CAGLIARI, CUSANI, SAMA. MA CHI HA PAURA DI WALTER ARMANINI? Scrive il 24 luglio 2018 Andrea Cinquegrani su "La Voce delle Voci". Paginate e paginate, in questi giorni, sui media di casa nostra a proposito dei morti eccellenti (o di chi l’ha scansata per miracolo) di Tangentopoli. Le storie dell’ex numero dell’Eni Gabriele Cagliari, quella del capo dell’impero Ferruzzi Raul Gardini. Quelle di chi è riuscita a farla franca pur dopo anni di galera, come Sergio Cusani e Carlo Sama. Mancano all’appello, incredibile ma vero, i nomi di chi la galera non l’ha vista neanche per un minuto, o al massimo per poche ore. Come Sergio Cragnotti, l’ex patròn della Lazio calcio che di Enimont sapeva un pozzo di cose. Pierfrancesco Pacini Battaglia. Nel montaggio in alto Walter Ammannii, Gabriele Cagliari e Raul Gardini. Sullo sfondo Di Pietro, Colombo e Davigo. E soprattutto Chicchi Pacini Battaglia, “l‘uomo a un passo da Dio”, come lo dipinse il pm, Antonio Di Pietro, durissimo con i suoi imputati, una pantera in toga: e invece in quell’occasione trasformatosi in un innocente agnellino. Miracoli delle prodezze legali di un avvocato arrivato apposta dal Sud, alle sue prime cause penali, Sergio Lucibello? Il quale nel pedigree aveva, oltre ad una faticata laurea, soprattutto una gemma: l’amicizia con un pm che contava, allora, a Milano, il vero capo del pool, la pantera nera Di Pietro. Super Chicchi Battaglia sapeva tutto della madre di tutte le tangenti, Enimont, e del maxi affari degli anni ’90 fino a tutt’oggi, l’Alta Velocità. Italo-svizzero, depositario anche di tutti i segreti della più accorsata banca svizzera, Karfinco, crocevia di tangenti a molti zeri. Poi molto legato al faccendiere napoletano Eugenio Buontempo, cognato del luogotenente di Gianfranco Fini, Italo Bocchino: e l’affiatato tandem Battaglia–Buontempo riuscì a dragare – non si sa a quale titolo – i misteriosi fondali di Ustica dove giaceva il relitto dell’Itavia. E ad addestrare piloti libici. Un groviglio di misteri.

GALERA MAI PER L’UOMO DI TUTTI I SEGRETI. Le cronistorie del palazzo di giustizia di Milano raccontano che Chicchi Pacini Battaglia non passò neanche mezz’ora in gattabuia, neanche il tempo di una sigaretta e un caffè dietro le sbarre. Come mai nessuna inchiesta in Italia è mai riuscita a capire il perchè di quella libertà per un faccendiere a conoscenza di tutti i segreti, sotto il profilo economico, finanziario e non solo (perchè alla Tav si collegano anche business mafiosi, sui quali avevano già acceso i riflettori Falcone e Borsellino?) Boh. Ne hanno scritto, vent’anni fa, Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato, in “Corruzione ad Alta Velocità”, che conteneva notizie – è il caso di dirlo – bomba. Su omissioni, collusioni, connection. Eppure niente, neanche un tric trac. Il silenzio più totale dei media, il glaciale muro di gomma della magistratura. Oggi la Repubblica di Mario Calabresi fa addirittura il bis. Un paginone di Piero Colaprico dedicato alle rimembranze umane e giudiziarie dell’intellettuale del pool di Milano, Gherardo Colombo, e poi un fondo di Gianluca Di Feo su “Il Mistero di Raul Gardini”. Parla da solo già titolo di Colaprico che riferisce le parole del pm che oggi dedica tutte le sue energie ad insegnare educazione civica nelle scuole: “La fine di Gardini aprì gli occhi di tutti sul sistema tangenti”. Ma c’era bisogno di quella tragedia per capirlo? Non c’erano centinaia di altri segnali grossi come una casa? Non c’erano state – per dirne una – le ricerche più che approfondite di Giovanni Falcone e Piero Borsellino sulle mani della mafia piantate ormai da anni anche sulla Calcestruzzi, il colosso riconducibile ai Ferruzzi e nel quale erano penetrate le cosche? Nessuno ricorda più le profetiche parole di Falcone quando a fine anni Ottanta (se non ricordo male nel 1989, quasi trent’anni fa, non ieri) che “La Mafia è entrata in Borsa!”, con esplicito riferimento alla Calcestruzzi che aveva fatto il suo ingresso in piazza Affari? Per non parlare delle migliaia di riciclaggi già a fine anni ’80 in centro nord Italia nei settori dei tempo libero, della distribuzione, dei servizi? E anche all’estero? Oggi Maestro Colombo viene a raccontarci di “responsabilità di tramandare una memoria storica”. Ma ci faccia il piacere, avrebbe detto il mitico Totò.

ANCHE QUELL’UOMO “DOVEVA MORIRE”. C’è una storia che nessuno oggi ricorda, pochissimi in passato hanno mai voluto rammentare. Forse perchè dà fastidio. E la dice lunga su tanti metodi adottati in quegli anni che allora facevano sperare (sic) in un mondo più Giusto & Possibile. La storia è quella di Walter Giulio Armanini, che il pool di Milano – Di Pietro e Colombo in testa – era straconvinto fosse il vero, unico depositario dei segreti di Bettino Craxi & C.. La loro ossessione era quella di scoprire il ‘tesoro’. Quel bottino che con ogni probabilità era già anni prima volato via sotto il vigile sguardo di Claudio Martelli, il delfino di Bettino Craxi, con la collaborazione di una ‘zarina’ di segreti & conti correnti, Winnie Kolbrunner. E molte strade portavano, guarda caso, ai conti cifrati elevetici, come ha più volte raccontato lo scrittore-investigatore Jean Zigler, autore di “La Svizzera lava più bianco”. E quei denari spesso e volentieri transitavano anche via Karfinco. Ma per Di Pietro e Colombo la mela marcia era Armanini, uno che amava la bella vita e le belle donne, conosceva bene l’ex sindaco di Milano e cugino di Craxi Paolo Pillitteri. Armanini doveva confessare. Andava spremuto come un limone. La Voce a dicembre 1996 andò ad Orvieto, incontrò e intervistò per un paio di volte Armanini. Questo il titolo: “Stasera Pago io” – sottotitolo: “Cinque anni e sette mesi di galera. E’ la sentenza definitiva che Armanini, docente di Economia alla Bocconi, ex barricadero del ’68, sta scontando per Tangentopoli. In questa intervista vuota per la prima vuota il sacco. E parla, tra l’altro, di ‘torture’ inflittegli da Colombo e Di Pietro. Fino al mancato suicidio sul lungomare di Napoli. Proprio mentre ad Orvieto rientra l’inquisito Giancarlo Parretti. E lo stesso Armanini viene colpito da un attacco cardiaco”. Fu l’ultima intervista, quella di Armanini. Il quale dopo alcuni mesi morirà per un secondo attacco cardiaco. Riproduciamo per intero quell’intervista, scannerizzando le pagine della Voce di gennaio 1997. Ma eccone un breve assaggio: “Volevano che parlassi di Pillitteri. Certo, dissi, eravamo molto amici. E così una sera il secondino verso mezzanotte mi annuncia che devono ‘appoggiarmi’ un detenututo. Era un nero in astinenza da eroina che appena entrato mi vomita addosso e sulla branda. Roba da impazzire. Il giorno dopo arriva Gherardo Colombo e vuol sapere di Pillitteri. Qualche tempo dopo un nuovo appoggio: un altro extracomunitario in crisi d’astinenza che mi afferra per il collo e per poco m’ammazza. Vengo salvato a stento dalla guardia carceraria. Due giorni dopo torna Colombo: cosa faceva lei con Pillitteri? In quei giorni, dal 19 maggio al 29 giugno ho avuto un preifarto, ho perso due diottrie ad un occhio e sangue dall’orecchio. E dire che ero riuscito a superare le perquisizioni anali d’ingresso”.

Storie di 5 anni prima. Avrebbe terminato di scontare la pena di lì a pochi mesi, che stava trascorrendo ai domiciliari ad Orvieto, svolgendo anche un lavoretto in un piccolo laboratorio artigiano.

Carlo Sama: «Il suicidio di mio cognato Raul Gardini? Un sacrilegio. Ora coltivo soia in Sudamerica». La maxi tangente Enimont, la condanna, la nuova vita. «Raul era straordinario. Fu il primo a parlare di auto elettrica, biomasse, energie alternative. Era avanti su tutto», scrive Stefano Lorenzetto il 13 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". La sua nuova vita è costata a Carlo Sama un occhio della testa. Il destro. «In Paraguay ho avuto il distacco della retina mentre aprivo una strada nella tenuta di famiglia, dentro la più vasta foresta pluviale atlantica del pianeta posseduta da un privato. Sarebbe bastato farmela suturare là con il laser. Invece ho aspettato 20 giorni perché volevo ricoverarmi in una clinica europea. Risultato: 14 inutili interventi chirurgici fra Londra, Roma e Miami. Ed eccomi qua, orbo veggente come Gabriele D’Annunzio». Il protagonista del processo Enimont, inchiodato dal pm Antonio Di Pietro per aver pagato «la madre di tutte le tangenti» e riabilitato di recente dal tribunale di sorveglianza di Bologna, vive fra Montecarlo e il Sudamerica. «Nel bosco mi sono costruito una casa di legno su un albero, a 20 metri da terra, ma confesso che non ci ho ancora dormito. Ho paura dei giaguari: quelli s’arrampicano». Eppure nella sua Ravenna lo considerano l’amico del giaguaro che tradì il proprio mentore, il cognato Raul Gardini. «Il passato è storia. Fa parte di noi. Pensi al povero Ubaldo Lay: bravo attore, ma alla fine tutti se lo ricordano solo come il tenente Sheridan con l’impermeabile». L’accusa gli pesa, e ancor più adesso, a 25 anni dal colpo di pistola alla testa con cui il 23 luglio 1993 l’arrembante magnate del gruppo Ferruzzi-Montedison si uccise nel Palazzo Belgioioso di Milano. «Tra la mia famiglia e Gardini, scelsi la mia famiglia». Cioè la moglie Alessandra Ferruzzi, che, come i fratelli Franca e Arturo, non condivideva la successione decisa da Raul, marito della sorella Idina, la primogenita del fondatore Serafino Ferruzzi. Era il 1991. Gardini fu liquidato con 505 miliardi di lire. «Quello che nessuno sa, è che l’anno dopo ritornammo a parlarci».

Chi fece il primo passo?

«Io. Ci vedemmo in Svizzera. Ruppi il ghiaccio con una battuta: Raul, non ci divertiamo più se non stiamo insieme».

Stare insieme per fare che cosa?

«Avevamo il monopolio mondiale del polipropilene. Ma bisognava investire centinaia di miliardi in ricerca. La Shell era pronta. Avremmo riportato a casa i pozzi petroliferi in Adriatico. E la Edison. L’advisor dell’operazione era Romano Prodi, affiancato da Claudio Costamagna, attuale presidente della Cassa depositi e prestiti. Il principio era banale: rimettere tutto assieme. Dissi a Raul: facciamo un atto di compravendita della Ferruzzi per una lira, poi a bocce ferme sarai tu, da padre di famiglia, a valutarne il vero valore».

Come reagì?

«La proposta gli piacque molto. Ma non se ne fece nulla, perché commise un errore: cercò l’avallo di Mediobanca, cioè di Enrico Cuccia».

E che cosa accadde?

«Le azioni furono svalutate da 1.250 a 5 lire. La Ferruzzi fu oggetto di un trapianto d’organo, con le sue quote di mercato immesse in corpi malati. Sa di che parlo? Eravamo primi al mondo anche nelle proteine e nelle lecitine di soia, nelle penicilline; primi in Europa nello zucchero, negli amidi e derivati, nei semi oleosi, nei mangimi, negli oli di marca; primi in Italia nel calcestruzzo e nelle assicurazioni danni e secondi nell’elettricità».

Che uomo era Raul Gardini?

«Straordinario. Aveva una visione così chiara del mercato che si dimenticava dei tempi. Voleva che le cose fossero fatte per ieri. Fu il primo a parlare di auto elettrica, biomasse, energie alternative. Il mondo era il nostro giardino di casa. Fosse ancora vivo, oggi costringerebbe l’Italia a ridiscutere Maastricht, le quote, tutto».

Perché a 60 anni si uccise?

«Non certo per disonore: non aveva fatto nulla. Temeva di finire come Gabriele Cagliari, 134 giorni nel canile. Quando il presidente dell’Eni si suicidò in cella, Raul mi telefonò: “È morto da eroe”. Pensava solo a quello, all’arresto. Di Pietro lo teneva sulla graticola. Non si lavora una vita per finire in ginocchio da chi ti accusa. Mi hanno raccontato un’orribile storia di guerra sui topi».

Quale storia?

«I soldati catturavano una dozzina di topi e li tenevano a digiuno in gabbia. L’unico che sopravviveva, dopo aver divorato gli altri, veniva liberato perché desse la caccia ai suoi simili nelle trincee».

Gli innocenti non temono il carcere.

«Efrem Campese, capo della sicurezza di Montedison, gli aveva parlato di dieci buste gialle con l’intestazione “F” e di un colonnello della Finanza chiamato da Roma per recapitarle. I destinatari potevano essere Fiat o Ferruzzi. Si figuri se Raul ebbe dubbi. L’avviso di garanzia equivaleva a una condanna».

Lei ebbe 146 imputazioni, mi pare.

«Più o meno. Assolto da tutte, a parte il finanziamento illecito ai partiti e l’inevitabile falso in bilancio».

Fu arrestato il giorno del suicidio.

«Sì. Mi trovavo a Lugano. Telefonai a Palazzo Belgioioso. Rispose Renata Cervotti, la segretaria di Raul. Lo stavano soccorrendo. Non morì subito».

Aleggiano misteri sulla tragedia?

«No, fu tutto lineare. Il comandante che affonda con la sua nave».

Fu dunque un gesto eroico?

«Rispetto la sua decisione e non esprimo giudizi. Sarebbe fargli torto».

È vero che la vedova ha abbracciato la vita religiosa?

«Idina è una donna meravigliosa, come lo era il marito. Oggi non sta bene. La storia dei Ferruzzi non la conosce nessuno. Sono l’unico a poter dire d’aver visto la luna e l’altra faccia della luna. Serafino era un genio, ha segnato il secolo scorso. Il giorno in cui arrivò alla Borsa di Chicago, si fermarono per rispetto le contrattazioni: era entrato Mister Soia, il trader che faceva il mercato».

Ma che bisogno aveva Enimont di versare tangenti ai partiti?

«Nessuno. Si pagava perché non rompessero le balle. Non mi pareva un peccato. Magari una scemata. Ma la politica costa tanto, sa? Non trovo anormale aiutarla. Si doveva fare alla luce del sole».

Foraggiavate tutti?

«Nella migliore tradizione. Avevano stabilito le percentuali. I partiti dalle mani pulite? Qualcuno svolgeva il lavoro sporco anche per conto loro».

Severino Citaristi, tesoriere della Dc, mi raccontò di quando il segretario Arnaldo Forlani lo spedì da lei per ritirare una busta con dentro 2 miliardi e 850 milioni di lire in Cct, circostanza che poi mi fu confermata dallo stesso Forlani.

«In piazza del Gesù ci andai poche volte. E non chiesi mai nulla a Forlani».

Che mi dice della valigia con 1 miliardo di lire consegnata al Pci?

«Bisognerebbe poterlo chiedere a Raul. La portò lui alle Botteghe Oscure».

Centinaia di miliardi in Cct transitarono dallo Ior, la banca della Santa Sede.

«Sono assolutamente consapevole di questo. Ma non fui io a smistarli».

Però il vescovo Donato De Bonis, segretario dello Ior, celebrò le sue nozze nella parrocchia vaticana di Sant’Anna.

«Un caro amico. Aprì il fondo San Serafino per attività di beneficenza in onore del padre di mia moglie. Ogni anno ci versavo la mia gratifica natalizia».

Stefano Bartezzaghi, figlio del Bartezzaghi della «Settimana Enigmistica», la definì «vantaggiosamente inappariscente» e le imputò la «tendenza a strafare».

(Ride). «Giudichi lei. Ho interesse ad apparire sul Corriere della Sera?».

Di che cosa si occupa adesso?

«Mi sarebbe piaciuto cimentarmi nello sport, come mi aveva consigliato Bettino Craxi, magari alla presidenza del Coni. Invece sono rimasto fedele all’antico amore: la terra. Mi occupo di Agropeco, 12.000 ettari fra Paraguay e Brasile, vicino alle cascate dell’Iguazú, e di Las Cabezas, 18.000 ettari a Entre Rios, in Argentina. Produco dalla soia all’eucalipto. E allevo 12.000 capi di bestiame razza Hereford. Ho brevettato un mangime contenente il 5 per cento di stevia, un’erba dolcificante che funge da antibiotico naturale. In campagna rido da solo, come i matti».

Investe ancora nel nostro Paese?

«Beh, no, che domande! L’ultimo affare fu la cessione di un’immobile a Roma, diventato il J.K. Place luxury hotel».

Le restano l’Es Ram resort e il ristorante Chezz Gerdi, a Formentera. Tra gli ospiti, Veronica Lario con figli e nipoti, Piero Chiambretti, Paolo Bonolis, Raoul Bova.

«Chiuso il primo, venduto il secondo. Mai ospitato Bonolis. Però ci venivano Kate Moss e una figlia di Mick Jagger».

Silvio Berlusconi era suo amico.

«Lo è ancora, lo sarà sempre. Fu l’unico a telefonarmi il giorno dell’arresto. E pensare che avrebbe dovuto odiarmi: con Telemontecarlo gli fregavo la pubblicità».

Chi altro le è rimasto vicino?

«Luca Cordero di Montezemolo, Carlo Rossella, Luigi Bisignani. E Sergio Cusani. Il mese scorso si è fatto 400 chilometri, Milano-Bossolasco e ritorno, per stare mezz’ora con le stampelle al matrimonio di Francesco, il mio secondogenito».

Come vede l’Italia a trazione pentastellata-leghista?

«Tutto quello che porta al cambiamento, lo vedo bene. Pensi che Gardini già negli anni Ottanta voleva risolvere il problema degli immigrati. Fece predisporre da Marco Fortis, docente della Cattolica proveniente dalla Nomisma di Prodi, un progetto per rendere coltivabile la fascia mediterranea del Maghreb. Dall’Africa non sarebbe più partito nessuno. Se solo avessimo potuto continuare...». (Si commuove). «Il lavoro era il nostro gioco, la nostra vacanza. È stato commesso un sacrilegio».

Secondo lei i partiti si finanziano ancora in modo illecito?

«Mi pare di sì. Ma non ho i riscontri».

Allora da che cosa lo deduce?

«Dall’odore».

Il re della soia? È l’ex di Tangentopoli. Ecco il tesoro offshore di Carlo Sama. Nei Panama Papers spunta l’ex manager Ferruzzi-Montedison: condannato per lo scandalo Enimont, oggi è un big dell’agricoltura in Paraguay. Dove la sua nomina a console onorario diventa un caso: i suoi avvocati tentano un blitz in un giornale per bloccare le notizie. E nelle intercettazioni torna anche Sergio Cusani, scrivono Paolo Biondani e Leo Sisti il 17 luglio 2018 su "L'Espresso". «Exigen che no se publique», vietato pubblicare. Con questo titolo Abc Color, uno dei giornali più letti del Paraguay, denuncia, il 23 giugno scorso, che due avvocati sono piombati in redazione nel tentativo, fallito, di censurare una notizia. Il cliente dei due legali è un ricco signore italiano che controlla una fortuna in Paraguay, ma non tollera di vedersi collegare a una società offshore svelata dai Panama Papers. Il suo nome è Carlo Sama. Il giornale scopre che ha ottenuto la carica di console onorario del Paraguay, quindi chiama L’Espresso per sapere chi sia. La risposta è facile: è un big di Tangentopoli. Sama è il manager del gruppo Ferruzzi-Montedison che nel luglio 1993, dopo il suicidio di Raul Gardini, ha confessato «la madre di tutte le tangenti»: 157 miliardi di lire (ai valori odierni, 136 milioni di euro) versati fino al 1992 a decine di politici italiani di tutti i partiti di governo dell’epoca. Nell’autunno ’93 lo stesso Sama ha confermato di aver versato 200 milioni di lire anche alla Lega di Umberto Bossi, poi condannato ma tuttora senatore del partito di Matteo Salvini. Ai cronisti del Paraguay, i due legali intimano di non nominare nemmeno la società Agropeco, presieduta dallo stesso Sama, minacciando azioni legali. A quel punto Abc Color chiede le carte di Mani Pulite: da Milano arrivano le confessioni di Sama e la sentenza definitiva che nel 1998 lo ha condannato a tre anni di reclusione. Quindi il giornale scrive tutto: offshore e passato del «console». Nominare la società Agropeco in Paraguay vuol dire toccare una delle potenze agroindustriali del Paese, che affonda le radici nell’impero fondato tra Ravenna e Sudamerica da Serafino Ferruzzi, il padre di Alessandra, moglie di Carlo Sama, e di Idina, la vedova di Raul Gardini. Oggi Agropeco possiede 16 mila ettari di terreni: colture di soia e allevamenti di bovini per «una carne mas natural». Sama ha definito il Paraguay «un paradiso per gli investitori stranieri». E qui ha trovato amici potenti, come Don Juan Etudes Afara, vicepresidente del Paese fino allo scorso aprile, e il presidente in carica, Horacio Cartes, che nel novembre 2016 l’ha nominato console onorario a Montecarlo. Dove Sama ha da anni la residenza legale, con la famiglia, in Boulevard d’Italie. L’Espresso ha esaminato decine di atti che confermano il ritorno di Sama nel pianeta offshore, con nuovi particolari. La società si chiama Miung Development Sa, ha sede a Panama ed è stata costituita il 2 gennaio 2008. I titolari sono anonimi: il capitale nominale di 10 mila dollari appartiene a chi ha in mano un certificato azionario «al portatore». In Italia l’anonimato è vietato dal 1990. A Panama invece neppure lo studio Mossack Fonseca, che amministra la offshore, sa i nomi degli azionisti. Le carte però svelano chi controlla i soldi: il 31 marzo 2008 la neonata società panamense nomina due «procuratori» con pieni poteri di «vendere o acquistare beni in qualunque parte del mondo»: Carlo Sama e Alessandra Ferruzzi. A tenere i rapporti con Panama, all’inizio, è una funzionaria di Ginevra della banca Hsbc. Nel 2011, dopo lo scandalo della lista Falciani, la Miung cambia agente: alla banca svizzera subentra una società di Montecarlo, Cogefi Sam, che ha sede in Boulevard d’Italie 27, a pochi metri da casa Sama. Della Miung si occupa, da allora, il funzionario Alberto Faraldo Talmon. Tra il 2016 e il 2017 la situazione precipita. A Genova viene arrestato un dirigente chiave della Cogefi, A.ngelo B.onanata: è accusato di aver nascosto all’estero oltre 90 milioni di euro prestati dalla banca Carige alla famiglia Orsero. E il 10 marzo Talmon comunica a Mossack Fonseca di voler trasferire la Miung, «al più presto possibile», in un altro studio di Panama, Pardini & Asociados. Undici giorni dopo, Mossack Fonseca gli chiede di rispettare le norme anti-riciclaggio varate dopo i Panama Papers: l’agente di Montecarlo deve indicare «il beneficiario» della offshore e chiarire «l’origine dei fondi». Intanto a Panama scoprono che il «procuratore» della Miung è stato condannato per Enimont. A quel punto Talmon spedisce il passaporto di Sama, ma chiede di annullare la procura. E il 4 aprile 2017 manda un’email di fuoco: «L’unica attività della Miung è possedere immobili a Monaco. Tutto qui: nessun conto bancario. Quanto al signor Sama, sono storie vecchie e ora è tutto finito! La società va trasferita oggi. Altrimenti avvieremo un’azione legale contro il vostro studio». Per Mossack Fonseca il rapporto si chiude qui. E la Miung passa allo studio Pardini. Ora, per replicare ai Panama Papers, Carlo Sama ha comprato una pagina di pubblicità su Abc Color, dove definisce «infamie» gli articoli sulla Miung. Spiega che al processo Enimont è stato condannato per finanziamento illecito dei partiti, non per corruzione. Precisa che i giudici di Bologna gli hanno concesso la cosiddetta «riabilitazione», che cancella le pene accessorie di una condanna ormai scontata. E pubblica un certificato legale di Montecarlo, trasmesso in Paraguay, dove si legge che «Carlo Sama non ha alcun precedente penale». Sama non è l’unico reduce di Tangentopoli che è tornato agli affari. Una serie di intercettazioni del 2014, depositate a Milano nel processo Eni-Nigeria, documentano incontri e telefonate tra Sergio Cusani, lo stesso Sama e l’ex faccendiere craxiano Ferdinando Mach di Palmstein. Il progetto era di comprare una società di appalti petroliferi di Ravenna, partecipata dal gruppo statale Saipem, per rivenderla a un miliardario nigeriano, chiamato in codice «Kk» o «lo scuro». Un aggancio curato da Vincenzo Armanna, l’ex manager dell’Eni ora imputato per le tangenti in Nigeria, che sognava di dividersi una mediazione del cinque per cento. L’affare è saltato perché il ricchissimo imprenditore africano non si è fidato degli italiani.

Da Calvi a Castellari fino a Gardini strani suicidi e morti "sospette". Nella storia italiana tante le morti sospette di personaggi scomodi, scrive il 18 Giugno 2016 "Il Tempo". Gesto estremo volontario o omicidio «mascherato»? L’interrogativo sulla morte di David Rossi, rilanciato con forza dal video del New York Post e dalle polemiche che ne sono seguite, non è un quesito inedito nella storia d’Italia. Anzi. I suicidi sospetti, purtroppo, sono stati tutt’altro che una rarità negli ultimi trent’anni. Tra i casi più famosi, certamente, quello del banchiere Roberto Calvi. Implicato nel crack del Banco Ambrosiano, viene trovato impiccato a Londra, sotto il Ponte dei Frati Neri sul Tamigi, il 18 giugno 1982. Una morte subito derubricata dalle autorità inglesi in semplice suicidio; ma invece un omicidio per zittire una voce scomoda, secondo familiari e conoscenti. Che, nel 2010, si sono visti confermare la propria tesi da una sentenza della Corte d’assise d’Appello di Roma, in cui si legge chiaramente che «Roberto Calvi è stato ammazzato, non si è ucciso». Ancora più eclatanti le incongruenze emerse dalle indagini sulla tragica fine di Sergio Castellari, ex commissario di polizia diventato in seguito direttore generale degli affari economici del ministero delle Partecipazioni statali, poi consulente Eni e implicato anche in Sapri Brocher ed Efim. L’uomo scompare il 18 febbraio 1993, e dopo qualche giorno i suoi familiari ricevono lettere in cui Castellari annuncia i suoi propositi suicidi. Il suo corpo viene trovato una settimana dopo, nella zona di Monte Corvino, il volto irriconoscibile: manca mezza calotta cranica, portata via da un colpo d’arma da fuoco. Ma il proiettile non viene mai trovato, e la pistola con cui si sarebbe sparato è riposta nella fondina. Il corpo dell’uomo è più corto – di una decina di centimetri – dell’altezza nota del Castellari, e tra le gambe del cadavere viene trovato un sigaro, con tracce di saliva appartenenti a un’altra persona. L’estate dello stesso anno – è il 20 luglio del 1993 – tocca a Gabriele Cagliari, presidente Eni, coinvolto nella vicenda Enimont. Arrestato a marzo dello stesso anno, viene trovato morto sul pavimento del bagno annesso alla cella. Il suo capo è ricoperto da una busta di plastica legata intorno al collo. Ma sul suo viso vengono ritrovate ecchimosi che fanno pensare a una mano esterna. Tre giorni dopo, Raul Gardini si spara con un colpo di pistola alla tempia mentre è disteso sul letto. Nella stanza, però, non si ritrovano residui di polvere da sparo. La pistola con cui si dovrebbe essere sparato viene ritrovata appoggiata sulla scrivania a diversi metri dal letto, priva di impronte. Nemmeno quelle del suicida. Nel 1995 muore in circostanze misteriose, poi ricondotte dalla Procura a un suicidio, Mario Ferraro, 46 anni, tenente colonnello del Sismi. La moglie lo trova impiccato al bagno, nella loro casa dell’Eur, e una lettera dello stesso Ferraro che parla del suo timore di essere ucciso. Ma il caso è archiviato come l’estremo gesto in seguito alla morte della figlia, avvenuta però 8 anni prima. Stessa sorte per il caso di suicidio di Adamo Bove, 42 anni, ex poliziotto e responsabile della security governance di Telecom Italia. Intorno alle ore 12 del 20 luglio 2006, il dirigente parcheggia l’auto a lato della strada e si è getta dal cavalcavia di via Cilea, nel quartiere del Vomero, Napoli. Dopo un volo di una ventina di metri, si schianta su una carreggiata della tangenziale e muore sul colpo. Il dirigente - che era indagato per violazione della privacy per aver «spiato» alcune persone attraverso una rete informatica e coinvolto, pare, anche nel «Laziogate» – non aveva mai manifestato intenti suicidi. Non sono nemmeno stati trovati messaggi scritti lasciati ai parenti o agli amici, alimentando così la tesi – mai dimostrata – dell’omicidio o quanto meno del suicidio istigato. Nella lunga lista dei suicidi sospetti c’è anche Renzo Rocca direttore dell'ufficio per la Ricerca economica e industriale del Sifar per conto del quale finanziò l'istituto Alberto Pollio. Fu trovato morto nel suo ufficio, con un colpo di pistola alla tempia, poco prima di essere interrogato dalla Commissione parlamentare di inchiesta sugli eventi del giugno-luglio 1964. La prova del guanto di paraffina non mostrò tracce di polvere da sparo sulle mani di Rocca, tuttavia il caso fu chiuso come suicidio. Ci fu una maledetta fretta di archiviare la morte per suicidio anche di Omar Pace, colonnello della Guardia di finanza in forza alla Direzione investigativa antimafia che si tolse la vita nel suo ufficio sparandosi alla tempia e che avrebbe dovuto testimoniare il giorno dopo al processo di Reggio Calabria nel quale era imputato l’ex ministro Claudio Scajola per aver favorito la latitanza dell’imprenditore Amedeo Matacena. Era il 4 aprile 2002 quando, invece, i carabinieri di Tivoli trovarono il corpo senza vita di Michele Landi nella sua casa di Guidonia Montecelio, a una trentina di chilometri da Roma. Landi era tecnico informatico, era stato consulente di Umberto Rapetto, tenente colonnello della Fiamme Gialle, e del pubblico ministero di Palermo Lorenzo Matassa. Nelle loro prime dichiarazioni, entrambi esclusero l’ipotesi del suicidio. Matassa pensò a un omicidio maturato in ambienti ben precisi: «Penso ai servizi segreti, quelli che hanno cercato di dare un segnale a chi sta lavorando sull’omicidio del professore Marco Biagi». Nel 2001 si sparò un colpo alla tempia, tre giorni dopo una perquisizione, il responsabile della sicurezza dell’Hotel «Hilton» di via Cadlolo. E qualche mese prima, un suo collaboratore, dipendente di un istituto di vigilanza distaccato all’albergo di Monte Mario, si era tolto la vita nello stesso modo. Alla moglie, prima di farsi saltare le cervella, l’uomo aveva parlato di una sorta di memoriale che stava scrivendo e che riguardava il suo lavoro. Un altro mistero insomma. E non sarebbe stato un suicidio collettivo quello di Gesuino Mastio, 34 anni di Ovodda (Nuoro), della moglie Federica Torelli, 26 anni, e del figlio Alessandro di 6 anni, rinvenuti cadaveri a bordo di una "Mini Innocenti" in una strada di campagna presso Chianciano Terme, in provincia di Siena. Lo disse il padre, Salvatore Mastio rompendo il silenzio sui tragici avvenimenti che sconvolsero la famiglia dopo l'arresto del figlio Agostino, 41 anni, coinvolto e «pentito» nel sequestro dell'imprenditore bresciano Giuseppe Soffiantini. Infine c’è una serie di morti sospette e di testimoni scomparsi dopo la strage di Ustica che il giudice Rosario Priore definì: «Una casistica inquietante. Troppe morti improvvise». Ma allo stato mai nessuna correlazione è stata provata. 

DEVASTATI DA MANI PULITE.

C'è chi si sa difendere, ma non ha il potere di cambiare le cose...

De Luca “scatenato” a La7: accuse ai magistrati messinesi, scrive il 26 novembre 2017 la Redazione di "Messina oggi". Il conduttore Massimo Giletti ha faticato a contenere Cateno De Luca, ospite alla trasmissione in onda su La7, dal titolo “Non è l’Arena”. Il parlamentare messinese è stato ospite nella seconda parte della trasmissione, durante la quale si è parlato del suo “strano” arresto, avvenuto dopo tre giorni dal voto dello scorso 5 novembre. Come si ricorderà, De Luca è stato poi scarcerato dal Tribunale della Libertà, dopo che due giorni prima era arrivata anche l’assoluzione per il cosiddetto “Sacco di Fiumedinisi”. De Luca ha ribadito concetti già noti davanti a migliaia di italiani, ovvero che nel Palazzo di Giustizia messinese vi è una mano nera. Lo ha detto anche il legale di De Luca, Carlo Taormina, il quale ha riferito di altri esposti depositati per fare luce sulla vicenda. “Mafia della magistratura” ha ribadito il deputato neo eletto, davanti alle telecamere scatenando le vibranti reazioni del conduttore che ha preso le distanze, e di Antonio Di Pietro, in collegamento da Milano. A fare la parte dei disturbatori il trio Costamagna-Parenzo-Davi, che hanno tentato di inchiodare De Luca sulla base di notiziole trovate in rete, senza avere contezza di ciò di cui si parlava. Come del resto spesso avviene in questi “show” televisivi dove gli opinionisti parlano anche del “sesso degli angeli”. De Luca in chiusura di trasmissione ha svelato comunque un particolare che non era noto: ovvero che alcuni magistrati del Tribunale di Messina hanno parenti che lavorano nel mondo della Formazione. “Quando Genovese ha detto no a qualche magistrato per lui sono iniziati i problemi”.

DE LUCA: "UNO DEI FIGLI DEL PROCURATORE GENERALE ERA PROPRIO LÌ". Cateno De Luca scatenato da Giletti: “Figli di magistrati assunti nella formazione professionale”, scrive Matteo Scirè il 27 novembre 2017 su "Il Sicilia". Ha attaccato frontalmente la magistratura di Messina per l’inchiesta che lo ha travolto già all’indomani del voto per le elezioni regionali. E’ scatenato Cateno De Luca davanti alle telecamere di “Non è l’Arena”, il programma di Massimo Giletti andato in onda ieri pomeriggio su La7. Quando il presentatore gli ha chiesto il perchè Nello Musumeci ha difeso Genovese e non lui, De Luca ha perso la calma, accusando un pezzo della magistratura dello Stretto di aver sistemato i figli negli enti della formazione professionale gestiti dalla politica e finanziati dalla Regione. “A Messina ci sono magistrati e pubblici ministeri che hanno i figli assunti nella formazione professionale – ha gridato – dove si entra per raccomandazione, per contiguità politica. E’ una delle lotte che ho fatto quando ero in Parlamento, dove si bruciavano 500 milioni di euro l’anno”. Secondo De Luca, le indagini che lo hanno portato agli arresti sarebbero una rappresaglia portata avanti in particolare da un giudice. “Uno dei figli del procuratore generale era proprio lì – ha detto – e quando io l’ho beccato tra le varie indagini che abbiamo fatto stava tentando anche di sistemarlo nel Ciapi, un ente regionale. Questo me l’ha fatta pagare e ha fatto due denunce e tra facendo la terza”. Non si è fatta attendere la replica dell’Associazione Nazionale Magistrati, che con una nota stigmatizza “con forza e fermo disappunto i gravi attacchi e le incresciose strumentalizzazioni, posti in essere da tempo e senza soluzione di continuità, dal neoeletto rappresentante delle istituzioni siciliane, Cateno De Luca, ai danni della funzione giudiziaria e, indiscriminatamente, ai danni dei magistrati messinesi titolari o assegnatari dei procedimenti che lo riguardano”. L’Anm esprime “solidarietà e vicinanza alla magistratura messinese, vittima di queste aggressioni, la quale continuerà ad esercitare le proprie funzioni in silenzio, soggetta solo alla legge, libera, con rigore e serenità”.

Tra De Luca e il procuratore Barbaro è scontro aperto, intervengono i legali del deputato, scrive il 28 novembre 2017 "Messina Ora". Vincenzo Barbaro, procuratore generale di Messina, ha preannunciato, è intervenuto sulla Gazzetta del sud, dopo l’intervento del deputato regionale Cateno De Luca che ha ingaggiato una lotta personale con la magistratura messinese, iniziata subito dopo la restrizione ai domiciliari per la vicenda Caf Fenapi. In seguito a un riferimento al “procuratore generale”, chiamato in causa da De Luca nel corso dell’intervista “Non è l’Arena” di Giletti, a cui è seguita anche una nota dell’Associazione Nazionale Magistrati, Barbaro ha dichiarato: “Non intendo replicare, né sui giornali né in televisione, ai signori De Luca e Taormina, poiché ci penseranno i miei legali nelle competenti sedi”, annunciando di fatto una querela. A Barbaro hanno risposto gli avvocati del deputato, Carlo Taormina e Tommaso Micalizzi, i quali precisano che “in nessuna occasione di tipo mediatico è stato fatto il nome dell’alto magistrato da parte dei difensori dell’On. Cateno De Luca, i quali, pur nell’ambito di un serrato confronto dialettico, hanno sempre serbato comportamenti corretti e di rispetto nei suoi confronti”. “Le aggressioni giudiziarie sofferte dal Cateno De Luca – prosegue la nota – sono il frutto di un complesso organizzato di iniziative provenienti da un sistema massonico e mafioso su cui si fonda il noto verminaio messinese. I nominativi sono stati già resi all’Autorità Giudiziaria di Reggio Calabria, attraverso denunzie presentate dall’On. De Luca, presso la quale, chiunque, ed a maggior ragione il Procuratore Barbaro, potrà recarsi per averne compiuta conoscenza. I difensori dell’On. Cateno De Luca intendono contestualmente evidenziare, che, ad oggi, tutte le circostanze, ricostruzioni, dietrologie e argomentazioni messe a disposizione della difesa da parte del parlamentare siciliano per contrastare le accuse formulate a suo danno, si sono dimostrate veritiere. Per questa ragione essi sono stati e saranno sempre al suo fianco onde supportare la sua azione giudiziaria, in ambito penale e di risarcimento danni, nei confronti di chiunque, magistrato o cittadino comune, attenti alla sua onorabilità, tentando di metterne in discussione onestà, moralità e competenza”, concludono i legali, che annunciano una conferenza stampa, prevista il 12 dicembre nella Chiesa sconsacrata di Santa Maria Alemanna, durante la quale verranno illustrate le iniziative che De Luca ha intrapreso “contro il sistema massonico mafioso imperante a Messina”.

Messina: avvocati De Luca, "mano nera" in uffici giudiziari città, scrive "Adnkronos" il 24 Novembre 2017 riportato da "Il Dubbio". “L’assoluzione di Cateno De Luca da tutti i reati contestatigli in relazione al cosiddetto ‘Sacco di Fiumedinisi’ e l’azzeramento di tutti i reati e di tutte le misure cautelari personali e reali da due organi giurisdizionali nello stesso Tribunale, il giudice delle indagini […] “L’assoluzione di Cateno De Luca da tutti i reati contestatigli in relazione al cosiddetto ‘Sacco di Fiumedinisi’ e l’azzeramento di tutti i reati e di tutte le misure cautelari personali e reali da due organi giurisdizionali nello stesso Tribunale, il giudice delle indagini preliminari e il Tribunale della Libertà, dimostrano senza il minino dubbio che una ‘mano nera’ si aggira negli uffici giudiziari di Messina, la quale da tempo ha deciso che l’opera antimafia e antimassonica del deputato siciliano debba essere fermata”. Lo dicono gli avvocati Carlo Taormina e Tommaso Micalizzi, difensori del deputato regionale dell’Udc, Cateno De Luca, arrestato per evasione fiscale e scarcerato nei giorni scorsi. “Bisogna dare atto alla magistratura illuminata di quel Tribunale – proseguono i legali – di aver avuto il coraggio di elevare barricate di onestà contro questi inverecondi attacchi perpetrati verso un uomo delle istituzioni che ha il torto di fare politica solo con la buona amministrazione e che ha avuto l’ardire di volersi impegnare per la ripulitura del verminaio messinese che abbraccia centri di potere, università e uffici giudiziari”.

L’arrestocrazia e il potere del “Coro antimafia”, scrive Piero Sansonetti l'11 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Dal caso De Luca al caso Spada, quando l’arresto mediatico e a furor di popolo conta più le regole del diritto. E chi dissente è considerato un complice dei farabutti. Ieri pomeriggio Cateno De Luca è stato assolto per la quattrodicesima volta. Niente concussione, nessun reato. A casa? No, resta agli arresti perché dopo 15 accuse, 15 processi e 15 assoluzioni, martedì scorso era arrivata la 16ima accusa. E ci vorrà ancora un po’ prima che sia assolto di nuovo. Stavolta l’accusa è evasione fiscale. Non sua, della sua azienda. Cateno De Luca è un deputato regionale siciliano. Era stato eletto martedì. Lo hanno ammanettato 24 ore dopo. L’altro ieri sera invece era stato fermato Roberto Spada. Stiamo aspettando la conferma del suo arresto. Lui è in una cella a Regina Coeli. Roberto Spada è quel signore di Ostia che martedì ha colpito con una testata – fratturandogli il naso – un giornalista della Rai che gli stava facendo delle domande che a lui sembravano inopportune e fastidiose. È giusto arrestare Spada? È stato giusto arrestare Cateno De Luca? A favore dell’arresto ci sono i giornalisti, gran parte delle forze politiche, una bella fetta di opinione pubblica. Diciamo: il “Coro”. Più precisamente il celebre “Coro antimafia”. Che ama la retorica più del diritto. Contro l’arresto c’è la legge e la tradizione consolidate.

Prendiamo il caso di Spada. La legge dice che è ammesso l’arresto preventivo di una persona solo se il reato per il quale è accusata è punibile con una pena massima superiore ai cinque anni. Spada è accusato di lesioni lievi (perché la prognosi per il giornalista è di 20 giorni) e la pena massima è di un anno e mezzo. Dunque mancano le condizioni per la custodia cautelare. Siccome però il “Coro” la pretende, si sta studiando uno stratagemma per aggirare l’ostacolo. Pare che lo stratagemma sarà quello di dare l’aggravante della modalità mafiosa. E così scopriremo che c’è testata e testata. Ci sono le testate mafiose e le testate semplici. Poi verrà il concorso in testata mafiosa e il concorso esterno in testata mafiosa.

Mercoledì invece, dopo l’arresto di Cateno De Luca, non c’erano state grandi discussioni. Tutti – quasi tutti – contenti. Sebbene l’arresto per evasione fiscale sia rarissimo. Ci sono tanti nomi famosi che sono stati accusati in questi anni di evasione fiscale per milioni di euro. Alcuni poi sono stati condannati, alcuni assolti. Da Valentino Rossi, a Tomba, a Pavarotti a Dolce e Gabbana, a Raul Bova e tantissimi altri. Di nessuno però è stato chiesto, ovviamente, l’arresto preventivo. Perché? Perché nessuno di loro era stato eletto deputato e dunque non c’era nessun bisogno di arrestarlo. L’arresto, molto spesso, specie nei casi che più fanno notizia sui giornali, dipende ormai esclusivamente da ragioni politiche. E il povero Cateno ha pagato cara l’elezione. I Pm non hanno resistito alla tentazione di saltare sulla ribalta della politica siciliana. Comunque qui in Italia ogni volta che qualcuno finisce dentro c’è un gran tripudio. L’idea che ormai si sta affermando, a sinistra e a destra, è che l’atto salvifico, in politica, sia l’arresto. Mi pare che più che in democrazia viviamo ormai in una sorta di “Arresto-Crazia”. E che la nuova aristo-crazia che governa l’arresto-crazia sia costituita da magistrati e giornalisti. Classe eletta. Casta suprema.  Gli altri sono colpevoli in attesa di punizione. Poi magari ci si lamenta un po’ quando arrestano i tuoi. Ma non è niente quel lamento in confronto alla gioia per l’arresto di un avversario. Il centrodestra per esempio un po’ ha protestato per l’arresto pretestuoso di Cateno De Luca. Il giorno prima però aveva chiesto che fosse sospesa una fiction in Rai perché parlava di un sindaco di sinistra raggiunto da avviso di garanzia per favoreggiamento dell’immigrazione. Il garantismo moderno è così. Fuori gli amici ed ergastolo per gli avversari. Del resto la sinistra che aveva difeso il sindaco dei migranti ha battuto le mani per l’arresto di Cateno. L’altro ieri intanto è stato minacciato l’avvocato che difende il ragazzo rom accusato di avere stuprato due ragazzini. L’idea è quella: “se difendi un presunto stupratore sei un mascalzone. Il diritto di difesa è una trovata farabutta. Se uno è uno stupratore è uno stupratore e non serve nessun avvocato e nessunissima prova: condanna, galera, pena certa, buttare la chiave”. Giorni fa, a Pisa, era stato aggredito l’avvocato di una ragazza accusata di omicidio colposo (poi, per fortuna, gli aggressori hanno chiesto scusa). Il clima è questo, nell’opinione pubblica, perché questo clima è stato creato dai politici, che sperano di lucrare qualche voto, e dai giornali che un po’ pensano di lucrare qualche copia, un po’, purtroppo, sono scritti da giornalisti con doti intellettuali non eccezionali. E se provi a dire queste cose ti dicono che sei un complice anche tu, che stai con quelli che evadono le tasse, che stai con quelli che danno le testate. Il fatto che magari stai semplicemente col diritto, anche perché il diritto aiuta i deboli mentre il clima di linciaggio, il forcaiolismo, la ricerca continua di punizione e gogna aiutano solo il potere, beh, questa non è nemmeno presa inconsiderazione come ipotesi. Tempo fa abbiamo pubblicato su questo giornale “La Colonna Infame” di Manzoni. Scritta circa due secoli fa. Due secoli fa? Beh, sembra ieri…

P. S. Ho letto che Saviano ha detto che Ostia ormai è come Corleone. Corleone è la capitale della mafia. A Corleone operavano personaggi del calibro di Luciano Liggio, Totò Riina, Bernardo Provenzano. Corleone è stato il punto di partenza almeno di un migliaio di omicidi. Tra le vittime magistrati, poliziotti, leader politici, sindacalisti, avvocati. Paragonare Ostia a Corleone è sintono o di discreta ignoranza o di poca buonafede. Ed è un po’ offensivo per le vittime di mafia.

P. S. 2. Il giornalista Piervincenzi, quello colpito con la testata da Spada, ha rilasciato una intervista davvero bella. Nella quale tra l’altro, spiega di non essere stato affatto contento nel sapere dell’arresto di Spada. Dice che lui in genere non è contento quando arrestano la gente. Davvero complimenti a Piervincenzi. Io credo che se ci fossero in giro almeno una cinquantina di giornalisti con la sua onestà intellettuale e con la sua sensibilità, il giornalismo italiano sarebbe una cosa sera. Purtroppo non ce ne sono.

Poi, c'è chi ha avuto per 20 anni il potere di cambiare le cose...promettendo ai quattro venti di farlo, ma che non ha saputo difendere se stesso, nè gli altri che diceva di rappresentare.

Berlusconi, gli orologi della Procura spaccano il minuto, scrive Errico Novi il 25 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Ruby ter, la procura di Torino: «Processate l’ex premier». I sondaggi? Tutto bene grazie. L’alleanza? Funziona. Il ricorso a Strasburgo? Ci sono tutte le premesse perché venga accolto. Cosa manca per completare il solito quadretto preelettorale di Silvio Berlusconi? Il rinvio a giudizio, of course. Ieri è stato chiesto, con puntualità svizzera più che piemontese, dalla pm di Torino Laura Longo, che procede nei confronti dell’ex premier per uno dei 7 fascicoli in cui si è sminuzzato il cosiddetto Ruby ter. Nel caso specifico (definire ingarbugliata la vicenda processuale è un eufemismo) si tratta del filone in cui il Cavaliere è indagato con la 32enne Roberta Bonasia. Si tratta di un’ex infermiera poi divenuta soubrette, che all’epoca delle feste organizzate ad Arcore sarebbe stata “additata” da altre giovani come la «preferita», o addirittura la fidanzata dello stesso Berlusconi. Lei, Bonasia, è accusata di aver reso false dichiarazioni nell’ambito dei primi due procedimenti della saga “Ruby”. In quella che, delle prime due puntate, lo riguardava personalmente, Berlusconi è stato definitivamente assolto. A Torino l’ex presidente del Consiglio è sotto inchiesta per corruzione in atti giudiziari, la stessa ipotesi di reato avanzata a suo carico negli altri 6 filoni. Uno dei quali, il principale, rimasto sempre a Milano, in realtà è già a dibattimento. Nella capitale di tutte le indagini a suo carico, quella morale del Paese appunto, il Cav infatti è stato rinviato a giudizio lo scorso 27 gennaio, insieme con altre 23 persone (tra loro, e qui come si vede la geografia processuale si complica, anche una parlamentare, Maria Rosaria Rossi, e Carlo Rossella).

IL FILONE PIEMONTESE. Cosa è successo a Torino? Che la Procura ha ricevuto gli atti dopo lo spacchettamento chiesto (al gup di Milano) e ottenuto dalla difesa di Berlusconi nell’aprile 2016. Giacché la competenza del relativo capo d’imputazione – gli 80mila euro che il Cavaliere avrebbe versato a Bonasia – era appunto a Torino, la stessa Procura del capoluogo piemontese ha rimesso le mani sul materiale inizialmente raccolto dai colleghi lombardi. Ha messo sotto inchiesta Berlusconi e Bonasia all’inizio di quest’anno, e ieri appunto ha depositato la richiesta. Ora si attende che venga vissata l’udienza preliminare. Il legale che, insieme con il professor Franco Coppi, difende l’ex premier in questa schizofrenica storia, Federico Cecconi, spiega: «Non mi è ancora stato notificato alcun atto». Gli avvocati di Bonasia, Maurizio Milan e Giulia Tebaldi, si limitano a dire che la loro assistita «ha sempre contestato l’accusa nei suoi confronti, continuerà a farlo». E soprattutto, che «non ha mai testimoniato il falso». Quanto alle somme fattele pervenire dall’ex premier, aggiungono i legali, si tratta di «denaro che le fu versato come aiuto dopo le disavventure cagionate da quella vicenda». In attesa di capire come finirà a Torino la vera domanda è: quanto durerà il bombardamento? Difficile prevederlo. Probabile in ogni caso che partano raffiche violente. Vediamo perché.

GLI ALTRI 6 RIVOLI. Quella di Torino è solo una delle 7 spie rosse destinate nei prossimi mesi ad accendersi con intermittenza. Delle altre 6, una come detto è già in fase di dibattimento al Tribunale di Milano, ma altri tre filoni d’indagine sono tornati sempre nel capoluogo lombardo, nelle mani della solita Procura da cui tutto è nato. Sono i procedimenti inizialmente smistati a Monza, Treviso e Pescara, che poi i pm milanesi sono riusciti a farsi riassegnare, giacché alle ragazze coinvolte in ciascuno dei tronconi sarebbero continuati ad arrivare benefìci di varia natura anche in tempi recenti. I nomi delle giovani (anche se gli anni passano persino per loro) coinvolte sono i soliti: Aris Espinosa, Elisa Toti, Giovanna Rigato, Miriam Loddo. Proprio dopodomani, lunedì, si celebrerà l’udienza preliminare, davanti al gup di Milano Maria Vicidomini, relativa alle accuse in cui Berlusconi compare insieme con le prime tre delle quattro ragazze di cui sopra. Potrebbe dunque partire subito un altro colpo, un altro rinvio a giudizio. In nessun caso i pm si sono sognati di optare per una richiesta d’archiviazione. Ci sarà insomma una replica a brevissimo. Nell’attesa che vada in scena, e che sia allestito anche il palco in cui si vedrà Berlusconi indagato con Loddo, le udienze del filone principale sono sospese, ma riprenderanno il 29 gennaio 2018, eventualmente con l’accorpamento dei due tronconcini rientrati a Milano, qualora anche in questi ci fossero rinvii a giudizio. Poi potrebbero svegliarsi i fascicoli di Siena (lì l’ex presidente del Consiglio è indagato con un pianista, Danilo Maeiani) e Roma (dove a condividere lo status di imputato è il cantante Mariano Apicella).

LA SAGA DI KARIMA. Una geografia complicatissima. Che sembra una batteria di fuochi sapientemente preparata. Le botte esplodono a tempo, a breve o media distanza, ma in modo che lo spettacolo possa durare a lungo. Certo è che dopo diversi mesi di calma piatta, sorte (?) vuole che tutto riprenda proprio ora che persino Eugenio Scalfari dice di voler votare per Berlusconi. Si potrebbe dire che l’inseguimento continua. È infinito. Vede da anni i magistrati milanesi tentare di braccare il tre volte Capo del governo. Nel caso della saga giudiziaria intitolata a Ruby Rubacuori, al secolo Karima El Marough, si persegue un reato di corruzione in atti giudiziari che sarebbe stato finalizzato a ottenere il silenzio dei teste rispetto all’unico vero possibile reato- fine attribuibile a Berlusconi: quello di aver intrattenuto rapporti sessuali con la stessa Ruby nonostante sapesse che la ragazza era all’epoca minorenne. Il paradosso è che per tale reato- fine Berlusconi è stato assolto con sentenza passata in giudicato. Si è accertato, con il giudizio in Cassazione, che l’ex premier non era consapevole dell’anagrafe di Karima. È come se i pm volessero dimostrare che anche la Suprema corte si sarebbe sbagliata. Una vertigine giudiziaria che si affaccia dritta dritta sulle urne da cui Berlusconi dovrebbe uscire vincitore.

Tempismo un po’ sfacciato, scrive Piero Sansonetti il 25 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il grado di attenzione verso Berlusconi è direttamente proporzionale al peso politico che egli esercita nelle varie fasi della sua carriera politica. Zacchete. I tempi son stati calcolati con grande precisione. La campagna elettorale per le politiche ormai è aperta. I giornali, le tv – tutti i giornali e le Tv – dicono che Berlusconi è tornato protagonista, che ha ripreso la guida del centrodestra, che sta guadagnando consensi, che è al centro della scena. Zacchete. C’è sempre una procura pronta ad agire. Stavolta è toccato a Torino. Alla Procura di Torino gli orologi funzionano benissimo, spaccano il minuto. Ieri mattina l’Ansa ha battuto la notizia della richiesta di rinvio a giudizio di Berlusconi Silvio, per il cosiddetto Ruby ter. I processi per il caso Ruby (rapporti non chiari tra l’ex premier e una ragazza) finora sono tre (più alcuni minori). Il tempismo della procura di Torino stavolta è un po’ sfacciato. Probabilmente, se anche il terzo va in malora, se ne aprirà un quarto, raggiungendo così il record dei processi- Moro (strage di via Fani, sequestro del presidente della Dc e sua esecuzione). Il Ruby quater potrebbe rendersi necessario se la prossima legislatura, come molti immaginano, dovesse durare poco, per mancanza di maggioranza, e se si tornasse a votare entro il 2018. Allora un Ruby quater potrebbe essere indispensabile. Guardate che non sto affatto facendo ironia. Sono serissimo: la mia è una cronaca dei fatti accompagnata da qualche facile previsione. È vero naturalmente che esiste una parte maggioritaria della magistratura, molto seria, che fa molto seriamente il proprio lavoro (giudicare i delitti, accertarli, eventualmente punirli con saggezza ed equilibrio). Ma esiste altrettanto indubitabilmente un pezzo di magistratura, forse piccolo ma in grado di coprire tutto il territorio nazionale, che ritiene invece che il proprio compito sia quello di impedire alla politica di svolgere il suo ruolo: nella certezza che politica e corruzione siano due sinonimi. Questa parte della magistratura è politicamente trasversale. Comprende giudici di sinistra, di destra e grillini. E colpisce destra, sinistra e 5 Stelle. Basta guardare il caso Messina, dove in meno di un mese sono stati presi di mira e colpiti ben cinque candidati alle elezioni, dei quali quattro eletti e uno primo dei non eletti, appartenenti a tutti e tre gli schieramenti politici. Ed è stata posta una ipoteca seria sulla possibilità di formare una giunta regionale con la maggioranza decretata dagli elettori. Spesso, l’obiettivo di alcuni giudici è quello: decidere gli equilibri politici, modificando quelli stabiliti dall’elettorato. Anche perché lo stesso elettorato, per quanto anonimo, siccome vota, è sospettabile, molto sospettabile di voto di scambio, e dunque non è una fonte legittima del potere. La trasversalità della magistratura in guerra con la politica (e con il sistema democratico) non toglie nulla alla attenzione del tutto particolare che viene comunque riservata a Silvio Berlusconi. Il grado dell’attenzione verso Berlusconi è direttamente proporzionale al peso politico che egli esercita nelle varie fasi della sua carriera politica. Negli ultimi anni il cavaliere, dopo la batosta dell’esclusione dal Senato, si era un po’ ritirato in seconda fila, e la magistratura si era messa tranquilla. Gli ultimi sondaggi hanno fatto suonare il campanello di allarme (“torna Berlusconi!! Torna Berlusconi!!), e ieri è partito il nuovo attacco. Sempre ieri si è conclusa la vicenda del senatore Piero Ajello. Il quale ha vissuto sette anni d’inferno perché due mafiosi pentiti lo avevano accusato di voto di scambio e la Procura di Catanzaro aveva dato retta i due mafiosi. I giudici poi hanno accertato che le accuse erano false e Aiello è stato assolto più volte, ieri, definitivamente, dalla Corte di Cassazione. Ha commentato così: «Finalmente posso ricominciare il mio lavoro». All’epoca la Procura aveva chiesto il suo arresto. Non si è conclusa, invece, ma è appena iniziata, – proprio ieri, nelle stesse ore dell’assoluzione di Ajello e della richiesta di processo per il cavaliere – la vicenda del sindaco di Mantova che è stato accusato dai Pm di avere concesso dei finanziamenti a una associazione chiedendo in cambio sesso alla amministratrice di questa associazione. Il sindaco dice che è tutto falso. Ma quello che è più curioso è che anche la vittima della presunta concussione dice che è tutto falso. Non basta: si va avanti. Chissà se anche questa vicenda durerà sette anni. O chissà se, nel frattempo, la politica si convincerà che bisogna trovare il coraggio per dare un alt a questo stillicidio che inquina la lotta politica, la degrada, e indebolisce il prestigio della magistratura.

Fusaro: “Di Pietro dietro le quinte ha avuto un malore ed è crollato a terra dopo la nostra discussione”, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 20 ottobre 2017. “Finita la trasmissione "L’aria che Tira", il signor Di Pietro dietro le quinte si è infuriato e ha continuato a inveire e sbraitare contro il sottoscritto, il quale con olimpica compostezza ha ribadito fermamente che Mani Pulite fu un colpo di Stato. Purtroppo poi si è accasciato a terra perché ha avuto un malore”. E’ il racconto che ai microfoni de La Zanzara (Radio24) fa il filosofo Diego Fusaro, dopo lo scontro agguerrito che lo ha visto protagonista con l’ex leader dell’Idv a L’Aria che Tira, su La7. “Spero che ora Di Pietro stia meglio” – continua – “Da quel che ho visto, è caduto a terra e lo staff della trasmissione lo ha soccorso e portato via in un’altra stanza. Mi è stato chiesto cortesemente di allontanarmi, perché, qualora mi avesse rivisto, avrebbe avuto una ricaduta. Ci hanno dovuto separare durante la discussione, perché Di Pietro stava per mettermi le mani addosso. Io invece ho mantenuto una compostezza atarassica degna di Epicuro e degli dei olimpici”.

Diego Fusaro: “Mani Pulite fu un Colpo di Stato”. Dice bene, ma motiva male. Il filosofo durante una trasmissione in tv fa arrabbiare Antonio Di Pietro, dicendo ciò che storicamente è ormai scontato, scrive Fabio Cammalleri il 23 Ottobre 2017 su "La Voce di New York". Ha ragione Diego Fusaro mentre l'ex magistrato Antonio Di Pietro, nel suo opporsi ad interpretazioni che colgono il profilo extracostituzionale di Mani Pulite, non può continuare a invocare l’argomento giuridico-penale. Ma il limite dell'analisi del filosofo milanese (tutta colpa del “capitalismo selvaggio americano”), lascia sottotraccia il centro della questione: l’uomo e la sua libertà. Qualche giorno fa, Diego Fusaro, noto saggista, docente di Filosofia nell’Istituto Alti Studi Strategici e Politici (IASSP) di Milano (si presenta, con ineffabile dismisura, anche come “allievo indipendente di Hegel e di Marx”), nel corso della trasmissione “L’aria che tira”, ha affermato: “Mani Pulite fu un colpo di Stato”. Era presente Antonio Di Pietro, che è andato in escandescenze, senza tuttavia spiegare perché quell’affermazione sarebbe stata infondata. L’ex magistrato si è limitato a registrare il puro fatto che esistevano i reati perseguiti. Offrendo, però, una risposta solo apparente.

In primo luogo, perché molte accuse mosse dal “Pool” di Milano condussero ad assoluzioni in dibattimento: su 4.520 persone sottoposte ad indagine, 3.200 furono rinviate a giudizio; 1.281, condannate - 965 per patteggiamento - e 1.111, assolte. 1320 casi furono trasmessi ad altre Autorità Giudiziarie. A Milano, circa 1 su due era non colpevole.

In secondo luogo, perchè quando si dubita (non solo da oggi, e non solo da Fusaro, come vedremo) che l’Operazione Mani Pulite abbia avuto una portata, e un significato, extragiudiziari, non si nega il teorico sostrato giuridico-penale del suo oggetto (i reati). Si nega che un tale sostrato possa essere inteso solo in termini atomistici. Cioè, considerando i reati, veri o presunti, ad uno ad uno; e non invece, nel complesso degli effetti determinati dalle indagini e dai processi.

Gli effetti complessivi, a ben vedere, non furono negati nemmeno dagli stessi protagonisti della vicenda. Il dott. Giulio Catelani, al tempo Procuratore Generale di Milano, il 9 Maggio 1993, al quotidiano Il Giorno, dichiarò: “La nostra è una rivoluzione legale e saggia, che dura da poco più di un anno. Ricordatevi che quella francese è iniziata nel 1789 ma è finita solo nel 1794”. Già saggezza e legittimità, riferite ad una “rivoluzione dei giudici”, apparivano qualità imbonitrici; ma nel giro di un “Ricordatevi”, la loro ambiguità si risolveva nel fanatismo e nella nequizia del “Terrore” parigino, evocato a conferire decisiva sostanza a quell’irrefrenato compiacimento. Il paradigma rivoluzionario, anzi, connesso alla “robe” (toga, in francese), finiva col suggellare l’assenza di ogni moto democratico e socio-economico: crudamente inneggiando al precedente del boia, viatico solo di approdi cruenti ed elitari. Perciò, Di Pietro, per entrambe queste ragioni, nel suo opporsi ad interpretazioni che colgono il profilo extracostituzionale di Mani Pulite, non può fondatamente invocare l’argomento giuridico-penale. Si tratta di vedere se, a partire dal dato pacifico che non fu scolastica “scoperta di reati”, sia plausibile, nei termini proposti da Fusaro, quella urticante espressione: “Colpo di Stato”. Egli afferma di aver già chiarito la sua critica ne “Il Futuro è nostro” (Bompiani 2014); e, comunque, ancora nell’Aprile del 2015, precisava: “…fu un vero e proprio colpo di Stato, che rese possibile l’abbandono del welfare State e di quelle forme politiche che, pur corrottissime, ancora ponevano in primo piano la comunità umana e i suoi bisogni concreti…”; “Occorreva attuare la cosiddetta “rivoluzione liberista”, per consentire l’avvento del “…capitalismo selvaggio americano senza diritti e garanzie”. Ponendo, in questo modo, una spiegazione di matrice marxistica (“marxiana”, tiene, anzi, a precisare): grandi movimenti di capitale, piccole pedine. Matrice, peraltro, nemmeno originale.

Nel 1995, il Prof. Gianfranco La Grassa, docente di Economia Politica a Pisa e a Venezia, che, pur attraverso successive evoluzioni, non ha mai disconosciuto il suo “marxismo critico”, contribuì ad un volume collettaneo (“Il teatro dell’assurdo. Cronaca e storia dei recenti avvenimenti italiani.”), e scrisse: “Questi uomini (e partiti) non sono stati perseguiti per fini di giustizia, ma solo per motivi politici di trapasso d’epoca, di distruzione del Welfare State all’italiana…”. 

Il filosofo Costanzo Preve (amico e maestro di Fusaro), in passato, anche coautore di un saggio con lo stesso La Grassa (oggi, sono invece in dissidio teorico), nel 2011 dichiarò: “Alcuni anni fa mi trovai a Milano in un dibattito pubblico con Gherardo Colombo… In sua presenza esposi… la mia tesi storico-politica… a mio avviso Mani Pulite… di fatto, era stato un colpo di Stato giudiziario extraparlamentare, che aveva distrutto una prima repubblica italiana, certamente corrotta, ma anche assistenziale e proporzionalistica… Avrei anche potuto parlare turco. Il cortese Colombo non contrappose una sua lettura storica alternativa alla mia, ma parlò di “obbligatorietà dell’azione penale”… Ora, io non mettevo assolutamente in discussione che  i reati di corruzione e di concussione richiedono l’obbligatorietà dell’azione penale… desideravo che il tema non venisse soltanto discusso in modo giudiziario, ma storico. Ma fu come passare dal turco al mongolo parlato e stretto”. Secondo Preve, Mani Pulite avrebbe preparato il terreno ad un “personale politico” al servizio del “…capitale finanziario e dell’impero militare americano”. Tutto questo, per dire che la locuzione “Colpo di stato”, riferita a Mani Pulite, nel campo variamente marxista, non è inedita, e nemmeno recente. Il limite di queste analisi è che procedono per categorie causali così vaste (“Il capitale finanziario americano”, Preve; “il capitalismo selvaggio americano”, Fusaro), da lasciare erroneamente in sottotraccia il centro della questione: l’uomo, uno per volta, e la sua libertà. Peraltro, anche considerando “il capitale finanziario” un fattore primario nelle cose del mondo, non sarebbe stato inevitabile accantonare l’individuo e l’avvento di un Potere Neoinquisitorio: che è, e rimane, “l’effetto fondamentale” di Mani Pulite.

Nel 1999, infatti, Luther Blisset Project, pseudonimo collettivo di un gruppo di intellettuali underground, (Der Spiegel, nel 1997, scrisse che ne era parte essenziale Umberto Eco, ma l’ipotesi non è mai stata riconosciuta, o dimostrata), divenuto molto famoso con il romanzo “Q”, in un ricco saggio, intitolato “Nemici dello Stato, Criminali, ‘mostri’ e leggi speciali nella società del controllo” (Derive Approdi, 1999), a proposito di Mani Pulite, osservavano: “Personalmente, noi ci accorgiamo che le cose non sono come sembrano quando Sergio Cusani e Bettino Craxi nominano come difensori due noti ‘avvocati compagni’, entrambi veterani dei processi politici anni ‘70-‘80, rispettivamente Giuliano Spazzali ed Enzo Lo Giudice.”. E pur riproponendo una filigrana di tipo “capitalistico” (“…regolamento di conti… tra diverse sezioni di capitale… vedi l’esempio di Mani Pulite…”), però, aggiungevano: “Mani Pulite è l’apice del giustizialismo, dello strapotere dei Pm, della praesumptio culpae, dell’abuso della carcerazione preventiva, della trasformazione dei magistrati in eroi-giustizieri popolari, immacolati e impavidi.” Che è, ragionevolmente, un riportare l’analisi dal cielo alla terra. Qui, alla fine, prevalse una “forza logica di gravità”: a dispetto del pur citato criterio “categoriale” e universalistico.

Indefesso difensore, “da sinistra”, della libertà dell’uomo in carne ed ossa, è Frank Cimini: storico giornalista critico de Il Mattino, oggi anima del blog giustiziami.it., declina un giudizio più circoscritto e comprensibile: “Mani Pulite fu un regolamento di conti all’interno della classe dirigente di un paese, con la scusa della “lotta alla corruzione”.  E, con tragica ironia, la mette riassuntivamente così: “Beato chi cerca giustizia, perchè sarà giustiziato”. Ed è proprio questo il guasto da cui non si dovrebbe mai distogliere lo sguardo; quello di uno stabile e incontrollabile abuso sulle libertà delle persona. Come pare faccia invece anche Fusaro: proprio laddove intenderebbe rilanciare, e giustamente, la questione della “natura giuridico-politica” di Mani Pulite. Sguardo che non hanno distolto altri e autorevoli critici. Mauro Mellini, avvocato di esemplare dirittura, già Deputato radicale e componente laico del CSM, con un’opera di indiscutibile nerbo critico (“Il golpe dei giudici”, 1994, Spirali-Viel); o, negli Stati Uniti, Stanton H. Burnett e Luca Mantovani, con “The Italian Guillotine. Operation Clean Hands and the overthrow of Italy’s First Republic” (Rowman&Littlefield, 1998; che, sin dal titolo, riconobbe giusto risalto al “modello originario”). Distogliendo lo sguardo si rischia di dimenticare questo: “Se si creano situazioni di emergenza nelle quali diviene indispensabile comprimere i diritti individuali, per ripristinarel’ordinamento giuridico, allora, nell’interesse comune, sono favorevole alle restrizioni di diritti individuali” (Francesco Saverio Borrelli, Micromega 4/1995). Diritti individuali. Di ciascuno. Restrizioni. Si rischia di dimenticare il lascito di Mani Pulite: regressivo nelle parole e nelle persone. I suoi eredi. Il suo futuro.

Cosa resta del patto tra pm e giornali 25 anni dopo Tangentopoli. Parlano gli "eretici" di Mani Pulite Cimini, Sansonetti e Facci, scrive Nicola Imberti il 18 Febbraio 2017 su "Il Foglio". “La vera separazione delle carriere che la politica dovrebbe fare è quella tra giornalisti e magistrati inquirenti”. Frank Cimini pronuncia la frase con leggerezza, a mo’ di battuta. Confermando la capacità, che in tanti gli riconoscono, di dire sempre quello che pensa. Soprattutto quando si tratta di magistrati. Per gli etichettatori seriali è una “voce fuori dal coro”. Fin da quando, dopo aver fatto il ferroviere e il giornalista praticante del Manifesto, entrò per la prima volta al Palazzo di Giustizia di Milano, alla fine degli anni Settanta. Poi, nel 1992, l’inizio di Tangentopoli. Da cronista del Mattino Cimini racconta ciò che sta accadendo. Anche quello che gli altri sembrano non vedere. Anni dopo ci sarà chi scriverà di un patto tra magistrati e giornalisti. Informazioni selezionate e distribuite accuratamente alla stampa, telefonate tra i vertici dei principali quotidiani per decidere la linea, articoli che colpivano con precisione chirurgica. “In realtà – spiega al Foglio – questo meccanismo che lega inquirenti e mezzi di informazione c’è sempre stato. Soprattutto nella fase delle indagini preliminari in cui il pm è il signore assoluto. Durante Tangentopoli ci fu uno scambio. Gli editori dei “giornaloni” si schierarono e ottennero l’impunità. Fu un do ut des”. Insomma, per Cimini, non c’era bisogno di sottoscrivere accordi, tutto si svolse quasi “naturalmente”. Meno “naturale” fu invece il potere che i magistrati si trovarono a gestire: “Dopo che la politica aveva affidato il compito di risolvere il problema del terrorismo, nel 1992 decisero di “presentare il conto”. Vedendo che la politica era debole, decisero di scardinarla. Così diventarono un potere che nessuno è più riuscito ad arginare”.

Eppure guardando a ieri e a oggi, è difficile non cogliere delle analogie, un paradigma che si ripete. Soprattutto quando si parla di inchieste giudiziarie che finiscono centellinate sulle pagine dei giornali. “E’ vero – dice Piero Sansonetti – il paradigma è lo stesso, ma c’è una differenza sostanziale”. Sansonetti, che adesso dirige Il Dubbio, nel 1992 era all’Unità, ed è stato uno dei primi a raccontare di quel “pool” di giornalisti e direttori che, in maniera coordinata, pubblicava le notizie fornite dai pm di Milano. “Quel patto non è mai stato sciolto. Ma a quell’epoca c’era un disegno politico molto preciso. Il pool di Milano si sentiva investito di un compito etico, quello di purificare la società e lo stato. L’obiettivo era demolire la democrazia dei partiti. Che infatti da allora non è più esistita, mentre la magistratura ha conquistato un potere politico abnorme che nessuno ha più messo in discussione”. “Oggi – aggiunge – non vedo un disegno preciso. Certo, il meccanismo è lo stesso. Prenda il caso Raggi. Si vìola il segreto d’ufficio, i quotidiani pubblicano le stesse notizie con gli stessi titoli, ma qual è il disegno? Mi sembra difficile sostenere che la magistratura voglia colpire i grillini. Piuttosto direi che si tratta di gruppi singoli che puntano a garantirsi il proprio potere. A mostrare la loro forza. E comunque resta una domanda: perché davanti a violazioni palesi del segreto d’ufficio non ci sono mai indagini?”.

Filippo Facci, altro giornalista “eretico” di quella stagione nonché autore di un libro dal titolo “Di Pietro. La storia vera”, non vede un parallelismo tra passato e presente: “Quello che accadde con Tangentopoli è un fatto mai accaduto prima. C’era un pool di giornalisti che comprendeva tutti e la distribuzione era equanime. Non solo, alcuni cronisti erano apertamente schierati e il loro comportamento aveva dei fini istruttori. Perché i materiali, le carte, i nomi che venivano forniti servivano per favorire il pellegrinaggio in procura dei protagonisti di quelle inchieste. Prima di allora c’erano degli schieramenti: ad esempio il Corriere con il Giornale, Repubblica con l’Unità. Ma servivano più che altro per coprirsi in maniera minima su alcune notizie”. E poi c’era il contesto. “Il 95 per cento dell’opinione pubblica era schierato. Anche allora c’era la crisi economica – sottolinea – ma si pensò che il malcontento potesse essere canalizzato e che la colpa definitiva potesse essere attribuita ai tangentari. Oggi no. C’è una tale indolenza. Le vicende della Raggi, ad esempio, sono imbarazzanti sia perché insopportabilmente faziose, sia perché i grillini reagiscono in maniera scomposta riproponendo, quasi 50 anni dopo, campagne contro un altro Calabresi. Ma non ci vedo né un particolare protagonismo dei pm, né la volontà di renderli protagonisti. Mi pare più una forma di gratificazione. Un compiacimento, un mantenere alta l’attenzione mediatica attorno a inchieste che ci rendono protagonisti”.

Quelle trame Davigo-Grillo per estromettere Berlusconi. Tre incontri con l'ex pm per ideare l'emendamento che vieterebbe al Cavaliere di rimanere capo politico, scrive Giampiero Timossi, Domenica 1/10/2017, su "Il Giornale". Piercamillo Davigo è un uomo d'ingegno e infatti non perde occasione per ricordare: «I magistrati non possono far politica, non la sanno fare». Solo che poi dimentica quello che dice a verbale e ascolta la voce del suo Io interiore. È un quarto di secolo che uno degli eroi del pool di Mani Pulite continua a far politica. Lasciata la guida dell'Associazione Nazionale Magistrati e tornato in Cassazione, Davigo corre da un convegno all'altro, passa dalla festa del Fatto Quotidiano (dove ovviamente ribadisce il concetto che i magistrati non sanno fare politica), quindi incontra il leader del movimento che gli piace di più, i Cinque Stelle di Beppe Grillo. «Tre incontri nelle ultime tre settimane», trapela dall'entourage grillino. Tre incontri per mettere definitivamente a punto la regola «ammazza-Berlusconi». Un emendamento al rispolverato Rosatellum che dice: «Chi è incandidabile non potrà essere il capo politico di una coalizione». Così l'insidia Berlusconi sembra neutralizzata con un emendamento ad personam, alla faccia della decisione della Grande Chambre della Corte dei diritti dell'uomo, che si dovrebbe pronunciare entro il 22 novembre sul ricorso presentato dai legali dell'ex premier. L'ultima variante in commercio dell'«ammazza-Berlusconi» arriva da un'idea nata qualche settimana fa e ha iniziato a prendere forma quando sono uscite le regole, tutte nuove, per trovare il candidato premier. C'era il palese tentativo, ovviamente riuscito, di «blindare» l'elezione dell'indagato Di Maio. Ma c'era anche dell'altro, perché il nuovo testo sentenziava: chi vincerà la consultazione on-line diventerà subito nuovo capo del partito. Una definizione in apparenza quasi anacronistica, per alcuni vuota di un vero significato e capace solo di irritare la fronda grillina contraria all'ascesa di Di Maio. Storie, ora quella precisazione rende ancor più chiaro il progetto nato dalla coppia Davigo-Grillo: «sostituire» il capo politico del M5s. Perché, in base all'emendamento presentato due giorni fa, anche il comico genovese non potrebbe guidare il Movimento. Impossibile per chi, come lui, è stato condannato in via definitiva. Lo ha già fatto? Vero, ma ora non più, così come in passato Grillo non era stato candidato, per non violare apertamente i paletti della legge Severino. Adesso, con il solito tempismo, il leader comico ha lanciato la «rivoluzione d'ottobre», vuol far sapere che tutto il potere è nella mani di «Giggino», mentre lui farà ancora una volta un passo di lato, per poi sostenere commosso «che non lascerà mai», ma cercando in verità di smarcarsi. Ed è tutto uno smarcarsi, giusto per restare sempre in campo, ma nelle posizioni ogni volta più congeniali alle proprie aspirazioni politiche. Vale per Grillo, certo. Ma potrebbe anche valere per Davigo. Lui, o chi per lui, aveva cullato il sogno che qualcuno lo investisse dell'ingrato compito di diventare il candidato premier a Cinque Stelle. Il gioco sarebbe valso la candela: anche se un magistrato non sa fare politica potrebbe sempre imparare, soprattutto se in palio c'è la possibilità di governare l'Italia. Solo che nessuno ha chiesto alla toga di diventare premier, perché era già tutto apparecchiato per servire Di Maio. Pazienza, resterebbe viva l'ipotesi di una futura nomina a ministro di Giustizia, magari dirottando il collega Nino Di Matteo all'Interno. Ipotesi, per ora. Perché tra tanti concorrenti, alla fine Davigo potrebbe spiccare il volo. Diventando per i Cinque Stelle il candidato ideale per la presidenza della Repubblica. Passando da Tangentopoli al Quirinale, grazie a una marcia lunga 25 anni. E un percorso alternativo davvero ingegnoso.

POLITICA DELLA PAURA, scrive il 3-10-2017 “L’Avanti". “Un consenso che si fonda sulla paura delle manette”: parte da qui la proposta socialista per l’istituzione urgente di una commissione di inchiesta parlamentare attorno agli effetti dell’inchiesta giudiziaria “Mani Pulite” sulle elezioni politiche del 1994 e sul sistema politico italiano degli anni successivi. L’iniziativa è nata in seguito alle dichiarazioni dall’ex magistrato Antonio Di Pietro, rilasciate ad alcuni organi di informazione. “Ho fatto una politica sulla paura” – ha detto Di Pietro, già leader del movimento politico Italia dei Valori. “La paura delle manette, l’idea che “sono tutti criminali”, la paura che chi non la pensa come me sia un delinquente. Poi alla fine, oggi come oggi, avviandomi verso la terza età, mi sono accorto che bisogna rispettare anche le idee degli altri”. E ancora: “Ho fatto l’inchiesta Mani Pulite, e con l’inchiesta Mani Pulite si è distrutto tutto ciò che era la cosiddetta Prima Repubblica: il male, e ce n’era tanto con la corruzione, ma anche le idee, perché sono nati i cosiddetti partiti personali”. La proposta di legge è stata presentata dal Psi in entrambi i rami del Parlamento e porta la prima firma del deputato Oreste Pastorelli alla Camera e del senatore Enrico Buemi a Palazzo Madama. “Vogliamo fare chiarezza sul comportamento di un magistrato – afferma Nencini nella conferenza di presentazione della proposta – che dichiara vent’anni dopo: “Abbiamo raggiunto il consenso grazie alla paura delle manette’. Siccome questo non è uno stato inquisitorio, ma uno stato di diritto, vogliamo capire cosa si nasconde dietro a ciò che dichiara un ex magistrato”. Il segretario del Psi precisa che “non si tratta di legare la commissione d’inchiesta a questo o quel partito. Non chiediamo di indagare su tangentopoli, di cui non ci interessa nulla, chiediamo che la commissione lavori per capire cosa c’è dietro” alle parole di Di Pietro: “È stato applicato il diritto o la paura delle manette? Vogliamo chiarezza su questo punto”. “Di Pietro – dice ancora Nencini – ha parlato di ‘politica della paura e delle manette: parole da Stato inquisitorio, non da Stato di diritto, termini lontani da una giustizia giusta. Con una commissione d’inchiesta vogliamo sapere se i metodi utilizzati siano stati generalmente quelli ricordati da Di Pietro e se i diritti della difesa siano stati lesi o garantiti. Di Pietro renda ancora più esplicita la sua dichiarazione di cui riconosciamo il coraggio: con politica della paura e delle manette a chi si riferisce? Al clima generale del tempo o dietro la frase ci sono nomi e persone precise che sono state arrestate ed escluse dalla politica? Serve un secondo atto di coraggio, Di Pietro riempia di contenuti queste parole”. Per Nencini ormai esiste la “giusta distanza storica per cercare la verità oggettiva. Vogliamo ripristinare la verità storica e crediamo che la strada maestra per far luce sia quella parlamentare”. Si tratterebbe di una commissione d’inchiesta bicamerale, composta da 20 deputati e 20 senatori, con un rappresentante per ciascun gruppo presente in Parlamento. La durata della commissione è prevista di sei mesi. “Vogliamo – aggiunge Enrico Buemi- che sia ristabilita una verità storica a prescindere dalle sentenze. Quello insomma di verificare lo stato di diritto in un Paese democratico é un dovere. Occorre capire se si è agito in nome della legge o se si sono usati altri percorsi”. “Non é nostro obiettivo quello di individuare responsabilità personali, non è questo il punto. L’obiettivo è la ricerca delle verità. Una verità storica prescindendo dalle sentenze che ormai sono passate in giudicato”. La commissione dovrà occuparsi anche di un altro punto. “Quello della pressione mediatica che è scesa in campo con tutto il peso di cui disponevano i mass media”. Pia Locatelli, vicepresidente dell’Internazionale socialista e capogruppo Psi alla Camera, ricorda Moroni “che perse la vita oppure i danni arrecati a Del Turco e Mastella. Di Pietro fa un revisionismo di comodo. È lapalissiano che voglia candidarsi. D’Alema ha riabilitato Bettino Craxi con parole degnissime, ma in ritardo di qualche lustro”. Per Oreste Pastorelli “il tema interesserà l’intera politica. Non deve essere un argomento dei socialisti, ma della politica in generale. E dopo le parole di uno degli attori principali di quel periodo ci siamo sentiti in dovere di chiedere l’istituzione di una commissione per far emergere la verità”.

Nencini: «Paura e manette, ora la politica indaghi su Tangentopoli», scrive Giulia Merlo il 4 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Dopo le “confessioni” di Antonio Di Pietro, i socialisti chiedono una commissione d’inchiesta: «Mani pulite ha distrutto i partiti del ‘900». Una commissione d’inchiesta parlamentare sul Tangentopoli, per chiarire gli effetti dell’inchiesta sulle elezioni del 1994. La proposta, presentata alla Camera dal Partito socialista, «nasce dalle dichiarazioni del leader del pool, Antonio Di Pietro, il quale alcuni giorni fa ha dichiarato: “Abbiamo costruito il consenso sulla paura delle manette”», ha spiegato Riccardo Nencini, segretario socialista e viceministro dei Trasporti.

I socialisti chiedono una commissione d’inchiesta su Tangentopoli. La vendetta è un piatto che va servito freddo?

«Non c’entra nulla. Guardi, avrei trovato gravi le parole di Di Pietro anche se militassi in un partito diverso. Si tratta di dichiarazioni che suscitano reazioni al di là dell’appartenenza politica: quando un ex magistrato, riferendosi alla sua attività negli anni in cui vestiva la toga, mette insieme «consenso» e «paura delle manette», crea un connubio proprio degli stati inquisitori e totalitari. A lei non sembra pericoloso, in uno Stato di diritto? A questo bisogna pensare, indipendentemente dall’appartenenza politica dei singoli».

E quale mandato dovrebbe avere la commissione d’inchiesta?

«La commissione dovrà fare anzitutto chiarezza. Già ne 1992 e negli anni successivi si mise in dubbio la tecnica con cui venne portata avanti l’inchiesta di Mani Pulite, e ora quei dubbi trovano conferma nelle parole del massimo protagonista di quel periodo. Di più, le sue ammissione aprono il campo a ulteriori domande».

Per esempio?

«Per esempio bisogna chiarire se il sistema utilizzato nelle indagini e nell’inchiesta sia stato corretto e se i diritti della difesa siano stati lesi o meno. Se, come ha detto Di Pietro, è la paura delle manette che crea il consenso per proseguire l’indagine, in cosa si sostanzia questa paura delle manette? Di Pietro dovrebbe essere più chiaro: c’è un riferimento specifico, dietro le sue parole? La mia non è una illazione politica ma una riflessione a partire da ciò che ha dichiarato un magistrato importante, nell’interesse dello Stato».

Lei immagina che si sia trattato di una linea di condotta generalizzata nella magistratura dell’epoca?

«Io mi chiedo e vorrei chiedere a Di Pietro se quello che ha descritto era una fenomeno che riguardava soltanto lui. Dopo questa prima ammissione di verità, anche coraggiosa da parte sua, ne dovrebbe seguire una più specifica: lui sostiene che si costituì il consenso sulla paura delle manette, e allora dovrebbe fare nomi, cognomi, episodi…»

Il giudizio è pesante e rischia di cadere sull’intera categoria della magistratura.

«Senta, conosco ottimi magistrati e so benissimo che non tutti la pensano come Di Pietro. Si tratta, però, di dichiarazioni pubbliche mai smentite e in un paese civile si ha il dovere di chiedere di più, soprattutto vista la rilevanza avuta da Tangentopoli nella storia del Paese».

Che effetti ha provocato Tangentopoli per la politica italiana?

«Intanto ha consentito l’anticipazione di alcuni fatti: l’Italia è stato il primo Paese a sperimentare la politica dell’uomo solo al comando, dopo la distruzione dei partiti. Il fenomeno è apparso anche altrove, negli anni successivi, ma lì i partiti sono rimasti, anche se hanno cambiato caratteristiche e organizzazione. Da noi, invece, Mani Pulite ha imposto un’accelerazione al fenomeno della distruzione dei partiti di stampo novecentesco, dovuta non a un cambiamento sociale ma all’intervento della magistratura».

Eppure, riprendendo le parole di Di Pietro, di quale «consenso» aveva mai bisogno la magistratura, per condurre quell’inchiesta?

«E’ esattamente questo il punto da chiarire: proprio perché la magistratura non ha bisogno di consenso il fatto è grave. Un’indagine non si parametra sul consenso che esternamente si riceve, eppure nel 1992-‘ 93 Di Pietro ha ritenuto che il consenso fosse necessario per procedere a tappe forzate in un’indagine di cui ben conosciamo gli esiti. Non solo, rimane aberrante il binomio manette consenso, che poco ha a che vedere con l’esercizio della giustizia ma adombra l’inquietante sensazione di un potere giudiziario che punta a volersi sostituire al potere politico».

A 25 anni da Tangentopoli, in questi mesi si sta allungando la lista di politici assolti dopo inchieste molto enfatizzate sulla stampa. La politica ha ora buone ragioni per rifarsi sulla magistratura?

«No, io non credo che la politica viva un senso di rivalsa. Rilevo però, citando solo due casi, che l’inchiesta su Mastella provocò la caduta del governo Prodi, mentre il caso Orsoni ha azzerato il comune della città di Venezia. Tutto questo mi fortifica nelle mie convinzioni: la necessità della separazione delle carriere tra giudice e pm e della responsabilità civile dei magistrati».

Tornando alla commissione d’inchiesta, lei crede che troverà consenso tra i suoi colleghi in Parlamento?

«Ma certo, io spero che i colleghi mi diano il sostegno. Immagino che siano preoccupati quanto me se un ex magistrato, riferendosi alla sua precedente attività in toga, si esprime nei termini usati da Di Pietro. Oggi presenteremo la proposta di legge alla Camera, poi lo faremo al Senato e speriamo sia calendarizzata. Se così non fosse, ci rivolgeremo al ministro della Giustizia, Andrea Orlando».

Di Pietro confessa: "Ho fatto politica sulla paura delle manette". Il mea culpa dell'ex magistrato, che ammette di aver considerato "un criminale" chiunque non la pensasse come lui. La feroce (tardiva) autocritica del paladino di Mani Pulite, scrive Valerio Valentini l'8 Settembre 2017 su "Il Foglio".  A dire certe cose di Antonio Di Pietro – tipo che l'ex pm ha costruito il consenso politico sulla paura delle manette, demonizzando qualsiasi avversario politico e dipingendo un'intera classe dirigente come una masnada di criminali – si rischiava di passare subito per biechi antidipietristi difensori di tangentisti e corrotti. Almeno fino ad oggi. Perché ora, a dire certe cose di Antonio Di Pietro, è proprio l'ex magistrato. La confessione, o se preferite il mea culpa, arriva durante un collegamento video con lo studio di “L'Aria che tira estate”, trasmissione condotta da David Parenzo su La7. Mancano pochi minuti a mezzogiorno, e il dibattito in studio si trascina, un po' stancamente, sulla propaganda di alcuni partiti che speculano sull'infondato timore della diffusione di malattie letali legate all'arrivo dei migranti, quando Di Pietro coglie l'occasione per ammettere le proprie “colpe”. “Se si cerca il consenso con la paura, lo si può ottenere a 3 giorni, a un'elezione, ma poi si va a casa. Io ne sono testimone, ché ho fatto una politica sulla paura e ne ho pagate le conseguenze”. Sgomento e incredulità tra gli ospiti, ma solo per un attimo. Poi subito scatta l'applauso, con Parenzo che chiede all'ex leader dell'Italia dei Valori di chiarire meglio il significato delle sue dichiarazioni: “In che senso, paura?”. Risponde Di Pietro: “La paura delle manette, la paura del, diciamo così, “sono tutti criminali”, la paura che chi non la pensa come me è un delinquente e quant'altro. Poi alla fine, oggi come oggi, avviandomi verso la terza età, mi rendo conto che bisogna rispettare anche le idee degli altri”. Lo stupore per questa inattesa, feroce autocritica, è enorme. Tanto che sia l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, sia la deputata berlusconiana Laura Ravetto insieme alla collega renziana Simona Malpezzi, restano indecisi su come reagire. Il primo a parlare è Luigi Crespi, ex sondaggista di fiducia del Cav, che soddisfatto afferma: “Questo è un pezzo di storia”. Cui si aggiunge, subito dopo, anche un passaggio su Tangentopoli: “Io porto con me una conseguenza. Ho fatto l'inchiesta Mani Pulite, con cui si è distrutta l'intera Prima Repubblica: il male, e ce n'era tanto con la corruzione, ma anche le idee. Ed è così che sono nati i cosiddetti partiti personali: Di Pietro, Bossi, Berlusconi e quant'altro. Ovvero partiti che hanno al massimo il tempo della persona”. A qualcuno, certo, potrà forse apparire tardivo, questo radicale ripensamento. A qualcuno perfino sospetto, arrivando a pochi giorni di distanza dall'annuncio semiserio dello stesso Di Pietro su un suo eventuale ritorno in politica – magari tra le schiere dei bersaniani di Mdp. Intanto, comunque, la deposizione può essere messa agli atti. Poi si vedrà.

A 25 anni dalla morte di Moroni non c'è bisogno di Di Pietro per capire i danni di Mani Pulite. L'ex pm avrebbe fatto autocritica sull'inchiesta. Ma se proprio vuole, promuova la separazione delle carriere o magari spieghi come certo uso dell’odio sia divenuto moneta corrente per le giovani generazioni, scrive Fabio Cammaleri il 27 Settembre 2017 su "Il Foglio". La notizia sembra questa: che Antonio Di Pietro avrebbe svolto un’autocritica su Mani Pulite. Più in particolare, ha affermato di aver capito, a 67 anni, che “...ho fatto una politica sulla paura...la paura delle manette...la paura del, diciamo così, ‘sono tutti criminali’, la paura che chi non la pensa come me sia un delinquente”. E poi aggiungendo: “...con l’inchiesta Mani Pulite, si è distrutto tutto ciò che era la cosiddetta Prima Repubblica: il male, e ce n’era tanto con la corruzione, ma anche le idee, perché sono nati i cosiddetti partiti personali”. Mani Pulite, e la sua critica storico-sistemica accompagnano alcuni, pochi, convinti dubbiosi, da molti anni: perciò, per costoro, nessuno stupore. Critica ai suoi presupposti: la deliberata indistinzione fra piano individuale, il delitto; e piano generale, il finanziamento dei partiti di massa in un contesto internazionale parabellico. Critica, soprattutto, al suo svolgimento, che è diventato la sua più durevole conseguenza: la strumentale soppressione, per deformazione, del processo penale. E senza processo penale, non ci può essere democrazia, ovviamente. E’ ovvio che la “Rivoluzione Italiana” sia stato questo. E nemmeno stupisce l’allocuzione del Nostro: che di uscite apparentemente sorprendenti, e irrelate le une alle altre, ha costellato il suo profilo pubblico. Le parole su una qualsivoglia causa (qui, Mani Pulite) svaniscono nell’irrisorio, quando non ricevano nerbo e autorità da un’azione sulle conseguenze (qui, lo svuotamento democratico della Repubblica Italiana). Caso vuole che in questi giorni sia venuto il XXV anniversario di un certo fatto. Così ci capiamo. Fu invece un fatto esplicativo, quello: non solo per lo specifico modo in cui cadde sulla vita civile della comunità nazionale. Ma perché svelò un Catone Uticense del nostro tempo: che seppe fissare, lucidamente, la portata di Mani Pulite sulla democrazia italiana. In corso d’opera. Con orgoglio tragico levò la sua voce contro quegli infausti fasti, intessendo la sua parola di umana verità, di suprema verità. A capo chino, volgiamoci alla sua memoria: “...quando la parola è flessibile, non resta che il gesto. Mi auguro solo che questo possa contribuire a una riflessione più seria e più giusta, a scelte e decisioni di una democrazia matura che deve tutelarsi. Mi auguro soprattutto che possa servire a evitare che altri, nelle mie stesse condizioni, abbiano a patire le sofferenze morali che ho vissuto in queste settimane, a evitare processi sommari (in piazza o in televisione), che trasformano un’informazione di garanzia in una preventiva sentenza di condanna. Con stima. Sergio Moroni”. Era il 2 Settembre di venticinque anni fa. Scriveva al Presidente della Camera, Giorgio Napolitano. Il “gesto”, come si ricorderà, prese la forma di un colpo di carabina con cui il deputato socialista si uccise: “l’atto conclusivo di porre fine alla mia vita”, nelle sue parole. Fu trovato la sera, riverso nella cantina della sua casa di Brescia. Aveva 45 anni. Venne affermato che poteva averlo fatto per la vergogna. Oppure perché aveva un tumore. Il tumore fu smentito il giorno dopo dal fratello, con mesta nettezza. Sulla vergogna, su chi e perché, se ne potrebbe ancora discutere. Giustappunto. Era Segretario regionale lombardo del Partito, e membro della Direzione Nazionale. Poco prima aveva ricevuto due avvisi di garanzia, per “tangenti”, come recava il “gergo originario” di Mani Pulite. Ancora nessun atto d’indagine nei suoi confronti: allora occorreva l’autorizzazione a procedere. A quel modo, la concesse lui: poiché aveva esordito scrivendo, in un empito di tragico sarcasmo, che “l’atto conclusivo” serviva, in primo luogo, a “lasciare il mio seggio in Parlamento”. Nell’Ottobre dell’anno dopo, anche la democrazia parlamentare compiva il suo “atto conclusivo”: firmando una resa senza condizioni. Con la Legge costituzionale n. 3 del 29 Ottobre 1993, fu abrogata l’autorizzazione a procedere. Tuttavia, la tragedia fu più sfumata: perché quei Deputati e Senatori non disposero di un bene proprio, ma delle libertà costituzionali della Repubblica e, in relazione diretta, di ogni suo cittadino; da quel giorno in poi, e in un crescendo tuttora in atto, divenuto suddito di un Apparato burocratico sovraordinato ad ogni altra istituzione. Da quel Settembre 1992, molto diritto è passato al macero; molte vite si sono spente. E Sergio Moroni l’aveva previsto. “E’ indubbio che stiamo vivendo un cambiamento radicale sul modo di essere nel nostro Paese, della sua democrazia, delle istituzioni che ne sono espressione.” Era leale, Sergio Moroni: “Mi rendo conto che spesso non è facile la distinzione tra quanti hanno accettato di adeguarsi a procedure legalmente scorrette in una logica di partito, e quanti invece ne hanno fatto strumento di interessi personali. Rimane comunque la necessità di distinguere...”. Per deliberata scelta di taluni, è noto, non si volle distinguere. Si scelsero le monetine contundenti, autentica effigie fondativa di quella svolta autoritaria: “Non credo che questo nostro Paese costruirà il futuro che merita coltivando un clima da ‘pogrom’ nei confronti della classe politica...”. No. Infatti. Nel crescente disprezzo verso quanti coltivarono e coltivano la necessità di distinguere, il Paese, nelle turbe, come dalle cattedre dell’Apparato, da allora, si è dato a ricostruire il suo passato più buio: per la convivenza civile, per la conoscenza, per la libertà personale. E non c’era davvero bisogno di Antonio Di Pietro per scoprirlo. Se proprio vuole, promuova la separazione delle carriere, fra magistrati che accusano e magistrati che giudicano; o spieghi come, secondo lui (ricordando fatti, persone, luoghi, atti, però), certe centrali di propaganda sono sorte, come e perché si sono alimentate; come certo uso dell’odio sia divenuto moneta corrente per le giovani generazioni; come il Parlamento sia divenuta un’istituzione non più libera; e altro ancora, che più o meno ogni coscienza libera sa essere materia per il “Libro Proibito” della Seconda Repubblica. Oppure, confidi nell’oblìo.

Devastati da Mani Pulite. Non ha sconfitto la corruzione, ha alimentato il populismo e ha legittimato la moralizzazione pubblica per via giudiziaria. Eccola l’eredità di Tangentopoli, scrive Giovanni Fiandaca il 30 Marzo 2017 su "Il Foglio”. Che vi sia, a un quarto di secolo ormai di distanza, l’esigenza di una approfondita rivisitazione storico-critica della cosiddetta rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite, presumo che non siamo in pochi a pensarlo. E’ vero che il venticinquesimo “anniversario” ha già sollecitato qualche rievocazione giornalistica, ma siamo ancora lontani dall’avere aperto quella discussione pubblica vera, finalmente emancipata da ipocrisie moralistiche e pudori politicamente corretti, che sarebbe necessario una buona volta avviare. Non soltanto per comprendere meglio quel che avvenne allora, ma anche per verificare se alcune persistenti patologie possano ancora essere fatte risalire a quel recente passato. Tra queste patologie, alludo in particolare a quella perdurante nevrosi politico-istituzionale che continua a provocare conflitti tra politica e magistratura: e fa sì che la stessa politica odierna subisca forti condizionamenti da un’azione giudiziaria che tende a tutt’oggi a realizzare invasioni di campo in ambiti politicamente rilevanti e, nello stesso tempo, a esercitare un controllo di legalità di fatto esorbitante da quegli spazi fisiologici che dovrebbero in teoria spettare al potere giudiziario. Un bilancio per comprendere quel che avvenne allora e verificare quali patologie possano essere fatte risalire a quel recente passato. Non intendo procedere a una revisione critica della contabilità giudiziaria (rapporti numerici tra indagati, incarcerati, scarcerati, prosciolti, condannati o assolti ecc.) riportata di recente in più di un intervento rievocativo. Rinviando ad una verifica già effettuata su queste colonne (cfr. l’articolo di Maurizio Crippa del 17 febbraio scorso), escluderei infatti che a orientare la rivisitazione di Mani pulite possa essere soltanto un approccio di tipo quantitativo circoscritto al concreto esito delle indagini e dei processi celebrati in quel periodo. Il discorso è più ampio e complesso, dal momento che ben trascende la conta ragionieristica delle condanne e riguarda piuttosto, com’è facile intuire, due questioni di fondo assai spinose: l’una concernente i rapporti sistemici tra giustizia e politica; l’altra relativa ai limiti di compatibilità tra una guerra a tutto campo alla corruzione e un pur equilibrato rispetto dei principi del garantismo penale. L’affossamento per via giudiziaria del precedente sistema basato sui partiti nati dalla Resistenza, non è stato soltanto un terremoto politico: è stato anche un trauma costituzionale, e ciò per il motivo evidente che la criminalizzazione di quasi un intero asseto politico-governativo esula dalle funzioni tipiche della giurisdizione penale. Ora, questa traumatica rottura dell’equilibrio tra i poteri avrebbe potuto trovare una ragione giustificatrice, beninteso secondo una unilaterale logica utilitaristica di risultato (altro è il discorso guardando da una prospettive più ampia, comprensiva di tutti i valori, principi ed equilibri anche costituzionali in giuoco), ad una condizione: a condizione cioè che la macchina da guerra repressiva riuscisse davvero a sortire come effetto una durevole sconfitta della corruzione pubblica. Cosa che però, come tutti sappiamo, non è invece avvenuta. E lo riconoscono apertamente persino magistrati protagonisti di allora, come Piercamillo Davigo il quale, invero, non si stanca di denunciare che la corruzione è andata estendendosi in maniera più capillare ed è andata via via assumendo forme nuove. Viene spontaneo, allora, chiedersi: valeva la pena che la repressione penale spazzasse via un ceto politico che, riguardato col “senno di poi” – e tanto più se messo a confronto con le poco felici performances almeno di alcuni dei protagonisti delle stagioni politiche successive – , ci appare forse meno incapace e indegno di quanto in quel momento non sembrasse? E valeva altresì la pena che la repressione, per di più, assumesse maniere così drastiche da perdere di vista che la lotta alla corruzione non avrebbe potuto in ogni caso giustificare un utilizzo più che disinvolto di carcerazioni preventive finalizzate alla collaborazione giudiziaria né, a maggior ragione, logiche inquisitorie suscettibili di accrescere il rischio (forse non sempre astratto) di reazioni suicidiarie? Secondo una stima recente relativa al periodo 1992-1994, i suicidi di persone coinvolte dalle indagini ammonterebbero al numero tutt’altro che irrilevante di 32! Il frutto di quell'epoca, oggi, è un'azione giudiziaria che tende a realizzare invasioni di campo in ambiti politicamente rilevanti. Gli ostinati difensori di Mani Pulite potrebbero, nonostante tutto, obiettare che la rivoluzione giudiziaria fu oggettivamente necessitata tanto nel suo ambito di estensione, quanto nelle sue risolute modalità di attuazione. Ma solo una ingenuità puerile o un pregiudizio favorevole contiguo al fanatismo possono indurre a crederlo davvero: in realtà, quanto e come intervenire la macchina giudiziaria non può mai deciderlo da se stessa, in modo automatico e impersonale; lo decidono, con ampia discrezionalità di fatto se non di diritto, i magistrati in carne ed ossa competenti a farla funzionare. Ciò è tanto più vero di fronte ad una impresa giudiziaria priva di precedenti come quella milanese: questa inusitata impresa non avrebbe, in effetti, potuto vedere la luce se il pool di pubblici ministeri non si fosse intenzionalmente accollata la missione di ripulire la vita pubblica e moralizzare la politica al fine di promuovere un ricambio della classe dirigente, credendo di assolvere così una sorta di mandato popolare neppure tanto tacito. E, infatti, i giudici ricevettero un esplicito ed entusiastico sostegno da parte di una opinione pubblica politicamente trasversale e di quasi tutto il sistema mediatico: per cui essi finirono col sentirsi legittimati a portare avanti questa vasta azione repressiva, più che in forza di un astratto obbligo legale, dalla diffusa richiesta popolare di fare piazza pulita della partitocrazia corrotta. Che all’origine di Mani Pulite vi fu (e non poteva non esserci) un complesso intreccio di fattori oggettivi di contesto e di protagonismo soggettivo sul versante magistratuale è del resto un assunto che trova conferma anche in alcune significative testimonianze di quella fase storica, così come riportate in qualche saggio ricostruttivo apparso in questo venticinquennio. Leggendo ad esempio la storia di Tangentopoli scritta da Marco Damilano (Laterza 2012), ci si imbatte in questo emblematico giudizio di un osservatore privilegiato come il noto imprenditore Carlo De Benedetti: “Una combinazione di protagonismo dei giudici e di un vaso ormai troppo pieno” (dove è chiaro che per vaso troppo pieno è da intendere una grave situazioni di crisi a più livelli). Orbene, proprio questo forte attivismo giudiziario, in funzione miratamente antagonistica rispetto al sistema partitico di allora, ha determinato non soltanto una esposizione politica della procura milanese eccedente i contraccolpi oggettivamente destabilizzanti che le indagini sulle vicende corruttive avrebbero comunque prodotto sulla tenuta dei partiti di governo: si è invero assistito a una sovraesposizione politica che ha finito con l’assumere la caratteristica aggiuntiva di un paradigmatico populismo giudiziario. Intendendo per tale, appunto, la forma di manifestazione del populismo penale sul piano specifico della giurisdizione: fenomeno che ricorre tutte le volte in cui il magistrato pretende, anche grazie a una frequente esibizione mediatica, di assurgere ad autentico rappresentante o interprete dei veri interessi e delle aspettative di giustizia dei cittadini, e ciò in una logica di concorrenza-supplenza e in alcuni casi di aperta contrapposizione rispetto al potere politico ufficiale. Non è un caso, allora, che questa figura di magistrato-tribuno, oltre ad impersonare di fatto un ruolo ibrido di attore giudiziario-politico-mediatico, finisca col cedere alla tentazione di entrare in politica e talvolta col dare persino vita a movimenti anti-sistema di impronta personale: le esemplificazioni sono così note che possiamo qui fare a meno di esplicitarle. Il frutto di quell’epoca, oggi, è un’azione giudiziaria che tende a realizzare invasioni di campo in ambiti politicamente rilevanti. Sembra, dunque, abbastanza plausibile sostenere che Mani Pulite abbia avuto ricadute politiche ad amplissimo raggio che vanno al di là del colpo di grazia inferto al tradizionale sistema partitocratico: una magistratura consapevolmente operante come strumento di rivincita della società civile contro i partiti corrotti e i metodi utilizzati, in particolare, da un accusatore-tribuno del popolo come Antonio Di Pietro diedero infatti – come ha ad esempio apertamente riconosciuto Romano Prodi nel contesto di un libro-intervista su politica e democrazia (Laterza 2015) – un fortissimo impulso alla “stagione di un populismo senza freni”. Se ciò è vero, e se si condivide la convinzione che il populismo politico (comunque declinato: di destra, di sinistra o anche di destra-sinistra miste) non rappresenti una risposta intelligente ed efficace alla crisi della democrazia, prima di auspicare nuove rivoluzioni giudiziarie modello Mani Pulite bisognerebbe riflettere in maniera ponderata sul rischio che una giustizia penale caricata di missioni palingenetiche produca, alla fine, più danni che vantaggi. Segnalare questo rischio equivale a dare un giudizio negativo su un’impresa giudiziaria che è stata invece tante volte elogiata? Un consuntivo a venticinque anni di distanza, per quanto più distaccato e meno emotivo, non può non risentire (oltre che di pudori politicamente corretti) dell’orientamento politico-culturale e della sensibilità personale di chi giudica. Ma non è privo di significato che abbiano avuto ripensamenti anche alcuni di quelli che furono allora aperti sostenitori della rivoluzione giudiziaria, come ad esempio Piero Ottone: “In realtà, un po’ mi ricredo. Penso adesso, a tanti anni di distanza, che la pulizia improvvisa, la moralità imposta da un giorno all’altro, creava altri problemi (…). La lunga stagione di procedimenti giudiziari ha prodotto altri guai: se si eliminavano certi malanni se ne producevano altri. Infatti: molti magistrati ne hanno tratto una sensazione di onnipotenza, sono sbandati per altri versi” (citazione tratta dal libro di memorie Novanta, Longanesi 2014). Comunque la si pensi, certo è che Mani Pulite, oltre a non avere sconfitto la corruzione, ha contribuito anche per successiva emulazione ad alimentare tendenze ad un esercizio politicamente mirato dell’azione giudiziaria che da un lato hanno più volte continuato a produrre perniciose sovrapposizioni tra giustizia e politica e, dall’altro, hanno finito col determinare nei cittadini una progressiva caduta di fiducia rispetto all’imparzialità del potere giudiziario: secondo recenti sondaggi, infatti, la stragrande maggioranza (il 69 per cento) ritiene che alcuni settori della magistratura perseguano obiettivi politici, mentre all’epoca del pool milanese a confidare nei giudici era l’83 per cento delle persone (cfr. i dati riportati da Goffredo Buccini nel Corriere della sera del 22 marzo scorso). Se queste percentuali sono attendibili, risulta in realtà avvalorata la preoccupazione che l’uso politico della giustizia rappresenti – non meno del populismo nelle sue variegate forme – un pericolo mortale per la democrazia: perché ingenera l’illusione (che può risultare, a sua vota, deresponsabilizzante per la classe politica) che il rinnovamento politico e la moralizzazione pubblica possano essere perseguiti per via giudiziaria; e perché, per altro verso, assoggetta anche l’azione giudiziaria alla logica e ai metodi della contesa politica, così rinnegando l’imparzialità della magistratura quale principio-cardine di una democrazia degna di questo nome.

La contabilità di Mani pulite non dimostra la corruzione, ma il fallimento della rivoluzione per via giudiziaria-populista. L'operazione fu condotta come una gigantesca retata della buoncostume, impostata su reati e fattispecie di reati spesso ambigui, forzati, creati di sana pianta, scrive Maurizio Crippa il 20 Febbraio 2017 su "Il Foglio". Armarsi di pallottoliere è probabilmente il modo più congruo per affrontare il venticinquesimo “anniversario” di Mani pulite, schivando un certo schifo per le cose che si leggono oggi e senza dover ripercorrere tutta quanta la storia di questo giornale (rileggete Novantatré di Mattia Feltri, la ricostruzione giorno per giorno di quell’anno scritta nel 2003 per il Foglio, basta). Aiuta nella contabilità Repubblica, che ieri faceva “lezione” coi numeri: “Ben 4.520 persone vennero indagate nel solo filone milanese di Mani pulite”. Bisogna prendere sul serio queste cifre, quelle del “pool”. Su 4.520 iscritti nel registro degli indagati, derivarono 3.200 richieste di rinvio a giudizio (1.320 atti trasmessi ad altre autorità giudiziarie). Delle 3.200 persone giudicate a Milano: 620 condanne e patteggiamenti del gip, 635 proscioglimenti del gip (+15). Delle 1.322 persone rinviate a giudizio: 661 condanne, 476 assoluzioni. (Nel 2003 c’erano ancora 117 casi pendenti: la rapidità dell’indagine-lampo). Dunque in totale, su 4.520 persone finite nelle onnipotenti mani del pool, e su 3.200 rinviati a giudizio, le condanne sono 1.281 (965 per patteggiamento) e 1.111 le assoluzioni e proscioglimenti. Meno della metà dei processati è stata condannata, quasi altrettanto assolta. Significa che più del 50 per cento di quei processi e di quegli arresti (“noi incarceriamo la gente per farla parlare. La scarceriamo dopo che ha parlato”, proclamò Francesco Saverio Borrelli), potevano non essere fatti, o non andavano fatti. Se valutasse il tasso di produttività del pool, e di efficienza negli esiti processuali, l’amministrazione dello stato avrebbe di che lagnarsi. Questo permette di dire due cose, fuori dalle polemiche e dalle retoriche. Quando oggi un ex magistrato del pool come Piercamillo Davigo – e alcuni altri con lui, tra cui certi bonapartisti ex cronisti di procura – sostiene che il fallimento di Mani pulite consiste nel fatto che la corruzione non è stata debellata, anzi è aumentata (“non si vergognano più”, è l’estremizzazione di Davigo), dice una cosa oggettivamente falsa. Non si poteva debellare la corruzione di un “sistema” con quei mezzi, cioè forzando le procedure e impedendo manu militari al sistema di riformarsi. Il fallimento dell’operazione – e dell’ideologia giudiziaria – di Mani pulite risiede nel fatto che fu condotta come una gigantesca retata della buoncostume, impostata su reati e fattispecie di reati spesso ambigui, forzati, creati di sana pianta (la “dazione ambientale” sembrò assumere la concretezza di una mela rubata dal cesto). E questo, oltre alle ingiuste accuse e detenzioni, e alle conseguenze politiche prodotte (“il nostro obiettivo non è rappresentato da singole persone, ma da un sistema che cerchiamo di ripulire”, Italo Ghitti), ha impedito di individuare i veri reati (c’erano). La seconda cosa è che il fallimento di Mani pulite è soprattutto il fallimento delle false aspettative messianiche suscitate nell’opinione pubblica da forzature mediatiche e politiche miopi o di marca populista. I danni li vediamo ancora oggi. A questa contabilità andrebbero aggiunti i troppi suicidi, 32 tra il 1992 e il 1994 (“si vede che c’è ancora qualcuno che per la vergogna si uccide”, Gerardo D’Ambrosio su Sergio Moroni). Ma il pallottoliere lo teniamo nel cassetto, per la prossima occasione.

Tangentopoli, così i pm salvarono il Pci, scrive Fabrizio Cicchitto l'1 Marzo 2017, su "Il Dubbio". Tutti i partiti prendevano finanziamenti “aggiuntivi”, ma, a differenza del Psi, Botteghe Oscure fu salvata. Si distrusse una intera classe politica. Prima vinse Berlusconi, poi fu fatto fuori anche lui. E oggi trionfa il populismo. L’Italia, nel ’ 92-’ 94, fu teatro di un’autentica rivoluzione- eversione che eliminò dalla scena per via mediatico-giudiziaria ben 5 partiti politici “storici”, salvando però il Pci. Lo strumento di questa rivoluzione- eversione fu la “sentenza anticipata”: quando un avviso di garanzia, urlato da giornali e televisioni, colpiva i dirigenti di quei partiti essi erano già condannati agli occhi dell’opinione pubblica.  Qualora il pool di Mani Pulite avesse agito con la stessa determinazione e violenza negli anni 40 e 50 di quella messa in evidenza nel ’ 92-’ 94, allora De Gasperi, Nenni, Togliatti sarebbero stati incriminati e Valletta e Enrico Mattei sarebbero stati arrestati. Il finanziamento irregolare dei partiti e la collusione fra questi, i grandi gruppi pubblici e privati e relative associazioni (in primis Fiat, Iri, Eni, Montecatini, Edison, Assolombarda, Cooperative rosse, ecc.) data da allora. In più c’era un fortissimo finanziamento internazionale: la Dc era finanziata anche dalla Cia, e il Pci in modo così massiccio dal Kgb che le risorse ad esso destinate erano più di tutte quelle messe in bilancio per gli altri partiti e movimenti. In una prima fase, la Fiat finanziava tutti i partiti “anticomunisti” poi coinvolse in qualche modo anche il Pci quando realizzò i suoi impianti in Urss. Per Enrico Mattei i partiti erano come dei taxi, per cui finanziava tutti, dall’Msi, alla Dc, al Pci, e perfino la scissione del Psiup dal Psi, e fondò anche una corrente di riferimento nella Dc con Albertino Marcora, partigiano cattolico e grande leader politico: quella corrente fu la sinistra di Base che ha avuto un ruolo assai importante nella Dc e nella storia della Repubblica. Fino agli anni 80 questi sistemi di finanziamento irregolare procedettero “separati” vista la divisione del mondo in due blocchi, poi ebbero dei punti in comune: nell’Enel ( attraverso il consigliere d’amministrazione Giovanni Battista Zorzoli prima titolare di Elettro General), nell’Eni ( la rendita petrolifera di matrice sovietica) e specialmente in Italstat ( dove veniva realizzata la ripartizione degli appalti pubblici con la rotazione “pilotata” fra le grandi imprese edili, pubbliche e private, con una quota fra il 20% e il 30% assegnata alle cooperative rosse). Per molti aspetti quello del Pci era il finanziamento irregolare a più ampio spettro, perché andava dal massiccio finanziamento sovietico al commercio estero con i Paesi dell’est, alle cooperative rosse, al rapporto con gli imprenditori privati realizzato a livello locale. Emblematici di tutto ciò sono le citazioni da tre testi: un brano tratto dal libro di Gianni Cervetti L’oro di Mosca ( pp. 126- 134), un altro tratto dal libro di Guido Crainz Il paese reale ( Donzelli, p. 33), il terzo estratto è da una sentenza della magistratura di Milano sulla vicenda della metropolitana. Così ha scritto Gianni Cervetti: «Nacque, credo allora, l’espressione “amministrazione straordinaria”, anzi “politica dell’amministrazione straordinaria”, che stava appunto a indicare un’attività concreta (nomina sunt substantia rerum) anche se piuttosto confusa e differenziata. A ben vedere, poteva essere suddivisa in due parti. Una consisteva nel reperire qualche mezzo finanziario per il centro e le organizzazioni periferiche facendo leva su relazioni con ambienti facoltosi nella maniera sostanzialmente occulta cui prima ho accennato. In genere non si compivano atti specifici contro le leggi o che violavano norme amministrative precise, ma si accettavano o ricercavano finanziamenti provenienti da imprenditori non più soltanto vagamente facoltosi, ma disposti a devolvere al partito una parte dei loro profitti in cambio di un sostegno a una loro determinata attività economica. Tuttavia, in sistemi democratici, o pluripartitici, o a dialettiche reali – siano essi sistemi moderni o antichi, riguardanti tutto il popolo o una sola classe – pare incontestabile che in ogni partito coesistano i due tipi di finanziamento ed esista, dunque, quello aggiuntivo. Naturalmente – lo ripetiamo – di quest’ultimo, come del resto del primo, mutano i caratteri, le forme ed i contenuti a seconda dei partiti e dei periodi: anzi mutano i rapporti quantitativi dell’uno con l’altro, ma appunto quello aggiuntivo esiste in maniera costante. Comunque sia non c’è epoca, paese, partito che non abbia usufruito di fondi per i finanziamenti aggiuntivi. Sostenere il contrario significa voler guardare a fenomeni storici e politici in maniera superficiale e ingenua, o viceversa, insincera e ipocrita. Il problema, ripetiamo, lo abbiamo preso alla larga, e si potrebbe allora obiettare che aggiuntivo non corrisponda esattamente, e ancora, a illecito. Intanto, però, abbiamo dimostrato che il finanziamento aggiuntivo è storicamente dato e oggettivamente ineluttabile». Il fatto che anche il Pci, sviluppando la «politica dell’amministrazione straordinaria», accettava o ricercava finanziamenti provenienti da imprenditori «non più soltanto vagamente facoltosi ma disposti a devolvere al partito una parte dei loro profitti in cambio di un sostegno a una loro determinata attività economica» mette in evidenza che anche «nel caso del Pci il reato di finanziamento irregolare poteva sfociare in quello di abuso in atti d’ufficio o in corruzione o in concussione». Così ha scritto lo storico Guido Crainz: «È uno squarcio illuminante il confronto che si svolge nella direzione del Pci nel 1974, quando è all’esame del parlamento la legge sul finanziamento pubblico ai partiti. La discussione prende l’avvio dalla “esistenza di un fenomeno enorme di corruzione dei partiti di governo” ma affronta al tempo stesso con grande preoccupazione il pur periferico affiorare di “imbarazzi o compromissioni venute al nostro partito da certe pratiche”. L’approvazione della legge è esplicitamente giustificata con la necessità di garantirsi “una duplice autonomia…: autonomia internazionale ma anche da condizionamenti di carattere interno…. Non possiamo nasconderci fra noi il peso di condizionamenti subiti anche ai fini della nostra linea di sviluppo economico e, per giunta, per qualcosa di estremamente meschino” (intervento di Giorgio Napolitano alla riunione della direzione del 3 giugno 1974)». «Nel dibattito non mancano ammissioni di rilievo. “Molte entrate straordinarie”, dice ad esempio il segretario regionale della Lombardia Quercioli, “derivano da attività malsane. Nelle amministrazioni pubbliche prendiamo soldi per far passare certe cose. In questi passaggi qualcuno resta con le mani sporche e qualche elemento di degenerazione poi finisce per toccare anche il nostro partito” (intervento di Elio Quercioli nella riunione della direzione del 1° febbraio 1973). È possibile cogliere in diversi interventi quasi un allarmato senso di impotenza di fronte al generale dilagare del fenomeno: di qui la decisione di utilizzare la legge per porre fine a ogni coinvolgimento del partito. Si deve sapere, dice armando Cossutta, “che in alcune regioni ci sono entrate che non sono lecite legittimamente, moralmente, politicamente. Questo sarà il modo per liberare il partito da certe mediazioni. Non chiudere gli occhi di fronte alla realtà ma far intendere agli altri che certe operazioni noi non le accetteremo più in alcun modo. Punto di riferimento deve essere l’interesse della collettività e faremo scandalo politico e una battaglia contro queste cose assai più di prima” (intervento di Armando Cossutta alla direzione del 3 giugno 1974). È illuminante, questa sofferta discussione del 1974. Rivela rovelli veri e al tempo stesso processi cui il partito non è più interamente estraneo». La sentenza del tribunale di Milano del 1996 sulle tangenti della Metropolitana è molto precisa: «Va subito fissato un primo punto fermo: a livello di federazione milanese, l’intero partito, e non soltanto alcune sue componenti interne, venne direttamente coinvolto nel sistema degli appalti Mm, quanto meno da circa il 1987». Per il tribunale «risulta dunque pacifico che il Pci- Pds dal 1987 sino al febbraio 1992 ricevette quale percentuale del 18,75 per cento sul totale delle tangenti Mm una somma non inferiore ai 3 miliardi» raccolti da Carnevale e da Soave, non solo per la corrente migliorista ma anche per il partito. Carnevale coinvolse anche il segretario della federazione milanese, Cappellini, berlingueriano di stretta osservanza: «Fu Cappellini, segretario cittadino dell’epoca, ad affidarmi per conto del partito l’incarico che in precedenza aveva svolto Soave». La regola interna era quella che «dei tre terzi delle tangenti raccolte (2 miliardi e 100 milioni in quel periodo solo per il sistema Mm), due terzi dovevano andare agli “occhettiani”, cioè a Cappellini, un terzo ai miglioristi di Cervetti».

Alla luce di tutto ciò è del tutto evidente che Berlinguer quando aprì la questione morale e parlò del Pci come di un “partito diverso” o non sapeva nulla del finanziamento del Pci oppure, per dirla in modo eufemistico, si espresse in modo mistificato e propagandistico. Orbene questo sistema dal quale ricevevano reciproco vantaggio sia i partiti, sia le imprese, e che coinvolgeva tutto e tutti, risultò antieconomico da quando l’Italia aderì al trattato di Maastricht e quindi tutti i gruppi imprenditoriali furono costretti a fare i conti con il mercato e con la concorrenza. Esistevano tutti i termini per una grande operazione consociativa, magari accompagnata da un’amnistia che superasse il sistema di Tangentopoli. L’amnistia ci fu nel 1989, ma servì solo a “salvare” il Pci dalle conseguenze giudiziarie del finanziamento sovietico, il più irregolare di tutti, perché proveniva addirittura da un paese contrapposto alle alleanze internazionali dell’Italia. Per altro verso, Achille Occhetto, quando ancora non era chiaro l’orientamento unilaterale della procura di Milano, nel maggio del ’ 92, si recò nuovamente alla Bolognina per “chiedere scusa” agli italiani. Occhetto invece non doveva preoccuparsi eccessivamente. Il circo mediatico- giudiziario composto da due pool, quello dei pm di Milano e dal pool dei direttori, dei redattori capo e dei cronisti giudiziari di quattro giornali (Il Corriere della Sera, La Stampa, La Repubblica, l’Unità) mirava contro il Caf, cioè concentrò i suoi colpi in primis contro il Psi di Craxi, poi contro il centro- destra della Dc, quindi, di rimbalzo, contro il Psdi, il Pri, il Pli. Colpì anche i quadri intermedi del Pci- Pds, molte cooperative rosse, ma salvò il gruppo dirigente del Pci-Pds e quello della sinistra Dc. La prova di ciò sta nel modo con cui fu trattato il caso Gardini: è accertato che Gardini portò circa 1 miliardo, d’intesa con Sama e Cusani, alla sede del Pci avendo un appuntamento con Occhetto e D’Alema. Suicidatosi Gardini, Cusani e Sama sono stati condannati per corruzione: il corrotto era dentro la sede di via delle Botteghe Oscure, ma non è mai stato identificato. Ha osservato a questo proposito Di Pietro: «Ecco, questo è l’unico caso in cui io arrivo alla porta di Botteghe oscure. Anzi, arrivo fino all’ascensore che porta ai piani alti… abbiamo provato di certo che Gardini effettivamente un miliardo lo ha dato; abbiamo provato di certo che l’ha portato alla sede di Botteghe oscure; abbiamo provato di certo che in quel periodo aveva motivo di pagare tangenti a tutti i partiti, perché c’era in ballo un decreto sulla defiscalizzazione della compravendita Enimont a cui teneva moltissimo». Di Pietro aggiunse: «Non è che potevo incriminare il signor nome: partito, cognome: comunista». Giustamente l’erede di quel partito, il Pds, lo elesse nel Mugello.

Al processo Enimont il presidente del tribunale neanche accettò di sentire Occhetto e D’Alema come testimoni. Analoga linea fu seguita nei confronti del gruppo dirigente della sinistra Dc: Marcello Pagani, ex coordinatore della sinistra democristiana, e di un circolo che ad essa faceva riferimento, fu condannato, avendo ricevuto soldi Enimont in quanto agiva, recita testualmente, la sentenza «per conto dell’onorevole Bodrato e degli altri parlamentari della sinistra Dc» ma essi potevano non sapere. Quella fu la grande discriminante attraverso la quale il circo mediatico- giudiziario spezzò il sistema politico, ne distrusse una parte e ne salvò un’altra: Craxi, il centrodestra della Dc (Forlani, Gava, Pomicino e altri), Altissimo, Giorgio la Malfa, Pietro Longo, non potevano non sapere, il gruppo dirigente del Pci- Pds e quello della sinistra Dc potevano non sapere.

È evidente che dietro tutto ciò c’era un progetto politico, quello di far sì che, venendo meno la divisione in due blocchi, il gruppo dirigente del Pds, magari con l’aiuto della sinistra Dc, finalmente conquistasse il potere. Il pool di Milano non poteva prevedere che, avendo distrutto tutta l’area di centro e di centro- sinistra del sistema politico, quel vuoto sarebbe stato riempito da quel Silvio Berlusconi che, pur essendo un imprenditore amico di Craxi, era stato risparmiato dal pool di Mani Pulite perché durante gli anni ’ 92-’ 94 aveva messo a disposizione della procura le sue televisioni. Non appena (fino al 1993) il pool di Milano si rese conto che Berlusconi stava “scendendo in politica”, ecco che subito cominciò contro di lui il bombardamento giudiziario che si concluse con la sentenza del 2013. Ma anche il modo con cui fu trattato il rapporto del pool con i grandi gruppi finanziari editoriali Fiat e Cir, fu del tutto atipico e al di fuori di una normale prassi giudiziaria. Per tutta una fase ci fu uno scontro durissimo tra la Fiat e la magistratura, accentuato dal fatto che a Torino il procuratore Maddalena agiva di testa sua. Poi si arrivò alla “pax” realizzata attraverso due “confessioni” circostanziate, attraverso le quali la Fiat e la Cir appunto “confessarono” di aver pagato tangenti perché concussi da quei “malvagi” dei politici. Così il 29 settembre del 1992 Cesare Romiti andò a recitare un mea culpa dal cardinale Martino: «Come cittadini e come imprenditori non ci si può non vergognare, di fronte alla società, per quanto è successo. E io sono il primo a farlo. Io sono stato personalmente scosso da questi avvenimenti. No, non ho paura di dirlo. E di fronte al cardinal Martini, la più alta carica religiosa e morale di Milano, non potevo non parlarne». Qui interveniva l’autoassoluzione. Infatti, secondo Romiti, la responsabilità era della classe politica che «ha preteso da cittadini e imprese i pagamenti di “compensi” per atti molto spesso dovuti».

Possiamo quindi dire che l’Italia, unico paese dell’Occidente, nel ’ 92-’ 94 fu teatro di un’autentica rivoluzione- eversione che eliminò dalla scena per via mediatico- giudiziaria ben 5 partiti politici “storici”. Lo strumento di questa rivoluzione- eversione fu la “sentenza anticipata”: quando un avviso di garanzia, urlato da giornali e televisioni, colpiva i dirigenti di quei partiti essi erano già condannati agli occhi dell’opinione pubblica, con una conseguente perdita di consensi. Il fatto che, a 10 anni di distanza, una parte di quei dirigenti fu assolta non servì certo a recuperare i consensi politicoelettorali perduti. La conseguenza di tutto ciò sono state due: una perdita crescente di prestigio di tutti i partiti, anche di quelli che furono “salvati” dal pool, una parcellizzazione della corruzione tramutatasi da sistemica a reticolare ( una miriade di reti composte da singoli imprenditori, singoli burocrati, singoli uomini politici), l’esistenza di un unico sistema di potere sopravvissuto, quello del Pci- Pds, che a sua volta ha prodotto altre vicende, dal tentativo di scalata dell’Unipol alla Bnl, alla crisi del Mps. Di qui la conseguente affermazione di movimenti populisti e di un partito protestatario la cui guida è concentrata nelle mani di due persone, il crescente discredito del parlamento sottoposto a un bombardamento giudiziario realizzato anche da chi (vedi Renzi) pensa in questo modo di poter intercettare a suo vantaggio la deriva dell’antipolitica. Ma è una operazione del tutto velleitaria, perché le persone preferiscono la versione originale del populismo e non le imitazioni. Perdipiù i grillini, cavalcando la guerra alla “casta” – inventata da due giornalisti del Corriere della Sera e sostenuta da un grande battage pubblicitario – cavalcano di fatto la manovra diversiva posta in essere da banchieri e manager, proprietari dei grandi giornali, per deviare l’attenzione dalle loro spropositate retribuzioni e liquidazioni: i circa 100 mila euro annui dei parlamentari servono a far dimenticare i 2- 3 milioni di euro che il più straccione dei banchieri guadagna comunque, anche se porta alla rovina i correntisti della sua banca. Di tutto ciò traiamo la conseguenza che il peggio deve ancora arrivare.

Bobo Craxi e Di Pietro si trovano insieme nel medesimo partito. Il figlio dell'ex segretario socialista e l'ex pm simbolo di Mani Pulite si ritrovano entrambi ad aderire ad Mdp. Ma Craxi avverte: "Se è così, vado a casa", scrive Luca Romano, Mercoledì 4/10/2017, su "Il Giornale". Craxi contro Di Pietro: sembra un remake del 1992 ma siamo nel 2017 e il primo non è Bettino ma suo figlio Bobo, secondogenito dell'ex presidente del Consiglio. Eppure il figlio dell'ex segretario socialista non ha mai smesso di scontrarsi con l'ex pm simbolo di Mani Pulite e poi leader dell'Italia dei Valori, per motivi anche troppo evidenti. Tuttavia questa volta il motivo dello scontro è particolarmente singolare: Craxi e Di Pietro rischiano infatti di trovarsi nel medesimo partito. Per buffo che possa sembrare, infatti, entrambi hanno manifestato l'intenzione di aderire ad Mdp, la formazione di sinistra nata da una scissione dal Pd che comprende Roberto Speranza, Arturo Scotto ed Enrico Rossi. Si tratta naturalmente di una pura coincidenza, giacché nessuno dei due avrebbe mai avuto l'intenzione di andare a "coabitare" con l'altro sotto il medesimo tetto politico. Secondo il Corriere entrambi vi sono stati attirati da un antico rapporto di simpatia con Massimo D'Alema, a cui tutti e due sono legati, per motivi differenti, da vincoli di riconoscenza. Il figlio di Bettino si è presentato alla festa di Mdp a Napoli, mentre Di Pietro annuncia soddisfatto di sentire nella formazione di Speranza e Bersani "la stessa aria che si respirava nell'Ulivo". Al momento di scoprire la coincidenza, però, l'imbarazzo è stato palpabile. Per Craxi piuttosto di convivere "sarebbe meglio rimanere a casa", mentre Di Pietro è più serafico: pur non avendo mai avuto parole tenere verso il figlio del suo storico avversario ora liquida il tutto con calma olimpica. "Problemi suoi": Tonino non cede di un passo.

Lo strano caso di Di Pietro e Bobo Craxi: si ritrovano nello stesso partito. Entrambi aderiscono a Mdp, non senza qualche imbarazzo. Il figlio di Bettino: «Se è così, allora dovrò stare a casa». L’ex magistrato: «Problemi suoi. E mi dispiace per lui, non ho intenzione di candidarmi alla carica di governatore in Molise», scrive Maria Teresa Meli il 3 ottobre 2017 su “Il Corriere della Sera”. Finora c’erano stati i partiti a separarli, anche quando avevano militato nella stessa coalizione. E così avevano potuto continuare a parlare male l’uno dell’altro. Ma adesso le cose sono cambiate. Bobo Craxi, figlio di Bettino, classe 1964, e Antonio Di Pietro, grande accusatore dello scomparso leader socialista, dividono lo stesso tetto politico: entrambi hanno deciso di aderire a Mdp, il movimento nato dalla scissione del Pd. Hanno passato gli anni, anzi, i decenni, a darsi addosso. Bobo diceva dell’ex magistrato: «Si vede che è un uomo meschino». E Di Pietro ricambiava la cortesia senza pensarci troppo: «Tale padre tale figlio», affermava con aria sprezzante. Da allora è passato un po’ di tempo. Craxi si è ingrigito, l’ex pm ha perso più di un capello, entrambi hanno acquistato qualche chilo in più, ma le tensioni restano inalterate. I due non si piacciono e non si amano. E non potrebbe essere altrimenti, visto che Bobo ancora si commuove se vede scorrere le immagini del processo Enimont, con il padre alla sbarra e Di Pietro in toga che lo interroga. Eppure la sorte ha voluto che, girovagando di partito in partito nell’arcipelago frastagliato che sta a sinistra del Pd, si ritrovassero insieme. Galeotto è stato D’Alema. Craxi è suo grande estimatore: gli è riconoscente perché, quando era al governo, cercò di far rientrare il padre in patria. Anche Di Pietro ha un debito di gratitudine: deve a D’Alema il seggio nel Mugello. Perciò prima l’uno (l’ex magistrato) e poi l’altro hanno annunciato la loro volontà di aderire a Mdp. Lo hanno fatto con tanto di dichiarazione formale. Di più: Craxi è andato anche alla festa degli scissionisti a Napoli per incontrare una delegazione composta da Arturo Scotto, Roberto Speranza ed Enrico Rossi. Ovviamente Di Pietro non sapeva delle intenzioni di Bobo e viceversa. Situazione imbarazzante per entrambi, non c’è che dire. Soprattutto per Craxi, perché gli ex socialisti non è che abbiano peso bene questa comune militanza politica. E adesso Bobo spera che Di Pietro non stia facendo sul serio: «Forse vuole solo un posto di governatore in Molise...». Ma quando gli si fa presente che così non è, che l’ex magistrato non è interessato a guidare la sua regione e che, piuttosto, intende fare politica attivamente dentro Mdp ha un sussulto. Seguito da un mesto mormorìo: «Se Di Pietro aderisce veramente, allora per me è meglio stare a casa». Di Pietro, invece, non fa una piega. Assiso su un divanetto di Montecitorio l’ex pm, ex ministro, ex deputato ed ex leader dell’Italia dei Valori sta conversando fitto fitto con Antonello Falomi, un passato da occhettiano, un presente da sindacalista di tutti i parlamentari che non vogliono veder dileguarsi i loro vitalizi. «Stiamo difendendo la casta», ridacchia Di Pietro. Poi, al nome Craxi sfodera un cipiglio di quelli che incutono timore. Ma appurato che si tratta del figlio e non del padre si rilassa: «Problemi suoi. Io ho aderito a Mdp perché qui respiro la stessa aria che respiravo nell’Ulivo. E mi dispiace per lui, non ho intenzione di candidarmi in Molise». Per il 19 novembre è prevista la grande costituente degli scissionisti del Pd. Per allora Bobo dovrà prendere una decisione: stare a casa o convivere con il “nemico”.

Bobo Craxi, Di Pietro tecnicamente pentito. Ha detto cose clamorose su Mani Pulite, scrive l'Ansa il 4 ottobre 2017. "Non faccio parte di Mdp e credo che neanche Di Pietro ne faccia parte. La vicenda di Di Pietro, un magistrato prestato alla politica, è molto diversa dalla mia. Ultimamente è stato consulente della Lega; si è riavvicinato al M5S, respinto credo, ora si dice interessato a questa vicenda. Non so cosa c'entri lui con la storia della sinistra. Negli ultimi tempi ha detto cose clamorose sul ruolo di Mani pulite mentre io e i miei compagni non cambiamo il nostro giudizio su Mani Pulite: tecnicamente Di Pietro è un pentito". Sono le parole di Bobo Craxi ai microfoni di Fuori Gioco - Rai Radio1. Intervenuto in collegamento da Barcellona ha aggiunto poi sulla vicenda catalana: "Si finirà per andare ad elezioni e così si misureranno le forze in campo".

L’unico errore giudiziario è l’innocente. Davigo spiega con chiarezza perché siamo tutti potenziali colpevoli, scrive il 28 Gennaio 2017 "Il Foglio". Nel giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo ha tenuto una lezione di diritto da incorniciare: gli errori giudiziari non esistono. Non nel senso che non ce ne sono stati l’anno passato – solo nel 2016 lo stato ha speso 42 milioni per risarcirli – ma nel senso che non esistono proprio. Quelli per cui lo stato paga non sono errori giudiziari: sono accidenti. Davigo spiega che si confondono due cose, gli errori giudiziari e l’ingiusta detenzione. Gli errori giudiziari sono quando viene condannato un colpevole, ma “il giudice non è presente quando viene commesso il reato, sa le cose che gli raccontano. Se si scopre dopo che un teste ha mentito, non lo può sapere”. L’ingiusta detenzione avviene quando si arresta una persona sulla base di alcune dichiarazioni e indizi “ma se poi nel processo un testimone cambia versione perché viene minacciato, l’arrestato viene liberato e pure risarcito”. Per il Consiglio d’Europa in Italia c’è bisogno di mettere limiti alla politicizzazione nella magistratura. Seguendo il ragionamento, gli errori giudiziari non sarebbero errori e le ingiuste detenzioni non sarebbero tali. Anzi, sarebbero la prova che il sistema funziona benone. Questo non vuol dire, però, che non ci siano errori in assoluto, c’è una fattispecie sottovalutata: “Quando viene assolto un colpevole”. E qui Davigo, con formidabile guizzo d’ingegno, demolisce l’intera struttura della giustizia: ogni innocente assolto, in realtà, è un potenziale colpevole, un errore giudiziario. Azzardiamo una soluzione: far pagare un risarcimento a ogni persona che esce da un processo senza condanne. E col ricavato, creare un fondo per le vittime della malagiustizia: i magistrati che sbagliano perché tratti in errore da testimoni falsi.

Anche gli innocenti sono colpevoli. Davigo e il rovescio dello stato di diritto. Anche a "Porta a Porta" il presidente dell’Anm insiste nel dire che gli unici errori giudiziari sono le assoluzioni, e la vittima in questi casi è solo il magistrato, scrive Luciano Capone il 2 Febbraio 2017 su "Il Foglio". Ascoltare Piercamillo Davigo è sempre istruttivo, soprattutto per la sua spiccata inclinazione alla chiarezza: “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno”, ama dire citando il Vangelo. L’avevamo lasciato, nel giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, che teorizzava l’inesistenza dell’errore giudiziario. Nel giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) spiegava in televisione, da Corrado Formigli a “Piazza pulita”, che quando un innocente viene condannato non è colpa dei magistrati: “Il giudice non è presente quando viene commesso il reato, sa le cose che gli raccontano. Se si scopre dopo che un teste ha mentito, non lo può sapere. E’ stato ingannato”. La vera vittima dell’errore giudiziario è quindi il magistrato, fuorviato e ingannato dai testimoni. Ieri sera Davigo, ospite di Bruno Vespa a “Porta a porta” per parlare dei 42 milioni di euro per risarcimenti giudiziari nel 2016 (648 milioni dal ’92), ha allargato il campo della sua visione alle ingiuste detenzioni: come gli errori giudiziari non sono errori, così le ingiuste detenzioni non sono ingiuste (in pratica l’unico errore sembra quello di pagare le vittime). Gli errori della giustizia ci costano 42 milioni di euro. Ma per Davigo i magistrati sbagliano poco (per fortuna). Nel 2016 lo Stato ha dovuto sborsare oltre 40 milioni di euro. La maggior parte a causa di "ingiuste detenzioni". Spiega Davigo che tutti questi risarcimenti a persone incarcerate e poi assolte avvengono perché nel nostro sistema “le prove assunte nelle indagini preliminari di regola non vale nel processo”. C’è questo problema del dibattimento e di dover ripetere le testimonianze rilasciate agli inquirenti davanti a un giudice. Quindi succede che una persona viene arrestata sulla base di prove schiaccianti, come le accuse di tre testi, “dopodiché questi testi magari minacciati dicono che si sono sbagliati. Le loro indicazioni non possono essere più utilizzate. È un innocente messo in carcere – si chiede retoricamente Davigo – o è un colpevole che l’ha fatta franca?”. Ovviamente la seconda, da cui si capisce che gli unici errori giudiziari sono le assoluzioni. Le ingiuste detenzioni sono quindi quelle in cui una persona ha subìto un provvedimento di custodia cautelare e poi è stato assolto, “il che – dice Davigo – non significa che siano tutti innocenti, anzi”. Esiste quindi, per il presidente dell’Anm una presunzione di colpevolezza che va anche oltre l’assoluzione definitiva. A questo punto, più che fare processi per sanzionare i colpevoli di qualche reato, sarebbe più logico processare tutti per rilasciare alla fine patenti d’innocenza (magari temporanee, da rinnovare ogni tot anni). Quando però Vespa racconta casi di malagiustizia come quello di Giuseppe Gulotta, per 36 anni in carcere da innocente con l’accusa di essere un assassino, il presidente dell’Anm dice che non si tratta di un errore dei magistrati perché “quel caso clamoroso è stato frutto di tortura da parte delle forze di polizia. Il giudice non sa che sono stati torturati”. È stato ingannato. La giustificazione di Davigo però in teoria cozzerebbe con la sua intenzione di far valere nel processo le dichiarazioni rilasciate agli inquirenti (in quel caso sarebbero proprio quelle estorte attraverso la tortura, come dice lo stesso Davigo), che è uno strumento per non ingannare il giudice. In sintesi se una persona viene assolta non è innocente e se viene condannata ingiustamente il giudice non è colpevole. Le interviste di Davigo sono molto interessanti perché ci ricordano sempre che esiste il rovescio della medaglia, in questo caso il rovescio dello stato di diritto.

Davigo non fa politica, ma il teletribuno. Il numero uno dell'Anm moltiplica le sue apparizioni in tv e si fa intervistare anche dal blog di Beppe Grillo. Obiettivo: spiegare che i politici sono corrotti, scrive il 9 Marzo 2017 "Il Foglio". I magistrati? Tutti cattivi politici. Parola di Piercamillo Davigo. Il presidente dell'Anm lo va ripetendo da settimane. E c'è da credergli visto che lui, a differenza di molti dei colleghi del fantasmagorico pool di Mani Pulite, si è sempre tenuto ben lontano da candidature e partiti. E così, oltre a diventare il numero uno dei magistrati italiani, è anche diventato il perfetto ospite televisivo. Sempre pronto a spiegare a tutti, soprattutto ai politici, quello che dovrebbero fare e come dovrebbero farlo. Nelle ultime due settimane Davigo ha partecipato a Otto e mezzo (22 febbraio), Quante storie (23 febbraio), Un giorno da pecora (24 febbraio), DiMartedì (28 febbraio), #Cartabianca (7 marzo), Agorà (8 marzo), La Gabbia (8 marzo). Non solo, giusto oggi ha concesso un'intervista al portavoce-senatore del M5S Nicola Morra che è stata pubblicata sul Sacro Blog. Si dirà ma in occasione del venticinquesimo anniversario di Tangentopoli chi volete che invitino? Chi meglio di lui può spiegare, parole testuali affidare alla penna di Morra, che "negli ultimi 25 anni la classe politica, per quanto riguarda in particolare le indagini e i processi in tema di corruzione si è data molto da fare, non per stroncare la corruzione ma per stroncare le indagini e i processi, facendo leggi che impedivano le indagini e azzeravano le prove acquisite e creavano enormi difficoltà". Insomma nonostante il ruolino di marcia da politico navigato che passa con disinvoltura da un programma all'altro, dalla radio alla tv, dalla Rai a La7, Davigo politica non fa (anche se c'è chi lo vedrebbe bene come candidato M5s). E proprio per questo può permettersi di dare lezioni. Perché i magistrati sono tutti cattivi politici, ma ottimi ospiti televisivi.

Chi guarda il dito, chi la Luna e chi Woodcock, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 4/10/2017, su "Il Giornale". La richiesta di non luogo a procedere nei confronti del pm John Henry Woodcock e della sua compagna Federica Sciarelli per la fuga di notizie sul caso Consip ha fatto scattare gli squilli di tromba dei fedelissimi della procura napoletana. Ecco la prova scrive Marco Travaglio a nome dei soci che il complotto contro Renzi (padre e figlio) era una bufala: «Ora chiedete scusa e andate tutti a nascondervi», chiosa nel suo articolo il direttore de Il Fatto Quotidiano. In carriera ho visto tanti tentativi di manipolare i fatti a proprio piacimento, ma questo raggiunge vette fino ad ora mai raggiunte. Che non ci sarebbero state prove evidenti sul fatto che fosse stata la manina di Woodcock a fare uscire dagli uffici carte riservate lo davo da subito per scontato. Parliamo di un reato praticamente indimostrabile, tendendo ad escludere che un magistrato pur fesso che sia - veicoli documenti per posta elettronica od ordinaria. Che il fatto sia avvenuto è certo, manca solo il nome del colpevole. Se parlassimo del direttore di un giornale, la condanna del pm sarebbe automatica, perché noi come in tutte le professioni - a differenza dei magistrati, purtroppo rispondiamo in solido di omesso controllo sull'operato dei nostri collaboratori. Ma la manipolazione principale della ditta Travaglio sta nel voler far credere che il «complotto» sia la fuga di notizie e non il loro contenuto. Si dice che quando il saggio indica la Luna, lo stolto guarda il dito. In questo caso il dito è la divulgazione illegale, la Luna sono i falsi accertati dell'inchiesta condotta da Woodcock, falsi che riguardando il padre dell'allora presidente del Consiglio e che se non fossero stati smascherati in tempo avrebbero potuto innescare una crisi politica e istituzionale. Nessuna scusa, quindi. Semmai è imbarazzante che la magistratura non sia stata capace di dare un nome a un servitore dello Stato infedele. Del resto, come noto, cane non mangia cane, e il risultato è che un pm sotto la cui regia è stata avviata un'inchiesta con false intercettazioni e false ricostruzioni sulla famiglia del presidente del Consiglio continuerà a fare il suo lavoro. Se qualcuno deve «andare a nascondersi» e «vergognarsi», quel qualcuno non siamo di certo noi che teniamo ben fisso lo sguardo sulla Luna.

Giustizia, Lavia vs Davigo: “Chi risarcisce Penati?”. “C’è onore nel prendere la prescrizione?”, scrive Gisella Ruccia il 4 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Scontro rovente a Dimartedì (La7) tra il magistrato Piercamillo Davigo e Mario Lavia, vicedirettore di Democratica, il quotidiano digitale del Pd renziano. Il dibattito è incentrato sulla politica e sulla magistratura, della quale Lavia rileva “un’anomalia” perdurante da 25 anni: “Nell’era del berlusconismo il dottor Davigo e il pool di Mani Pulite sono state un soggetto politico, tanto è vero che alcuni di loro sono scesi direttamente in politica. E questa è un’anomalia che va corretta: bisogna ritornare a una situazione in cui la politica fa la politica e la magistratura fa liberamente la magistratura senza interferire nei processi politici, cosa che purtroppo è successa spesso”. Davigo replica: “I magistrati si candidano perché c’è qualcuno che li candida. Questo fatto che i magistrati fanno politica è una vergogna, ma c’è qualcuno che concorre con loro nella vergogna”. “Non è una vergogna, è un’anomalia”, minimizza il giornalista. “E’ una vergogna invece – ribadisce Davigo – perché i magistrati non devono fare politica secondo me. In secondo luogo, se i politici dicono di voler aspettare le sentenze, vuol dire che le decisioni politiche su chi deve fare il ministro o il parlamentare le prende il giudice. E questo è sbagliato. Decidano prima per conto loro. Il più delle volte non lo fanno perché non ne hanno la forza e hanno bisogno di un pretesto”. “Non è che siamo in Venezuela. Cioè non è che tutti i politici e i ministri si affidano a un giudice”, obietta Lavia. E il magistrato non ci sta: “Non ho mai detto niente del genere e non mi faccia dire cose che non ho detto. So distinguere i ladri dai non ladri. Faccio questo di mestiere”. Lavia ribatte: “Ci sono alcuni casi in cui degli innocenti sono stati messi alla gogna dalla magistratura, sono caduti dei governi, e mi riferisco al caso Mastella, ma anche al proscioglimento di Ottaviano Del Turco per associazione a delinquere, al caso Tempa Rossa, a Errani, a Penati”. “Non ho capito perché Penati. Ha preso la prescrizione. Di che cosa stiamo parlando?”, controbatte il magistrato. “E’ stato assolto l’altro giorno, la prescrizione era per un’altra cosa – puntualizza Lavia – Come lo risarcisce?”. “Risarcire che cosa? – replica Davigo – Uno che ha preso la prescrizione definitiva? Sarà pure un’altra cosa, ma siccome l’articolo 54 della Costituzione dice che i cittadini a cui sono affidate le pubbliche funzioni devono adempiere a esse con disciplina e onore, allora le chiedo: c’è onore nel prendere la prescrizione?”

A Davigo bisogna dire una cosa. Chi è senza peccato scagli la prima pietra, specialmente se i magistrati diventano tali in virtù di un concorso truccato.

Poi bisogna dire che essere prosciolto per prescrizione non è un sentenza di assoluzione, né di condanna. E' un giudizio interrotto per tempo scaduto. E la colpa della mancata pronuncia è tutta della magistratura che porta oltre i tempi ragionevoli la durata dei processi.

Essere indagati non è la fine del mondo. Lezioni dai casi Woodcock e Albamonte, scrive Giuseppe De Filippi il 23 Settembre 2017 su “Il Foglio". Al direttore - Associazione nazionale magistrati e indagati. Al direttore - Leggo che il pm Albamonte, capo dell’Anm, è accusato di falso e abuso d’ufficio. Non mi pare ci sia nessun magistrato che ha chiesto le sue dimissioni. Che sorpresa, eh?

Luca Martini: Eugenio Albamonte è un magistrato distante anni luce da Henry John Woodcock ma sia Albamonte sia Woodcock in questa fase sono portatori di un messaggio involontariamente rivoluzionario per la magistratura. Entrambi indagano nell’ambito di un’inchiesta in cui sono a loro volta indagati. Woodcock nell’ambito del caso Consip. Albamonte nell’ambito del caso Occhionero. Involontariamente – e magnificamente – le storie di Albamonte e Woodcock potrebbero diventare un manifesto del garantismo. Se per un magistrato non va applicato il teorema Davigo – “non esistono innocenti, ma solo colpevoli che non sono stati ancora scoperti” – non si capisce come possa quel teorema essere applicato da ora in poi ad altre categorie di cittadini. Sarà certamente d’accordo con noi Luigi Di Maio, candidato premier del movimento 5 clic nonostante un’iscrizione nel registro degli indagati. Pop corn per tutti.

Scontro D'Amico-Davigo: "Meglio un corrotto ​che lo Stato rotto". Scontro a Di Martedì tra Ilaria D'Amico e Piercamillo Davigo. Il pm: "Onestà precondizione per la carica pubblica". La D'Amico: "Meglio un corrotto che lo Stato rotto", scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 4/10/2017, su "Il Giornale". Scontro tra Ilaria D'Amico e Piercamillo Davigo a Di Martedì condotto da Giovanni Floris su La7 del 3 ottobre 2017. La conduttrice di Sky e il magistrato hanno avuto un acceso dibattito sull'onestà di chi si candida ad una carica pubblica. "Io credo che l'onestà debba essere una precondizione per qualsiasi carica pubblica, poi uno deve essere anche bravo", dice Davigo strappando l'applauso del pubblico. La moglie di Buffon non ci sta e decide di rispondere per le righe. Con una frase che però sui social viene già considerata una mezza gaffe. "Il dato dell'onestà dovrebbe essere un dato acquisito nel momento in cui si accede alla cosa pubblica. Se si dimostra disonestà dovrebbero esserci degli strumenti dati alla magistratura per non avvicinarsi più alla cosa pubblica". Poi nel mezzo dell'applauso del pubblico aggiunge, scusandosi per "essere realista": "Io non sono più purista come un tempo, meglio sopportare qualche corrotto che avere uno Stato rotto".

Ilaria D'Amico vs Piercamillo Davigo: video, la giornalista Sky a Di Martedì replica “meglio politico corrotto che uno stato rotto”, al magistrato che aveva detto, "onestà prima di tutto", scrive il 4 ottobre 2017 Niccolò Magnani su "Il Sussidiario". Il dilemma è da almeno Tangentopoli che agita la politica italiana: meglio un politico onesto o uno capace? E proprio dall’epoca di Mani Pulite spunta il magistrato Piercamillo Davigo - protagonista insieme al Pool di Milano durante Tangentopoli - che ieri sera durante Di Martedì su La7 ha litigato in maniera forte con Ilaria D’Amico, la bella giornalista Sky e moglie di Gigi Buffon, non la prima volta in veste “politica” invitata sul canale di Urbano Cairo. Il punto del contendere è proprio il rapporto tra capacità e onestà, dalle rivendicazioni di Movimento 5 Stelle ai populisti fino ai casi eclatanti di Consip e altri scandali interni alla politica. «L’essere onesto è la condizione prioritaria per ricoprire qualsiasi carica pubblica. Se un politico è bravo e disonesto è addirittura ancora più pericoloso. Dunque meglio l’onestà, prima di tutto». A quel punto, mentre in studio stavano per prendere parola Massimo Cacciari e Massimo Giannini, la giornalista Sky interviene e replica “piccata” a Davigo, premettendo di voler essere per una volta più realista di “purista”: «Mi dispiace essere realista: sopportare qualche corrotto è meglio che avere lo Stato rotto. Io non sono più purista come un tempo». Apriti cielo, immediatamente lo studio si ribella contro la D’Amico per aver subodorato, tra le righe, una miglior convenienza nell’aver qualche politico corrotto che però fa funzionare meglio lo Stato, piuttosto che avere una Amministrazione Pubblica magari onestissima ma incapace di far funzionare per davvero le cose. L’indignazione di Davigo - giustizialista come da sempre - viene accompagnata dal commento di Cacciari, che in maniera più approfondita (e cogliendo forse il vero nodo della disputa, ndr) prova a rispondere alla D’Amico, per nulla concorde con lei. «Non è che sia meglio o peggio. Dal punto di vista politico, il problema essenziale è la corruzione dello Stato, che, come una macchina rotta, è incapace di muoversi velocemente. La magistratura non può nulla, ma può solo perseguire reati. E se i politici commettono reati, la magistratura li persegue. Qualche volta sbaglia, qualche volta ha ragione, ma il problema non è la magistratura. E’ evidente che è del tutto impotente coi suoi mezzi a impedire alcunché di ciò che avviene in questo Paese, tanto è vero che dopo 25 anni c’è ancora Berlusconi come leader indiscusso e come potenziale padre nobile del futuro primo ministro». Il punto infatti non risiede nel meglio o peggio della politica onesta incapace o corrotta ma capace: in un Paese “ideale” la speranza è avere il meglio di tutto, ma per essere realisti forse non servirebbe “puntare” sui corrotti, ma su quelle buone realtà che ci sono e funzionano senza violare la legge. La giornalista di Sky ha poi spiegato meglio il suo concerto, affermando come «quello che veramente paralizza il Paese è la totale incapacità di fare il politico. Siamo in un periodo in cui gli scandali politici ci sono ancora ma in maniera minore, e secondo me il vero punto “nuovo” risiede nella incapacità di gestire le emergenze di cui soffre l’Italia». E poi ancora, una D’Amico scatenata: «ma vi sembra normale che la Sicilia e la Sardegna non siano valorizzate quanto, senza togliere nulla, alle Canarie? Bisogna imparare a valorizzare meglio il bene che abbiamo», chiosa la giornalista di Sky Sport.

Impreparati, incompetenti, immaturi: il ceto politico non è mai stato così ignorante. Non si è mai visto un ceto politico così ignorante. Laureati compresi. Colpa della scuola? O di una selezione al contrario? La democrazia rischia di non funzionare se conferisce responsabilità di comando a persone palesemente impreparate, scrive Raffaele Simone il 27 settembre 2017 su "L'Espresso". Anche se la legge elettorale ancora non c’è, le elezioni si avvicinano e gli aspiranti riscaldano i muscoli. Tra i più tenaci candidati a capo del governo ce n’è uno giovanissimo (31 anni appena compiuti), facondo, con cipiglio, determinato e ubiquo, ma non ugualmente solido in quel che un tempo si chiamava “bagaglio culturale”. Dalla sua bocca escono senza freno riferimenti storici e geografici sballati, congiuntivi strampalati, marchiani errori di fatto, slogan e progetti cervellotici (recentissimi l’Italia come smart nation e la citazione dell’inefficiente governo Rajoy come suo modello), anche quando si muove in quella che dovrebb’essere la sua specialità, cioè quel mix indistinto di nozioni e fatterelli politico-storico-economici che forma la cultura del politico di fila. Inoltre, Luigi Di Maio (è di lui che parlo) non è laureato. Si è avvicinato al fatale diploma, ma per qualche motivo non lo ha raggiunto. Nulla di male, intendiamoci: pare che in quel mondo la laurea non sia più necessaria, neanche per le cariche importanti. Nel governo Gentiloni più di un ministero è presidiato da non laureati e non laureate: istruzione e salute, lavoro e giustizia. Se questa non è forse la “prevalenza del cretino” preconizzata da Fruttero e Lucentini, è di certo la prevalenza dell’ignorante. Infatti la legislatura attuale ha una percentuale di laureati tra le più basse della storia: di poco sopra il 68 per cento, un dato che mette tristezza a confronto col 91 per cento del primo Parlamento repubblicano… Qualche settimana fa la Repubblica ha offerto lo sfondo a questo spettacolo, mostrando con tanto di tabelle che la riforma universitaria detta “del 3+2”, testardamente voluta nel 2000 dai non rimpianti ministri Berlinguer e Zecchino al grido di “l’Europa ce lo chiede!”, è stata un fiasco. I laureati sono pochi, non solo nel ceto politico ma nel paese, in calo perfino rispetto a quelli del 2000, ultimo anno prima della riforma. L’età media del laureato italiano è superiore ai 27 anni e la laurea triennale non serve (salvo che per gli infermieri) a nulla. I giovani che concludono il ciclo di 5 anni (il “3 + 2”) sono addirittura meno del totale di quelli che vent’anni fa si laureavano coi vecchi ordinamenti (durata degli studi 4, 5 o 6 anni). Per giunta, per completare la laurea triennale ci vogliono 4,9 anni, per quella quinquennale più di 7,4! Quindi, l’obiettivo principale della riforma, che era quello di aumentare il tasso di laureati, è mancato. Le cause? Certamente non sono quelle che ha suggerito, nel suo intervento a Cernobbio agli inizi di settembre, la non laureata ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli: la colpa dei pochi laureati, ha suggerito (lei ex sindacalista!), è delle «famiglie a basso reddito», che non trovano più buoni motivi per spingere i figli a laurearsi. Non ha pensato, non avendolo frequentato, che invece è tutto il sistema universitario che andrebbe, come le case abusive, abbattuto e riprogettato. Quindi, se il paese è conciato così, come possiamo pretendere che il personale politico sia meglio? Ma non è finita. Un altro guaio, più serio, sta nel fatto che il ceto politico attuale, e ancor più (si suppone) quello che gli subentrerà al prossimo turno, ha un record unico nella storia d’Italia, di quelli che fanno venire i brividi: i suoi componenti, avendo un’età media di 45,8 anni (nati dunque attorno al 1970), sono il primo campione in grandezza naturale di una fase speciale della nostra scuola, che solo ora comincia a mostrare davvero di cosa è capace. Perché dico che la scuola che hanno frequentato è speciale? Perché è quella in cui, per la prima volta, hanno convissuto due generazioni di persone preparate male o per niente: da una parte, gli insegnanti nati attorno al 1950, formati nella scassatissima scuola post-1968; dall’altra, quella degli alunni a cui dagli anni Ottanta i device digitali prima e poi gli smartphone hanno cotto il cervello sin dall’infanzia. I primi sono cresciuti in una scuola costruita attorno al cadavere dell’autorità (culturale e di ogni altro tipo) e della disciplina e all’insofferenza verso gli studi seri e al fastidio verso il passato; i secondi sono nati in un mondo in cui lo studio e la cultura in genere (vocabolario italiano incluso) contano meno di un viaggio a Santorini o di una notte in discoteca. Prodotta da una scuola come questa, era forse inevitabile che la classe politica che governa oggi il paese fosse non solo una delle più ignoranti e incompetenti della storia della Repubblica, ma anche delle più sorde a temi come la preparazione specifica, la lungimiranza, la ricerca e il pensiero astratto, per non parlare della mentalità scientifica. La loro ignoranza è diventata ormai un tema da spot e da imitazioni alla Crozza. I due fattori (scarsità di studi, provenienza da una scuola deteriorata), mescolati tra loro, producono la seguente sintesi: non si è mai visto un ceto politico così incompetente, ignorante e immaturo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, nelle parole, le opere e le omissioni. Si dirà, come al solito, che il grande Max Weber lo aveva profetizzato già nel famoso saggio sulla Politica come professione (1919): «lo Stato moderno, creato dalla Rivoluzione» spiega «mette il potere nelle mani di dilettanti assoluti […] e vorrebbe utilizzare i funzionari dotati di preparazione specialistica solo come braccia operative per compiti esecutivi». Ma il povero Max non poteva prevedere le novità cool dei nostri tempi: per dirne una, la rabbiosa spinta che il movimento di Beppe Grillo avrebbe dato alla prevalenza dell’incompetente.

Il caso di Virginia Raggi, per esempio, è da trattato di sociologia politica. Pronuncia carinamente l’inglese, ma è un’icona fulgente dell’incompetenza e dell’improvvisazione. Lo mostra, tra le mille cose, il suo incessante fare e disfare alla ricerca di assessori, alti funzionari e dirigenti per le partecipate: li raccatta dalle più varie parti d’Italia, senza distinguere tra accademici e gestori di night, li licenzia di punto in bianco, non vede che la città affonda nella monnezza e nell’incuria e intanto, svagata e placida, esibisce al popolo sfinito la più granitica certezza del radioso futuro della Capitale. Max Weber non avrebbe mai immaginato neppure che i destini della Capitale potessero esser telegovernati da un paio di signori che nessuno ha eletto, o che una deputata, che nella vita faceva la ragioniera, sarebbe arrivata a spiegare col forte caldo la lieve ripresa estiva del Pil. Gli incompetenti si sono procurati ulteriore spazio sfruttando senza ritegno il tormentone del rinnovamento di generazione, che, partito dall’Italia, ha contagiato quasi tutt’Europa. Esser giovane in politica è ormai un titolo di merito di per sé, indipendentemente dal modo in cui la giovinezza è stata spesa, anche se i vecchi sanno bene che la giovinezza garantisce con sicurezza assoluta solo una cosa: l’inesperienza, una delle facce dell’incompetenza.

La cosa è talmente ovvia che nel 2008 la ministra Marianna Madia, eletta in parlamento ventiseienne, non ancora laureata, dichiarò che la sola cosa che portava in dote era la sua “inesperienza” (sic). La lista che ho appena fatto non contiene solo piccoli fatti di cronaca. Se si guarda bene, è una lista di problemi, perché suscita due domande gravi e serie. La prima è: a cosa dobbiamo, specialmente in Italia, quest’avanzata di persone che, oltre che giovanissime, sono anche I-I-I (“incompetenti, ignoranti e immaturi”)? È la massa dei somari che prende il potere, per una sorta di tardivo sanculottismo culturale? Sono le “famiglie di basso reddito” della Fedeli, ormai convinte che i figli, invece che farli studiare e lavorare, è meglio spingerli in politica? Oppure è l’avanzata di un ceto del tutto nuovo, quello dell’uomo-massa, di cui José Ortega y Gasset (in La ribellione delle masse) descriveva preoccupato l’emergere?

«L’uomo-massa si sente perfetto» diceva Ortega y Gasset, aggiungendo che «oggi è la volgarità intellettuale che esercita il suo imperio sulla vita pubblica». «La massa, quando agisce da sola, lo fa soltanto in una maniera, perché non ne conosce altre: lincia». È una battutaccia da conservatore? Oppure la dura metafora distillata da un’intelligenza preveggente? Comunque la pensiate, queste parole non sono state scritte oggi, ma nel 1930. Forse l’avanzata della «volgarità intellettuale» era in corso da tempo e, per qualche motivo, non ce ne siamo accorti.

La seconda domanda seria è la seguente: la democrazia può funzionare ancora se conferisce responsabilità di comando a persone dichiaratamente I-I-I? Forse in astratto sì, se è vero che (come pensava Hans Kelsen) la democrazia è «il regime che non ha capi», nel senso che chiunque può diventare capo. In un regime del genere, quindi, chiunque, anche se del tutto I-I-I e appena pubere, può dare un contributo al paese. Napoleone salì al vertice della Francia a 29 anni e Emmanuel Macron (suo remoto emulo, dileggiato dagli oppositori col nomignolo di Giove o, appunto, di Napoleone) è presidente della Repubblica a 39. Nessuno di loro aveva mai comandato le armate francesi o governato la Repubblica. Ma ammetterete senza difficoltà che tra loro e Luigi Di Maio (e tanti suoi colleghi e colleghe con le stesse proprietà, del suo e di altri partiti) qualche differenza c’è.

Giustizia divina. Dalla legge 40 alle adozioni gay, così i giudici creano una nuova etica, scrive il 9 Marzo 2017 "Il Foglio". Il Tribunale dei minori di Firenze ha disposto la trascrizione in Italia dei provvedimenti emessi da una Corte britannica riconoscendo l’adozione di due bambini da parte di una coppia gay. È la prima volta che accade in Italia. I fratellini sono stati adottati dai due uomini, cittadini italiani, nel Regno Unito, dove risiedono da anni: “Per la prima volta viene riconosciuta in Italia l’adozione di minori all’estero da parte di una coppia di uomini”, fa sapere Rete Lenford, l’Avvocatura per i diritti Lgbt a cui si sono rivolti i due uomini. La magistratura ha assunto un nuovo ruolo chiave: laddove la natura non riconosce un diritto, che da naturale deve diventare positivo, e laddove neppure la politica vuole intervenire, ci pensano i magistrati. Lo abbiamo visto in tante sentenze che hanno letteralmente smantellato la legge 40, una buona legge sulla fecondazione artificiale, facendo entrare per la porta del diritto anche ciò che la legislazione vietava espressamente (maternità surrogata, eterologa, diagnosi eugenetica). Lo stesso vale per le “nuove famiglie”, famiglie omo si intende. È l’etica per via giudiziaria. Già la Consulta e la Cassazione avevano riconosciuto l’unione omosessuale come “formazione sociale”. Lo scorso gennaio, il primo presidente di Cassazione, Giovanni Canzio, aveva parlato delle adozioni da parte delle coppie gay: “La Corte non può e non intende sottrarsi al dovere di apprestare tutela ai diritti fondamentali della persona”. Ormai sono loro, le toghe, i grandi ultimi moralizzatori che fanno e disfanno i principi non negoziabili. Visto che il Parlamento della “casta corrotta” perde tempo, spetta ai magistrati sanare anche questa “emergenza democratica”, riconoscendo le famiglie gay. Li abbiamo visti, i magistrati, impartire lezioni di etica dopo Tangentopoli, chiamati nelle università, nei talk-show, nei convegni. Dentro le aule giudiziarie impartiscono pure lezioni di bioetica. Rete Lenford, decisiva in questa sentenza, ha organizzato convegni con Magistratura Democratica dal titolo “La Costituzione e la discriminazione matrimoniale delle persone gay e lesbiche e delle loro famiglie”. Chiamatela giustizia divina.

LA REPUBBLICA GIUDIZIARIA, ASPETTANDO LA TERZA REPUBBLICA.

«Il compito della magistratura? Sottomettere la politica», scrive Piero Sansonetti il 6 Settembre 2017, su "Il Dubbio".  Ho letto con molto interesse – e qualche apprensione… – il resoconto stenografico degli interventi del procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, e del sostituto procuratore della Dna (Direzione nazionale antimafia) Nino Di Matteo, pronunciati qualche giorno fa alla festa del Fatto Quotidiano, in Versilia. Li ha pubblicati ieri proprio il Fatto considerandoli, giustamente, documenti di grande interesse giornalistico e politico. Potrei scrivere per molte pagine, commentandoli. Mi limito invece a pochissime critiche e soprattutto a una osservazione (alla quale, contravvenendo a tutte le regole del giornalismo, arriverò alla fine di questo articolo) che mi pare essenziale. Essenziale per capire l’Italia di oggi, per decifrare il dibattito pubblico, e per intuire a quali pericoli sia esposta la democrazia. Innanzitutto voglio subito notare che sebbene il Fatto pubblichi i due interventi, intervallando brani dell’uno e brani dell’altro, quasi fossero un unico discorso, si nota invece una differenza, almeno nei modi di esposizione, molto netta. Roberto Scarpinato dà l’impressione di avere una conoscenza approfondita dei fatti e anche della storia (italiana e internazionale) nella quale vanno inquadrati. Nino Di Matteo sembra invece soprattutto travolto da una indubbia passione civile, che però lo porta a scarsa prudenza, sia dal punto di vista formale sia nella ricostruzione storica. La tesi di fondo dei due interventi però è un’unica tesi. La riassumo in cinque punti. Primo, la mafia nel 1992, dopo la caduta del muro di Berlino, decise di intervenire nella politica italiana perché terrorizzata dall’idea che – finite le ideologie e i veti, e il famoso fattore K che escludeva i comunisti dal governo – potesse prendere il potere una coalizione composta da sinistra democristiana (ex zaccagniniana) ed ex Pci, all’epoca Pds. «Condannare i criminali? No, il compito della magistratura è sottomettere la politica». Secondo punto, in questa ottica, dopo le stragi del 1993, si svolse una trattativa tra lo Stato e la mafia e questa trattativa, pare di capire, coinvolse essenzialmente elementi dell’ex sinistra dc (Mancino, Mannino, forse De Mita) e dell’ex Pci (Giorgio Napolitano). Terzo punto, è stato proprio Giorgio Napolitano a delegittimare il processo sulla trattativa tra Stato e mafia che si sta spegnendo a Palermo tra assoluzioni e prove mancate: e la cattiva sorte di quel processo è da imputare non a una cattiva impostazione delle indagini e delle tesi di accusa, ma all’intervento dell’allora capo dello Stato. Quarto, la mafia da allora ha cambiato pelle, ha rinunciato ad usare la violenza e l’omicidio per condurre la sua strategia, e questo la rende ancora più pericolosa, perché riesce a crescere semplicemente usando lo strumento della corruzione e addirittura, in certe occasioni, senza neppure commettere reati formali. Il quinto punto lo accenno appena, perché ci torniamo alla fine – è il punto chiave – riguarda il compito e la missione della magistratura. Naturalmente i primi quattro punti sono in forte contraddizione l’uno con l’altro. Ad esempio non si capisce come facesse la mafia, quando ha iniziato l’attacco allo Stato (che Scarpinato e Di Matteo datano con l’uccisione di Salvo Lima del marzo 1992), a prevedere il crollo del potere politico italiano, che allora era ancora saldamente nelle mani del pentapartito, e non certo del Pci, che viveva un nerissimo periodo di crisi. Nessun analista politico previde Tangentopoli (neppure dopo l’arresto di Mario Chiesa) che esplose clamorosamente dopo l’uccisione di Falcone, né tanto- meno le conseguenze di Tangentopoli, eppure l’attacco della mafia iniziò prima di Tangentopoli. E non si capisce molto bene neanche perché la mafia uccidesse Lima ( destra Dc), e poi Falcone ( che era legato ai socialisti di Craxi) se voleva colpire la sinistra Dc e l’ex Pci, che di Lima e Falcone erano nemici; né si capisce perché furono Napolitano e Mancino ( ex Pci e sinistra dc) ad aiutare la mafia che era terrorizzata – se capiamo bene – perché temeva che Napolitano e Mancino andassero al potere…Fin qui, diciamo con un po’ di gentilezza, è solo un bel pasticcio, che certo non si regge in piedi come atto d’accusa. Né giudiziario, né politico, né tantomeno storico. E si capisce bene perché il processo Stato- mafia stia finendo a catafascio. Scarpinato e Di Matteo da questo punto di vista hanno avuto la fortuna di parlare, in Versilia, ad una platea amica che non aveva nessuna voglia di fare obiezioni (così come, in genere, non ne ha quasi mai il giornalismo giudiziario, e non solo, italiano). Ma il punto che mi interessa trattare è il quinto. L’idea di magistratura che – temo – va affermandosi in un pezzo di magistratura. Cito alcuni brani, testuali, di Di Matteo, che sono davvero molto istruttivi. In un crescendo. «Oggi si sta nuovamente (sottinteso, la politica, ndr) mettendo in discussione l’ergastolo, l’ergastolo ostativo, cioè l’impossibilità, per i condannati per mafia, di godere dei benefici. Si sta cominciando a mettere in discussione, attraverso anche, purtroppo, un sempre più diffuso lassismo nell’applicazione, l’istituto del 41 bis, il carcere duro (….)». E più avanti: «I fatti sono fatti, anche quando vengono giudicati in sentenze come non sufficienti per condannare qualcuno… Adesso la partita è questa: vogliamo una magistratura che si accontenti di perseguire in maniera efficace i criminali comuni (…) o possiamo ancora aspettarci che l’azione della magistratura si diriga anche nel controllare il modo in cui il potere viene esercitato in Italia? Questa è una partita decisiva per la nostra democrazia». La prima parte di questo ragionamento è solo la richiesta di poteri speciali, non nuova, tipica del pensiero reazionario (e non solo) da molti anni. In realtà i magistrati prudenti sanno benissimo che il 41 bis è carcere duro (e dunque è in contrasto aperto e clamoroso con la nostra Costituzione) ma stanno attenti a non usare mai quella definizione. Quando, intervistando qualche magistrato, ho provato a dire che il 41 bis è carcere duro, sono sempre stato contestato e rimproverato aspramente: «Non è carcere duro – mi hanno detto ogni volta – è solo una forma diversa di detenzione…». Di Matteo, lo dicevo all’inizio, è trascinato dalla sua passione civile (che poi è la sua caratteristica migliore) e non bada a queste sottigliezze, dice pane al pane, e carcere duro al carcere duro. Non so se conosce l’articolo 27 della Costituzione, probabilmente lo conosce ma non lo condivide e non lo considera vincolante. Così come non considera vincolante l’esibizione delle prove per affermare una verità, e questo, da parte di un rappresentante della magistratura, è un pochino preoccupante. Quel che però più colpisce è la seconda parte del ragionamento. E cioè le frasi che proclamano in modo inequivocabile che il compito della magistratura è mettere sotto controllo la politica (sottometterla, controllarla, dominarla, indirizzarla), cancellando la tradizionale divisione dei poteri prevista negli stati liberali, e non può ridursi invece a una semplice attività di giudizio e di punizione dei crimini. E’ probabile che siano pochi i magistrati che commettono la leggerezza di dichiarare in modo così chiaro ed esplicito la loro idea di giustizia, del tutto contraria non solo alla Costituzione ma ai principi essenziali del diritto; però è altrettanto probabile che il dottor Di Matteo non sia il solo a pensarla in questo modo. E siccome è anche probabile che esista una vasta parte del mondo politico, soprattutto tra i partiti populisti, ma anche nella sinistra, che non disdegna le idee di Di Matteo, e siccome non è affatto impossibile che questi partiti vincano le prossime elezioni, mi chiedo se esista, in Italia, il rischio di una vera e propria svolta autoritaria, e antidemocratica, come quella auspicata da Di Matteo – non so se anche da Scarpinato – o se esita invece una tale solidità delle istituzioni e dell’impianto costituzionale da metterci al sicuro da questi pericoli.

Davigo: “Renzi è confuso. Per cacciare un politico basta la sua difesa”. Il magistrato - “Il leader Pd mi dà del khomeinista, ma è per andare in cella che servono le sentenze. Per andare a casa, bastano certe autodifese indecenti”. Intervista di Marco Travaglio del 16 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano".

Piercamillo Davigo, l’uscita della sua corrente Autonomia e Indipendenza dalla giunta dell’Associazione magistrati continua a far discutere. Il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte della corrente Area e il leader di Unicost Antonio Sangermano la accusano di “populismo giudiziario”.

«Ridicolo. È la stessa accusa che mi hanno sempre mosso i peggiori politici e giornali. Ora vedo che la usano anche alcuni colleghi. La prendo come una medaglia alla mia indipendenza. Io indico la luna e questi guardano il dito».

Quale sarebbe la luna?

«Le nomine lottizzate, poco trasparenti e incomprensibili di magistrati negli incarichi giudiziari direttivi e semidirettivi da parte del Csm, che sconcertano buona parte dei nostri colleghi, oltre ai settori più avveduti dell’opinione pubblica. E la risposta qual è? Che io le denuncio per guadagnare voti con la mia componente associativa. Ma santo cielo, se mi dicono così significa che lo sanno anche loro che molti magistrati la pensano come me. O credono che la loro base sia formata da un branco di idioti?»

Qual è oggi il rischio più grave per la magistratura italiana?

«Quello del carrierismo e quello del conformismo verso il potere politico, che il Csm dovrebbe arginare, non incentivare. Le nomine dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti dovrebbero rispondere a criteri più chiari e stringenti e avvenire con procedure più trasparenti e comprensibili. Chi concorre a un incarico deve presentare un’auto-relazione, che poi viene confrontata con quelle degli altri per la scelta finale del Csm. Ecco, queste relazioni devono essere online, a disposizione di tutti. Per un’esigenza profilattica: così uno evita di tessere lodi infondate o esagerate di se stesso; chi vota per lui risponderà della sua scelta a tutta la magistratura e ai cittadini; e tutti capiranno se il Csm ha scelto il più bravo oppure no. Non c’è privacy che tenga. Oggi purtroppo non è così, il che provoca una crescente disaffezione dei magistrati verso il loro organo di autogoverno: io vengo accusato di colpire il Csm, mentre voglio difenderlo, aiutandolo a evitare errori».

Lei contesta la lottizzazione correntizia delle nomine “a pacchetto”. Perché?

«Se si decide contemporaneamente su un mazzo di incarichi da riempire, senza trasparenza né criteri stringenti, il rischio è che non si scelga il migliore per ogni posto, ma che si segua la logica dell’“uno a me, uno a te, uno a lui”. Mettano tutto online: a parole sono tutti d’accordo, perché non lo fanno? Un collega mi ha detto: “Ormai ci stupiamo se ogni tanto il Csm nomina uno bravo”. E purtroppo sono in molti a pensarlo. Ma si può andare avanti così?»

Voi avete contestato le nomine dell’ex assessore della giunta siciliana di Lombardo, Giovanni Ilarda, a Pg di Trento, e l’indicazione dell’ex deputato Pd Lanfranco Tenaglia a presidente del Tribunale di Pordenone.

«Ci siamo sentiti presi in giro. La giunta unitaria dell’Anm si era data un programma, che comprendeva il monitoraggio delle nomine direttive e semidirettive del Csm, per verificare il rispetto delle regole. Dopo durissime discussioni, abbiamo creato questo gruppo di lavoro. E c’era un’intesa sui “fuori ruolo” che arrivano dai ministeri: almeno un anno di pausa, prima che possano concorrere a incarichi direttivi. Inoltre il Comitato direttivo centrale dell’Anm approvò una richiesta al Parlamento per stabilire che chi rientra da un’esperienza politica non abbia funzioni giurisdizionali. Su questi punti quasi tutte le correnti dell’Anm, a cominciare da Area, avevano posizioni intransigentissime. Ma se poi chiediamo al Csm di attenersi, per coerenza, a questi criteri nelle sue nomine, cominciano i distinguo, le resistenze, e si continua a fare come se niente fosse. Addirittura si fa saltare la fila ai “fuori ruolo” di ritorno, che passano davanti a quelli che hanno sempre tenuto la toga in spalla. Ma con quale credibilità? Ecco: se non mi fido di chi gioca con me, non gioco più».

Non è strano che il favorito al Csm per fare il capo della Procura di Napoli sia Giovanni Melillo, capo di gabinetto uscente del ministro Orlando?

«Non voglio parlare dei casi singoli, ma dei princìpi: se abbiamo ritenuto che i “fuori ruolo” per un anno non possano diventare dirigenti di uffici giudiziari, quella nomina violerebbe questo principio. È una cosa ovvia: persino gli ambasciatori, che non hanno doveri di indipendenza, dopo un certo periodo all’estero devono rientrare in Italia per il cosiddetto “bagno”: altrimenti diventano cittadini stranieri. A maggior ragione questo deve valere per i magistrati che vengono cooptati dai politici per incarichi ministeriali: badi bene, non scelti per concorso, ma per rapporti fiduciari di natura politica. Prima di tornare in incarichi giudiziari delicati, devono respirare di nuovo l’aria della cultura della giurisdizione, per essere e anche per apparire di nuovo “indipendenti da ogni altro potere”: come prescrive la Costituzione. Altrimenti si dà un segnale devastante ai magistrati».

Quale?

«Che vale di più stare fuori ruolo, in posti più prestigiosi e meno stressanti, che non fare i giudici o i pm sotto montagne di fascicoli, spesso sull’orlo del tracollo psicofisico, ed esposti a rischi disciplinari per ritardi fisiologici o errori formali».

Ieri Sangermano, sul Giornale, trova gravissima la frase che le viene attribuita, secondo cui: “Non esistono politici innocenti, ma solo colpevoli su cui non sono state raccolte le prove”.

«Sì, è la stessa che mi attribuisce anche Renzi nel suo ultimo libro: sorprendente questa assonanza, non trova? Evidentemente i due hanno le stesse fonti, o leggono la stessa pessima stampa. In realtà io parlavo di un processo specifico: quello di Mani Pulite sulla linea 3 della metropolitana milanese, dove si dimostrò fino in Cassazione che tutte le imprese consorziate versavano la loro quota di tangenti all’impresa capofila, che poi versava l’intera mazzetta al cassiere unico della politica, che poi la distribuiva pro quota a ogni rappresentante dei partiti, di maggioranza e di opposizione. È colpa mia se poi sono stati tutti condannati? È il solito giochino che una volta facevano solo certi politici e certi giornalacci: prendere una frase e isolarla dal contesto per buttartela addosso. Un giorno il capitano di una nave scoprì che il primo ufficiale di guardia era ubriaco e lo scrisse nel giornale di bordo. Quello, per vendicarsi, scrisse a sua volta: “Oggi il comandante non era ubriaco”. Era la verità, ma quella frase, estrapolata dal contesto, sembrò un atto di accusa, come a dire che tutte le altre volte il comandante era ubriaco. Ecco, questi fanno così. Sono ridicoli».

Renzi scrive anche che lei non sa cos’è il garantismo, non conosce Cesare Beccaria. Le rinfaccia una frase di Giovanni Falcone contro i “khomeinisti” della “cultura del sospetto”. E le rammenta che, per decidere se uno è colpevole o innocente, bisogna attendere la sentenza definitiva.

«Deve avere le idee molto confuse. Io, come tutti i magistrati, non mi sognerei mai di condannare qualcuno sapendolo innocente, perché sono stato educato alla cultura della prova. Noi magistrati esistiamo proprio per distinguere fra colpevoli e innocenti. Ma sappiamo anche che non sono le sentenze che debbono selezionare la classe dirigente e politica: è la politica che deve fare le sue valutazioni autonome sul materiale giudiziario e decidere se certe condotte già dimostrate in fase di indagine, a prescindere dalla rilevanza penale, sono compatibili o meno con la “disciplina” e “l’onore” richiesti dall’art. 54 della Costituzione a chi ricopre pubbliche funzioni. Per mandare in carcere qualcuno a espiare la pena, ci vuole la condanna definitiva. Ma per mandarlo a casa, a volte non c’è bisogno nemmeno della condanna di primo grado. Anzi, non c’è neppure bisogno dell’accusa: basta la sua difesa».

Addirittura?

«Certo. Certi politici si difendono in modo talmente vergognoso che andrebbero mandati a casa solo per quello. Prenda quel dirigente di una Asl lombarda accusato di mafia (e poi condannato) che, quando emersero le sue intercettazioni, si difese dicendo: “Io fin da ragazzo mi diverto a sembrare un mafioso”. C’è bisogno della condanna, per cacciarlo? Ecco: se i politici facessero pulizia al loro interno quando vengono a sapere cose del genere, le nostre indagini e sentenze non creerebbero alcuna tensione fra giustizia e politica, perché noi processeremmo solo degli “ex”. Invece se li tengono tutti fino alla condanna definitiva, e spesso anche dopo».

Sangermano dice pure che la legge Severino non poteva essere applicata “retroattivamente” a Berlusconi per espellerlo dal Senato.

«Sono allibito. Non c’è stata alcuna applicazione retroattiva. La decadenza da parlamentare prevista dalla Severino non è una sanzione penale, ma un requisito di onorabilità: se la legge dice che i condannati a certe pene per certi reati non possono andare o restare in Parlamento, vale per tutti i condannati, per reati commessi sia prima sia dopo la legge».

Renzi però scrive che prima di entrare in politica né lui né la sua famiglia avevano mai subito indagini, mentre dopo sì. E che un ex deputato di Forza Italia l’aveva avvertito dopo la sconfitta referendaria: “Ora partirà l’attacco delle procure ai renziani”. E subito arrivò l’inchiesta Consip.

«A parte il fatto che l’inchiesta mi pare sia partita diversi mesi prima, questo lo diceva già Berlusconi, con la medesima attendibilità. Ma poi bisogna intendersi: è ovvio che, quando assumi una carica pubblica, sei più esposto di un passante al rischio di indagini giudiziarie. Nel senso che diventi pubblico ufficiale, o incaricato di pubblico servizio, funzioni che ti prescrivono una serie di regole in più di quelle previste per un privato, e ti espongono anche al rischio di essere denunciato dai cittadini per i tuoi atti. Se invece Renzi vuol dire che per chiunque vada al governo, o perda le elezioni, scatta il complotto giudiziario, dice cose insensate».

Lei ha mai avuto offerte ministeriali?

«Quella che sanno tutti: nel 1994 Ignazio La Russa mi voleva ministro della Giustizia nel primo governo Berlusconi. Risposi “no grazie”. Poi non si azzardò mai più nessuno: o sto antipatico a tutti, oppure tutti mi ritengono politicamente inaffidabile. In ogni caso, me ne vanto».

Ultimamente la volevano i Cinque Stelle.

«Nessuna proposta formale. E, a scanso di equivoci, al loro recente convegno alla Camera ho ribadito che i giudici non dovrebbero mai fare politica, anche se sarebbe assurdo vietarlo per legge (nelle democrazie serie lo si proibisce ai pregiudicati, non ai magistrati). Però un protagonista di Tangentopoli, condannato in via definitiva, ha dichiarato che, se vincono i 5Stelle, Mattarella non darà mai l’incarico a Di Maio, ergo il M5S indicherà me come premier, e sarà la fine. A parte il fatto che è fantascienza, mi inorgoglisce che un pregiudicato pensi questo di me…»

Perché i magistrati non devono fare politica?

«Perché non sono capaci, della qual cosa esistono evidenze empiriche. Ha mai visto uno che ha fatto a lungo il magistrato diventare un grande statista? I politici sono, o dovrebbero essere, scelti (cioè eletti) col criterio della rappresentanza. I professionisti, con quello della competenza, tant’è che nessuno si farebbe operare da un chirurgo che passa per bravo solo perchè è stato eletto dal popolo. Noi magistrati siamo un’altra cosa: abbiamo le guarentigie di indipendenza proprio per potercene infischiare delle critiche dell’opinione pubblica: come potremmo gestire il consenso, se non l’abbiamo mai fatto prima in vita nostra?»

La prova empirica sarebbe la produzione legislativa delle commissioni Giustizia e del ministero della Giustizia, infarciti di magistrati (oltreché di avvocati)?

«Anche. Roba da mettersi le mani nei capelli. Da anni si dice alle procure che, non potendo smaltire tutti i fascicoli, devono privilegiare quelli per reati più gravi e poi, a scalare, tutti gli altri. Ma ora, nella riforma penale Orlando che entra in vigore il 3 agosto, c’è l’avocazione obbligatoria da parte delle Procure generali per tutti i fascicoli che i pm non hanno chiuso con una richiesta di rinvio a giudizio o di archiviazione entro 3 mesi dalla scadenza dei termini. Solo che le Procure generali hanno organici molto più ridotti di quelli delle Procure…»

E allora?

«E allora come fanno a smaltire per tempo i fascicoli che non sono riusciti a evadere nemmeno le Procure? I Pg applicheranno nei propri uffici i pm delle Procure per farsi aiutare. Cioè: prima dici ai pm di dare la precedenza a certi fascicoli, poi gli fai levare quelli che non han fatto in tempo a smaltire, e infine li chiami a smaltire quelli che gli hai fatto levare. Ma si può andare avanti così? È l’idea balzana che si risolvano i problemi dando degli ordini, peraltro inapplicabili, come le gride manzoniane del governatore Ferrer. Tipo quando Renzi annunciò una legge per fare durare i processi non più di un anno. E perché – risposi io – non sei mesi? O due settimane? Poi c’è l’obbrobrio delle pensioni».

Quale?

«Il decreto del governo Renzi che ha anticipato il nostro pensionamento dai 75 ai 70 anni e ha lasciato repentinamente scoperti 500 incarichi direttivi, portando i vuoti di organico a quota 1200. Siccome, da quando viene bandito un concorso per nuovi magistrati a quando questi entrano in servizio dopo la nomina e il tirocinio, passano 4 anni, noi dell’Anm abbiamo detto: prima reclutate i giovani, poi mandate a casa i vecchi. Conservo la lettera del ministro Orlando che, a nome del governo, si impegnava con l’Anm a prorogare il pensionamento di tutti i magistrati a 72 anni fino alla completa copertura dell’organico. Impegno poi incredibilmente disatteso. Alla Camera, il ministro ha spiegato che l’impegno l’aveva assunto il governo Renzi e ora il governo era cambiato. Pensi se lo stesso discorso l’avesse fatto sui titoli di Stato il ministro dell’Economia e delle Finanze: gli impegni non valgono più perché è cambiato il governo. Sarebbe saltata l’economia italiana su tutti i mercati internazionali».

Rimpiange i governi Berlusconi?

«Diciamo che il centrosinistra non li fa rimpiangere, però ha fatto più danni. Il centrodestra faceva leggi terribili, che fortunatamente perlopiù non funzionavano, o venivano dichiarate incostituzionali dalla Consulta, o sortivano effetti opposti a quelli sperati. Ma allora almeno il centrosinistra votava contro, protestava, chiamava la gente in piazza. Ora che quello che non era riuscito a fare il centrodestra lo fa il centrosinistra, il centrodestra glielo vota e quasi nessuno protesta».

Ora il governo di centrosinistra si dibatte fra gli annunci di linea dura sull’immigrazione e lo Ius soli.

«Se avessero disciplinato per tempo l’immigrazione, con la politica dei visti per i Paesi e le posizioni che servivano alla nostra economia (mai sentito proteste per le domestiche filippine), non ci troveremmo a questo punto. Per anni non si sono concessi i visti a nessuno, costringendo i migranti a entrare clandestinamente in Italia. Così poi sono arrivate le sanatorie indiscriminate, che generano aspettative di nuovi colpi di spugna, come i condoni edilizi e fiscali. E ora il fenomeno appare incontrollato, anche perché le annunciate espulsioni degli irregolari sono solo sulla carta: non si fanno perché mancano sempre i soldi. Si lasciano incancrenire i problemi e poi li si scaricano sui cittadini. E anche sui magistrati, con reati inutili come quello di clandestinità. Che ancora non è stato abolito, anche non risolve nulla, anzi complica le indagini sugli scafisti: non possiamo più sentire i migranti come testimoni, con l’obbligo di dire la verità, ma dobbiamo ascoltarli come indagati, con la facoltà di mentire e di non rispondere».

Lei ripete spesso che l’Anac di Raffaele Cantone serve a poco: non crede nella prevenzione anticorruzione?

«Non credo che la corruzione si combatta con questo tipo di prevenzione, che previene poco o nulla. I problemi si prevengono conoscendoli, e la corruzione si conosce solo facendo le indagini, gli arresti e i processi, non controllando la regolarità delle pratiche amministrative e burocratiche. L’esperienza insegna che, quando uno vuole delinquere, sta molto attento a curare la forma per lasciare tutte le carte a posto».

Com’è oggi la magistratura rispetto a 25 anni fa, cioè al tempo di Mani Pulite?

«Molto più genuflessa e intimidita di allora. La situazione complessiva creata dalla classe politica ha avuto l’effetto di spaventare e piegare molti magistrati. Tra carichi di lavoro massacranti, sanzioni disciplinari durissime per vizi formali e ritardi naturali, leggi penali e regole processuali cambiate per mandare in fumo i processi ai colletti bianchi, attacchi politici e mediatici, nomine non trasparenti, hanno creato un ordine giudiziario sempre meno forte, sereno e indipendente e sempre più affetto dal carrierismo e dalla tentazione di cercare santi protettori. Cioè sempre più conformista verso chi comanda».

Davvero non si sente un khomeinista?

«Si figuri. Ho sempre fatto il magistrato allo stesso modo e sono stato attaccato da tutte le parti. Mi han dato ora del comunista, ora del fascista, del servo della Cia e dei servizi segreti, adesso pure del populista e del grillino. Il che, per me, significa essere imparziale. Lo scrisse Piero Calamandrei a proposito del giudice Aurelio Sansoni, bollato di “pretore rosso” perché nel 1922 faceva rispettare la legge dalle camicie nere: se non sei disposto a servire una fazione, devi rassegnarti all’accusa di essere al servizio della fazione contraria. E dire che, da giovane, quando abbaiavo ai ladri, mi battevano le mani. Poi, salendo il livello dei ladri, ogni volta che abbaiavo hanno cominciato a prendermi a calci».

Quella frase di Davigo che lo inchioda da 25 anni. Dei politici disse: "Solo colpevoli non ancora scoperti". Ora si smarca, ma ha consegnato l'Italia ai giustizialisti, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 17/07/2017, su "Il Giornale". Ci sono persone che diventano proverbi. Piercamillo Davigo, uno dei più celebri magistrati tricolori, potrebbe essere raccontato attraverso due massime che hanno fatto il giro del mondo: «Rivolteremo l'Italia come un calzino» e l'altra, altrettanto dirompente, «non esistono politici innocenti ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove». O, per dirla con modi spicci, non ci sono innocenti ma colpevoli non ancora scoperti. Queste due «filastrocche», scandite ai tempi gloriosi di Mani pulite quando Davigo militava nel Pool, sono diventate negli anni inni semiufficiali del giustizialismo all'italiana. Veri e propri mantra ripetuti a occhi chiusi, quasi in trance, da generazioni di girotondini, grillini, manettari. Del resto, dopo un quarto di secolo in prima linea, Davigo è sempre lo stesso. Intransigente, quasi apocalittico, durissimo nei confronti del potere che pure ha molto da farsi perdonare e spesso ha fatto di tutto per dargli ragione. Passi per lo stivale formato calzino. Stupisce invece che ora l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati cerchi di smarcarsi dall'altro concetto, diventato evidentemente troppo ingombrante. Non può negare di averlo pensato e compresso come un sandwich dentro uno slogan, e ci mancherebbe, ma prova a circoscriverlo, a collocarlo in un angolo della cronaca dove non appaia per quello che è: eccessivo, fuori misura, buono per quella cultura del sospetto che ha avvelenato i pozzi per una lunga stagione. Dunque Davigo non può smentire ma prende le distanze da se stesso in una chilometrica intervista apparsa ieri sul Fatto quotidiano a firma del direttore Marco Travaglio. Travaglio ricorda all'ex pm che quelle parole sono state contestate persino da uno dei leader dell'Anm, Antonio Sangermano, in un colloquio con Luca Fazzo sul Giornale. Davigo ne approfitta per spargere un po' di sale, alla sua maniera: «Sì, è la stessa» frase «che mi attribuisce anche Renzi nel suo ultimo libro: sorprendente questa assonanza, non trova? I due hanno le stesse fonti o leggono la stessa pessima stampa». Così, dopo aver messo insieme e maltrattato a freddo il Giornale e l'ex premier, il giudice arriva finalmente al punto: «In realtà io parlavo di un processo specifico: quello di Mani pulite sulla linea 3 della metropolitana milanese, dove si dimostrò fino in Cassazione che tutte le imprese consorziate versavano la loro quota di tangenti all'impresa capofila, che poi versava l'intera mazzetta al cassiere unico della politica, che poi la distribuiva pro quota a ogni rappresentante dei partiti di maggioranza e di opposizione». È quello il fondale da cui partì il viaggio di quella fortunatissima affermazione. «È colpa mia - tira le fila il giudice - se poi tutti sono stati condannati?» Siamo alle solite. Davigo s'improvvisa filologo di se stesso, s'immerge nel proprio passato, come aveva fatto pure a Porta a Porta piazzando la solita didascalia sul «contesto specifico» sotto quel frammento di storia della magistratura tricolore, salvo poi ricordare con una punta di compiacimento che erano tutti colpevoli, dal primo all'ultimo. Davigo ha più di un merito: ha condotto brillantemente indagini difficilissime e oggi guida senza peli sulla lingua, come è nel suo stile, la battaglia contro il male dei mali della corporazione in toga: la lottizzazione degli incarichi. Ma è anche il campione di quella mentalità manichea che ha trasformato l'Italia in una riserva di caccia per magistrati e investigatori. Con errori gravissimi, ricadute devastanti sulla nostra economia, l'indebolimento complessivo di quel potere politico che lui continua a combattere. E la scoperta infine del contrario esatto di quel che lui va predicando da sempre: esistono colpevoli che invece erano innocenti per davvero. Ma hanno avuto vita e carriera rovinate per sempre.

Se Davigo sa dei reati e non denuncia. L'attacco della toga, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 17/07/2017, su "Il Giornale".  Piercamillo Davigo, il magistrato giustiziere, in una lunga intervista concessa al Fatto Quotidiano bolla come «pessima stampa» e «giornalacci» i giornali - cioè noi - che lo hanno criticato per le sue posizioni integraliste, compresa quella per cui «un imputato assolto non è innocente ma un colpevole che l'ha fatta franca» e che gli «errori giudiziari non esistono». Se leggesse più spesso certi «giornalacci», Davigo prenderebbe coscienza di quante persone, famiglie e aziende sono state rovinate, quante reputazioni sono state distrutte e patrimoni azzerati da abbagli di suoi colleghi, convinti come lui di essere degli dei. E leggerebbe storie di casi psichiatrici, di miserie umane e professionali che vedono coinvolti magistrati ai quali, ciò nonostante e a differenza di quanto accade in altre categorie, viene permesso di rimanere in servizio come se nulla fosse. Niente, a Davigo la libera stampa e le opinioni contrarie alle sue fanno schifo. La parola «giornalacci» ricorda il fascismo in modo molto più pericoloso di quelle («ordine e disciplina») affisse nel suo stabilimento di Chioggia dal bagnino nostalgico. Con la differenza che uno (il bagnino) è indagato, l'altro (Davigo) è un possibile candidato premier dei grillini. Detto ciò, questo «giornalaccio» avrebbe qualche domanda da fare a Davigo che riguarda il passaggio della stessa intervista a Il Fatto in cui lui si lamenta di «nomine lottizzate, poco trasparenti, senza criteri e incomprensibili di magistrati da parte del Csm». Che ne sappia, nella pubblica amministrazione questo sospetto costituisce un indizio di reato sufficiente ad aprire una inchiesta, come è capitato ad esempio per le nomine fatte dal sindaco di Roma Virginia Raggi. E allora domanderei a Davigo: come mai non è corso in procura a denunciare queste gravi «opacità»? Perché da magistrato a conoscenza di una possibile notizia di reato non applica «l'obbligatorietà dell'azione penale» invocata in altri campi? Perché l'azione giudiziaria a tutela del rigore morale e procedurale (la famosa trasparenza) esercitata nei confronti della classe politica e delle sue lobby i giudici non la applicano su se stessi? Insomma, ci può spiegare, dottor Davigo, perché i suoi colleghi possono fare nomine opache e noi tutti no, altrimenti ci arrestate? Mi perdoni, ma i «giornalacci» servono anche a fare queste domande e a pensare che se lei non passa dalle parole ai fatti in realtà è complice (moralmente e penalmente) dello schifo che finge di denunciare.

Chi fa le leggi davvero? IL METODO WOODCOCK E LE STORTURE DELL’ORDINAMENTO GIUDIZIARIO. La politica si è lasciata influenzare da una magistratura che vuole coniugare l’allarme-mafia con l’allarme-corruzione, scrive Giovanni Fiandaca l'11 Luglio 2017 su "Il Foglio". Recenti vicende, giudiziarie e parlamentari, convergono nel sollecitare qualche considerazione sull’attuale modo d’atteggiarsi dei rapporti tra politica, magistratura e sistema mediatico. A ben vedere, emergono in proposito sia elementi di continuità, sia segnali di potenziale discontinuità invero già messi in evidenza da Claudio Cerasa in un articolo del 5 luglio che prendeva spunto da due casi senz’altro sintomatici, e che perciò vale la pena riprendere: da un lato, le indagini della procura romana sul pubblico ministero napoletano Woodcock nell’ambito della nota vicenda Consip; dall’altro, il dibattito occasionato dall’approvazione in Senato della riforma del codice antimafia. L'indagine romana sul pm Woodcock e due culture magistratuali in conflitto "oggettivamente incompatibili". Cominciando dal primo caso, non è superfluo ribadire la novità – anche simbolica – di una procura che, nell’indagare sui metodi di un’altra procura, intende far luce anche sul possibile ruolo attivo avuto dal pm inquirente rispetto alla diffusione di notizie riservate alla stampa. Come spiegare questa inedita volontà di scovare i responsabili di un fenomeno così diffuso e tollerato come la fuga di notizie? Nei primi commenti, sono state avanzate anche ipotesi più o meno dietrologiche alludenti a possibili fattori politici di condizionamento, o a dinamiche conflittuali interne alle procure di Roma e Napoli. Ma non sono mancate ipotesi esplicative più impegnative a livello addirittura sistemico, come ad esempio quella – prospettata da Carlo Bonini su Repubblica dello scorso 28 giugno – che fa leva sulla contrapposizione tra “due culture della giurisdizione agli antipodi”, rispettivamente rappresentate da un modello-Pignatone rispettoso della più rigorosa legalità processuale, e da un modello-Woodcock invece assai disinvolto nella raccolta delle prove, nell’utilizzazione della polizia giudiziaria e nello sfruttamento mediatico delle indagini: queste due culture magistratuali in conflitto (argomenta sempre Bonini), mentre nel ventennio dell’emergenza berlusconiana sarebbero state costrette a convivere per una sorta di stato di necessità politico-istituzionale di fronte ai rischi di deriva democratica e alla “manomissione sistematica delle regole del processo”, nell’attuale situazione politica disordinata, priva di padroni e di bussola, risulterebbero “oggettivamente e semplicemente incompatibili”. A prescindere dal suo merito intrinseco, una spiegazione come questa presuppone l’idea che gli orientamenti della prassi giudiziaria risentano sensibilmente, al di là dei principi e delle regole di diritto, del quadro politico generale e delle mutevoli valutazioni di necessità od opportunità che di volta in volta vi si riconnettono. Questa convinzione – peraltro diffusa anche a prescindere dagli schieramenti – sembra per un verso realistica, ma entra in contraddizione con alcuni postulati che per altro verso stanno, o dovrebbero stare a cuore ai moltissimi difensori (almeno a parole!) dello Stato democratico di diritto: com’è intuibile, si tratta dei principi della divisione dei poteri e del vincolo dei giudici alla sola legge, i quali dovrebbero garantire la tendenziale autonomia della funzione giudiziaria dalla politica. Se così è, l’enfatizzare – come fanno Bonini e i molti che opinano nello stesso senso – la tesi che la legalità processuale costituisce una variabile dipendente dal carattere emergenziale o meno della situazione politica contingente, finisce di fatto con l’avallare quella subordinazione della giustizia alle esigenze della politica che in linea teorica si dovrebbe invece scongiurare.

Stiamo assistendo davvero a una reazione alla giustizia mediatica, alla cultura del sospetto e al protagonismo dei magistrati-star? Proponendo nell’articolo che abbiamo richiamato all’inizio una chiave di lettura nella sostanza analoga ma meno complicata, e – direi – di segno senz’altro ottimistico, Claudio Cerasa dal canto suo ravvisa nell’indagine romana sul pm Woodcock l’attesa reazione – finalmente dall’interno stesso della magistratura – alla giustizia mediatica, alla cultura del sospetto e al protagonismo dei magistrati-star. Il che, a suo giudizio, farebbe il paio con le reazioni critiche di significato equivalente manifestate (oltre che da alcuni giuristi accademici) da una parte qualificata della magistratura contro l’estensione legislativa della confisca preventiva antimafia ai reati di corruzione: estensione caldeggiata invece, e non a caso, da altra parte della magistratura specie antimafia e, con particolare enfasi, da quella celebre schiera di magistrati di orientamento giustizialista-populista ostinata nel reclamare una indifferenziata assimilazione normativa tra mafia e corruzione, nel presupposto drammatizzante – ma in realtà finora indimostrato – che i due fenomeni ormai ampiamente convergano. In effetti, anche a mio avviso la modifica del codice antimafia assume rilievo non soltanto per diagnosticare gli atteggiamenti e orientamenti in atto rinvenibili all’interno della magistratura, ma anche per comprendere attraverso quali modalità e percorsi le forze politiche di maggioranza oggi concepiscono le riforme penali da portare avanti.

La politica vuole dare ai cittadini un segnale politico di rafforzamento della lotta al presunto mix mafia-corruzione. Premesso che la politica è sempre meno in grado di fare da sola nel progettare riforme, e ciò vale anche per il settore penale, la domanda è questa: da quale fonte essa ha originariamente attinto il suggerimento di rendere applicabile la confisca allargata antimafia al soggetto indiziato anche di un solo reato contro la pubblica amministrazione? In realtà, è stata la Commissione parlamentare antimafia ad avere per prima – se ben ricordiamo – questa idea, recependola proprio da quella nota parte della magistratura antimafia che suole privilegiare, più che l’osservanza dei principi giuridici di fondo e l’equilibrio tra efficacia repressiva e garanzie, una logica sostanzialistica di risultato nella lotta a tutto campo alla criminalità. Che poi le proposte di legge ispirate a questo punitivismo grezzo e onnivoro, comunque potenzialmente redditizio oggi in termini di consenso elettorale, risultino confuse e approssimative, o per di più in contrasto con i princìpi costituzionali e con i princìpi di garanzia elaborati dalla Corte europea di Strasburgo, pazienza! Secondo i politici che ne sono fautori, e i magistrati favorevoli all’estremismo repressivo, la nuova norma sulla confisca antimafia ai corrotti necessiterebbe infatti di essere definitivamente approvata in ogni caso, anche se difettosa e a rischio di incostituzionalità: proprio per dare ai cittadini un segnale politico di rafforzamento della lotta al presunto mix mafia-corruzione e per dotare quei magistrati che ne hanno fatto appositamente richiesta di un un’arma in più nella loro attività di contrasto. E, di fronte all’obiezione che potrebbe trattarsi di un’arma spuntata appunto perché mal costruita e di dubbia legittimità, non sono mancate da parte di politici pro-riforma, come lo stesso guardasigilli Orlando, o ad esempio di un magistrato antimafia (oggi consigliere Csm) come Antonio Ardituro reazioni volte a minimizzare il problema, in base a questa comune e ottimistica convinzione (cfr. le rispettive interviste a Repubblica del 7 e dell’8 luglio): che cioè spetta in ogni caso alla Cassazione, ed eventualmente alla Corte costituzionale, fornire a posteriori l’interpretazione più precisa e corretta delle novità normative approvate dal Parlamento, specie quando queste risultano formulate in maniera generica o approssimativa, e appaiono perciò – aggiungiamo noi – simili a prodotti semilavorati o a semplici linee-guida che spetta inevitabilmente ai giudici specificare. Ma ci si accorge che, delegando di fatto sempre più alla Cassazione il compito di dare un volto e un significato definiti e giuridicamente legittimi a quelle nuove norme che la parte oltranzista della magistratura d’accusa richiede, e che il ceto politico dal canto suo non riesce a formulare in maniera puntuale e ineccepibile, si assiste alla morte del modello di ordinamento consacrato nella nostra Carta costituzionale perché – in definitiva – è il potere giudiziario che finisce, così, con l’esercitare nella sostanza la vera funzione legiferante?

Se il potere giudiziario finisce con l'esercitare la vera funzione legiferante si assiste alla morte del nostro modello costituzionale. Ma il caso dell’estensione della confisca antimafia assume un rilievo emblematico nell’evidenziare le distorsioni (anche costituzionali) dell’attuale politica penale per una ragione ulteriore, già accennata: i politici favorevoli a questa riforma hanno cioè deciso di far propria una richiesta proveniente dalla corrente estremista dei magistrati antimafia, ma non condivisa da altri esponenti del mondo della magistratura non meno autorevoli ed esperti in materia di crimine organizzato e di contrasto della corruzione. Se così è, la politica – priva, ribadiamo, di conoscenze e competenze proprie per prendere partito con autonoma capacità critica – si è lasciata influenzare non da una magistratura unanime, ma da quella parte di essa più propensa a coniugare l’allarme-mafia con l’allarme-corruzione, senza che peraltro a tutt’oggi si disponga di rigorosi riscontri empirici circa il livello di reale fondatezza di questo allarme congiunto: così stando le cose, le forze di maggioranza hanno dunque finito con l’accordare una sorta di preferenza fideistica al pregiudiziale estremismo drammatizzante di alcuni magistrati-star, ignorando o sottovalutando l’esistenza di non poche e autorevoli voci critiche all’interno di quei settori della magistratura che hanno, forse, avuto il torto – in verosimile omaggio a esigenze di riserbo e di rispetto della autonomia del Parlamento – di non opporsi sin dall’inizio in forma pubblica agli orientamenti dei colleghi di opinione opposta. Proprio in considerazione della corriva disponibilità delle attuali forze politiche di governo a recepire in particolare le indicazioni e le richieste provenienti dai settori più estremisti e mediaticamente esposti del mondo giudiziario, sarebbe necessario che d’ora in avanti al dibattito pubblico in materia di giustizia penale la magistratura partecipasse attivamente dando voce a tutte le posizioni presenti al suo interno. E sarebbe altresì indispensabile, in vista di un miglioramento qualitativo della politica penale, che il ceto politico nel suo insieme acquisisse almeno i fondamenti basilari di una cultura penalistica all’altezza delle sfide del tempo presente e, prima di deliberare, si confrontasse criticamente con gli esperti di ogni tendenza e provenienza.

L'ILLUSIONE DI CHI PENSA CHE SI POSSA OTTENERE GARANTISMO SENZA TOCCARE I PM. Tra Woody Allen e l'avvocato romano dei nazisti, scrive Guido Vitiello l'8 Luglio 2017 su "Il Foglio". "Sarò giustiziato domattina alle sei. Dovevo andarmene alle cinque, ma ho un avvocato in gamba: ho ottenuto clemenza”. Così Woody Allen nelle prime battute di “Amore e guerra”, film su un giovane russo condannato alla fucilazione dai francesi per aver tentato di assassinare Napoleone. E in effetti, se hai cospirato contro l’imperatore e ti sei intrufolato a corte con una pistola, per giunta travestito da diplomatico spagnolo, un avvocato che ti guadagna un’ora di vita in più è uno che sa fare il suo mestiere. Conoscete parabola più comica e più disperata, e dunque più inscalfibilmente vera, per illuminare la misera cosa a cui può ridursi il diritto di difesa quando tutte le armi sono in pugno all’accusa? Io forse ne conosco una. Me l’ha raccontata anni fa Mauro Mellini, avvocato ed ex parlamentare radicale, rammaricandosi che nessuno ne avesse fatto un film, tra i tanti ambientati nella Roma occupata. E’ la storia di un ometto strambo, impazzito e ridotto in miseria dopo che il patrimonio della moglie, una ricca ereditiera tedesca, era stato confiscato dal governo del kaiser durante la Grande guerra. Mellini lo conobbe negli anni Cinquanta: “Era un avvocato, ma si era ridotto a vivere come un barbone, dormendo nei vagoni letto alla stazione Termini. Durante l’occupazione nazista, conoscendo benissimo il tedesco, si presentò a fare il difensore davanti al Tribunale di guerra installato all’Hotel Flora in via Veneto. Qualcuno raccontava che avesse fatto delle dotte arringhe per chiedere che i suoi (si fa per dire) difesi fossero fucilati nel petto anziché nella schiena. Tanto i ‘clienti’ il tedesco non lo capivano”. Ecco, mi disse Mellini, questa è la storia da tenere a mente tutte le volte che si sente invocare, in condizioni come le nostre, più garantismo: “Voler porre la questione del garantismo davanti a tribunali obbedienti alla logica del partito dei magistrati equivale, più o meno, a prodigarsi in arringhe come quelle compitamente pronunziate dal poveretto”. Beccarsi una pallottola nel petto: se non proprio a questo, a poco più si riducono le aspirazioni di qualche benintenzionato. Di disarmare il plotone non se ne parla neppure più, anzi negli ultimi mesi si sta facendo di tutto per rifornire il suo arsenale. Finita la chiassosa e inconcludente stagione berlusconiana, riprende piede tra i migliori – ed è tutto dire: perché i peggiori neppure ci pensano – una pericolosa illusione: l’idea che si possa ottenere qualcosa di “garantista” senza toccare i poteri abnormi dei pubblici ministeri. Mi ricordano quelle madri compassionevoli, mogli di uomini irascibili, che vanno in segreto nella stanza del figlio punito ingiustamente o con troppo rigore, e lì lo consolano e all’occorrenza lo medicano; ma che mai si sognerebbero di far la voce grossa contro il marito. A ripensarci, l’esponente più nobile di questa illusione è stato proprio Stefano Rodotà; che negli anni Ottanta si prodigò per la causa del detenuto Giuliano Naria, ma capeggiò anche il fronte del no al referendum Tortora, convinto che fosse una manovra di gruppi politici corrotti per attentare all’autonomia della magistratura; e che coerentemente, qualche lustro più tardi, da un lato tutelava la privacy dei cittadini e dall’altro le mani libere degli intercettatori, arringando il popolo viola e altre cattive compagnie contro la “legge bavaglio”. Illusione, beninteso, e non doppiezza. L’illusione di poter negoziare qualcosa di meglio di una pallottola in petto. Ricordatevi del povero Fornaretto, ma anche dell’ometto strambo di Mellini.

Adesso basta con la politica succube dei pm, scrive Matteo Renzi, Domenica 09/07/2017, su "Il Giornale". Ultimo punto, negativo: le vicende giudiziarie, gli scandali, i processi, le polemiche. Non giriamoci attorno. Veniamo da venticinque anni di subalternità culturale della politica rispetto alla magistratura. E la colpa è dei politici, non dei giudici. Da Mani pulite in poi appunto un quarto di secolo fa la politica si è come ripiegata. Impaurita. Si è affermata la presunzione di colpevolezza, anziché d'innocenza. Si è accettata l'equazione folle per la quale un avviso di garanzia comporta le dimissioni del politico. Il che è incostituzionale, illogico, immorale. Vi sono due approcci completamente sbagliati a questo tema. Da un lato quello del centrodestra al governo per dieci anni, che, partendo dalle critiche generali al sistema della magistratura, arrivava a fare norme spesso incentrate sui propri interessi piuttosto che sulle reali necessità del mondo giudiziario leggi ad personam, che producevano nell'opinione pubblica e nel dibattito politico l'effetto opposto; dall'altro lato quello antiberlusconiano, che brandiva l'arma giudiziaria come strumento per mandare a casa l'allora premier, in nome di un principio comprensibile dal punto di vista etico ma controproducente dal punto di vista politico. Io ho sempre detto che volevo vedere Berlusconi fuori dalla politica non a causa delle sue vicende giudiziarie, ma perché sconfitto alle elezioni. Mi piace l'idea di mandare a casa gli avversari, non di mandarli in carcere. Quando però qualcuno dei nostri ha ricevuto richieste di interrogatori o avvisi di garanzia, nessuno ha evocato il legittimo impedimento o richiesto norme ad hoc: noi abbiamo detto, sempre, che stavamo dalla parte dei giudici. Ecco perché nel delicato rapporto giustizia-politica abbiamo compiuto una inversione a U, arrivando a rovesciare il paradigma. Tra le svolte che rivendico al mio governo c'è quella di andare in aula e dire ad alta voce e con forza: per noi un sottosegretario che riceve un avviso di garanzia non deve dimettersi automaticamente. Se ha motivi di opportunità politiche, che sia o meno indagato, allora fa bene a dimettersi. Ma non può essere scontato che lo faccia. Contemporaneamente, abbiamo fatto di tutto per accelerare i processi, assunto finalmente nuovo personale nei tribunali, implementato la digitalizzazione. Non ci siamo chiusi a riccio contro la giustizia, ma abbiamo rispettato la separazione dei ruoli collaborando attivamente in modo che i tempi dei processi si abbreviassero. Anche perché la grande maggioranza dei magistrati italiani è composta da professionisti impeccabili, formati in modo molto serio e dotati di competenze e preparazione. Poi ci sono le eccezioni, è ovvio: poche persone obnubilate dal rancore personale che collezionano indagini flop e che provano a salvare la propria immagine attraverso un uso spasmodico della comunicazione e del rapporto privilegiato con alcuni giornalisti. È vero che il sistema di autogoverno che si sviluppa intorno al Csm potrebbe funzionare meglio: c'è qualcosa che non torna in Italia se le correnti, che sono state esautorate nella vita dei partiti, rimangono decisive per la carriera dei magistrati. Ma è anche vero che ci sono alcune professionalità straordinarie nel mondo togato che ci hanno consentito di ottenere come sistema-paese successi anche a livello internazionale. Tuttavia c'è un vezzo culturale che per me è vizio sostanziale nell'atteggiamento di alcuni magistrati. Me ne rendo conto in Sala verde di Palazzo Chigi quando incontro l'Associazione nazionale magistrati guidata dal suo presidente, Piercamillo Davigo. E dopo i giudici pretendo di incontrare allo stesso modo anche gli avvocati, perché la giustizia non la esercitano soltanto i magistrati ma tutti i professionisti del diritto. L'incontro con Davigo e la sua delegazione parte con molta freddezza ma si mantiene civile e cortese nei toni; però la sostanza concettuale che Davigo ribadisce ma che in realtà ha più volte già espresso in tutti i luoghi, in tutti i libri, in tutte le interviste è che «un cittadino assolto non è detto che sia innocente, ma solo un imputato di cui non si è dimostrata la colpevolezza». Questo principio per me è un monstrum giuridico, un'assurdità costituzionale e filosofica. E mi spiace che il capo di tutti i giudici la pensi così. Ci sono secoli di civiltà giuridica che cozzano contro la convinzione di Davigo e contro una cultura che seppellisce l'approccio del Beccaria e i principi costituzionali ispirati a un rigoroso garantismo. Io non ho mai ricevuto nemmeno un avviso di garanzia in tredici anni di politica. Non parlo dunque per un fatto personale, ma per convinzione: non accetterò mai l'assunto per cui non esistono cittadini innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti. Perché questa è barbarie, non giustizia. «La cultura del sospetto non è l'anticamera della verità: la cultura del sospetto è l'anticamera del khomeinismo», diceva Giovanni Falcone. Per me sono parole che andrebbero scolpite in ogni tribunale accanto all'espressione «La legge è uguale per tutti». Il 5 dicembre, giorno successivo alla sconfitta referendaria, un volto noto nei dibattiti televisivi della politica quale Guido Crosetto, già sottosegretario alla Difesa e parlamentare del centrodestra, pubblica un tweet molto polemico: «Se conosco bene questo paese, nel giro di qualche settimana partirà l'attacco delle procure ai renziani doc. È uno schema classico e collaudato». Dopo tre mesi e dopo l'avviso di garanzia al ministro Lotti per presunta rivelazione di segreto d'ufficio e l'avviso di garanzia a mio padre per «concorso esterno in traffico di influenze», mi chiama Crosetto e mi fa notare la sua singolare profezia. Io però non credo ai complotti. Lo dico in tutte le sedi, in tutte le salse. Se c'è un'indagine non si grida allo scandalo, si chiede di andare a processo. Ci siamo già passati, a vari livelli. Mio padre riceve un avviso di garanzia il primo della sua vita alla tenera età di sessantatré anni, sei mesi dopo che io sono diventato primo ministro. Tutti i giornali nazionali mettono la notizia in prima pagina, alcuni internazionali hanno quantomeno un trafiletto, e almeno tre leader stranieri mi chiedono se sono preoccupato. Vado in tv e dico chiaramente che io voglio bene a mio padre, che sono sicuro che sia pulito, ma che nella mia veste di uomo delle istituzioni sono dalla parte dei giudici: per due volte il rappresentante dell'accusa chiederà l'archiviazione, che dopo due anni finalmente è arrivata. Nulla, non aveva fatto niente. Quindici giorni prima di un referendum sulle trivellazioni petrolifere scoppia un (presunto) scandalo in Basilicata con apertura di un fascicolo impegnativo e la richiesta di interrogare ben quattro membri su sedici del Consiglio dei ministri, uno dei quali il sottosegretario De Vincenti viene convocato come persona informata sui fatti, neanche a farlo apposta, nello stesso momento in cui deve svolgersi il Consiglio dei ministri. Forse che il sottosegretario che per legge è chiamato a verbalizzare le riunioni di Consiglio invocherà il legittimo impedimento? Non sia mai. Noi vogliamo consentire il corso dei processi, non accampiamo alcuna scusa per ostacolare le indagini: il professor De Vincenti viene invitato a lasciare il Consiglio dei ministri e a farsi interrogare immediatamente. Fatto sta che per una settimana questa notizia apre tutti i giornali e i notiziari ma poi un mese dopo, passato il referendum tutto finisce nel dimenticatoio e si scopre che l'inchiesta sul governo che aveva «le mani sporche di petrolio e denaro» non porta a nessuna sentenza passata in giudicato.

«È dal ’92 che in Italia comandano i magistrati». Intervista di Errico Novi del 30 Marzo 2017 su "Il Dubbio". Intervista al filosofo ed ex europarlamentare del Pci: «Siamo una repubblica giudiziaria, se ne esce solo con le riforme e la separazione delle carriere». «Eccome si potrebbe mai negare che oggi l’Italia è una Repubblica giudiziaria? Che in Italia i magistrati hanno il potere? E che per ribaltare la situazione ci vorrebbe una classe politica autorevole, capace, tra l’altro, di non compromettersi con storie di ordinaria corruzione, che una classe politica così non si vede e che siamo quindi in un vicolo cieco?». Il tono di Biagio de Giovanni sa essere lucidamente analitico ma anche, se necessario, inevitabilmente esasperato. Il filosofo ed ex europarlamentare del Pci vede con chiarezza la gravità della situazione e condivide in gran parte il discorso fatto due giorni fa da Luciano Violante, che in una lectio magistralis alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa ha detto «stiamo entrando in una società giudiziaria». L’ex presidente della Camera individua un punto di deragliamento: la legge elettorale del 2005, il porcellum, che ha sterilizzato i rapporti tra eletti ed elettori, con i primi «chiusi nella cerchia del capo anziché aperti alla relazione con i cittadini». Da qui a un sistema in cui «il codice penale è la nuova Magna Charta dell’etica pubblica» il passo è stato brevissimo.

È così, professor de Giovanni? È il sistema di voto con le liste bloccate ad aver aperto la strada alla società giudiziaria?

«Io farei partire le cose da un momento decisamente anteriore: le inchieste giudiziarie dei primi anni Novanta. In quel passaggio si è assistito a un fatto che non ha riscontri nelle altre democrazie occidentali: l’annientamento di un intero sistema politico. È lì che i rapporti tra politica e magistratura si spostano e da quel momento la situazione non è stata più ribaltata. Il nostro sistema è stato distrutto da Mani pulite e non è più rinato».

Da Tangentopoli ad oggi non c’è soluzione di continuità?

«Non c’è nel senso che l’equilibrio, appunto, non è stato più ripristinato. Poi non c’è dubbio che alle vicende dei primi anni Novanta si aggiungano altri elementi. Ed è verissimo che tutto quanto può accentuare il distacco tra eletto ed elettore favorisce il diffondersi di una critica radicale alla politica e il dilagare dell’antipolitica. C’è un attacco violento che di fatto punta alla fine della democrazia rappresentativa».

In questo c’è una deriva autoritaria?

«Intanto penso si possa dire che qui non si tratta di aggiustare un sistema elettorale: la propaganda antipolitica spinge per l’abbandono della democrazia rappresentativa in favore della cosiddetta democrazia diretta, che si realizzerebbe attraverso la rete».

Com’è possibile che vinca un’opzione del genere?

«Non possiamo sottovalutare un altro fattore che genera sfiducia nella rappresentanza politica classica: lo spostamento delle decisioni. Se la società non coincide più con lo Stato nazionale ma oltrepassa i confini, acquisisce una dimensione indeterminata se non globale, e se gran parte delle decisioni sono prese al di là dei confini nazionali, è chiaro che le società si sentono meno rappresentate politicamente. Cosa può decidere, ormai, un Parlamento nazionale? Al massimo può enfatizzare un aspetto del governo anziché un altro, ma le scelte di fondo vengono prese altrove. E questo ovviamente crea un terreno favorevolissimo per chi sostiene che la democrazia rappresentativa non serva più a nulla, non sia in grado di rappresentare gli elettori e che perciò bisogna aprire alla democrazia diretta».

La purezza opposta dai cinquestelle al resto della politica immondo e corrotto costituisce una forma di fascismo?

«I fenomeni non tornano mai uguali e io non allargherei troppo la consistenza storica di categorie come il fascismo. Certo, la critica violenta alla democrazia rappresentativa finisce per rivolgersi in concreto al Parlamento, e questa modalità è stata caratteristica di determinati movimenti di destra del Novecento. Intendiamoci: nessuno pensa che in Italia stia per arrivare il fascismo, e poi c’è la cornice dell’Europa che costituisce comunque una garanzia».

Siamo al sicuro, allora.

«Ma siamo anche in una situazione in cui la critica al Parlamento e al parlamentarismo ci mette un attimo a generare una dinamica pubblica confusa in cui emotività e parole d’ordine prevalgono sulla competenza, sulle soluzioni equilibrate. E non è che tra questo e le emozioni di massa di cui parlava Gustave Le Bon più di un secolo fa ci sia tanta differenza».

Il grado di preparazione medio dei parlamentari non fa certo da argine a questa deriva.

«E qui ci risiamo con la distruzione del sistema avvenuta a inizio anni Novanta e a cui non si è ancora posto rimedio».

In questa situazione c’è anche un cedimento rassegnato all’invadenza della magistratura? Il Pd per esempio paga un eccesso di vicinanza ai giudici praticato dai suoi “precursori”?

«Non c’è alcun dubbio che tutte le forze politiche siano in ginocchio davanti alla magistratura, chi sostenendola e chi subendola. Sarebbe urgente una vera riforma di sistema: separare le carriere, fermare l’osceno viavai tra la toga e i partiti, superare l’obbligatorietà dell’azione penale. Se non si fa questo non se ne esce: ora la magistratura ha il potere in Italia. L’Italia è una Repubblica giudiziaria. Mi sembra di non essere solo, in quest’analisi: perfino l’equilibratissimo Sabino Cassese, nel suo ultimo lavoro, scrive che lo squilibrio tra politica e magistratura è diventato un fatto patologico. Ma poiché ci vorrebbe una classe politica autorevole per ribaltare tutto questo, si ha la netta impressione di essere in un vicolo cieco».

Da Roma a New York, i 222 magistrati prestati ai «palazzi» del governo. Un universo di toghe distaccate alla diretta dipendenza dei ministri, nella presidenza del Consiglio, nell’ambasciata di Washington, all’Onu o al Quirinale. Brunetta chiede l’elenco dei giudici «fuori ruolo», scrive Dino Martirano il 20 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Sotto la punta dell’iceberg — i pochi magistrati eletti in Parlamento oppure chiamati al governo — c’è un universo di toghe fuori ruolo. Si tratta di magistrati distaccati nei palazzi del governo «alla diretta dipendenza» dei ministri, nella presidenza del Consiglio, nell’ambasciata di Washington, all’Onu a New York, in Marocco e in Albania per il «collegamento» con la giustizia locale, al Quirinale, alla Corte costituzionale, nelle commissioni parlamentari, alle Corti di Strasburgo, nelle Autorità di controllo, nelle strutture della Ue, di Eulex, di Eurojust, di Europol e dell’Olaf. Comunque, il gruppone dei magistrati che hanno abbandonato temporaneamente il ruolo presta servizio al ministero della Giustizia e al Csm, come impone la legge. Si restringe, invece, la pattuglia degli eletti con la toga negli enti locali: Michele Emiliano (ex pm), governatore della Puglia, una magistrata assessore in Sicilia e poco altro. Nel giorno in cui la Camera avvia, con la relazione di Walter Verini (Pd), la discussione sulla legge Palma approvata tre anni fa dal Senato — il testo varato per stringere i bulloni delle «porte girevoli» che mettono in comunicazione i ruoli della magistratura e il mandato politico o fiduciario del governo — il capogruppo di Forza Italia, Renato Brunetta, ha chiesto al Csm l’elenco dei magistrati fuori ruolo. I numeri e i nomi che saranno forniti a Brunetta dal vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, vengono aggiornati nello «schedario elettronico» curato dal Consiglio: nell’elenco appaiono i nomi di ben 818 toghe che dalla fine degli anni 80 (la ministra Anna Finocchiaro, del Pd, è in aspettativa dall’88) hanno smesso temporaneamente di fare il giudice o il pm. Al netto dei rientri, ora sarebbero 222 i magistrati fuori ruolo: 196 distribuiti tra i ministeri, il Parlamento, il Csm (16), la Scuola della magistratura, le istituzioni internazionali, il Quirinale (3), la Corte costituzionale (23). Altri 16 sono i togati del Csm eletti dalla magistratura ordinaria; 6 sono gli eletti in Parlamento (c’è anche la parlamentare europea Caterina Chinnici del Pd), 2 sottosegretari del governo Gentiloni (Cosimo Ferri e Domenico Manzione), il governatore Michele Emiliano e una magistrata in aspettativa perché ha raggiunto il marito all’estero. Nell’elenco del Csm (prima della periodica revisione avvenuta ieri sera) emergevano alcune posizioni datate: quella dell’ex deputato di Forza Italia Alfonso Papa, arrestato e condannato in primo grado a Napoli, che risulta «in aspettativa per mandato parlamentare». Non è aggiornata anche la posizione di Stefano Dambruoso, oggi questore della Camera eletto in Scelta civica nel 2013, che è in «aspettativa per elezioni politiche». Aggiornata, invece, la casella di Giovanni Melillo, capo di gabinetto del Guardasigilli Andrea Orlando, che dal 15 marzo 2017 è alla Procura generale presso la Corte d’Appello di Roma. A questo universo sommerso, conferma il relatore della legge Walter Verini (Pd), vanno applicate le regole già vigenti per i togati del Csm: cioè, un anno di «congelamento» a fine mandato prima di poter ottenere una promozione con un incarico direttivo o semi direttivo. Il problema sono i magistrati chiamati direttamente dal governo a svolgere il ruolo di capo di gabinetto, capo dell’ufficio legislativo, consulente o esperto giuridico in una ambasciata; ma anche le toghe elette in Parlamento sono sottoposte a un periodo di decantazione alla fine del mandato: pure i 5 anni di «purgatorio» necessari per poter ottenere una promozione (deliberati dal Senato) ora sono ridotti a 3 nel testo giunto in aula alla Camera. Per il quale, il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore (Pd), prevede tempi rapidi di approvazione alla Camera. Anche se poi il ddl dovrà tonare al Senato.

Edward Luttwak il 18 marzo 2017 su “Libero Quotidiano”: "Perché i giudici sono la malattia dell'Italia". Babbo Renzi, Luca Lotti e Consip. L'inchiesta di cui si è discusso nell'ultimo mese, il caso che in un qualche modo fa tremare il governo e mina il futuro di Matteo Renzi, l'ex premier che pare essere l'obiettivo di questa "caccia grossa" dei magistrati. E un parere, duro, sull'intera vicenda piove da Edward Luttwak, il politologo americano intervistato da Il Foglio, il quale spiega senza troppi giri di parole che "il rapporto tra giustizia e politica è un antico grattacapo nel vostro paese. Agli inizi degli anni Novanta Mani pulite usò metodi bruschi, ai limiti della legge, per combattere la corruzione dilagante nella classe politica - ricorda -. Questa esperienza, per certi versi traumatica, ha generato uno squilibrio tra i poteri con un esecutivo debole e una magistratura strapotente. La politica si è spogliata di prerogative e immunità, la magistratura ha esteso il proprio raggio d’azione. Il risultato è una democrazia malata". Dopo la lunga introduzione con gli occhi rivolti al passato, Luttwak passa al presente. All'ultimo "blitz" delle toghe. "Il filone politico del Consip-gate mi sembra fragile. Quale sarebbe la smoking gun? C’è un manager che accusa e un ministro che respinge le accuse. Si tira in ballo il padre dell’ex premier, un escamotage impiegato in diverse democrature latinoamericane: quando si vuole delegittimare un politico - ricorda Luttwak - si coinvolge pretestuosamente un familiare. Il traffico di influenze è una fattispecie fumosa, non tipizzata e priva di specificità, che accresce a dismisura la discrezionalità del magistrato". Anche Luttwak, dunque, critica il reato contestato a Tiziano Renzi, i cui confini appaiono assai lacunosi. Ma l'attacco di Luttwak ai giudici non è ancora finito. "Le porte girevoli - rimarca il politologo - sono un fattore inquinante che lede l’indipendenza della magistratura. Non c’è da stupirsi per il Consip-gate: l’idea di una strumentalità politica connessa all'esercizio dell’azione giudiziaria è accettata nell'opinione comune. Ho operato in decine di paesi ma solo in Italia il mio nome è finito sui giornali per intercettazioni telefoniche nell'ambito di un’inchiesta in cui non ero neppure indagato". E ancora, l'accusa ai media: "La verità è che esiste un vasto clima d’impunità testimoniato dalla disinvoltura con cui certi giornali violano quotidianamente il segreto istruttorio. Nel paese dove l’azione penale è obbligatoria nessun magistrato apre un fascicolo", conclude.

Emiliano: non mi dimetto da magistrato neanche morto, scrive Il Quotidiano di Puglia (Brindisi) il 14 marzo 2017. Etichetta come «nulla lucente» la kermesse renziana del Lingotto di Torino, getta l’ombra delle «intimidazioni politiche» sul gioco di incastri, alleanze e posizionamenti congressuali nel Pd e rintuzza a muso duro le “invasioni di campo” sul suo futuro: «La magistratura? Io non mi dimetto neanche morto, non c’è ragione per consegnarmi al ricatto di chi mi vuole trasformare in un professionista della politica», dice Michele Emiliano. Questione spinosa e latente da 13 anni, da quando cioè il candidato alla segreteria nazionale del Pd ha temporaneamente dismesso la toga di pm per tuffarsi sulla scena politica. Questione, ora, ritornata prepotentemente alla ribalta, anche perché davanti al Csm giace un procedimento disciplinare circa la presunta incompatibilità tra carriera politica e status in magistratura (dal 2004 Emiliano è in aspettativa, senza percepire stipendio). «Non c’è nessuna ragione per cui uno debba dimettersi dal suo lavoro per candidarsi, è pazzesco che un magistrato sia incompatibile con la politica, questa è la teoria di Davigo (il presidente dell’Anm, che è terrorizzato e considera la politica una suburra in cui c’è il rischio di contaminarsi». Al momento refrattario ­ per scelta e strategia ­ a convention oceaniche, il governatore pugliese sta sciorinando il suo piano congressuale in altro modo: presidio dei media nazionali e assemblee sui territori.

Da Scalfaro a De Magistris: tanti i magistrati entrati in politica. De Magistris, che si candiderà per le prossime elezioni europee con l'Italia dei Valori, è l'ultimo dei molti ex-magistrati folgorati sulla via parlamentare. Alcuni di loro hanno anche ricoperto incarichi politici tra i più alti dello Stato. Ecco l'elenco dei più noti, scrive "Panorama". "Una scelta di vita, non tornerò indietro", dice l'ex pm di Catanzaro Luigi De Magistris spiegando perché si candiderà per le prossime elezioni europee con l'Italia dei Valori. E mentre il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, commenta: "I magistrati che scelgono la politica non dovrebbero più tornare in magistratura", è lungo l'elenco degli ex-magistrati che hanno scelto di fare il salto e in politica: sia a sinistra (molti) sia a destra (alcuni). Ricoprendo anche incarichi politici tra i più alti dello Stato. Tra i più famosi Oscar Luigi Scalfaro, magistrato solo dal 1942 al 1946, che iniziò la sua carriera politica nel 1946 come membro dell'Assemblea Costituente, per poi essere eletto in Parlamento dal 1948 al 1992, anno in cui è prima presidente della Camera, per due mesi, e poi presidente della Repubblica. Altri nomi eccellenti: Luciano Violante , magistrato fino al 1979 quando diventa deputato per il Pci e poi presidente della Camera; Franco Frattini , ex magistrato amministrativo diventato vicesegretario alla presidenza del Consiglio nel 1993 e poi ministro degli Esteri e commissario Ue; Antonio Di Pietro , ex pm di "Mani pulite", che lasciò la toga nel 1994 in diretta tv per diventare poi ministro dei Lavori pubblici nel Governo Prodi, senatore dell'Ulivo e infine fondatore dell'Italia dei valori; Gerardo D'Ambrosio eletto per Ds quando era già in pensione, dopo una prestigiosa carriera giudiziaria che lo ha visto protagonista delle inchieste sulla strage di piazza Fontana, sul Banco Ambrosiano, fino al pool 'mani pulite e all'incarico di procuratore capo di Milano. Ma i nomi da citare sono tantissimi, dall'andreottiano Claudio Vitalone recentemente scomparso a Enrico Ferri, il ministro dei lavori pubblici famoso per il limite dei 110 all'ora e segretario Psdi; dal pretore d'assalto Gianfranco Amendola (eletto per i Verdi) a Ferdinando Imposimato (eletto in varie liste di sinistra); da Tiziana Parenti , passata dal pool di "Mani pulite" a Forza Italia e diventata presidente della commissione Antimafia, a Felice Casson , che dalle indagini su Gladio è passato alla candidatura a sindaco di Venezia e poi all'elezione in Parlamento nelle liste dei Ds prima e del Pd poi, ad Adriano Sansa, eletto sindaco di Genova e poi rientrato in magistratura. L'elenco completo sarebbe troppo lungo, ma non si può fare a meno di nominare Francesco Nitto Palma, eletto in Forza Italia e sottosegretario all'Interno; Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd in Senato; Giuseppe Ayala, eletto senatore Ds e poi tornato in magistratura come consigliere alla Corte d'appello di L'Aquila; Alfredo Mantovano, parlamentare di An e sottosegretario all'Interno.

Anche i giudici contestano: «Basta giudici in politica», scrive Errico Novi il 19 Marzo 2017 su "Il Dubbio". Dopo il caso Minzolini, che fu condannato da un ex parlamentare, torna in primo piano il dibattito sui pm in politica. Slegare il caso Minzolini da quello dei magistrati in politica? Impossibile. Anzi il voto che ha impedito la decadenza del senatore costringe lo stesso Pd a scongelare la legge sulla candidabilità delle toghe, ibernata da 3 anni a Montecitorio. E soprattutto è la stessa magistratura a scuotersi per vicende come quelle di Giannicola Sinisi, il giudice ed ex deputato che ha condannato l’avversario Minzolini, o di Michele Emiliano, che da pm in aspettativa vuol fare il segretario di partito. L’ultima, pesante presa di posizione è quella di Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia: «Non ho nulla contro i magistrati che scelgono la politica ma non dovrebbero più tornare all’attività giurisdizionale, una volta cessati dal mandato», dice. Una richiesta pesante che va ben oltre il ddl atteso per lunedì nell’aula di Montecitorio. Lì si prevede che un magistrato non possa candidarsi nel distretto in cui ha esercitato le funzioni negli ultimi 5 anni. Una volta finito il mandato di parlamentare – o di premier, ministro, assessore o consigliere nelle amministrazioni locali – il giudice è ricollocato in Cassazione, se ne ha i requisiti, altrimenti in distretto diver- so da quello in cui è stato eletto. Non è certo la barriera invalicabile prospettata da Roberti. Nell’intervista a Tv2000 che andrà in onda oggi, il superprocuratore dice che a fine mandato «si dovrebbe essere assegnati in ruoli della pubblica amministrazione diversi da quelli di giudice o pm». Il Csm lo suggeriva in una delibera dell’estate 2015, ignorata dal Parlamento. Carlo Nordio lo ha ripetuto in interviste e nei suoi editoriali sul Messaggero. C’è chi come Gherardo Colombo prefigura una soluzione light come quella di Montecitorio ma, in un’intervista a Repubblica, chiarisce: «Io, se mai avessi deciso di entrare in politica, prima di candidarmi mi sarei dimesso». La schiera di chi è per soluzioni drastiche è ben presidiata. Annovera anche il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, che le porte girevoli tra magistratura e partiti non le tollera proprio. Chi come Gianrico Carofiglio ha da tempo smesso la toga è altrettanto netto. La magistratura più avvertita non vuole farsi più prendere in castagna. Magari da casi come quello di Minzolini, dietro cui si nascondeva in realtà l’incredibile parabola del giudice ed ex deputato che lo aveva impallinato.

Giustizia: Roberti (procuratore antimafia), “magistrati in politica non tornino indietro”, scrive il 17 marzo 2017, "Agensir". “Non ho nulla contro i magistrati che scelgono di passare in politica, ma dovrebbero non tornare più nell’attività giurisdizionale una volta finita la vita politica, tornando nel settore pubblico e nella pubblica amministrazione, con ruoli diversi da quelli di giudice o pubblico ministero”. Lo ha detto il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, in un’intervista a “Soul”, il programma-intervista di Tv2000 condotto da Monica Mondo in onda sabato 18 marzo alle ore 12.15 e alle 20.45 in occasione anche della Giornata per le vittime della mafia che si celebra il 21 marzo. “Non scenderei mai in politica – ha rivelato Roberti – non ho mai pensato a farlo. Ho molto rispetto per la politica, è la più nobile delle attività umane quando è volta al bene comune e dei cittadini. Quando ha interessi personali, di gruppo o di lobby, invece, è la più bassa. La gente ha questa percezione, ma ho conosciuto tanti esponenti politici che sono persone veramente intenzionate a ben operare nell’interesse dei cittadini. Spesso prevalgono le logiche dei partiti, di gruppo, di appartenenza o quelle mafiose. Questo inquina la vita politica, come quella civile, l’economia e il mondo delle professioni. Bisogna combattere contro tutto questo”. “Bisogna distinguere caso per caso – ha sottolineato Roberti – le situazioni di sovrapposizione tra legge e giustizia. I magistrati hanno giurato fedeltà alla Costituzione: siamo chiamati a tutelare i diritti di tutti i cittadini che è l’essenza dell’attività giurisdizionale. I magistrati non si sostituiscono al legislatore, ma cercano di raccogliere la domanda di giustizia che proviene dai cittadini. Credo che in un rapporto di reciproca e leale collaborazione i magistrati devono anche dare indicazioni al legislatore, quando non interviene a dovere prima, senza fare qualcosa di creativo ma in una interpretazione estensiva non spinta da ideologie”.

Intervista a Carlo Nordio: “Pm e politica? La legge si fa in un giorno”. Intervista di Errico Novi il del 21 gennaio 2017 su "Il Dubbio".  Il magistrato Carlo Nordio commenta il ritardo accumulato dal Parlamento sulla norma che dovrebbe limitare le candidature dei giudici, reclamata dal Consiglio d’Europa.

«Disegno preordinato contro la magistratura? No, non è l’idea che mi sono fatto. Non è che ci vogliono affossare: vedo solo incapacità di comprendere i problemi della giustizia e sostanziale indifferenza». Carlo Nordio è disincantato, non scorge perfide macchinazioni, non cede al dietrologismo neppure ora che la mancata estensione della proroga lo mette a un millimetro dalla pensione, prevista il 6 febbraio e a questo punto, per lui, quasi inevitabile. Semplicemente diffida della capacità del legislatore «in materia di codice penale come di trattamento di noi magistrati». Aggiunto a Venezia, svolge funzioni di capo perché il 1° gennaio è già andato in pensione il procuratore Luigi Delpino: dopo una brillante carriera di inquirente assapora il gusto un po’ agrodolce di una funzione direttiva da svolgere per altre due settimane appena.

«Ma il pensionamento arriva per me a un età giusta. Il problema non è personale ma ordinamentale: senza la proroga sono già andati in pensione 100 magistrati a gennaio, ancora di più si congederanno nei prossimi mesi, si tratta di uno tsunami senza precedenti per i vertici degli uffici, del tutto insensato: non si risparmia una lira, i magistrati anziani al massimo della carriera percepiscono una pensione identica all’ultimo stipendio. Almeno una parte di noi andrà sostituita, le nuove assunzioni hanno un costo e poi non è che si entra in servizio il giorno dopo aver vinto il concorso…».

Il suo scetticismo riguarda anche le regole sull’attività politica dei giudici: reclamate l’altro ieri dal Gruppo anti– corruzione ( Gr. e. co.) del Consiglio d’Europa.

«Quella che giace ora in Parlamento si può approvare in mezza giornata».

È ferma da quasi tre anni.

«Partiamo dal richiamo di Strasburgo. Tra richieste di trasparenza sul reddito dei giudici e di controlli sulla gestione dei fascicoli, si adombra lo spettro di magistrati corruttibili o almeno pesantemente condizionabili. E questo, me lo lasci dire, non ha senso. Alla magistratura italiana si possono cointestare tante cose, ma a parte casi rarissimi non è la corruzione il problema. Casomai lo sono certe scelte improprie come quella di fare politica.

La proposta di legge è passata al Senato ed è ferma a Montecitorio da quasi tre anni, come ha ricordato il laico del Csm Zanettin.

«Premessa: resto convinto che ai magistrati l’attività politica vada impedita persino quando sono ormai in pensione. Diventa un problema a maggior ragione quando si tratta di inquirenti che hanno condotto inchieste ad altro coefficiente politico: la loro attività può finire per essere letta come un preordinato disegno per prepararsi una cuccia calda prima di andare a riposo. E poi c’è un’altra ragione, più sottile ma altrettanto importante.

Quale?

«Un magistrato che magari si è guadagnato una certa fama con la propria attività, se entra in politica finisce per sfruttare quell’immagine alterando così la par condicio con gli altri candidati.

È un’ammissione che le fa onore.

«Non ho problemi a riconoscerlo perché lo verifico di persona: mi capita cioè di essere fermato per strada e di sentirmi dire ‘ ah, è stato proprio bravo con quell’inchiesta sul Mose, dovrebbero fare tutti come lei…’. Vero o falso che sia, ho fatto semplicemente il mio dovere e non credo che da questo sia giusto ricavare vantaggio.

Il Csm suggerisce di impedire il rientro in magistratura a chi è stato in Parlamento.

«Certo che non dovrebbe rientrare. L’unico problema è che per limitare l’ingresso in politica o il ritorno alle funzioni giurisdizionali credo serva almeno inserire in Costituzione una riserva di legge. Con la Carta vigente si rischia di violare il principio di uguaglianza».

La legge ferma a Montecitorio si limita a vietare per due anni l’esercizio della funzione di magistrato nello stesso collegio dove si era stati eletti.

«E per una norma del genere non serve ritoccare la Costituzione: la si approva in mezza giornata».

Ma i deputati della commissione Giustizia dicono: abbiamo accantonato quel testo perché nel frattempo abbiamo cambiato il codice antimafia, le norme sulle confische, le pene per il caporalato e tanto altro ancora.

«Ho presieduto una commissione per la riforma del codice penale: parliamo di strutture complesse e organiche, ed è sempre un errore modificarle in modo frazionato, o le si rende sempre più instabili. Il nostro codice porta ancora le firme di Mussolini e Vittorio Emanuele III, su materie come la disponibilità del diritto alla vita è tipicamente fascista. Meriterebbe di essere cambiato radicalmente, non di volta in volta con l’eliminazione di discriminanti sui diritti di difesa, con nuove aggravanti, nuovi reati o nuove pene».

E invece questo si è fatto.

«Se uno apre il codice trova più frasi in corsivo che in grassetto, vuol dire che soppressioni e aggiunte superano la norma originale: così la certezza del diritto va a ramengo. Ai politici d’altra parte interessa finire sui giornali con le leggine ad hoc, che assecondano l’emotività del momento, come per l’omicidio stradale».

D’accordo, si è esagerato che l’introduzione di nuovi reati, ma se per regolare almeno un po’ l’attività politica di voi giudici basta mezza giornata, perché non lo hanno fatto? Avevano timore di mettersi contro di voi?

«Questo è di gran lunga il governo che ci ha maltrattato di più. Altre volte abbiamo subito aggressioni, ma da quelle è più facile difendersi. Stavolta siamo stati semplicemente presi in giro, e almeno su questo sono d’accordo con Davigo. Parlo delle norme sui trasferimenti come di quelle sulle pensioni».

Condivide la decisione dell’Anm di disertare la cerimonia in Cassazione?

«Sì, la risposta dell’Anm è stata la migliore, sono sempre stato contrario allo sciopero e d’altra parte un segnale forte andava dato: non partecipare alle inaugurazioni è la cosa più giusta».

Due giorni prima Davigo vedrà Orlando.

«L’incontro del 24 rischia di essere una barzelletta: nell’occasione precedente c’era anche il presidente del Consiglio e agli impegni presi non è seguito nulla, stavolta c’è solo il ministro che è sempre lo stesso. Non vedo l’utilità ma chissà, spero si rendano conto dell’errore sulle pensioni».

Va a finire che la proroga arriva il giorno dopo che si sarà dovuto congedare lei.

«Eh già, ma vede, siamo preparati a tutto. Avremmo preferito ci fosse risparmiato un trattamento che non usano neppure le persone maleducate nei confronti delle colf. So solo che Venezia resterà nelle mani di un aggiunto costretto a fare il lavoro di tre persone, e che ci vorrà un anno per nominare un nuovo capo. Qui e in tanti altri uffici, e nessuno ha spiegato che senso abbia tutto questo».

Lo strano senso di Davigo per la politica. Il numero uno della Anm critica Michele Emiliano: "I magistrati non devono mai fare politica". Ma lui, pur non iscritto ad alcun partito, sono anni che la fa, scrive Ermes Antonucci su “Il Foglio” il 2 Marzo 2017.  “Sono dell’opinione che i magistrati non debbano fare politica mai”. A dirlo, in maniera molto tranchant, è stato il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, intervenendo martedì sera alla trasmissione DiMartedì su La7. Il riferimento era al caso che sta coinvolgendo il governatore pugliese Michele Emiliano, frutto prevedibile dell’anomalo groviglio tutto italiano tra magistratura e politica, dove nella stessa persona (Emiliano) troviamo riunite le figure di magistrato, di candidato alle primarie di un partito politico (il Pd) e di testimone di un processo in cui è coinvolto il padre dell’ex presidente del Consiglio (vicenda Consip). Dunque, parlando del caso Emiliano, Davigo ha sbarrato la strada a ogni sconfinamento della magistratura in politica. E lo ha fatto non celando un certo senso di superiorità, come se i magistrati oggi possano fare politica solo se iscritti a un partito e come se lui spesso non avesse svolto attività sostanzialmente qualificabile come “politica”. Ci pare, infatti, che il presidente dell’Anm, pur non essendo iscritto a un partito, la politica – in senso lato e in forme diverse da quelle partitiche – la faccia da un pezzo. Non è politica dire, come ha fatto Davigo due minuti prima di lanciare il proclama anti-Emiliano, che la rottamazione delle cartelle esattoriali alla quale starebbe pensando il governo, nella sua piena autonomia di scelta di politica economica, “è una vergogna”? Non è politica negoziare per mesi con il governo per convincerlo a cambiare la legge sul pensionamento dei magistrati, tanto da minacciare il blocco delle aule di giustizia e disertando l’inaugurazione dell’anno giudiziario? Non è politica invocare l’introduzione per la lotta alla corruzione di “alcune norme che valgono per i mafiosi” (13 febbraio)? Non è politica chiedere di anticipare a prima del referendum costituzionale la discussione parlamentare sulla riforma penale (8 novembre)? Non è politica dire che “le nostre leggi sono fatte apposta per poter salvare i colletti bianchi” (7 novembre)? Non è politica dire che “se la riforma della giustizia viene approvata così com’è con un voto di fiducia per noi non va bene, aggrava i problemi e non li risolve”, se cambia “possiamo discutere” (2 ottobre)? Non è politica affermare che “la riforma della giustizia è inutile, se non dannosa” (25 settembre)? Non è politica dichiarare che “le leggi che aumentano le pene senza sapere a chi darle sono inutili” (19 giugno)? Non è politica dire che “è inutile la legge su chi segnala i reati nella Pubblica amministrazione” (17 giugno)? O descrivere il nuovo codice degli appalti come “tutta roba che non serve a niente” (10 giugno)? O affermare di “non vedere la necessità di una legge sulle intercettazioni” (20 aprile)? O sostenere che non serve una riforma della disciplina sulle intercettazioni perché “basta aumentare le pene per la diffamazione, il resto è superfluo” (10 aprile)? Non rappresenta uno sconfinamento nella politica per un magistrato dichiarare pubblicamente, pochi giorni dopo essere stato eletto alla guida dell’Anm, che a distanza di oltre due decenni da Mani pulite “i politici continuano a rubare, ma non si vergognano più” (21 aprile)? La verità è che un magistrato può fare politica in tanti modi e l’iscrizione a un partito è solo la via di sconfinamento più evidente. In fondo, non erano iscritti a partiti i magistrati della corrente di Magistratura democratica che diversi mesi prima del referendum costituzionale decidevano di aderire e cavalcare pubblicamente la campagna per il “No”, con tanto di manifesto in cui veniva definita come “autoritaria” la riforma voluta dal governo Renzi. Ciò vuol dire che un magistrato non può in alcun modo intervenire pubblicamente per fornire la propria opinione su tematiche di interesse generale? Nessuno sta dicendo questo. L’ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio ha indossato la toga per quarant’anni, commentando spesso – e nell’ultimo periodo con buona frequenza, tanto da diventare quasi “editorialista” di un giornale nazionale – i fatti e le questioni di attualità (dal terrorismo alle forme di repressione penale), ma lo ha fatto sempre con la discrezione e la sobrietà che il rilievo pubblico della funzione di magistrato dovrebbe imporre. E senza mai mostrare simpatie o iscriversi a questo o quel partito, ma anzi ribadendo fino all’ultimo – anche nell’intervista al nostro giornale pubblicata lo scorso 7 febbraio – la sua assoluta contrarietà a ingressi in politica da parte dei magistrati persino dopo il loro pensionamento. È comprensibile, va ammesso, che una simile riflessione sull’esigenza di un atteggiamento di self restraint da parte dei magistrati, fatichi ad affermarsi nel nostro paese. Dopotutto, sono passate quasi inosservate le dichiarazioni espresse dalla deputata-magistrata Donatella Ferranti nei confronti dello stesso Emiliano (“Scelga: o il partito o la toga”), lei che non solo è una toga eletta con il Pd, ma presiede la commissione Giustizia della Camera. Quella chiamata, invano, ad esaminare da due anni una proposta di legge sulla candidabilità e l’eleggibilità dei magistrati in occasione delle elezioni politiche.

Chi critica l’ingiustizia dei giudici in politica, scrive Sabato 11 marzo 2017 Aldo Grasso su "Il Corriere della Sera". Diceva Piero Calamandrei: «Quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra». Sante parole. Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia, bacchetta a dovere il governatore Michele Emiliano: «È un caso limite. Per un magistrato un conto è partecipare attivamente alla vita politica, mettendosi ovviamente in aspettativa. Altro è non solo iscriversi a un partito, ma entrare nella sua direzione, al punto da candidarsi alla guida». Difficile darle torto. C’è un però. Anche la Ferranti è magistrato. Prima al Csm ai tempi di Rognoni e Mancino e poi il salto in politica nel 2008: capolista Pd nel collegio Lazio 2. Non sono pochi i magistrati in aspettativa che siedono al Parlamento: Felice Casson, Anna Finocchiaro, Doris Lo Moro, Stefano Dambruoso, Cosimo Ferri, Domenico Manzione… In aspettativa, ma con avanzamenti di carriera! Una vera ingiustizia. La Costituzione all’articolo 51 garantisce l’elettorato passivo a tutti i cittadini, anche ai magistrati, ma prevede, all’articolo 98, che la legge limiti per le toghe, come per i militari, le forze dell’ordine, i diplomatici (di mio aggiungerei i giornalisti), l’iscrizione a un partito. Si può, certo, ma poi uno cambia mansione. Per certe professioni occorre essere e apparire al di sopra delle parti. E qui sta la fatale distinzione fra ciò che è legale e ciò che è legittimo. Si può imporre la legge, ma non la prudenza. 

Mattarella a giovani toghe: "Non smarrire mai senso del limite". Il Presidente della Repubblica al Quirinale per la cerimonia con i 610 giudici ordinari in tirocinio, alla presenza del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e del ministro della Giustizia Andrea Orlando, scrive il 6 febbraio 2017 "La Repubblica". "Anch'io ho svolto il ruolo di giudice costituzionale e ho avuto modo di constatare il valore del confronto e della dialettica. Eppure in quegli anni ho sentito anche la tensione di dover rendere giustizia. Non fatevi condizionare da nulla se non dall'applicazione della legge. Neppure da quel sottile senso di solennità che deriva da questo ambito in cui operiamo. Occorre non smarrire mai il senso dei propri limiti particolarmente di quelli istituzionali". Così, a braccio, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Quirinale per la cerimonia con i 610 magistrati ordinari in tirocinio, alla presenza del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Mattarella, rivolgendosi alle giovani toghe, ha sottolineato come sia "un'esortazione che rivolgo innanzi tutto a me stesso perché in questo salone così solenne tutto esprime un senso di autorevolezza e, operando in questo ambiente, occorre non smarrire mai il senso dei propri limiti, particolarmente di quelli istituzionali. Nel corso della vostra carriera ogni tanto, se vi è possibile, cercate di rammentare questo mio sommesso suggerimento". "I magistrati hanno un compito molto importante" dice il capo dello Stato ricordando la sua esperienza di giudice costituzionale, "ho apprezzato fortemente la grande, fondamentale utilità del confronto dei punti di vista e della dialettica delle opinioni: fa conseguire un arricchimento progressivo". Il Presidente spiega che "l'equilibrio nell'esercizio della funzione giudiziaria consiste nel sapere evitare il duplice rischio di applicazioni meccanicistiche delle norme o di letture arbitrariamente 'creative' delle stesse". "Equilibrio, ragionevolezza, misura, riserbo sono virtù che, al pari della preparazione professionale, devono guidare l'agire del magistrato in ogni sua decisione. Lo spirito critico verso le proprie posizioni e l'arte del dubbio, l'utilità del dubbio, sorreggono sempre una decisione giusta - spiega Mattarella - frutto di un consapevole bilanciamento tra i diversi valori tutelati dalla Costituzione". La magistratura, nella nostra recente storia, sono ancora le sue parole, "ha dimostrato di avere tutti gli strumenti per garantire il riconoscimento dei diritti, senza condizionamenti. È un bene che sia sempre più orgogliosa della sua funzione insostituibile, ma anche consapevole della grande responsabilità che grava sulla sua azione". La giustizia, rileva il capo dello Stato, "è una risorsa fondamentale, ancor più per un Paese integrato nella comunità internazionale. È un servizio che contribuisce a garantire l'ordinato sviluppo civile e sociale". Secondo Mattarella, proprio al fine di assicurare la più efficace tutela dei diritti "al magistrato è garantita autonomia e indipendenza nelle sue decisioni che, per essere credibili, devono essere sorrette da una solida preparazione, frutto di un assiduo impegno professionale". In questo modo, conclude il Presidente, "evitando di correre il rischio dell'arbitrio si tutela al meglio l'autonomia e l'indipendenza della magistratura".

Parlamento in attesa di giudizio. Così il destino di una legislatura è nelle mani delle sentenze, scrive Michele Ainis il 22 gennaio 2017 su "L'Espresso". Chi comanda a Roma? Dipende dalle vendemmie, dalle annate. Nel 2011 comandava il capo dello Stato (Napolitano); nel 2014 il presidente del Consiglio (Renzi); nel 2017, a quanto pare, comanda la Consulta. L’11 gennaio, negando il referendum sui licenziamenti, ha allungato la vita della legislatura; il 24 gennaio, decidendo sull’Italicum, può stabilirne i funerali. Nel frattempo ogni sentenza genera un clima di suspense, s’iscrive in un giallo aperto a ogni finale; mentre la politica attende trattenendo il fiato, inerte, come paralizzata. Il vuoto d’iniziative sulla legge elettorale ne è la prova più eloquente. Ma è normale quest’alone d’incertezza sulle pronunce giudiziarie? In qualche misura, sì: il diritto non è una scienza esatta, altrimenti non ammetterebbe appelli e contrappelli. Oltremisura, no: un conto è la discrezionalità degli organi politici, un conto è il capriccio degli organi giurisdizionali. Quando i tribunali si sostituiscono invece ai Parlamenti, quando ne insidiano il primato, si manifesta un pericolo che può ben essere letale per le democrazie: il governo dei giudici, «government by judiciary». Quest’espressione risale all’alba del secolo passato, sull’una e sull’altra sponda dell’Atlantico. Venne coniata nel 1914 dal Chief justice della Corte suprema del North Carolina, per denunciare i rischi del controllo giudiziario sulla costituzionalità delle leggi («una perversione della Costituzione»); in Europa fu esportata da un libro francese del 1921. Da allora in poi s’aprì una storia di baruffe, di colpi incrociati. Memorabile il conflitto che oppose il presidente Roosevelt alla Corte suprema degli Stati Uniti, durante gli anni Trenta, quando quest’ultima respinse alcune tra le riforme più significative del New Deal. Anche in Italia, però, non sono state rose e fiori. Non per nulla la Consulta rischiò d’essere abortita già in Assemblea costituente, per la veemente opposizione di Togliatti; ma la Dc difese con tenacia la creatura, salvo pentirsene alla prima occasione. Era il 1956, l’anno di “Lascia o raddoppia?”; la Corte costituzionale esordiva nel nostro ordinamento, sia pure con 8 anni di ritardo rispetto alla Costituzione; e calò subito la scure su alcune norme poliziesche ospitate nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Da qui l’ira di Tambroni, ministro democristiano dell’Interno; peraltro imitato perfino dal papa, Pio XII. Nei decenni successivi la protesta si è trasformata non di rado in rissa, in insulto, in improperio. Per esempio da parte di Pannella: «Corte Beretta» (1981), «strumento del regime» (1985), «suprema cupola della mafiosità partitocratica» (2004). Da parte di Berlusconi, con il suo ritornello sulla «Corte comunista». Da governatori regionali come Formigoni (nel 1997 dipinse la Consulta come un «organo partigiano, ulivista, anzi della parte peggiore e più retriva dell’Ulivo»). O anche da ministri come Guido Carli, che nel 1990 mise alla berlina le sentenze costituzionali «di spesa», presentando il conto dinanzi all’opinione pubblica: 53 mila miliardi in un decennio, quasi un quarto dell’intero deficit dell’epoca. D’altronde due anni prima, nel 1988, un’accusa analoga era risuonata per bocca di chi l’aveva preceduto al ministero del Tesoro. Il suo nome? Giuliano Amato, che adesso siede proprio alla Consulta. La vita è una giostra, come no. Ma su quella giostra i giudici costituzionali non si limitano a incassare calci e ceffoni dai politici; talvolta li restituiscono, aggiungendo qualche grammo di curaro. Come fece, per esempio, il presidente Granata, in una conferenza stampa del febbraio 1999: la Consulta aveva riscritto le norme sui pentiti, sollevando critiche e dissensi; lui reagì con parole di fuoco al fuoco sparato dal Palazzo. O come fece, con toni ancora più furenti, il giudice Romano Vaccarella. Nel maggio 2007 si dimise, puntando l’indice contro tre ministri (Chiti, Mastella, Pecoraro Scanio) e un sottosegretario (Naccarato). La loro colpa? Pressioni sull’inammissibilità del referendum elettorale, uno dei tanti su cui la Corte costituzionale si è trovata a giudicare in questi anni. Secondo Vaccarella, insomma, nell’occasione il controllato cercò di controllare il proprio controllore. In Italia può succedere, ma può anche succedere il contrario. Ossia che l’arbitro diventi giocatore, che una sentenza prenda il posto della legge. Specie se la legge latita per l’impotenza o per la negligenza dei politici. È il caso della stepchild adoption: negata dal Parlamento, concessa dalla Cassazione (sentenza n. 12962 del 2016). Ma già nel 1975 furono i giudici ordinari a codificare il diritto alla privacy (la legge intervenne soltanto nel 1996). E sempre i giudici, ben prima dei politici, nel 1988 offrirono tutela al convivente more uxorio. Una Repubblica male ordinata reca più danni d’una tirannia, diceva nel Cinquecento Donato Giannotti. È esattamente questo il morbo che intossica la nostra vita pubblica; e la Consulta, da parte sua, non è affatto vaccinata. Altrimenti non si spiegherebbero certe iniziative, certe scelte politiche travestite da responsi oracolari. Come il rinvio dell’udienza sull’Italicum: era fissata al 4 ottobre, ma un paio di settimane prima (il 19 settembre) sbucò un comunicato di rinvio, senza uno straccio di motivazione. Anche se la motivazione trapelava fra le righe: il referendum costituzionale di dicembre, guai a sovrapporre l’una e l’altra decisione. Così adesso, a referendum consumato (e fallito), la politica riprende il centro della scena. Ma è politica giudiziaria, è sentenza costituzionale, l’unica forma di politica che resta ancora in auge.

Prontuario post-democratico per il Paese dove è vietato votare, scrive Tommaso Cerno il 23 gennaio 2017 su "L'Espresso". Siamo l’unico Stato occidentale senza una legge che consenta le urne. E la Consulta ha il dovere di indicarci una via d’uscita: ma è normale? L’Espresso, dopo il flop elettorale di Matteo Renzi al referendum e la straripante vittoria dei No (non dico del No, perché le sfaccettature erano molte), titolò facendo il verso alla storica frase attribuita a Ernesto Che Guevara: “Hasta elezioni siempre!” Significa, letteralmente: “Sempre fino alle elezioni!”. In quel frangente, qualche cerchiobottista e qualche spaventato esponente del Pd ridotto com’è ridotto, ci criticò dicendo che non avevamo a cuore la democrazia rappresentativa, quella dei Padri, per intenderci, perché adesso c’era da fare un governo tecnico-politico, c’era da pensare un nome, c’era da riflettere sul senso di responsabilità e sulle scadenze, sul G7 di Taormina e via elencando. Insomma, c’era da prendere tempo. Tutto giusto e tutto vero. Salvo per un dettaglio che, soprattutto dopo avere pontificato per mesi sulla Costituzione e il suo valore simbolico prima ancora che materiale, dopo avere tirato in ballo i partigiani e la memoria delle dittature, pesa come un macigno sull’Italia furbetta che cerca una strada per recuperare elettorato e credibilità politica. E non è nemmeno questione di vitalizio, come vanno molti ripetendo per strappare un applauso qua e là. Certo c’è del vero nell’onorevole ingordigia di prebende, basta guardare lo storico delle legislature. Ma, in questo caso, per un liberale, c’è in gioco qualcosa di più profondo, su cui vale la pena fare una riflessione. Detta in poche parole: è vero che in Italia, paese democratico (dove cioè governa il popolo attraverso una delega) la Costituzione non prevede che si vada al voto dopo un No al referendum, essendoci una maggioranza parlamentare che sostiene un governo. Ma è altrettanto vero che mai i padri costituenti si sarebbero immaginati un Paese dove, all’improvviso, è vietato votare. Non vi è cioè una legge elettorale in vigore. Ora mi domando se questo sia normale. Pur senza arrivare al modello americano, alle prese con il passaggio Obama-Trump, che ha fissato in Costituzione tanto la legge elettorale quanto la data delle elezioni (si sa già oggi con certezza in che giorno si voterà fra quattro, otto, dodici, sedici anni), il caos italiano ci porta a essere privati a tempo, ma nella sostanza, di un diritto delle democrazie. Eppure il diritto - per essere tale - deve essere “di tutti” e “sempre”. Altrimenti si classifica come privilegio. Deve cioè vivere sia quando serve esercitarlo, sia quando non è necessario. Qualcuno dirà: di leggi non ne abbiamo una, ma tre. Inutili, però. C’è l’Italicum giudicato dalla Consulta che - in ogni caso - si sarebbe potuto applicare a una sola Camera, vista la sicumera di chi lo presentò e approvò, all’epoca convinti che l’abolizione del Senato (poi bocciata dagli italiani) fosse scritta nelle stelle. Ne abbiamo un’altra, abrogata da quest’ultima, l’ex Porcellum poi Consultellum, che non potrebbe essere usata in caso di emergenza come estintore democratico. Ne abbiamo poi una terza, sepolta nella Seconda repubblica, il Mattarellum, che per curiosa coincidenza porta oggi il nome del Capo dello Stato garante della Carta. Ma nemmeno essa esiste nella realtà. Per questo, la settimana che si apre è fondamentale. Dobbiamo mettere fine a questa anomalia, ben più grave del rapporto deficit-Pil sforato, ben più perniciosa per il nucleo caldo della convivenza democratica di quanto possa essere la modifica (più o meno riuscita) del Senato della Repubblica. Sappiamo che Non basterà la sentenza. Non basterà in se stessa e non basterà al parlamento avido di mettere le mani sulla materia elettorale, in quanto meccanismo diabolico capace di perpetuare o meno le poltrone di Montecitorio e di Palazzo Madama. Ma l’importante è che l’Italia comprenda che le regole del voto sono una priorità democratica. E si smetta di ripetere che abbiamo altre urgenze. È ovvio che lottare contro la disoccupazione e la criminalità, rispondere all’emergenza immigrazione, prevenire i disastri naturali con politiche urbanistiche è il compito concreto di uno Stato moderno. Ma solo dentro una democrazia compiuta, sana e matura, libera da legacci, questo Stato può trovare la forza (e la credibilità) di presentarsi al popolo per fare delle proposte. Uno Stato che al contrario considera il diritto di voto una questione secondaria non può farlo. Per sua stessa natura insalubre. Perché riduce la delega popolare a pura formalità.

L'Italicum e la Consulta, quella piccola corte sempre più potente. La decisione sulla legge elettorale la prenderà un conclave silente e paludato. Che vive di riti e rifiuta la trasparenza. Ma conta sempre di più, nel vuoto del Parlamento, scrive Denise Pardo il 24 gennaio 2017 su "L'Espresso". L’archivio è previsto persino dal regolamento, ma chi avrebbe avuto il potere si è ben guardato dal costituirlo. Non c’è traccia dell’attività della Corte Costituzionale. «Coperta dall’oblio eterno in ossequio a una sbagliata concezione del segreto» ha scritto il giudice emerito Sabino Cassese, «la Corte ha deciso di cancellare i documenti della sua storia. Nessuno dei più segreti atti di Stato è mai rimasto coperto per sempre dal segreto». Una prassi che non esiste in nessun’altra Corte al mondo, il contrario di quella Suprema americana, inno alla trasparenza. Il sontuoso palazzo della Consulta, secoli fa di proprietà pontificia rimesso a nuovo un attimo dopo il tramonto dei Borgia, resta inespugnabile all’esterno. Ma, nessun altro luogo in questo momento è più centrale. E più misterioso. In uno scenario globale dove tutto si svela, la Corte costituzionale continua a rimanere un enigma. Il papa ha un account Twitter, il Quirinale anche, persino l’ultranovantenne regina d’Inghilterra non si è sottratta. Ma la Corte non informa. Se trapela qualcosa è un oltraggio. Al massimo materializza un laconico comunicato stampa firmato «dal Palazzo della Consulta» a opera forse di un Belfagor del posto, ossessiva custode della delicatezza del ruolo. E delle implicazioni e possibili chine di pressioni politiche, ben conscia che davanti a lei si staglia l’ombra del Quirinale, con il monito presidenziale di un ex giudice costituzionale, Sergio Mattarella, il primo a aver attraversato la strada. C’è la fitta nebbia del potere intorno ai riti, ai ritmi, alle segrete stanze, alle posizioni dei suoi giudici, giuristi, magistrati, politici, spesso quirinabili, come Cassese, Conso, Amato, riuniti nella sala del consiglio, un tavolo ovale, i microfoni neri, gli affreschi alle pareti. Pochi alieni a quel mondo hanno varcato il portone. Molti hanno scritto dei privilegi, gli stipendi, le auto blu, gli autisti, l’immunità, il costo del funzionamento oltre 60 milioni di euro all’anno. Se ne conoscono i componenti e anche i patimenti ogni volta che vanno scelti e nominati, 31 sedute e altrettante votazioni un anno fa per assegnare dal Parlamento tre posti vacanti da mesi. Per il Pd il costituzionalista Augusto Barbera, massimo esperto di leggi elettorali, non un fan del Mattarellum; per i Cinque Stelle il suo collega Franco Modugno, e per Area Popolare Giulio Prosperetti, giuslavorista e giudice della Corte d’Appello della Città del Vaticano. Con una politica sempre più debole, incapace di dare risposte e certezze, la Corte è diventata l’unico topos risolutivo. Nel Palazzo che protegge e ripara, i tredici giudici, dovrebbero essere quindici, un trio di cinquine nominate dal Colle, dal Parlamento e dalle alte magistrature, abbigliati due-tre volte l’anno come una pièce in costume, Giuliano Amato con i volants della camicia e la toga d’ordinanza è da dipinto di Goya, hanno studiato la costituzionalità delle leggi più importanti degli ultimi anni (ogni norma può essere rimessa alla Corte), gli ultimi governi hanno dato molto lavoro, Berlusconi in testa. E ora il segno della futura governance del Paese spetta di nuovo alla Corte con il responso più atteso di quel che resta dell’amministrazione Renzi: la costituzionalità dell’Italicum, relatore il giurista Nicolò Zanon, ex laico del Csm, vicino al Pdl, anche consultato dall’ex Cavaliere per un parere pro veritate. Il 24 gennaio il giorno x, data di partenza in un senso o nell’altro della legge elettorale di una sconosciuta nuova era politica. I giudici hanno l’obbligo della discrezione, ha ricordato questa settimana incupito il presidente emerito Gustavo Zagrebelski dopo che sulla sentenza clou dell’11 gennaio, quella sul Jobs Act, ancora il governo Renzi sulla graticola, chiusa con un no al referendum della Cgil sull’articolo 18, un sì per quelli su voucher e appalti, sono scappati all’esterno particolari scandalosi. Per esempio che la relatrice Silvana Sciarra, giuslavorista di Firenze indicata dal Pd, seguace, secondo alcuni colleghi più moderati, più di Maurizio Landini che del suo vero maestro Gino Giugni, avrebbe voluto allargare la consultazione referendaria anche all’articolo 18. Posizione contraria a quella di Amato, il vincitore del confronto, in campo con Prosperetti e Mario Rosario Morelli, magistrato della Corte di Cassazione, i relatori degli altri due referendum. Sui giornali è uscita anche la conta dei voti, otto a cinque, una proporzione di contrari troppo alta per la media tacitamente consentita perché «il punto essenziale per capire il lavoro della Corte è il principio di collegialità», ha specificato una volta la vice presidente Marta Cartabia, allieva del presidente emerito Valerio Onida, scelta da Giorgio Napolitano (come Amato, Daria De Pretis e il presidente Paolo Grossi) segnalata a un certo punto perfino come quirinabile. E così stimata da provocare uno sconquasso dopo la nomina a vice presidente che sarebbe spettata a due giudici ben più anziani. Tanto che ora, pazienza per il regolamento, i vice presidenti sono dovuti diventare tre, oltre a lei, Giorgio Lattanzi, presidente di sezione della Corte di Cassazione e Aldo Carosi, consigliere dalla Corte dei Conti. In realtà, la promozione era propedeutica alla poltrona più alta della Corte secondo un brain storming di Napolitano e Cassese uno dei pochi giudici a rifiutare lui la presidenza arrivata di diritto per anzianità di nomina ma di brevità di durata rispetto alla naturale scadenza. Dettaglio che non turba tutti, visto che il circolo dei presidenti emeriti è affollatissimo da chi ha accettato di presiedere soltanto per poche settimane: un mese e 14 giorni Vincenzo Caianiello, tre mesi e due giorni Giuliano Vassalli, tre mesi e 4 giorni Giovanni Maria Flick, tre mesi e dieci giorni Giuseppe Tesauro, battezzati nello slang della Corte i “balneari”. Con i suoi legni dorati, i damaschi di seta, i lampadari dalle cento luci, i corridoi silenziosi, la Consulta ha un clima da conclave. Per le cerimonie i commessi aiutano la vestizione, la toga nera rassettata a Diana De Petris, ex potente rettore dell’università di Trento, il collare dorato da posizionare a regola d’arte al presidente Paolo Grossi, professore di Storia del diritto italiano, stimatissimo anche se, per segnalare lo snobismo giuridico dell’ambientino, alcuni costituzionalisti puri non dimenticano l’argomento della sua tesi discussa nel 1955, secondo le biografie, sul regime giuridico delle abbazie benedettine nell’Alto Medioevo italiano. Per Cassese la Corte è un misto tra un convento e un collegio di studenti. Nel 2015 ha osato l’inosabile scrivendo “Dentro la corte”, diario sulla sua esperienza di giudice, intento apprezzato e normale nelle aule di Yale, meno alla Consulta. Senza citare nemmeno un nome ha memorizzato i nove anni «incandescenti» segnati da sentenze storiche. Sul tavolo della Camera di consiglio, tra pennichelle, bigliettini che passano da un giudice all’altro, giudici che hanno studiato e altri meno diligenti, sono stati esaminati il lodo Alfano, l’ammissibilità dei referendum sulla legge elettorale, il caso delle intercettazioni al Presidente della Repubblica, la costituzionalità del Porcellum. Ma anche leggi che segnano pesantemente la vita privata delle persone, com’è stato il via libera alla fecondazione eterologa o le udienze pubbliche sulla “Rettificazione giudiziale di attribuzione di sesso” o persino la “Mancata depenalizzazione dell’ingiuria tra i militari”. I giudici si danno subito del tu e si chiamano per nome. In Camera di consiglio il “vicino di banco”, soprannominato così come alla scuola materna, del primo giorno rimane lo stesso per nove anni. La Corte diventa un gruppo. I padroni del diritto sono molto competitivi sulla qualità giuridica delle argomentazioni e meno esigenti sul menù che trovano alla buvette all’ultimo piano del palazzo mentre il secondo è riservato solo ai loro uffici. L’obiettivo è favorire la comunicazione lontano da occhi indiscreti quando durante “la settimana bianca”, che non è dedicata al pattinaggio su ghiaccio, ma è quella senza sedute pubbliche e di consiglio, si studia, ci si confronta in incontri a due, massimo a tre. Secondo le fonti, anonime perché terrorizzate, non c’è affiliazione automatica tra i giudici di nomina parlamentare, tra i giuristi o i magistrati. Valerio Onida, invece, stando a Milano nella “settimana bianca” percepiva al suo ritorno che i romani si erano scambiati idee e punti di vista. La prima donna nominata alla Corte è stata Fernanda Contri, poi Maria Rita Saulle. Per lungo tempo, la Cartabia è stata l’unica in mezzo a soli colleghi maschi, solo dopo sono arrivate Sciarra e De Petris. «La Corte non è tra gli organi più solleciti a realizzare la parità di genere», ha ammesso Amato. «Ora su 15 giudici tre sono donne. E sono fiducioso perché c’è stato anche un momento in cui se ne vedeva una sola circondata da quattordici maschi come non capitò nemmeno a Biancaneve perché i nani erano sette, esattamente la metà». Adesso, via via che la data del responso sull’Italicum si avvicina, l’atmosfera si surriscalda e la Corte entra nel mirino di chi teme la contaminazione politica, il condizionamento (difficile dimenticare, l’episodio, rivelato dall’Espresso, del giudice Luigi Mazzella a cena con Silvio Berlusconi al tempo del lodo Alfano, eccezione non commentabile). Ritornano a galla annosi interrogativi. In un paese in cui si cambia legge elettorale quanto i premier è giusto ricorrere ogni volta alla Corte? Poi, si domanda qualcuno, è stata una scelta tecnica o politica aspettare il 24 gennaio allontanando così le elezioni anticipate? Forse è arrivato anche il momento di costituire un archivio, magari prendendo esempio dal Conseil constitutionnel francese che dopo venticinque anni rende pubblici i suoi verbali, evitando misteri e arcani. Molti anni fa in America Bob Woodward, quello del Watergate, e Scott Armstrong hanno pubblicato un memorabile libro sulla Corte suprema, titolo «The Brethren» i confratelli. Chissà cosa scriverebbero della Consulta.

“Ma quale pensione! A noi magistrati piace il potere…”. Intervista a Guido Salvini, giudice al Tribunale di Milano che interviene nella polemica tra l’Anm e il ministro Orlando, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 2 febbraio 2017 su "Il Dubbio". Abbiamo chiesto al dottor Guido Salvini, attualmente giudice del Tribunale di Milano, la sua opinione su alcuni temi che in questi giorni stanno facendo molto discutere. Non ultima, la rinnovata polemica sulla modifica delle prescrizione del reato.

Consigliere, l’Associazione nazionale magistrati ha disertato l’inaugurazione dell’Anno giudiziario per protesta contro il governo che non ha portato a 72 anni il pensionamento dei magistrati. Cosa pensa di questa scelta?

«Anche a me il pensionamento a 72 anni sembra una via di mezzo ragionevole tra i 70 e i 75, ma da qui sino a minacciare anche uno sciopero contro il governo ne passa. Giudico l’enfasi di questa protesta un caso di falsa coscienza, di quelli in cui non si vuole riconoscere nemmeno dinanzi a sé stessi le ragioni di un comportamento e lo si riempie con qualcosa di non vero».

Si spieghi meglio.

«La magistratura è l’unica categoria di lavoratori che chiede con insistenza di lavorare più a lungo. E la strenua opposizione dei magistrati all’abbassamento dell’età della pensione mi convince poco, forse non riguarda che marginalmente l’attenzione per i cittadini. Più semplicemente esprime lo sgomento per l’accorciarsi del tempo del proprio prestigio e potere personale. Negli anni il potere della magistratura si è molto espanso, tocca tutti i campi della società, come ha ricordato anche il ministro Orlando, e le aspettative dei singoli sono la conseguenza di questa espansione. In questo senso parlo di falsa coscienza».

Lei partecipa di solito all’inaugurazione dell’Anno giudiziario?

«No, l’inaugurazione dell’Anno giudiziario mi sembra una cerimonia ormai superata, anche sul piano estetico: quelle toghe d’ermellino rosse credo suscitino più che interesse un senso di lontananza, sembra un anti- co conclave, qualcosa che per il cittadino assomiglia più ad un rito che a un momento di servizio in suo favore».

Andrebbe abolita la cerimonia?

«Basterebbe un incontro meno paludato e più asciutto, solo con qualche relazione, magari in una sala del Consiglio comunale o in un altro luogo più aperto alla città».

Tornando alle pensioni quindi per lei la mancata posticipazione non è una catastrofe per la giustizia?

«Non credo, anche perché quando si parla di giudici che mancano si evita sempre di considerare le decine e decine di magistrati che, anche da moltissimi anni, non svolgono le funzioni giurisdizionali, perché sono collocati fuori ruolo in incarichi ministeriali, politici, internazionali spesso superflui e per i quali basterebbe di norma un buon funzionario».

Come spiega questa corsa al “fuori ruolo”?

«Questo avviene perché incarichi di questo genere sono un prestigio per i prescelti e, per la categoria, una delle porte girevoli tra politica e giustizia, porte che non dovrebbero esistere o essere ridotte al minimo».

In effetti ci sono magistrati che svolgono compiti che nulla hanno a che vedere con la giurisdizione…

«Infatti. Non si parla mai, quasi nessuno lo sa, delle centinaia di magistrati che svolgono funzioni giurisdizionali ridotte perché fanno parte delle numerose strutture di supporto che il Csm ha voluto: è il caso dei magistrati segretari del Consiglio, di coloro che fanno parte delle Commissioni organizzative, delle Commissioni per l’informatica, delle Commissioni scientifiche. Anche qui basterebbe a seconda dei casi un buon tecnico, un funzionario o uno studioso e negli altri gli incarichi non dovrebbero ridurre le presenze in udienza».

Possiamo dire che far parte di questo mondo parallelo alla giurisdizione serva a far carriera?

«La partecipazione a queste strutture, in cui si entra per cooptazione, è quasi sempre un passaggio obbligato per ottenere poi dallo stesso Csm gli agognati posti direttivi».

Cambiamo argomento. Diritto all’informazione e processo mediatico, un valore e un disvalore che secondo lei dovrebbero essere meglio bilanciati?

«La giustizia spettacolo e gli show in televisione che partono già all’inizio dell’indagine e rischiano di condizionarne gli sviluppi sono un problema tutto italiano. Non credo che negli altri Paesi europei dopo ogni delitto eclatante si assista in televisione a processi paralleli con opinioni senza alcun freno. Chi vi partecipa è complice di questa stortura. A parte questo, un problema ormai irrisolvibile, si dibatte da anni sui limiti reciproci tra giustizia e informazione».

È pessimista, a riguardo?

«Il problema è complesso ma credo che vi sia un punto essenziale: nessuno, grande o piccolo, antipatico o simpatico che sia, deve avere notizia per la prima volta dalla stampa di una sua iscrizione nel registro notizie di reato, di una proroga indagini, di una intercettazione, di un atto che lo riguarda».

Come si potrebbe fare?

«Non dovrebbe esserne consentita la pubblicazione sino ad un momento preciso, non troppo avanti rispetto alla notizia, ma ben definito. Quello in cui l’interessato, indagato o testimone, abbia avuto la possibilità davanti a un magistrato di dare la sua versione su ciò di cui è accusato o su quanto stanno dicendo di lui. Una soluzione civile che dovrebbe essere studiata anche con l’aiuto dell’Ordine dei giornalisti, il quale non credo debba essere contento che i suoi scritti funzionano da semplici postini».

Un’ultima domanda. Cosa ne pensa del dibattito sulla prescrizione?

«Non bisogna dimenticare che vi sono due piani e che anche se si allunga la prescrizione rimane il problema della ragionevole durata dei processi, questione spesso offuscata dalla prima. Si può allungare la prescrizione per certi reati anche a 15 anni, ma se il processo di primo grado si celebra dopo 7 o 8 anni chi viene condannato e soprattutto chi viene assolto è sottoposto ad un meccanismo che non può riconoscere come una giustizia accettabile. L’esigenza non è solo quella di allungare la prescrizione ma anche di avvicinare i processi, altrimenti il processo stesso diventa una pena aggiuntiva anche per l’innocente».

L'intoccabile "irresponsabilità" dei magistrati. Il ministero della Giustizia: in due anni 115 citazioni, una sola condanna finora in appello. Intanto gli errori giudiziari dal 1992 ci costano 691 milioni, scrive Maurizio Tortorella il 23 gennaio 2017 su Panorama. Il ministro della Famiglia, Enrico Costa, ha reso noti i costi esorbitanti che la giustizia italiana si trova a pagare per risarcire gli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni. Soltanto nel 2016, ha rivelato Costa, sono stati spesi per queste due voci 42,1 milioni di euro. Il computo totale dal 1992 al 2016 è di 648,3 milioni di euro per le ingiuste detenzioni e di altri 43,4 milioni per errori giudiziari. La polemica di Costa, che ieri ha dichiarato "dovremmo dibattere meno di età pensionabile dei magistrati e più di queste profonde lesioni della libertà personale", riaccende inevitabilmente il faro sul tema, più che annoso, della responsabilità civile delle toghe. Quando nel febbraio 2015 il Parlamento varò la legge 18, che modificava la norme sulle responsabilità civile dei magistrati, quella riforma venne trionfalmente presentata dall'allora presidente del Consiglio Matteo Renzi come una mezza rivoluzione, l'intervento che avrebbe finalmente sbloccato l'anomalia italiana dell'assenza di sanzioni per i danni causati da una toga, e insieme la norma che avrebbe rimediato all'inganno legislativo rappresentato dalla legge Vassalli del 1988, che aveva tradito il voto popolare rappresentato da una schiacciante maggioranza di consensi al referendum popolare proposto dai radicali. Va ricordato, infatti, che la Legge Vassali era stata così pienamente ed eccessivamente garantista, nei confronti dei magistrati, che dal 1989 e fino a tutto il 2014 gli italiani avevano presentato in tutto 410 citazioni per responsabilità civile. Se si considera che in quei 26 anni soltanto i procedimenti penali aperti sono stati all'incirca 52 milioni, le citazioni presentate rappresentano appena lo 0,0008% del totale. Ma gli italiani avevano piena ragione di essere scettici: le loro citazioni ammesse al vaglio dell'autorità giudiziaria furono appena 35, nemmeno una su dieci. E quelle che vennero reputate degne di essere accolte furono in tutto sette. Sette, in 26 lunghissimi anni. Nelle settimane precedenti all'entrata in vigore della riforma del febbraio 2015, l'Associazione nazionale magistrati manifestò tali spropositate reazioni ("questo è un attacco mortale alla nostra autonomia"), che il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, promise avrebbe messo in piedi un sistema per controllare che la riforma non straripasse in eccessi puntivi nei confronti della categoria. «Faremo un tagliando», garantì Orlando. Vale la pena di ricordare sommessamente che due anni fa, ascoltate le grida di giubilo da una parte, e le terrorizzate lamentele dall'altra, Panorama sostenne che i magistrati non avevano nulla da temere e che i politici non avevano nulla da festeggiare, perché nulla in realtà sarebbe cambiato. Ora siamo arrivati a un primo redde rationem. Eccessi puntivi? Autonomia uccisa? Risate. A distanza di due anni, purtroppo, i dati danno ragione al pessimismo di Panorama. Perché è vero che (udite, udite!) sono aumentate le azioni di responsabilità per "dolo o colpa grave" nei riguardi dei magistrati, ma il numero delle condanne resta del tutto "insignificante". Il ministero della Giustizia, dopo i controlli eseguiti in omaggio alla promessa di Orlando, rivela con evidente soddisfazione che "non si è, finora, verificato il temuto aumento esponenziale del contenzioso". Ed è proprio il governo a utilizzare l'aggettivo "insignificante" per descrivere il numero delle condanne: nemmeno una in tutto il 2015; e una sola condanna d'appello nel 2016. Dall'entrata in vigore della legge, infatti, è vero che gli esposti sono più che raddoppiati, passando da 35 (nel 2014) a 70 nel 2015 e a 80 del 2016. Ma la quota di condanne - tutte non definitive, perché finora parliamo di sentenze di Corte d'appello e nessuna vicenda è ancora arrivata al giudizio finale - è pari allo 0,01%. Insomma, la riforma della responsabilità civile si è risolta in una farsa, forse in un inganno anche peggiore rispetto a quella che era stata varata nel 1988. I magistrati dell'Anm possono quindi riposare in pace: l'autonomia della categoria non ha subito alcun attacco, tantomeno l'assalto mortale che temevano due anni fa. Le toghe restano pienamente, irriducibilmente "irresponsabili".

Magistrati premiati con stipendi più alti. Anche quelli che sbagliano tanto, scrive Annalisa Chirico, Martedì 24/01/2017 su "Il Giornale". Ci sono dei numeri che, considerati isolatamente, non destano sorpresa, ma accostati gli uni agli altri fanno una certa impressione. La Ragioneria dello Stato ci informa che in dieci anni la retribuzione media per chi lavora alla presidenza del Consiglio è cresciuta del 45 percento, per i diplomatici del 37 percento, per chi indossa una toga del 28,4. In particolare, rispetto al 2005 la remunerazione dei magistrati è aumentata, in media, di otre 30mila euro toccando quota 138.481 euro. Com'è noto, gli stipendi dei magistrati non dipendono dal numero di sentenze prodotte o di ore trascorse in ufficio, la produttività non c'entra nulla, i loro salari sono il risultato di automatismi previsti dalla legge. Sulle colonne di Repubblica compaiono i dati aggiornati relativi ai risarcimenti che lo stato versa nei casi di ingiusta detenzione ed errore giudiziario. Si apprende che dal 1992 a oggi il ministero dell'Economia ha sborsato 648 milioni di euro per il carcere ingiustamente inflitto agli innocenti, e 43 milioni per gli errori di pm e giudici nell'interpretazione di fatti e norme. Se guardiamo soltanto allo scorso anno, scopriamo che lo Stato - vale a dire noi contribuenti - ha pagato dieci milioni di euro per risarcire le persone danneggiate da un errore giudiziario ad opera degli stessi magistrati i cui stipendi nel frattempo sono aumentati progressivamente. Ammontano invece a trenta milioni gli indennizzi corrisposti alle vittime di arresti preventivi sproporzionati e ingiusti. In altre parole, in questi anni sono aumentate le spese per le vittime e contestualmente si sono gonfiati i salari degli autori degli errori. Vale la pena notare che mentre i casi di errore giudiziario acclarati nel 2016 sono in tutto sei (con cifre esorbitanti come i sei milioni e mezzo in un singolo caso a Reggio Calabria), gli episodi di detenzioni ingiuste che hanno dato luogo al risarcimento sono quasi settecento. Viene da chiedersi se qualche sanzione sia stata comminata nei confronti dei magistrati che hanno sbagliato, travisato una prova, richiesto o autorizzato l'arresto, poi annullato, di una persona innocente. Sono domande tanto più urgenti alla vigilia dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. Se l'appuntamento annuale non vorrà ridursi a una rituale sfilata di ermellini ed establishment, sarà bene che i vertici della magistratura affrontino, senza infingimenti, la stridente anomalia di stipendi che aumentano al pari dei risarcimenti per errori e arresti facili. Colpisce che a far emergere i dati sull'entità dei risarcimenti sia stato Enrico Costa, avvocato appassionato e ministro della Famiglia e degli Affari regionali. «Se dibattessimo meno di età pensionabile dei magistrati e più di queste profonde lesioni della libertà personale, non sarebbe male», ha commentato Costa nelle stesse ore in cui il ministro della Giustizia in carica, Andrea Orlando, prosegue lungo la via del tenace dialogo con il numero uno dell'Anm Piercamillo Davigo. Chissà se, tra un discorso e un altro, tra una lamentazione corporativa e un'altra, il vertice del sindacato delle toghe formulerà una riflessione sul paradosso di stipendi e indennizzi. Qualcuno dovrebbe chiedergliene conto.

Corruzione, il Consiglio d'Europa all'Italia: "Roma limiti i giudici in politica". Il Gruppo di stati anticorruzione (Greco) rende pubblico un rapporto con dodici raccomandazioni rivolte al nostro Paese, tra cui anche regolare i "conflitti di interessi" dei politici e salvaguardare l'integrità delle commissioni tributarie, scrive il 19 gennaio 2017 "La Repubblica". Limitare la partecipazione dei magistrati alla politica. E regolare con norme più stringenti i "conflitti di interessi" dei deputati. Sono due delle dodici raccomandazioni che il Gruppo di stati contro la corruzione (Greco), organo del Consiglio d'Europa, ha rivolto all'Italia in un rapporto dedicato al nostro Paese, approvato il 21 ottobre 2016 ma reso noto solo oggi. Magistrati. E allora per prima cosa Roma deve introdurre leggi che pongano limiti più stringenti per la partecipazione dei magistrati alla politica, e mettere fine alla possibilità per i giudici di mantenere il loro incarico se vengono eletti o nominati per posizioni negli enti locali. "È chiaro che la legislazione italiana contiene diverse lacune e contraddizioni a tale riguardo, che sollevano dubbi dal punto di vista della separazione dei poteri e della necessaria indipendenza e imparzialità dei giudici" recita il dossier di Greco. L'organismo afferma che pur "riconoscendo l'indiscutibile reputazione, professionalità e impegno dei singoli magistrati" è suo compito "segnalare l'effetto negativo che qualsiasi presunta politicizzazione della professione può avere sulla percezione che i cittadini hanno dell'indipendenza dell'intera magistratura". Parlamentari. Quanto ai politici, invece, bisogna che l'Italia introduca norme "chiare e applicabili" per regolare "la spinosa questione" del conflitto d'interessi dei parlamentari. Perché, si legge ancora nel rapporto, "questa situazione insoddisfacente si traduce in un processo piuttosto difficile di verifica delle possibili cause di ineleggibilità e incompatibilità, che rischia di compromettere l'efficacia dell'intero sistema". Secondo gli esperti, infatti, "le regole esistenti sono difficili da applicare" e questo "va a scapito della complessiva trasparenza e efficienza del sistema". Nel documento si sottolinea che "l'alto numero di leggi e disposizioni, i relativi emendamenti e una generale mancanza di consolidamento e razionalizzazione delle norme, conduce a un quadro confuso del conflitto d'interessi".  Questo "crea problemi per l'applicazione delle regole esistenti e anche della loro comprensione". Tribunali fiscali. Il Consiglio d'Europa accende un faro anche sui tribunali fiscali, sottolineando la necessità di applicare più misure e strumenti per assicurare l'integrità dei membri delle commissioni tributarie, anche a causa "degli scandali in cui recentemente sono stati coinvolti i componenti non appartenenti alla magistratura", dice ancora il rapporto. Greco raccomanda dunque di adottare "misure appropriate per migliorare il controllo sulla professionalità e l'integrità dei componenti delle commissioni tributarie, con l'introduzione di un sistema di valutazione periodico e corsi di formazione regolari anche su questioni etiche e sulla prevenzione della corruzione". Prescrizione. Greco non manca poi di evidenziare "l'allarmante" numero dei processi penali non conclusi a causa della prescrizione. Nonostante vengano riconosciuti gli sforzi italiani - come l'introduzione di sanzioni più dure, l'ampliamento delle definizioni dei reati, l'istituzione dell'autorità nazionale anticorruzione - tuttavia vi sono ancora diverse questioni da risolvere, tra cui "il problema dei tempi di prescrizione dei reati". Una "seria preoccupazione" già espressa nei rapporti precedenti, per "l'impatto negativo sui casi di corruzione". Il gruppo d'esperti che ha valutato l'Italia "si rammarica che una riforma di una questione così cruciale non sia stata ancora attuata".

Il regime di Orlando o il regime di Davigo? Scrive Piero Sansonetti l'1 Febbraio 2017. C’è una stampa di regime che fiancheggia il ministro Orlando nella sua crociata contro la magistratura? Lo sostiene il giornale ufficioso dei Pm – Il Fatto Quotidiano – nell’editoriale del direttore, pubblicato ieri in prima pagina. Prima di tutto bisognerebbe capire bene cosa si intende per regime. Il “regime Gentiloni”? O addirittura il “regime Orlando”? Non credo che ci voglia moltissima fantasia per capire che in Italia, in questo momento, il rischio politico è il caos e l’ingovernabilità, non certo il regime. Ci sono almeno tre schieramenti in corsa per vincere le elezioni politiche (con pari possibilità). E’ il regime del ministro Orlando o di Davigo e dei maestri dell’Etica? Epoi ci sono un bel gruppetto di partiti e sottopartiti che cercano un loro spazio, voci di scissioni, di riaggregazioni, eccetera. Non succedeva esattamente così né nell’Italia di Mussolini né nella Russia di Breznev. In genere nei regimi c’è una sola lista elettorale che è in grado di vincere le elezioni (se ci sono le elezioni), non è legale l’opposizione. Ma allora perché il Fatto, e il suo “vate”, il dottor Davigo, si ostinano a parlare di regime? Credo che ci siano due ragioni.

La prima è la necessità di difendere una richiesta corporativa dell’Anm (l’associazione magistrati guidata da Davigo) e cioè l’aumento dell’età della pensione. Richiesta praticamente indifendibile davanti all’opinione pubblica.

La seconda è una ragione di potere. Se ci fate caso, è quasi sempre così: quando, in democrazia, si parla di regime, chi ne parla serba in qualche angolo del suo animo una sua propria aspirazione al regime. O comunque a un forte aumento del proprio potere. C’è un settore importante – anche se forse non maggioritario, ma egemone – della magistratura, che si è convinto della necessità di aumentare il proprio potere. Non è detto che questo desiderio sia originato semplicemente da ambizioni personali o da fini oscuri; anzi, molto probabilmente dipende in larghissima parte da un altro fattore: la convinzione che la società sia corrotta e che sia corrotto lo Stato, e che dunque occorra una drastica azione di pulizia, e che questa azione non possa essere condotta in un regime fortemente democratico e di equilibrio di poteri, ma solo in presenza di un soggetto forte – e cioè la magistratura – che possa agire indisturbato, che possa far prevalere il sospetto sul diritto, che non debba rispondere a nessuno. E’ una specie di pulsione autoritaria originata da una spinta etica. E non è detto che l’aspetto più pericoloso di questo fenomeno sia l’aspetto autoritario: forse è proprio l’aspirazione all’etica, che in alcuni casi diventa la culla del fondamentalismo e dell’integralismo.

Nel caso specifico, Davigo e Travaglio contestano al ministro Orlando di volersi scegliere lui i giudici che gli fanno comodo. Fingendo di non sapere che nessun Pm e nessun giudice e nessun procuratore o presidente di nessun luogo o grado della magistratura è nominato dal governo, né in alcun modo il governo, o il ministro o chi per lui può influenzarne o pretenderne la nomina. In questo caso la polemica di Davigo e Travaglio è esplicitamente contro il Presidente della Cassazione, Giovanni Canzio. Per quale ragione? Canzio è un interprete molto rigoroso del diritto e un difensore dello Stato di diritto, e dunque – comprensibilmente e legittimamente – non sta molto simpatico a Davigo e Travaglio, che hanno un’idea diversa di giustizia, abbastanza lontana dallo Stato di diritto. Ma chi lo ha nominato Canzio? Il Consiglio superiore della magistratura. E da chi è composto questo consiglio superiore? Lo abbiamo già detto nei giorni scorsi: per i due terzi da magistrati scelti dagli altri magistrati secondo le indicazioni (per la verità un po’ partitocratiche o correnti– cratiche) dell’Anm, cioè del cosiddetto partito dei Pm guidato da Davigo. Sulla nomina di Canzio il governo ha avuto un peso pari a zero, l’Anm un peso enorme.

Diciamo che il governo, e Orlando, per ragioni di opportunità e per non lasciare la Cassazione senza una guida, quando è stato varato il provvedimento sulle pensioni a 70 anni per i magistrati (che ha fatto infuriare molti magistrati che in pensione non ci vogliono andare), ha concesso una proroga (non di un decennio: di un anno!) alle massime cariche in modo da non provocare traumi. Una proroga ai magistrati nominati dal Csm e scelti dall’Anm! E questa sarebbe l’ingerenza? E così si metterebbe in discussione l’autonomia della magistratura?

Ma avete una idea vaga di quale sia il potere dei governi, rispetto alla magistratura, negli altri paesi occidentali, dalla Francia agli Stati Uniti? Dieci volte superiore al potere dell’esecutivo in Italia. E allora di quale regime e di quali giornali di regime, si parla? Beh, forse qualche giornale di regime c’è, se posso fare un paradosso. In qualunque altro paese, dove la stampa è critica e autonoma, una sollevazione corporativa e scombiccherata come quella di Davigo e di una parte dell’Anm per ‘ sto fatto delle pensioni, sarebbe stata massacrata di critiche e di ironia, su tutti gli organi di informazione. Qui da noi silenzio. Perché la stampa, in larghissima parte, è subordinata alla magistratura e non osa criticarla o metterla in burla. Tutto qui. (E tuttavia, anche in questo caso, se parliamo di regime lo facciamo per puro spirito polemico).

P. S. Nello stesso articolo del “Fatto” del quale riferivamo, c’era un altro elemento interessante. Si diceva che per mettere in prigione, in Italia, tutti quelli che se lo meriterebbero, altro che le attuali carceri, “non basterebbero gli stadi! “. Oddio: Gli stadi? Come faceva Pinochet? Gli sarà scappata, d’accordo, però certe espressioni, quando scappano…

Orlando: «La magistratura ha in pugno le nostre vite», scrive Errico Novi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Nel suo intervento sullo stato della giustizia, il ministro rivendica l’importanza delle ispezioni sui magistrati. È una relazione ricca di traguardi raggiunti e obiettivi ancora da cogliere, quella che il guardasigilli Andrea Orlando ha proposto ieri alle Camere sullo stato della giustizia. Ma è anche l’occasione per riaffermare alcuni aspetti decisivi del sistema, a cominciare dall’enorme peso della magistratura. «La nostra azione è stata rivolta a garantire che i controllori siano sottoposti ad altri controllori rispondenti soltanto alla legge, nella piena garanzia del principio di separazione dei poteri», ha affermato il ministro nei due rami del Parlamento a proposito dell’attività ispettiva di via Arenula, «e questa vigilanza deve essere tanto più stringente, tempestiva ed efficace in quanto riguarda poteri in grado di incidere in modo fortissimo e talvolta persino irreparabile sulla vita dei cittadini». Andrea Orlando affronta per prima l’aula del Senato. È lì di fatto che apre l’anno giudiziario, considerato che la relazione al Parlamento letta in mattinata a Palazzo Madama e poi a Montecitorio, è il primo atto delle inaugurazioni. L’assemblea presieduta da Pietro Grasso è d’altronde croce e delizia per il guardasigilli, luogo di confronti «proficui» ma anche di fatale paralisi del ddl penale. E se tra le obiezioni dell’emiciclo c’è anche un «difetto di franchezza» rilevato da Corradino Mineo, che pure apprezza complessivamente il ministro, va detto che Orlando dosa toni secchi e abili perifrasi anche quando parla del peso della magistratura. Quando cioè all’inizio della sua relazione ne segnala l’immenso potere e la necessità di controllarlo: «La nostra azione è stata rivolta a garantire che i controllori siano sottoposti ad altri controllori rispondenti soltanto alla legge, nella piena garanzia del principio di separazione», dice il ministro, «e questa vigilanza deve essere tanto più stringente, tempestiva ed efficace in quanto riguarda poteri in grado di incidere in modo fortissimo e talvolta persino irreparabile sulla vita dei cittadini». È un passaggio che si intreccia con ripetuti richiami al populismo penale, all’eccessivo numero di reati e alla demagogia con cui se ne invocano sempre di nuovi. La cifra del garantismo e della ricerca di un equilibrio che faccia argine allo strapotere giudiziario, segna quella che potrebbe essere l’ultima relazione di Orlando da ministro della Giustizia. Non solo perché non è detto che la legislatura arrivi fino a gennaio 2018, ma anche perché il leader dei “giovani turchi”, in qualche accenno, lascia trapelare l’aspirazione a occuparsi di giustizia anche in senso lato, la necessità di «agire perché non sia fortemente diseguale la ricchezza della nazione», come dice alla fine delle sue comunicazioni. Obiettivi da aspirante segretario del Pd più che da guardasigilli. Non a caso, a proposito del ddl penale, di cui invoca di nuovo l’approvazione in Senato, afferma che se diverrà legge, determinerà «un passo di qualità che consentirà, al prossimo ministro della Giustizia, di fare una relazione in cui molti problemi possano essere considerati alle spalle». Sui magistrati e la necessità di non tralasciare la vigilanza sul loro operato, il ministro torna più volte, sia nella relazione sia nelle repliche agli interventi in Aula. Quando parla di controllori si riferisce in particolare al sistema delle ispezioni, condotte «senza ricerca di sensazionalismo» e accompagnate da un «monitoraggio statistico» sulle «performance degli uffici». Sarebbe bene che «il Csm voglia sempre più affidarsi a simili criteri» nella scelta dei capi degli uffici, «che deve procedere senz’altro con maggiore speditezza». E dovrebbero essere più celeri, sostiene Orlando, anche «le pronunce disciplinari» che lo stesso Coniglio superiore è chiamato a emettere sulla base dell’attività ispettiva di via Arenula: «Spesso arrivano troppo tempo dopo che è stato segnalato l’illecito». A proposito di responsabilità civile, il guardasigilli allude a un possibile effetto deterrenza, invisibile nelle statistiche a quasi due anni dall’approvazione della riforma: «Ora i magistrati sanno che in caso di negligenza inescusabile sono sottoposti a valutazione di merito come qualunque altro cittadino». Ma alla magistratura come a tutti gli altri soggetti chiamati ad assicurare il servizio giustizia, Orlando rivolge il suo ringraziamento. Lo fa anche nei confronti dell’avvocatura, che «credo possa salutare con soddisfazione il completamento dell’attuazione della riforma forense». Agli avvocati il ministro assicura anche di voler portare fino in fondo l’impegno per assicurare compensi decorosi pur in un quadro ormai privato da anni delle tariffe minime: «Ho già mandato un disegno di legge a Palazzo Chigi sul tema dell’equo compenso: lo ritengo un elemento caratterizzante dell’attività di governo. C’è ormai una sperequazione inaccettabile nel rapporto tra professioni e grandi soggetti finanziari ed economici». Ci sono, dice senza mezzi termini il guardasigilli, delle «compressioni dell’autonomia del professionista dettati da posizioni dominanti che credo siano da contrastare». Nell’intervento a più riprese del ministro c’è spazio per la difesa degli interventi compiuti sul carcere, dei riscontri anche internazionali alla deflazione del contenzioso sia penale che civile e al diffondersi delle soluzioni alternative al processo (i passaggi salienti sono riportati in altro servizio, nda) . E non manca l’impegno a portare al traguardo progetti di legge come la delega sul fallimentare e la riforma civile, entrambi necessari per «dare sistematicità all’intervento realizzato finora per via amministrativa e con strumenti normativi diffusi». Ma è inevitabile che Orlando, soprattutto a Palazzo Madama, insista sui contenuti del ddl penale: ricorda che il testo sulla prescrizione è «un compromesso positivo», e che la delega sulle intercettazioni «è necessaria nonostante le circolari delle Procure vadano nella direzione auspicata: non si può essere esposti al rischio di usi impropri solo perché nella città dove si vive il capo dell’ufficio non ha dato le stesse istruzioni». Nella replica non manca di rispondere sui nodi sollevati dall’Anm con l’annunciata protesta contro il decreto Cassazione: «Sui termini per i trasferimenti siamo venuti incontro alle richieste e abbiamo posticipato l’applicazione del nuovo regime quadriennale. Sulle pensioni, la reazione mi pare eccessiva: è l’unico punto che resta e ora c’è un presidente del Consiglio diverso». Il che conferma l’impressione che alcune scelte compiute con Renzi premier siano state concepite a Palazzo Chigi più che a via Arenula.

Se il totalitarismo è giudiziario, scrive Pierluigi Battista il 15 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". A Roma non si sa dove e quando e come potranno essere collocate le bancarelle dei libri (che ci sono da sempre, e sono un meraviglioso momento di sosta) perché lo deve stabilire la magistratura. Nel Texas la Apple è stata messa sotto accusa giudiziaria perché un automobilista, usando FaceTime mentre era alla guida, aveva violentemente urtato un’altra macchina provocando la morte di una bambina che era a bordo. La colpa è di aver inventato la app per le videochiamate senza la funzione che la disattiva nei veicoli in movimento. Cioè la colpa non è solo del deficiente criminale che fa videochiamate mentre guida, ma della società che non ha previsto l’esistenza di un deficiente criminale che guarda dentro al telefonino ammazzando la gente con la macchina che guida. Intanto in Italia si stabilisce che le leggi elettorali non le fa il Parlamento ma la Corte Costituzionale. La quale Corte Costituzionale aveva già deliberato su importanti provvedimenti di politica economica del governo, come l’intervento sulle pensioni. Con l’approvazione della legge sulle unioni civili, pare non abbia molta importanza la disciplina della stepchild adoption perché valuteranno i magistrati caso per caso. E del resto, l’assenza di una legge sul testamento biologico demanda alla magistratura anche l’ultima parola sui temi decisivi come la vita e la morte. La magistratura francese può decidere se a un intellettuale è permesso di sottolineare i pericoli dell’islamismo politico senza essere portato in tribunale come «islamofobo». In Italia la magistratura può disporre il sequestro giudiziario, con conseguenze economiche notevolissime, della centrale termoelettrica di Vado Ligure mentre in un’altra regione un’altra centrale identica può continuare a lavorare con gli stessi livelli di inquinamento accertati dalle autorità sanitarie e ambientali. Cosa ci dice questa macedonia di casi tanto diversi tra loro? Cosa hanno in comune tutti questi episodi? Hanno in comune in tutto il mondo lo strapotere della dimensione giudiziaria su ogni altro aspetto della vita pubblica. La «giuridicizzazione» radicale e totale dei rapporti sociali, politici, economici, antropologici in cui si imbatte l’umanità. L’idea che l’ultima parola spetti sempre a un’autorità giudiziaria. In Italia e ovunque. Vi sentite tranquilli nel mondo del totalitarismo giudiziario?

Toghe alla guerra dei privilegi: disertano l'anno giudiziario. Anm contro il governo: protesta per pensioni e trasferimenti. Ma è scontro tra le varie correnti, scrive Anna Maria Greco, Domenica 15/01/2017, su "Il Giornale". L'Anm accusa il governo di non aver rispettato gli impegni e per protesta diserterà la cerimonia d'apertura dell'anno giudiziario, il 26 gennaio in Cassazione. Per la prima volta il «sindacato» dei magistrati non sarà dunque presente tra gli ermellini nell'Aula magna del Palazzaccio di Roma, luogo finora non investito dai venti di contestazione perché il dissenso si esprimeva solo alle inaugurazioni nelle Corti d'appello. Due elementi, nel corso della riunione di ieri del Comitato Direttivo Centrale, hanno fatto decidere l'associazione delle toghe a rompere la tradizione: pensioni e trasferimenti dei magistrati. Il Guardasigilli Andrea Orlando si dice disponibile a discutere, ma ormai è tardi. «La Giunta aveva condotto con il governo e con il ministro della Giustizia - spiega il presidente dell'Anm, Piercamillo Davigo - una trattativa per ricondurre l'età pensionabile, anche se in via transitoria, a 72 anni e a riportare il vincolo di permanenza dei magistrati di prima nomina da 4 a 3 anni. Gli impegni non sono stati rispettati, nonostante la dichiarata continuità del governo attuale con quello precedente». Si riferisce al fatto che è ristretta ad un pugno di alti magistrati l'ultima proroga per allontanare l'età della pensione, che l'ex premier Matteo Renzi ha portato per tutti da 75 a 72 anni. E il suo governo aveva assicurato che almeno sui giovani di prima nomina non sarebbe pesato l'allungamento da 3 a 4 anni del periodo minimo di permanenza in un ufficio prima di chiedere un trasferimento, ma non è andata così. Nella base delle toghe monta un grande scontento, le correnti fanno a gara per raccogliere le lamentele e ad infervorare ancor più il dibattito ci sono le elezioni al Csm del 2018 che si avvicinano. Il direttivo dell'Anm è stato già convocato per il 18 febbraio, per valutare altre iniziative prima della conversione in legge del Milleproroghe. C'è chi preme per lo sciopero, ma finora Davigo ha tenuto insieme i gruppi. Non senza danni, però, e proprio nella stessa corrente nata attorno al nome dell'ex star di Mani pulite, Autonomia&Indipendenza. Ieri, infatti, c'è stato un duro scontro nella riunione tra Davigo e il coordinatore di A&I, che insisteva sullo sciopero bianco. Lo aveva proposto anche Magistratura indipendente, l'altra corrente moderata, ma poi ha accettato il compromesso per consentire un accordo con le correnti di centro, Unicost e di sinistra, Area. Davigo ha lavorato per mantenere l'unità della magistratura, ma a Pepe la protesta in Cassazione non bastava. Voleva che A&I uscisse con un suo documento chiedendo lo sciopero bianco e rompendo di fatto l'unanimità. Il presidente dell'Anm alla fine si è imposto, nell'associazione e nella sua corrente, ma poi ha lasciato la seduta prima della fine, molto irritato dallo scontro con il suo secondo, al vicepresidente di Area Luca Poniz. Anche perché sembra che le liti con Pepe siano frequenti. La notizia è anche questa, dunque: la neonata corrente A&I rischia di implodere, per contrasti interni, proprio mentre Davigo si appresta a concludere ad aprile il suo anno di presidenza dell'Anm.

Pensioni e trasferimenti, toghe infuriate: il gesto estremo dei magistrati, scrive “Libero Quotidiano" il 14 gennaio 2017. L’Associazione nazionale magistrati diserterà la cerimonia, fissata per il 26 gennaio, di inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione. È la forma di protesta, approvata all’unanimità dal direttivo del sindacato delle toghe, adottata dall’Anm per il "mancato rispetto degli accordi" da parte del Governo sui correttivi, chiesti dai magistrati, al decreto sulla proroga dei pensionamenti solo per alcuni (tra cui il presidente e il pg della Suprema Corte, Gianni Canzio e Pasquale Ciccolo) e sulla legittimazione ai trasferimenti. I rappresentanti dell’Anm parteciperanno invece alle inaugurazioni dell’Anno giudiziario nelle Corti d’appello sabato 28 gennaio. Si tratta della prima volta che viene attuata una protesta delle toghe durante la cerimonia in Cassazione, dove i vertici dell’Anm non svolgono di regola un intervento ma sono presenti tra gli ospiti nell’Aula magna di Palazzaccio. Negli anni passati, invece, iniziative di protesta si erano svolte durante le inaugurazioni nelle Corti d’appello. Il 26 gennaio, inoltre, il sindacato delle toghe predisporrà un documento che sarà anche illustrato ai giornalisti con una conferenza stampa e che sarà letto dai rappresentanti delle sezioni distrettuali dell’Anm durante le cerimonie nelle Corti d’appello. Sabato 28 gennaio, la Giunta centrale del sindacato delle toghe parteciperà a una delle inaugurazioni in Corte d’appello, presumibilmente la stessa a cui prenderà parte il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il direttivo dell’Associazione nazionale magistrati tornerà a riunirsi il 18 febbraio: in quella sede, discuterà ancora di eventuali iniziative di protesta, anche alla luce degli sviluppi dell’iter di conversione in legge del decreto Milleproroghe, a cui il Governo dovrebbe presentare un emendamento per modificare le norme in materia di legittimazione ai trasferimenti per le toghe.

Il Pm Gratteri: «E' pronta la rivoluzione giudiziaria», scrive Piero Sansonetti l'8 novembre 2016 su "Il Dubbio".  Il compito della magistratura è quello di accertare i reati e perseguirli, o è invece quello di combattere alcune battaglie politiche? Nel luglio del 1948, a Roma, in piazza Esedra, si tenne una gigantesca manifestazione comunista. Avevano sparato a Togliatti, che era in fin di vita, e i militanti del Pci erano furiosi. Sul palco salì per il comizio Edoardo D'Onofrio, dirigente amatissimo, stalinista di ferro, alle spalle 10 anni nelle carcere fasciste. La gente cominciò a gridare: «Edo, dacci il là!». Volevano dire: dai un segnale e noi iniziamo l'insurrezione. D'Onofrio però aveva ricevuto un ordine preciso da Luigi Longo, il vice di Togliatti: «Niente rivoluzione». E allora rispose alla folla, scandendo le parole: «Non è questo il momento storico». La rivoluzione non ci fu, non ci fu la guerra civile (anche se ci furono violenze, scontri morti e arresti). Togliatti si salvò e la democrazia uscì salva e forte. Beh, colpisce il fatto che il Procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri (che pure non dà per niente l'impressione di essere comunista) abbia usato esattamente la stessa espressione: «Ho in testa una rivoluzione sul sistema giudiziario, ma non è ancora il momento storico». Naturalmente Edo d'Onofrio aveva ben chiaro che prima o poi la rivoluzione si sarebbe fatta. Poi invece, qualche anno dopo, nel 1956, ci fu la destalinizzazione, e Togliatti lo emarginò. Chissà come andrà a finire, invece, con Nico Gratteri...Il Procuratore di Catanzaro ha annunciato la rivoluzione (e il suo rinvio) nel corso di una intervista rilasciata a Lucio Musolino del "Fatto Quotidiano". È una intervista che inizia con una frase non nuovissima (per Gratteri) ma sempre abbastanza sorprendente. La trascrivo: «L'articolato di legge che abbiamo elaborato per aggredire maggiormente corruzione e mafie è nei cassetti del Parlamento, ma al momento nessuna forza politica lo ha preso in considerazione». Di che "articolato" si tratta? Gratteri spiega che si tratta di un vero e proprio disegno di legge, che prevede la modifica di circa 850 articoli tra codice penale, codice di procedura penale e ordinamento penitenziario. A occhio croce la riforma riguarda almeno la metà dell'intero impianto legislativo che riguarda il diritto penale, visto che il codice penale e il codice di procedura, sommati, contengono attualmente circa 1500 articoli, dei quali però non più di 8 o 900 sono quelli davvero importanti. Di conseguenza Gratteri ci dice una cosa molto semplice: la sua commissione ha preparato una riforma radicale della giustizia. Noi non sappiamo bene cosa intenda Gratteri per rivoluzione giudiziaria, né per "momento opportuno". Certo sono espressioni molto preoccupanti, specialmente se pronunciate da un magistrato così potente, così famoso, così importante. Però sappiamo qualcosa sullo Stato di diritto e sulla separazione dei poteri. E allora ci vengono alcune domande, alle quali, magari, qualche autorità potrebbe anche rispondere. La prima domanda è questa: elaborare un articolato di legge non è compito che spetta al potere legislativo? La stessa Costituzione non prevede una separazione netta tra potere legislativo e potere giudiziario? E allora, è cosa normale che un magistrato elabori i disegni di legge?  (A me sembra un po' come se si chiamassero i deputati a fare le sentenze, o almeno a dirigere le indagini preliminari sui delitti....). La seconda domanda è più spigolosa. La riassumo così: il compito della magistratura è quello di accertare i reati e perseguirli, o è invece quello di combattere alcune battaglie politiche? Gratteri parla della sua intenzione di "aggredire corruzione e mafie", ma è giusto che un magistrato si ponga l'obiettivo di combattere fenomeni sociali negativi? Non è forse, il compito di aggredire corruzione e mafia, un compito che spetta alla politica - sul piano dell'azione legislativa e culturale - e alla polizia sul piano militare? Non sono domande provocatorie, né sofismi: si tratta di capire quale sia l'orientamento politico e costituzionale prevalente nelle classi dirigenti italiane. Se bisogna gratterizzare la magistratura, e anche il Parlamento, sarà inevitabile porre mano, seriamente, alla Costituzione. Non con la piccola riforma Boschi, ma con un rivolgimento profondo, che cambi la natura dello Stato di diritto e ne riduca fortemente i confini. Vogliamo istituire una repubblica giudiziaria, che sostituisca la Repubblica parlamentare? Discutiamone, se volete, però bisogna avere il coraggio di dire le cose chiare, non basta sperare in quella riforma della "Costituzione materiale" che, in realtà, è già largamente in corso.

Aspettando la Terza Repubblica. Il saggio di Agostino Giovagnoli «La Repubblica degli italiani 1946-2016» (Laterza) ripercorre la storia dell’Italia postbellica: il vero «partito della nazione» è stato la Dc, scrive Andrea Riccardi il 20 ottobre 2016 su "Il Corriere della Sera". La Repubblica ha settant’anni. Non c’è festa però, anzi — osserva lo storico Agostino Giovagnoli — tra gli italiani «è diffusa l’insoddisfazione». Soprattutto per il presente, ma anche per il passato repubblicano, considerato, per i suoi errori e scelte sbagliate, all’origine dei problemi dell’oggi. Il debito pubblico appare il monumento degli errori del passato, che pesa sul futuro. Una storia sbagliata, che non si ama ricordare. Anche perché non è facile farlo, complessa com’è, con tanti attori e combinazioni: cangiante ma, alla fine, con una stabilità di fondo. È quanto emerge dal ricco volume di Giovagnoli, La Repubblica degli italiani 1946-2016, edito da Laterza, che spazia da De Gasperi «padre della Repubblica» fino al big bang del sistema tra il 1992 e il 1994, alla Seconda Repubblica e a quello che considera l’attuale passaggio a un nuovo assetto. È una storia, per tanti aspetti, bella e avvincente: non solo un succedersi di governi fragili né un gioco di alchimie politiche. Leggere questo volume riconcilia con la nostra storia appassionandoci a essa: gli italiani sono cresciuti sotto tanti punti di vista. Anche la disaffezione dalla politica o la protesta sono il frutto di un processo storico per cui gli abitanti della penisola sono divenuti pienamente cittadini. Non è una storia sprecata o solo una trama di errori. I primi decenni sono quelli della Repubblica dei partiti, per usare l’espressione di Pietro Scoppola: si passa dalla nazionalizzazione fascista delle masse alla partecipazione politica ed emotiva al destino della nazione attraverso i partiti. In questo quadro si staglia la Dc, «partito della nazione» (Alcide De Gasperi è il primo a usare l’espressione): il perno di un sistema di alleanze con un particolare rapporto con lo Stato. La classe dirigente democristiana, pur nella rapida successione dei governi, costituisce il presidio della stabilità e della continuità delle politiche nazionali e internazionali. La tensione, con ostacoli e battute di arresto, è allargare l’area di governo fino alla solidarietà nazionale con il Pci. Questo si accompagna a due aspetti rilevanti della Prima Repubblica: da una parte le ideologie e il dibattito delle idee che permeano la politica e, dall’altra, il radicamento capillare nella società e la mobilitazione degli italiani alla politica. In questo processo, Giovagnoli mette in luce il ruolo della Chiesa, l’istituzione più radicata nel Paese, preoccupata del pericolo comunista e sostenitrice della Dc. La svolta del Vaticano II scompone il solido blocco Chiesa-Dc. «Il mondo è cambiato» — scrive l’autore in un denso capitolo dedicato agli anni Ottanta. «Dalla società agli individui»: è un processo lungo (dal Sessantotto alla globalizzazione) che mette in discussione identità organiche e strutture che erano l’architettura della politica. Gli italiani cambiano prima della politica, tanto che questa, con la caduta del Muro e la globalizzazione, viene travolta. Sono il discredito dei partiti e la protesta a travolgerla, quasi una corrente carsica destinata più volte a riemergere e guadagnare consenso sino a oggi. La domanda è se siano ingredienti bastevoli a creare un’alternativa. Metà della Repubblica degli italiani è dedicata alla Seconda Repubblica: «È tramontato, in particolare, il rapporto tra élites e masse, mediato dai partiti…». Si disarticolano gli «universi politico-culturali» che, per quasi mezzo secolo, sono stati i pilastri della democrazia: quello comunista, laico-socialista, cattolico. Quest’ultimo, con il tramonto della Dc, è destinato a giocare un ruolo con la Cei del cardinale Camillo Ruini per il rapporto con Silvio Berlusconi e per l’affermazione del ruolo etico-culturale della Chiesa. Il bipolarismo non ricuce la «persistente frammentarietà» della politica e porta a «un sistema politico iperconflittuale». Se la Prima Repubblica, alla luce della storia e nonostante i problemi, non è un «buco nero» per Giovagnoli, i due decenni successivi sono quasi un interludio. Così crede l’autore, che dedica pagine acute in una prospettiva storica (tra i primi) a Berlusconi come un misto di antipolitica, di vecchia politica e d’interessi anche disparati: il decennio berlusconiano, poi, dal 2001 al 2011, parte nel clima dello scontro di civiltà dopo l’11 settembre 2001 e si solidifica nel «bipolarismo etico» del Paese. Nonostante i governi guidati da Romano Prodi abbiano inciso per varie decisioni e ancoraggio all’Europa, gli anni della Seconda Repubblica sono dominati dal clima impresso da Berlusconi, anche per chi gli si oppone. La lunga storia repubblicana, però, non è smarrita. In un certo senso parla dal Quirinale che, con gli anni Novanta, diventa un’istituzione cardine della democrazia, perdendo quel carattere notarile e cerimoniale che l’aveva in parte caratterizzato. Oscar Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano: tre storie personali diverse, ma tutte radicate nella cultura politica repubblicana, come si vede dai loro richiami e impulsi. Ma non solo: «Si deve a questi tre presidenti della Repubblica un impegno per contrastare il ripiegamento provincialistico della società italiana». La Seconda Repubblica ha rappresentato più una fase di assestamento che il raggiungimento di un nuovo equilibrio. Agostino Giovagnoli è convinto che questa storia, quella della Prima e della Seconda Repubblica, non debba essere consegnata però a una damnatio memoriae: senza conoscerla e senza sentirla come nostra, non si capiscono i problemi attuali, ci si abbandona a semplificazioni emotive. Per Giovagnoli, dal 2011 siamo oltre il secondo tempo della Repubblica. Il governo Monti è stato una rottura e una ricollocazione europea dell’Italia. Con Renzi, «molti aspetti dell’assetto bipolare, prevalsi per un ventennio, sono… definitivamente tramontati». Sorge, sul crinale del settantennio repubblicano, nonostante le difficoltà, una voglia di estroversione italiana nel mondo globale, anche se assediata da problemi e disaffezioni. La domanda è se si possa già parlare di una Terza Repubblica, anche con un nuovo assetto costituzionale.

Ma quale repubblica parlamentare? La nostra è una repubblica giudiziaria, scrive il 19 ottobre 2016 Francesco Damato su "Il Dubbio". Da 24 anni il Parlamento si è piegato al potere togato. Da quando Scalfaro decise che per formare il governo si doveva consultare il Procuratore di Milano...È un vero spreco di energie quello che si sta facendo nella campagna referendaria in difesa della Repubblica parlamentare voluta dai costituenti e minacciata, secondo gli avversari di Matteo Renzi, dalla sua riforma. Che farebbe diventare la Repubblica "oligarchica", ha sentenziato il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky fra la sorpresa e le proteste di Eugenio Scalfari, convinto che l'oligarchia, intesa però solo come "classe dirigente", sia compatibile con la democrazia. In fondo - si potrebbe dire seguendo il ragionamento filologico di Scalfari - anche il Parlamento è oligarchico, poco importa se composto di quasi 1000 esponenti, come oggi, o di 730, come avverrebbe con l'approvazione della riforma. Alternativa all'oligarchia, sempre secondo il ragionamento di Scalfari, sarebbe la dittatura, non la Repubblica parlamentare che i critici di sinistra della riforma sentono minacciata. I critici di destra invece, preferendo la Repubblica presidenziale, ritengono che nella Costituzione riformata da Renzi rimanga ancora troppa Repubblica parlamentare, in cui i poteri del capo dello Stato e del presidente del Consiglio rimangono invariati. Eppure questi stessi critici di destra, convergendo con quelli di sinistra, accusano Renzi di avere voluto e portato a casa col cosiddetto Italicum una legge elettorale su misura delle sue ambizioni di potere: una legge peraltro ch'egli non difende più con l'ostinazione di qualche mese fa, disponendosi a cambiarla, ma anche prevedendo che potrebbe essere modificata da interventi della Corte Costituzionale, com'è accaduto alla legge precedente voluta dal centrodestra. Ma sono proprio sicuri, a sinistra e a destra, di vivere ancora in una Repubblica parlamentare, rispettivamente, da difendere o da superare? Né da una parte né dall'altra sembrano essersi resi conto che da almeno 24 anni, come documenteremo, viviamo in una Repubblica giudiziaria. Eppure a destra, almeno dalle parti di Silvio Berlusconi, è sistematico il richiamo al ruolo smisurato assunto dalla magistratura, alla quale la politica si arrende sistematicamente, anche dopo essersi proposta, come con Renzi appena approdato a Palazzo Chigi, di riprendersi il proprio "primato". Il fresco rinvio a dopo il referendum del 4 dicembre della riforma del processo penale dopo le proteste dell'associazione nazionale dei magistrati parla da solo. Non è soltanto la "società" ad essere diventata "giudiziaria", come ha lamentato l'ex presidente della Camera Luciano Violante commentando le recenti assoluzioni, nei tribunali, di troppi politici condannati invece nei processi mediatici avviati con gli avvisi di garanzia. Purtroppo è la Repubblica, con le istituzioni di vario livello, ad essere diventata giudiziaria, senza che la sinistra e la destra, alternatesi al governo o addirittura associatesi nelle cosiddette larghe intese, abbiano saputo o addirittura voluto porvi rimedio. Il primo passaggio dalla Repubblica parlamentare a quella giudiziaria risale al 1992, quando i magistrati di Milano impegnati nelle indagini sul finanziamento illegale dei partiti protestarono contro l'ipotesi di una commissione d'inchiesta parlamentare, appunto, su quel fenomeno generalizzato. Il Parlamento vi rinunciò, dopo avere indagato su tutto: dalle banane alla mafia, da Sindona alla P2, dalla costruzione dell'aeroporto di Fiumicino ai soccorsi nell'Irpinia terremotata. Il secondo passaggio lo indicherei nella decisione di Oscar Luigi Scalfaro, fresco di insediamento al Quirinale, sempre nel 1992, di estendere al capo della Procura della Repubblica di Milano le consultazioni per la formazione del primo governo dopo il rinnovo del Parlamento. Seguì l'anno dopo il rifiuto, sempre di Scalfaro, peraltro ex magistrato, di firmare un decreto legge approvato dal primo governo di Giuliano Amato, e contestato dal capo della Procura milanese, sempre lui, per la cosiddetta "uscita politica", e non solo giudiziaria, da Tangentopoli. Eppure quel decreto legge era stato varato in una lunghissima riunione del Consiglio dei Ministri, più volte interrotta per consultazioni fra gli uffici di Palazzo Chigi e del Quirinale sugli articoli via via esaminati. E sul provvedimento uscì la mattina dopo un commento positivo di Eugenio Scalfari, prima che arrivassero il pronunciamento della Procura ambrosiana e l'annuncio del rifiuto del capo dello Stato di firmare. Il 1993 fu anche l'anno della modifica a tamburo battente dell'articolo 68 della Costituzione per togliere dalle immunità parlamentari la richiesta delle "autorizzazioni a procedere" nelle indagini. Ma già degli indagati eccellenti come Giulio Andreotti, intimiditi dagli umori di quella che Violante chiamerebbe "la società giudiziaria", avevano votato a scrutinio palese a favore dei processi a loro carico. Su Bettino Craxi erano state già buttate monetine, accendini, ombrelli in piazza, e i ministri del Pds-ex Pci erano usciti dal governo di Carlo Azeglio Ciampi per protesta contro la Camera -ripeto, contro la Camera, e quindi contro il Parlamento- per avare concesso a scrutinio segreto non tutte ma solo alcune delle autorizzazioni a procedere chieste da varie Procure contro il leader socialista. Un cappio infine era già stato sventolato nell'aula di Montecitorio dai leghisti, che si sentivano gli interpreti più autentici delle toghe. La musica non migliorò, anzi peggiorò decisamente l'anno dopo col primo governo del pur garantista Silvio Berlusconi. Che esordì offrendo il Viminale ad Antonio Di Pietro, il magistrato simbolo allora delle indagini sui politici. Poi il Cavaliere si arrese ai leghisti, sempre loro, presenti nel suo governo col ministro dell'Interno Roberto Maroni e arresisi a loro volta alla protesta corale, con minacce di dimissioni, dei magistrati della Procura milanese, sempre loro, contro un decreto legge che limitava il ricorso alle manette durante le indagini preliminari. Eppure a quel decreto Scalfaro aveva fornito la propria firma senza fare storie. Ed erano seguite alcune scarcerazioni. Le proteste della Procura ambrosiana fecero scoprire a Maroni, pur avvocato, parti del provvedimento che aveva sottoscritto, per sua penosa ammissione, senza rendersene conto. Il decreto fu lasciato decadere, senza peraltro che Berlusconi riuscisse dopo pochi mesi ad evitare la caduta del suo governo per mano proprio della Lega sul terreno già allora scivoloso della riforma delle pensioni, anche se è ancora opinione diffusa che la causa della crisi fosse stata un avviso giudiziario a comparire per corruzione: avviso anticipato dal Corriere della Sera e notificato al presidente del Consiglio mentre faceva col sindaco di Napoli Antonio Bassolino, che ha rievocato recentemente la vicenda in una intervista a Il Dubbio, gli onori di casa ai partecipanti ad una conferenza delle Nazioni Unite sulla lotta alla criminalità organizzata. Per assistere a qualche serio, per quanto insufficiente, tentativo di liberare la Repubblica parlamentare dall'assedio giudiziario si sono dovuti aspettare gli anni di Giorgio Napolitano al Quirinale, dopo che la Procura di Palermo ne aveva clamorosamente violato la riservatezza garantitagli dalla Costituzione intercettandolo al telefono, sia pure "accidentalmente", con Nicola Macino, allora indagato e oggi imputato di falsa testimonianza nel processo in corso da più di tre anni sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia della stagione stragista. Poi la Procura resistette alla richiesta di distruggere le intercettazioni, peraltro ritenute irrilevanti ai fini processuali dagli stessi inquirenti, senza passare per un'udienza che ne avrebbe potuto compromettere la segretezza. Il buon Napolitano, per non lasciare compromesse ai suoi successori - come tenne a spiegare con un comunicato- le prerogative del presidente della Repubblica, anch'esse minacciate da un esercizio invasivo delle funzioni giudiziarie, dovette clamorosamente ricorrere alla Corte Costituzionale. Che gli diede ragione. Ma una rondine, si sa, non fa primavera. Napolitano è ormai un presidente emerito. E il suo successore è già alle prese con l'ipotesi di rendere testimonianza pure lui a quello stesso processo, la cui sola durata è un'enormità. Il riscatto della Repubblica parlamentare dagli assedi giudiziari, altro che dai presunti assalti di Renzi, deve ancora venire. Non è un caso che il presidente del Consiglio abbia deciso di portarsi appresso alla Casa Bianca, per la cena di commiato dal presidente uscente degli Stati Uniti, anche il magistrato Raffaele Cantone, che come capo dell'Autorità anticorruzione è stato considerato fra le personalità più rappresentative dell'Italia, accanto a Roberto Benigni, Paolo Sorrentino, lo stilista Giorgio Armani la sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini, la campionessa paralimpica Bebe Vio, la direttrice del Cern di Ginevra, Fabiola Gianotti, e l'architetta Paola Antonelli, del Museo internazionale dell'arte moderna.

RICORDANDO BETTINO CRAXI.

Giornalista horizontal…, scrive Piero Sansonetti il 5 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Panegirici per Davigo, interviste senza domande, anche il bravo Massimo Gramellini si piega alla cupola del giustizialismo. Bisogna sparare a zero sui politici, ma l’ossequio al giudice è un atto dovuto. Sul “Corriere della Sera” è apparso un articolo di Massimo Gramellini intitolato “Davigo vertical”. È una tipica espressione spagnola, l’hombre vertical, molto lusinghiera, che indica l’uomo tutto d’un pezzo, coerente, serio, incorruttibile. Mi è venuto da chiedermi cosa sarebbe successo se sul “Corriere della Sera” fosse apparso un articolo altrettanto adorante, e firmato da una delle firme più prestigiose del giornale, rivolto all’esaltazione di qualche leader politico. Renzi, magari, o Berlusconi, o Alfano, o Salvini o – al limite – Grillo. Oppure se un panegirico di stile gramelliniano fosse stato pronunciato in Tv, dedicato a un uomo di governo. Sarebbe successa l’iradiddio e il malcapitato adoratore avrebbe capito in un batter d’occhio di essere giunto a fine carriera. Giornalismo horizontal. L’ossequio al giudice è sempre ammesso. Gramellini invece è solo all’inizio di una carriera che sarà – ve lo garantisco – di grande, grande successo. Qual è la differenza tra Davigo e – poniamo – Gentiloni? Come mai se osanni Gentiloni sei degno di disprezzo e se osanni Davigo sei un giornalista coraggioso? A occhio non c’è nessuna differenza tra i due: Davigo e Gentiloni sono rappresentanti del potere, e dunque – vorrebbe una versione forse un po’ antica della deontologia professionale giornalistica – dovrebbero sempre essere osservati con occhio critico dai giornalisti, tenuti a distanza, non celebrati. In realtà uno dei due è molto più potente dell’altro. Davigo ha assunto un ruolo di comando nella magistratura, fino al vertice dell’associazione magistrati, è un giudice di Cassazione, ha un ascolto altissimo nei giornali e nelle Tv, ha a disposizione persino un partito politico, e cioè i 5 Stelle, cosa che – paradossalmente – Gentiloni neanche si sogna. Davigo decide sulla politica della giustizia molto più di Gentiloni, è in grado di guidare campagne di opinione che possono bloccare qualunque provvedimento del governo. E infatti ha bloccato la riforma- Orlando. Del resto lo ha detto lui stesso, proprio l’altro giorno, all’assemblea del suo partito di riferimento (i 5 Stelle): «Non entro in politica perché ho molta più forza se resto fuori». Davigo orienta la magistratura e anche la politica, e se lui chiede più carcere ottiene più carcere. Influenza le sentenze dei suoi colleghi e frena i provvedimenti di clemenza. Intimidisce i tribunali di sorveglianza. Probabilmente Gentiloni sarebbe favorevole all’amnistia o a una riforma garantista del codice penale. Non può, ha le mani legate da un potere molto più grande del suo. La risposta alla domanda sul “diritto di ossequio” è esattamente questa. L’ossequio andrebbe evitato, ma se proprio va reso allora conviene renderlo al più forte. Il potere politico da anni è in verticale caduta, e non è strettamente necessario rendergli omaggio. Il potere di un pezzo di magistratura è in esponenziale crescita, sta allargandosi attraverso una nuova ferrea alleanza con la stampa e pezzi della Tv, ed è molto pericoloso opporsi. Un tipo come Davigo – dicono che sia anche permaloso – va tenuto nel giusto conto. Talvolta, non c’è niente di male: anche i giornalisti possono accettare di diventare hombre orizontal. Il bello è che ci sono alcuni giornali che ogni tanto pubblicano le classifiche dei giornalisti subalterni. Il Fatto Quotidiano, per esempio, li chiama i “lecca lecca”. State pure certi che non metterà Gramellini nell’elenco. Né metterà lo stesso Travaglio, che l’altro giorno, intervistando il Pm palermitano Di Matteo, è riuscito a fare una sola domanda, formulata più o meno così: “Lei ha già risposto a tutte le domande che avrei voluto farle, prima ancora che io gliele facessi…”. Esempio sfrontato di giornalista guascone che non guarda in faccia all’intervistato. Del resto poco prima dell’intervista a Di Matteo, e nella stessa sede (gli stati generali sulla giustizia tenuti mercoledì scorso a Roma dal movimento 5 Stelle) una giornalista di Repubblica aveva dichiarato candidamente: «Non posso non unirmi, anche se non dovrei, all’ovazione per Davigo». Almeno lei ha aggiunto, sottovoce, quelle quattro paroline: «anche se non dovrei…». Naturalmente non ha nessun senso parlare di giornalismo di regime. Come non aveva senso farlo qualche anno fa, quando imperava Berlusconi, non lo ha neppure ora che impera Grillo. Però per chi fa il giornalista è giusto fare qualche attenzione al fenomeno. Il giornalismo italiano si sta piegando sempre di più alla cupola del giustizialismo. Gli spazi per i liberali e i garantisti sono diventati stretti stretti. Non è il caso di piangersi addosso, però non c’è ragione per nasconderlo.

25 anni fa la congiura che lo escluse da palazzo Chigi. Con una fuga di notizie infilzarono Craxi, scrive Francesco Damato il 10 giugno 2017 su "Il Dubbio". Dopo la strage di Capaci e l’elezione in 48 ore di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale, dove per quindici votazioni avevano inutilmente tentato di arrivare, con candidature formali o sotterranee, Arnaldo Forlani, Giulio Andreotti e persino il presidente uscente e dimissionario Francesco Cossiga, nulla fu più uguale sul piano politico. Terminato di comporre il suo staff al Quirinale il 4 giugno con la nomina del generale Paolo Scaramucci a consigliere militare, Scalfaro predispose le consultazioni per la formazione del nuovo governo: quello di esordio della legislatura nata con le elezioni del 5 e 6 aprile. Ma la prima sfilata delle delegazioni dei partiti davanti al capo dello Stato terminò il 10 giugno senza altro risultato che la constatazione di un clima politico irrespirabile, con veti e controveti all’interno e all’esterno della maggioranza uscente composta da democristiani, socialisti, socialdemoratici e liberali. Era una maggioranza peraltro troppo risicata per fronteggiare una difficile situazione economica e un’ancora più difficile situazione politica nel contesto delle indagini giudiziarie in corso a Milano su Tangentopoli. Scalfaro non riuscì a venirne a capo neppure moltiplicando le sue preghiere alla Madonna di Lourdes, dove peraltro si era proposto prima della imprevista elezione a capo dello Stato di recarsi in pellegrinaggio. Si scusò della rinuncia esortando gli organizzatori del viaggio a pregare anche perché lui venisse illuminato. In attesa di un secondo giro di consultazioni formali, il presidente della Repubblica vide o sentì privatamente un’infinità di amici, fra i quali i ministri uscenti dell’Interno e della Giustizia: il democristiano Enzo Scotti e il socialista Claudio Martelli, invitati insieme al Quirinale formalmente per discutere di un provvedimento in gestazione per intensificare la lotta alla mafia dopo la strage di Capaci. Ma il discorso scivolò subito sul tema della formazione del governo. Vuoi su sollecitazione di Scalfaro, come poi avrebbe raccontato Martelli, vuoi di iniziativa dei due ministri, il capo dello Stato ricavò l’impressione, a torto o a ragione, che fossero entrambi convinti di potere insieme tentare la formazione di un governo di decantazione, scambiandosi i ruoli di presidente e vice presidente, capace di guadagnarsi se non l’appoggio, almeno la benevola opposizione del Pds- ex Pci guidato da Achille Occhetto. Informato, non si è mai ben capito se dallo stesso Scalfaro, col quale aveva allora eccellenti rapporti, tanto da averne sostenuto con la solita baldanza l’elezione prima a presidente della Camera e poi a capo dello Stato, Marco Pannella confidò la cosa a Bettino Craxi. Che – convinto di avere ancora buone carte da giocare per tornare a Palazzo Chigi, da dove riteneva di essere stato allontanato malamente da Ciriaco De Mita nel 1987, con la storia di una staffetta con Andreotti prima promessa per l’ultimo anno della legislatura e poi negata – a sentire Pannella cadde dalle nuvole. Ma di brutto, perché se la prese subito con Martelli, essendo ancora convinto che Scalfaro gli fosse leale, come lo era stato al Ministero dell’Interno nei quattro anni di governo da lui presieduto: tanto leale non solo da avere rifiutato di prestarsi a fare il governo elettorale offertogli da De Mita, come ho già ricordato qui, ma anche da avere cercato e trovato una decina d’anni prima negli archivi del Viminale un documento da tutti negato in precedenza, ma utile alla difesa dei socialisti finiti sotto processo a Milano per gli attacchi ai pubblici ministeri che avevano indagato per l’assassinio di Walter Tobagi. Era un’informativa dei servizi segreti che nel 1980 aveva inutilmente segnalato il pericolo di un imminente agguato mortale delle brigate rosse al famoso giornalista del Corriere della Sera, peraltro amico personale del leader socialista. Notizia di quell’informativa era stata data personalmente a Craxi all’indomani dell’uccisione del povero Walter dal generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa. Craxi girò la confidenza di Pannella sull’incontro di Scotti e Martelli con Scalfaro al segretario della Dc Arnaldo Forlani, facendo cadere dalle nuvole pure lui. Ed entrambi si ripromisero di punire, diciamo così, i due giovani aspiranti alla guida del nuovo governo o non confermandoli ai loro posti o lasciandoli proprio fuori. Ma né l’uno né l’altro ebbero poi la voglia di raccontare come fossero veramente andate le cose, dopo molti anni, ai magistrati di Palermo che li interrogarono sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia della stagione stragista. Essi diedero agli inquirenti l’impressione di essere stati sacrificati perché contrari a quelle trattative, contribuendo così all’impianto accusatorio del processo contro mafiosi, generali e uomini politici ancora in corso a Palermo. Ma da cui è stato già assolto, avendo scelto il rito abbreviato, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, che pure era stato accusato di essere stato addirittura il promotore della trattativa per scongiurare una minaccia della mafia alla sua vita.

Non ci fu tuttavia soltanto l’incidente o l’equivoco della coppia Scotti- Martelli durante le consultazioni informali di Scalfaro per la formazione del nuovo governo. Ci fu anche, fra l’altro, una rovinosa fuga di notizie sui documenti pervenuti dalla Procura di Milano alla Camera, e assegnati subito alla giunta delle cosiddette autorizzazioni a procedere per Tangentopoli sul conto degli ex sindaci di Milano Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli, entrambi socialisti. Il “verde”, ed ex direttore del Manifesto, Mauro Paissan fu indicato, a torto o a ragione, come fonte di quella fuga con interpretazioni troppo estensive di alcune parti dei fascicoli, da cui avrebbe ricavato, come esponente dell’apposita giunta di Montecitorio, l’impressione di un coinvolgimento anche di Craxi nelle indagini chiamate Mani pulite. Ricordo ancora nitidamente quella giornata in cui le agenzie avevano inondato le redazioni dei giornali di lanci a dir poco allarmanti sulla posizione giudiziaria del segretario socialista ancora in corsa per il ritorno a Palazzo Chigi. Nelle prime ore del pomeriggio, tornando a piedi da casa alla redazione del Giorno, di cui ero direttore, incrociai per caso in Piazza della Scala Antonio Di Pietro, il magistrato ormai simbolo di quell’inchiesta che stava demolendo la cosiddetta prima Repubblica. Allontanata la scorta con un cenno di mano, “Tonino” mi disse che nelle carte partite da Milano per la Camera non c’erano elementi contro Craxi, di cui lui parlava volgendo lo sguardo verso la Galleria, cioè verso gli uffici milanesi del segretario del Psi. E mi preannunciò un comunicato della Procura, che in effetti fu diffuso dopo qualche ora per precisare che nulla risultava “allo stato” delle indagini contro Craxi. Il quale tuttavia il giorno dopo si trovò su tutte le prime pagine dei giornali ugualmente come uno ormai compromesso nell’inchiesta. Non ricordo se l’ho già riferito ai lettori del Dubbio in altre circostanze riferendo del biennio “terribile” 1992- 93, ma il clima nei giornali, ormai di tutte le tendenze, era tale che la sera di quel giorno mi telefonò l’amico Ugo Intini, portavoce di Craxi, per chiedermi come avessi deciso di uscire con la prima pagina del Giorno. Alla confidenza che sarei uscito col titolo sul comunicato di smentita diffuso dalla Procura, che ai miei occhi costituiva l’unica notizia certa della giornata rispetto a tutte le voci col condizionale diffuse dalle agenzie, Ugo mi chiese se poteva consigliare al comune amico Roberto Villetti, direttore dell’Avanti, di chiamarmi. Cosa che Villetti fece subito, ma non per consultarsi, come si aspettava il povero Intini, bensì per dissentire fermamente dal modo garantista in cui avevo deciso di titolare. Rimasi francamente di stucco. Neppure Scalfaro al Quirinale dovette rimanere convinto del comunicato della Procura milanese se volle parlarne direttamente col capo Francesco Saverio Borrelli, peraltro figlio di un suo vecchio collega ed amico. L’impressione che ne ricavò l’uomo del Colle fu di paura di mandare a Palazzo Chigi un “amico” – quale ancora egli considerava il suo ex presidente del Consiglio – destinato prima o dopo ad essere davvero coinvolto nelle indagini, come avvenne a fine anno con i primi avvisi di garanzia, e poi anche con richieste di arresto. Lo stesso Craxi mi raccontò di essersi sentito dire da Scalfaro all’incirca così: “Tu sai quanto ti stimi e ti voglia bene, ma è opportuno, anche nel tuo interesse, che tu faccia un passo indietro in questo momento. Dimmi tu stesso il nome di un socialista al quale io possa dare l’incarico”. E il 10 giugno, nel secondo ed ultimo giro di consultazioni, Craxi maturò la decisione del doloroso passo indietro. Che annunciò personalmente all’uscita dall’ufficio del capo dello Stato dicendo di avergli indicato “in un ordine non solo alfabetico” Giuliano Amato, già ministro con De Mita e suo sottosegretario a Palazzo Chigi, Gianni De Michelis e Claudio Martelli. La delegazione della Democrazia Cristiana, ricevuta per ultima, non ebbe così neppure la possibilità di proporre Craxi, contro la cui destinazione si erano già espressi nel partito alcuni esponenti, fra i quali De Mita, convinti che Palazzo Chigi spettasse ancora alla Dc, nonostante il ritorno di un democristiano al Quirinale dopo il movimentato settennato di Cossiga.

Pertanto fu Amato l’uomo al quale Scalfaro diede l’incarico, che fu espletato con una certa difficoltà, avendo impiegato il nuovo presidente del Consiglio una decina di giorni, sino al 28 giugno, per la definizione del programma e soprattutto della lista. Dove Scotti risultò spostato dal Viminale alla Farnesina, che formalmente era una promozione, da lui però rifiutata perché Forlani aveva deciso di sperimentare dentro la Dc la incompatibilità fra le cariche di ministro e di deputato o senatore. Scotti reclamò inutilmente una deroga per conservare il mandato parlamentare, che alla fine preferì alla guida della diplomazia italiana. Martelli invece entrò nella lista all’ultimo momento, dopo essere andato da Craxi, su suggerimento dello stesso Amato, per chiedergli di essere confermato al Ministero della Giustizia, come poi mi avrebbe raccontato lo stesso Craxi, per portare a termine il lavoro svolto col povero Giovanni Falcone, suo prezioso collaboratore sino alla morte – e che morte – come direttore degli affari penali del dicastero di via Arenula. E Craxi acconsentì, parendogli – mi disse – “una richiesta umanamente ragionevole”, lungi forse dall’immaginare che Martelli fosse destinato pure lui dopo qualche mese ad essere investito da Tangentopoli e costretto alle dimissioni. Comunque, Martelli fu l’ultimo ministro e il primo governo di Amato l’ultimo sul quale il leader socialista riuscì a dire la sua, perché di fatto in quel mese di giugno di 25 anni fa al falconicidio col sangue, preceduto dall’ostracismo in vita praticatogli da tanti colleghi, seguì il craxicidio senza sangue.

I rapporti di Craxi con Scalfaro rimasero buoni ancora per poco. Col procedere delle indagini e del linciaggio politico da cui pochi lo difesero, neppure quando subì il famoso lancio di monetine e insulti davanti all’albergo romano dove abitava, e donde usciva per andare ad una trasmissione televisiva dopo essere scampato a scrutinio segreto ad alcune, le più gravi, delle autorizzazioni a procedere chieste contro di lui dalla magistratura, il leader socialista si fece del presidente della Repubblica l’idea da lui stesso espressa in una serie di litografie raffiguranti falsi “extraterrestri”: finti inconsapevoli del finanziamento generalmente illegale della politica e delle forzature con le quali la magistratura aveva deciso di trattarlo. Oltre a Scalfaro, furono definiti extraterrestri anche Achille Occhetto, Eugenio Scalfari, Giorgio Napolitano e l’ormai compianto Giovanni Spadolini, la cui foto fu sostituita con un manifesto bianco listato a lutto. Craxi stesso mi raccontò nel suo rifugio di Hammamet di avere scritto più volte al presidente della Repubblica, anche come presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, contro gli eccessi che stavano compiendo i magistrati, ma di non avere mai ricevuto una risposta, né diretta né indiretta. Il Quirinale non lo considerò più degno di riconoscimento alcuno. Ci vollero del resto la morte di Craxi e l’arrivo sul colle più alto di Roma di Giorgio Napolitano perché un presidente della Repubblica parlasse di lui riconoscendone il servizio politico reso al Paese e lamentando, fra le solite proteste dei manettari in servizio permanente effettivo, irriducibili anche di fronte alla morte, “la severità senza uguali” con cui era stato trattato dalla magistratura. Proprio alla magistratura, vantando di averne fatto parte, Scalfaro nel suo discorso di insediamento, pronunciato il 28 maggio a Montecitorio, davanti alle Camere in seduta congiunta con la partecipazione dei delegati regionali, aveva chiesto “energia, serenità e perseveranza” parlando della “questione morale”. Di energia e perseveranza sicuramente i magistrati si dimostrarono capaci nei mesi e negli anni successivi. Di serenità, francamente, un po’ meno, nella sostanziale e incresciosa disattenzione proprio di chi l’aveva reclamata insediandosi al vertice dello Stato sull’onda peraltro di una strage neppure citata per luogo e per nomi nel discorso alle Camere, essendosi Scalfaro limitato a parlare di una “criminalità aggressiva e sanguinaria”, forse aiutata anche da qualche mano straniera. Di cui nessuno, a dire il vero, aveva avuto sentore a Capaci e dintorni.

Di Pietro inflessibile: «Totò Riina? Merita di finire i suoi giorni in carcere». A Cartabianca il duello con l’ex collega del pool Mani pulite Gherardo Colombo, scrive l'8 giugno 2017 "Primo Piano Molise”. Solo poche ore prima a Cartabianca su Rai3 Antonio Di Pietro aveva scandito e quasi urlato: «Riina ancora poche settimane fa andava in dibattimento, è capace di intendere e di volere e deve stare in galera per quello che ha fatto». Ieri mattina l’Ansa ha battuto questo lancio: «Totò Riina è collegato in videoconferenza dal carcere di Parma con il tribunale di Firenze dove poco fa si è aperta l’udienza per il processo davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Firenze per la strage del treno 904. Il boss, che segue l’udienza disteso su una barella, è imputato come mandante della strage che il 23 dicembre 1984 causò 16 morti e 260 feriti sul convoglio Napoli-Milano…». Nel programma di Bianca Berlinguer il duello fra Di Pietro e il suo ex collega nel pool di Mani Pulite Gherardo Colombo sul caso che sta infiammando il dibattito in Italia. Su ricorso dei difensori del boss di Cosa Nostra, che sta scontando l’ergastolo a Parma in regime di 41 bis, la Cassazione ha stabilito che il Tribunale di Sorveglianza di Bologna dovrà riesaminare la richiesta di scarcerazione per motivi di salute. Dovrà rimotivare il diniego espresso con l’ordinanza impugnata, fin qui gli ermellini. Anzi, non proprio. Perché i supremi giudici hanno riaffermato alcuni principi nella massima: il diritto a una morte dignitosa e il fatto che le condizioni di salute del capo dei capi gli impediscono di comandare ancora. In dettaglio, ferma restando l’altissima pericolosità del boss e del suo indiscusso spessore criminale, per i giudici ermellini il provvedimento non chiarisce come tale pericolosità possa e debba considerarsi “attuale” in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del più generale stato di decadimento fisico di Riina. Su Rai3 Colombo ha evidenziato l’aspetto dell’umanità della pena, principio cardine non solo della Costituzione ma anche dalla Carta universale dei diritti dell’uomo, e della dignità. Principi per la cui applicabilità non si può fare distinzione in base al caso concreto, ha evidenziato. Sulla pericolosità sociale effettiva, il primo match con Di Pietro. Da valutare per Colombo, come pure lo stato di salute. «Che c’azzecca», ha replicato invece Di Pietro, secondo il quale la pericolosità sociale va appurata in caso di misure cautelari e non di pene definitive. «È tanto tempo che fai altro – la stoccata di Colombo – e magari non lo ricordi, ma l’articolo 147 del codice di procedura penale dice che è consentita l’esecuzione differita della pena quando una persona si trovi in gravi condizioni di salute. Le regole sono regole, se facciamo finta che non ci siano quando non ci piacciono…». È consentita, la replica dell’ex ministro molisano, ma «non è necessaria di fronte a un criminale di tale spessore». E poi Riina «non si è pentito, non ha chiesto perdona, non intende tornare indietro su quello che ha fatto, è una persona che merita di finire dignitosamente in un ospedale, in una struttura carceraria diversa da Parma». Di Pietro, inoltre, non crede al fatto che non sia più pericoloso. «Fino a un anno fa è stata ripresa la sua voce che minacciava ancora. Ed allora è bene che finisca lì i suoi giorni. Una cosa è la dignità, altra cosa è rimetterlo in libertà per la dignità. Anche Provenzano è morto in carcere». Anche nel pool discutevano così? Di Pietro: «Le posso assicurare di sì con Davigo che si metteva in mezzo e dava torto a tutti e due…». Chi ha vinto il duello? Di Pietro: 64% contro il 36 di consenso per le posizioni di Colombo.

Colombo vs Di Pietro, tornano i «Ragazzi irresistibili» di Mani Pulite. Mentre Sky trasmette la serie 1993, a Cartabianca i due ex pm che di quella stagione sono i simboli duellano su Riina come in una sitcom di successo. Raitre potrebbe puntare su di loro per elaborare il lutto di Gazebo, scrive Lia Celi l'8 giugno 2017 su "Lettera 43". Ai tempi di Hegel la Storia si presentava prima come tragedia poi come farsa. Ai tempi di Sky e Netflix, la scelta di generi in cui la Storia può presentarsi è molto più ampia, specchio di un pubblico ben più esigente e raffinato. Recentemente, per esempio, la Storia si è presentata in tivù prima come serie drammatica e poi come sitcom: nel giro di pochi giorni abbiamo visto su Sky Atlantic 1993, lo sceneggiato che rievoca gli eventi dell’annus horribilis delle stragi mafiose e della discesa in campo di Berlusconi e, a Cartabianca su Raitre, la reunion della coppia Antonio Di Pietro-Gherardo Colombo, i dioscuri togati del pool Mani Pulite evocato in 1993, impegnati in quello che speriamo sia solo il promo di una serie comico-brillante in programma per la prossima stagione. Lo spunto è preso di peso dai Ragazzi irresistibili, un classico della commedia portato sugli schermi da Walter Matthau e George Burns: due vecchi colleghi-rivali sulla scena, incanutiti e spelacchiati, si ritrovano in uno studio televisivo per riproporre il vecchio sketch dei due giudici. Ed è subito scontro di caratteri, Colombo bisbetico e rancoroso come Matthau e Di Pietro finto-condiscendente come Burns. Il tema era la sorte di Totò Riina dopo la sentenza della Cassazione sul suo diritto a una morte dignitosa. Colombo, dopo avere scaldato i motori brontolando con Bianca Berlinguer per il ritardo nel collegamento, ha bisticciato con l’ex compagno di Pool: lui, austero e garantista, citava la Costituzione che prescrive umanità e dignità nel trattamento dei detenuti, mentre Di Pietro dietro il sorriso placido è ancora il babau con le manette in tasca che 25 anni fa teneva sulla scrivania del suo ufficio Delitto e castigo per intimidire gli indagati. Scintille e frecciate, ma tempi comici perfetti, con Bianca Berlinguer nel ruolo di spalla e il pubblico con i lucciconi nel rivedere insieme i supereroi senza macchia e senza paura della sua giovinezza, anche in versione vecchietti stizzosi. Dopo la fuga di Gazebo, Raitre ha un disperato bisogno di idee per nuovi programmi, di format stimolanti e di qualità in grado di ricondurre all’ovile generalista il gregge di spettatori disperso fra mille canali: una sitcom con Di Pietro-Colombo-Berlinguer farebbe uno share che Zoro se lo sogna. Per non parlare di Cartabianca.

Gherardo e Tonino, il pensatore e il poliziotto, scrive Paolo Delgado l'8 giugno 2017 su "Il Dubbio". Un solo pool (Mani Pulite), due concezioni opposte della giustizia: riflessivo, schivo e un po’ nell’ombra il primo, impulsivo, istrionico e pittoresco il secondo. Quando il pool Mani pulite era la squadra più popolare e amata d’Italia Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo ne incarnavano le polarità opposte. Impulsivo, istrionico e pittoresco il primo, riflessivo, schivo e un po’ nell’ombra il secondo. Solo a vederli passare nei corridoi del palazzo di giustizia di Milano, seguiti da una ressa di cronisti senza precedenti, si coglievano al volo i segni delle diverse biografie. Da una parte l’ex ragazzo di Montenero di Bisaccia emigrato in Germania, poi poliziotto, approdato infine in una magistratura ancora marcata da una precisa impronta di classe, che lo considerava quasi un intruso. Dall’altro il ragazzo di buona famiglia di Briosco, con alle spalle il percorso canonico: liceo classico, laurea in Giurisprudenza alla Cattolica, cursus honorum in magistratura. Di Pietro, con la sua inflessione dialettale che aveva saputo rovesciare trasformando una potenziale debolezza in marchio personale, sembrava un alto funzionario di polizia. Colombo, spesso in maglietta, sempre spettinato, una specie di eterno studente. Ma non di quelli sprovveduti. Quando nella primavera del 1992 il procuratore Borrelli decise di affiancarlo a Di Pietro nell’interrogatorio di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, aveva già alle spalle un’inchiesta di quelle che fanno storia: la P2 e il delitto Ambrosoli. Chiesa era il capo di una fune che i magistrati milanesi avrebbero seguito sino ad addentrarsi nel labirinto di Tangentopoli. Se nel pool c’erano divisioni nessuno se ne accorse. Ma la differenza di approccio era lo stesso chiara. Di Pietro era un mastino che dava la caccia ai presunti colpevoli usando ogni mezzo, inclusa una notevole astuzia, ma senza preoccuparsi troppo di scandagliare il fenomeno in profondità. Colombo già alla fine del ‘ 92 aveva capito che di un fenomeno così esteso e pervasivo non sarebbe stato possibile venirne davvero a capo solo con gli arresti e i processi. Fu lui a insistere per la proposta di ‘ soluzione politica’ avanzata poi dall’intero pool: una sorta di condono in cambio dell’ammissione di responsabilità. Sarebbe stata un modo per far emergere anche tutto quel versante del sistema delle tangenti che, come avrebbe poi ammesso lo stesso Di Pietro, rimase sostanzialmente impunito, il fronte non dei corrotti ma dei corruttori. Vent’anni dopo, tracciando un bilancio, Colombo era più che mai convinto che quelle indagini non fossero servite a molto «dal punto di vista giudiziario» e che anzi fossero state «paradossalmente un danno». Mani Pulite, a suo parere, era stata sì fondamentale ma su un altro fronte, quello dell’informazione, perché aveva messo a nudo e reso noto al Paese l’esistenza di un vero e proprio sistema. Dopo Tangentopoli Colombo ha continuato per oltre un decennio a investigare sulla corruzione. Si è occupato del processo Imi/ Sir, del lodo Mondadori e dell’intervento di Previti in quella vicenda, affrontata corrompendo i giudici. Nel 2005 è diventato Consigliere presso la Cassazione ma meno di due anni dopo, con quasi 15 anni di anticipo sulla pensione, ha scelto di lasciare la magistratura. Forse lo avrebbe fatto anche prima se non avesse scelto di aspettare l’esito di tutti i casi in cui era stato coinvolto, o per procedimenti disciplinari o per imputazioni varie. Ne è uscito sempre assolto e anzi uno di questi processi, la causa per calunnia intentata contro Licio Gelli, gli ha fruttato un cospicuo risarcimento in oro da parte dell’ex venerabile subito devoluto alle nonne argentine di Plaza de Mayo e ai familiari delle vittime della strage di Bologna. Colombo ha lasciato la toga, non ha dimenticato i nodi della Giustizia. Ha continuato a occuparsene scrivendo libri, incontrando gli studenti di innumerevoli scuole, e il tema è rimasto al centro delle sue riflessioni anche quando è diventato presidente della Garzanti e poi membro del cda Rai. Perché il giudice Colombo, a differenza di troppi altri magistrati, non ha mai inteso la giustizia solo come un’eterna caccia al colpevole. Si è interrogato invece sulla funzione della pena, sulla cultura diffusa che vede nella pena una sorta di vendetta. Le conclusioni a cui è arrivato sono radicali: «Ero uno che mandava le persone in prigione convinto che fosse utile. Ma da oltre 15 anni ho iniziato un percorso che mi porta a ritenere errata quella convinzione. I penitenziari sono inefficaci, se non dannosi per la società. Anziché aumentare la sicurezza, la diminuiscono». Alla concezione attuale della giustizia, che considera «retributiva», basata cioè sul retribuire i danneggiati con la sofferenza di chi ha provocato il danno, suggerisce di sostituire una visione invece «riparativa», fondata sul compensare la vittima e allo stesso tempo sul rendere il colpevole cosciente della propria responsabilità. Idee che, nell’Italia quale emerge dalle reazioni alla sentenza della Cassazione su Riina, devono sembrare più o meno come deliri. La differenza emersa nel corso di Cartabianca tra lui e l’ex compagno di pool Di Pietro a proposito dell’eventuale concezione dei domiciliari a Riina non è tra due diverse idee del rispetto delle garanzie e tanto meno tra  buonismo e severità ma tra due concezioni della giustizia. In termini etici e forse ancora di più di efficacia reale.

Filippo Facci per Libero Quotidiano l'8 giugno 2017. Che cosa li teneva insieme, all'epoca? Magari la scena l'avete vista, l'altra sera: Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo che battibeccano in tv a "Cartabianca" su Raitre (l'argomento non conta) con Di Pietro a ricordare che in realtà "litigavano anche allora" (durante Mani pulite) e che a fare da paciere era uno come Piercamillo Davigo, figurarsi. Bene, come non intravederci una metafora di Mani pulite? Meglio: come non chiedersi che cosa unisse personaggi così diversi, se non una cieca determinazione nel puntare l'avversario attraverso quelle guerre lampo che Francesco Saverio Borrelli, il capo della procura, definiva "Blitzkrieg"? Avversario che, dapprima, poteva essere Craxi e il Psi, poi l'intera Dc che si sciolse assieme ai vecchi partiti, poi imprenditori selezionati modello Gardini, infine e soprattutto Silvio Berlusconi. Lo schema può sembrare tirato per i capelli, ma a vedere quei due tizi canuti e spazientiti che bisticciavano, l'altra sera, veniva proprio da chiederselo: potrebbero mai lavorare insieme, due così? Che cosa potrebbe unirli? Che cosa li teneva insieme? La risposta risiede nella più formidabile coalizione che l'Italia del Dopoguerra possa ricordare: quella contro Berlusconi. Per il resto, agli albori di Mani pulite, nel 1992, il primo ad avere dubbi su Di Pietro fu proprio Gherardo Colombo, archetipo dell'intellettuale appartenente a una sinistra esistenziale in cui i migliori dovessero sbaragliare prima o poi i peggiori. Era, lui, quello dello scandalo dei fondi neri Iri e della P2, svagato, i jeans stinti, la Lacoste, le scarpe da vela consumate, la pipa e poi le sigarette, il circolo Società civile, oltre a una fisiologica repulsione per i magistrati traffichini e invischiati col potere: chiaro che Di Pietro non gli piaceva. All'alba di Mani pulite, Colombo non voleva saperne di Di Pietro, no: il molisano aveva la fama che aveva e comunque sperava che gli potessero affiancare Piercamillo Davigo, che aveva già conosciuto. Borrelli, dapprima, preferì Colombo anche per controllare meglio Di Pietro, per quanto Colombo, appunto, si fosse mostrato perplesso. Di Pietro aveva ricambiato i dubbi, peraltro. Ma Davigo, tempo un paio di mesi, arriverà lo stesso, e troveranno un accordo come Di Pietro annoterà in un suo libro: «Io andavo da Davigo o da Colombo e segnalavo un'operazione che mi puzzava. "Vedi che cosa è successo qui? Questo secondo me è un reato di porcata... Cari Davigo e Colombo, dicevo, cavoli vostri, entro domattina trovate una soluzione che dal punto di vista giuridico non faccia una piega, perchè devo procedere"». Voglio metterlo dentro: il modo trovatelo voi. Sta di fatto che Colombo potè occuparsi in prevalenza di quelle rogatorie internazionali che tanto l' appassionavano, ma non solo: il suo ruolo sarà essenziale nello stilare la legislazione materiale di Mani pulite, quel rito ambrosiano fatto di carcere facile, libertà per chi confessa e incolpa altri, patteggiamenti come regola, verbali utilizzati come fonti di prova, benedizione di un nuovo Codice ormai ridotto a brandelli e contro il quale, non a caso, sia lui che Davigo dapprima si erano detti contrari. Insomma, si divisero i ruoli. Davigo, finché furono previste, perdette tutto il suo tempo a stilare richieste di autorizzazione a procedere per parlamentari. Quando il Parlamento tentò di varare il decreto Biondi per limitare le carcerazioni (estate 1994) Colombo fu in prima fila nel redigere il documento che poi Di Pietro, il testimonial ufficiale del gruppo, lesse davanti alle telecamere. Poi finì come finì: la sinistra venne recepita come "salvata", la missione salvifica dei magistrati milanesi si riversò a collo di bottiglia verso quel Silvio Berlusconi verso cui tanti italiani (molti più del previsto) avevano deciso di riporre nuove speranze. Per dirla con Di Pietro: l'acqua non arrivò più al mulino. E l'acqua era il carcere, l'uso smodato del carcere come strumento d' indagine. Mani pulite finì: e i caratteri, le velleità e le differenze tornarono a stagliarsi. Di Pietro col suo giro politico dell'oca, le sue ambiguità che in breve gli bruciarono quasi tutti i consensi. Colombo e Davigo a ricominciare da dov' erano rimasti, ma dall' alto di un potere togato incredibilmente accresciuto. Le carriere si divisero. Solo l'avversario rimase identico.

Storia dell’amnistia da Togliatti ai giorni di Tangentopoli, scrive Massimo Lensi il 14 Aprile 2017 su "Il Dubbio". La chiedevano i Papi, ci aiutò a uscire dal fascismo, Marco Pannella ne ha fatto per anni il suo campo di battaglia, ma dopo Mani Pulite è scomparsa dall’orizzonte politico e culturale italiano. A Pasqua si terrà a Roma la Quinta marcia per l’Amnistia, organizzata dal Partito Radicale. Marco Pannella coniò un’efficace espressione per spiegare l’importanza della clemenza. Egli la invocava per la Repubblica, per rientrare nella legalità e porre fine alle violazioni della Costituzione nella gestione del sistema penitenziario, nella durata dei processi, nell’utilizzo della prescrizione nascosta conseguente all’applicazione discrezionale dell’obbligatorietà dell’azione penale da parte dei magistrati. “Amnistia per la Repubblica” era lo slogan di Pannella. La storia dei provvedimenti di clemenza di un Paese racconta, infatti, più cose di quanto si possa immaginare. L’amnistia e l’indulto – a volte anche il provvedimento di grazia – sono atti politici a tutto tondo. La clemenza porta sempre con sé un’attenzione particolare ai rapporti tra Stato e magistratura, tra esecuzione della pena e reinserimento sociale, tra eventi di particolare rilievo e opinione pubblica, ed è accompagnata sempre da una tendenza a un particolare intento di riscrittura della storia, riscontrabile nei dispositivi legislativi: accertare la verità, farla dimenticare o renderla del tutto illeggibile. Stéphane Gacon nel suo libro “L’Amnistie” (2002) classificava la clemenza di Stato in tre tipologie differenti: l’amnistia perdono, atto di generosità tipico dei regimi totalitari; l’amnistia- rifondazione, che interviene per riunificare un Paese diviso; l’amnistia- riconciliazione che segue la fine dei regimi dittatoriali. L’Italia repubblicana ha concesso una trentina di provvedimenti di clemenza, tra amnistie e indulti. L’ultima amnistia è del 1990, mentre nel 2006 fu approvato l’ultimo indulto. Terminate le drammatiche vicende politiche e militari che portarono alla caduta del regime fascista, lo strumento dell’amnistia fu utilizzato tra il 1944 e il 1948 per vanificare la vigenza della normativa penale del regime, il codice Rocco, nei confronti dei delitti politici commessi durante la Resistenza, o nel periodo successivo. E’ interessante notare come, all’epoca, il tentativo del legislatore fu di chiudere con il periodo dittatoriale e la sua legislazione penale, al fine di far nascere lo stato “nuovo” e far sì che questo trovasse in sé la propria legittimità giuridica e non nelle leggi dello Stato precedente. Un tentativo che, però, rimase tale. Per Piero Calamandrei, infatti, mancò sul terreno giuridico della forma “lo stabile riconoscimento della nuova legalità uscita dalla Rivoluzione”. Ed è altrettanto vero che i provvedimenti di amnistia di quel periodo ebbero in comune una natura delegittimante nei confronti della Resistenza, in quanto le azioni commesse durante la lotta antifascista vennero considerate alla stregua di reati comuni, anche se motivati da eccezionali contingenze. Si restava a tutti gli effetti all’interno del recinto dell’art. 8 del codice penale, che definisce come delitto politico: “ogni delitto, che offende un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino. È altresì considerato politico il delitto comune determinato in tutto o in parte da motivi politici”. Il decreto presidenziale n. 4/ 1946, conosciuto con il nome di “amnistia Togliatti”, all’epoca guardasigilli della Repubblica, tentò di consegnare all’oblio non solo i reati connessi all’attività partigiana, ma anche i reati legati alla collaborazione con l’esercito tedesco di occupazione, pur con numerose eccezioni e sollevando numerose polemiche. L’uomo dalla stilografica con l’inchiostro verde (cioè Togliatti) scommise sul futuro per mettere fine a un possibile ciclo di rese dei conti, ma fu accusato, in nome della sua proverbiale “doppiezza”, di aver aperto le porte del carcere ai fascisti e ai repubblichini imprigionati subito dopo la Liberazione. Sta di fatto che, forse anche a causa di un’interpretazione distorta del testo del decreto (scritto, invero, con un linguaggio giuridico assai poco limpido), tra i 7061 amnistiati, 153 erano partigiani, e 6.908 fascisti. Negli anni ’ 50 e ’ 60 i provvedimenti di clemenza furono nove, di cui cinque strettamente connessi sia a fatti politici legati alla scia lunga del dopo- guerra, sia ai movimenti della fine degli anni ’60, con l’attribuzione di reati commessi in occasione di agitazioni e manifestazioni studentesche e sindacali (amnistia del ’ 68). Tutti e cinque questi provvedimenti comportarono la concessione sia di amnistia, sia di indulto. Il primo fu nel 1953 (7.833 amnistiati) e l’ultimo nel 1970 (11.961 amnistiati); gli altri furono concessi nel 1959 (7.084 amnistiati), nel 1966 (11.982 amnistiati) e nel 1968 (315 amnistiati). Dopo il 1970 non ci furono più amnistie per fatti politici. L’amnistia del ’ 68 fu particolarmente importante perché ebbe come oggetto esclusivamente reati politici e sociali. Il senatore Tristano Codignola del Partito Socialista nel presentare il provvedimento al Senato disse: “Appare quindi evidente che, nell’interesse stesso della democrazia, nell’accezione aperta e progressiva voluta dalla nostra Costituzione, occorre procedere di pari passo alla realizzazione di profonde riforme strutturali e alla creazione di un clima maggiormente democratico ed antiautoritario nel Paese”. Con l’amnistia del ’ 68, si chiuse finalmente il ciclo legato alla guerra di Liberazione, si aprì però il capitolo che precedette gli anni di piombo. E per la prima volta nel 1970 fecero capolino nell’amnistia il riferimento ai reati in materia tributaria e nell’indulto il riferimento a reati in materia di dogane, di imposta di fabbricazione e di monopolio. La giovane Italia del primo dopo- guerra diventava maggiorenne e i reati comuni, al posto di quelli politici, iniziarono a catturare sempre più l’attenzione del legislatore: un’attenzione che, come vedremo, costerà cara. Nel 1982 e 1983 furono approvati due provvedimenti di sola amnistia ed esclusivamente per reati finanziari. Il clima iniziò a farsi pesante e il parlamento venne accusato di difendere corrotti e concussi tanto che, dopo qualche anno, il 6 marzo del 1992, il Parlamento operò una revisione costituzionale modificando profondamente la ratio dell’articolo 79 della Costituzione in materia di concessione di amnistia e indulto. Nel testo voluto dai Padri Costituenti amnistia e indulto erano concessi dal Presidente della Repubblica, previa legge di delegazione da parte delle Camere, approvata a maggioranza semplice. La modifica introdotta nel 1992 fece sì che questi provvedimenti di clemenza potessero essere concessi solo con una legge deliberata in ogni articolo e nella votazione finale dalla maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. L’innalzamento del quorum necessario all’approvazione del provvedimento fu deciso sull’onda dell’emotività suscitata nella piazza dallo scandalo di “Mani Pulite” per evitare il ripetersi di amnistie “concesse a cuor leggero”. Erano i tempi del lancio delle monetine davanti all’Hotel Raphael e la piazza esigeva una svolta nel rispetto della penalità. Fu in quel periodo che prese il via una prima trasformazione dei modelli istituzionali che lentamente portò al trasferimento dei sistemi di controllo sociale dalle forme di protezione a quelle della punizione. La grande crisi economica degli anni successivi portò a compimento questa operazione di trasformazione. L’insicurezza sociale che ne è scaturita si è, infatti, rivolta al sistema penale, nella forma dell’esercizio delle funzioni repressive. Il numero dei reati inseriti del codice penale ha continuato a crescere insieme alla domanda di penalità, portando in pochi anni a raddoppiare il numero di detenuti delle carceri italiane: dai 30mila degli anni Novanta ai quasi 60mila dei nostri giorni. Il mutamento delle relazioni sociali e di potere e il tramonto di un certo tipo di welfare hanno condannato qualsiasi progetto di amnistia in fondo al cassetto delle priorità. Le carceri italiane hanno così cominciato a conoscere il sistematico sovraffollamento e i trattamenti inumani e degradanti riservati alla popolazione detenuta. A ben vedere, quindi, la richiesta di amnistia (e indulto) sostenuta con forza dal Partito Radicale non è per un provvedimento clemenza. Quella che si chiede non è la amnistia- amnesia; è, invece, la richiesta di una amnistia politica per porre fine al sovraffollamento cronico e inumano delle nostre carceri e alla intollerabile lentezza dei processi, che hanno fatto meritare allo stato italiano plurime condanne dalle Corti europee. In altre parole, un’amnistia per porre le radici di una Giustizia (più) Giusta.

"I conti con Craxi", colloqui inediti con l'ultimo Bettino. La giornalista Paola Sacchi ha raccolto in un libro le conversazioni informali tenute con l'ex premier a fine Anni 90. Lettera 43 ne anticipa un estratto il 21 marzo 2017. Conversazioni informali, raccolte a fine Anni 90 per una intervista che non sarà mai pubblicata. Da una parte Bettino Craxi, dall'altra Paola Sacchi, allora giovane firma dell'Unità. Di quei colloqui inediti ora la giornalista ha fatto un libro, I conti con Craxi (Male edizioni, prefazione di Stefania Craxi, 2017). Lettera43.it ne anticipa di seguito l'introduzione. Bettino Craxi è tornato di moda. Se ne riparla, se ne riscrive sempre più frequentemente. Per tentare di avviare qualche timida e un po’ imbarazzata riabilitazione (termine che lui non amerebbe) o per «condannarlo» ancora e ancora, a 25 anni da Mani pulite. Ma è un fatto che l’Italia si trovi sempre più a fare i conti politici e storici con la figura di Craxi, la cui ombra si allunga ogni volta da Hammamet, per un verso o per l’altro, incombendo sulla nostra politica. Sta cadendo davvero il muro del tabù di «Bettino» e almeno per il ventennale della sua drammatica morte lontano dall’Italia ci sarà «Via Craxi» nella sua Milano? Qualcosa sembra si sia incominciato a muovere. Prima ancora che dal calvario giudiziario, la sua fine fu decretata sul piano politico dalla prevalente area catto-comunista che a sinistra mise fuori dai giochi il Psi craxiano. Certo, Craxi, come tutti i leader politici, e tutti gli esseri umani, commise anche errori, come lui stesso, del resto, ammise nello storico discorso del 3 luglio 1992. Così sfidò, lasciandola ammutolita, l’intera classe dirigente: «Buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». Nessuno si alzò. Alla fine rimase lui, con la sua impressionante sfilza di condanne a oltre vent’anni, di fatto agli occhi degli italiani l’unico «colpevole». Percepito però in parti crescenti dell’opinione pubblica come il capro espiatorio. Questo libro riporta il bilancio, che Craxi fece ad Hammamet, a quattr’occhi con me, una giornalista ex comunista, in diversi informali colloqui nelle estati dal 1997 al 1999, della sua vicenda politica, a cominciare dalla svolta che impresse al Psi agonizzante, quando ne divenne segretario, fino a quel duello a sinistra con il Pci che terminò con l’eliminazione del Psi e del suo leader. Una fine politica sulla quale trovò terreno fertile lo tsunami giudiziario. Un epilogo violento, a proposito del quale chiesi a Craxi se anche lui avesse qualche responsabilità sul piano della strategia politica. Osai anche fargli la fatidica domanda nella quale riportavo, pur certo senza avallarla, l’accusa che lo feriva di più e cioè quella sui presunti arricchimenti personali. Cosa definita falsa dallo stesso giudice Gerardo D’Ambrosio, tra i protagonisti del pool di «Mani pulite». Questo libro non ha alcuna pretesa di essere un saggio sulla mancata unità a sinistra. Ma racconta come Craxi rivedeva da Hammamet la sua parabola politica in quei colloqui, in gran parte raccolti nell’intervista postuma pubblicata quattro anni fa in due parti da Panorama.it (versione online del news magazine diretto da Giorgio Mulè). Ci sono anche giudizi da preveggente su dove sarebbe andato a parare il nostro Paese. A me disse secco: «Finirete in miseria…». E in forma più compiuta ecco in sintesi il giudizio sull’ingresso in Europa, riportato nel volume Io parlo e continuerò a parlare (Mondadori) curato da Andrea Spiri: «Senza una nuova trattativa e nuove condizioni sarà un inferno e non il paradiso terrestre». In questo libro riporto anche spaccati della vita dei suoi giorni da esiliato. Sul duello a sinistra la storia ha dato ragione a Craxi. Ma lui creando la vera sinistra moderna e innovatrice, quella di «Meriti e bisogni», ha avuto un po’ come il destino beffardo di un giornalista che ha fatto troppo in anticipo uno storico scoop di cui hanno cercato poi di impossessarsi i concorrenti, spacciandolo per proprio. I concorrenti agguerritissimi furono i comunisti che poi, in una infinita e macchinosa sequela di trasformazioni di nomi e di simboli, cercarono di presentarsi come socialisti al posto di Craxi. E si allearono con la sinistra della Dc, cassando il Psi. Ostracizzato, disonorato in Patria, laggiù, in Africa, incominciò lentamente a morire. Ragionava da statista, ma si percepiva benissimo quale profondo, indicibile dolore lo attanagliasse. C’era un odio nei confronti di «Bettino» che talvolta rasentava la ferocia. Da ex giornalista dell’Unità ho ancora nelle orecchie l’eco di certi applausi alle riunioni di redazione con i quali si accompagnava la pioggia di avvisi di garanzia a colui che veniva chiamato in modo ironico «il compagno», per dire che lui «compagno» non era. Ma che appunto secondo il loro modo di vedere questa patente la potevano avere solo i comunisti. Lo stesso ex premier inglese Tony Blair, tuttavia, per il decennale della morte dell’ex premier e leader socialista, onestamente riconobbe di aver tratto dall’elaborazione craxiana molti spunti per il suo New Labour. Se Craxi è tornato ora di moda, non era, invece, per niente di moda andare negli anni del suo esilio ad incontrarlo ad Hammamet. Ostracizzato, disonorato in Patria, laggiù, in Africa, incominciò lentamente a morire. Ragionava da statista, sempre preoccupato per le sorti della sua Italia lontana, da politico a tutto tondo, quale era sempre stato. Ma si percepiva benissimo, tra le sue celebri pause, quale profondo, indicibile dolore lo attanagliasse. Ce ne è voluto per abbattere quel gigante alto un metro e novanta, l’anticomunista, della sinistra moderna, in jeans, con i quali si presentò in tutta fretta nel 1979 al Quirinale, per ricevere il primo mandato esplorativo da presidente del Consiglio. Fu poi nel 1983 che per la prima volta i post-fascisti del Msi furono ammessi alle consultazioni. Francesco Damato, ex direttore del Giorno, previde che il governo Craxi non avrebbe ballato una sola estate. Ce ne è voluto per affondare l’uomo che, come ricorda una sua compagna di scuola (Adesso Craxi di Italo Pietra, Rizzoli 1990) «aveva qualcosa di singolare nel muovere gli occhi: era una specie di lentezza e qualcosa di imponente». Lo stesso carisma aveva conservato quando con le dita laterali dei piedi in parte amputate, a causa del diabete, si presentava sulla terrazza dell’Hotel Sheraton. A dispetto di come lo descriveva la vulgata giustizialista, Craxi, che come tutte le persone schiette aveva un carattere deciso e diretto, non accomodante, era di modi signorili, eleganti, contraddistinti da grande attenzione per l’umanità che gli si presentava davanti. La sera prima che me ne andassi, purtroppo senza l’intervista, a fine agosto del 1997, mi mandò dall’autista Marcello in dono una serie di litografie e serigrafie con le quali esprimeva la sua vena artistica. In una di queste era raffigurato il suo passaporto di rappresentante personale del segretario dell’Onu per la pace e lo sviluppo. Il suo rapporto sul debito del terzo mondo fu approvato dall’assemblea generale della Nazioni Unite. Il suo pensiero costante sulla necessità del dialogo nel Mediterraneo era il filo rosso di altre sue opere artistiche. Altre erano dedicate al Cile e al ricordo dell’amicizia con il presidente Allende. Ce ne era una dal titolo Adios General sulla caduta del dittatore Pinochet. Nel ’73 Craxi, vicesegretario del Psi, a pochi giorni dal golpe militare, rischiò la vita avventurandosi con una sparuta delegazione sulla tomba di Allende. Fu l’unico che osò farlo. I «carabineros», come ricorda Stefania Craxi in un articolo su Il Giornale di qualche mese fa, gli intimarono: «Un paso mas y tiro». Nei ragionamenti andava sempre al sodo. E lo faceva non solo sulla politica ma un po’ su tutti gli argomenti. Quando Lady Diana morì nella notte del 31 agosto ’97, prima di partire da Hammamet telefonai a Craxi per salutarlo e ringraziarlo delle litografie. Non mi fece neppure finire e, non avendo ancora visto la tv, mi chiese a bruciapelo interrompendomi: «…sì, sì ma si è capita la dinamica dell’incidente?». Andò dritto a quella che è ancora rimasta la domanda delle domande sull’ultima sera di Lady D, che aveva conosciuto da presidente del Consiglio. E affettuoso commentò: «Povera figlia…». Ripensando all’imponente curriculum politico e istituzionale dello statista Craxi, che fu anche vicepresidente dell’Internazionale socialista, provai, parlandoci a quattr’occhi nei giorni dell’esilio, un sentimento di doloroso imbarazzo come italiana. Quel gigante, anche sul piano politico, vestito con la sahariana a una delle mie prime domande sulla sua storia mi rispose spiazzandomi: «Sai, ci penso e ripenso e a volte quasi mi chiedo: ma ero io quello?». Lo stesso sentimento di doloroso imbarazzo come italiana lo riprovo scrivendo di lui e di quei giorni. Perché non si «uccidono» così gli statisti.

Il medico di Bettino Craxi: "Vi racconto la sua morte". L'ex presidente del consiglio è deceduto a Tunisi il 19 gennaio 2000 a causa di un arresto cardiaco, scrive Marta Proietti, Venerdì 20/01/2017, su "Il Giornale". Dalle pagine di Libero, Melania Rizzoli, la prima a vedere Bettino Craxi morto, racconta quei momenti. "È morto! È mortoo.... La voce singhiozzante di Scilla, moglie di Bobo Craxi, mi arriva al telefono verso le 18 per annunciarmi la morte di Bettino. Lei è stravolta, mi dice che il suocero era stato trovato senza vita nel suo letto nella casa di Hammamet e mi informava che, essendo loro due a Roma, si stavano organizzando per raggiungerlo quella sera stessa, chiedendomi di partire insieme". Il medico personale di Craxi, nonché amica di famiglia, racconta che, al momento della morte dell'ex presidente del consiglio, nella dimora tunisina c'erano solo due persone di servizio e la figlia Stefania, mentre la moglie Anna era un aereo diretto a Parigi per un breve soggiorno di tre giorni. "Scilla mi comunicò anche che Bobo non voleva far uscire subito la notizia della morte del padre perché sua madre in quel momento si trovava sul volo Air France, ignara della tragedia avvenuta, e che stava cercando di contattare Angela, un'amica di famiglia residente a Parigi, perché si recasse all'aeroporto De Gaulle per accogliere al gate Anna, informarla a voce dell'accaduto e accompagnarla indietro nel suo triste viaggio di ritorno a Tunisi". Melania racconta gli ultimi istanti di vita di Craxi: "Quel pomeriggio Bettino aveva salutato la moglie in partenza, per poi andare a riposare nella sua stanza verso le 14.30, e quando alle 17.30 il cameriere, non vedendolo uscire, aveva bussato alla sua porta con il vassoio del thé alla menta, non ricevendo alcuna risposta, era entrato trovandolo senza vita sul letto. Bettino era morto circa due ore prima, in solitudine, probabilmente accusando un malore, poiché aveva il pappagallo sul letto, e lui era riverso su un fianco, come in procinto di scendere dal letto, ma era stato colpito da un arresto cardiaco fulminante, che gli aveva spezzato il fiato e la voce, e non gli aveva dato scampo, né il tempo e la forza per chiamare e chiedere aiuto". La figlia Stefania, che si trovava in casa, decise di non voler vedere il padre morto e chiese fosse portato nella clinica dove era abitualmente curato, perché era angosciata dal pensiero di vegliarlo da sola in casa nella notte imminente. La sua richiesta fu accolta. Il desiderio della moglie Scilla di non divulgare la notizia prima di aver avvertito la madre non fu invece rispettata: "La notizia della morte di Bettino quel 19 gennaio comunque uscì quasi subito sulle agenzie e sui telegiornali, mentre la moglie Anna si trovava ancora in volo, e quella sera stessa, quando Bobo, Scilla e io arrivammo nella clinica dove lui era stato portato, fummo i primi a vederlo morto". Continua il medico di famiglia: "Lo trovammo al piano terra di un locale freddo e disadorno della clinica tunisina, illuminato da una luce fioca, dove aleggiava il silenzio e il fetore della morte, ricoverato in un loculo dove era stato infilato, adagiato su una lettiga sudicia e arrugginita. Il suo corpo era stato lavato e avvolto in un telo bianco che lo racchiudeva completamente come in un candido bozzolo, e quando io ho aperto il lenzuolo a livello del volto, Bobo e Scilla scoppiarono a piangere". L'immagine che si trovarono davanti fu struggente: "Bettino aveva gli occhi chiusi e la bocca aperta - continua Melania - con evidenti macchie ipostatiche di sangue rappreso sulla parte destra del volto. La mandibola non gli era stata serrata subito dopo il decesso, in attesa del rigor mortis, come si usa da noi, perché essendo la Tunisia un paese islamico non ha la cultura cristiana della cura e della conservazione della salma, la quale di regola viene seppellita entro il tramonto, nel giorno stesso del decesso, indipendentemente dall'ora della morte, dopo essere stata lavata e custodita nuda in un lenzuolo bianco, e deposta direttamente sotto terra. Quindi nelle strutture sanitarie tunisine non esistono nemmeno le sale mortuarie né le celle frigorifere, se non degli pseudo-obitori, dove vengono ricoverati solo i corpi da sottoporre a esami autoptici giudiziari". In quelle condizioni il corpo non poteva essere esposto e "quindi una volta rientrati nella casa di Hammamet, ormai a notte fonda, cercammo di convincere Stefania e Anna, che nel frattempo era rientrata, a riportare il corpo di Craxi nella sua casa, per sistemarlo nella grande sala del biliardo ed esporlo al saluto degli amici che iniziavano ad arrivare, ottenendo però un netto rifiuto. Nemmeno Anna, molto affranta e provata, in quel momento desiderava vederlo da morto". Craxi rimase quindi nella clinica: "La mattina successiva Bettino fu rivestito, nel locale della clinica dove si trovava, da due infermieri tunisini con gli abiti loro consegnati, una camicia bianca, una cravatta rossa con garofano ricamato, un completo blu e scarpe nere, mentre io gli truccavo con fondotinta e pennelli il viso, nascondendo così le macchie ipostatiche e facendo sparire dal suo volto il pallore cadaverico, e nel frattempo gli infilavo le foto degli adorati nipoti in tasca, per poi vederlo ricollocare sempre nel suo loculo, in attesa dell'arrivo della bara per il funerale cattolico". Una volta sistemato, il corpo di Craxi fu riportato nella casa tunisina "per essere esposto alle visite degli amici e conoscenti prima del funerale, ma purtroppo il sarcofago arrivato era di una misura standard, ovvero troppo corto e troppo stretto per le misure fisiche di Bettino, il cui corpo, una volta deposto all'interno, appariva rannicchiato, con le ginocchia leggermente piegate e costretto in modo evidente a livello delle braccia e delle spalle". "Era però anche palese che non ci sarebbe stato il tempo per attendere una nuova bara, e in quella insolita circostanza furono di aiuto gli assistenti tunisini, che rimossero il corpo di Bettino appoggiandolo delicatamente su un tavolo attiguo, svitarono ed estrassero dalla cassa mortuaria il rivestimento interno zincato che rubava spazio, per poi rimettere dentro la fodera di raso bianca e gli ornamenti funebri e reintrodurre la salma, che in tal modo appariva più distesa e meno stretta, più presentabile, e che fu quindi velata da un telo di tulle chiaro". Furono molte le persone che andarono a salutare l'ex presidente del consiglio: Silvio Berlusconi con la moglie Veronica, il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, il presidente della Tunisia Ben Alí, Claudio Martelli con Gianni De Michelis, Pierferdinando Casini, Ottaviano Del Turco, il cognato Paolo Pillitteri con Rosilde, Cesare Previti con la moglie Silvana, il finanziere Tarak BenAmmar, Maurizio Raggi, Silvano Larini e molti altri parlamentari socialisti, oltre ad amici milanesi e romani di ogni genere. Conclude Melania Rizzoli: "Bettino Craxi al momento della morte aveva 65 anni. Per i suoi detrattori morì da criminale latitante, per i suoi estimatori morì in esilio vittima di una giustizia politicizzata, ma certamente per molti italiani Bettino Craxi è morto privato di quella dignità e quel rispetto che la sua figura e la sua storia avrebbe meritato, soprattutto nel suo ultimo giorno di vita o se credete nel giorno della sua morte. Da allora riposa nel cimitero cristiano di Hammamet, in una tomba di marmo bianco rivolta verso l'Italia e con sopra inciso un epitaffio che era anche il suo motto: La mia libertà equivale alla mia vita.

Craxi: "Vi racconto com'è morto Bettino Craxi e come ho truccato il suo volto", scrive Melania Rizzoli il 20 gennaio 2017. "«È morto! È mortoo...». La voce singhiozzante di Scilla, moglie di Bobo Craxi, mi arriva al telefono verso le 18 per annunciarmi la morte di Bettino. Lei è stravolta, mi dice che il suocero era stato trovato senza vita nel suo letto nella casa di Hammamet e mi informava che, essendo loro due a Roma, si stavano organizzando per raggiungerlo quella sera stessa, chiedendomi di partire insieme. Io da molti anni ero amica di famiglia ed ero il medico personale di Bettino nella capitale. In quel drammatico pomeriggio nella dimora tunisina, oltre all' ex presidente del Consiglio, erano presenti solo due persone di servizio e la figlia Stefania, poiché la moglie Anna era appena partita per Parigi per curarsi in un breve viaggio di tre giorni, dopo il capodanno del Millennium trascorso in casa in famiglia con marito, figli e nipoti. Scilla mi comunicò anche che Bobo non voleva far uscire subito la notizia della morte del padre perché sua madre in quel momento si trovava sul volo Air France, ignara della tragedia avvenuta, e che stava cercando di contattare Angela, un'amica di famiglia residente a Parigi, perché si recasse all'aeroporto De Gaulle per accogliere al gate Anna, informarla a voce dell'accaduto e accompagnarla indietro nel suo triste viaggio di ritorno a Tunisi. Quel pomeriggio Bettino aveva salutato la moglie in partenza, per poi andare a riposare nella sua stanza verso le 14.30, e quando alle 17.30 il cameriere, non vedendolo uscire, aveva bussato alla sua porta con il vassoio del thé alla menta, non ricevendo alcuna risposta, era entrato trovandolo senza vita sul letto. Bettino era morto circa due ore prima, in solitudine, probabilmente accusando un malore, poiché aveva il pappagallo sul letto, e lui era riverso su un fianco, come in procinto di scendere dal letto, ma era stato colpito da un arresto cardiaco fulminante, che gli aveva spezzato il fiato e la voce, e non gli aveva dato scampo, né il tempo e la forza per chiamare e chiedere aiuto. La figlia Stefania, in lacrime e comprensibilmente sconvolta, dopo aver convocato d'urgenza il medico tunisino del padre, che non poté far altro che certificarne il decesso, chiese allo stesso di trasferire il padre nella clinica dove era abitualmente curato, poiché lei non voleva assolutamente vederlo morto ed era angosciata dal pensiero di vegliarlo da sola in casa nella notte imminente. Il corpo di Craxi venne quindi trasferito verso le 20 in ambulanza alla clinica "Le Violettes", la stessa dove, appena tre mesi prima, era stato operato di nefrectomia destra per un tumore maligno al rene dal professor Rigatti, giunto appositamente dall' Italia. La notizia della morte di Bettino quel 19 gennaio comunque uscì quasi subito sulle agenzie e sui telegiornali, mentre la moglie Anna si trovava ancora in volo, e quella sera stessa, quando Bobo, Scilla e io arrivammo nella clinica dove lui era stato portato, fummo i primi a vederlo morto. Lo trovammo al piano terra di un locale freddo e disadorno della clinica tunisina, illuminato da una luce fioca, dove aleggiava il silenzio e il fetore della morte, ricoverato in un loculo dove era stato infilato, adagiato su una lettiga sudicia e arrugginita. Il suo corpo era stato lavato e avvolto in un telo bianco che lo racchiudeva completamente come in un candido bozzolo, e quando io ho aperto il lenzuolo a livello del volto, Bobo e Scilla scoppiarono a piangere. Bettino aveva gli occhi chiusi e la bocca aperta, con evidenti macchie ipostatiche di sangue rappreso sulla parte destra del volto. La mandibola non gli era stata serrata subito dopo il decesso, in attesa del rigor mortis, come si usa da noi, perché essendo la Tunisia un Paese islamico non ha la cultura cristiana della cura e della conservazione della salma, la quale di regola viene seppellita entro il tramonto, nel giorno stesso del decesso, indipendentemente dall' ora della morte, dopo essere stata lavata e custodita nuda in un lenzuolo bianco, e deposta direttamente sotto terra. Quindi nelle strutture sanitarie tunisine non esistono nemmeno le sale mortuarie né le celle frigorifere, se non degli pseudo-obitori, dove vengono ricoverati solo i corpi da sottoporre a esami autoptici giudiziari.

In quelle condizioni era chiaro che non sarebbe stato possibile esporre pubblicamente Bettino, né per il luogo e nemmeno per la situazione della salma, poiché non sarebbe stato dignitoso per lui e per le persone che sarebbero arrivate a salutarlo farlo vedere così scomposto, e quindi una volta rientrati nella casa di Hammamet, ormai a notte fonda, cercammo di convincere Stefania e Anna, che nel frattempo era rientrata, a riportare il corpo di Craxi nella sua casa, per sistemarlo nella grande sala del biliardo ed esporlo al saluto degli amici che iniziavano ad arrivare, ottenendo però un netto rifiuto. Nemmeno Anna, molto affranta e provata, in quel momento desiderava vederlo da morto. La mattina successiva Bettino fu rivestito, nel locale della clinica dove si trovava, da due infermieri tunisini con gli abiti loro consegnati, una camicia bianca, una cravatta rossa con garofano ricamato, un completo blu e scarpe nere, mentre io gli truccavo con fondotinta e pennelli il viso, nascondendo così le macchie ipostatiche e facendo sparire dal suo volto il pallore cadaverico, e nel frattempo gli infilavo le foto degli adorati nipoti in tasca, per poi vederlo ricollocare sempre nel suo loculo, in attesa dell' arrivo della bara per il funerale cattolico. In Tunisia, infatti, per i motivi sovraesposti, le bare non vengono fabbricate, per cui la famiglia Craxi ne attendeva una dall'Italia, offerta dall' amico Salvatore Ligresti, che sarebbe stata spedita al più presto con il suo aereo personale, non senza difficoltà per farla entrare dal portello e nel ristretto abitacolo del jet. La bara comunque arrivò il giorno successivo a Tunisi, nel palazzo istituzionale messo a disposizione dal governo locale, dove nel frattempo era stato trasferito il corpo di Craxi per essere esposto alle visite degli amici e conoscenti prima del funerale, ma purtroppo il sarcofago arrivato era di una misura standard, ovvero troppo corto e troppo stretto per le misure fisiche di Bettino, il cui corpo, una volta deposto all' interno, appariva rannicchiato, con le ginocchia leggermente piegate e costretto in modo evidente a livello delle braccia e delle spalle. Era però anche palese che non ci sarebbe stato il tempo per attendere una nuova bara, e in quella insolita circostanza furono di aiuto gli assistenti tunisini, che rimossero il corpo di Bettino appoggiandolo delicatamente su un tavolo attiguo, svitarono ed estrassero dalla cassa mortuaria il rivestimento interno zincato che rubava spazio, per poi rimettere dentro la fodera di raso bianca e gli ornamenti funebri e reintrodurre la salma, che in tal modo appariva più distesa e meno stretta, più presentabile, e che fu quindi velata da un telo di tulle chiaro. Da quel momento fu permesso l'accesso ai visitatori che giunsero numerosi, tra i quali si ricordano Silvio Berlusconi con la moglie Veronica, il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, il presidente della Tunisia Ben Alí, Claudio Martelli con Gianni De Michelis, Pierferdinando Casini, Ottaviano Del Turco, il cognato Paolo Pillitteri con Rosilde, Cesare Previti con la moglie Silvana, il finanziere Tarak BenAmmar, Maurizio Raggi, Silvano Larini e molti altri parlamentari socialisti, oltre ad amici milanesi e romani di ogni genere. La camera ardente con la bara di Bettino Craxi, attorniata da un picchetto d' onore, da ceri accesi, da bandiere italiane, tunisine e socialiste, e da centinaia di garofani rossi, è rimasta aperta in quella sede per tutto il giorno e tutta la notte, di fronte a un incessabile corteo di persone che arrivavano a ogni ora per l' ultimo saluto e portavano le condoglianze ad Anna, che è rimasta tutto il tempo in un angolo della grande sala, ricevendo l' affetto e il saluto degli amici, lontana dalla vista del marito morto. La mattina successiva, poco prima della cerimonia funebre celebrata nella cattedrale di Saint Louis di Tunisi, il corpo di Bettino fu rimosso ancora dalla sua cassa di legno per poter collocare nuovamente al suo posto la protezione zincata, e successivamente la sua salma è stata reintrodotta nelle misure ristrette di quella bara italiana, per poi essere chiusa con il coperchio e sigillata a fuoco definitivamente. Bettino Craxi al momento della morte aveva 65 anni. Per i suoi detrattori morì da criminale latitante, per i suoi estimatori morì in esilio vittima di una giustizia politicizzata, ma certamente per molti italiani Bettino Craxi è morto privato di quella dignità e quel rispetto che la sua figura e la sua storia avrebbe meritato, soprattutto nel suo ultimo giorno di vita o se credete nel giorno della sua morte. Da allora riposa nel cimitero cristiano di Hammamet, in una tomba di marmo bianco rivolta verso l'Italia e con sopra inciso un epitaffio che era anche il suo motto: «La mia libertà equivale alla mia vita»". Melania Rizzoli

Parla la moglie di Craxi: «Bastava un salvacondotto per salvare Bettino…», scrive Paola Sacchi il 21 gennaio su "Il Dubbio". Gli ultimi giorni del leader socialista raccontati da Anna Maria Moncini: “Sognava di tornare in Italia ma da uomo libero”. Il lungo tavolo rettangolare nel patio della casa di Hammamet, praticamente l’ultimo ufficio rimasto allo statista socialista in esilio Bettino Craxi, ora è completamente sgombro. Non c’è più la montagna di carte, di libri, e di lettere di gente comune ma anche di Francois Mitterand, di Felipe Gonzalez e Mario Soares, la triade del socialismo mediterraneo. Spira un vento gelido in Tunisia, nei giorni del diciassettesimo anniversario della scomparsa di Bettino, l’altro ieri omaggiato sulla sua tomba anche dal ministro degli Esteri Angelino Alfano. Che seppur leader del Nuovo Centrodestra è stato il primo esponente di alto rango di un governo di centrosinistra a recarsi nel piccolo cimitero cristiano, luogo simbolo della caduta della nostra Prima Repubblica. Stefania Craxi scherza con amara e pungente ironia indicandomi la fontanella prima del patio: «Lo so, sarai delusa, qui non c’è più la fontana di piazza Castello che secondo i giornali italiani mio padre avrebbe rubato a Milano. Sai, l’abbiamo rispedita in Italia, con un carico speciale…». I Craxi hanno sempre saputo affrontare con stile e grande dignità una tragedia che non è solo la loro, ma una tragedia politica italiana. Il tavolo del patio ora è vuoto e non c’è più neppure il gatto Nerino che passava ore accoccolato sulle ginocchia dell’ex premier e leader socialista. Mi racconta Anna Craxi, vedova di Bettino, facendo un rarissimo strappo al suo noto riserbo: «Nerino è morto, poco tempo dopo la scomparsa di Bettino». Anna Maria Moncini (questo il suo cognome da nubile), figlia di un ferroviere socialista, la ex first lady italiana, forse la più discreta first lady di sempre, ha scelto di vivere qui, di restare vicina alle spoglie di suo marito. Aspira una sigaretta estratta da un pacchetto, elegantemente coperto da un astuccio rosa argentato, e mi racconta: «Sono contenta di tutte le visite e i riconoscimenti che ci sono stati per mio marito in questi anni. Iniziò Napolitano che per il decennale mi mandò un fax in cui riconobbe che per Bettino ci fu “una durezza senza uguali”, poi ieri (l’altro ieri ndr) è venuto anche Alfano. Mi ha pure baciata…». Sorride. Ma poi Anna Craxi si ferma, la mente va indietro agli anni (1994- 2000), trascorsi in questa casa (una villetta carina, ma niente di lussuoso, niente rubinetti d’oro come fu comicamente scritto, se la vogliamo prendere a ridere) da Craxi in esilio e confida: «Lui ha sperato fino alla fine di poter tornare in Italia. Certo, da uomo libero, come lui ha sempre detto. Ma intanto per farsi curare. Era gravemente malato. All’ultimo sperava che almeno gli sospendessero la pena per potersi salvare…». Che, insomma, almeno gli concedessero di poter tornare nel suo Paese per salvarsi la vita, senza due carabinieri dietro la porta d’ospedale come la Procura di Milano, invece ordinò. E Craxi, che sulla sua tomba ha fatto scrivere «La mia libertà equivale alla mia vita», a quel punto decise per la prima volta di obbedire, come ha scritto il direttore del Dubbio Piero Sansonetti, dicendo a se stesso: «Vogliono che muoia e così sia». E però la sua memoria resta sempre più viva e scomoda per l’Italia. Lui continua a restare il convitato di pietra della nostra politica, costretta ogni anno a ricordarlo in occasione dell’anniversario della sua morte. E non solo. Mi racconta la vedova Anna: «Pensa che abbiamo contato nel registro delle presenze al cimitero una cosa come 20.000 firme con tanto di dedica all’anno, le presenze però, dopo gli atti di terrorismo che hanno colpito la Tunisia, sono calate negli ultimi due anni. Ma in questi giorni ho perfino trovato firme di spagnoli, francesi, ma anche tedeschi. Quest’ultima un po’ una stranezza. Perché fino alla Francia di Mitterand o alla Spagna di Gonzalez capisco… E comunque la sua tomba continua ad essere sempre meta di pellegrinaggio». È una giornata grigia e uggiosa, dall’Italia sono in arrivo militanti socialisti, amici, simpatizzanti che ogni anno giungono qui per la ricorrenza della morte di Craxi, di cui il ventennale ormai si avvicina. Come avrebbe passato la giornata di oggi Bettino? Anna racconta lo schema dei giorni dell’esilio: «Lavorava sul tavolo nel patio o quando faceva freddo nella stanza dei fax. Dipingeva vasi (celebri quelli con la “lacrime” dei colori della nostra bandiera che simboleggiano l’Italia che piange), faceva litografie, serigrafie, scriveva discorsi (regolarmente cestinati nelle redazioni dei giornali italiani ndr), non stava mai fermo. Bettino lavorava sempre. Scriveva fino alle 2 o alle 3 di notte. Nel pomeriggio si recava nel centro di Hammamet al Caffè Moro alla Medina…». Dove tutti andavano a omaggiare, anche per chiedergli consigli di vita, Monsieur Le President. Dice Anna: «Lui era un uomo del popolo». Non c’è tassista, barista, ambulante, commerciante della Medina che non abbia conosciuto «Monsieur Craxì», con l’accento francese sulla i. La sua presenza qui era motivo di orgoglio per poveri e ricchi, per gente semplice e intellettuali e registi che in Tunisia hanno le ville. Ma Bettino era amato soprattutto dai poveri, come la famiglia di pescatori a Salloum dove lui si era fatto costruire un capanno, il suo secondo “ufficio”, nell’esilio di Hammamet. «Il 19 gennaio al cimitero siamo sempre di più», dice Anna Craxi. E Stefania: «Pensa che in questi giorni in Italia si stanno facendo anche tante messe di commemorazione organizzate dai militanti laici socialisti». Anna, l’altro ieri si è commossa quando la figlia Stefania le ha fatto leggere il messaggio in cui Silvio Berlusconi, di cui la vedova Craxi con il marito fu testimone di nozze, ricorda che i valori di Bettino erano i suoi. «Purtroppo – dice Stefania, ex sottosegretario agli Esteri del governo Berlusconi e presidente della Fondazione Craxi – sui social continuano a venire attacchi soprattutto da sinistra, mentre mio padre viene trattato con rispetto dalla destra missina». Lei, la tenace, indomita figlia di Bettino, è la vera artefice del fatto che la memoria di Craxi è sempre viva e presente, rappresentando per l’Italia un conto da regolare. Non solo ha intercettato Alfano che veniva in Tunisia e lo ha invitato sulla tomba del padre, ma nei giorni scorsi ha anche parlato con il sindaco (Pd) di Milano Beppe Sala, il quale si è detto non contrario a dedicare a Craxi una via nella sua città, quella via che finora gli è stata sempre negata. La speranza è che almeno per il ventennale della scomparsa dello statista socialista quella via ci sia a Milano e a Roma. Craxi, mentre passava i giorni dell’abbandono guardando il mare verso l’Italia, come hanno ricordato Berlusconi e Alfano, ha insegnato all’Italia, del resto, a guardare lontano. Ma iniziò di fatto a morire il giorno dell’assoluzione di Giulio Andreotti. Quando felicissimo naturalmente per lo statista Dc, suo alleato al governo, Bettino pensò: «Qui, l’unico delinquente per gli italiani sono rimasto io». L’Italia ha certamente un grande conto da regolare con lui.

Bettino Craxi, tangenti per miliardi a domicilio. Ecco perché fu condannato. Nel 17esimo anniversario della morte del segretario Psi, da latitante in Tunisia, si allarga la schiera di chi punta alla riabilitazione o, quantomeno, a "riaprire la discussione". Da Alfano a Orlando a Sala. Dal libro "Mani pulite" di Barbacetto, Gomez e Travaglio, ecco gli elementi principali che hanno portato a una delle due sentenze definitive di colpevolezza, quella per le tangenti della metropolitana milanese: "Sette-otto miliardi finiti direttamente a lui", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 20 gennaio 2017. Il ministro degli Esteri Angelino Alfano è volato ad Hammamet per ricordare il diciassettesimo anniversario della morte di Bettino Craxi. Il ministro della giustizia Andrea Orlando si dice favorevole a “riaprire la discussione” sulla una “figura importante della sinistra”, pur ammettendone “gli errori”. E il sindaco di Milano Giuseppe Sala, eletto nel centrosinistra, apre alla possibilità di intitolargli una via, che potrebbe essere discussa già lunedì 23 gennaio in consiglio comunale. Proprio mentre si susseguono inchieste e processi per piccole e grandi corruzioni, mentre il numero uno dell’autorità anti-tangenti Raffaele Cantone gira l’Italia per esortare una “rivoluzione culturale” contro il malaffare, mentre si moltiplicano gli studi e i rapporti internazionali su danni e distorsioni inflitti al sistema economico e politico, si allarga la schiera di chi persegue la riabilitazione del segretario del Partito socialista italiano morto da latitante in Tunisia il 19 gennaio 2000. In quel momento, uno dei politici simbolo della Prima Repubblica aveva collezionato due condanne definitive per 10 anni di reclusione (5 anni e 6 mesi per la corruzione dell’Eni-Sai e 4 anni e 6 mesi per i finanziamenti illeciti della Metropolitana milanese), più altre condanne provvisorie, in primo e in secondo grado, per circa quindici anni (3 anni in appello per Enimont, 5 anni e 5 mesi in Tribunale per Enel, 5 anni e 9 mesi annullati con rinvio dalla Cassazione per la bancarotta del Conto protezione); e poi due assoluzioni (Cariplo e, a Roma, Intermetro) e una prescrizione (in appello per All Iberian). Non basta. L’allora segretario del Psi e già presidente del consiglio aveva ricevuto tre ordinanze di custodia cautelare, i cui procedimenti al momento della morte non erano stati definiti: Enel, fondi neri Eni e fondi neri Montedison. In questa corsa alla riabilitazione, è utile ricordare i fatti specifici contestati allora a Craxi dai pm di Mani pulite e poi confermati in via definitiva in Cassazione. Sul fronte dei finanziamenti illeciti della Metropolitana milanese, ecco la ricostruzione della vicenda attraverso le parole di Silvano Larini, architetto e reo confesso collettore di mazzette per conto del segretario Psi, che il 7 febbraio 1993 mette fine alla sua latitanza e si consegna alle autorità italiane, diventando così un pilastro dell’accusa al leader Psi. Quello che segue è un estratto del libro Mani pulite, la vera storia, di Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio (Editori riuniti 2002).

BETTINO CRAXI, LE TANGENTI MM E LE VALIGETTE DI SOLDI IN PIAZZA DUOMO. Il 7 febbraio, accompagnato dall’avvocato Bovio, Larini si consegna a Di Pietro, che con il capitano Zuliani lo aspetta alla frontiera autostradale di Ventimiglia. Dopo uno spuntino in un ristorante-pizzeria, viene accompagnato a Milano, nel carcere di Opera. Vi trascorrerà quattro giorni, riempiendo decine di pagine di verbali. L’architetto ammette le sue responsabilità. E racconta il suo ruolo di «fattorino delle tangenti» che sgorgavano dal sistema della metropolitana milanese: Dovevo ricevere il denaro che Carnevale o Prada mi consegnavano e portarlo all’onorevole Craxi. Infatti, a partire dal 1987 e fino alla primavera del 1991, ho avuto modo di ricevere dai predetti 7 o 8 miliardi complessivamente e ogni volta (salvo in un paio d’occasioni in cui li ho consegnati direttamente a Natali) li ho portati negli uffici dell’onorevole Craxi di piazza Duomo 19, a Milano, depositandoli nella stanza a fianco della sua […]. Posavo la borsa o il plico sul tavolo e la Enza [Tomaselli, la segretaria di Craxi] lo ritirava. Non le ho mai detto nulla, alla consegna, perché era assolutamente scontato di che cosa si trattasse […]. Ho raccolto 7-8 miliardi di tangenti sulla Metropolitana e in buona parte sono finiti personalmente a Craxi. Portavo i soldi al quarto piano di piazza Duomo 19. Ero io a confezionare il pacchetto, utilizzando buste marroncine. A volta le posavo sul tavolo della segretaria, a volte le lasciavo sul tavolo della camera di riposo di Bettino. Natali mi disse che da tempo le imprese operanti nella metropolitana erano solite versare del denaro al sistema dei partiti. Fino al 1987 – ricorda – al finanziamento occulto pensava direttamente il presidente della Metropolitana milanese, Antonio Natali. Poi si pose il problema di sostituirlo. «Motivi di opportunità – spiega Larini ai magistrati – sconsigliavano al Psi di riproporlo, in quanto egli era stato inquisito dall’autorità giudiziaria di Milano per fatti di concussione. Natali fu eletto senatore e in tal modo fu “salvato” da un procedimento penale». Craxi e Natali offrirono a Larini la carica di presidente della Mm, che però rifiutò. «La scelta cadde allora su Claudio Dini», l’architetto che aveva lavorato nello studio di Ignazio Gardella, ma che, a quanto racconta Larini, non era considerato affidabile per la gestione delle tangenti: Natali non aveva molta confidenza con lui e lo considerava un po’ bizzarro e pericoloso per il sistema, dal punto di vista di riscossione del denaro. Mi spiego. Natali mi disse che da tempo le imprese operanti nella metropolitana erano solite versare del denaro al sistema dei partiti e in particolare alla Dc, al Psi, al Pri, al Pci e al Psdi. Questo denaro veniva utilizzato in quegli anni dal Psi per il sostentamento della federazione milanese, ma anche per la cassa nazionale del Psi, all’occorrenza. Infatti ricordo che Balzamo in un’occasione mi diede atto che era a lui pervenuta una parte del denaro proveniente dalle contribuzioni degli imprenditori milanesi, dicendomi: «Meno male che sono arrivati i soldi di Milano, perché altrimenti non potevamo pagare gli stipendi». Ero al corrente della natura non regolare dei finanziamenti al mio partito. L’ho cominciato a capire da quando portavo i pantaloni alla zuava! Così Natali chiese che fosse Larini a occuparsi delle tangenti, al posto del «bizzarro» Dini: «Mi pregò di essere io la persona che riceveva per conto del Psi il denaro proveniente dalle imprese operanti negli appalti della Mm. Natali mi spiegò che alla materiale raccolta del denaro nei confronti degli imprenditori provvedevano Prada Maurizio [Dc] e Carnevale Mijno Luigi [Pci]». Ricevuto l’incarico da Natali, Larini si rivolse direttamente all’amico segretario del Psi: Chiesi informazioni all’onorevole Bettino Craxi su come comportarmi e costui mi disse: «Va bene, occupatene». In altri termini, fu lo stesso Craxi a confermarmi l’incarico di provvedere a raccogliere il denaro proveniente dalla Mm. […] Tutto ciò che prendevo lo portavo sempre nell’ufficio dell’onorevole Craxi e non trattenevo nulla per me. Era un servizio che io rendevo a Craxi per amicizia e per comune militanza politica. Non tutti, fa capire Larini, erano cosí disinteressati e corretti, e comunque sul giro delle tangenti aleggiava sempre il sospetto che qualcuno ne approfittasse: Un giorno fui chiamato da Craxi il quale mi disse che Balzamo gli aveva fatto presente che l’onorevole Citaristi, segretario amministrativo della Dc, aveva disposto un’indagine interna nei confronti di Prada, perché sospettava che non tutto il denaro finisse nelle casse della Dc. Anche l’onorevole Craxi, verso la fine del 1989-inizio 1990, mi disse che pure lui aveva saputo che in giro si diceva che le imprese pagavano il 20 per cento del valore degli appalti, e che quindi io venivo «imbrogliato» da Prada e Carnevale. Io spiegai che era impossibile che le imprese pagassero una percentuale del genere, perché si sarebbero poste del tutto fuori mercato […]. In tale occasione pregai l’onorevole Craxi di sollevarmi da un incarico così scomodo; egli mi disse: «Va bene». E, seppure con un anno di ritardo, alla fine mi sostituì con l’onorevole Oreste Lodigiani [cioè con il segretario amministrativo milanese del Psi]. Dopo la morte di Balzamo, venne fuori questo foglietto. In quattro anni ha raccolto qualcosa come 186 miliardi”. Larini, dunque, svela anche una parte dei veleni che intossicano i circuiti sotterranei di Tangentopoli: poiché la raccolta era illegale, sui «cassieri» non era possibile alcuna forma di controllo legale. Così tra i protagonisti del sistema regnavano la sfiducia e il sospetto che qualcuno approfittasse della situazione, facendo la «cresta» per sé. Cosa che, in diversi casi, è stata anche giudiziariamente accertata. […] Quello stesso 17 dicembre [1993, al processo contro Sergio Cusani per la maxitangente Enimont], subito dopo Forlani, tocca anche a Bettino Craxi. Ma il suo interrogatorio è tutto un altro film. Un Di Pietro insolitamente calmo e remissivo gli pone la fatidica domanda, se fosse al corrente del finanziamento illegale ai partiti. Craxi si concede una delle sue lunghe pause. Poi spiega: «Né la Montedison, né il gruppo Ferruzzi, né il dottor Sama, né altri, né direttamente, né per interposta persona, a me personalmente hanno mai dato una lira. Diversamente, sia il gruppo Ferruzzi, sia la Montedison hanno versato contributi all’amministrazione del partito: da quando, non saprei, ma certamente da molti anni e fino alle elezioni del 1992». Poi, però, ecco una confessione in piena regola: «Ero comunque al corrente della natura non regolare dei finanziamenti ai partiti e al mio partito. L’ho cominciato a capire da quando portavo i pantaloni alla zuava!». Di Pietro sorride, raggiante: «C’è qualcuno che, prima di lei, questa mattina, l’ha saputo solo qualche giorno fa». Una piccola rivincita su Forlani. Craxi non solo ammette, ma consegna anche dei documenti. E a un certo punto, con calcolata suspence, estrae di tasca un bigliettino e sibila: «Dopo la morte di Vincenzo Balzamo, venne fuori questo foglietto scritto a mano, in cui lui aveva fatto un appunto che si riferiva a un quinquennio, con le entrate provenienti da società ed enti. Lui scrive che in quattro anni ha raccolto qualcosa come 186 miliardi. Circa 50 miliardi all’anno». Ovviamente non registrati, quindi fuorilegge. Ecco perché Di Pietro è così pacato. Ecco perché non incalza: Craxi, con la sua brutale franchezza, si è messo in trappola da solo. Migliore conferma alle accuse non ci poteva essere. Chi si aspettava uno scontro al calor bianco rimane deluso. […] Craxi, in seguito, fuori da un’aula di giustizia, racconterà a Bruno Vespa (nel libro Il duello) che per fare politica poteva contare sugli aiuti di tanti amici. «Nel senso che venivano da te e ti chiedevano di quanto avevi bisogno?», gli domanda Vespa. «Ci mancherebbe altro – risponde Craxi. – Non si permettevano. Facevano la fila come si fa dal dentista. Passavano dalla segretaria…». Tratto da Mani pulite, la vera storia, di Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio (Editori riuniti 2002)

Il 19 gennaio del 2000 moriva ad Hammamet il leader socialista Bettino Craxi, scrive "TPI". Il 19 gennaio del 2000 moriva a Hammamet, in Tunisia, Bettino Craxi, figura di primo piano della politica italiana durante la Prima repubblica.

Nato a Milano il 24 febbraio del 1934 in una famiglia di idee socialiste, Benedetto (questo era il suo nome di battesimo) si avvicinò ben presto a questi ideali, aderendo al Partito Socialista Italiano e partecipandovi fin dai tempi dell'università, e già nel 1956, ad appena 22 anni, fu eletto consigliere comunale a Sant'Angelo Lodigiano, e l'anno successivo entrò nel comitato centrale del partito come esponente della corrente dell'allora segretario socialista Pietro Nenni.

Nel 1968, quando il segretario del partito era Francesco De Martino, Craxi fu eletto per la prima volta deputato, in rappresentanza della circoscrizione Milano-Pavia.

Nel 1976 il PSI, che aveva appena causato la caduta del quarto governo toccò uno dei suoi peggiori risultati elettorali di sempre arrivando sotto il 10 per cento dei consensi. Questo fatto fu imputato all'atteggiamento, considerato troppo accondiscendente verso il Partito Comunista Italiano (che, diversamente dal PSI, era all'opposizione), del segretario De Martino, costretto alle dimissioni.

Il successivo congresso, svoltosi all'Hotel Midas di Roma, portò all'elezione di Bettino Craxi a nuovo segretario. Da quel momento, la linea del partito cambiò e questo favorì notevolmente l'ascesa politica dello stesso Craxi sulla scena italiana. Il primo segretario iniziò a prendere le distanze dai comunisti (dai quali già nel 1956 si era fortemente dissociato dopo l'invasione sovietica dell'Ungheria), criticando il marxismo e il leninismo e ridimensionando il ruolo della falce e martello nel simbolo del PSI, sostituita dal garofano rosso, simbolo delle lotte socialiste di inizio Novecento. Craxi, per l'epoca, risultò un politico molto innovativo nel porsi sulla scena nazionale. Diversamente da molti suoi colleghi, era molto attento all'aspetto mediatico e alla cura della propria immagine.

Nel 1983 Bettino Craxi fu a capo del suo primo governo, il primo guidato da un esponente del PSI nella storia d'Italia, che divenne - per l'epoca - il più lungo della storia d'Italia (è stato poi superato dal Berlusconi II e dal Berlusconi IV). A sostenere questo governo era il cosiddetto "Pentapartito", la coalizione formata da DC, PSI, PRI, PLI e PSDI.

Il governo fu molto attivo, si caratterizzò per una politica estera (il ministro degli Esteri era Giulio Andreotti) che guardava a un ruolo fondamentale dell'Italia nel Mediterraneo, arrivando anche allo scontro diplomatico con gli Stati Uniti, come quello avvenuto con la crisi di Sigonella, per far valere questa posizione. Il governo, inoltre, realizzò un nuovo Concordato con la Chiesa Cattolica, e acutizzò la propria rottura con i comunisti con il taglio della scala mobile, il meccanismo per cui i salari erano ancorati all'andamento dei prezzi. Ma la rottura con il PCI fu ancora più palese nel 1984 quando, al congresso di Verona, il segretario comunista Berlinguer fu fischiato dai militanti socialisti. Successivamente Craxi disse che se quei fischi erano indirizzati alla linea politica del PCI, lui non vi si era unito solo perché non sapeva fischiare. Lo stesso anno Berlinguer morì, e i militanti comunisti fischiarono Craxi al funerale del loro segretario.

Il governo Craxi I terminò nel 1986, ma venne dato un nuovo incarico allo stesso Craxi che lo portò avanti fino al 1987.

Alle elezioni europee del 1989 il PSI di Craxi raggiunse il 14,78 per cento, il massimo del periodo craxiano.

Con gli anni Novanta, e in particolar modo a partire dal 1992, il PSI - e con esso il craxismo - subirono una grossa crisi. Nel mese di febbraio, l'esponente socialista milanese Mario Chiesa viene infatti arrestato per aver intascato una tangente. Ha l'inizio il cosiddetto scandalo di Tangentopoli che in breve tempo arriverà a travolgere un'intera classe politica. In breve tempo numerosi esponenti del mondo politico e statale vennero indagati e arrestati. In questo clima, Craxi in parlamento pronunciò uno storico discorso: "Non credo che ci sia nessuno in quest'aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro". Nessun politico rispose all'appello di Craxi, il quale fu sempre più critico per il clima di caccia alle streghe che stava nascendo sotto il vento delle indagini della Procura di Milano che coinvolgevano sempre più esponenti del mondo politico. "Hanno creato un clima infame", dichiarò in questo senso Craxi.

Tuttavia, tra il dicembre 1992 e il marzo 1993 anche il leader socialista fu raggiunto da ben 11 avvisi di garanzia, fatto che lo portò a lasciare la segreteria del PSI, dove fu sostituito dal sindacalista Giorgio Benvenuto, dal momento che anche Claudio Martelli, considerato il delfino di Craxi, venne indagato. Craxi, da quel momento, ammise in modo chiaro di aver avuto responsabilità nel finanziamento illecito del PSI, definendolo uno strumento usato da tutti i partiti al fine di mantenere le proprie strutture organizzative, ma si definì innocente rispetto a chi lo accusava di corruzione o di essersi arricchito personalmente attraverso strumenti illeciti.

Il 29 aprile 1993 la Camera dei deputati votò contro l'autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi, passaggio all'epoca necessario per portare avanti misure cautelari verso un parlamentare. Il giorno seguente, numerose manifestazioni e proteste ebbero luogo a Roma, di cui la più emblematica quanto controversa fu il selvaggio lancio di monetine contro lo stesso leader socialista mentre usciva dall'Hotel Raphael, la sua residenza romana.

Nel 1994 Craxi non fu ricandidato in parlamento, fatto che fece venire meno la sua immunità parlamentare. Per evitare il rischio di fuga, le autorità gli ritirarono il passaporto, ma ormai era tardi: con un gesto controverso, infatti, il leader socialista aveva già lasciato l'Italia per raggiungere la sua casa di Hammamet, in Tunisia, dove non avrebbe avuto problemi di estradizione. Da quel momento, Craxi continuò a vivere nel paese nordafricano, considerato un esiliato dai suoi sostenitori e un latitante dai suoi detrattori, fino alla sua morte, avvenuta in seguito a una lunga malattia il 19 gennaio del 2000. Il presidente del consiglio Massimo D'Alema propose i funerali di stato per Craxi, ma oltre ai detrattori del leader PSI, anche la famiglia dell'ex premier si disse contraria, dopo che lo stesso governo non gli aveva permesso il ritorno in Italia per curarsi. La sua tomba, situata nel cimitero di Hammamet, è simbolicamente rivolta verso l'Italia.

Bettino Craxi, l’esempio dell’Unità di Staino e lo strillo del Fatto di Travaglio, scrive Francesco Damato su "Formiche,net" il 20 gennaio 2017. Mentre nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani il presidente del Senato in persona, Pietro Grasso, presentava un volume intitolato “Il libro dell’Incontro- Vittime e responsabili della lotta armata a confronto”, realizzato a cura di padre Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato, nella redazione del giornale italiano che si ritiene il depositario assoluto della legalità, Il Fatto Quotidiano nato da una costola dell’Unità dei tempi di Antonio Padellaro e di Marco Travaglio, che ne erano usciti, o ne erano stati allontanati, si confezionava la prima pagina di oggi, 20 gennaio 2017, con l’apertura obbligata, naturalmente, sulla tragedia dell’albergo abruzzese del Gran Sasso travolto da una valanga, e diventato tomba di non si sa ancora quante vittime, mentre scrivo. Mi chiederete che c’entri – o che c’azzecchi, direbbe Antonio Di Pietro – la presentazione di quel libro al Senato e la prima pagina del Fatto Quotidiano con l’apertura sull’evento obiettivamente più tragico della giornata. Non c’entra nulla, in effetti. C’entra però il grosso titolo centrale, sotto l’immagine della tomba di neve. Eccolo, tutto intero: “Rose rosse per te – Il leader del partito più inquisito d’Italia omaggia lo spirito guida – Alfano, ministro della malavita, sulla tomba del latitante Craxi – Ad Hammamet una cerimonia “in forma privata” ma con fotografi e giornalisti – Per Angelino “è un dovere essere qui”. Pagato questo prezzo, diciamo così, alla legalità offesa dalla presenza del ministro degli Esteri della Repubblica d’Italia sulla tomba tunisina di Bettino Craxi nel diciassettesimo anniversario della morte, accorsovi sia pure in una “forma privata”, e perciò riduttiva, che spero, forse inutilmente, di vedere smentita dall’interessato e pure dal presidente del Consiglio in persona, il conte Paolo Gentiloni Silverj, che ho conosciuto e conosco come persona civile e a modo, non come un giustizialista della peggiore risma, il giornale che gli avversari definiscono, con i soliti e biasimevoli eccessi polemici, “di Beppe Grillo” o “delle Procure”, ha aggiunto in corsivo, nella solita rubrichetta di prima pagina chiamata non a caso “Cattiveria”, queste righe: “Il sindaco di Milano, Giuseppe Sala: penso di dedicare qualcosa a Craxi. San Vittore dovrebbe bastare”. Non vorrei mettere in imbarazzo più di tanto il mio amico Antonio Padellaro, col quale cominciammo quasi contemporaneamente questo mestiere ben più di 50 anni fa: lui all’agenzia Ansa, dove era un solerte cronista parlamentare, e io al giornale romano del pomeriggio Momento Sera, dove già mi occupavo di politica. Ma voglio pensare e sperare che ad Antonio, oggi “solo” presidente della società editrice e collaboratore del quotidiano diretto invece da Marco Travaglio, non siano granché piaciuti né quel titolo vistoso di mezza pagina né quella “cattiveria”. Se poi mi vorrà smentire, pazienza. Vuol dire che è purtroppo pure lui è cambiato troppo rispetto ai tempi, chiamiamoli così, giovanili. E per colpa naturalmente dei tempi.

A Giorgio Napolitano, allora presidente della Repubblica, bastarono dieci anni dalla morte di Bettino Craxi per avvertire il bisogno di toglierne la memoria dalla gabbia nella quale erano riusciti a chiuderla, non essendo stato possibile farlo con la persona, i magistrati che lo avevano condannato e i loro gazzettieri sparsi nei tre quarti, ma forse anche di più, delle redazioni giornalistiche. In una nobile lettera scritta alla vedova di Bettino, Anna, naturalmente fra i borbottii e le pubbliche rimostranze dei giustizialisti in servizio permanente effettivo, Napolitano volle e seppe ricordare anche i meriti politici di Craxi, come leader di partito e capo di governo del suo e nostro Paese. E delle sue vicende giudiziarie, in particolare del ruolo avuto nella gestione del diffusissimo fenomeno del finanziamento illegale della politica, spesso liquidato da inquirenti e giudici come un tutt’uno con la corruzione, l’allora presidente della Repubblica volle riconoscere onestamente gli aspetti a dir poco inquietanti per le toghe rilevando la “severità senza uguali” riservata all’imputato. Se dieci anni bastarono a Napolitano, nella sua veste di uomo, di militante della sinistra e di capo dello Stato per cercare di riequilibrare la rappresentazione delinquenziale fatta troppo a lungo di Craxi anche dalle sue parti politiche, diciassette anni evidentemente non sono bastati per indurre a qualche riflessione finalmente umana i Travagli di turno. Che tristezza. A Craxi si nega addirittura quello che, all’ombra di un libro, è stato concesso dal presidente del Senato nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani ai terroristi che insanguinarono il Paese negli anni di piombo. Si nega cioè il diritto al rispetto, alla considerazione, alla pietà, alla comprensione: chiamatela come volete. Si dice che molti di quegli assassini, al netto di chi è riuscito a farla franca per l’omertà dei compagni finiti invece in galera, e usciti spesso con anticipo grazie alla generosa applicazione delle norme che notoriamente si applicano agli avversari e si interpretano per gli amici, hanno pagato i loro “debiti giudiziari”. Il fatto che Craxi abbia pagato i suoi errori, che certamente ci furono, addirittura con la vita, costretto a curarsi male, o meno bene di quanto si sarebbe potuto fare in Italia, a causa di quella “severità senza uguali” – per dirla con Napolitano – riservatagli dalla magistratura, evidentemente non basta a lor signori giustizialisti.

Temo a questo punto che costerà cara ad un dirigente comunista come Umberto Ranieri la scelta di scrivere per L’Unità, peraltro nuovamente a rischio di liquidazione, nonostante i generosi sforzi di direzione compiuti dal buon Sergio Staino, un articolo su Craxi, proprio nel diciassettesimo anniversario della morte, richiamato in prima pagina con questo piccolo ma significativo titolo: “La nostra storia – La difficile eredità di Craxi”. In quella “nostra storia” c’è già abbastanza per apprezzare l’onestà di un comunista o post-comunista che non a caso è cresciuto alla scuola di Giorgio Napolitano. “La nostra storia” dovrebbe dire qualcosa anche al segretario del Pd Matteo Renzi, se veramente vuole rappresentare, come ha detto nell’intervista recentemente rilasciata a Repubblica tornando sulla scena politica, una sinistra che per essere moderna deve decidersi a diventare davvero “garantista”. Cosa, questa, che dovrebbe impedire all’ex presidente del Consiglio di tornare a parlare di Craxi, che lo ha preceduto di decenni in tante visoni proprio della sinistra, come di un uomo sprovvisto di “valore pedagogico”, per cui come sindaco di Firenze egli si rifiutò di discutere della possibilità di dedicargli una via o un angolo della città.

La difficile eredità di Craxi, scrive Umberto Ranieri il 20 gennaio 2017 su “L’Unità. Da anni è in corso una riflessione sull’opera del primo socialista presidente del Consiglio. Sono trascorsi diciassette anni dalla morte di Bettino Craxi avvenuta in solitudine e lontano dall’Italia. Da anni è in corso una riflessione sull’opera del primo socialista presidente del Consiglio, dal 1983 al 1987. Un lavoro di ricerca promosso da personalità politiche e da storici che ha messo capo alla pubblicazione di studi e testimonianze, che si propone una valutazione equanime e scevra da pregiudizi della vicenda politica di Craxi protagonista di un intero periodo della storia nazionale, quello che dalla seconda metà degli anni Settanta giunge alla crisi del sistema dei partiti che aveva retto per oltre un quarantennio l’Italia. Il passato nella storia di un grande Paese va analizzato con scrupolo e serietà e l’analisi non può essere sostituita da sentenze sommarie e unilaterali.

Vi racconto chi ha ricordato Bettino Craxi ad Hammamet, scrive Paola Sacchi su “Formiche.net” il 20 gennaio 2017. Poco dopo che il Muezzin ha fatto la sua preghiera diffusa dagli altoparlanti e il sole di un tramonto rosso fuoco si è tuffato nel mare di fronte alle lapidi bianche del cimitero cristiano di Hammamet, l’Italia politica, per la prima volta rappresentata dal ministro degli Esteri di un governo guidato da un premier di centrosinistra, si reca a rendere omaggio alla tomba di Bettino Craxi. È accaduto ieri 19 gennaio, giorno del diciassettesimo anniversario della scomparsa dello statista socialista, lontano dall’Italia, negli infiniti giorni dell’abbandono, ad Hammamet. Il tabù si rompe quando Angelino Alfano, che di centrosinistra non è ma è il titolare della Farnesina e il leader del Nuovo Centrodestra, alleato decisivo del Pd – di cui il capo del governo Paolo Gentiloni è tra i fondatori – varca poco dopo le 18 l’ingresso del piccolo cimitero, luogo simbolo della fine della nostra Prima Repubblica, sotto la Medina, affacciato sul mare. Abbraccia, il ministro degli Esteri italiano, la signora Anna, vedova di Bettino, e i figli dell’ex premier e leader del Psi, Bobo e Stefania Craxi, ex sottosegretario agli Esteri del governo Berlusconi, presidente della Fondazione dedicata alla memoria del padre. È stata lei, Stefania, l’artefice della svolta. Come ha già dichiarato in un’intervista a Il Corriere della sera, venuta a sapere della visita di Alfano in Tunisia lo ha invitato a rendere omaggio alla tomba del padre, “con il quale dopo 17 anni l’Italia deve fare i conti”. E “Alfano ha subito volentieri accettato, prendendosi anche qualche attacco su Facebook”, racconta la Craxi a Formiche.net. “Ciao Stefania, ciao Bobo, buonasera signora Anna, le devo portare un messaggio del Presidente Essebsi (Capo di Stato tunisino ndr)”, così esordisce al suo arrivo il ministro degli Esteri che si stringe alla famiglia Craxi. Resta accanto a loro, commosso, per alcuni minuti in silenzio di fronte alla lapide dove campeggia, per volontà dello statista socialista, la scritta: “La libertà equivale alla mia vita”. Intorno i garofani rossi, simbolo del Psi di Bettino. E tanti militanti ed ex dirigenti socialisti che ogni anno il 19 gennaio volano in Tunisia con la Fondazione Craxi. Al cimitero cristiano di Hammamet, di fronte al quale c’è quello islamico, si erano già recati altri ministri ed esponenti di governo come Renato Brunetta, Franco Frattini e Maurizio Sacconi, però tutti rappresentanti degli esecutivi di Silvio Berlusconi che ha sempre difeso la memoria del suo “amico Bettino”. E che anche ieri ha inviato “a Stefania” un messaggio dove dice: “Sono con voi con il cuore. È difficile pensare che siano passati diciassette anni da quando ci ha lasciati e molti di più da quando un colpo di Stato lo ha privato del suo ruolo politico e della possibilità di vivere da uomo libero nel suo Paese”. Berlusconi ricorda che “la grandezza di Craxi è stata quella di porsi per primo il problema di un profondo rinnovamento del sistema politico italiano, di una modernizzazione indispensabile”. E ancora, scrive il leader di Forza Italia: “Craxi era un uomo di sinistra che ha provato a dimostrare che esiste una sinistra senza soggezione ai comunisti, senza nostalgie utopistiche, senza giustizialismo”. Stefania ringrazia Berlusconi per “le belle parole e le significative riflessioni sulle pagine oscure che portarono alla fine della Prima Repubblica, un vero e proprio colpo di Stato, che ancora oggi inquina la vita politica e istituzionale del nostro Paese”. Affrontarle “non è un mero esercizio storico, ma missione necessaria per chi si pone il problema del domani”. Lo stesso concetto della sfida di Craxi alla sinistra comunista, sottolineato da Berlusconi, lo ripete Alfano, ex delfino del Cav, ex segretario nazionale del Pdl, il fondatore di Ncd che poi abbandonò “Silvio” per proseguire sulla strada delle larghe intese con il Pd. Chiede Formiche.net al ministro degli Esteri se la “svolta” della sua visita a Hammamet possa significare l’inizio di una revisione da parte del Pd di Matteo Renzi, suo principale alleato e azionista di maggioranza del governo Gentiloni, del giudizio su Craxi, fino ad abbattere il muro della damnatio memoriae a sinistra nei confronti dello statista socialista. Alfano così risponde a Formiche.net: “Quando Craxi era primo ministro io ero alle scuole medie, appartengo quindi a una generazione che si può permettere di esprimere un giudizio sugli esiti della sua vicenda politica dal punto di vista delle sue lungimiranti intuizioni. Che vanno dalle libertà religiose (rinnovo del Concordato Stato-Chiesa ndr), alle vicende con l’Est dell’Europa, dove Craxi difese i dissidenti sovietici, all’integrazione europea, a tutto quanto ha caratterizzato la sua visione sul Medio Oriente e il Mediteranno, ma anche la modernizzazione della nostre istituzioni statali e le sue scelte sulle questioni economiche, come il decreto di S. Valentino sulla scala mobile. Ecco, queste sono tutte cose che dimostrano che lui aveva visto lungo”. Prosegue Alfano, nel colloquio con Fomiche.net: “Craxi aveva visto lungo sulla necessità di una sinistra italiana riformatrice che non fosse sotto il cappello del Partito comunista italiano. Quindi, sulle questioni di fondo, lui ebbe una direzione di marcia che la Storia dimostrò poi essere vera”. Conclude il nostro ministro degli Esteri: “Non esiste damnatio memoriae per coloro che hanno il riconoscimento dalla Storia della correttezza delle proprie intuizioni”. Bobo Craxi giudica il gesto di Alfano “nobile e coraggioso”. Osserva l’ex sottosegretario agli Esteri del governo D’Alema: “È un gesto che impegna il governo, perché il ministro degli Esteri è la punta di diamante di un esecutivo. In Italia ormai è iniziata una revisione. Gli italiani rimpiangono gli statisti della Prima Repubblica”. Racconta Anna Craxi a Formiche.net, facendo una raro strappo al suo noto riserbo: “Non facciamo in tempo a mettere il registro delle presenze davanti alla tomba che si riempie subito. Abbiamo registrato quasi 20.000 firme ogni anno, molti italiani scrivono: Bettino, con te non saremmo messi così male. Ma io ho visto anche tante firme e frasi di turisti stranieri, tedeschi, inglesi…”. Ora le presenze sono un po’ calate, dopo il terrorismo internazionale che ha colpito la Tunisia e la continua a lambire. Spiega Stefania: “Non dimenticheremo mai quello che la Tunisia ha fatto per mio padre e per la mia famiglia. Oggi quel popolo che seppe dare una lezione di coraggio e di libertà nel rispetto delle leggi e del diritto internazionale, vive una fase difficile e travagliata della sua storia millenaria ed ha bisogno che l’Italia, l’Europa e le istituzioni internazionali aiutino con la forza dei fatti e non delle parole questa giovane democrazia, argine del caos libico”. Di questo hanno parlato il presidente tunisino Caid Essebsi e il ministro Alfano. Che prima di tornare in Italia ha sostato per un tè alla menta al Caffè del Moro, alla Medina, accanto a Stefania e Bobo, sotto il ritratto di Craxi, vestito con la sahariana degli anni dell’esilio. Sotto quel ritratto, che raffigura Craxi con espressione addolorata e pensosa e lo sguardo rivolto al di là del mare, verso l’Italia, c’era il tavolo di Bettino. Il convitato di pietra della nostra politica. Con la sua memoria l’Italia, anche quella dei governi a maggioranza di centrosinistra, come la visita di Alfano ha dimostrato, deve fare i conti.

L'attualità di Craxi e la memoria corta della sinistra. Tante persone, tra cui molti giovani, a 16 anni di distanza si recano sulla tomba di Craxi per deporre un garofano rosso. Tra questi, ancora una volta, mancano gli esponenti di una sinistra vecchia e nuova che con la sua storia e con la sua eredità politica non vuole proprio fare i conti, scrive Stefania Craxi, Martedì 19/01/2016, su "Il Giornale". Ricorre oggi il sedicesimo anniversario della scomparsa di Bettino Craxi, leader socialista ed antesignano di una sinistra riformista e di governo. Come consuetudine la Fondazione a lui intitolata organizzerà dal 22 al 24 gennaio gli eventi celebrativi in Tunisia, ad Hammamet, che date le circostanze politiche internazionali avranno un significato particolare. Non è solo un omaggio ad un uomo che ha sempre agito nell'interesse del suo Paese ma si vuole ribadire la necessità di un impegno italiano nella vasta area del Mediterraneo allargato come nelle intuizioni di Craxi, la cui incessante opera di dialogo e mediazione rappresenta una speranza ed una via d'uscita per i popoli che insistono nel Mare nostrum. Craxi capì con grande lungimiranza che l'integrazione ed il dialogo avrebbero rappresentato la grande questione del nostro tempo. Quando si prodigò per l'abbattimento del debito dei Paesi del Terzo mondo lo fece perché capì che laddove prospera il bisogno e la povertà attecchiscono gli estremismi. Craxi disse che in un mondo in cui le disuguaglianze tra Nord e Sud del mondo sono ampie non vi potrà essere pace e lo scontro tra culture sarà ineludibile. Se l'Europa, ed ancor di più l'Italia, vogliono ancora dire con forza e credibilità la loro devono riprendere con decisione la via del Mediterraneo facendosi promotori di un grande piano Marshall per la costruzione di una vasta regione euro-mediterranea. La Tunisia, che garantì a Craxi la sua libertà, che come egli ebbe a dire equivaleva alla sua stessa vita, continua a rappresentare l'unico esperimento positivo nel panorama delle «Primavere arabe» e sono ben chiare le ragioni per cui è diventata un obiettivo sensibile. È quindi ben evidente l'attualità del pensiero di Craxi. Spiace che se fosse stata seguita con la stessa tenacia la strada da lui indicata ed intrapresa, tante tragedie e tanti conflitti dei nostri giorni si sarebbero risparmiati. È con questo spirito che tante persone, tra cui molti giovani, a 16 anni di distanza si recheranno sulla sua tomba a deporre un garofano rosso. Tra questi, ancora una volta, mancheranno gli esponenti di una sinistra vecchia e nuova che con la sua storia e con la sua eredità politica non vuole proprio fare i conti.

Una via per Bettino. Dopo 17 anni Craxi può tornare a Milano. Nell'anniversario delle morte il sindaco Sala si dice favorevole all'omaggio: "Mi piacerebbe sentire cosa ne pensa la città". E il ricordo dell'ex leader socialista riunisce Berlusconi e Alfano, scrive il 19 Gennaio 2017 "Il Foglio”. 19 gennaio 2000 - 19 gennaio 2017. Sono trascorsi 17 anni dalla morte, ad Hammamet, di Bettino Craxi. Evidentemente pochi in un Paese come l'Italia. Pochi per poter pensare che la memoria del leader Psi non riporti a galla le solite polemiche. Ma mentre i "puri" continuano a lanciare monetine, altrove qualcosa sembra cambiare. A Milano, ad esempio, il sindaco Giuseppe Sala, si è detto disponibile a riaprire il dibattito sull'intitolazione di una via o di un luogo della città a Craxi. Per ora nessuna decisione ma, ha spiegato, "sono favorevole e mi piacerebbe sentire che cosa ne pensa la città. Vorrei riaprire un dibattito per stabilire il più possibile la verità storica in riferimento ad un periodo difficile per la storia italiana". In realtà non è la prima volta che si parla di questa possibilità. Era già successo durante la giunta Moratti, nel 2009, ma poi l'idea si era arenata. Non è l'unica novità di questo anniversario. Nel celebrare Bettino Craxi anche Silvio Berlusconi e Angelino Alfano, a modo loro, si sono ritrovati. Il ministro degli Esteri, primo di un governo di centrosinistra dai tempi dei funerali del leader socialista, trovandosi in Tunisia ha deciso di recarsi ad Hammamet dove, insieme alla moglie e ai figli di Craxi ha deposto un mazzo di rose sulla tomba. "Non sono il primo a rendere omaggio alla tomba di Bettino Craxi - ha detto -. Presidenti della Camera, membri di governo sono stati qui. Oggi per me è stato un po' un piacere un po' un dovere, trovandomi in Tunisia in visita ufficiale. Craxi da primo ministro e da leader politico ci aveva visto lungo, in profondità e sulle grandi questioni della modernizzazione ci aveva anche preso, come ad esempio sulla riforma delle istituzioni dello Stato per renderle più moderne ed efficienti. Su ogni questione su cui aveva gettato lo sguardo aveva indovinato la direzione". Silvio Berlusconi ha invece inviato un messaggio: "Mi manca e ci manca è stato un simbolo della dignità della politica. È difficile pensare che siano già trascorsi 17 anni da quando ci ha lasciato e molti di più da quando un vero e proprio 'colpo di Stato' lo ha privato del suo ruolo politico e della stessa possibilità di vivere da uomo libero nel suo Paese. È difficile credere che sia passato tanto tempo perché Bettino è presente, è attuale, è anche oggi un protagonista del dibattito politico. Questo perché la grandezza di Bettino Craxi è stata anche quella di saper guardare al di là delle contingenze, è stata quella di porsi per primo il problema di un profondo rinnovamento del sistema politico italiano, di una sua apertura, di una modernizzazione indispensabile". Stefania Craxi, parlando con l'Agi, ha definito la visita di Alfano "un atto di giustizia di cui sono grata al ministro, che vorrei ringraziare, così come ringrazio Berlusconi che anche in questa occasione non ha fatto mancare il sostegno alla mia famiglia, con un messaggio in cui parla apertamente di 'colpo di Stato' che ha costretto Craxi all'esilio". La figlia di Bettino ha voluto ringraziare anche Sala, che "con onestà intellettuale ha riaperto il dibattito sull'omaggio doveroso che Milano dovrebbe a un grande milanese".

Vittorio Sgarbi: “Craxi scopava Moana Pozzi che lo spiava”, scrive "Blitz Quotidiano" l'11 gennaio 2017. “Bettino Craxi scopava con Moana Pozzi, che lo spiava”: battuta o verità? Difficile capire dove finisca la provocazione e dove inizi la rivelazione, se a parlare è Vittorio Sgarbi. Ma tant’è. Il critico d’arte ferrarese è intervenuto all’ultima puntata di Matrix, il programma di Canale 5 condotto da Nicola Porro, che aveva per oggetto lo spionaggio a Matteo Renzi e Mario Draghi, a ministri e autorità, da parte dei due fratelli Occhionero, Giulio e Francesca Maria. Sgarbi interviene parlando delle pornostar spie. “Ma voi lo sapevate che la gola profonda che ha rivelato che Moana Pozzi era una spia del KGB era Eva Henger?”, dice, parlando di una “rete di pornostar che aspirano ad elevarsi al rango di Mata Hari”. E poi, quasi en passant: “Bettino Craxi se la sc… e lei lo spiava”.

Ecco come Giorgio Dell’Arti racconta il rapporto tra Craxi e Moana Pozzi: Conobbe Bettino Craxi a un cena: «Cominciò a farmi un sacco di complimenti (…) Ero gratificata (…) Due giorni dopo mi telefonò… Uscimmo soli. Cenammo in albergo e finimmo in camera. Lo feci per il carisma, non per altro. Allora non era nemmeno presidente. A lui piacevano più i preliminari che la cosa in sé. Era in adorazione per le donne, ti copriva di attenzioni, si preoccupava» [Moana Pozzi –La filosofia di Moana 1991].

"Mi manca Bettino, vittima di un golpe". Ecco l'intervento che il Cav ha rivolto ai famigliari dell'ex leader socialista. Silvio Berlusconi, Venerdì 20/01/2017, su "Il Giornale". "Cara Stefania, cari amici, sono con voi con il cuore oggi a ricordare Bettino Craxi nel 17^ anniversario della sua scomparsa. È difficile pensare che siano già trascorsi 17 anni da quando ci ha lasciato e molti di più da quando un vero e proprio «colpo di Stato» lo ha privato del suo ruolo politico e della stessa possibilità di vivere da uomo libero nel suo Paese. È difficile credere che sia passato tanto tempo perché Bettino è presente, è attuale, è anche oggi un protagonista del dibattito politico. Questo perché la grandezza di Bettino Craxi è stata anche quella di saper guardare al di là delle contingenze, è stata quella di porsi per primo il problema di un profondo rinnovamento del sistema politico italiano, di una sua apertura, di una modernizzazione indispensabile. Non gli hanno permesso di realizzare il suo progetto, e forse come tutti noi ha commesso degli errori, ma rimarrà a suo onore nella storia il merito di averne intuito la necessità, e di aver avuto il coraggio di provarci. Craxi era un uomo di sinistra, che ha provato a dimostrare che esiste una sinistra possibile senza soggezione ai comunisti, senza nostalgie utopistiche, senza giustizialismo, una sinistra capace di parlare il linguaggio della modernizzazione e soprattutto della libertà. Questa sinistra non è mai esistita in Italia, e non esiste neppure ora: coloro che hanno provato a realizzarla sono stati spazzati via da quell'altra sinistra, quella giustizialista e post-comunista, quella delle manette e degli insulti, delle monetine e dei linciaggi mediatici. Solo chi è stato vittima di tutto questo può capire il dramma di Bettino Craxi, ma anche la grandezza della sua testimonianza: scelse la strada dell'esilio pur di non venire a patti con questo apparato politico-mediatico-giudiziario che uccide la libertà e la democrazia. La sua eredità politica, il socialismo riformatore, liberale, occidentale è una delle parti migliori della tradizione politica del nostro Paese. La considero parte integrante del progetto politico che ho creato quando ho fondato Forza Italia, anche per impedire che l'Italia cadesse nelle mani della sinistra post-comunista. Continuo a credere che questa tradizione politica riformista, assieme a quella liberale e a quella cristiana, siano i fondamenti sui quali costruire il futuro dell'Italia. Bettino Craxi è anche un simbolo della dignità della politica. Per questo sono onorato ogni volta che il mio nome viene accostato al suo, per quanto la cosa avvenga spesso con intenti polemici, come qualche giornale ha fatto anche oggi. In effetti il nostro rapporto non c'entrava molto con la politica, della quale allora non mi occupavo se non come elettore: con Bettino e la sua famiglia nacquero un'amicizia e un affetto personale che vanno al di là delle stesse opinioni politiche. Frequentandolo ho imparato a stimarlo non solo come amico leale, ma come uomo generoso e disinteressato esattamente il contrario di come lo ha dipinto certa stampa come politico appassionato alle idee e disinteressato del potere. Posso anzi testimoniare che negli anni in cui svolgevo l'attività di imprenditore, e nonostante la grande confidenza personale, Craxi è stato uno dei pochissimi politici a non sollecitare favori economici diretti o indiretti per sé e per il suo partito. Anche per questo Bettino Craxi mi manca e ci manca. Anche per questo vorrei essere con Voi, nella bellissima cornice di Hammamet, vorrei tornare in quel piccolo e suggestivo cimitero sotto le mura e davanti al mare, nel quale Bettino chiese di essere sepolto. Vorrei essere lì con Voi per rendere ancora una volta omaggio a un amico, ad un uomo libero, ad uno statista. A tutti voi, e in particolare ad Anna, a Stefania, a Bobo, a cui mi legano tanti ricordi, e a tutti gli amici presenti rivolgo un saluto cordiale e un abbraccio affettuoso.

Da anticraxiano vi dico: gli dobbiamo qualcosa, scrive Piero Sansonetti il 19 gennaio 2017 su "Il Foglio". Il 19 gennaio del 2000 moriva esule in Tunisia. Lo hanno fatto passare per un brigante ma era uno statista. Fu abbattuto da Mani Pulite: era rimasto l’unico a difendere l’autonomia della politica. Da allora la politica ha perso autonomia. Il 19 gennaio del 2000, e cioè 17 anni fa, moriva Bettino Craxi. Aveva 65 anni, un tumore al rene curato male, un cuore malandato, curato malissimo. Il cuore a un certo punto si fermò. Non fu fatto molto per salvarlo. Non fu fatto niente, dall’Italia. Craxi era nato a Milano ed è morto ad Hammamet, in Tunisia, esule. Era stato segretario del partito socialista per quasi vent’anni e presidente del Consiglio per più di tre. In Italia aveva subito condanne penali per finanziamento illecito del suo partito e per corruzione. Quasi dieci anni di carcere in tutto. Prima delle condanne si era trasferito in Tunisia. Se fosse rientrato sarebbe morto in cella. Craxi ha sempre respinto l’accusa di corruzione personale. Non c’erano prove. E non furono mai trovati i proventi. In genere quando uno prende gigantesche tangenti e le mette in tasca, poi da qualche parte questi soldi saltano fuori. In banca, in acquisti, in grandi ville, motoscafi. Non furono mai trovati. I figli non li hanno mai visti. La moglie neppure. Lui non li ha mai utilizzati. Non ha lasciato proprietà, eredità, tesori. Craxi era un malfattore, o è stato invece uno statista importante sconfitto da una gigantesca operazione giudiziaria? La seconda ipotesi francamente è più probabile. La prima è quella più diffusa nell’opinione pubblica, sostenuta con grande impegno da quasi tutta la stampa, difesa e spada sguainata da gran parte della magistratura. Craxi era stato uno degli uomini più importanti e potenti d’Italia, negli anni Ottanta, aveva goduto di grande prestigio internazionale. Si era scontrato e aveva dialogato con Reagan, col Vaticano, con Israele e i paesi Arabi, con Gorbaciov, con quasi tutti i leader internazionali. Aveva sostenuto furiose battaglie con i comunisti in Italia, con Berlinguer e Occhetto e D’Alema; e anche con la Dc, con De Mita, con Forlani, epici gli scontri con Andreotti; con la Dc aveva collaborato per anni e governato insieme. Bene, male? Poi ne discutiamo. Aveva anche firmato con la Chiesa il nuovo concordato. Morì solo solo. Solo: abbandonato da tutti. Stefania, sua figlia, racconta di quando la mamma la chiamò al telefono, nell’autunno del ‘ 99, e le disse che Bettino era stato ricoverato a Tunisi, un attacco di cuore. Lei era a Milano, si precipitò e poi cercò di muovere mari e monti per fare curare il padre. Non si mossero i monti e il mare restò immobile. Craxi fu curato all’ospedale militare di Tunisi. Stefania riuscì ad avere gli esami clinici e li spedì a Milano, al San Raffaele, lì aveva degli amici. Le risposero che c’era un tumore al rene e che andava operato subito, se no poteva diffondersi. Invece passarono ancora due mesi, perché a Tunisi nessuno se la sentiva di operarlo. Arrivò un chirurgo da Milano, operò Craxi in una sala operatoria dove due infermieri tenevano in braccio la lampada per fare luce. Portò via il rene, ma era tardi. Il tumore si era propagato, doveva essere operato prima, si poteva salvare, ma non ci fu verso. In quei giorni drammatici dell’ottobre 1999 Craxi era caduto in profonda depressione. Non c’è da stupirsi, no? Parlava poco, non aveva forse voglia di curarsi. Era un uomo disperato: indignato, disgustato e disperato. Stefania mi ha raccontato che lei non sapeva a che santo votarsi: non conosceva persone potenti. Il Psi non esisteva più. Chiamò Giuliano Ferrara e gli chiese di intervenire con D’Alema. Il giorno dopo Ferrara gli disse che D’Alema faceva sapere che un salvacondotto per l’Italia era impossibile, la Procura di Milano avrebbe immediatamente chiesto l’arresto e il trasferimento in carcere. Stefania chiese a Ferrara se D’Alema potesse intervenire sui francesi, i francesi sono sempre stati generosi con la concessione dell’asilo politico. Era più che naturale che glielo concedessero. Curarsi a Parigi dava qualche garanzia in più che curarsi all’ospedale militare di Tunisi. Passarono solo 24 ore e Jospin, che era il presidente francese, rilasciò una dichiarazione alle agenzie: «Bettino Craxi non è benvenuto in Francia». Quella, più o meno, fu l’ultima parola della politica su Craxi. Fu la parola decisiva dell’establishment italiano e internazionale. Craxi deve morire. Il 19 gennaio Craxi – per una volta – obbedì e se andò all’altro mondo. E’ curioso che quasi vent’anni dopo la sua morte, e mentre cade il venticinquesimo anniversario dell’inizio della stagione di Tangentopoli ( Mario Chiesa fu arrestato il 17 febbraio del 1992, e da lì cominciò tutto, da quel giorno iniziò la liquidazione della prima repubblica), qui in Italia nessuno mai abbia voluto aprire una riflessione su cosa successe in quegli anni, sul perché Craxi fu spinto all’esilio e alla morte, sul senso dell’inchiesta Mani Pulite, sul peso della figura di Craxi nella storia della repubblica. Ci provò Giorgio Napolitano, qualche anno fa. Ma nessuno gli diede retta. Vogliamo provarci? Partendo dalla domanda essenziale: Statista o brigante. Forse sapete che Bettino Craxi negli anni Ottanta scriveva dei corsivi sull’Avanti!, il giornale del suo partito, firmandoli Ghino di Tacco. Ghino era un bandito gentiluomo vissuto verso la metà del 1200 dalle parti di Siena, a Radicofani. Boccaccio parla di lui come una brava persona. A Craxi non dispiaceva la qualifica di brigante. Perché era un irregolare della politica. Uno che rompeva gli schemi, che non amava il political correct. Però non fu un bandito e fu certamente uno statista. Persino Gerardo D’Ambrosio, uno dei più feroci tra i Pm del pool che annientò Craxi, qualche anno fa ha dichiarato: non gli interessava l’arricchimento, gli interessava il potere politico. Già: Craxi amava in modo viscerale la politica. La politica e la sua autonomia. Attenzione a questa parola di origine greca: autonomia. Perché è una delle protagoniste assolute di questa storia. Prima di parlarne però affrontiamo la questione giudiziaria. Era colpevole o innocente? Sicuramente era colpevole di finanziamento illecito del suo partito. Lo ha sempre ammesso. E prima di lasciare l’Italia lo proclamò in un famosissimo discorso parlamentare, pronunciato in un aula di Montecitorio strapiena e silente. Raccontò di come tutti i partiti si finanziavano illegalmente: tutti. Anche quelli dell’opposizione, anche il Pci. Disse: se qualcuno vuole smentirmi si alzi in piedi e presto la storia lo condannerà come spergiuro. Beh, non si alzò nessuno. Il sistema politico in quegli anni – come adesso – era molto costoso. E i partiti si finanziavano o facendo venire i soldi dall’estero o prendendo tangenti. Pessima abitudine? Certo, pessima abitudine, ma è una cosa molto, molto diversa dalla corruzione personale. E in genere il reato, che è sempre personale e non collettivo, non era commesso direttamente dai capi dei partiti, ma dagli amministratori: per Craxi invece valse la formula, del tutto antigiuridica, “non poteva non sapere”. Craxi era colpevole. Nello stesso modo nel quale erano stati colpevoli De Gasperi, Togliatti, Nenni, la Malfa, Moro, Fanfani, Berlinguer, De Mita, Forlani… Sapete di qualcuno di loro condannato a 10 anni in cella e morto solo e vituperato in esilio? Ecco, qui sta l’ingiustizia. Poi c’è il giudizio politico. Che è sempre molto discutibile. Craxi si occupò di due cose. La prima era guidare la modernizzazione dell’Italia che usciva dagli anni di ferro e di fuoco delle grandi conquiste operaie e popolari, e anche della grande violenza, del terrorismo, e infine della crisi economica e dell’inflazione. Craxi pensò a riforme politiche e sociali che permettessero di stabilizzare il paese e di interrompere l’inflazione. La seconda cosa della quale si preoccupò, strettamente legata alla prima, era la necessità di salvare e di dare un ruolo alla sinistra in anni nei quali, dopo la vittoria di Reagan e della Thatcher, il liberismo stava dilagando. Craxi cercò di trovare uno spazio per la sinistra, senza opporsi al liberismo. Provò a immaginare una sinistra che dall’interno della rivoluzione reaganiana ritrovava una sua missione, attenuava le asprezze di Reagan e conciliava mercatismo e stato sociale. Un po’ fu l’anticipatore di Blair e anche di Clinton (e anche di Prodi, e D’Alema e Renzi…). Craxi operò negli anni precedenti alla caduta del comunismo, ma si comportò come se la fine del comunismo fosse già avvenuta. Questa forse è stata la sua intuizione più straordinaria. Ma andò sprecata. Personalmente non ho mai condiviso quella sua impresa, e cioè il tentativo di fondare un liberismo di sinistra. Così come, personalmente, continuo a pensare che fu un errore tagliare la scala mobile, e che quell’errore di Craxi costa ancora caro alla sinistra. Ma questa è la mia opinione, e va confrontata con la storia reale, e non credo che sia facile avere certezze. Quel che certo è che Craxi si misurò con questa impresa mostrando la statura dello statista, e non cercando qualche voto, un po’ di consenso, o fortuna personale. Poi possiamo discutere finché volete se fu un buono o un cattivo statista. Così come possiamo farlo per De Gasperi, per Fanfani, per Moro. E qui arriviamo a quella parolina: l’autonomia della politica. Solo in una società dove esiste l’autonomia della politica è possibile che vivano ed operano gli statisti. Se l’autonomia non esiste, allora i leader politici sono solo funzionari di altri poteri. Dell’economia, della magistratura, della grande finanza, delle multinazionali…In Italia l’autonomia della politica è morta e sepolta da tempo. L’ha sepolta proprio l’inchiesta di Mani Pulite. C’erano, negli anni Settanta, tre leader, più di tutti gli altri, che avevano chiarissimo il valore dell’autonomia. Uno era Moro, uno era Berlinguer e il terzo, il più giovane, era Craxi. Alla fine degli anni Ottanta Moro e Berlinguer erano morti. Era rimasto solo Craxi. Io credo che fu essenzialmente per questa ragione che Craxi fu scelto come bersaglio, come colosso da abbattere, e fu abbattuto. Lui era convinto che ci fu un complotto. Sospettava che lo guidassero gli americani, ancora furiosi per lo sgarbo che gli aveva fatto ai tempi di Sigonella, quando ordinò ai carabinieri di circondare i Marines che volevano impedire la partenza di un aereo con a bordo un esponente della lotta armata palestinese. I carabinieri spianarono i mitra. Si sfiorò lo scontro armato. Alla fine, in piena notte, Reagan cedette e l’aereo partì. Sì, certo, non gliela perdonò. Io non credo però che ci fu un complotto. Non credo che c’entrassero gli americani. Penso che molte realtà diverse (economia, editoria, magistratura) in modo distinto e indipendente, ma in alleanza tra loro, pensarono che Tangentopoli fosse la grande occasione per liquidare definitivamente l’autonomia della politica e per avviare una gigantesca ripartizione del potere di stato. Per questo presero Craxi a simbolo da demolire. Perché senza di lui l’autonomia della politica non aveva più interpreti. Dal punto di vista giudiziario “mani pulite” ha avuto un risultato incerto. Migliaia e migliaia di politici imputati, centinaia e centinaia arrestati, circa un terzo di loro, poi, condannati, moltissimi invece assolti (ma azzoppati e messi al margine della lotta politica), diversi suicidi, anche illustrissimi come quelli dei presidenti dell’Eni e della Montedison. Dal punto di vista politico invece l’operazione fu un successo. La redistribuzione del potere fu realizzata. Alla stampa toccarono le briciole, anche perché nel frattempo era sceso in campo Berlusconi. All’imprenditoria e alla grande finanza andò la parte più grande del bottino, anche perché decise di collaborare attivamente con i magistrati, e dunque fu risparmiata dalle inchieste. Quanto alla magistratura, portò a casa parecchi risultati. Alcuni molto concreti: la fine dell’immunità parlamentare, che poneva Camera e Senato in una condizione di timore e di subalternità verso i Pm; la fine della possibilità di concedere l’animista; la fine della discussione sulla separazione delle carriere, sulla responsabilità civile, e in sostanza la fine della prospettiva di una riforma della giustizia. Altri risultati furono più di prospettiva: l’enorme aumento della popolarità, fino a permettere al Procuratore di Milano – in violazione di qualunque etica professionale – di incitare il popolo alla rivolta contro la politica (“resistere, resistere, resistere… ”) senza che nessuno osasse contestarlo, anzi, tra gli applausi; il via libera all’abitudine dell’interventismo delle Procure in grandi scelte politiche ( di alcune parlava giorni fa Pierluigi Battista sul Corriere della Sera); l’enorme aumento del potere di controllo sulla stampa e sulla Tv; la totale autonomia. Ora a me restano due domande. La prima è questa: quanto è stata mutilata la nostra democrazia da questi avvenimenti che hanno segnato tutto l’ultimo quarto di secolo? E questa mutilazione è servita ad aumentare il tasso di moralità nella vita pubblica, oppure non è servita a niente ed è stata, dunque, solo una grandiosa e riuscita operazione di potere? E la seconda domanda è di tipo storico, ma anche umano: è giusto che un paese, e il suo popolo, riempiano di fango una figura eminente della propria storica democratica, come è stato Craxi, solo per comodità, per codardia, per “patibolismo”, deturpando la verità vera, rinunciando a sapere cosa è stato nella realtà il proprio passato? Io penso di no. Da vecchio anticraxiano penso che dobbiamo qualcosa a Bettino Craxi.

FIGLI DI PUTIN...

“Figli di Putin”: di Marco Travaglio. Mentre in Italia il Parlamento e i giornaloni discutono animatamente della piaga dei giudici in politica, putribondi figuri che mettono in cattiva luce i politici pregiudicati, all’estero dilaga la peste giustizialista: dalla Romania al Brasile alla Russia, la gente scende in piazza addirittura contro la corruzione e financo in difesa dei magistrati anticorruzione. Lo so, sono scene orribili che non vorremmo mai vedere, noi che difendiamo orgogliosamente il primato di Paese più corrotto d’Europa. Ma tant’è: non tutti hanno la nostra fortuna. Noi, dal virus della legalità, siamo guariti già da un pezzo. Infatti in questi giorni, 25 anni dopo Mani Pulite, è tutto un autodafé e un’autocritica per quel clima plumbeo del 1992-’93, che a furor di popolo portava partiti e movimenti di destra e di sinistra, ma anche giornali (come la Repubblica di Scalfari e il Giornale di Montanelli) a organizzare manifestazioni, cortei e fiaccolate contro i politici corrotti e in difesa dei pm di Mani Pulite. I quali erano contesi a morsi e gomitate dai partiti, che li volevano ministri, candidati al Parlamento, a sindaci o a incarichi istituzionali per esporli come trofei e sventolarli come vessilli – scrive Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano nell’editoriale di oggi 28 marzo 2017, dal titolo “Figli di Putin” –.

Nel ’94 Tiziana Parenti divenne deputato di Forza Italia e presidente della commissione Antimafia, Di Pietro rifiutò l’offerta di Berlusconi e Previti di fare il ministro dell’Interno, Davigo quella di Ignazio La Russa di diventare ministro della Giustizia. Dopodiché “Tonino” lasciò la toga e nel ’95 respinse i nuovi assalti sia di B. che lo voleva viceleader del centrodestra o capo dei servizi segreti, di Casini e Buttiglione che lo invocavano come leader del centro, di Fini e Tremaglia che lo sognavano alfiere della destra, e nel ’96 cedette all’offerta tecnica di Prodi che lo nominò ministro dei Lavori pubblici e poi a quella politica di D’Alema che nel ’97 lo candidò al Mugello. All’epoca pareva che il problema dell’Italia fosse quello della corruzione (stimata dal Centro Einaudi in 10 miliardi di euro all’anno di costi aggiuntivi per le casse dello Stato), cioè dei ladri, non di chi l’aveva scoperta e sanzionata, cioè le guardie. Ora che è quasi decuplicata (chi dice 60, chi 80, chi 100 miliardi all’anno), il problema sono i giudici, che non devono più metter piede in Parlamento nemmeno per visitarlo, per non infastidire i delinquenti che vi risiedono in pianta stabile. L’unica forza parlamentare significativa che si sottrae a questa “narrazione”, a parte i sostenitori di Michele Emiliano, è il Movimento 5 Stelle, che anzi corteggia alcuni noti pm per il suo eventuale governo prossimo venturo.

Il che rende incomprensibile il silenzio pentastellato su quanto è accaduto l’altroieri a Mosca, con l’arresto di ben 1030 manifestanti scesi nelle piazze di Mosca e di una novantina di altre città russe al seguito della Fondazione Anticorruzione del noto blogger Alexei Navalny, che intende candidarsi alle Presidenziali del 2018 contro Vladimir Putin. E da mesi martella sui social la sua campagna contro i malaffari del presidente-dittatore e del fido premier Dmitrij Medvedev, entrambi ricchi sfondati con proprietà in mezzo mondo. Navalny è stato arrestato e condannato su due piedi per manifestazione non autorizzata. Un clamoroso autogol del Cremlino, che vieppiù lo legittima come candidato anti-Putin, in un Paese dove chiunque osi presentarsi alle elezioni contro di lui finisce regolarmente in galera. Il fatto poi che in tutta la Russia, dalla Capitale a San Pietroburgo alle regioni più remote (Siberia, Urali, Estremo Oriente) decine di migliaia di cittadini (nella sola Mosca erano 7 mila) abbiano sfidato il niet del regime per manifestare pacificamente senza il permesso del Cremlino, come non avveniva dagli anni 80 prima del crollo del muro di Berlino, dimostra quanto farlocchi siano i risultati plebiscitari tanto delle elezioni quanto dei sondaggi a favore di Putin. La reazione dell’Europa è stata, al solito, molto flebile, a parte quella tedesca. Soliti fervorini della Mogherini per l’Ue e del mogherino Alfano per l’Italia.

Matteo Salvini, immemore delle analogie tra la sua Lega (anzi, di quella di Bossi) che 25 anni fa manifestava – autorizzata o meno – contro i Putin e Medvedev della Prima Repubblica, rilascia dichiarazioni demenziali, frettolosamente tradotte in dialetto padano dal cirillico: “È l’ennesima montatura mediatica. La manifestazione non era autorizzata. Ho fatto una ricerca sul personaggio in questione: un blogger anti-Putin, venduto come leader dell’opposizione. Ma che secondo le stime avrebbe solo il 3%. Insomma, è uno dei tanti che si oppone a Putin. Mi fa sorridere che Putin sia considerato un dittatore. La Russia cresce più dell’Italia. Sei mesi fa ci sono state le elezioni: ha votato il 48% dei russi ed è stato eletto democraticamente un Parlamento”. Un concentrato di assurdità e illogicità. Ma Salvini ha appena siglato un “piano di cooperazione” (economica?) col partito di Putin, che piace molto anche a FI e a mezzo Pd per nobili ragioni affaristiche (se ne occupa Antonio Padellaro a pagina 11).

Resta da capire perché i 5Stelle tacciano: le manifestazioni del movimento di Navalny somigliano molto – per l’uso del web, per il tema corruzione, per le decine di piazze collegate – ai V-Day che nel 2007-2008 tennero a battesimo i M5S. Chi, se non i 5Stelle dovrebbe difendere la democrazia dal basso contro la repressione dall’alto e pretendere dal governo e dal Parlamento italiani una reazione energica contro il regime putiniano che reprime il dissenso, processa gli oppositori, arresta i manifestanti, perseguita i gay, per non parlare dei giornalisti critici che raramente hanno il privilegio di morire per cause naturali. Invece tutti zitti e Mosca.

Alla tv vanno in onda i falsi eredi di Craxi, oggi alleati di una destra produttrice di barbarie, scrive il 22 gennaio 2004 Arnaldo Sciarelli su “Europa Quotidiano”. Domenica sera a Telecamere il mio antico compagno Gianni De Michelis ha affermato che è andato con Berlusconi perché Craxi ha pagato ingiustamente e altri no, e per evitare che Rutelli diventasse presidente del consiglio.

Premesso che sulla vicenda di Craxi sono da sempre d’accordo per motivi obiettivi e culturali, vicenda che comunque non ha mai modificato il mio comportamento ideologico e quindi socialista, con Rutelli presidente ci saremmo almeno risparmiati la ridicolizzazione subita dal giornalismo mondiale per avere oggi un presidente che si occupa prevalentemente, attraverso leggi incomprensibili, di problemi amicali e familiari.

E quando Boselli ha chiesto a De Michelis, giustamente, come può un socialista che si dichiara ancora tale, stare con leghisti ed ex fascisti, molti dei quali sono ancora fascisti, e barbari ultraliberisti, vista la difficoltà di Gianni, La Russa è intervenuto per affermare che i socialisti che stanno con l’Ulivo sono «capponi» e che Craxi e il Psi sono stati uccisi dagli ex comunisti.

La Russa ha altresì affermato di non aver mai tirato le monetine a Craxi, di non averne mai parlato male! Povero La Russa. Vista la vicinanza dell’onorevole Speroni ha dimenticato il cappio della Lega, la presenza dei Fini boys sotto la direzione del partito in via del Corso, per pareggiare gli Occhetto boys del Raphael. Ha dimenticato le parole di Fini in parlamento («Avete assolto un ladro») e la sua richiesta di intervento del capo dello stato, e altre volgarità della destra, alle quali, purtroppo, si aggiunsero anche volgarità di una parte della sinistra.

Del resto Davigo e Colombo rappresentavano questa collusione che, mutuando antiche e comuni convinzioni dal passato, ha affrontato il problema della corruzione politico-economica, esistente in qualunque paese del mondo, con un piglio giustizialista che poteva essere evitato nell’interesse vero della democrazia. E questo vale fondamentalmente per la sinistra perché la sinistra storica di questo paese, compreso il Pci, il vero Pci, ha combattuto per la libertà e la democrazia, per la Resistenza e per la Costituzione, e non può, come mi ricordò un giorno Nilde Jotti nella sua modesta casa di Ansedonia, dare la sensazione di usare la magistratura per finalità di potere. La Russa ha anche dimenticato che Berlusconi voleva Di Pietro ministro, che Pera e Feltri elogiavano Mani Pulite come il Msi e l’onorevole Fini.

È stato davvero uno spettacolo ridicolo al quale poi si è aggiunta, in Tunisia, la difesa e la rivalutazione di Craxi da parte del senatore Pera il 19 gennaio, nel quarto anniversario della morte di Bettino. E pensare a Bettino Craxi difeso da Pera mi lascia perplesso, così come l’enfasi della destra su Saragat che definì Pertini un eroe.

Io sono fra i pochi che quando Craxi è morto, con antichi compagni come Aniasi ed Achilli, ha testimoniato su giornali nazionali il ricordo di tutte le battaglie socialiste condotte insieme. Sinceramente pensare a Bettino Craxi, figlio del socialista e antifascista, resistente a vita, avvocato Vittorio, allievo prediletto di Nenni, diffusore dell’idea socialista nelle sezioni milanesi fin dalla più tenera età, come collega di governo di Gasparri e Bossi, di Cicchitto e Bondi, e mi fermo per carità di patria, mi viene da ridere. Come tanti di noi, come due storici del nostro vecchio grande partito, Tamburrano e Arfé, avrebbe scelto di stare a sinistra, nel solco della sinistra storica, così come si stabilì nelle ultime riunioni di partito.

Nei confronti del Psi e di Craxi, Di Pietro vale Pera, come Fini, La Russa, Bossi e altri personaggi del vecchio Pci, che cavalcarono l’ipotesi, immorale e antigiuridica, dell’individuazione anticipata del colpevole. La storia, la rivisitazione obiettiva dei fatti, la disparità dei trattamenti riservati da alcuni magistrati, l’Europa ci condurranno, forse, alla verità. La storia di Craxi è un problema dei socialisti, di quelli che a sinistra hanno sbagliato e della famiglia Craxi. La destra, e intendo anche quella ultraliberista, che per Craxi era produttrice di barbarie, non ha nulla a che vedere con il pensiero di Craxi. Craxi non credo che accetterebbe la difesa di questo agglomerato pseudopolitico di destra che, in sostanza, “sgoverna” questo paese. Basta leggere i suoi interventi, le sue intuizioni, il suo agire, da Rimini all’Ansaldo.

L’Internazionale, l’unità dei socialisti italiani ed europei, l’attenzione per il mondo palestinese e arabo-mediterraneo, per le povertà emergenti del nostro paese, per le povertà evidenti del nostro pianeta, non hanno nulla a che vedere con qualunque destra. Craxi è rimasto fedele tutta la vita a «Ora e sempre Resistenza», frase che gridavamo insieme nelle piazze d’Italia con i compagni greci, spagnoli e portoghesi. Del resto era un fatto genetico. Spero che Bobo Craxi e Gianni De Michelis lo ricordino, per evitarsi una trasfusione di sangue verde-azzurronero.

Non esistono veri socialisti che appoggiano governi che si definiscono di centrodestra. L’Internazionale socialista e il Pse, caro Gianni, quando verrai eletto deputato europeo – cosa che ti auguro con amicizia e anche per porti un dilemma – non credo saranno disponibili ad accettare te e il Nuovo Psi ancorati a un governo di centrodestra. Io spero che tu sceglierai, come Bobo, con il cuore in petto. Se poi Berlusconi, con Alleanza nazionale nel Ppe, si inventerà uno pseudocentrosinistra alternativo al nostro, come ho già ipotizzato il 24 dicembre 2003 su queste colonne, la confusione sarà maggiore. Toccherà a noi dimostrare che si tratta dell’ennesimo imbroglio realizzato dalla parte conservatrice del Ppe, supportato dal Nuovo Psi e dal Partito repubblicano, per motivi che non è difficile intuire. Mi risulta che anche il piccolissimo Psdi, nel commemorare Saragat, ha affermato che i socialisti devono stare nell’Internazionale, nel Pse e mai con la destra. Abbiamo già le affermazioni, i pareri e le proposte ideologiche dell’onorevole Berlusconi, del senatore Pera, dell’onorevole Castelli e dell’onorevole Bossi da subire, sulla nostra Costituzione, sui magistrati, sull’antifascismo, sulla Resistenza, sulla libertà della Padania, battaglia lunga e difficile, ma certamente vittoriosa per un ministro di questa Repubblica! Ciampi fa quello che può, spiega, richiama, afferma, controbatte. Speriamo bene. E Craxi si sarebbe alleato con questi personaggi? Con il suo programma di governo, con la sua visione dell’Italia, amata, perché no, in maniera garibaldina, dell’Europa, del pianeta, della vita da spendere per gli ideali del socialismo riformista, nell’interesse dell’umanità. Cerchiamo di essere seri! Aldo Sciarelli

Il primo traditore di Craxi fu suo figlio Bobo. Accusa il Cavaliere di non essere stato un amico, ma quando scoppiò tangentopoli disse: Non sono mai stato craxiano, scrive Filippo Facci, Lunedì 14/01/2008, su "Il Giornale". Meriti la peggiore delle cattiverie, Bobo: la verità. Meriti ciò che fedeli e amici di tuo padre, anzi del padre di tua sorella Stefania, si sono ripetutamente e sommessamente ripetuti per anni, silenziosamente, scuotendo la testa, consolandosi nella speranza che peggio, in fondo, tu non potessi dire né fare. E invece sì, ci riesci ogni volta, ci riesci per la vergogna nostra: e parlo senza timor di smentita di compagni e amici e ripeto familiari che Bettino Craxi amava senza disperazione, com’era invece nel tuo caso. Ora ti sei inventato questo, Bobo: che Silvio Berlusconi non andò ad Hammamet dal 1994 al 2000 e che dunque non fu un buon amico. «È evidente che ha tradito un rapporto». Vien da rispondere che il rapporto intellettivo con tuo padre, tu, l’hai tradito alla nascita, Bobo, ma sarebbe una battuta becera e degna di quell’Umberto Cicconi, ex fotografo di tuo padre, che resta il tuo intellettuale di riferimento. Niente battute, Bobo, la verità basta e avanza. Perché vedi, tu eri il figlio con dei problemi, quello che avrebbe fatto sembrare un lavoratore persino Claudio Martelli, il figlio da sopportare nonostante la sua arroganza che faceva danni incommensurabili ogni qualvolta apriva bocca. Eri quello che non aveva né ha mai lavorato in vita sua e che da solo non avrebbe sfondato in politica neppure in dieci vite, il figlio che boicottava ogni giovane anima di cui tuo padre, pardon il padre di tua sorella, amava circondarsi anche ad Hammamet: nella speranza che qualcuno, certo non tu, potesse raccogliere il suo testimone politico e comportarsi magari come un figlio. Ti fu perdonato tutto, Bobo: persino quella volta che ti scappò quel «non mi sono mai considerato un craxiano» dopo il primo avviso di garanzia spedito al tuo ex padre, nel dicembre 1992, quando stavi per tentare il salto del quaglione tra coloro che volevano «restituire l’onore ai socialisti», ricordi? Ora però basta, Bobo, basta davvero. Il Craxi perdente e zoppicante, la sera tardi, amava ripetere che tutto avrebbe voluto, diceva, «tranne che essere riabilitato da coloro che mi hanno ucciso». C’è chi, come tua sorella, ha incorniciato questa frase dietro la scrivania: la stessa sorella che ormai ti definisce pubblicamente «una tragedia familiare» che non è nazionale, per fortuna, solo per via della tua irrilevanza politica. Hai bussato col cappello in mano dai lanciatori di monetine, hai fatto bisboccia cogli odiatori professionali, con le iene che poi hanno tentato di smangiucchiare ogni visione craxiana con due lustri di ritardo. In politica il tradimento non esiste o quasi, Bobo: ma tu eri un figlio, perlomeno di sangue. Non eri altro, non avevi altro. Da vent’anni davi aria alle parole col tuo politichese vacuo e fatto di nulla: poi, per un collegio di lenticcchie, per il posticino con lo stipendino e la pensioncina, hai svenduto a prezzi di saldo un cognome che non ti appartiene più da tempo, perché l’hai regalato agli scippatori del socialismo europeo, a coloro cui neppure una latitanza parve bastare. Questi sono i tuoi compagni di strada, i traditori indicati da tuo padre: ecco perché della tua biografia, Bobo, resterà l’esser nato come figlio di Bettino Craxi e in secondo luogo il tuo esser passato con quelli che lui giudicò i propri assassini, punto, amen, riposi in pace, pensavamo. E invece no. Ancora parli. Parli di Berlusconi: con tutti gli sciacalli che pure ci furono anche a destra, tu vai a parlare proprio di Berlusconi, vai a parlare dell’uomo che per almeno dieci anni si cercò di associare al padre di tua sorella perlomeno sotto il profilo dell’epilogo politico-giudiziario. Eppure tutto era cominciato proprio nel periodo in cui Berlusconi già orecchiava la politica o a esser precisi il consenso: il periodo in cui una percentuale di italiani che sfiorava il 90 per cento voleva Craxi espressamente in galera, e insomma lo odiava di un odio viscerale, liberatorio, risolutore. Ebbene, giusto all’acme di questa passione civile (sera del 29 aprile, dopo alcune mancate autorizzazioni a procedere contro Craxi) il Berlusconi già mentalmente politico non ebbe a rifuggire le telecamere di Raitre, e così disse: sono venuto a trovare un amico perché sono tanto contento per lui. Un gesto che molti che circondano Berlusconi (oggi) non vollero o poterono permettersi (allora) ma che il futuro vincitore delle elezioni avrebbe comunque pagato salato. E Berlusconi quel prezzo lo pagò, ma è la ragione per cui non poté mai più permettersi di incontrare Craxi da vivo: anche perché il primo a sconsigliarlo politicamente fu proprio Craxi, se non lo sai. Andarono altri, ad Hammamet. Il padre di tua sorella li portava alla Medina per una menta fresca e per un passaggio finto distratto nel cimitero italiano dove avrebbe voluto essere sepolto, diceva. Berlusconi il cimitero l’ha visto per la prima volta nel 2000, nel giorno dei funerali, quando disse che non c’era nulla da dire. E tu ovviamente parlavi, Bobo.

Sul divorzio dai giudici AN si divide. Visibilità. Ignazio La Russa la evoca, esprimendo un disagio comune ad altri dirigenti di Alleanza nazionale che vorrebbero più chiaramente esposta la linea del partito sulla giustizia. Il deputato, legato da rapporti di amicizia stretti con il giudice Piercamillo Davigo, chiede che, ad elezioni consumate, Fini convochi le truppe scelte e dia vita a un "riesame complessivo di tutta la materia". Ripensamenti, messe a fuoco. Resiste dentro An uno zoccolo duro alla Mirko Tremaglia, amico storico di Di Pietro ("Berlusconi tratta la giustizia come fosse un venditore di tappeti nel suk; chi ha un conflitto di interessi deve avere almeno il pudore di farsi da parte..."), ma affiorano sempre di più posizioni 'divorziste' come quella dell' avvocato Giuseppe Valentino, un senatore, membro della commissione Giustizia, solitamente poco esposto ai riflettori, che ieri ha addirittura annunciato: "Le ingerenze sconcertanti cui abbiamo assistito in questi giorni sostanzialmente vanificano l' apprezzamento che Borrelli e la magistratura di Milano si sono conquistati nel passato per la loro attività". Come dire: Mani pulite con noi ha chiuso (o quasi). Publio Fiori è convinto che ormai, dentro il partito, gli equilibri siano cambiati: "L' anima giustizialista era più legata al vecchio partitino d' assalto, ora la destra è potenziale forza di governo". Domenica Gianfranco Fini aveva dettato la linea, ironizzando sul "delirio di onnipotenza" di Borrelli e accusando i giudici di Milano di volersi porre come "contropotere". Il giorno dopo, cioè ieri, tutti a condividere a grandi linee, ma con qualche sfumatura di disagio. Dietro le quinte, il problema di An è presto detto: sull' emittenza e la giustizia, i temi cari a Berlusconi, il partito di Fini è costretto a giocare una difficile partita con l'alleato che ha notoriamente obiettivi chiari. Francesco Storace è stato invitato, da Forza Italia, ad abbassare i toni della sua polemica con la Rai. Quanto alla giustizia, An tiene un basso profilo. Per alcuni, come La Russa, troppo basso: "Andiamo a rimorchio degli eventi, abbiamo perso di smalto. Prima eravamo protagonisti, adesso non più". Quando parlarne? Non subito. Perché, come ammonisce La Russa, che pure non difende le ultime gesta del procuratore capo di Milano ("Ha fatto un autogol"), "non si può fare di una materia come la riforma della giustizia un tema da campagna elettorale". Si riferisce a qualcuno? "A tutti", è la diplomatica risposta. Tant' è, l'ombra di Berlusconi, protagonista del braccio di ferro con Borrelli, è dietro ogni dichiarazione. Anche quelle, di stile anglosassone, di Gianni Alemanno che chiede "più equilibrio" sui problemi della giustizia, condannando le "primedonne" di Milano ma, contemporaneamente, ribadendo principi cari ad An come "l'intoccabilità dell'obbligatorietà dell'azione penale". Publio Fiori fa uno sforzo di equilibrio: "Non c' è dubbio che la situazione di Berlusconi rappresenta un'anomalia. Ma la gente lo ha votato, nonostante sia un imputato. E mi sembra meno anomalo lui di quei giudici che fanno gli arroganti". Alessandra Longo, 22 aprile 1997 "La Repubblica”.

La Russa: «Così provai a convincere Davigo a fare il ministro». Intervista di Rocco Vazzana del 27 Marzo 2017, su "Il Dubbio". La Russa racconta i giorni convulsi del ’94: “A incaricarmi di trattare col pool fu Tatarella. Organizzai anche il famoso incontro tra Di Pietro e Berlusconi”.

«È vero, ricevetti l’incarico di sondare se Davigo fosse interessato a entrare al governo». Ignazio La Russa conferma l’aneddoto raccontato a RepubblicaTv dall’x capo dell’Anm: «A me fu proposto di fare il ministro della Giustizia per il primo governo Berlusconi. Me lo propose La Russa a nome, a suo dire, di Fini». Tutto vero, dunque: a intavolare la trattativa con uno dei pm più importanti di “Mani pulite” fu proprio l’onorevole – ex missino e avvocato – La Russa. «Ma a chiedermi di trattare non fu Fini, come dice Davigo, ma Pinuccio Tatarella. Era lui il mio vero capo e mi disse: “A questi qui dobbiamo associarli all’opera di cambiamento, senza eccessi”».

Che significa associare «all’opera di cambiamento» i magistrati del pool?

«Significa che Tatarella pensava che Davigo fosse la persona giusta per essere associata al governo Berlusconi. Avevo un ottimo rapporto professionale con Davigo, anche se non siamo mai andati a cena insieme e non ci siamo mai frequentati fuori dalle aule di giustizia. Ci vedevamo in Tribunale, anche nel suo ufficio, e parlavamo tanto, non solo di diritto. Sempre in maniera amichevole ma formale. Erano altri tempi».

Volevate trattare per proteggere Berlusconi dalla procura di Milano?

«La definirei più una captatio benevolentiae. Tatarella parlava di “associazione al cambiamento”, ma è chiaro che l’implicita contropartita fosse quella di convincere alcuni pm a desistere da un atteggiamento preconcetto contro Berlusconi. Tanto che qualche tempo dopo Pinuccio mi mandò in avanscoperta per fare una trattativa con il pool di Mani Pulite. Il mio compito era chiedere ai pm cosa volessero in cambio di un atteggiamento meno ostile nei confronti di Silvio Berlusconi».

E cosa le risposero?

«Questo non l’ho mai raccontato prima. Mi dissero: “Lui venga qui, ammetta quello che c’è da ammettere, patteggiamo e per noi è tutto chiuso”. Naturalmente questa soluzione neanche la proponemmo a Berlusconi».

Chi, del pool, le diede questa risposta? Con chi si relazionava?

«Io mi relazionavo quasi sempre con Davigo, poco con Di Pietro, con cui pure avevo un discreto rapporto ma non lo ritenevo adatto a questo tipo di confronto. Consideravo la vera mente del pool, la persona più intelligente, Davigo. A parte, ovviamente, il procuratore Francesco Saverio Borrelli che era il loro capo».

Il compito di convincere Di Pietro a entrare nel governo Berlusconi spettava a Mirko Tremaglia?

«Sì, ma dopo. Non ricordo se quell’operazione fu tentata addirittura col secondo governo Berlusconi. Quello di cui parlo io riguarda la fase precedente alla formazione del primo governo Berlusconi. Le dirò di più, però. Ho avuto un ruolo decisivo anche per organizzare il famoso incontro tra Di Pietro e il leader di Forza Italia avvenuto a Roma, credo anche alla presenza di Previti. Fu sempre Tatarella a chiedermi di intervenire. Mi chiamò e mi disse: “Sappiamo che Di Pietro è a Roma e Berlusconi lo vuole incontrare. Scopri dov’è”. Io chiesi direttamente a Davigo che mi indicò la caserma dei Carabinieri in cui si trovava. E lì lo rintracciarono. Però secondo me è stato un errore, perché questa mossa mise in allarme il resto del pool che raggiunse Di Pietro prima che parlasse con loro. Infatti lo bloccarono».

Sempre nel 1994?

«Sì, sempre del 1994, prima della nascita del governo».

Lei credeva che fosse davvero possibile trattare col pool o fu un tentativo disperato?

«L’unico momento in cui ho sperato è quando Davigo mi disse che si sarebbe preso 24 ore di tempo per riflettere sulla nostra proposta di entrare al governo. Poi le 24 ore diventarono 48 allungando l’attesa. Quando tornò mi riferì di aver parlato con Borrelli. La decisione era stata presa. “Noi siamo guardalinee”, disse, “tra il primo e il secondo tempo non possiamo cambiare casacca, non possiamo indossare la maglia dei giocatori di una squadra”».

Quindi non ci fu un “no” secco, passarono prima due giorni…

«Sì, 48 ore. Ne parlò col procuratore capo e poi disse di no. Ma ho mantenuto sempre una grande stima nei confronti della sua intelligenza giuridica».

Chi era il meno disponibile alla trattativa tra i magistrati del pool?

«Non lo so. Noi avevamo puntato sui due – Davigo e Di Pietro – che consideravamo culturalmente avvicinabili perché non di sinistra. Con gli altri due, D’Ambrosio e Colombo, sarebbe stato inutile. Borrelli era proprio fuori gara invece».

Berlusconi sapeva della sua trattativa?

«Dell’azione su Di Pietro sicuramente, ma di Davigo io non gliene ho mai parlato».

Glielo avrà riferito Tatarella…

«Conoscendo Tatarella, che era la riservatezza fatta persona, credo che ne avrebbe parlato solo a cose avviate. Può darsi che gli abbia detto qualcosa nell’attesa delle 48 ore».

Berlusconi era terrorizzato dal pool?

«Terrorizzato non lo so, ma Tatarella aveva capito tante cose, aveva una visione politica. Non è un caso che sia stato lui a convincere la Lega a fare il governo insieme a noi, ai fascisti».

MANI GOLPISTE.

“Il patto segreto di Tangentopoli tra Pool e Pds” di Ferdinando Cionti. Ferdinando Cionti, avvocato, incaricato dall’allora Presidente Craxi di verificare la legittimità dell’operato del Pool Mani pulite, ricostruisce gli avvenimenti di quegli anni e giunge alla conclusione che venne effettuato un vero e proprio colpo di Stato, con il quale si modificarono i rapporti costituzionali tra magistratura e politica, instaurando una egemonia della magistratura, tuttora vigente. L’intelligenza dell’analisi e la sincera passione civile che animano queste pagine siano per i lettori un’occasione per conoscere più approfonditamente i fatti e valutarli sotto il profilo giuridico – oltre che politico, com’è avvenuto prevalentemente finora – anche per inquadrare correttamente le vicende dei nostri giorni.

Ferdinando Cionti è avvocato a Milano ed è stato professore a contratto di Diritto Industriale per il Management presso l’Università di Stato di Milano Bicocca, facoltà di Economia, dipartimento di Diritto per l’economia. La sua concezione del diritto è sintetizzata nel saggio "Per un ritorno alla certezza del diritto", pubblicato su Libertates. Ha pubblicato numerosi saggi, tra cui "La funzione del marchio" e "Sì Logo" (Giuffrè). Per LibertatesLibri è uscito "Il colpo di Stato", presente nello Store di Libertates. Quale collaboratore dell’ “Avanti”, ha seguito quotidianamente le vicende di Mani Pulite.

Le critiche sollevate dalla Magistratura alla Commissione Parlamentare d'Inchiesta su Tangentopoli, sono compendiate in questa dichiarazione del giudice milanese Claudio Castelli, vicepresidente dell'Associazione nazionale magistrati, scrive Ferdinando Cionti. "Come associazione nazionale magistrati, ci preoccupano invece alcuni passaggi della legge istitutiva, che rendono concreto il rischio di uno sconfinamento istituzionale: la commissione su Tangentopoli non può diventare una sorta di quarto grado di giudizio. Il problema proprio questo: un'indagine politica strumentalizzata per delegittimare la magistratura. Si tratta di critiche generate da veri e propri equivoci, che vanno chiariti. Innanzitutto le conclusioni della Commissione Parlamentare d'Inchiesta non potranno mai concretarsi in "una sorta di quarto grado di giudizio", posto che in ogni caso le sentenze restano quelle che sono. Non che la Commissione possa riformare o annullare questa o quella sentenza. Potrebbe, per esempio, rilevare che le due sentenze definitive di condanna di Craxi sono state emesse in applicazione di norme processuali riconosciute poi ingiuste, tant' che si approvata la riforma costituzionale del giusto processo..."

Così nacque il patto segreto che legò i giudici e la sinistra. Il saggio di Ferdinando Cionti spiega perché "Mani pulite" non toccò i leader del Pds e quali furono le conseguenze, scrive Dario Fertilio, Venerdì 24/03/2017, su "Il Giornale". Colpo di Stato fu, e non solo giudiziario: la matrice di Tangentopoli fu anche politica. Si basò, secondo Ferdinando Cionti, sul patto d''acciaio fra il Pool di Mani Pulite e un partito dai molti nomi: Pci/Pds/Ds/Pd. In un saggio precedente, Il colpo di Stato (edito da LibertatesLibri, come quello che ora ne è il proseguimento, Il patto segreto di Tangentopoli tra Pool e Pds, pagg. 230, euro 12), il giurista aveva smontato l'ingranaggio dell'inchiesta condotta fra il '92 e l'anno successivo. Secondo la sua analisi Borrelli, Di Pietro & C. erano responsabili di una serie di illegalità, tra le quali ripetute violazioni dell'articolo 289 del codice penale (attentato contro gli organi costituzionali). In particolare avevano fatto cadere la nomina di Bettino Craxi a presidente del Consiglio: al vertice dello Stato, Scalfaro, informato dai giudici di Mani Pulite, aveva preso atto delle indagini segrete in corso e aveva ripiegato su Giuliano Amato. Ne conseguiva che un pubblico ministero aveva condotto indagini illegittime contro Craxi, interferendo nella nomina del Presidente del Consiglio, scavalcando l'esito delle elezioni, il Parlamento, e limitando lo stesso potere del Presidente. Ma in che senso le indagini del Pool erano state illegittime? Per molti motivi. La scintilla dell'inchiesta, cioè l'arresto di Mario Chiesa per la vicenda delle tangenti legate al Pio Albergo Trivulzio, era scoccata in seguito a una serie di intercettazioni illegali. In pratica Di Pietro aveva «inventato» l'esistenza di un reato per il quale è consentita l'intercettazione telefonica. Anche il conferimento dell'inchiesta a Di Pietro era stata irregolare: lui stesso per l'«operazione Chiesa» aveva concordato con la polizia giudiziaria una data in cui era di turno, in modo da farsi assegnare il processo. Ancora, nei confronti di Mario Chiesa, Di Pietro aveva dimenticato deliberatamente di depositare nei tempi dovuti gli atti previsti per il rito direttissimo. Il che gli aveva consentito di prolungare indefinitamente la detenzione, cuocendo Chiesa a fuoco lento: le confessioni erano il risultato di una procedura illegale basata sullo choc indotto da carcere e manette. Non basta: Di Pietro, dopo aver proceduto per concussione al fine di condurre intercettazioni illegali, aveva ideato un altro trucco, applicando alla sua inchiesta sulle tangenti la legge che riguarda le rogatorie internazionali per il riciclaggio di denaro sporco proveniente dal traffico di droga o armi. Così aveva scavalcato il ministro della Giustizia, che avrebbe dovuto autorizzarlo, alterando i rapporti fra magistratura ed esecutivo.

Non basta? Si consideri allora che il Pool aveva inventato la «dazione ambientale», un reato sociale e collettivo di corruzione, secondo il quale il rischio di reiterazione dei reati è sempre possibile. Effetto: veniva fatto capire all'indagato che la sua permanenza in carcere poteva durare all'infinito. Un metodo infallibile per farlo passare dalla confessione dei propri reati alla delazione di quelli altrui. Nel caso di Chiesa, aveva anche uno scopo politico: far sì che alla fine venisse chiamato in causa Craxi, nemico pubblico numero uno del partito dei giudici dal tempo del delitto Tobagi, e ancor più da quando il Psi si era schierato a favore della responsabilità civile dei magistrati. Ma soprattutto le indagini sull'odiato cinghialone erano avvenute in violazione dell'articolo 335 del codice di procedura penale, segretamente, senza iscrivere il suo nome nel modello 21, il registro in cui finiscono le notizie di reato con nominativo conosciuto, e che prevedono al massimo sei mesi di indagini, in modo da non chiedere l'autorizzazione a procedere nei confronti del parlamentare Craxi. Di qui gli attacchi del Pool all'articolo 68 della Costituzione appunto sulla autorizzazione a procedere (che aveva lo scopo di mantenere indipendenti i poteri legislativo ed esecutivo dal giudiziario).

Ecco le conclusioni di Cionti: il Pool guidato dal procuratore Borrelli aveva bisogno di un alleato per ottenere l'abolizione dell'immunità parlamentare e sanare a posteriori i più gravi reati commessi. Questo alleato fu l'allora Pds, mortalmente minacciato dal crollo dell'Urss, e disposto ad accordarsi con Craxi pur di entrare nell'Internazionale socialista. Temendo che il suo disegno egemonico ne venisse bloccato, il Pool offrì al partito di Occhetto la distruzione di Craxi e del Psi, in modo che il Pds potesse prenderne il posto. Ecco il motivo dell'annullamento all'ultimo momento, da parte dei post-comunisti, del documento che avrebbe dovuto sancire nel 1992 «l'intesa fra tutte le forze di progresso», cioè l'alleanza col Psi. Ecco perché l'inchiesta riguardò solo esponenti marginali o miglioristi del Pds. E perché le migliaia di manifestanti spontanei in favore di Mani Pulite e contro Craxi furono quasi tutti militanti di quel partito. E come mai, in seguito ai segnali intermittenti e inquietanti che aveva ricevuto dai giudici su quel che stava accadendo, ci furono le improvvise dimissioni di Cossiga dal Quirinale. Su questo sfondo si legge lo svuotamento della autorizzazione a procedere e la nascita del patto d'acciaio fra sinistra e partito dei giudici, ormai inossidabile. Svuotamento di fatto che diventava di diritto, con la riforma dell'articolo 68 della Costituzione, resa possibile dall'incalzante iniziativa del Pds che pagava in tal modo la sua salvezza; e, parallelamente, dalla pressione esercitata dal Pool con le sue azioni giudiziarie nei confronti dei parlamentari della maggioranza, in violazione proprio dell'articolo 68. Così cambiavano i rapporti tra i poteri dello Stato, poiché parlamento e governo risultavano subordinati al potere coercitivo della magistratura. E poiché il potere coercitivo è l'essenza della sovranità, veniva attuato un vero e proprio colpo di Stato - conclude l'autore del saggio - secondo l'articolo 287 del codice penale. Ferdinando Cionti a suo tempo era stato incaricato da Craxi di verificare se la Procura di Milano, nei giorni convulsi di Tangentopoli, avesse commesso illegalità. Oggi può dire d'aver portato a termine quel compito.

Mani golpiste. Rileggere Tangentopoli con il codice penale alla mano per scoprire che il colpo di stato ci fu. Un libro sul Pool di Milano, scrive Dario Fertilio il 25 Gennaio 2015 su “Il Foglio”. Nei confronti di Mario Chiesa il pm Di Pietro dimentica poi deliberatamente di depositare nei tempi dovuti gli atti. Questo gli consente di prolungare indefinitamente la detenzione. Mettiamo che tra il 17 febbraio del 1992 e il 29 ottobre dell’anno successivo si sia consumato in Italia un colpo di stato, senza che nessuno (o quasi) se ne sia reso conto. Dietro le quinte, nessuno zampino di servizi segreti né complotto di generali; al contrario, alla luce del sole, un rumoroso tintinnare di manette agitate dai giudici di Mani pulite. Mettiamo che Ferdinando Cionti, avvocato di cultura liberale, incaricato dall’allora segretario socialista Bettino Craxi di verificare la legittimità dell’operato del Pool di Milano, sia riuscito, firmando “Il colpo di Stato” (LibertatesLibri, pp, 158, euro 10) a smontare meticolosamente, articolo per articolo, l’ingranaggio giudiziario (con contorno politico e mediatico) su cui si è retta l’inchiesta di Tangentopoli. Concediamo pure che l’autore non abbia saputo né voluto spogliarsi di una antica passione garantista nel redigere il suo atto d’accusa contro i giudici della procura di Milano che determinarono il crollo della Prima Repubblica. Restano comunque i fatti elencati da Cionti, che vengono prima delle interpretazioni e delle tesi politiche: ed è a essi che occorre anzitutto dare udienza.

Con una premessa, che vale anche da conclusione: se colpo di stato a opera dei giudici ci fu, come sostiene Cionti, deve essere possibile inquadrare penalmente l’accaduto. Ed ecco: basta riferirsi agli articoli 287 e 289 del codice penale, là dove stabiliscono rispettivamente: “Chiunque usurpa un potere politico ovvero persiste nell’esercitarlo indebitamente, è punito con la reclusione da sei a quindici anni”; e ancora, “è punito con la reclusione da uno a cinque anni, qualora non si tratti di un più grave delitto, chiunque commette atti violenti diretti ad impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente, al presidente della Repubblica o al governo l’esercizio delle attribuzioni o prerogative conferite dalla legge; alle assemblee legislative, alla Corte costituzionale o alle assemblee regionali l’esercizio delle loro funzioni”.

Ma prima di passare alle radicali conclusioni cui giunge Cionti, basandole sui due articoli appena citati, ecco i passi salienti della sua indagine, in cui viene “smontata” pezzo per pezzo, e articolo per articolo, la macchina giudiziaria messa in moto a suo tempo dai giudici di Mani pulite. La scintilla dell’inchiesta, cioè l’arresto di Mario Chiesa per la vicenda delle tangenti legate al Pio Albergo Trivulzio, scocca in seguito a una serie di intercettazioni illegali. In pratica Di Pietro, giostrando fra gli articoli 266 del codice di procedura penale, e il 317 e 318 del codice penale, invece di iscrivere nel registro la sola notizia di un reato di diffamazione, vi aggiunge in base a un sospetto non provato quello di corruzione e addirittura di concussione. In pratica “inventa” l’esistenza di un reato per il quale è consentita l’intercettazione telefonica. Inoltre il conferimento dell’inchiesta a Di Pietro avviene in modo illegittimo: in certo modo è come se il suo autore, per poterne essere titolare, l’avesse assegnata a se stesso. Egli infatti concorda con la polizia giudiziaria una data per l’“operazione Chiesa” in cui lui sia di turno, in modo che il processo gli venga assegnato, evitando il rischio che finisca a un altro sostituto. Ma questo è ancora il meno – benché sia già una violazione del regolamento – perché Di Pietro determina l’assegnazione dello stesso processo a un gip gradito, contro il disposto dell’articolo 25 della Costituzione, che pone il divieto di sottrarre l’imputato al suo giudice naturale. La tecnica messa in atto, in questo caso come nei successivi di Mani pulite, consiste nell’intasare con fascicoli di scarso rilievo l’ufficio del gip competente per turno, ma considerato meno malleabile, facendo in modo che il fascicolo passi in eredità a quello favorevolmente disposto (in quel caso Italo Ghitti). Nei confronti di Mario Chiesa il pm Di Pietro dimentica poi deliberatamente (come ammetterà lui stesso successivamente in un’intervista) di depositare nei tempi dovuti gli atti previsti per il rito direttissimo. Questo gli consente di prolungare indefinitamente la detenzione, cuocendo Chiesa a fuoco lento: le sue confessioni, per quanto rilevanti ai fini dell’inchiesta, sono il risultato di una procedura illegale che si basa sullo choc indotto dal carcere e dalle manette, con la prospettiva di una macchia indelebile sull’immagine pubblica dell’inquisito.

Ancora: Di Pietro, dopo aver proceduto per concussione al fine di effettuare le intercettazioni illegali, inventa un altro trucco o “giochino”: applica ai fini della sua inchiesta sulle tangenti la legge che riguarda le rogatorie internazionali per il riciclaggio di denaro sporco proveniente dal traffico di droga o di armi. In questo modo, tra l’altro, scavalca le prerogative del ministro della Difesa, che avrebbe dovuto autorizzarlo, alterando di fatto i rapporti fra magistratura e potere esecutivo.

Viene poi creato dal Pool, attraverso l’invenzione della “dazione ambientale”, un tipo di reato sociale e collettivo di corruzione, secondo il quale il rischio di reiterazione dei reati, dell’inquinamento delle prove e della fuga, è sempre possibile. Come dire che, essendo l’Italia in generale un paese di corrotti, ognuno deve essere comunque trattato come tale. Effetto: viene fatto capire all’indagato che la sua permanenza in carcere può durare all’infinito. Man mano che si avvicinano i termini di scadenza, gli si fanno piovere addosso a intervalli regolari nuovi ordini di custodia cautelare per reati simili a quello originario, con nuove ondate di pubblico discredito e un impatto umano devastante. E’ un metodo quasi infallibile che serve per far abbassare le difese all’inquisito, inducendolo a passare dalla confessione dei propri reati alla delazione riguardo a quelli altrui.

Nel caso di Chiesa, inoltre, il prolungarsi della detenzione assume anche uno scopo politico: far sì che alla fine venga chiamato in causa Craxi, nemico pubblico numero uno del “partito dei giudici” dal tempo del delitto Tobagi, e ancor più da quando il Psi si è schierato a favore della responsabilità civile dei magistrati. Ed è così, racconta l’autore, che si incomincia a indagare sul conto del leader socialista, il cosiddetto “cinghialone”. Ma, in violazione dell’articolo 335 del codice di procedura penale, lo si fa segretamente, senza iscrivere il suo nome nel modello 21, il registro in cui finiscono le notizie di reato con nominativo conosciuto, e che prevedono un termine di sei mesi per le indagini. Si ricorre invece astutamente al modello 44, riservato ai casi in cui l’identità dell’indagato è ignota: il termine dei sei mesi in questo caso non c’è più e dunque è possibile procedere a tutto campo contro l’odiato Craxi.

Se non che Craxi era un parlamentare. E qui sale il livello politico della sfida: iniziano cioè gli attacchi del Pool all’articolo 68 della Costituzione, quello che allora stabiliva come: “Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento possa essere sottoposto a procedimento penale”. Non si parlava di condanna, cioè, ma di “procedimento”: perché era chiaro al legislatore, preoccupato di mantenere separati e indipendenti i poteri legislativo ed esecutivo da quello giudiziario, come perseguire un politico ne pregiudicasse irreparabilmente la carriera. Quindi, in attuazione del disposto costituzionale, entro trenta giorni dalla iscrizione nel registro degli indagati il pubblico ministero avrebbe dovuto chiamare il parlamentare Craxi, chiedergli spiegazioni e, se queste non fossero riuscite convincenti, rivolgersi al Parlamento per l’autorizzazione a procedere. Questo non viene fatto, e i pm del Pool continueranno a non farlo in futuro, di fatto violando l’articolo 68 della Costituzione e mettendo la classe politica di fronte al fatto compiuto. Così il Pool creerà i presupposti per la modifica, finché si incaricherà Borrelli di chiederla pubblicamente.

Siamo al nocciolo della questione, e ormai apertamente su un terreno tutto politico: la presa di posizione del “partito dei giudici”, combinata con l’azione dei fiancheggiatori e lo stillicidio delle pubblicazioni su varie riviste e giornali dei verbali riservati, ostacola e infine fa cadere la nomina – proprio in quei momenti all’ordine del giorno – di Bettino Craxi a presidente del Consiglio. Al vertice dello stato, Scalfaro, informato dal Pool, prendeva atto delle indagini in corso su Craxi e ripiegava sul conferimento dell’incarico a Giuliano Amato. Ed è qui dunque, con logica stringente, che Ferdinando Cionti fa discendere la conclusione dalle premesse: un pubblico ministero – afferma – ha effettuato indagini illegittime contro Craxi e se ne è avvalso per intromettersi direttamente nella nomina del presidente del Consiglio. Dunque, l’ha condizionata, esercitando un potere di fatto che scavalca l’esito delle elezioni, il Parlamento, e limita lo stesso potere del presidente della Repubblica nella sua maggiore espressione. Da qui l’attentato contro gli organi costituzionali, secondo l’articolo 289 del codice penale. Un punto di non ritorno, dal momento che si sarebbe dovuto modificare la Carta, e sanare a posteriori il reato commesso, oppure andare incontro a una messa in stato di accusa del Pool. Insomma, da un lato si continuava a disapplicare l’articolo 68, dall’altro si chiedeva pubblicamente, per bocca di Borrelli, la riforma di questa norma.

Il resto è storia nota. L’inchiesta su Tangentopoli procederà trionfalmente senza più ostacoli: si arriverà a indagare 131 parlamentari soltanto a Milano, mentre in tutto saranno 1.069 i politici coinvolti, di cui 205 deputati (un terzo del totale). In un clima simile di caccia giustizialista alle streghe, che l’autore definisce “rivoluzionario”, diventerà impossibile riconoscere l’evidenza: come cioè tutti i partiti fossero coinvolti in una associazione a delinquere basata su tangenti implicite e pressoché automatiche. Sicché non si poteva parlare legittimamente di corruzione né di concussione, rendendo inevitabile la famosa “soluzione politica” auspicata da Craxi, in modo da evitare il crollo dell’intero sistema democratico. Ma il tentativo messo in atto a questo fine dal ministro Giovanni Conso, che si proponeva di depenalizzare il reato di finanziamento ai partiti, sarà immediatamente bloccato dalla durissima reazione di Borrelli e dei suoi collaboratori, addirittura con una minaccia di dimissioni collettive, fino a indurre il presidente Scalfaro a non firmare il decreto. Si procederà invece in un’altra, opposta direzione, giungendo nell’ottobre del 1993 ad abolire l’immunità parlamentare. Sotto la mannaia cadrà intanto gran parte della Dc (non la sinistra, che confluirà poi nel Pds), l’ala migliorista e garantista del Pci, e naturalmente l’intera leadership socialista. Tutti i gruppi dirigenti, insomma, considerati “nemici” dal partito dei giudici. In questo clima, mentre si indagano i 131 parlamentari soltanto a Milano – ripetiamo: in tutto saranno 1.069 i politici coinvolti, ma i deputati appartenevano quasi tutti alla maggioranza – si inquadra il voto quasi unanime per l’abolizione dell’immunità parlamentare. Il Parlamento è in pratica sotto ricatto, anche in considerazione del fatto che l’opposizione, pur di essere risparmiata, è indotta ad allinearsi.

Fu presa del potere prima di fatto e poi ufficiale, insomma, riassume l’autore de “Il colpo di Stato”. E venne realizzata mediante l’esercizio di una decisiva facoltà di intimidazione e di veto; l’impresa di lì a poco sarebbe culminata nel blocco della riforma con la quale avrebbe potuto essere finalmente avviata la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Finché, più tardi da Hammamet, Craxi avrebbe parlato di “una certa mappa con dei confini interni: c’è chi dev’essere protetto, chi deve essere tenuto a bagnomaria, e chi dev’essere distrutto”.

Operazione chirurgica, conclude Ferdinando Cionti, finalizzata al “cambiamento” dello stato. Un putsch, precisa, di tipo “bonapartista”, cioè basato sulla legalizzazione a posteriori dell’evento rivoluzionario. Come Napoleone nel famoso 18 brumaio del 1799 bloccò il Parlamento, e poi convocando i parlamentari a lui fedeli ottenne la ratifica dei nuovi poteri a lui attribuiti, così la magistratura nel ’93 indusse i parlamentari consenzienti a spingere per la riforma, intimidendo e paralizzando gli altri. Che poi ne sia risultato un potere “oligarchico” della magistratura, tuttora in vigore e contrario al primo articolo della Costituzione fondata sulla sovranità popolare, può essere materia di riflessione per chi si propone di cambiare le cose oggi o domani. Sempre tenendo presente come il terribile potere del giudice, che dispone della vita degli uomini, abbia posto da sempre il problema della sua delimitazione, ovviamente senza lederne l’indipendenza. La soluzione adottata (soprattutto nei paesi regolati dalla civil law anglosassone) è stata quella di distinguere nettamente la titolarità dell’azione penale, esercitata dal potere esecutivo mediante il suo “procuratore”, dal ruolo affidato al giudice e predeterminato dalla legge, in modo che l’uno bilanci l’altro. Sicché, in quasi tutti i paesi, vige la separazione del pubblico ministero – che esegue la legge promuovendo l’azione penale – dal giudice, che interpreta la legge nel caso concreto, pronunciando la sentenza. (Tranne che in Francia e in Bulgaria, dove però il pubblico ministero è alle dirette dipendenze del ministro della Giustizia).

Come si sa, invece, in Italia giudice e pm fanno parte della medesima corporazione, indipendente dal ministro della Giustizia e da qualsiasi altra autorità di qualsiasi natura. Con la conseguenza che questa corporazione gestisce l’intero monopolio della “violenza legittima” dello stato, l’essenza stessa della sovranità. Forse non è ancora tempo, se mai lo sarà, di un’elezione popolare e diretta di giudici e pm, come avviene in America. Ma questo potere sovrano di una corporazione, priva di legittimazione popolare, dovrebbe trovare un limite nella impossibilità di invadere il potere legislativo – democratico perché eletto – grazie all’immunità parlamentare stabilita dall’art. 68 della Costituzione nel testo originario. Una volta travolto quell’argine sotto i colpi di Mani pulite, il potere giurisdizionale è diventato aristocratico, illimitato e irresponsabile. Insomma, né il presidente della Repubblica né il presidente del Consiglio possono sfiorarlo con un dito, mentre esso, alla fine, può intervenire su entrambi.

La morale di questa vicenda? E’ sempre valida, anche al di là di Tangentopoli e della stretta politica giudiziaria: è una fatale illusione credere di poter combattere un crimine commettendone un altro.

TANGENTOPOLI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

Davanti al carcere di San Vittore, il 15 febbraio 2017, dove venticinque anni fa veniva portato Mario Chiesa, la firma di Repubblica Piero Colaprico racconta gli inizi dell'inchiesta di Mani Pulite e la nascita del termine Tangentopoli. "Sono stato il primo a usarlo, ancora prima del 1992. Mi ero ispirato alle storie di Paperino, poi diventò il marchio di un'epoca".

Mani Pulite: 25 anni fa l'inizio delle indagini. Con l'arresto di Mario Chiesa, manager del Pio Albergo Trivulzio colto ad intascare una tangente, iniziava la fine della Prima Repubblica, scrive Edoardo Frittoli il 17 febbraio 2017 su Panorama. Esattamente 25 anni fa l'ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano lasciava in manette l'ospedale dopo essere stato colto in flagranza di reato mentre incassava una tangente da un dipendente dell'impresa di pulizie di Luca Magni, che si era deciso a denunciarlo per le sempre più esigenti richieste economiche in cambio dell'appalto per le pulizie nell'ospedale geriatrico. Da una tangente di appena 7 milioni di lire ebbe origine l'inchiesta Mani Pulite, gestita dal pool di magistrati milanesi che spazzerà via la Prima Repubblica. Ad aggravare la posizione di Chiesa, portato nel carcere di San Vittore, sarà l'ex moglie Laura Sala. Fu la donna infatti a denunciare ai magistrati Antonio di Pietro, Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo l'esistenza di una somma ingente di denaro frutto dell'attività di corruzione dell'ex marito nascosta in conti svizzeri intestati ad una segretaria. A nulla valse il tentativo di Bettino Craxi di isolare il PSI dai reati commessi dal proprio rappresentante che era nato politicamente dai "vecchi" socialisti di De Martino e finito con Pillitteri e Tognoli negli anni ruggenti della "Milano da bere". Poco dopo che il leader socialista ebbe definito Mario Chiesa un "mariuolo", dal carcere il presidente del Pio Albergo Trivulzio iniziò a parlare. Aveva innescato la miccia di una bomba giudiziaria che avrebbe fatto deflagrare 40 anni di assetto politico-amministrativo nato nell'Italia del dopoguerra, disintegrando i due partiti chiave della Repubblica: la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista.

La stagione di Tangentopoli: 25 anni dopo, la lezione di Mani pulite. Il 17 febbraio del 1992 l'arresto di Mario Chiesa diede il via alla stagione che travolse la Prima Repubblica e cambiò la storia d'Italia. Ma a distanza di un quarto di secolo bisogna riconoscere che il Paese non ha saputo farne tesoro e il problema della corruzione è anche più forte, scrive Gianluca De Feo il 16 febbraio 2017 su "La Repubblica". Accadde il 17 febbraio di 25 anni fa: l'arresto di Mario Chiesa diede inizio alla slavina che ha travolto la Prima Repubblica. In due anni la storia d'Italia è cambiata: sono scomparsi partiti antichi, leader politici e capitani d'industria hanno lasciato la scena per sempre. Un'intera classe dirigente è finita sotto accusa: ben 4520 persone sono state indagate nel solo filone milanese di Mani Pulite. Il processo a Sergio Cusani trasmesso in diretta televisiva ha visto passare sul banco degli imputati ex premier ed ex ministri: nella stessa giornata Bettino Craxi e Arnaldo Forlani risposero alle domande di Antonio Di Pietro. E' una stagione che si può comprendere solo con una lettura globale della corsa degli eventi. Perché le inchieste milanesi si sono intrecciate con le stragi di mafia e con una crisi economica profonda, che ha provocato la scomparsa di aziende celebri e la svalutazione della lira, che ha spinto il governo Amato a prelevare il 6 per mille dai conti correnti di tutti gli italiani. E' stata anche una stagione di speranza, con la fiducia in un rinnovamento generazionale ed etico della vita pubblica. Si sono imposti nuovi movimenti, da Forza Italia alla Lega, e altri sono sorti dalle ceneri della tradizione democristiana e comunista. Ma non sono state create leggi e strutture per impedire che le tangenti tornassero a dilagare. Anzi, sono stati introdotti provvedimenti che invece di rendere più giusti i processi hanno ingolfato la macchina della Giustizia, provocando la dissoluzione di migliaia di inchieste per effetto della prescrizione. Venticinque anni dopo, bisogna riconoscere che il Paese non ha saputo fare tesoro di quella lezione e oggi il problema della corruzione è addirittura più forte. Gli snodi sono gli stessi del 1992: il finanziamento della politica non è trasparente, i partiti continuano a lottizzare società ed enti pubblici. Certo, non esiste più quel sistema verticistico che applicava il manuale Cencelli anche alla spartizione delle tangenti, definendo quote precise a livello cittadino, provinciale, regionale e nazionale. Un sistema in cui - a livello locale e nazionale - le indagini dimostrarono anche un ruolo del Pci. Nel 2017 le segreterie dei partiti non sono più il cardine della gestione dei finanziamenti illeciti. Adesso il mercato della corruzione è dominato da consorterie trasversali, bande che legano gli interessi di politici e imprenditori. E sempre più spesso le mafie si inseriscono in queste dinamiche, offrendo bustarelle e mettendo a disposizione i loro capitali. E' il copione di Mafia Capitale, è il modello criminale che minaccia il nostro futuro. 

Cronaca di quel drammatico lunedì 17 febbraio 1992, quando Di Pietro diede vita a “Mani pulite”. 17 febbraio 1992: «Mi disse Pillitteri: Tonino? È un amico…», scrive Francesco Damato il 19 Febbraio 2017, su "Il Dubbio". Sono le ore 18 di lunedì 17 febbraio 1992, esattamente 25 anni fa rispetto al momento in cui scrivo. Non posso nemmeno immaginare che nulla sarà più come oggi dopo la riunione abituale che presiedo nella stanza della segreteria di redazione del “Giorno”, a Milano, per la selezione dei fatti e argomenti da sistemare nella prima pagina del numero di domani. Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga ha già fatto la sua sparata quotidiana, proponendo l’uscita dell’Arma dei Carabinieri dall’Esercito per consentire un migliore trattamento economico dei militari della Benemerita. E ciò mentre i poliziotti in agitazione, sempre per motivi economici, assediano il Viminale e minacciano di andare a dimostrare anche davanti al Quirinale. L’apertura della prima pagina è assicurata. Difficilmente – penso- lo stesso Cossiga, magari telefonandomi dopo qualche ora per anticiparmi un’altra picconata, me la farà cambiare. Francesco è ormai diventato l’incubo dei giornali per l’abitudine di terremotarli all’ultimo momento, magari quando sono già in tipografia. Anche la spalla della prima pagina è coperta, con i giochi olimpici di Albertville, dove le azzurre hanno conquistato il bronzo della staffetta e domani è attesa la prestazione, addirittura, di Tomba nel gigante di scii. Destiniamo al taglio centrale gli otto delitti di mafia compiuti in un giorno in varie parti d’Italia, dal sud al nord. Dedichiamo una foto a colori a Pippo Baudo che punta per la conduzione del festival di Sanremo, dal 26 febbraio, su un tris di maggiorate composto da Milly Carlucci, Brigitte Nilsen e Alba Parietti. Sistemo invece nel taglio basso una sgradevole polemica alla quale mi hanno costretto ‘ le bretelle rosse’ di Giuliano Ferrara. Che sul Corriere della Sera non mi ha perdonato un’arrabbiatura con lo storico Franco Andreucci, della casa editrice Ponte alle Grazie, evidentemente suo amico, che mi ha combinato il guaio di trascrivermi con qualche errore, assistito dal mio corrispondente a Mosca Francesco Bigazzi, una lettera di Palmiro Togliatti, peraltro fotocopiata malamente nei giorni in cui a pagamento si riusciva ad accedere a quelli che erano stati gli archivi sovietici più inaccessibili. Ma soprattutto Giulianone non mi ha perdonato l’importanza data a quella lettera, scritta dal leader comunista contro i militari italiani prigionieri in Russia e trattati come bestie, lasciati morire spesso di fame. Togliatti è morto da un bel po’, ma Giuliano, figlio della sua segretaria, ne conserva un buon ricordo per essergli ‘ cresciuto sulle ginocchia’, come mi ha detto per telefono Bettino Craxi come scusante di quel suo sconclusionato attacco sul Corriere della Sera. E io di questa storia delle ginocchia mi sono avvalso nella risposta. La riunione sta per finire quando arriva trafelato il capocronista per darci la notizia, appena pervenutagli, dell’arresto di Mario Chiesa in flagranza di mazzette. Presidente del Pio Albergo Trivulzio dal 1986 e già capogruppo socialista alla provincia e poi due volte assessore al Comune di Milano, ho conosciuto Chiesa di persona l’anno prima nella casa milanese del geniale e simpatico fotografo Bob Krieger. L’ho reincontrato dopo qualche mese in una cerimonia d’inaugurazione di un nuovo reparto dell’ospedale, sempre, del Pio Albergo Trivulzio. Vi sono andato soprattutto perché informato della presenza di Craxi e della sua intenzione di profittare dell’occasione per esprimere un giudizio sulla situazione politica, avviata ormai verso le elezioni. Di quella cerimonia esiste, fra le altre, una foto in cui sono ripreso con Bettino e con Mario Chiesa. La vedrò poi pubblicata insistentemente per ragioni non certamente occasionali, specie quando la caccia ai craxiani si farà grossa. L’arresto del presidente del Trivulzio naturalmente mi sorprende. E ne immagino subito le ricadute politiche, a Camere sciolte da poco per esaurimento della legislatura e per le elezioni già fissate in aprile. Il capocronista mi garantisce la clamorosa flagranza di reato e mi ricorda che le indagini giudiziarie contro Chiesa sono in qualche modo collegate ad un vecchio scoop proprio della cronaca del Giorno sui rapporti fra gli ospedali e le agenzie delle pompe funebri. La notizia è sicuramente da prima pagina. E lì decido personalmente di sistemarla con un grosso richiamo del servizio di cronaca a quattro colonne, sotto il titolo centrale. Il titolo dice: Flagranza di reato nell’ente per gli anziani - Arrestato per concussione a Milano il presidente dell’Istituto Trivulzio. L’indomani mattina vedo che gli altri giornali di Milano non hanno dato all’arresto di Mario Chiesa il rilievo che mi aspettavo. E manca da alcune cronache la circostanza della flagranza, per cui mi viene il dubbio di essere incorso in un eccesso di zelo giudiziario. Ne parlo perciò nella prima riunione redazionale col capocronista, che mi rassicura garantendomi di nuovo l’esattezza delle nostre notizie. Dopo molti giorni vedrò questo particolare della riunione redazionale in qualche cronaca della ‘ concorrenza’ come una protesta, una mia ramanzina al collega, che invece stimo molto. Ma sarà solo la prima di una serie di distorsioni tendenti a rappresentare la mia direzione del Giorno come reticente, e a spingere il comitato di redazione ad una vigilanza per niente sindacale, tutta politica. Ogni sera dovrò fare i conti con chi a sua volta avrà contato il numero delle pagine e dei titoli, la collocazione dei pezzi e quant’altro sulla escalation delle notizie provenienti dalla Procura. Il clima diventa sempre più pesante, dentro e fuori dal giornale. Ai funerali del padre di Craxi, che muore in tempo per risparmiarsi il dolore di vedere dispiegarsi del tutto contro il figlio lo spettacolo di Mani pulite, mi si avvicina Silvio Berlusconi e mi dice, preoccupato, che non può andare in giro senza sentirsi rimproverare l’amicizia di o con Bettino. Rimango turbato, in verità, più dalla preoccupazione di Berlusconi che dal suo racconto. Ma torniamo al giorno dopo l’arresto di Chiesa. Ho un vecchio appuntamento a casa, per il pranzo, con Paolo Pillitteri. Che da un mese e mezzo non è più sindaco di Milano e si è candidato a tornare alla Camera. Gli chiedo naturalmente di Chiesa e lo trovo sorprendentemente tranquillo, direi sarcastico con l’arrestato per le circostanze nelle quali si è fatto sorprendere a intascare una parte della tangente versatagli da una ditta delle pulizie del Trivulzio. Intuisco da questa reazione di Paolo, a torto o a ragione, che Chiesa, per quanto comunemente considerato craxiano, non faccia parte davvero del giro del segretario socialista, di cui Paolo è cognato. Poi verrò a sapere personalmente dallo stesso Bettino che il figlio Bobo, da lui autorizzato a candidarsi a consigliere comunale nelle ultime votazioni milanesi e umanamente desideroso di fare una bella figura agli occhi del padre, aveva accettato l’offerta del presidente del Trivulzio di aiutarlo nella organizzazione della campagna elettorale, vista l’esperienza che l’amico aveva alle spalle.

Mani pulite, tappa per tappa. Il 17 febbraio del 1992 l'arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa dà il via a una serie di indagini, arresti e processi che nel giro di due anni rivoluzionerà lo scenario politico ed economico del Paese. La scomparsa del Pentapartito, l'esilio di Bettino Craxi, l'ascesa di Silvio Berlusconi e molto altro, scrive il 15 febbraio 2017 “L’Espresso.

17 FEBBRAIO 1992. Arrestato il presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano Mario Chiesa (Psi).

6 APRILE 1992. Partono le indagini sugli appalti di Malpensa 2000 e della sanità milanese.

2 MAGGIO 1992. Avvisi di garanzia agli ex sindaci Psi di Milano Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri.

24 MAGGIO 1992. Il procuratore Borrelli affianca a Di Pietro e Colombo Piercamillo Davigo.

18 GIUGNO 1992. Suicida a Lodi il segretario locale del Psi Renato Amorese.

28 GIUGNO 1992. Manifestazione a Milano a favore dei giudici impegnati in Mani pulite.

3 LUGLIO 1992. Bettino Craxi parla alla Camera: «Bisogna dire, e tutti lo sanno, che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale (...). Se gran parte di questa materia dev’essere considerata puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe criminale».

3 LUGLIO 1992. Il ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli invia una circolare contro le «manette in tv».

1 SETTEMBRE 1992. Indagato per violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti il presidente della Montedison Giuseppe Garofano.

2 SETTEMBRE 1992. Si suicida a Brescia Sergio Moroni, deputato socialista.

17 SETTEMBRE 1992. Martelli annuncia che è pronto un decreto riguardante «i rei di corruzione, concussione e peculato».

15 DICEMBRE 1992. «Avviso di garanzia a Craxi per corruzione, ricettazione e illecito finanziamento.

11 MAGGIO 1993. Arrestato l’ex tesoriere del Pci Renato Pollini.

10 LUGLIO 1993. Il ministro della Giustizia Giovanni Conso annuncia un disegno di legge per correggere l’avviso di garanzia e la custodia cautelare.

20 LUGLIO 1993. Suicidio in cella nel carcere di San Vittore di Gabriele Cagliari dopo 103 giorni di detenzione preventiva.

22 LUGLIO 1993. Inviati presso il pool di Milano gli ispettori ministeriali.

23 LUGLIO 1993. Raul Gardini si uccide con un colpo di pistola; arrestati Carlo Sama, amministratore delegato di Montedison, e Sergio Cusani, consulente di fiducia di Gardini.

24 AGOSTO 1993. L’inchiesta su Tangentopoli investe il tesoriere Pds Marcello Stefanini.

4 SETTEMBRE 1993. Arrestato per corruzione il giudice Curtò per la vicenda Enimont.

14 OTTOBRE 1993. Il tribunale della libertà scarcera Primo Greganti e critica il pool.

28 OTTOBRE 1993. Comincia il processo a Cusani per il caso Enimont.

17 DICEMBRE 1993. Dichiarazioni di Craxi al processo Cusani-Enimont: «Tutti sapevano nessuno parlava».

16 GENNAIO 1994. Il presidente Scalfaro scioglie le Camere.

22 GENNAIO 1994. Mino Martinazzoli chiude la Dc e dà vita al Partito popolare italiano. Sulle ceneri del vecchio Msi nasce Alleanza nazionale.

26 GENNAIO 1994. Berlusconi annuncia la «discesa in campo».

6 FEBBRAIO 1994. Al Palafiera di Roma si tiene la prima convention di Forza Italia dove l’ex pm Tiziana Parenti viene presentata come «il nostro futuro ministro della Giustizia».

11 FEBBRAIO 1994. Italo Ghitti emette un’ordinanza di custodia per Paolo Berlusconi per tangenti.

16 FEBBRAIO 1994. I tre esponenti Pds Occhetto, D’Alema e Stefanini vengono iscritti nel registro degli indagati a seguito di una denuncia presentata da Craxi.

9 MARZO 1994. La procura milanese chiede al gip, che non l’accoglie, la custodia cautelare per Marcello Dell’Utri.

28 MARZO 1994. Il Polo delle libertà vince le elezioni. Forza Italia diventa il primo partito italiano.

15 APRILE 1994. Cancellate le immunità dei vecchi deputati.

28 APRILE 1994. Sergio Cusani viene condannato a 8 anni.

5 MAGGIO 1994. Craxi si trasferisce ad Hammamet in Tunisia da dove non farà più ritorno.

12 MAGGIO 1994. Arrestato l’ex ministro della Sanità Francesco De Lorenzo (Pli).

16 GIUGNO 1994. Craxi viene dichiarato “contumace”.

9 LUGLIO 1994. Arrestato il generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello.

13 LUGLIO 1994. Il governo Berlusconi vara il decreto Biondi, che limita la custodia cautelare in carcere e prevede un condono per le aziende.

14 LUGLIO 1994. Il pool legge in tv un comunicato contro il decreto Biondi minacciando di abbandonare le indagini. Circa 340 detenuti lasciano il carcere per effetto del decreto.

22 LUGLIO 1994. Dopo le proteste e le critiche della Lega, il governo ritira il decreto e lo sostituisce con un disegno di legge.

25 LUGLIO 1994. Si costituisce Salvatore Sciascia, direttore dei servizi fiscali della Fininvest, confessando tre tangenti alla Gdf.

26 LUGLIO 1994. Il gip Andrea Padalino firma un ordine di cattura per Paolo Berlusconi.

29 LUGLIO 1994. Condannati per il conto Protezione Bettino Craxi, Claudio Martelli, Licio Gelli e Silvano Larini.

22 NOVEMBRE 1994. Viene notificato a Silvio Berlusconi un invito a comparire per concorso in corruzione di appartenenti alla Gdf durante il vertice Onu di Napoli.

6 DICEMBRE 1994. Di Pietro, terminata la requisitoria del processo Enimont annuncia le sue dimissioni togliendosi la toga.

7 DICEMBRE 1994. Bossi, Buttiglione e D’Alema annunciano due mozioni di sfiducia al governo.

22 DICEMBRE 1994. Bossi toglie l’appoggio a Berlusconi che sale al Quirinale per dare le dimissioni.

20 MAGGIO 1995. Il pool chiede il rinvio a giudizio di Silvio e Paolo Berlusconi e del generale Cerciello per tangenti alla Gdf.

27 SETTEMBRE 1995. Tutti i 23 imputati del processo Enimont vengono condannati in primo grado.

23 OTTOBRE 1995. Stefania Ariosto, compagna del deputato di Fi Vittorio Dotti accusa Silvio Berlusconi e Cesare Previti di corruzione dei giudici.

7 LUGLIO 1998. Condanna in primo grado per Silvio Berlusconi nel processo per tangenti alla Gdf (assolto in Appello e in Cassazione nel 2001).

25 anni di Mani pulite, i 10 verbali che hanno cambiato l’Italia. Da Mario Chiesa alla maxi tangente Enimont. Dalle mazzette rosse a Berlusconi. Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica. Le confessioni che hanno rivelato i segreti del potere in versione integrale, scrive Paolo Biondani il 16 febbraio 2017 su "L'Espresso". Dieci verbali che hanno cambiato la storia d’Italia. Sono interrogatori che hanno scoperchiato il sistema della corruzione nella Prima Repubblica. Le confessioni a valanga del primo arrestato. Le tangenti di Bettino Craxi tra piazza Duomo e i conti svizzeri. Le corruzioni con la targa del colosso Fiat. I fondi neri versati dall’Eni ai partiti di governo. La maxi-tangente Enimont. Le mazzette rosse del “compagno G” e la bustarella della Lega. Il brigadiere-eroe che denuncia la Guardia di Finanza. Lo scontro finale tra Silvio Berlusconi e i magistrati di Mani Pulite. Sono passati 25 anni dall’inizio dell’inchiesta giudiziaria che ha fatto crollare il muro della cosiddetta Tangentopoli. Una corruzione enorme, sistematica, radicata a tutti i livelli, che ha fatto esplodere il nostro debito pubblico e intossicato la politica, l’economia, la pubblica amministrazione, le autorità di controllo. Un sistema che inizia a crollare il 17 febbraio 1992, quando i carabinieri ammanettano Mario Chiesa, presidente socialista di un grande ospizio milanese, il Pio Albergo Trivulzio. L’ingegner Chiesa ha appena intascato una bustarella di 7 milioni di lire (3.500 euro), portati nel suo ufficio da un piccolo imprenditore di Monza, Luca Magni, che lo ha denunciato all’allora semi-sconosciuto pm Antonio Di Pietro. In meno di tre anni, fino al dicembre 1994, i magistrati di Mani Pulite raccolgono montagne di prove che portano a 1.233 condanne definitive per corruzione, concussione, finanziamento illecito dei partiti e fondi neri aziendali (falso in bilancio). I processi di Mani Pulite continuano ancora oggi a dividere l’Italia in due partiti trasversali: sostenitori e detrattori, cosiddetti giustizialisti e sedicenti garantisti. Ma un fatto è innegabile: in nessun altro periodo si sono accumulate tante rivelazioni sui segreti del potere. Anzi, vere e proprie confessioni.

La prima è datata 23 marzo 1992. Dopo 35 giorni di cella, Mario Chiesa rompe il silenzio: «Intendo dire la verità». Il pm Di Pietro e il gip Italo Ghitti gli lasciano spiegare tutta la sua carriera politica, il dramma familiare provocato dall’arresto. Quel mattino, a San Vittore, Chiesa non si limita a confessare l’accusa per cui è stato ammanettato, ma vuota il sacco. Ammette di aver intascato la sua prima tangente «nel 1974 circa» e la penultima «due o tre ore prima dell’arresto» per la bustarella di Magni. A verbale finiscono quasi vent’anni di corruzioni. Chiesa elenca 16 aziende che gli hanno versato denaro per gli appalti. E fa i nomi dei politici con cui ha diviso i soldi, tra cui spiccano gli ultimi due sindaci socialisti di Milano, Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri. Pochi giorni dopo, le confessioni di Chiesa provocano la prima retata di otto imprenditori, che confessano e chiamano in causa altri. È l’inizio di un effetto-domino che fa crollare il sistema. Da un arresto all’altro, da una confessione all’altra, l’inchiesta si allarga a tutte le centrali degli appalti a Milano e in Lombardia: Comune, Provincia, Regione, società controllate dai partiti come Mm (metropolitana), Atm (tram e bus), Sea (aeroporti), Aem (centrali elettriche), e poi sanità, discariche, edilizia. Ovunque gli amministratori di nomina politica manovrano gli appalti a favore di aziende privilegiate, che in cambio versano mazzette ai tesorieri occulti dei partiti, chiamati “collettori”. In breve dai cassieri lombardi si arriva ai tesorieri nazionali. Severino Citaristi, per la Dc, confessa un decennio di finanziamenti illeciti dopo aver ricevuto oltre 70 avvisi di garanzia. Il leader socialista Bettino Craxi, indagato dal 15 dicembre 1992, nega tutto e attacca i magistrati.

Il 7 febbraio 1993 un suo grande amico, Silvano Larini, si costituisce dopo una latitanza all’estero. E confessa. Larini spiega di aver avuto da Craxi (e dal suo padrino politico Antonio Natali) l’incarico di «incassare per il Psi il denaro versato dalle imprese per gli appalti della metropolitana». E precisa: «Dal 1987 fino alla primavera del 1991 ho ricevuto circa 7-8 miliardi di lire, che ho portato negli uffici di Craxi in piazza Duomo 19». Quindi l’ex capo del governo non solo sapeva delle tangenti al Psi, ma ha intascato per anni, personalmente, buste piene di soldi. E a dirlo è un «intimo amico di Craxi», come Larini si autodefinisce. Confessa di aver prestato già allora un suo conto svizzero, chiamato Protezione, allo stesso Craxi e al suo vice, Claudio Martelli, che lo usarono per incassare 7 milioni di dollari: mazzette al Psi pagate dal Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, il banchiere poi ucciso dalla mafia a Londra (simulando un suicidio). Un segreto negato per oltre un decennio, che era annotato in un dossier ricattatorio sequestrato a Licio Gelli quando fu scoperta la lista degli iscritti alla loggia P2. Già dal 1992 le corruzioni negli appalti travolgono tutti i partiti di governo (Dc, Psi, Pri, Psdi, Pli) e, a Milano, anche la corrente migliorista del Pci-Pds, alleata dei socialisti.

Tra il 2 e il 25 febbraio 1993, un manager del gruppo Ferruzzi-Montedison, Lorenzo Panzavolta, parla per la prima volta di tangenti (per circa 620 mila euro) destinate anche al Pci nazionale, per gli appalti dell’Enel. Soldi intascati su un conto svizzero dal “compagno G”, Primo Greganti, che subisce la più lunga carcerazione preventiva di tutta Mani Pulite e viene condannato senza mai confessare. Il suo silenzio impedisce di smascherare i beneficiari della corruzione ai vertici del primo partito della sinistra italiana. Dai bonifici delle tangenti, nel 1993 i magistrati risalgono ai fondi neri delle grandi aziende e arrivano alle maxi-corruzioni. Pierfrancesco Pacini Battaglia è il banchiere che dalla Svizzera ha gestito per anni i conti segreti dell’Eni: almeno 500 miliardi di lire (oltre 250 milioni di euro). Il giudice Italo Ghitti, con una battuta, lo definisce «l’uomo che sta un gradino sotto Dio». Pacini si costituisce il 10 marzo 1993, svela le mediazioni milionarie per il gas algerino e il petrolio libico e confessa di aver fatto arrivare in Italia almeno 50 miliardi di lire: fondi neri dell’Eni, consegnati in contanti ai tesorieri del Psi e in parte minore alla Dc. Quella primavera decine di imprenditori e politici fanno la coda in procura per confessare, in un clima mai più visto di collaborazione con la giustizia per “fine sistema”.

Eugenio Cefis, l’ex potentissimo re della chimica, viene convocato il 22 aprile 1993 come semplice testimone sul conto Protezione, di cui giura di non sapere nulla. Riservato ed enigmatico come pochi, accetta però di verbalizzare i segreti dei «finanziamenti dell’Eni ai partiti e a singoli politici», che sostiene di aver «ereditato dal fondatore Enrico Mattei». «I partiti di governo», spiega Cefis, venivano pagati «in automatico con fondi distribuiti dal banchiere Arcaini dell’Italcasse: il grosso spettava alla Dc, poi al Psi, il residuo a Pri, Psdi e Pli». L’Eni versava altri soldi «a singoli politici e a giornali di partito». Anticomunista di ferro, Cefis parla pure di un versamento estero al Pci per sbloccare un affare in Unione Sovietica. Ma pur descrivendo vent’anni di tangenti, non fa neppure un nome dei politici corrotti, sostenendo che non voleva conoscerli perché li «usava nell’interesse dell’Eni», disprezzandoli, «come Mattei».

Due giorni dopo, il 24 aprile 1993, Cesare Romiti consegna ai pm di Mani Pulite un memoriale indirizzato al procuratore capo, Saverio Borrelli: è l’atto di resa della Fiat. Dopo gli arresti di vari dirigenti, l’amministratore delegato della prima industria italiana dichiara che i controlli interni hanno confermato che almeno sei società del gruppo «non hanno potuto resistere» e hanno dovuto accettare «un sistema altamente inquinato»: il memoriale si chiude con i nomi dei manager Fiat pronti a confessare, con l’elenco degli appalti per cui hanno pagato tangenti. Al memoriale è allegato un verbale dei vertici, con Gianni e Umberto Agnelli, che il 13 aprile hanno approvato «la collaborazione con la magistratura». Personalmente Romiti si difende, giurando di aver saputo solo allora delle corruzioni («Sinceramente non immaginavo»), mentre era il direttore finanziario Francesco Paolo Mattioli a gestire i fondi neri. Nel processo, celebrato a Torino, i magistrati salgono un gradino più in alto e condannano anche Romiti per falso in bilancio.

Il consenso di massa per la lotta alla corruzione si spezza per la prima volta a fine luglio, con i suicidi di Gabriele Cagliari, ex presidente dell’Eni, e Raoul Gardini, numero uno del gruppo Ferruzzi-Montedison. Il 27 luglio, nel carcere di Opera, il manager Giuseppe Garofano spiega perché Gardini decise di «piegarsi al ricatto del sistema politico» e confessa nei dettagli tutta la maxi-tangente Enimont: oltre 150 miliardi di lire (75 milioni di euro) versati tra il 1990 e le elezioni del 1992 ai cinque partiti di governo e a decine di parlamentari e capicorrente. In cambio, la Montedison è uscita da Enimont incassando dall’Eni 1,4 miliardi di euro. Di Pietro esce dal carcere sfinito. La stessa sera, Cosa nostra fa esplodere tre autobombe, due a Roma e una a Milano, dove la strage di mafia uccide cinque innocenti.

In dicembre, mentre infuriano le polemiche sulle tangenti rosse e l’ex pm Tiziana Parenti si prepara a candidarsi in Forza Italia, viene arrestato il tesoriere della Lega, che dal giugno 1993 governa Milano. Si chiama Alessandro Patelli, confessa di aver intascato 200 milioni di lire (100 mila euro) dalla Montedison, ma giura di non aver detto niente a Umberto Bossi e sostiene che la tangente sarebbe stata rubata da ignoti ladri. Anche il leader della Lega nega di aver saputo, ma conferma di aver chiesto finanziamenti (leciti) ai manager della Montedison e risarcisce alla procura i 200 milioni, raccolti tra gli elettori leghisti. Come Patelli, anche Bossi viene poi condannato per finanziamento illecito.

Dopo aver svelato nel 1992 la corruzione negli appalti e nel 1993 i fondi neri e le maxi-tangenti, come spiega l’attuale procuratore di Milano Francesco Greco, «il 1994 è l’anno in cui scopriamo che anche i controllori sono corrotti». I magistrati hanno già inquisito un giudice civile pagato dall’Eni, Diego Curtò e gli ex vertici della Consob. Il 26 aprile 1994, alle nove di sera, un vicebrigadiere della Guardia di Finanza, Pietro Di Giovanni, si presenta in procura, sconvolto: il suo capopattuglia, Francesco Nanocchio, gli ha dato una busta con due milioni e mezzo di lire: il doppio dello stipendio del vicebrigadiere. Che invece di tacere, intascare, entrare nel giro e arricchirsi con altre mazzette, denuncia il reato. Scoperchiando un sistema di corruzione nelle verifiche fiscali che coinvolge decine di graduati, fino al comandante di Milano, il generale Giuseppe Cerciello. Il 7 luglio, in carcere, Nanocchio confessa le sue mazzette e svela, tra l’altro, che la bustarella data al collega arrivava da Telepiù, un’azienda televisiva controllata da Silvio Berlusconi, diventato capo del governo. Nelle stesse ore altri ufficiali confessano di essersi divisi quattro tangenti Fininvest. La sera del 13 luglio 1994 il governo Berlusconi vara un decreto, intitolato al ministro Alfredo Biondi, che vieta gli arresti e scarcera i corrotti. La legge, contestata dai pm, è ritirata a furor di popolo. Quindi il manager Fininvest Salvatore Sciascia, arrestato, confessa di aver pagato le tangenti alla Finanza, ma con fondi neri forniti da Paolo Berlusconi all’insaputa di Silvio. I pm non ci credono e scoprono che in giugno un ex finanziere diventato avvocato del Biscione, Massimo Maria Berruti, ha incontrato Silvio a Palazzo Chigi. E subito dopo ha chiamato un suo ex collega corrotto, per farlo tacere, promettendogli «la riconoscenza del gruppo Fininvest». In ottobre parte un’ispezione ministeriale segreta su cento milioni di lire prestati da un assicuratore a Di Pietro, che si dimette. Storditi dall’addio, Borrelli e gli altri pm interrogano Berlusconi il 13 dicembre. Nel passaggio cruciale Piercamillo Davigo gli contesta il depistaggio di Berruti. Il leader di Forza Italia risponde attaccando i pm: «E per una cosa del genere avete indagato il capo del governo? Ma vi rendete conto del danno all’Italia?». Condannato in primo grado, Berlusconi ottiene la prescrizione in appello e una trionfale assoluzione in Cassazione, che condanna Sciascia, Berruti e tutti gli altri. Solo lui poteva non sapere. A Tangentopoli, alla fine, ha stravinto Berlusconi.

Tangentopoli, i dieci verbali integrali. Il 17 febbraio del 1992 viene arrestato Mario Chiesa. Un mese dopo iniziano le ammissioni. Alla fine dell'inchiesta ci saranno 1.233 condanne definitive. Ecco le carte originali delle confessioni, scrive Paolo Biondani il 15 febbraio 2017 su "L'Espresso". Dieci verbali che hanno cambiato la storia d’Italia. Sono interrogatori che hanno scoperchiato il sistema della corruzione nella Prima Repubblica. Dalle confessioni a valanga del primo arrestato allo scontro finale tra Silvio Berlusconi e i magistrati di Mani Pulite. Ecco la storia raccontata dai documenti della magistratura.

Mario Chiesa è stato il primo dei circa mille arrestati di Mani Pulite, l’inchiesta della Procura di Milano che tra il 1992 e il 1994 ha travolto il vecchio sistema dei partiti. Presidente socialista di un ospizio milanese, Chiesa viene ammanettato il 17 febbraio 1992 quando ha appena incassato una bustarella di 7 milioni di lire (3.500 euro) versata da un imprenditore delle pulizie. Il 23 marzo 1992, davanti al pm Antonio Di Pietro, confessa vent’anni di corruzioni sugli appalti. Le sue rivelazioni chiamano in causa decine di indagati: imprenditori che pagavano e politici socialisti a cui consegnava personalmente buste di denaro. Le sue accuse provocano altri arresti nuove confessioni: l’inchiesta continua ad allargarsi e svela il sistema di Tangentopoli.

Dagli appalti milanesi l’inchiesta risale ai tesorieri nazionali dei partiti. Il 7 febbraio 1993 si costituisce Silvano Larini, ricercato per corruzione sugli appalti del metrò e grande amico di Bettino Craxi. Larini confessa di aver ricevuto per anni tangenti milionarie, che consegnava personalmente al leader socialista nel suo ufficio in piazza Duomo. Larini ammette anche di aver prestato un suo deposito svizzero a Craxi e al suo vice, Claudio Martelli: su quel conto, chiamato Protezione, sono arrivati 7 milioni di dollari versati nel 1980 dal Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, con la mediazione di Licio Gelli.

Pierfrancesco Pacini Battaglia è il banchiere italo-svizzero che ha gestito una massa di fondi neri dell’Eni: oltre 500 miliardi di lire (250 milioni di euro). Il 10 marzo 1993 si costituisce davanti al giudice Italo Ghitti e al pm Antonio Di Pietro. Pacini Battaglia svela le mediazioni segrete sui grandi affari per il gas e il petrolio. E confessa di aver fatto arrivare in Italia oltre 50 miliardi di lire, consegnati in contanti ai tesorieri del Psi e della Dc, i partiti che controllavano il colosso energetico di Stato, allora in grave crisi. Le rivelazioni del banchiere aprono le indagini sui fondi neri delle grandi aziende e sulle maxi-corruzioni.

Tra il 2 e il 25 febbraio 1993 si apre il fronte delle tangenti rosse. Lorenzo Panzavolta, manager della Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi, confessa di aver versato mazzette (in totale circa 620 mila euro) al Pci-Pds nazionale. A incassarle, su un conto svizzero svelato nell’interrogatorio del 25 febbraio, era Primo Greganti, ex funzionario comunista senza incarichi ufficiali nel partito. Prima dei verbali di Panzavolta, ie indagini per corruzione avevano coinvolto solo la corrente migliorista, al potere a Milano con i socialisti ma avversata dal vertice nazionale del partito. Detenuto per mesi, Greganti non confessarà mai a chi dava i soldi.

Eugenio Cefis, il riservatissimo ed enigmatico ex re della chimica, viene convococato come semplice testimone, il 22 aprile 1993, dai magistrati che indagano sul crac Ambrosiano e sul conto Protezione. Spiega di non sapere nulla di quelle vicende, ma di poter dire molto sui finanziamenti illeciti deil’Eni ai partiti. Cefis mette a verbale i meccanismi di un sistema automatico di creazione di fondi neri, distribuiti ai cinque partiti di governo dal banchiere Arcaini dell’Italcasse. Un sistema che dice di aver ereditato da Enrico Mattei, il fondatore dell’Eni. Cefis parla anche di un versamento estero al vecchio Pci per sbloccare affari in Unione sovietica.

Il 24 aprile 1993 Cesare Romiti, amministratore delegato del gruppo FIat, consegna ai magistrati un memoriale indirizzato al procuratore capo Francesco Saverio Borrelli. Dopo vari arresti di manager Fiat, i vertici del gruppo ammettono che sei società di costruzioni e forniture per i trasporti hanno dovuto pagare tangenti per vincere appalti. Romiti sostiene di averlo saputo solo dopo Tangentopoli, con un’inchiesta interna. Il memoriale, autorizzato da Gianni e Umberto Agnelli, fa i nomi dei manager Fiat pronti a collaborare con la giustizia. Una svolta per il mondo delle imprese.

Nell’autunno del 1993 i magistrati scoprono che anche la Lega Nord ha incassato tangenti dalla Montedison. Il tesoriere del partito padano, Alessandro Patelli, viene arrestato e il 15 dicembre 1993 confessa di aver incassato 200 milioni di lire (100 mila euro), versatigli in contanti, in nero, dai manager del gruppo chimico. Il leader della Lega, Umberto Bossi, nega di aver saputo della tangente e sostiene che Patelli gliene parlò solo a cose fatte. Dopo l’interrogatorio, Bossi restituisce alla Procura un assegno di 200 milioni raccolti con una colletta tra i militanti leghisti e al processo Enimont viene condannato per il reato di finanziamento illecito insieme a Patelli.

Dopo il suicidio di Raoul Gardini, il manager Giuseppe Garofano, cervello finanziario del gruppo Ferruzzi- Montedison, detenuto nel carcere di Opera, confessa tutti i dettagli della maxi-tangente Enimont: fondi neri per oltre 150 miliardi di lire (più di 75 milioni di euro) versati ai cinque partiti di governo, tra il 1990 e il 1992, e a decine di parlamentari e capicorrente.  Il processo Enimont, ripreso in diretta dalle principali reti televisive, porterà alle condanne definitive per finanziamenti illeciti di tutti i segretari e tesorieri della Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli, segnando la fine del vecchio sistema dei partiti.

Il 26 aprile 1994 un vicebrigadiere della Guardia di Finanza, Pietro Di Giovanni, denuncia una tentata corruzione: il suo capopattuglia gli ha offerto due milioni e mezzo di lire. Il caso fa esplodere lo scandalo della corruzione nelle verifiche fiscali, che porta alla condanna di decine di graduati, fino al generale Giuseppe Cerciello. A partire dal 7 luglio alcuni ufficiali confessano di aver intascato quattro tangenti dalla Fininvest. Il 13 luglio il governo Berlusconi vara un decreto, intitolato al ministro Alfredo Biondi, che impone di scarcerare i corrotti. Il decreto viene ritirato dopo una protesta dei pm.

Il 21 novembre 1994 Silvio Berlusconi, allora capo del governo, viene indagato come imprenditore con l’accusa di aver autorizzato i suoi manager a pagare tangenti alla Guardia di Finanza. Alla vigilia della data fissata per l’Interrogatorio, Di Pietro si dimette improvvisamente. La deposizione viene rinviata al 13 dicembre 1994. Nell’interrogatorio il pm Piercamillo Davigo contesta a Berlusconi un depistaggio cruciale per far tacere un finanziere corrotto. Il leader di Forza Italia nega tutto e attacca i magistrati. Condannato in primo grado, Berlusconi ottiene l’assoluzione in Cassazione, che condanna tutti gli altri manager Fininvest che hanno corrotto la Finanza.

Mani Pulite, Antonio Di Pietro: "Non ho rimorsi per i suicidi in carcere", scrive il 16 febbraio 2017 “Libero Quotidiano”. Oggi Mani Pulite "compie" 25 anni. L'inchiesta che sconvolse l'Italia e fece crollare la prima Repubblica fa un quarto di secolo. E così, su Il Giorno, per "celebrarla" intervistano uno dei grandi protagonisti di quell'epoca, Antonio Di Pietro. Che azzanna, subito: "Il virus della corruzione? Invece di cercare una cura, il sistema ha reso il ceppo resistente ai vaccini". Insomma, per Tonino non è cambiato nulla. Ma ciò che più impressiona dell'intervista sono altri passaggi. Per esempio, spiega di non essersi pentito di nulla: "Errori? È inevitabile che ci siano. Se ne ho commessi, l'ho fatto sempre in buona fede, mentre compivo il mio dovere". E ancora, aggiunge: "Se mi posso rimproverare qualcosa, è di non essere riuscito a finire le inchieste, a causa dei dossieraggi e delle calunnie che mi hanno spinto a smettere la toga. Mi sono affidato all'autorità giudiziaria e sono uscito pulito". Dunque gli si chiedono se non si abusò della carcerazione preventiva per favorire le confessioni. Di Pietro risponde: "È una falsa giustificazione di chi non vuole ammettere i fatti. Chi commetteva reati non era un ladro di polli, c'era concreto pericolo di inquinamento delle prove. La carcerazione preventiva era un atto necessario, li avevamo presi con la marmellata". Si prova dunque ad indagare sul possibile pentimento per i suicidi ai quali spinse proprio la carcerazione preventiva. Pentimento che non c'è. Si chiede a Di Pietro se ha dei rimorsi, per esempio, per la morte del presidente Eni, Gabriele Cagliari, e Di Pietro afferma: "Come faccio ad avere dei rimorsi? Intendiamoci: tutto avrei voluto, tranne che qualcuno si togliesse la vita. Però la vita è uguale per tutti, non capisco perché non ci sono polemiche quando a morire è un tossicodipendente o un poveraccio. Se mi si dice: 'non bisogna più arrestare nessuno', poi non lamentatevi se viene meno lo Stato di diritto".

25 anni dopo la stagione di Tangentopoli: quell’inutile inchiesta di Mani pulite. L’arresto di Mario Chiesa il 17 febbraio del 1992 diede il via alla stagione che travolse la Prima Repubblica e pensava di cambiare la storia d’Italia. Ma a distanza di un quarto di secolo bisogna riconoscere che il problema della corruzione nel Paese è anche più forte, scrive Antonello de Gennaro il 17 febbraio 2017 su "Il Corriere del Giorno". Il 17 febbraio di 25 anni fa l’arresto di Mario Chiesa presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, diede inizio alla “rivoluzione giudiziaria” che ribalta la Prima Repubblica. In appena due anni, in cui passarono sul banco degli imputati ex premier ed ex ministri: Bettino Craxi e Arnaldo Forlani risposero nella stessa giornata alle domande dell’(oggi ex) pubblico ministero  Antonio Di Pietro.  Il terremoto si scatenò soltanto un mese dopo quando, alle 10 del mattino del 23 marzo, Chiesa cominciò a rispondere alle domande del pubblico ministero e del gip Italo Ghitti nel carcere di San Vittore. Quella mattina Mario Chiesa confessò le tangenti, riempì 17 pagine di verbale, e si vendicò di Bettino Craxi. Che soltanto venti giorni prima i aveva commesso un errore grossolano definendo Chiesa “un mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito che a Milano, in 50 anni, non ha mai avuto un amministratore condannato per reati gravi contro la pubblica amministrazione”. Qualcuno, in carcere, aveva raccontato quella definizione al presidente del Pio Albergo Trivulzio, che si sentì isolato ed abbandonato al suo destino giudiziario dietro le sbarre. E Chiesa decise di iniziare a parlare. Fu così che Tangentopoli ebbe inizio. Di giorno in giorno mentre si susseguivano gli arresti i pm Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo diventavano il simbolo della speranza di cambiamento a Milano ed in Italia. Davanti al portone del Palazzo di giustizia milanese di via Freguglia, si trasmettevano in diretta gli effetti di quella speranza che veniva dal quarto piano dagli uffici della procura milanese. I giornalisti bivaccavano nei corridoi per raccontare “Tangentopoli”, anche se in quei giorni a nessuno di noi era ben chiara dove e come sarebbe finita quella inchiesta. Si vedeva però il terrore sui volti e negli occhi di chi attendeva di varcare la porta dei magistrati per confessare le proprie responsabilità. Si vedevano, per la prima volta i potenti ridotti in vittime. Ma anche persone sconosciute si presentavano davanti alle porte dei magistrati del pool “Mani pulite”. I giornalisti li vedevano e chiedevano loro chi fossero. Molto spesso non rispondevano, guardavano pallidi, nervosi, sudati nel vuoto. Cosa accadeva dietro le porte dei magistrati, noi giornalisti non potevamo vederlo. Si riusciva a saperlo soltanto dopo, dalla voce di qualche avvocato o da qualche carta che sfuggiva ai rigorosi controlli del pool. In un libro del 1996, Il vizio della memoria, l’ex- pm Gherardo Colombo scriveva che “Queste nuove fonti erano di solito persone sconosciute che si presentavano, accompagnate dal difensore, in uno dei nostri uffici, generalmente quello di Antonio, e senza che noi sapessimo nulla di loro raccontavano, raccontavano fatti, reati, persone coinvolte, circostanze, date, passaggi di contanti, aperture di conti in Svizzera e così via”. “Ogni tanto si apriva una nuova ramificazione – aggiungeva Colombo – ogni tanto sulla superficie del cono, appariva il vertice di una nuova figura, destinato a essere autonoma origine di un nuovo filone, che si sarebbe sviluppato come quelli già avviati. Fin dall’inizio l’indagine aveva preso la forma di una spirale che, seguendo i contorni di un immaginario cono rovesciato, partendo dal vertice, si estendeva e saliva. Da un episodio quasi banale, come ne succedono tanti – l’arresto in flagranza di un funzionario pubblico che aveva chiesto denaro a un imprenditore recalcitrante per “consentirgli” di continuare a lavorare presso l’istituto che presiedeva – Antonio (Di Pietro, nda), all’inizio da solo, era riuscito ad avviare il meccanismo, fondato su una serie di rimandi”. L’inchiesta che travolse la politica della Prima Repubblica sì consumò ed esaurì dal febbraio 1992 al dicembre 1994 in meno di tre anni. Nei corridoio del quarto piano le espressioni dei volti dei singoli magistrati erano diventati il termometro degli alti e bassi dell’indagine. Ad  Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo erano stati affiancati dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, da altri pm fra cui l’attuale procuratore capo di Milano  Francesco Greco, Fabio De Pasquale, Paolo Ielo, Elio Ramondini, Raffaele Tito, Margherita Taddei e Tiziana Parenti, a causa della moltitudine dei i filoni d’inchiesta che si erano aperti da seguire, interminabili le confessioni da far verbalizzare, per non parlare poi delle richieste di autorizzazione a procedere da inviare in Parlamento a carico dei politici coinvolti. Man mano che le pressioni politiche sul pool aumentarono d’intensità, si cominciavano a scorgere sui volti dei magistrati non più la stanchezza per quelle interminabili confessioni raccolte, ma bensì la preoccupazione che l’inchiesta potesse essere bloccata. Quando ormai l’indagine era decollata da un anno e mezzo, un venerdì pomeriggio 23 luglio 1993, Antonio Di Pietro stravolto fu visto picchiava i pugni contro il muro. Tutto il pool “Mani pulite” era sotto choc. Quella mattina fra le 8,30 e le 8,45 poco prima di essere arrestato Raul Gardini si era sparato un colpo di pistola alla tempia. Una a morte che seguì di soli tre giorni il suicidio del presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari nel nel carcere di San Vittore.  Nel settembre 1992 cera già stato un precedente momento di crisi: il primo suicidio di Mani pulite, quello del parlamentare socialista Sergio Moroni. Il segretario del PSI Bettino Craxi, commentò quella morte assurda con una frase concisa che diceva tutto contro i magistrati del pool: “Hanno creato un clima infame”. E’ stata una stagione politica che si può capire solo con una lettura completa del corso degli eventi, in quanto le inchieste milanesi si sono incrociate con le stragi di mafia e con una disastrosa crisi economica profonda, che ha provocato la scomparsa di aziende storiche e la svalutazione della lira, che spinse il Governo Amato a prelevare dai conti correnti di tutti gli italiani il 6 per mille. Ma è stata anche una stagione di speranza, con la speranza di un rinnovamento generazionale ed etico della vita pubblica che si è rivelato disastroso. Sono nati nuovi movimenti politici, da Forza Italia di Silvio Berlusconi e Giuliano Urbani, alla Lega di Bossi e Maroni, e altri sono nati dalle polveri della tradizione democristiana e comunista. Ma nello stesso tempo i nuovi “politicanti” si sono ben guardati dall’instaurare di nuove   leggi e strutture create per impedire che le tangenti tornassero a circolare in tutto il Paese. E più di prima. Al contrario sono stati introdotti dei provvedimenti che invece di rendere più giusti i processi hanno ottenuto l’effetto contrario ostacolando la “macchina” della Giustizia, e provocando per effetto della prescrizione la scomparsa di migliaia di inchieste. Venticinque anni dopo, Francesco Greco che Gherardo Colombo definiva nel suo libro “dai tempi lunghi, il più assiduo a lavorar sulle carte, a esaminare i bilanci, a incunearsi nelle contabilità sociali per scoprirne mancanze, falsità, duplicazioni” siede ora nell’ufficio che fu di Francesco Saverio Borrelli. Antonio Di Pietro si è ritirato nella sua Montenero di Bisaccia dopo aver fondato un partito l’Italia dei Valori, ormai pressochè scomparso, ed essere stato ministro. Piercamillo Davigo è presidente di sezione in Cassazione e presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Gherardo Colombo è stato componente pressochè ininfluente del consiglio di amministrazione della RAI, è attualmente coordinatore del Comitato per la legalità e la trasparenza del Comune di Milano ed è presidente degli Organismi di vigilanza della Banca Popolare di Milano e del gruppo Sole 24 Ore le cui recenti vicende societarie confermano che non sia più molto vigile ed attento a quanto accade in giro. Dopo i venticinque anni trascorsi, è doveroso tristemente ammettere che il Paese non è stato in grado di fare tesoro di quel ciclone giudiziario. Risultato che oggi il problema della corruzione è incredibilmente più forte di prima. Le ragioni e cause sono le stessi del 1992: il finanziamento della politica non è trasparente, i partiti continuano a “lottizzare” indisturbati società ed enti pubblici. Certo, non esiste più quel sistema verticistico che applicava il manuale Cencelli anche alla spartizione delle tangenti, definendo quote precise a livello cittadino, provinciale, regionale e nazionale. Un sistema in cui – a livello locale e nazionale – le indagini dimostrarono anche un ruolo del Partito Comunista Italiano, da sempre molto vicino agli ambienti e correnti della magistratura. L’inchiesta “Mani pulite” ha fatto cadere la Prima Repubblica ma non ha sconfitto la corruzione. L’illusione dei magistrati è durata lo spazio di pochi anni. Gli echi di quella stagione si sono spenti. Ed al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano sono esplosi i veleni fra gli stessi magistrati. Le inchieste chiaramente non si sono fermate ma non viene più assegnato loro quella speranza che si respirava ascoltato il pensiero e le opinioni degli italiani nella stagione di “Tangentopoli”. Adesso i magistrati hanno solo il compito che dovrebbero sempre avere: semplicemente trovare i reati, impedirli e punirli.  Senza avere la pretesa che debbano essere i magistrati i delegati a correggere le storture della democrazia nel nostro Paese. Nel 2017 le segreterie dei partiti non sono più il fulcro della gestione dei finanziamenti illeciti. Adesso il mercato della corruzione è dominato da consorterie trasversali, bande che legano gli interessi di politici e imprenditori. E sempre più spesso le mafie si inseriscono in queste dinamiche, offrendo bustarelle e mettendo a disposizione i loro capitali. E’ il copione di Mafia Capitale, è il modello criminale che minaccia il nostro futuro. E Roma sotto la guida del procuratore capo Pignatone non è più il porto delle nebbie, mentre non sono pochi i magistrati che in Italia vengono denunciati per gli abusi commessi nell’esercizio del loro potere, a volte vengono arrestati, si lanciamo in politica e spesso  finiscono sotto inchiesta del Consiglio Superiore della Magistratura come il novello autocandidato “salvatore del Paese ” Michele Emiliano che ha dimenticato e rimosso….frettolosamente certe frequentazioni e rapporti personali  con la famiglia di imprenditori baresi De Gennaro coinvolti nell’inchiesta su alcuni appalti realizzati a Bari negli ultimi anni. E’ l’Italia….bellezza? O ha ragione chi sostiene che il nostro Paese viveva meglio nella Prima Repubblica, e la politica nonostante tutto era una cosa seria?

Un inedito di Bettino Craxi: «Ecco cosa fu Tangentopoli». A partire da martedì prossimo, fino a sabato, il Dubbio pubblicherà il memoriale di Craxi, scrive Piero Sansonetti il 12 febbraio 2017 su "Il Dubbio". Nel febbraio di venticinque anni fa (esattamente il 17 febbraio) nasceva Tangentopoli. Cioè iniziava quell’inchiesta giudiziaria, chiamata “Mani pulite”, condotta da un pool di magistrati i cui nomi sono ancora oggi molto noti (Di Pietro, Davigo, Colombo, D’Ambrosio, Ielo, coordinati dal Procuratore Borrelli) che in pochi mesi avrebbe raso al suolo la Prima Repubblica, cancellato partiti democratici radicatissimi, come la Dc e il Psi (oltre a vari partiti più piccoli), eliminato leader di grande statura, riformato profondamente e ridimensionato tutta la politica italiana. I numeri di quella inchiesta sono impressionanti. Più di 20 mila avvisi di reato, più di quattromila arresti, una decina di suicidi. Tutti tra esponenti alti e medio- alti del mondo politico e imprenditoriale. Alla fine ci furono un migliaio di condanne. Che indubbiamente sono tante, ma sono anche poche se si considera la quantità di persone travolte dall’inchiesta e poi risultate innocenti. Più o meno 19 mila. Tra i condannati, molti hanno continuato a reclamare la propria innocenza. E tra questi il più famoso di tutti, e anche il più combattivo, è stato Bettino Craxi. Sapete che Craxi nel 1994 si rifugiò in esilio in Tunisia. E lì trascorse gli ultimi sei anni della sua vita. Pochi mesi pima di morire, nella speranza che il parlamento si decidesse a varare una commissione di inchiesta su Tangentopoli, Craxi scrisse un memoriale di 24 pagine che poi non fu consegnato a nessuno, perché la commissione di inchiesta non fu mai formata, forse per pigrizia, più probabilmente per non sfidare la magistratura, che non gradiva. Così il memoriale di Craxi, che doveva essere una relazione da consegnare alla commissione parlamentare, è rimasto in questi anni alla fondazione Craxi. La quale gentilmente, in occasione di questo anniversario, ci ha concesso di pubblicarlo. Lo faremo, sul Dubbio, a partire da martedì prossimo, suddividendolo in cinque puntate: una puntata al giorno, fino a sabato. Si tratta di un documento inedito, molto interessante, e di valore storico assoluto. Perché ricostruisce la vera struttura di Tangentopoli. E cioè racconta di come la Repubblica italiana, dall’inizio della sua vita, nel 1945, ha visto la propria struttura politica principale – costituita dai partiti – finanziata permanentemente in modo illegale o irregolare. E di come questa metodologia fosse da tutti ben conosciuta e da tutti accettata. Nel mondo politico, nel mondo dell’economia, nella magistratura. Perché allora il problema fu sempre ignorato? Perché nessuno aveva mai voluto mettere le mani sulla questione, molto complicata, del finanziamento dei partiti. Per superare il finanziamento illegale c’erano solo due strade: realizzare un robusto e adeguato finanziamento pubblico, che rendesse inutile il finanziamento illegale, oppure abolire i partiti. Fu scelta la seconda via. Craxi descrive in modo dettagliato i costi della politica democratica, e poi racconta la natura dei finanziamenti (che erano e non potevano essere che ingenti) dagli anni 40 in poi: potenze straniere, enti pubblici, impresa privata. E ragiona anche su come, almeno in parte, questi finanziamenti condizionassero le scelte dei partiti, sia sul terreno delle politiche economiche sia della politica estera. La lettura del memoriale- Craxi pone, quasi 20 anni dopo la sua morte, alcune domande molto serie e anche difficili. Provo a riassumerle in modo schematico:

1) Se è vero – e non mi pare che nessuno mai abbia nemmeno provato a smentire questo dato – che tutta la politica, per quasi cinquant’anni, è stata finanziata illegalmente, perché solo nel 1992 la magistratura ha deciso di intervenire?

2) Se è vero che tutta la politica era finanziata illegalmente, perché furono colpiti solo i partiti di governo, e in particolare il Psi?

3) Se è vero, come oggi dice il dottor Davigo, che i finanziamenti illegali sono continuati per anni, e ancora continuano, come mai nel 1994, e cioè dopo che Bettino Craxi era stato abbattuto, “Mani pulite” si fermò? Craxi era un obiettivo speciale per il pool milanese? La sua sconfitta fu considerata un risultato sufficiente per il successo dell’inchiesta?

4) La scelta di affrontare il finanziamento illecito dei partiti coi “bulldozer”, che provocò di fatto la fine del partito politico – di massa, democratico e popolare – che avevamo conosciuto fino ad allora, fu sostenuta in qualche modo da forze estranee alla magistratura ( forse economiche, editoria, giornali) che erano interessate a nuove forme, leaderistiche e personalistiche, di politica, che riducessero al minimo il tasso democratico, e semplificassero il processo decisionale e il rapporto tra politica e altri poteri?

Per ora ci fermiamo a queste domande. Nei prossimi giorni, pubblicando il memoriale di Bettino Craxi, cercheremo di aprire la discussione su questi argomenti. Forse il fatto che sia passato un quarto di secolo può consentire, oggi, una discussione vera, senza tabù, per capire davvero cos’è successo, perché è successo, se tutto quello che è successo è stata una grande opera di giustizia o di ingiustizia.

A 25 anni dall’inchiesta “Mani pulite” è pubblicato su "Il Dubbio" del 14 Febbraio 2017 il Memoriale scritto dall’ex premier e segretario socialista prima di morire. Un testo in cui descrive i meccanismi del finanziamento illegale della politica e la differenza tra finanziamento illegale e corruzione. «Vi spiego come funzionava Tangentopoli», scriveva Bettino Craxi.

«In Italia, il finanziamento illegale della politica non è di certo un fenomeno nato e vissuto solo negli anni ’ 80 e seguenti. Eppure c’è chi, a digiuno di storia e navigando nella mistificazione, ne parla come se di questo si sia trattato. Tutto al contrario questo fenomeno accompagna addirittura la storia nazionale, almeno dall’unità d’Italia in poi. I mezzi finanziari per sostenere le attività politiche, le loro strutture permanenti di sostegno, le campagne di propaganda e le campagne elettorali sono sempre stati ricercati e trovati seguendo sentieri che molto spesso sono andati ben al di là delle regole e dei confini della normalità, della trasparenza e della legalità. Senza scavare in mezzo agli innumerevoli episodi di tempi ormai molto lontani, attraverso il corso della storia italiana prima dello Stato unitario, monarchico, liberale e poi fascista ma limitandoci solo a considerare la vita della Repubblica democratica si può senz’altro dire che sin dalle sue origini e cioè sin dal decorrere del dopoguerra, il finanziamento della politica, tanto nei suoi aspetti interni che in quelli internazionali, ha presentato molti lati oscuri, a tutt’oggi peraltro non tutti chiariti o chiariti solo in parte. All’interno di un fenomeno così diffuso non sono poi naturalmente mancati, nelle varie epoche, episodi molteplici di corruzione, di degenerazione e di malcostume. Era una materia per la quale il concetto di controllo era sempre molto discutibile, la segretezza delle operazioni aveva un suo ruolo così come lo aveva la delicatezza delle implicazioni politiche. I Partiti, le correnti organizzate dei partiti, i clan politici, i singoli esponenti della classe politica, nello scorrere della vita democratica, delle sue contrapposizioni, delle sue alleanze e dei suoi contrasti, si sono comunque sempre alimentati finanziariamente nelle forme più diverse, unendo insieme entrate dichiarate e rese pubbliche ad entrate invece molto più spesso non dichiarate e quindi rimaste sostanzialmente nell’ombra, ignorate persino dai membri stessi delle singole organizzazioni. La storia della democrazia repubblicana potrebbe così essere letta anche attraverso la complessa storia del finanziamento dei soggetti politici che hanno esercitato in essa un ruolo preminente e significativo, partecipando e determinando lo svolgimento e la dialettica propria della vita democratica. Intendiamo riferirci in questo modo soprattutto a sistemi e fonti di finanziamento attorno alle quali si sono mosse le influenze di potere, l’azione dei gruppi economici pubblici e privati e delle organizzazioni sociali, le relazioni, le influenze, le solidarietà e i commerci, con connessioni o meno, a seconda dei casi, con attività di carattere spionistico, eversivo, illegale, internazionali. Anche la corruzione nella Pubblica Amministrazione e la corruzione aziendale non sono di certo caratteristiche specifiche e nuove nate negli anni ’ 80. Si tratta di fenomeni, tanto il primo che il secondo, che hanno come è noto radici antiche anzi antichissime. Esse giungono attraverso vie secolari sino alla moderna società industriale dove hanno avuto una loro diffusione con tratti particolari ma comunque sempre assai ben individuabili. Esse hanno trovato e trovano i loro collegamenti con il finanziamento illegale della politica, senza tuttavia necessariamente identificarsi con esso, trattandosi di fenomeni di portata ben più generale, con responsabilità ed interessi propri e diretti di classi burocratiche, manageriali, imprenditoriali, professionali oltreché naturalmente di soggetti individuali della politica e dell’amministrazione. Di finanziamenti non dichiarati e quindi, dopo l’entrata in vigore di apposite leggi, che regolavano la materia, di finanziamenti illegali, hanno certamente beneficiato sistematicamente tutti i partiti democratici nessuno escluso. Se vi sono delle eccezioni, come da qualche parte si afferma, si tratta di formazioni minori di cui tuttavia non risulta che nessuno mai abbia effettuato controlli sui bilanci, le entrate, le spese. Di finanziamenti non dichiarati ha certamente beneficiato gran parte della classe politica, ivi compresi quindi buona parte di coloro che, in questi anni, si sono messi le maschere e i panni del moralizzatore. Ce ne è in circolazione un numero notevole a rendere ancor più falsa e paradossale l’attuale situazione. Vi sono alcuni tra questi che lo hanno fatto sino a quando non sono stati smascherati. Altri lo continuano a fare, sino a quando, nonostante tutte le protezioni, non finiranno con il subire la stessa sorte di altri, come è possibile e naturalmente auspicabile che avvenga, anche se ormai tanto materiale è finito in cavalleria e per riesumarlo occorrerebbero ricerche molte impegnate. Gli uni e gli altri, Partiti e classe politica, fronteggiavano un bagaglio di spese, che, a parte possibili ma abbastanza poche eccezioni di soggetti ad alto reddito personale, che meriterebbero di essere elencati, non potevano essere affrontate se non con il ricorso ad entrate di tipo straordinario. Questa linea di condotta era propria di tutti i maggiori Partiti del Paese, sia che si trattasse di Partiti di governo che di Partiti di opposizione. Tutti si avvalevano, naturalmente in misura diversa, di strutture burocratiche diversificate, di reti associative, di scopo che esercitavano un’azione permanente di sostegno, di reti di informazione fondata su quotidiani e periodici, di canali radiofonici e televisivi, di attività editoriali, di centri-studi, di scuole di formazione politica. Altre iniziative di rilievo finanziario riguardavano acquisizioni immobiliari per sedi e luoghi di incontro, circoli e quant’altro si proponeva come utile e necessario per favorire ed incrementare la vita associativa e per moltiplicare le iniziative di incontro, i dibattiti, le manifestazioni. I Partiti minori, in forma minore, con esigenze minori, partecipavano tuttavia anch’essi alla ricerca possibile dei mezzi finanziari di cui avevano bisogno. Operavano naturalmente con strutture ridotte, apparati più piccoli, esigenze finanziarie di spesa non paragonabili quindi a quelle dei grandi partiti. E tuttavia, anche quasi tutti i Partiti minori, come appare documentato, contavano su quotidiani, periodici, case editrici, sedi in gran parte dei comuni del paese, e, nell’insieme, affrontavano le campagne elettorali gareggiando spesso per l’ampiezza delle risorse impegnate con la propaganda dei Partiti maggiori e campagne elettorali personali assolutamente competitive per i mezzi di propaganda impegnati. Non sarebbe difficile per questo fare qualche esempio perfettamente documentabile. Piccolo partito, grande candidato, grande campagna elettorale. Per tutti, l’asprezza della lotta politica, l’urto frontale che contrapponeva le forze tra loro, la concorrenza e la contrapposizione sovente esasperata, la lotta tra i candidati per conquistare la elezione, l’organizzazione della raccolta delle preferenze per i singoli, per i clan, le correnti, e le cordate, finivano con il giustificare agli occhi dei responsabili politici, nell’ottica dello scontro e della rivalità, e nella prospettiva del successo o della sconfitta, la ricerca talvolta anche la più spregiudicata dei mezzi finanziari. E, talvolta, così come era spregiudicata la raccolta egualmente ne era spregiudicato l’utilizzo. I Partiti in ogni caso non hanno mai vissuto dei soli mezzi derivanti dalle quote associative e dalle sottoscrizioni così come essi venivano dichiarando ufficialmente. Il sistema era ben più complesso, articolato e spesso incontrollato e talvolta anche assai contorto e tutti i dirigenti ne erano perfettamente consapevoli. Alla entrate ordinarie e dichiarate si aggiungeva così una parte cospicua costituita da forme di finanziamento non dichiarato proveniente dalle fonti più varie e disparate, ed anche quindi con caratteristiche di provenienza illegittima e comunque in violazioni di leggi dello Stato ed in primo luogo della legge sul finanziamento dei partiti. L’industria di Stato, l’industria privata, i gruppi economici e finanziari, il movimento cooperativo, le associazioni che univano grandi categorie della produzione, della distribuzione e dei servizi, singoli, gruppi e società hanno tutti nell’insieme concorso al finanziamento della politica, e del personale politico, ed a seconda dei casi, in forma stabile, in forma periodica, in occasioni di campagne elettorali in modo diretto ed in modo indiretto. Le loro decisioni si diversificavano per l’entità delle contribuzioni e per la loro destinazione a seconda delle loro differenti opzioni politiche, delle loro convenienze, delle loro preferenze personali. È così capitato che il movimento cooperativo rosso per esempio sia diventato uno dei principali agenti organizzatori e trasmettitori di finanziamenti in forma regolare e costante al Pci. Ciò avveniva soprattutto in certe regioni ma anche su scala nazionale, tanto al Nord che al Centro che al Sud. Il Psi partecipava a questa forma di finanziamento ricevendone vantaggi ma con caratteri e con un ruolo tuttavia assolutamente minore. Tutto questo sistema può naturalmente essere rivisitato e ricostruito, perlomeno nelle sue grandi linee, percorrendo le epoche diverse che sono state attraversate, e analizzando tutti gli aspetti vari, particolari e specifici su cui esso si era venuto strutturando.

Tutta l’esperienza che si è accumulata nella vita democratica repubblicana conduce a concludere, con assoluta evidenza, che il complesso del sistema economico, a partire della sue entità maggiori e più significative, partecipava con l’erogazione diretta di mezzi finanziari e attraverso altre forme indirette di appoggio, ed anche nel campo della informazione, della pubblicità e dei servizi, al sostegno ed anche allo sviluppo del sistema politico democratico e delle sue attività politiche, associative, culturali, formative, propagandistiche, elettorali. Parimenti il sistema economico esercitava sul sistema politico e sulle sue decisioni un’azione di condizionamento che era maggiore o minore in relazione alla capacità ed alla forza di autorità e di autonomia delle differenti formazioni politiche e dei diversi soggetti politici. Questo processo di condizionamento si esercitava sui Partiti, sul loro espressioni parlamentari, governative ed amministrative ed anche naturalmente sui singoli esponenti politici soprattutto quando questi ultimi divenivano personalmente tributari in modo decisivo per le loro attività, per il sostegno della propria organizzazione ed immagine, e per il successo elettorale proprio e dei propri grandi elettori. In questo modo ricevevano contributi sia i Partiti che le correnti dei Partiti, spesso organizzate come sotto-partiti, che i singoli esponenti politici che necessitavano anch’essi di reti di supporto burocratiche, associative o più semplicemente clientelari. Agendo in questo modo i gruppi economici finanziatori erano a loro volta mossi da obiettivi molteplici. Perseguivano obiettivi di carattere generale volti a difendere un sistema di valori da cui si sentivano garantiti e a sostenere determinati equilibri politici e le forze che li costituivano e li alimentavano e che quindi ricercavano, mantenevano, o si sforzavano di mantenere, un quadro di stabilità politica nel governo generale della Repubblica, sostenendo posizioni anche tra loro divergenti. Erano mossi ancora da motivi di carattere generale in funzione di politiche economiche finanziarie, industriali, scientifiche, ed anche di politiche comunitarie ed internazionali che consideravano adeguate e necessarie per il proprio sviluppo e corrispondenti alle esigenze produttive ed economiche generali del Paese. Ancora erano mossi da interessi più particolari con riferimento a specifiche decisioni legislative, normative, amministrative e di orientamento e definizione della spesa pubblica. Ancora vi erano interessi più delimitati che riguardavano i programmi, la loro attuazione, e le decisioni relative delle Pubbliche Amministrazioni e degli Enti Pubblici nazionali, regionali e locali. In quest’ambito aveva una valenza l’influenza dei Partiti e dei gruppi politici, ma nell’insieme le maggiori forze economiche avevano anche e soprattutto proprie strutture e capacità di influenza diretta sulla Pubblica Amministrazione e sugli Enti pubblici con un complesso di relazioni spesso dirette e personali e con un grado quindi di penetrazione notevole ed efficace, volto a predisporre ed ad indirizzare nelle direzioni volute le decisioni pubbliche e la stessa condotta del ceto politico. Tuttavia anche in questi casi, quando l’influenza veniva esercitata in una forma lineare, il grado di garanzia e di tutela del pubblico e generale interesse poteva essere salvaguardato. Quando invece questa influenza veniva esercitata in forma spregiudicata e distorta, con l’impiego di mezzi e secondo metodi di corruzione personale, cui spesso non erano estranei gli interessi degli stessi soggetti erogatori, sull’interesse pubblico reale veniva sovente steso un velo interessato e pietoso. Nel mondo politico gli interlocutori privilegiati erano le istituzioni governative, parlamentari e le formazioni che componevano le maggioranze. Ma non venivano affatto trascurate quelle di opposizione, naturalmente in modo diverso a seconda dei casi, ed in rapporto alla loro influenza nel Parlamento, nelle istituzioni, nei grandi Enti Pubblici, nelle Amministrazioni regionali e locali e in generale nella vita del Paese e negli orientamenti della pubblica opinione. Nelle Amministrazioni regionali e locali, del resto le maggioranze politiche e di governo si diversificavano a secondo delle Regioni, dei Comuni e delle Province e, in molti casi, formazioni all’opposizione sul piano nazionale, costituivano invece il perno politico centrale o sussidiario del governo regionale e locale. Quando si trattava di decisioni che potevano avere effetto sull’attività produttiva o riguardavano programmi di Enti sociali, veniva ricercata e spesso ottenuta anche l’influenza e l’accordo di interlocutori del mondo sindacale e sociale anche con contributi finanziari volti ed effettuati in questa direzione. In taluni casi, rappresentanze sindacali anche di livello nazionale ricevevano perciò, in forma diretta o indiretta, contribuzioni in forma periodica ed anche continuativa. In particolare, in relazione all’attività di Enti amministrati da rappresentanze sindacali il dialogo e le eventuali contribuzioni finanziarie connesse veniva stabilito direttamente con interlocutori sindacali oppure attraverso la mediazione di fiduciari dei Partiti cui le rappresentanze sindacali in questione erano collegate. Il finanziamento irregolare ed illegale rivolto ai partiti ed alle attività politiche, ed anche a gruppi e singoli esponenti del mondo politico, oltreché di carattere interno era anche di carattere e provenienza internazionale. Si tratta in questo caso di un capitolo molto complesso. Esso non è mai stato esplorato sino in fondo, anche se, per molte parti, a distanza di decenni, taluni dei suoi aspetti sono venuti alla luce in modo abbastanza evidente e documentato. Il finanziamento internazionale a forze politiche italiane nel periodo repubblicano ha sempre presentato una natura composita. Esso comprendeva voci e fonti molto diversificate, era di natura finanziaria diretta e di natura indiretta, si poteva presentare anche in forma di servizi e spesso in connessione con attività commerciali. I Paesi che, nelle varie forme, hanno concorso a questo tipo di finanziamento sono stati molti. Tuttavia, sostanzialmente, si trattava di strutture dipendenti dagli Usa e dall’URSS e di attività e strutture proprie dei Paesi appartenenti alle loro aree di influenza politico- militare. Le due maggiori potenze, guidando le loro alleanze politico- militari, avevano ingaggiato tra loro un braccio di ferro durato poi decenni. Si trattava di una contrapposizione e di una contesa che si proponeva di difendere, consolidare ad estendere le rispettive aree di influenza e quindi, in particolare, punti geopolitici di importanza strategica. A questo scopo venivano effettuati interventi soprattutto nei Paesi considerati anelli deboli e, a causa della loro fragilità ed instabilità politica, esposti al rischio ed alla possibilità di una frattura interna e di un rovesciamento delle posizioni, e in aree che, per le loro caratteristiche, potevano essere considerate utili. In Europa, tra i grandi Paesi, l’Italia era certamente considerato uno di questi. In questo contesto, diversi Partiti italiani e diversi leader politici, in epoche diverse hanno sollecitato, accettato, beneficiato di finanziamenti di questa natura, anche se ci riferiamo soprattutto agli anni del dopoguerra. Tutti i maggiori leader del dopoguerra italiano hanno fatto i conti con questa realtà ed hanno rafforzato la propria azione anche ricorrendo all’aiuto di finanziamenti internazionali. Dei finanziamenti provenienti dagli Usa hanno così beneficiato, per tutto un certo periodo, formazioni politiche dei governi postbellici. Dei finanziamenti provenienti dall’URSS e dal blocco sovietico ha beneficiato soprattutto il Partito Comunista. Quest’ultimo ne ha del resto sempre beneficiato sin dalla sua origine e via via attraverso le fasi travagliate della sua storia, sino agli anni più recenti e cioè sino alla caduta dell’impero sovietico ed alla fine del potere comunista nell’URSS. Dalla sua nascita, e prima ancora come corrente del PSI, sino alla sua scomparsa, visse di finanziamenti sovietici il PSIUP e, per aggiunta, ricevettero finanziamenti sovietici singole personalità o frazioni politiche tanto del PSIUP che del PCI. Anche il partito Socialista aveva ricevuto nel passato finanziamenti dall’estero, sotto varie forme, dirette ed indirette Sino al 1956, e cioè l’anno della rivolta ungherese, della solidarietà espressa dai socialisti italiani ai patrioti insorti a Budapest, con la conseguente aspra polemica con l’invasore sovietico e la rottura che poi ne seguì con i comunisti italiani, il PSI aveva ricevuto aiuti finanziari e materiali dall’URSS e da altri Paesi del Patto di Varsavia. Nel periodo immediatamente successivo ricevette invece un aiuto finanziario direttamente dagli Usa. Sotto le direzioni politiche che seguirono il PSI non mi risulta abbia mai ricevuto alcun finanziamento proveniente da Partiti o da Stati stranieri, mentre non si deve escludere che singoli esponenti del PSI ne abbiano potuto beneficiare sulla base di loro relazioni personali e particolari e in quest’ambito anche gli stessi Amministratori del PSI.

In materia di finanziamento estero il Pci, divenuto poi Pds, a differenza degli altri Partiti, aveva organizzato una vera e propria struttura permanente che nel corso dei decenni, si è venuta costantemente ampliando e perfezionando sì da garantire dei flussi di finanziamento costanti che rappresentavano una parte certamente rilevante delle sue entrate. Il potere sovietico, anche nei momenti di incomprensione e di difficoltà nei suoi rapporti con il Pci e le sue elaborazioni politiche, sia pure diffidandone, ha sempre continuato a considerare il Partito Comunista italiano come il suo principale alleato occidentale. In nessun altro Paese dell’Occidente un partito comunista era mai del resto riuscito a realizzare un così forte radicamento popolare e ad esercitare una così grande influenza come il Pci in Italia. La sua posizione era considerata di essenziale importanza anche perché si trattava di un Paese di frontiera dell’Alleanza Atlantica. Tra l’Urss e il Pci si mantenne vivo un legame storico profondo che tale rimase anche quando si erano allargate le maglie dell’autonomia del movimento comunista italiano e si era venuto modificando il rapporto di stretta obbedienza ideologica e politica rispetto al potere sovietico, e la stessa Urss aveva preso a finanziare frazioni interne del Pci. Restava comunque la sistematica continuità e l’ampiezza degli aiuti finanziari che non sono mai venuti a mancare. Questi contributi provenivano direttamente dal Pcus e, a partire dal ’ 74, da una apposita organizzazione alimentata con fondi dell’Urss e dagli altri Paesi del Patto di Varsavia. Provenivano da interventi specifici del Kgb e da Servizi Segreti collegati. Provenivano da altre entità ed istituzioni sovietiche compresa la “Croce Rossa”. Si trattava di aiuti finanziari e di altre forme di solidarietà attraverso la erogazione gratuita di servizi sanitari, di ospitalità politica e turistica, di servizi culturali, di formazione accademica e professionale ed anche di specializzazione in vari campi, ivi compresi attività di natura spionistica e clandestina. Ma la parte di gran lunga più rilevante proveniva dalle attività di import- export, dirette, indirette, partecipate e dalle commissioni sui grandi lavori effettuati da imprese italiane in Urss e nei Paesi del Comecon. Era anche in ragione di questo sostegno straordinario che proveniva, con un flusso costante, dal blocco politico- militare avverso al blocco politico- militare di cui faceva parte il nostro Paese, che il maggior Partito di opposizione poteva contare su strutture burocratiche partitiche permanenti che non avevano l’eguale in nessun altro Paese del mondo non comunista, e poteva parimenti contare su risorse certamente all’altezza se non superiori a quelle di qualsiasi altro Partito Italiano di governo e non. Nello scontro politico non mancava un fattore anomalo. Risulterà infatti anche storicamente accertato il comportamento di totale cinismo di gruppi economici ed industriali di primo piano del nostro Paese che, perseguendo il loro particolare interesse e, in taluni casi, anche in violazione delle norme concordate in sede di Alleanza Atlantica, alimentarono la possibilità di finanziamento dei comunisti italiani, contribuendo ad accrescere in tal modo la distorsione dei rapporti nella vita democratica nazionale. Non c’è dubbio, del resto che il finanziamento estero assicurato ai comunisti italiani era di natura tale da provocare, in questo campo, il moltiplicarsi delle reazioni, in un certo senso convenzionali, delle formazioni politiche di Governo. Le leggi sul finanziamento pubblico dei partiti che si proponevano di riportare ordine nella materia, di regolarla, di assicurare un sostegno pubblico sostitutivo dei sistemi di finanziamento irregolare che si erano venuti sempre più diffondendo, in realtà non riuscirono affatto a modificare di molto la situazione. Mentre da un lato infatti i Partiti potevano contare su di un contributo annuale certo anche se delimitato, dall’altro si trovavano sempre di fronte ad un aumento crescente dei fabbisogni e delle spese. I contributi dello Stato erogati sulla base della legge erano d’altra parte già in partenza del tutto inadeguati e per di più non indicizzati. Con il passare del tempo l’incidenza ed il valore del contributo pubblico si venne così progressivamente ridimensionando. In rapporto ai contributi erogati dallo Stato ai Partiti politici in altre democrazie europee, per esempio la Repubblica Federale tedesca, il contributo italiano appariva di gran lunga inferiore e largamente insufficiente. Dal canto loro invece le spese continuavano ad aumentare. Era il portato stesso dello sviluppo della società burocratica, dall’estendersi delle reti di informazione e dei servizi mentre si moltiplicavano le varie articolazioni e strutture necessarie per l’efficacia della propaganda e mentre contemporaneamente crescevano anche gli stimoli verso la spettacolarizzazione della politica, e la connessa competitività per la conquista del consenso. La ricerca di mezzi finanziari per sostenere ed alimentare le attività politiche in tutte le loro diverse espressioni, invece di ridursi, era sollecitata ad allargarsi, sia ripercorrendo le vie consuete che individuandone di nuove. In questo modo finivano con l’ampliarsi anche aree contigue ed oscure entro le quali questa ricerca di mezzi finanziari, fatta in nome e per contro dei partiti, spesso si trovava ad agire in modo incontrollato e difficilmente controllabile. E, all’interno di aree oscure, diventava molto difficile impedire il diffondersi, in livelli diversi, di degenerazioni e di corruttele di molteplice natura. Bisogna considerare inoltre che all’aumento continuo delle spese corrispondeva da un altro lato una progressiva riduzione delle entrate tradizionali ordinarie e cioè quelle derivanti dalle quote associative e dalle sottoscrizioni volontarie. Talune spese erano peraltro di natura tale da non poter essere fatte oggetto di riduzioni. Per esempio le spese per il personale. Queste non potevano essere quasi mai ridotte. Di fronte a misure di riduzione, intervenivano pretori sempre pronti ad imporre le riassunzioni del personale. I sindacati per parte loro avevano ottenuto la introduzione nei partiti del contratto del commercio, e data la sua improprietà, in aggiunta anche di un contratto integrativo aziendale. A ciò si aggiunga che, almeno per quanto riguarda il Psi, l’Amministrazione centrale venne chiamata a rispondere, subendo ripetute condanne, anche del personale liberamente assunto da organizzazioni periferiche e da loro retribuito. La riduzione delle entrate d’altro canto si poneva in parallelo con una società del benessere che, facendosi strada con gli stili propri di un consumismo sempre più diffuso, con le sue più ampie libertà, e con gli spazi vitali occupati dal video e dallo spettacolo, riducevano il valore e la portata associativa dell’entità tradizionale e tipica del Partito. Un tempo la vita associativa del Partito, per i suoi aderenti, se non era tutto rappresentava certo moltissimo. Il Partito non era solo uno strumento di lotta politica e di lotta elettorale ma rispondeva a bisogni associativi, sociali, culturali, umani. Entrando in una nuova fase l’associazionismo partitico, seguendo la sorte che deriva da una più generale evoluzione, perde di peso, si riduce, si isterilisce. Dalla nuova società che avanza vengono offerte altre opportunità ed altre possibilità di incontri, di attività, di iniziativa personale e di gruppo. La struttura Partito, soprattutto nelle grandi città, tende generalmente a trasformarsi. Succede così che il suo ruolo cambia, mentre la vita interna si rianima e rinasce solo e soprattutto in funzione delle fasi elettorali e pre-elettorali. Nell’area partitica prende contemporaneamente corpo un nuovo fenomeno negativo. Paradossalmente infatti mentre da un lato si riduce e si isterilisce il ruolo associativo dei partiti, e quindi l’attività dei suoi membri, dall’altro tende ad aumentare il numero degli iscritti. E’ il segno inequivocabile di una degenerazione che penetra nella vita dei Partiti, o almeno in una parte importante del sistema partitico e in particolare di quello di governo.

Nella vita partitica si affaccia il mercato delle tessere i cui pacchetti, corrispondenti ad iscritti inesistenti o forzati o semplicemente favoriti, servono solo a mantenere ed a consolidare l’influenza interna delle nomenklature e dei gruppi organizzati ed a regolare i rapporti tra di loro. Si tratta il più delle volte di configurazioni oligarchiche che si sono via via formate attraverso processi di selezione interna, ma che sovente si sono trasformate in incrostazioni praticamente quasi inamovibili. Il loro prevalere impedisce il ricambio naturale e dialettico o lo realizza solo per la via obbligata della cooptazione. La democrazia in questi Partiti è già entrata in una fase di involuzione e di decadenza. Naturalmente questa degenerazione si riflette anche sull’insieme del sistema di finanziamento partitico e dell’attività politica. Già le correnti politiche si erano venute sempre più radicando come correnti anche elettorali e quindi con esigenze di spesa che le spingevano verso una ricerca propria ed autonoma di finanziamento. Lo stadio negativo ulteriore si veniva poi configurando nella definizione di aree di influenza tanto sulle gestioni amministrative che nella rappresentanza di influenze lobbistiche. Attorno ad esse si raggruppavano ramificazioni clientelari che fornivano ad un tempo un valido supporto per la rappresentanza elettorale interna ed esterna. Era una mobilitazione di gruppi che si avvaleva, nella sua presentazione pubblica, di formule e proposizioni ideologiche e politiche, ma che in realtà era sempre meno intessuta dei valori propri della ideologia e della politica. Dal canto suo il fenomeno del tesseramento artificioso costituiva anche un ulteriore fattore di spesa nel contesto delle spese già dilatate per il complesso delle esigenze politiche normali e straordinarie. Vi furono diversi responsabili di Partiti, che resisi consapevoli di questi fenomeni degenerativi, tentarono di organizzarsi per contrastarli. La loro azione non poteva essere disciplinare e di controllo, giacché in concreto una azione di questa natura si presentava praticamente impossibile. Essa si proponeva e ricercava la via di riforme statutarie con lo scopo di porre argini ad una degradazione che veniva assumendo proporzioni ed espressioni sempre più evidenti. Videro così la luce, in taluni Partiti, riforme statutarie che miravano a ridurre l’influenza dei clan, a limitare l’incidenza del tesseramento irregolare ad accrescere il volume delle entrate ordinarie, ufficiali, legittime e dichiarate attraverso un sensibile aumento delle quote di iscrizione e l’organizzazione di specifiche sottoscrizioni. Per anni, i Partiti hanno dato mostra di aver regolato la materia del proprio finanziamento attraverso le leggi sul finanziamento pubblico dei Partiti. Ma la realtà delle cose era ben diversa. Il finanziamento dei partiti ha sempre continuato a mantenere caratteri di irregolarità e di illegalità. Il finanziamento pubblico si riassumeva in una cifra complessiva che non aveva nessun rapporto con le dimensioni reali del problema che si proponeva di risolvere. Ci voleva una grande dose di disinvolta ipocrisia per credere o far credere che i fondi stanziati dalla legge erano quanto bastava per sorreggere la complessa macchina burocratica e la varietà di strutture e di attività su cui poggiava la democrazia dei Partiti. La legge veniva violata sistematicamente da tutti o da quasi tutti. Forse qualche gruppuscolo minore aveva le carte in regola e forse, anche in qualche caso tra questi, a ben guardare le cose, la regolarità e la legalità non veniva sempre rigorosamente rispettata. Diversi gruppi minori venivano poi finanziariamente aiutati dai gruppi maggiori, per ragioni di affinità, di solidarietà, o di mera tattica. Queste violazioni di legge, su cui in buona parte si è fondato poi il processo di criminalizzazione della democrazia repubblicana, definita come Prima Repubblica, avvenivano sulla base di una complicità e di un consenso pressoché unanimi. Quale fosse la realtà vera delle cose, almeno nelle sue caratteristiche più tipiche, erano ben consapevoli tutti i dirigenti dei Partiti, i parlamentari, gli amministratori. Ne erano consapevoli certamente le maggiori cariche istituzionali dello Stato nelle quali si alternavano del resto personalità che a loro volta avevano ricoperto impegnative responsabilità politiche e partitiche. Faccio solo l’esempio dell’ultimo Presidente della camera Napolitano, divenuto poi anche Ministro degli Interni, che, avendo ricoperto per anni l’incarico di ministro degli Esteri del PCI non poteva di certo non essere a conoscenza del fatto che le entrate del suo Partito si componevano anche di flussi finanziari, provenienti dall’URSS e dai Paesi dell’impero comunista e che questi non figuravano certo nei bilanci di Partito presentati al Parlamento. Faccio l’esempio del Presidente del Senato, il defunto Spadolini, che avendo per anni diretto il Partito Repubblicano, non poteva non sapere che il suo Partito non viveva solo delle quote degli iscritti e delle sottoscrizioni, e che ciò che si aggiungeva di straordinario non figurava puntualmente nei bilanci presentati al Parlamento. Faccio l’esempio dell’attuale Presidente del Senato Nicola Mancino, tempo addietro Presidente alla Camera e al Senato dei gruppi parlamentari della DC, che in materia di conoscenza del sistema di finanziamento alla DC, dei suoi gruppi e dei suoi parlamentari non era certo a digiuno. Sarebbe far torto alla sua intelligenza ed alla sua onestà. Faccio l’esempio dell’ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, eletto per tredici volte deputato della Democrazia Cristiana. Tredici campagne elettorali bastano e avanzano per capire come funzionavano le cose. I precedenti Capi dello Stato a loro volta, pur vivendo lontani dalla politica pratica e dalla gestione diretta dei Partiti vivevano pur sempre al Quirinale che è sempre stato un osservatorio della vita nazionale di non poco conto. Di certo nessuno di loro se ne stava sulla luna. Nessuno, salvo forse, in qualche caso, qualche voce isolata in Parlamento e nel dibattito politico pubblico, ha per anni, anzi per decenni, aperto porte e finestre su di una questione tanto delicata. La questione era d’altra parte anche scottante e nessuno si è mai voluto scottare. Non è stata così denunciata con la forza necessaria l’anomalia, la irregolarità, la illegalità complessiva della situazione. Per trovare in uno scritto, una descrizione del fenomeno con relative denunce, a mia memoria, bisogna risalire a molti decenni addietro. Nessuno, che io ricordi, nel mondo politico ha levato la voce e spezzato una lancia per proporre opportuni rimedi al corso delle cose o per aprire una pubblica riflessione sul sistema di finanziamento dei Partiti e delle attività politiche in generale. C’è anche chi lo ha fatto ma mentre lo faceva non diceva la verità perché allo stesso tempo si assicurava contributi, sostegni, finanziamenti. C’è chi propose come rimedio un aumento del contributo pubblico ma mal gliene incolse e dovette subito zittirsi, travolto da ondate contrarie di demagogico rifiuto. Sta di fatto che i Partiti, pur presentando in Parlamento, per decenni, bilanci che non corrispondevano al vero, e cioè bilanci falsi, non sono mai stati fatti oggetto da parte di nessuno di denunce per le loro gravi irregolarità. I Partiti di opposizione di regola non denunciavano i Partiti di governo e i partiti di governo non denunciavano i partiti d’opposizione. La complicità in questo senso, era totale o quasi. Nessuno ricorda clamorose polemiche al proposito. Forse qualche questione di forma, qualche denuncia di irregolarità, ma mai una vera e propria questione, mai una battaglia in piena regola, un vero e proprio scandalo sollevato con clamore attorno ad un bilancio ritenuto manifestamente falso. Certo mai una Commissione di inchiesta. Con la sistematica approvazione dei bilanci dei Partiti in Parlamento si veniva approvando in realtà tutta la natura distorta almeno del sistema di finanziamento ai Partiti ed alle attività politiche, e quindi tutti nel contempo, salvo i distratti e i pochissimi eventualmente esclusi, sapevano benissimo di che cosa si trattava. La democrazia repubblicana approvava il proprio modo di vivere, almeno in questo campo, si assolveva per le violazioni della legge sul finanziamento, e pur essendo consapevole delle irregolarità del sistema preferiva andare avanti per quella strada piuttosto che per mano ad una legislazione più consona tanto eventualmente nel senso di contributi pubblici più adeguati, che nel senso di una maggiore libertà nella raccolta di fondi volontari, che in direzione di un più efficace ed effettivo sistema di controlli.

Il sistema di finanziamento della politica si presentava nel suo insieme come un sistema complesso per il quale bisognava tenere conto di livelli, responsabilità e causali diverse. Vanno tenuti in conto infatti i livelli amministrativi e gestionali delle strutture nazionali delle organizzazioni periferiche regionali, provinciali e cittadine, delle associazioni e strutture collaterali, associative, di carattere culturale, sociale, sindacale, giovanile ed altro. A questo si debbono aggiungere le attività editoriali, gli organi di informazione politica, lo spettacolo politico, gli strumenti di formazione e di orientamento, le attività internazionali, ideali, politiche, di solidarietà concreta verso soggetti singoli e verso organizzazioni. L’attività politica dei partiti comprende convegni tematici, di settore, di categoria, convegni giovanili, femminili, Congressi locali, regionali, nazionali, internazionali. Un livello fondamentale è fissato dalle scadenze elettorali. Elezioni politiche nazionali, regionali e locali, elezioni europee, elezioni amministrative parziali che risultavano sovente particolarmente impegnative perché normalmente assumevano il valore di test e di sfide di carattere nazionale. Bisognava tener conto dei candidati e dell’alto grado di competitività che si stabiliva tra loro, dalle spese che si gonfiavano insieme alle ambizioni ed alle illusioni, o alla ricerca di successi personali da raggiungersi in termini particolarmente clamorosi in modo da poterli far valere poi sul mercato politico delle cariche maggiori. Allo stesso modo bisognava tener conto degli eletti che sono per vocazione e per giusta natura sempre tendenzialmente rieleggibili e che quindi sono portati a costruirsi strutture di sostegno permanenti specie quando la loro rielezione non poteva dipendere da una vincolante designazione dipendente dagli organi e dalla burocrazia del Partito. Anche nella struttura democratica così come essa si è venuta definendo nella democrazia repubblicana si è venuto formando un vero e proprio ceto politico ed amministrativo professionale, o semiprofessionale. Il suo lavoro politico sostituisce in tutto o in parte il suo lavoro professionale, sovente creando dei vuoti nelle disponibilità complessive di reddito. Questi vuoti vengono coperti o da vantaggi indiretti ricavati da una influenza politica o anche da contributi e finanziamenti di carattere politico personale, sempre per rimanere al di qua della frontiera che separa un finanziamento di natura e scopo politico dai veri e propri reati contro la Pubblica Amministrazione. Come già ho sottolineato, nella realtà politica e partitica si era diffusa e radicata la esistenza di clan e di correnti, entro le quali si erano venute stabilendo solidarietà ed interessi che molto spesso andavano al di là dei legami con l’entità Partito anche se si mantenevano e si muovevano all’interno ed entro le istituzioni, i simboli e le formule proprie dell’entità Partito. I rapporti tra tutte queste articolazioni si sono naturalmente presentate in forma diversa nei diversi partiti. Ciò che appariva in generale sempre più evidente era la tendenza verso un indebolimento progressivo delle capacità e delle possibilità di un controllo centrale sugli altri livelli. Le realtà periferiche, i gruppi, le posizioni consolidate di influenza gestionale e clientelare, potevano sempre di più sfuggire alla direzione ed al controllo del livello centrale e ciò non solo sotto il profilo dei mezzi e metodi di finanziamento ma spesso, in molti casi, anche sotto il profilo della stessa direzione politica. Più di altri sfugge invece a questa tendenza il PCI e poi il PCI- PDS, almeno negli anni iniziali della sua prima strutturazione. Il Partito Comunista ed il Partito ex-Comunista si sono, per ideologia e natura, formati su schemi centralizzati che, pur modificando nel tempo la loro rigidità originaria, avevano mantenuto una loro validità ed efficacia che naturalmente, anch’essa, si veniva indebolendo e sgretolando. Sotto questo profilo mentre da un lato risulta più evidente, anche in materia di finanziamenti, il controllo centrale e quindi la consapevolezza e la responsabilità dei maggiori dirigenti politici, dall’altro prendono avvio e maggiore consistenza fenomeni propri di una più vivace dialettica politica interna, con un seguito di iniziative di gruppo e di corrente. Diversamente, in altri partiti, molti candidati, in occasione delle campagne elettorali, ricevono contributi diretti dal Partito in ragione del loro ruolo, altri si avvalgono di solidarietà di gruppo, altri ancora organizzano in proprio il reperimento di fondi, ed altri infine fanno tutte e due o tutte e tre le cose contemporaneamente. La struttura centralizzata consentiva invece una certa disciplina e comunque un maggiore controllo anche su questo tipo di spese. Va detto, infine, che, sempre in materia di raccolta di fondi per le spese elettorali, non di rado il nome del Partito e dei suoi vertici più conosciuti e più autorevoli veniva utilizzato senza tanti scrupoli e complimenti anche da chi non era minimamente autorizzato a farlo. Del millantato credito, di cui erano spesso vittime i dirigenti più conosciuti, in moltissime occasioni era vittima lo stesso Partito, in nome del quale venivano abusivamente avanzate richieste, ricevute offerte, raccolti contributi di genere e provenienza varie, e di cui le organizzazioni amministrative responsabili di Partito non avevano in realtà il benché minimo riscontro o ne avevano un riscontro del tutto parziale, il più delle volte indiretto o casuale. Le entrate del Partito erano costituite da tutte le voci presenti e dichiarate nei bilanci e da contributi che non venivano dichiarati. Per esempio la raccolta dei fondi indirizzati al Partito Socialista a vario titolo veniva fatta direttamente dall’amministrazione, dall’Amministratore o suoi collaboratori diretti, a questo consegnate da altri dirigenti del Partito o da persone che venivano considerate alla stregua di collaboratori di fiducia. La modalità di questi versamenti venivano decise dall’Amministrazione. Ciò avveniva nella gran parte dei casi, in relazione alle situazioni concrete che si presentavano. I contributi che venivano versati al Partito erano di varia natura. Di natura politica e cioè a dire erogazioni di sostegno fatte esclusivamente o prevalentemente per ragioni di adesione o di convinzione e valutazione politica. Contributi che potevano essere invece definiti come prova e ricerca di “buone relazioni” e cioè dati senza un concreto e specifico riferimento ma assicurati solo allo scopo di stabilire o mantenere con l’entità Partito un rapporto che potesse essere considerato amichevole e quindi suscettibile di una attenzione da parte degli esponenti del Partito presenti in varie sedi istituzionali. Contributi raccolti e versati da singoli esponenti del Partito nell’ambito della loro responsabilità. Contributi versati in funzione di ottenere specifiche sollecitazioni ed interventi favorevoli ai finanziatori. A questi contributi di natura vana si aggiungevano entrate di carattere pubblicitario ed entrate derivanti da sponsorizzazioni in cambio delle quali veniva comunque fornito un servizio commerciale generalmente adeguato specie in occasione di Congressi e di grandi iniziative e manifestazioni pubbliche che costituivano un veicolo di indubbia importanza ed interesse di carattere locale, nazionale ed internazionale. Su questo stato di cose è stato avviato, organizzato, sviluppato ed esteso a tutto il Paese un processo di criminalizzazione strumentale che ha manipolato e mistificato la realtà dei fatti, le circostanze storiche in cui i fatti si sono verificati, il contesto generale delle responsabilità democratiche che erano state assolte da forze politiche che avevano garantito il quadro delle libertà democratiche, la stabilità politica, lo sviluppo dell’economia, la crescita dei valori e delle opportunità sociali, la presenza ed il dinamismo della vita e della dialettica democratica, l’alto ruolo internazionale raggiunto dalla nazione tanto nel contesto europeo che in quello mondiale. La classe politica dei Partiti ed in generale tutta la classe politica era quindi, come non è difficile dimostrare, mentre sarebbe difficilissimo dimostrare il contrario, ben consapevole della natura del finanziamento politico, dei metodi seguiti, delle pratiche che erano diffuse, costanti e sistematiche. C’è semmai da chiedersi se, essendo queste le condizioni, come sia possibile credere o far credere che la magistratura ed altri apparati dello Stato ignorassero ciò che avveniva anche sotto i loro occhi, non nel caso di una particolare stagione, ma addirittura nel corso di decenni. C’è semmai da chiedersi perché questo sia avvenuto. C’è da chiedersi, se si ricorda a memoria, come sia stato possibile che nell’arco di quasi un ventennio raramente è stato aperto un caso. In ogni caso non risulta che si siano mai svolti processi e non si siano mai pronunciate sentenze di condanna per lo specifico reato di finanziamento illegale. C’è da chiedersi come sia stato possibile che mentre per bocca della stessa magistratura questa pratica veniva definita “notoria e costante”, contemporaneamente non veniva promossa l’azione penale per le violazioni della legge sul finanziamento dei partiti. Nessuno lo impediva, nessuno poteva impedirlo, nessuno ha denunciato un caso nel quale ad un magistrato è stato impedito di compiere il dovere che la legge gli avrebbe imposto di compiere. Probabilmente anche questo è avvenuto, e magari anche in più casi, ma nessuno protestò e picchiò i pugni sul tavolo sino a farsi sentire. Ciò che è singolare invece è che improvvisamente, in forme violente ed anche e soprattutto discriminatorie, si siano scoperchiate parti significative del sistema di finanziamento illegale dei Partiti e delle attività politiche, e si sia dato vita ad un processo di criminalizzazione con ritmi crescenti, seguendo sovente cadenze proprie di una orologeria politica, con un particolare accanimento diretto soprattutto e in primo luogo verso alcune direzioni, mentre ad altre veniva riservato un trattamento ben diverso e molte cose venivano sottaciute, ignorate, o addirittura sfacciatamente oscurate e protette. Il trionfo della regola dell’ingiustizia consistente nell’uso di “due pesi e due misure”. Ciò che è singolare è che nel 1989, quando cadevano i muri e non si sapeva che cosa si sarebbe potuto ritrovare tra le macerie, in fretta e furia il Parlamento italiano varò una amnistia, nella quale fu fatto comprendere il finanziamento illegale alla politica. L’amnistia non incontrò di certo forti ostacoli. Passò diritta filata, alla chetichella e sembra neppure con un voto di Aula ma addirittura con un voto in Commissione. Una amnistia lampo. Parliamo di qualcosa che è diventata invece, dopo d’allora, solo a nominarla, una specie di peccato mortale, di offesa alla civiltà del diritto, di scandalosa distorsione della giustizia. Non ci furono allora alti lai di eguale natura. La piazza non si scompose, i Palazzi non si scomposero, i grandi moralizzatori di professione non entrarono in campagna. Il colpo di spugna invece ci fu. Fu rapido, efficace, risolutivo. Il grande crimine riguarda invece allora gli anni ’89 - ’92. Incredibile ma vero. Spesso è dalla categoria degli amnistiati dell’89 che vengono poi i censori più spietati e i demagoghi più sfacciati. La campagna contro i finanziamenti illegali della politica, trasformata nella maggior parte dei casi in un fenomeno di corruzione e di reati ancora più gravi, ha assunto così toni e metodi di tale violenza demagogica e finalità strumentali ad una lotta di potere che è dilagata nel Paese. Talvolta vi abbiamo riconosciuto trampolini di lancio per esibizionistiche ambizioni ma, nel quadro più generale, si è fatta avanti una corsa pseudo - rivoluzionaria in veste di nuovo potere egemone della società e dello Stato.»

Memoriale scritto nel 1999 da Bettino Craxi su Tangentopoli. Craxi voleva consegnare questo scritto a una commissione di inchiesta parlamentare, che però non fu mai costituita. Il documento è rimasto inedito.

Forche, balle e toghe rosse: il catalogo anti-Mani Pulite. Revisionismi. Lettera aperta ad Alessandro Sallusti: “Macché sciagurata stagione. Hai scritto tante menzogne, dagli indagati a vanvera a Di Pietro”, scrive Massimo Fini, Martedì 14 Febbraio 2017, su "Il Fatto Quotidiano". «Caro Alessandro, quando Cairo voleva entrare in Libero–direttore Feltri - mi chiese se volevo seguirlo. Risposi di no. Mi pregò allora di fargli il nome di qualche giornalista valido. Indicai te e Paolo Martini. Ti conoscevo da quando dirigevi La Provincia di Como per la quale mi chiedesti anche di collaborare. Avevo di te un’ottima opinione sia professionale che umana. Per questo mi è particolarmente spiacevole commentare il vergognoso pezzo che hai scritto per Il Giornale (8/2), godendo come un riccio perché alla celebrazione dei 25 anni dalle inchieste di Mani Pulite non c’era praticamente nessuno. Il tuo articolo dovrebbe essere pubblicato in toto perché sia reso evidente alla cittadinanza il cumulo di menzogne, di omissioni, di dimenticanze che metti in campo. Ma qui devo limitarmi ad alcuni excerpta.

1. Tu definisci quella di Mani Pulite una “sciagurata stagione” e Mani Pulite “la più violenta inchiesta giudiziaria nella storia della Repubblica”.

2. Parli dei suicidi in carcere e “del dolore di 4.250 famiglie di indagati il più delle volte a vanvera come dimostra il bilancio a istruttorie chiuse e processi celebrati”.

3. Affermi che in Italia fu introdotta “la carcerazione preventiva come arma di minaccia e ricatto”.

4. Prendi particolarmente di mira Antonio Di Pietro e sostieni che entrò in politica per “sfilarsi dal clima di sospetti sulla sua persona” e che non a caso entrò poi nel Pci-Pds per poi creare il “partitino, Italia dei Valori”.5. Definisci i magistrati di Mani Pulite “toghe rosse”.

Cerchiamo di mettere un po’ di ordine in questa accozzaglia di argomenti o, meglio, di pseudoargomenti. L’azione di un magistrato non può essere violenta. Il magistrato risponde alla legge: o la rispetta o la viola. E non risulta che in tutta l’inchiesta di Mani Pulite ci siano state violazioni di legge. Il magistrato non può essere né forcaiolo né garantista, categorie che vi siete inventate voi. Comunque il forcaiolismo fu casomai della stampa. In particolare dell’Indipendente di Vittorio Feltri che chiamava Bettino Craxi “il cinghialone”, trasformando un’inchiesta giudiziaria del tutto legittima in una caccia sadica e prendeva di mira anche i figli di Bettino. Lavoravo anch’io a quell’Indipendente e toccò a me difendere i Craxi dagli eccessi del mio direttore, in particolare con due articoli “Vi racconto il lato buono di Bettino” scritto in piena bufera quando tutti, anche i suoi amici, fiocinavano la balena sanguinante, L’Indipendente, 17/12/92, e “Caro direttore, ti sbagli su Stefania Craxi”, L’Indipendente, 11/5/92. In quel periodo prevaleva al contrario uno strusciarsi indecoroso ad Antonio Di Pietro considerato il vincitore di giornata. Mi ricordo in particolare un vergognoso editoriale del direttore del Corriere, Paolo Mieli, titolato “Dieci domande a Tonino”. A Tonino, come se ci fosse andato a pranzo e cena da sempre. Con Tonino, ridiventato Antonio Di Pietro, che dell’inchiesta di Mani Pulite fu il simbolo, tu ti accanisci. Affermi che entrò in politica per “sfilarsi dal clima di sospetti sulla sua persona”. Dimentichi che per quei sospetti Di Pietro è stato processato sette volte ed è uscito regolarmente assolto e uno di quei processi era stato innescato da due testimoni prezzolati dall’onorevole Berlusconi. Del Di Pietro politico non dovremmo qui occuparci perché quello che interessa è la sua azione di magistrato, ma quando tu definisci l’Italia dei Valori un partitino dimentichi che è stato defalcato di alcuni suoi componenti, a cominciare dall’onorevole De Gregorio cui Berlusconi diede tre milioni perché passasse al centrodestra. In ogni caso se Di Pietro fosse entrato in politica il giorno dopo essersi tolto la toga avrebbe avuto il 90 per cento dei consensi. Invece, correttamente, a differenza di altri magistrati (Ingroia, De Magistris) aspettò un anno. La carcerazione preventiva in Italia esiste da sempre. Pietro Valpreda fece quattro anni di carcerazione preventiva senza processo e Giuliano Naria nove per citare solo alcuni esempi famosi fra le centinaia che si potrebbero fare. Non mi risulta che tu o la parte politica che oggi rappresenti abbiate mai levato un dito contro queste aberrazioni che non erano dei magistrati ma della legge (le leggi le fa il parlamento, cioè i politici). Vi accorgeste della carcerazione preventiva solo quando toccò, non per anni ma per qualche settimana, a lorsignori. Tu affermi però che in questo caso la carcerazione preventiva sarebbe stata usata “come arma di minaccia e ricatto”. E a queste sciocchezze Francesco Saverio Borrelli, procuratore capo del pool di Mani Pulite, replicò: “Non è così. Noi li arrestiamo e loro confessano”. Che è cosa ben diversa. Tu parli dei suicidi in carcere. Se un magistrato dovesse caricarsi delle possibili conseguenze dei suoi legittimi provvedimenti non si potrebbe più amministrare giustizia. I suicidi riabilitano moralmente coloro che ne sono stati protagonisti, perché evidentemente, a differenza di altri, si vergognavano di ciò che avevano fatto, ma non li assolvono. In quanto al dolore delle 4.250 famiglie degli indagati “il più delle volte a vanvera” fai finta di dimenticare che moltissime di queste assoluzioni avvennero per patteggiamento o prescrizione. Ma questi calcoli lasciamoli a Marco Travaglio. Dimentichi invece, con molta disinvoltura, le ‘morti bianche’, cioè i suicidi di quegli imprenditori onesti che non vollero piegarsi al ricatto delle tangenti e videro perciò andare in fumo le loro aziende. Sorvoli su uno degli atti più contestati quando Di Pietro, Davigo, Colombo, Greco si presentarono in televisione per affermare che avrebbero chiesto a Borrelli di lasciare l’inchiesta. Come mai non ne parli? Perché quella singolare apparizione dei magistrati in tv seguiva uno dei primi provvedimenti del governo Berlusconi, un decreto chiamato ‘salvaladri’ che depenalizzava i reati di corruzione e similari e quindi salvava, oltre a Berlusconi e ai suoi cari, la falange dei corrotti e dei corruttori coinvolti in Tangentopoli. Definire i magistrati di Mani Pulite toghe rosse è risibile. Casomai se si vuole a tutti i costi dar loro una connotazione politica erano dei conservatori, il più ‘a sinistra’ era un cattolico, Gherardo Colombo, un magistrato impeccabile rispettato anche dai suoi indagati. In due anni, con tutti i testimoni del tempo ancora in vita, i ladri, con una campagna stampa che ti vide protagonista, divennero le vittime e i magistrati i colpevoli. La classe dirigente del Paese non tollerava di dover rispondere, per la prima volta o quasi nella storia italiana, a quelle leggi che noi tutti comuni cittadini siamo tenuti a rispettare. Ecco perchè tu, divenuto nel frattempo portavoce di una parte di quella classe dirigente, definisci “sciagurata” la stagione di Mani Pulite. In realtà Mani Pulite fu l’ultima occasione per la nostra classe politica per emendarsi dai crimini che andava perpetrando da anni. Non la colse, anzi l’avversò ferocemente e così siamo arrivati alla situazione attuale dove la corruzione è discesa giù per li rami a tutto il Paese. Proprio per questo il Palazzo di Giustizia di Milano era deserto nel 25° anniversario di Mani Pulite. Tutti hanno capito che l’azione dei magistrati è stata inutile, continua a essere inutile e probabilmente lo sarà anche in futuro, e quindi i cittadini hanno perso anche la voglia di ribellarsi e accettano supinamente la parte di pecore tosate senza emettere neanche un belato. In Romania, per un decreto molto simile a quello emesso a suo tempo dal governo Berlusconi, la popolazione si è ribellata e glielo ha ricacciato in gola. Dal punto di vista dell’etica pubblica siamo quindi al di sotto anche dei disprezzati rumeni. Recentemente, davanti ad altre persone, hai detto “Massimo Fini mi attacca un giorno sì e un giorno no, ma devo ammettere che è l’ultimo giornalista libero in Italia”. Non è così, fortunatamente ce ne sono altri. Ma non posso negare che questa tua affermazione mi ha fatto piacere. Ma la libertà si paga. Il rendersi servi invece ripaga. Ad abundantiam».

Lettera aperta a chi esalta quelli dalle Mani pulite, Massimo Fini sul "Fatto" difende il pool di Milano e accusa il "Giornale" che lo critica. Ma è la storia a dargli torto, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 15/02/2017, su "Il Giornale". «Caro Massimo Fini, ieri mi hai dedicato un lungo articolo sul Fatto Quotidiano per confutare quello breve che ho recentemente scritto per segnalare il flop delle celebrazioni per il venticinquesimo anniversario dell'inchiesta Tangentopoli. Difendi a spada tratta i magistrati di quella stagione, tratti con cinismo i morti e i feriti di quella stagione, neghi che i pm di quel pool soprattutto citi Di Pietro - avessero mire e ambizioni politiche, mi accusi di servilismo e racconti un aneddoto vero: «Davanti a testimoni scrivi Sallusti mi criticò, ma disse che mi riteneva l'ultimo giornalista libero». Quest'ultima cosa la confermo, e nella libertà che ti riconosco c'è anche quella di sbagliare. Potrei raccontarti di ragazzini di allora che ancora oggi, a distanza di anni, sono in cura per lo shock subito vedendo i loro padri portati via in piena notte da uomini entrati in casa con il mitra spianato (non parliamo di trafficanti di droga o rapinatori, ma di amministratori poi risultati innocenti). Potrei ricordati la curiosa coincidenza che tre dei cinque pm di quel pool (Di Pietro, D' Ambrosio e Colombo) hanno poi fatto politica nelle liste del Pd o avuto incarichi per conto del Pd. Potrei ribattere tante altre cose sulla limpidezza e sulle vere mire di Di Pietro in particolare. Ma non mi crederesti, mi ritieni fazioso. E allora ti propongo una lettura interessante. È l'articolo a firma Luigi Corvi uscito sul Corriere della Sera il 12 marzo 1997, giorno in cui vennero depositate le motivazioni con cui Di Pietro fu assolto dal tribunale di Brescia dall'accusa di concussione (e con lui Paolo Berlusconi, Previti e altri da quella di aver complottato contro il Pm). Chiedo scusa al bravo collega per lo scippo non autorizzato e riproduco alla lettera:

"Antonio Di Pietro lasciò la toga perché voleva entrare in politica. Dietro quel gesto non ci furono complotti, anche se i fatti raccontati da Giancarlo Gorrini erano veri: «Alcuni rivestivano caratteri di dubbia correttezza, se visti secondo la prospettiva della condotta che si richiede a un magistrato, altri erano decisamente idonei ad un'iniziativa sul piano disciplinare». Tuttavia l'apertura e la rapida archiviazione dell'inchiesta ministeriale nata dalle accuse dell'ex presidente della Maa non fu la causa delle dimissioni di Di Pietro e i quattro imputati (Paolo Berlusconi, Cesare Previti, Ugo Dinacci e Domenico De Biase) non misero in atto alcun complotto per il semplice motivo che non avevano interesse a far dimettere il pm di Mani Pulite. Queste in sostanza le motivazioni, depositate ieri, con cui il 29 gennaio la seconda sezione del tribunale di Brescia ha assolto tutti gli imputati dall'accusa di concussione. In quasi duecento pagine i giudici analizzano nel dettaglio i fatti (...). Sui rapporti poco corretti intercorsi tra Di Pietro e Gorrini si era già soffermato il gip nell'ordinanza di rinvio a giudizio. Ma il tribunale, sviluppando gli stessi concetti, va oltre. «È indubbio - scrivono i giudici - che i fatti raccontati da Gorrini si erano realmente verificati (la prestazione di attività lavorativa di Cristiano Di Pietro in favore della Maa, l'assegnazione di alcune cause a Susanna Mazzoleni da parte della Maa, l'erogazione di un prestito da parte di Gorrini, la cessione a Di Pietro, sempre da parte di Gorrini, di un'autovettura recuperata dalla Maa e trasformata da Di Pietro stesso in prestito, l'intervento di Di Pietro per ottenere che D'Adamo e Gorrini erogassero prestiti a Rea onde favorire l'estinzione di debiti consistenti)». Secondo il tribunale, Tonino - che della deposizione di Gorrini aveva appreso in tempo reale da un giornalista - aveva di che preoccuparsi. «Era in gioco il suo prestigio come magistrato, come magistrato onesto, come persona dai comportamenti cristallini, e proprio questo prestigio era minacciato a causa di leggerezze commesse e per le quali egli era pronto a fare ammenda. Era in gioco, in definitiva, un ruolo e un'immagine». (...) I fatti denunciati dall'ex presidente della Maa «rappresentavano per Di Pietro una minaccia, per giunta avente il requisito della verosimile serietà» (...). Tonino in effetti si preoccupò molto e preparò subito una memoria difensiva «in previsione di essere chiamato per chiarire la vicenda», telefonò all'allora ministro della Difesa Previti (...) «chiedendo addirittura un intervento in suo favore del ministro Biondi». (...) Le ragioni delle dimissioni esposte da Di Pietro (in primo luogo i molteplici tentativi di delegittimazione) «sono - secondo il tribunale - talmente troppe e troppo eterogenee da sembrare una congerie alquanto scontata....». È vero che il pm di Mani Pulite aveva accumulato stanchezza fisica e psicologica, ma la molla decisiva che lo spinse a lasciare la toga fu l'intenzione - maturata già nella primavera del '94 - «di intraprendere l'attività politica, ovvero di ottenere incarichi pubblici di maggior rilievo». E quando a Silvio Berlusconi disse di non essere stato d'accordo sull'invio dell'avviso di garanzia, mentì perché era «alla ricerca iniziale di probabili alleanze» politiche. Infine Tonino - secondo i giudici - sino all'ultimo non rivelò i suoi progetti ai colleghi perché temeva di «inquinare quella sua indiscussa leadership all'interno e all'esterno del pool con consequenziali ripercussioni nell'immagine esterna» e c'era il rischio che gli altri pm lo rendessero «meno partecipe dell'attività giudiziaria»."

Caro Massimo, questo dicono le carte. Se questi sono gli eroi che ammiri, libero di farlo. Ma riconosci a me la libertà di pensarla diversamente, senza per questo dover essere servo di qualcuno.»

La festa oscena dei manettari. I 25 anni di Tangentopoli, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 8/02/2017, su "Il Giornale". Doveva essere la celebrazione dell'epopea di Mani pulite, nel venticinquesimo anniversario dell'avvio di quell'inchiesta. Ma nel salone d'onore del Palazzo di Giustizia di Milano si sono presentati una decina tra fotografi e giornalisti e altrettanti attivisti grillini. Non un magistrato, non un avvocato, non un cittadino comune. Sul palco due reduci di quella sciagurata stagione, Piercamillo Davigo e Antonio Di Pietro ad autocelebrarsi nel deserto. Il primo ora è capo dell'Associazione nazionale magistrati, il secondo è un ricco pensionato che aveva tentato, anche per sfilarsi dal clima di sospetti sulla sua persona, l'avventura politica guarda caso con il Pci-Pds prima e poi con il suo partitino «Italia dei valori», soprannominato «Italia dei valori immobiliari» per via di strani investimenti in case fatti coi soldi del partito che alla fine gli costarono la faccia e il posto. Perché si debba celebrare il compleanno della più violenta inchiesta giudiziaria nella storia della Repubblica lo sanno solo loro. Da ricordare c'è semmai l'introduzione in Italia della carcerazione preventiva come arma di minaccia e ricatto, i non pochi suicidi di persone dimenticate in carcere o portate all'impazzimento, il dolore delle 4.250 famiglie di indagati il più delle volte a vanvera come dimostra il bilancio a istruttorie chiuse e processi celebrati. Ma soprattutto resta la resa della politica al potere giudiziario a sua volta preso ostaggio dalle toghe comuniste di Magistratura democratica. Se proprio devo, preferisco ricordare quella stagione con le parole che Carlo Nordio, storico pm di Venezia che visse in prima linea quei mesi e che oggi si ritira senza clamore a vita privata, ha consegnato al Foglio: «Quando le indagini si concentrarono su democristiani e socialisti non ci furono polemiche e fummo dipinti come eroi. Quando iniziai a indagare sulle cooperative rosse e su D'Alema, sono scoppiate molte polemiche anche con i colleghi di Milano. Ma per me fu un onore avere le riserve da parte dei colleghi di Magistratura democratica». Due vecchi signori un po' patetici che parlano in un'aula vuota pensando di avere davanti folle osannanti. Questo resta venticinque anni dopo. Fantasmi, ma purtroppo ancora in grado di fare tanti danni, perché continuano a seminare odio e rancore.

Mani Pulite, 25 anni dopo parla Di Pietro ma la sala è vuota: "E' la desolazione". Video di Antonio Nasso su "Repubblica tv" il 7 febbraio 2017. "Cosa è cambiato nel corso di questi anni? Lo vediamo oggi, in questa sala vuota. C'è la desolazione da parte dell'opinione pubblica, che non crede più che si possa cambiare il Paese". Così l'ex magistrato simbolo di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, durante il suo intervento in aula magna a Palazzo di Giustizia di Milano per una conferenza a 25 anni dalla scoperta di Tangentopoli. Conferenza alla quale però hanno partecipato solo poche decine di persone.

In un'aula deserta la patetica rimpatriata dei duri di Mani pulite. Nell'anniversario dell'inizio dell'indagine solo 31 persone ad ascoltare Di Pietro e Davigo. Di Pietro confessa: "Se non mi fossi dimesso dalla magistratura mi avrebbero arrestato", scrive Luca Fazzo, Mercoledì 8/02/2017, su "Il Giornale". Eh sì: sono passati venticinque anni, non gliene importa (fortunatamente) più niente a nessuno, e l'aula magna del tribunale, poche ore prima gremita per un convegno sul cyberbullismo, si svuota dolorosamente quando si comincia a parlare di Mani Pulite. A popolare le rade sedie occupate una platea di trentuno persone, giornalisti esclusi. Ma in fondo va bene così, perché questo permette a Piercamillo Davigo di ripetere l'aforisma sulle prede e i predatori («abbiamo catturato le zebre lente, abbiamo affinato le specie») senza che nessuno si alzi a protestare per averlo sentito già centodue volte; e, cosa forse più grave, che lo stesso Davigo possa dire impunemente che «ho visto assoluzioni che gridano vendetta, il codice è scritto per farla fare franca ai farabutti», e amen se il codice l'ha scritto uno che si chiamava Gian Domenico Pisapia. Va in scena così, come una piece un po' fuori moda, l'anniversario di Mani Pulite, in quella stessa aula magna in cui Francesco Saverio Borrelli lanciò il suo proclama, «resistere-resistere-resistere» tra le ovazioni dei suoi pm. Poche facce, qualche sopravvissuto: «Siamo l'associazione combattenti e reduci», scherza Di Pietro. Combattenti e reduci però tutti della stessa parte, magistrati e cronisti un tempo risolutamente schierati al loro fianco; la voce degli sconfitti, gli arrestati, i pochi avvocati con la schiena dritta, nessuno ha pensato che valesse la pena sentirla; ma d'altronde a organizzare il tutto è una associazione di marcate simpatie grilline, e grillino è l'unico politico seduto sul palco: e anche questo va bene, perché così si possono inanellare allegramente strafalcioni storici e giuridici, dicendo che il decreto Biondi del luglio 1994 venne fatto per liberare Paolo Berlusconi, che all'epoca era già libero da un pezzo, o persino che la legge Severino è stata fatta per salvare Silvio Berlusconi e Filippo Penati. Della sala deserta, gli organizzatori danno la colpa a un fantomatico complotto ordito ai loro danni. Vabbè. Di Pietro invece si consola spiegando che l'altro giorno a Borgomanero la sala era piena, e comunque «c'è la desolazione dell'opinione pubblica che non crede più che possa cambiare qualcosa»; ma non spiega cosa la famosa opinione pubblica sarebbe dovuta venire a capire, visto che non c'è l'ombra di una autocritica e nemmeno di una analisi, «noi eravamo le guardie e loro i ladri», punto e fine. Di Pietro ritira fuori la storia di quando il Sisde lo spiava e dossierava per fermarlo, spiega che Mani Pulite venne bloccata quando iniziò ad occuparsi di mafia e politica, insomma niente di nuovo sotto il sole. «La tangente Enimont - dice - era di centocinquanta miliardi, ne abbiamo trovati settanta, gli altri che fine hanno fatto?», e fa la faccia di chi conosce benissimo la risposta. «Abbiamo esagerato con le scarcerazioni», dice serio Davigo. Erano anni che Di Pietro non metteva piede a Palazzo di giustizia. A sentirlo non è venuto neanche uno dei suoi ex colleghi. (Mezz'ora prima del convegno, al bar sotto il tribunale. Di Pietro, che in fondo era il meno cinico del pool, mangia un boccone con un vecchio amico. Antonio, vista come è finita, rifaresti tutto? «Il magistrato sicuramente sì. Sul fatto che dopo mi sono messo a fare politica ci penserei due volte la prossima volta». Beh, potevi continuare a fare il magistrato... «Se non mi dimettevo andava a finire che mi arrestavano»).

"Democrazia a rischio". Quella lezione di Craxi ancora attuale oggi. Mentre scoppiava Mani pulite, l'ex premier Bettino Craxi in Aula gettava le basi per ricostruire il Paese. Pubblichiamo stralci del discorso che l’allora segretario del Psi Bettino Craxi tenne alla Camera il 3 luglio del 1992, in pieno scandalo Tangentopoli, durante la fiducia al nascente governo Amato. All’ombra della politica, l’ammissione, "fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione", scrive "Il Giornale" l'8/02/2017. Bettino Craxi. «Onorevole presidente, onorevole presidente del Consiglio, onorevoli deputati, nella vita democratica di una nazione non c'è nulla di peggio del vuoto politico. Da un mio vecchio compagno ed amico, che aveva visto nella sua vita i drammi delle democrazie, ho imparato ad avere orrore del vuoto politico. Nel vuoto tutto si logora, si disgrega e si decompone. E in questo senso ho sempre pensato e penso che un minuto prima che una situazione degeneri bisogna saper prendere una decisione, assumere una responsabilità, correre un rischio. Il sistema dei partiti, che hanno costituito l'impianto e l'architrave della nostra struttura democratica e che ora mostrano tutti i loro limiti, le loro contraddizioni e degenerazioni, al punto tale che vengono ormai sistematicamente screditati e indicati come il male di tutti i mali, soprattutto da chi immagina o progetta di poterli sostituire con simboli e poteri taumaturgici che di tutto sarebbero dotati, salvo che di legittimità e natura democratica. Sono immagini e progetti che contengono il germe demagogico e violento di inconfondibile natura antidemocratica. È vero che nel tempo si sono accumulati molti ritardi per tanti fattori negativi; per miopia, velleitarismo, conservatorismo. E tutto ciò è avvenuto in modo tale che il logoramento del sistema ha finito con il progredire inesorabilmente, come non era difficile prevedere. Ora non c'è più molto tempo a disposizione, onorevoli colleghi. Vi sono dei processi di necrosi che sono giunti ormai ad uno stadio avanzato. Il Parlamento deve reagire, deve guardare alto e lontano, dando innanzitutto l'avvio ad una fase costituente per decidere rapidamente riforme essenziali di ammodernamento, di decentramento e di razionalizzazione. Serviranno a ridare efficienza e prestigio alle Camere, a rompere un centralismo dello Stato, per parte sua duro a morire, rafforzando i poteri e l'autonomia delle Regioni come suggeriamo nel nostro programma sino ai limiti del federalismo, a garantire autorevolezza e stabilità all'esecutivo. Bisognerebbe porre mano subito alla riforma delle leggi elettorali con uno sguardo rivolto ai modelli e alle esperienze delle democrazie europee ed un altro rivolto alle tradizioni della democrazia italiana. C'è un problema di moralizzazione della vita pubblica che deve essere affrontato con serietà e rigore, senza infingimenti, ipocrisie, ingiustizie, processi sommari e «grida» spagnolesche. È tornato alla ribalta in modo devastante il problema del finanziamento dei partiti, o meglio del finanziamento del sistema politico nel suo complesso, delle sue degenerazioni, degli abusi che si compiono in suo nome, delle illegalità che si verificano da tempo, anzi da tempo immemorabile. In quest'aula e di fronte alla nazione penso che si debba usare un linguaggio improntato alla massima franchezza. Bisogna innanzitutto dire la verità delle cose e non nascondersi dietro nobili ed altisonanti parole di circostanza che molto spesso e in certi casi hanno tutto il sapore della menzogna. Si è diffusa nel Paese, nella vita delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni, una rete di corruttele grandi e piccole, che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica. Uno stato di cose che suscita la più viva indignazione, legittimando un vero e proprio allarme sociale e ponendo l'urgenza di una rete di contrasto che riesca ad operare con rapidità e con efficacia. I casi sono della più diversa natura, spesso confinano con il racket malavitoso e talvolta si presentano con caratteri particolarmente odiosi di immoralità e di asocialità. Purtroppo, anche nella vita dei partiti molto spesso è difficile individuare, prevenire, tagliare aree infette, sia per l'impossibilità oggettiva di un controllo adeguato sia, talvolta, per l'esistenza ed il prevalere di logiche perverse. E così, all'ombra di un finanziamento irregolare ai partiti e ripeto, meglio, al sistema politico fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione, che come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati. E tuttavia, d'altra parte, ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto benissimo, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali ed associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all'uso di risorse aggiuntive in forma irregolare o illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Ma non credo che ci sia nessuno in quest'aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo, perché presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro. E del resto, andando alla ricerca dei fatti, si è dimostrato e si dimostrerà che tante sorprese non sono in realtà mai state tali. Per esempio, nella materia tanto scottante dei finanziamenti dall'estero, sarebbe solo il caso di ripetere l'arcinoto «tutti sapevano e nessuno parlava». Un finanziamento irregolare o illegale al sistema politico, per quante reazioni e giudizi negativi possa comportare e per quante degenerazioni possa aver generato, non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica, per creare un clima nel quale di certo non possono nascere né le correzioni che si impongono né un'opera di risanamento efficace, ma solo la disgregazione e l'avventura. Del resto, onorevoli colleghi, nel campo delle illegalità non ci sono solo quelle che possono riguardare i finanziamenti politici. Il campo è vasto e vi si sono avventurati in molti, come i fatti spero si incaricheranno di dimostrare, aiutando tanto la verità che la giustizia. Ebbene, a questa situazione ora va posto un rimedio, anzi più di un rimedio. È innanzitutto necessaria una nuova legge che regoli il finanziamento dei partiti e che faccia tesoro dell'esperienza estremamente negativa di quella che l'ha preceduta. Penso che se la legislatura imbocca la sua strada maestra, allora non avrà tempo per fermarsi. Ne trarranno giovamento i partiti che vogliono percorrere una stagione di rinnovamento interno, di revisione degli statuti, di riforma delle regole, di ricambio degli uomini, di promozione di nuove associazioni tra loro e di più strette alleanze. Anche il governo sarà aiutato ad avanzare lungo i binari del buon programma che si è dato, dovendo affrontare le emergenze che lo stringono d'assedio, in primo luogo, quella economica e quella criminale. Se così non sarà e certo non me lo auguro la sorte della legislatura scivolerà su un piano inclinato e sarà allora rapidamente segnata. Non me lo auguro innanzitutto per il paese, onorevole presidente. Per la sua economia, che ha bisogno di un clima di operosità, di fiducia e di collaborazione sociale: una economia che deve essere stimolata ed aiutata a ritrovare iniziativa e competitività. Per i livelli occupazionali, a cominciare dall'occupazione nell'industria, che ha già ricevuto duri colpi ed altri purtroppo può riceverne ancora. Per il riequilibrio della finanza pubblica, che è urgente, necessario e non rinviabile: un record mondiale negativo, che in questi prossimi anni dobbiamo riuscire a toglierci di dosso nell'interesse di tutti, levando dal nostro futuro una grande incognita ed una tagliente spada di Damocle. Ridefinire e riselezionare la spesa sociale e le protezioni dello Stato sociale, senza smantellarlo secondo le invocazioni dei peggiori conservatori: anche questo è necessario, urgente e non più rinviabile. Sono questi gli anni del passaggio verso un'Europa più unita, più integrata ed auguralmente più coesa. Tuttavia, quando si sentono magnificare i nuovi traguardi europei come se si trattasse di una sorta di paradiso terrestre che ci attende, c'è solo da rimanere sconcertati. È naturalmente fondamentale che l'Italia riesca a raggiungere il passo dei suoi grandi partner europei. Diversamente, si produrrebbe una frattura di portata storica nelle linee di fondo del nostro progresso. Tuttavia dobbiamo insistere a chiederci quale Europa vogliamo: non un'Europa sottratta ad ogni controllo dei poteri democratici; non verso politiche determinate solo sulla base di criteri macroeconomici, indifferenti di fronte alla valutazione dei costi sociali. Un'Europa, dunque fondata su un mercato unico, aperto e libero, ma il cui sviluppo non contraddica il principio che gli anglosassoni definiscono come «il mercato più la democrazia». Non un'Europa in cui la modernizzazione diventi brutalmente sinonimo di disoccupazione, ma un'Europa dove le rappresentanze sindacali abbiano un loro spazio, una loro dignità ed una loro influenza; un'Europa che guardi al proprio riequilibrio interno ma anche all'altra Europa, che si è liberata dal comunismo, ma che rischia di restare ancora separata e divisa dal muro del denaro. Un'Europa capace di una vera politica estera e di una più larga apertura verso il mondo più povero che ha assolutamente bisogno di un acceleratore che gli consenta di uscire dalla depressione, dalla stagnazione e dal sottosviluppo, senza di che le ondate migratorie diventeranno sempre più incontrollabili. Sono gli interrogativi che ci poniamo, partendo dalla nostra fede nelle democrazie europee, dalle nostre convinzioni europeiste, dal contributo che abbiamo direttamente dato per aprire la strada ad un nuovo capitolo della costruzione europea. Nella vita delle nazioni e nella storia gli eroi e i martiri sono sempre stati un grande esempio ed una formidabile leva morale; e nel loro nome si sono potute realizzare grandi imprese.

Tangentopoli: «E invece Mario Chiesa parlò». Craxi, Di Pietro e quei due anni che non salvarono l’Italia. Venticinque anni fa — il 17 febbraio 1992 — l’allora presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano venne arrestato. Fu l’inizio di un percorso che, in 27 mesi, portò all’esilio di Craxi — e a uno strappo mai ricucito nel tessuto della nostra convivenza democratica, scrive Goffredo Buccini il 4 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. «Figuriamoci se quello parla!», dicevamo. Invece Mario Chiesa parlò. E in fondo può stare tutto qui, in un paio di righe che il 17 febbraio del 1992 apparivano ancora un improbabile accidente della storia, il senso di Mani pulite e dei successivi due anni e rotti: i ventisette mesi che portarono, nel maggio ‘94, alla fuga di Bettino Craxi in Tunisia e, in definitiva, a uno strappo nel tessuto della nostra convivenza democratica mai ricucito davvero. Intendiamoci: è stupido oltre che assai ingiusto ridurre la dimensione d’un uomo di Stato, il primo a intuire (con forte anticipo) la necessità d’una grande riforma delle istituzioni repubblicane, a quella del «latitante di Hammamet» disegnata da certa pubblicistica. I figli di Craxi hanno sacrosante ragioni per dolersene e magari per considerare il loro padre vittima di un infernale marchingegno mediatico e giudiziario, a diciassette anni dalla morte. Se tuttavia quell’uomo di Stato, gravato da condanne e procedimenti penali, decide di abbandonare l’Italia, non è necessario essere discepoli di Socrate per vedere come, proprio in virtù del suo ruolo, stia negando alla radice legittimità ai processi, alle sentenze e, in definitiva, allo Stato che lui stesso ha rappresentato ai massimi livelli. Mai come nell’ultimo ventennio della storia repubblicana s’è andata allargando la distanza tra cittadini e istituzioni, assieme all’idea che ciò che vediamo sia mera mistificazione di ciò che accade davvero in stanze più o meno segrete. Quest’idea storta che, per dirla col sociologo Gérald Bronner, genera dalla crisi della reciproca fiducia, sta ormai ponendo in questione la sopravvivenza stessa della democrazia e ha, ovviamente, una dimensione planetaria: ma, per ciò che riguarda gli affari di casa nostra, nasce forse proprio allora. Da una frattura dentro lo Stato.

Le origini di un duello. I due anni che prendono le mosse dall’arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio, fedelissimo craxiano (sopra, foto Ansa), colto in flagranza da Antonio Di Pietro e dal capitano dei carabinieri Roberto Zuliani con la famosa mazzetta da sette milioni (di lire) pagata dall’imprenditore Luca Magni, si possono riassumere in realtà come una sfida quasi personale tra i magistrati di Milano e il segretario nazionale del Psi. Ha scritto Sergio Romano che «la notizia dell’arresto di Mario Chiesa non rivelò niente che gli italiani non sapessero». Vero. Le bustarelle erano oggetto di barzellette al bar. Quanti in Italia erano al corrente del sistema? Tra quelli che intascavano almeno una frazione di tangente e i loro familiari «non meno di qualche milione» di persone, osserva Romano. Un bel segreto di Pulcinella, insomma. Molto s’è congetturato, dunque, sul perché si sia rotto il meccanismo proprio allora.

I teorici della cospirazione. Immancabili sono le ricostruzioni complottistiche, a partire da quella secondo cui gli americani abbiano lavorato sottotraccia coi nostri (immancabili) servizi per far pagare a Craxi «lo schiaffo di Sigonella»: quando, da presidente del Consiglio, rivendicò la sovranità nazionale fino a far circondare dai carabinieri i marines che stavano catturando in territorio italiano i terroristi responsabili del dirottamento dell’Achille Lauro. Tra Garofano e Procure le relazioni erano in verità difficili già dagli anni Ottanta, almeno dal caso Tortora in poi. Il nuovo codice di procedura penale firmato da Giuliano Vassalli nell’89, introducendo il rito accusatorio (all’americana, diremmo, banalizzando) avrebbe inoltre potuto avere prima o poi come logica conseguenza la separazione delle carriere tra pubblica accusa e funzione giudicante (pm e gip) e può darsi che anche questo inasprisse negli anni successivi l’animo di taluni pubblici ministeri. Teorie, concause, suggestioni, zero prove. La spiegazione forse più semplice (e dunque più plausibile) è che i soldi erano finiti: il ‘92, ricordiamolo, anno in cui tutti gli equilibri italiani si infransero (persino con la svolta stragista della mafia), fu anche l’anno della finanziaria «lacrime e sangue» varata da Giuliano Amato e dell’uscita della lira dallo Sme; il sistema dei partiti aveva perso presa dalla caduta del Muro di Berlino che tutto stava rimodellando. Gli imprenditori (che avevano avuto dal sistema il loro bel tornaconto in termini di protezione dalla libera concorrenza) si sentirono infine strangolati e scaricarono i politici: Luca Magni, con la sua piccola impresa di pulizie, fu insomma un apripista. Come lo fu Milano rispetto al resto d’Italia.

Il rito ambrosiano. La notizia vera non fu però l’arresto di Chiesa. Anche Antonio Natali, presidente della Metropolitana milanese e imbuto di tangenti per maggioranza e opposizione, era finito in galera sette anni prima: non aveva aperto bocca. Craxi, che lo considerava una sorta di papà politico, s’era mosso personalmente per fargli una visitina d’incoraggiamento a San Vittore, poi l’aveva fatto eleggere senatore: quando Saverio Borrelli aveva chiesto l’autorizzazione a procedere, il Senato gliel’aveva negata tra gli applausi della destra, del centro e della sinistra dell’emiciclo. Chiesa parlò, invece: eccola, la notizia. Aveva resistito quando Di Pietro, forte delle micidiali carte bancarie raccolte dalla moglie per la causa di separazione, gli aveva contestato i conti svizzeri Levissima e Fiuggi, sibilando al suo avvocato: «L’acqua minerale è finita... lo dica al suo cliente». Aveva retto giorni in cella con tenacia. Poi però, aveva sentito alla tv il suo leader, Bettino, che, sotto la pressione popolare, lo scaricava, marchiandolo con una parola terribile perché beffarda: mariuolo. Parlò per sette giorni l’ex enfant prodige del Psi milanese, detto il Kennedy di Quarto Oggiaro per via del ciuffo giovanilistico, e fu il primo dei grandi collettori di tangenti a vuotare il sacco. Non avesse parlato, la faccenda sarebbe finita come le altre volte, forse. In quell’epiteto, mariuolo, c’è la hybris di Bettino e il ghigno del fato che si diverte a cambiare l’esito delle battaglie. È questo l’elemento più forte contro tutte le teorie del complotto prodotte ex post: che tutto nacque da un evento francamente imprevedibile, Chiesa parlò. E probabilmente parlò perché Craxi lo insultò in tv per difendere il Psi e se stesso. Quando smise di parlare, ci fu un attimo di sospensione, giusto il tempo di digerire il risultato elettorale: il 5 aprile segnò il tracollo dei partiti della Prima Repubblica. Poi, il 22 aprile, arrestarono otto imprenditori: avevano lavorato per il Pio Albergo Trivulzio, pagato il solito obolo a Chiesa. Entrarono a San Vittore, confessarono, uscirono. Pochi mesi prima tutti i partiti milanesi avevano fatto una riunione per gestire il sistema degli appalti: ora tutto emergeva. Gli avvocati venivano fuori dai primi interrogatori annunciando «centinaia di arresti in arrivo!».

Il sistema di Tonino e il pool. Il grande balzo in avanti di Mani pulite avvenne in effetti perché gli otto imprenditori denunciarono i cassieri segreti dei partiti, i cosiddetti «elemosinieri», e mandarono in galera personaggi come Maurizio Prada della Dc o Sergio Radaelli del Psi: l’omertà si ruppe. Un boiardo del calibro di Prada, allora presidente dell’azienda municipale dei trasporti, dovette infatti vivere la faccenda come un tradimento e iniziò a raccontare le tangenti che le aziende a loro volta offrivano per primeggiare. Fu una reazione a catena, tipica del sistema messo a punto da Di Pietro: vai dentro, denunci i complici, diventi per loro inaffidabile, esci. Confessioni estorte? Indubbiamente sì, da un certo punto di vista: la carcerazione ne fu elemento essenziale. E tuttavia anche confessioni perfettamente legali. Si potrà discutere fino a perdere la voce sull’accettabilità di una procedura del genere (si badi: sempre avallata da un gip, ma sempre dallo stesso gip, Italo Ghitti). Ormai però tutto questo è storia. Sei giorni dopo la confessione degli otto, ventitré giorni dopo le elezioni politiche, Borrelli affiancò a Di Pietro due pm di cui aveva grande fiducia, Gherardo Colombo, che aveva scoperto gli elenchi della P2 e s’era scornato sui fondi neri dell’Iri, e Piercamillo Davigo, detto dai nemici Vichinsky, il procuratore delle purghe staliniane. Ancora giovani ma molto esperti, e con una forte cultura della giurisdizione, come usava dire, sottintendendo che Tonino il tribuno ne era alquanto sprovvisto.

Libera nos a malo. Messo a punto un sistema, molto controverso, nato il primo nucleo del pool, l’Italia cominciò a tifare come a un campionato del mondo. «Liberaci dal male che ci perseguita», scrivevano a Tonino da ogni parte. Nacquero comitati, si fecero fiaccolate, manifestazioni sotto Palazzo di Giustizia al grido di «Tonino non mollare!», si mescolarono le facce di Sabina Guzzanti e Paolo Rossi a quelle degli ancora missini di Gianfranco Fini. In libreria apparvero le prime agiografie in cui Di Pietro era descritto come un mix tra Superman e Padre Pio. Il poster degli «Intoccabili» con le facce del pool in fotomontaggio diventò un gadget irrinunciabile in quella Milano, quando Borrelli e i suoi si concessero due passi in Galleria e l’evento diventò un bagno di folla. E naturalmente si può dire molto male di tanti voltagabbana che, dopo avere votato e blandito potenti e corrotti per decenni, si misero ad applaudire coloro che ne stavano mozzandone la testa. Tuttavia, per un breve momento, in quella babele di voci, desideri, rivendicazioni, rivalse e aspettative ci fu anche dell’altro: una voglia di cambiare genuina, poi andata persa, come sempre, nei momenti chiave del nostro Paese.

Quando Bettino diventò «il Cinghialone». Il soprannome gli fu affibbiato un po’ al bar e un po’ nella sala stampa di Palazzo di giustizia e rivelava l’immutabile tendenza italica a maramaldeggiare su chi sta perdendo, soprattutto se è stato un potente. Quella fu l’estate di Craxi, ancora a giugno candidato alla presidenza del Consiglio: una prima ondata di indiscrezioni sui verbali di Chiesa (di cui certo dovremmo discutere provenienza e legittimità) arrivò nelle redazioni e ne stroncò le ambizioni. Sentendo che il suo tempo stava per finire, Bettino pronunciò un memorabile discorso alla Camera sul sistema di finanziamento della politica che sapeva di chiamata in correità per tutti gli altri leader (tranne un giovane Massimo D’Alema, nessuno fiatò). Poi, nel segno di quella duplicità tra uomo di Stato e nemico dei magistrati che lo stava perdendo, lasciò circolare voci insistenti sul suo «poker contro Di Pietro», un miscuglio di veleni e mezze notizie che riscaldarono molto il clima di quei mesi già roventi: apripista di un lungo elenco di rivelazioni vere o presunte, tutte volte a dimostrare che l’eroe nazionale era un mezzo eroe o, addirittura, un poco di buono.

La processione degli avvocati accompagnatori. Ciascuno può oggi rileggere la storia come vuole, dalla citatissima Mercedes facile fino alla «sbiancatura» del finanziere Chicchi Pacini Battaglia: ma va rammentato che Di Pietro conosceva, sì, qualcuno tra quelli che arrestò e tuttavia l’arrestò ugualmente, e che è uscito pulito da una lunga serie di processi subiti da imputato e vincitore da molti altri in qualità di querelante. Più grave del «poker», probabilmente, perché avveniva sotto gli occhi dei giornalisti, fu la processione degli avvocati accompagnatori, quei legali che in barba alla loro deontologia salivano in Procura non per difendere il cliente ma soltanto per fargli confessare in fretta ciò che i pm volevano: nessuno vi diede gran peso, sembrando quella specie di liturgia parte integrante di un rito catartico nazionale. Gravi, e grave segno dell’eccessiva vicinanza dei cronisti all’inchiesta, furono le grida di esultanza che il 15 dicembre del ’92 si levarono dalla sala stampa del Palazzo di giustizia quando arrivò la notizia che a Craxi era stato consegnato il primo avviso di garanzia. Imperdonabile fu non rammentare che dietro ogni provvedimento c’erano famiglie, figli, mogli, reputazioni: vite.

Il «clima infame». Il primo a suicidarsi fu Renato Amorese, segretario socialista di Lodi: «Mi hanno sputtanato», disse, e uscì di scena con dignità, in punta di piedi. Sergio Moroni, deputato socialista, s’ammazzò il 2 settembre, dopo avere mandato a Napolitano, allora presidente della Camera, una lettera terribile in cui s’interrogava su una politica da cambiare ma parlava anche di processo «sommario e violento» e di «decimazioni». Sua figlia Chiara, che ne ha ereditato la passione civile, ha raccontato a Federico Ferrero che era insopportabile per lui «essere scaraventato nel calderone dei ladri». «Hanno creato un clima infame», disse Craxi, commosso, uscendo dalla visita di condoglianze a casa Moroni. Poi si uccisero Gabriele Cagliari e Raul Gardini. Il saggio di Ferrero cita uno studio di Nando Dalla Chiesa e colloca a 43 il numero delle vittime «per cui è accertata una morte cagionata dall’onta del coinvolgimento nel giro della corruzione e del finanziamento illecito». Molti anni dopo è doveroso riflettere su questo dato. Accanto a un’Italia che festeggiava ogni arresto e ogni avviso di garanzia come una liberazione dal nemico, c’era un’altra Italia frastornata, confusa, abbandonata in un angolo con le proprie paure e talvolta i propri rimorsi, incapace di resistere in un mondo che di colpo si era rovesciato.

Poster azzurri e tangenti rosse. In vista delle elezioni di marzo ’94, mentre gli altri partiti affogavano, Achille Occhetto pensava di avere tra le mani una «gioiosa macchina da guerra». Ma già sui muri delle grandi città erano apparsi manifesti misteriosi con bambini su sfondo azzurro che balbettavano teneramente uno slogan: «Fozza Itaia». Il Paese stava cambiando in fretta, perché nulla cambiasse davvero. Nell’inchiesta erano entrati la Fininvest di Berlusconi e il Pci-Pds, e i fascicoli avevano portato uno strascico ideologico inquinante. Il filone delle tangenti rosse venne affidato a Tiziana «Titti» Parenti, che subito puntò sul tesoriere Pds Marcello Stefanini per le mazzette che sarebbero state versate dal gruppo Ferruzzi a Primo Greganti. In galera, il «compagno G» ruppe lo schema confessione-scarcerazione e non disse una parola sul suo partito, accreditando ulteriormente l’idea di una certa diversità comunista. L’inesperta Titti, spaesata nella macchina ormai rodata del pool, accusò i colleghi più anziani di «isolarla». L’avviso di garanzia a Stefanini fu il punto di non ritorno nella crisi dei suoi rapporti con il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, incaricato di sovrintendere a questo filone e da sempre sospettato di essere troppo tenero con Botteghe Oscure. Le accuse reciproche di avere voluto affossare o salvare gli ex comunisti accompagneranno entrambi. Titti ottenne un seggio con Forza Italia e poi mollò la politica, D’Ambrosio divenne più tardi senatore del Partito democratico.

Il tempo dei latitanti. È la stagione dei fuggiaschi, e dei ritorni. Il 7 febbraio del ’93 si consegnerà a Di Pietro, appena varcato il valico di Ventimiglia dopo mesi trascorsi in Polinesia, il più famoso, pirotecnico ed enigmatico di loro: Silvano Larini. Architetto amico di Craxi, Larini è l’incarnazione stessa dei luoghi comuni sulla «Milano da bere» degli anni Ottanta, grande protagonista delle notti al Giamaica di Brera. Ma soprattutto è il detentore di uno dei segreti più resistenti della storia repubblicana: il mistero del conto Protezione, numero 633369 sull’Ubs di Lugano, spuntato per la prima volta oltre dieci anni addietro dalle carte della P2 di Licio Gelli. Il conto è sempre stato suo, spiega, ma Craxi, accompagnato da Claudio Martelli, durante una passeggiata tra corso di Porta Romana e piazza Missori, nell’autunno dell’80, gli chiese di prestarglielo per operazioni di finanziamento all’estero: i primi tre milioni e mezzo di dollari arrivarono il mese stesso, altrettanti furono accreditati a febbraio dell’anno successivo.

Eutanasia di un sistema in diretta tv. In un gioco di specchi senza precedenti per una democrazia occidentale, quell’autunno gli italiani guardarono in diretta tv il disfacimento dell’Italia che sino ad allora avevano conosciuto e alla quale appartenevano. Il 28 ottobre Di Pietro portò in aula, per la tangente Enimont, Sergio Cusani: tutte le udienze furono trasmesse dalla Rai in una infinita soap opera dagli ascolti clamorosi. Si trattò in termini mediatici della frattura totale tra elettori ed eletti, rappresentanti e rappresentati: l’altra parte dello strappo nel tessuto della democrazia italiana nata nel 1946. Bocconiano, ex leader del Movimento studentesco, amico personale di Gardini, Cusani era accusato di avere mediato tra il patron della Ferruzzi e i politici. Non volendo tradire il rapporto con Gardini, morto nel frattempo suicida, rifiutò di collaborare coi pm e mantenne un atteggiamento di grande dignità, scegliendo il difensore più lontano per storia e attitudine dagli «avvocati accompagnatori»: Giuliano Spazzali, ex Soccorso Rosso, vero antagonista della cultura del pentimento catartico sottesa a Mani pulite (sopra, i due davanti a Palazzo di giustizia a Milano, Fotogramma). Decidendo di processarlo da solo, Di Pietro volle di fatto concludere con un espediente mediatico il processo all’intera Prima Repubblica, trascinando alla sbarra in qualità di testimoni, e dunque con l’obbligo di rispondere e dire il vero, i principali leader dei partiti che finora erano sempre sfuggiti a un confronto diretto con lui grazie alle guarentigie parlamentari. Processualmente, zero. Politicamente, un cataclisma.

La neolingua «dipietrese». Le udienze, memorabili e piene di pathos, vennero recitate dal pm di Montenero di Bisaccia in una neolingua fatta di dialetto, smorfie e motti popolari, il «dipietrese», che anticipava di due decenni la svolta pop dei grillini. I milanesi facevano la fila per trovare posto in aula. Tutti o quasi, uscirono con le ossa rotte. Il penoso farfugliamento di Arnaldo Forlani, incapace di controllare la propria salivazione davanti alle telecamere, resta forse l’immagine più imbarazzante di quel cambio di stagione. Se la cavò solo Craxi, orgoglioso fino all’arroganza: a lui Di Pietro, con gli altri irridente, concesse una specie di onore delle armi che molto fece almanaccare le tricoteuse incollate alla tv. In capo a qualche mese, Bettino sarebbe partito per la Francia e poi per la Tunisia, proprio mentre stavano per bloccargli il passaporto. La sua vicenda politica s’era del resto già conclusa da un pezzo, la sera che una folla indignata lo aveva aspettato sotto il suo albergo romano, il Raphael, per tirargli monetine e coprirlo di insulti. A Palazzo Chigi nella primavera del ‘94 si stava insediando Berlusconi: la reciproca delegittimazione tra potere politico e potere giudiziario avrebbe segnato nei vent’anni successivi la vita dell’Italia.

Fiandaca: «Il populismo giudiziario non è diritto e i magistrati non sono tribuni», scrive Giulia Merlo il 4 Febbraio 2017 su "Il Dubbio". “La cosiddetta rivoluzione giudiziaria realizzata dal pool milanese non avrebbe potuto vedere la luce se i pubblici ministeri non si fossero accollati la missione di ripulire la vita pubblica e moralizzare la politica, credendo di assolvere così una sorta di mandato popolare neppure tanto tacito”. «Sentenza populista» è solo l’ultima esternazione – pronunciata da un difensore per definire l’esito di un procedimento penale – che associa il populismo alla giustizia. Un legame complesso, che affonda le radici nella storia del nostro Paese e nell’indissolubile connubio tra politica e diritto. «Una tendenza – quella del populismo penale – che porta, sul versante politico, alla strumentalizzazione del diritto penale, con l’impiego della punizione come medicina per ogni malattia sociale; su quello giudiziario alla pretesa del magistrato di assumere il ruolo di autentico interprete delle aspettative di giustizia del popolo» è la tesi di Giovanni Fiandaca, professore ordinario di diritto penale presso l’Università di Palermo e autore del saggio Populismo politico e populismo giudiziario.

Cominciamo dalla locuzione “populismo penale”. Lei lo considera un concetto improprio?

«Il concetto di populismo si presta, nella sua potenziale estensione, a ricomprendere fenomeni molto diversi e può, perciò, essere piegato anche ad usi impropri. In un mio saggio del 2013 ho provato a mettere insieme alcuni spunti di riflessione sul populismo penale, distinguendone due possibili forme che peraltro non sono necessariamente destinate a manifestarsi in forma congiunta, nel senso che l’una può mantenere una certa autonomia rispetto all’altra: alludo da un lato al populismo penale “politico- legislativo” e, dall’altro, al populismo penale “giudiziario”. Il primo sottintende l’idea di un diritto penale utilizzato come risorsa politico- simbolica per lucrare facile consenso elettorale in chiave di rassicurazione collettiva rispetto a paure e ansie prodotte dal rischio- criminalità, specie quando la fonte di tale rischio viene identificata nel “diverso”, nello straniero, in quell’ immigrato extracomunitario che finisce con l’assumere il ruolo di nuovo nemico della società da controllare, punire e bandire: insomma, inasprire la risposta punitiva nei confronti del presunto nemico significa farsi populisticamente carico del bisogno di sicurezza del popolo sano, a difesa di una sorta di “ideologia del guscio” e di una supposta identità culturale ( e perfino razziale!) che rischierebbe di essere inquinata dai nuovi barbari».

In questo che lei chiama «farsi carico populisticamente del bisogno di sicurezza» rientra anche la creazione di nuove fattispecie di reato?

«Sì, in generale può parlarsi di populismo penale in tutti i casi, in cui i politici assecondano la tentazione di creare nuovi reati o inasprire reati preesistenti allo scopo di dimostrare alla gente di volere combattere sul serio e in modo drastico i diversi mali che affiggono la società. Insomma, la risposta punitiva rappresenta uno strumento non solo apparentemente risolutore proprio perché energico, ma anche molto comunicativo perché semplice, facilmente comprensibile da tutti nella sua elementare simbologia; inoltre, essa canalizza pulsioni vendicative e sentimenti di indignazione morale diffusi a livello popolare e, ancora, esime la politica dalla ricerca di strategie di intervento più costose e tecnicamente più appropriate. Questa ricorrente tendenza alla strumentalizzazione politica del diritto penale, e all’impiego della punizione come medicina quasi per ogni malattia sociale è stata, non a caso, esplicitamente criticata anche da Papa Francesco».

E veniamo ora alla seconda forma di populismo penale, il populismo giudiziario…

«Il “populismo giudiziario”, quale specifica forma di manifestazione del populismo penale sul versante della giurisdizione, è un fenomeno che ricorre tutte le volte in cui il magistrato pretende di assumere il ruolo di autentico rappresentante o interprete dei veri interessi e delle aspettative di giustizia del popolo (o della cosiddetta gente), e ciò in una logica di concorrenza- supplenza, e in alcuni casi di aperto conflitto con il potere politico ufficiale. Questa sorta di magistratotribuno, che pretende di entrare in rapporto diretto con i cittadini, finisce col far derivare la principale fonte di legittimazione del proprio operato, piuttosto che dal vincolo alle leggi scritte così come prodotte dalla politica, dal consenso e dall’appoggio popolare».

Viene automatico chiederle: possiamo fare qualche esempio, più o meno recente?

«Esemplificazioni concrete d’un tale populismo giudiziario non è difficile rinvenirne, ieri come oggi. E’ fin troppo facile individuarne un modello prototipico nell’Antonio Di Pietro protagonista di “Mani pulite”. Anzi, direi che proprio Di Pietro ha acceso la miccia di un populismo destinato, successivamente, a proliferare in forme anche più direttamente politiche. Aggiungo, incidentalmente, che sarebbe anche maturato il tempo per effettuare un autentico bilancio critico degli effetti politici ad ampio raggio – alcuni dei quali, a mio giudizio, del tutto negativi – prodotti dalla cosiddetta rivoluzione giudiziaria milanese. Personalmente, temo che una giustizia penale che si autoinveste di missioni palingenetiche, alla fine, causi più danni che vantaggi».

“Mani pulite” come modello di populismo giudiziario, dunque. Di quale missione palingenetica si sarebbero investiti i magistrati milanesi?

«La cosiddetta rivoluzione giudiziaria realizzata dal pool milanese non avrebbe potuto vedere la luce se i pubblici ministeri non si fossero accollati la missione di ripulire la vita pubblica e moralizzare la politica, credendo di assolvere così una sorta di mandato popolare neppure tanto tacito. Altra cosa è che un obiettivo “sistemico” così ambizioso fosse veramente alla portata dell’azione giudiziaria di contrasto della corruzione. A riconsiderare quell’esperienza a venticinque anni di distanza, sembra più che lecito dubitarne».

Ecco il punto: è possibile associare il termine populismo alla giustizia, quindi?

«Si può associare se utilizziamo il termine “giustizia” per indicare i bisogni, le aspettative di tutela e le aspirazioni di giustizia della popolazione secondo la chiave interpretativa che pretendono di fornirne le forze politiche o i magistrati di vocazione populista. Se guardiamo al concetto di giustizia sotto un’angolazione diversa e più generale, invece, tra populismo e giustizia può esservi conflitto».

Proviamo ora a ricercare le origini del fenomeno. Secondo lei dove affondano?

«Il discorso è complesso. Direi una miscela di fattori oggettivi o di contesto, e soggettivi come il protagonismo di una parte della magistratura. Tra i fattori di contesto, annovererei – in sintesi – la crisi della politica ufficiale e la sfiducia verso i politici, l’emergere di tendenze antipolitiche (o, meglio, antipartitiche), la tentazione politica di delegare alla magistratura il compito di affrontare e risolvere grosse questioni sociali, criminali e non. Tra i fattori soggettivi, porrei l’accento sulla vocazione lato sensu politica di una parte della magistratura, sul diffondersi di una cultura giudiziaria di tipo attivistico- combattente e sulla tendenza – appunto – di alcuni magistrati a impersonare il ruolo di giustizieri, angeli del bene o tribuni del popolo. Questi fattori oggettivi e soggettivi interagiscono secondo dinamiche complesse e non univoche».

Provando a spostare l’analisi sull’attuale sistema politico, si può dire che il diritto penale è stato strumentalizzato in chiave populista?

«Questo fenomeno di strumentalizzazione è esistita e continua ad esistere, peraltro sia a destra che a sinistra».

Concretamente, possiamo citare qualche caso?

«Faccio due esempi, entrambi emblematici: la circostanza aggravante della clandestinità introdotta in epoca berlusconiana, e poi bocciata dalla Corte costituzionale; il nuovo reato di omicidio stradale fortemente voluto da Matteo Renzi, in una prospettiva sinergica populista- vittimaria: nel senso che la motivazione politica di fondo sottostante all’omicidio stradale ( come reato autonomo) è stata non solo quella di dare un segnale anche simbolico di grande rigore nel contrastare la criminalità stradale con pene draconiane, ma anche di indirizzare un messaggio di attenzione e vicinanza nei confronti dei familiari delle vittime della strada e delle loro associazioni. Al di là di questo discutibilissimo populismo vittimario, quel che rimane da dimostrare con criteri empirici è – beninteso – che l’omicidio stradale serva davvero a prevenire più efficacemente gli incidenti mortali».

Secondo lei la politica sta tendendo ad avvicinarsi al lessico tipicamente “accusatorio” della magistratura requirente?

«Ritengo che vi siano esempi di questo avvicinamento anche in Italia. Alludo, com’ è intuibile, al fenomeno di esponenti politici a vari livelli che pongono al centro della loro azione politica o del loro programma di governo la lotta alla criminalità o la difesa della legalità: una sorta di professionismo politico specificamente anticriminale o antimafioso. Con una tendenziale differenza, peraltro, a seconda che questo tipo di politico militi sul fronte conservatore o progressista: nel primo caso, egli muoverà guerra soprattutto alla criminalità comune e alla criminalità da strada; nel secondo caso, alle mafie e alla criminalità dei “colletti bianchi”. In entrambi i casi, comunque, il politico di turno tenderà a vestire i panni del pubblico ministero più che del giudice: porrà infatti l’accento, con parecchia enfasi, sulla necessità di denunciare, indagare, accertare, impiegare tutti i mezzi di contrasto possibili e immaginabili per sradicare la mala pianta del crimine e fare terra bruciata intorno ad esso, applicare pene draconiane, controllare e neutralizzare gli individui pericolosi o sospettabili tali».

Tornando al populismo penale, il termine viene utilizzato in accezione negativa. Eppure lei ha scritto che il diritto penale è, in qualche modo o misura, populistico. E’ una provocazione?

«Sì è una provocazione intellettuale, nel senso che tento di chiarire. Tradizionalmente, ogni codice penale è stato considerato una specie di marcatore simbolico dell’identità culturale e valoriale di un determinato popolo: in questo senso, ogni codice nazionale rifletterebbe la storia, i valori, gli usi sociali, i sentimenti collettivi della nazione in questione. Con formula efficace, si è anche detto che un codice penale rispecchia il “minimo etico” della popolazione. Ciò premesso, io avanzerei in realtà riserve rispetto alla tendenza a caricare il dritto penale di valenze fortemente identitarie, a maggior ragione nelle società in cui viviamo caratterizzate da un accentuato pluralismo: incombe, infatti, il rischio di voler autoritariamente attribuire alla punizione il compito illusorio di riaffermare o rinsaldare identità “comunitarie” ormai inesistenti o indebolite contro criminali percepiti come nemici estranei e inquinanti. Un simile atteggiamento sarebbe non solo incostituzionale, ma sostanzialmente fascistico- razzistico».

Nel suo saggio sul populismo penale, lei cita il criminologo Jonathan Simon, che attribuisce un ruolo politico decisivo alla paura per la criminalità. Che funzione esercita, secondo lei, la paura nell’affermarsi del populismo?

«Un ruolo certo non piccolo, non solo in Italia. Come ha appunto messo in evidenza Simon riguardo ad esempio agli Stati uniti, si può verosimilmente diagnosticare uno specifico paradigma di governance politica incentrato sulle strategie di repressione e prevenzione della criminalità quali essenziali elementi costitutivi dell’azione di governo. Ma il fenomeno è da tempo registrabile in molti paesi».

Per concludere, le richiamo una citazione di Leonardo Sciascia che lei usa come incipit del suo saggio: “Quando un uomo sceglie la professione di giudicare i propri simili, deve rassegnarsi al paradosso doloroso per quanto sia – che non si può essere giudice tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto”. Lei condivide? Ma come può chi giudica tenere conto dell’opinione pubblica?

«Condivido il senso profondo del paradosso sciasciano, che lascia trasparire la difficoltà oggettiva ma, al tempo stesso, la necessità di conciliare in qualche misura due esigenze opposte. Cioè il giudice dovrebbe in teoria, per un verso, essere sempre capace di prendere criticamente le distanze dal clima ambientale, dalle pressioni esterne e dalle aspettative di punizione delle stesse vittime del reato e, aggiungerei, anche dai propri pregiudizi e dai sentimenti personali, e di emettere decisioni basate soprattutto sulle norme, sul ragionamento rigoroso e sul senso di equilibrio, in modo da contemperare tutti i valori in campo: il che, passando dalla teoria alla realtà, può peraltro avverarsi soltanto fino a un certo punto. Anche i giudici sono esseri umani!»

E però rimane il fardello dell’opinione pubblica…

«Infatti. Per altro verso, chi giudica neppure dovrebbe pronunciare sentenze così difformi dalle aspettative della società esterna e delle vittime da risultare poco comprensibili e, perciò, inaccettabili. Ma la grande difficoltà, il dramma stanno proprio in questo: non di rado, le aspettative popolari di giustizia sono molto emotive, poco filtrate razionalmente e perciò, come tali, irricevibili da una giustizia che aspiri a condannare e punire sulla base di motivazioni razionali e in misura proporzionata alla gravità dei reati e delle colpe accertate».

Viene da chiederle, se mai esiste una risposta: è possibile trovare la “misura” nel giudicare?

«Che cosa sia davvero “proporzionato” in campo penale, è una questione a sua volta intrinsecamente controvertibile: in proposito, non c’è verità scientifica, né si può esigere la precisione del farmacista. Si ripropone, dunque, il paradosso “doloroso” di Sciascia: un paradosso che non consente facili vie di uscita, né tollera risposte capaci di tranquillizzare – appunto – la coscienza di chi ha scelto la professione di giudicare».

Di Pietro continua a infangare Craxi: "Non si intitolano vie a chi ha commesso reati". L'ex pm Antonio Di Pietro critica chi vuole riabilitare Bettino Craxi: "Ritengo che le vie vadano intitolate a persone che sono un punto di riferimento, soprattutto per le nuove generazioni. Non a chi è stato condannato", scrive Raffaello Binelli, Sabato 21/01/2017 su "Il Giornale". Non c'è nulla da fare. Di Pietro ce l'ha sempre avuta e continua ad avercela con Bettino Craxi, nonostante l'ex leader socialista sia morto ormai da diciassette anni. All'ex pm di Mani Pulite non va giù che si cominci, molto lentamente, a rivedere sotto una luce diversa i fatti di Tangentopoli. E così mette tutti sull'attenti (o almeno ci prova), ricordando a tutti che Craxi, in fondo, era colpevole di tante malefatte. E che quindi oggi non merita l'intitolazione di alcuna via. Vediamo cosa ha detto Antonio Di Pietro, in un'intervista al quotidiano La Stampa, in merito al dibattito aperto dal sindaco di Milano Giuseppe Sala per intitolare una strada all'ex presidente del Consiglio. "Ritengo che le vie vadano intitolate a persone che sono un punto di riferimento, soprattutto per le nuove generazioni. Che siano un esempio da imitare. Una persona che è stata condannata più volte non penso che si possa indicare come esempio. Mi sembra una furbata questo dibattito, vogliono buttarla in politica per nascondere le responsabilità giudiziarie". E Di Pietro spiega cosa vuol dire col termine furbata: "Si è fatto credere all' opinione pubblica che in questo Paese c'è stata una guerra tra magistrati e politica. Ma non è colpa dei magistrati se qualcuno ha commesso dei reati. I magistrati hanno fatto le indagini per accertare chi aveva commesso reati giudiziari". Ora, se questo è vero (ed è vero, i reati sono stati commessi), è altrettanto vero (perché lo dice la storia) che i partiti politici italiani dal dopoguerra al 1992, si sono quasi tutti finanziati in modo illecito. Ed è altresì vero che il più grande partito dell'opposizione, il Pci, riceveva (in modo illegale) i fondi dall'ex Unione Sovietica oltre a quelli con cui si foraggiavano anche le altre forze politiche. Eppure la tanto sbandierata rivoluzione di Tangentopoli non ha fatto luce fino in fondo su questi reati (coperti dall'amnistia del 1990). La magistratura dell'epoca, dunque, ha svolto il proprio lavoro in modo strabico, col risultato di indurre i cittadini a credere che una parte politica, quella dei partiti che per oltre 40 anni avevano governato il Paese, fosse solo un manipolo di "ladroni", mentre l'altra parte c'erano dei veri e propri gentiluomini, puri e immacolati. Mai possibile credere, ancora oggi, ad una simile barzelletta? Di Pietro riconosce che il sindaco di Milano Sala "sul piano personale può avere o non avere un giudizio su di lui (Craxi, ndr). Ma come sindaco non può volere questa cosa. Milano non può dimenticare di essere stata Tangentopoli, la città degli affari illeciti che con questi ha contribuito all'impoverimento del Paese". E rincara la dose: "Sembra che si voglia a tutti i costi dimenticare che Bettino Craxi è stato condannato anche in vita a più di 10 anni di carcere per corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Condanne arrivate perché ci sono persone che ci hanno riferito di appalti con tangenti e di conti correnti anche all' estero intestati a lui e al suo gruppo. Altro che "è stato condannato perché non poteva non sapere". Altro che "non c' erano finanziamenti illeciti".

Odiate, odiate, e il consenso verrà, scrive Piero Sansonetti il 21 gennaio 2017 su "Il Dubbio".  Il Fatto di Travaglio definisce Alfano “Ministro della malavita” perché è andato sulla tomba di Bettino Craxi. Il problema dell’odio, dell’eccesso di odio nella lotta politica, non è solo una questione culturale. E’ un problema molto concreto, perché l’odio sta scalzando la stessa lotta politica. Sostituendola, assumendone la funzione. E sta prendendo il posto dei programmi, delle idee. L’odio – che una volta era un accessorio del conflitto, una aggiunta – è diventato l’essenziale, e soprattutto è diventato lo strumento principale della conquista del consenso. Odia, odia, vedrai che diventi popolare. Vorrei sottoporvi questo titolo pubblicato ieri con grande evidenza sulla prima pagina del “Fatto”. Dice così, testualmente: «Alfano, ministro della malavita, sulla tomba del latitante Craxi». Cos’è che colpisce? Certo, colpisce l’ingiuria, usata con incredibile arroganza e leggerezza. Alfano viene qualificato come un gangster. Il capo dei gangster. Il riferimento è probabilmente a una polemica del primo novecento tra Gaetano Salvemini e Giovanni Giolitti, per via dei brogli elettorali dei giolittiani in Puglia. Salvemini usò quell’epiteto. Ma nell’articolo del “Fatto” non c’è nessun accenno a Salvemini, del resto il povero articolista neanche si sogna di definire Alfano un bandito. La polemica è tutta del titoli- sta. Il quale, probabilmente, già sa che la magistratura difficilmente condannerà il “Fatto” che è il suo giornale di riferimento, e quindi non fa caso agli insulti e li usa con larghezza. (Se penso che un Pm di Palermo mi ha chiesto più di centomila euro di risarcimento per aver scritto che era stato maleducato nell’interrogatorio di De Mita, mi chiedo quanto potrebbe chiedere Alfano apostrofato come il capo della delinquenza: 1 milione, 10 milioni? E però son sicuro che il Pm di Palermo con me vincerà, e Alfano non vedrà mai una lira…). Ma quel che più colpisce nel titolo non è nemmeno l’improperio sfrontato per il ministro. E’ l’odio, l’odio incontenibile e viscerale e imperituro, per un signore che ha contribuito a fare la storia della repubblica, che ha avuto un ruolo importantissimo nella storia della sinistra, e che è morto quasi vent’anni fa. Il gusto di parlare di una persona morta apostrofandola come latitante, ha pochi precedenti nelle tradizioni della polemica politica italiana. L’odio, l’odio come carburante per l’intelletto. L’odio come certezza dell’esistere. Come assicurazione sulla propria probità. Voi dite che ormai è una tendenza inarrestabile? Speriamo di no.

Martelli: «Alla fine i moralisti finiscono alla gogna», scrive Giulia Merlo il 17 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". «Chiunque faccia dell’onestà il principale, se non l’unico motivo della propria iniziativa politica, nasconde un’assenza di programmi più approfonditi”. «Nessun ritorno a Mani Pulite». Claudio Martelli, ex ministro della Giustizia nel difficile biennio tra il 1991 e il 1993, analizza le inchieste che hanno gettato nel caos le amministrazioni di Milano e Roma, a partire dal rapporto sempre teso tra politica e magistratura.

Onorevole, traballano sia Milano che Roma: con Beppe Sala autosospeso e il braccio destro della sindaca Virginia Raggi arrestato. Ci sono somiglianze con il 1992 di Mani Pulite?

«Somiglianze non direi. Non vedo un’ondata di arresti scatenati da metodi di indagine alla Di Pietro, in cui il motto era «o parli o butto la chiave», con una catena di delazioni a comando provocate dalla carcerazione preventiva. Vedo però uno stillicidio continuo di indagini e accuse e una particolare devozione della nostra magistratura alle indagini sulla pubblica amministrazione. Per un verso bisogna rallegrarsene, per altro verso suscita qualche interrogativo, a fronte della mole di reati, anche più gravi, non perseguiti».

Partiamo dal caso–Roma. L’amministrazione grillina rischia di crollare sotto il peso delle dimissioni di Paola Muraro e l’arresto di Raffaele Marra. Che fine ha fatto lo slogan “onestà–onestà”?

«Come le volpi finiscono in pellicceria, così i moralisti finiscono alla gogna. S’è già visto in passato: quelli che sbandieravano il partito degli onesti poi finirono nel tritacarne giudiziario e questo è vero anche oggi.

Chiunque faccia dell’onestà il principale se non l’unico motivo della propria discesa politica in campo nasconde un’assenza di programmi più approfonditi. L’onestà è una precondizione e la politica è un mestiere talmente difficile e insidioso che pensare di cavarsela semplicemente restando onesti è una pia illusione».

Poi anche Milano, la sua città: Expo è stato uno dei più sbandierati successi del governo Renzi e ora rischia di essere la pietra tombale del Comune, faticosamente mantenuto dal Pd. Quali equilibri si stanno muovendo?

«La procura aveva archiviato il caso Sala, in cui non si era trovata traccia di tangenti. Per dirla con Ilda Boccassini, non c’era odor di «piccioli», ma solo una gran fretta, che ha fatto compiere anomalie. Sembra infatti che sia stato retrodatato un documento di indizione di una gara d’appalto, per poter rientrare nei termini di legge. Nei giorni di Expo, infatti, ricordo grande frenesia per arrivare con le opere compiute all’inaugurazione, smentendo i gufi del «non ce la farete mai»».

Invece la procura generale ha ritenuto di riaprire l’inchiesta…

«Che la procura generale abbia ritenuto di riaprire un caso archiviato dalla procura della Repubblica e come questo si inserisca nella lotta devastante della magistratura milanese, purtroppo è nelle carte. Del resto, è stato lo stesso Csm a tentare di sedare le lotte, legittimando Edmondo Bruti Liberati e trasferendo Alfredo Robledo. Io temo che l’iscrizione di Sala ne registro degli indagati possa essere un danno collaterale provocato da quel conflitto. Del resto, i conflitti tra magistrati sono i più accaniti e avvelenati, perché tutte le parti brandiscono il diritto, indossano la toga e sono ammantati di intransigenza assoluta, impuntata su dettagli e cavilli».

Una magistratura milanese, dunque, molto diversa da quella di Mani Pulite?

«Decisamente. Allora c’era una compattezza incredibile nel pool di Mani Pulite: anche quando – come poi si scoprirà – i giudici non erano d’accordo uno con l’altro, erano però tutti saldi nel far fronte comune contro l’opinione pubblica rispetto ai politici».

Ma anche oggi si ripete, però, un dualismo guerriero tra magistratura e politica?

«Questa è la visione manichea di Piercamillo Davigo, che parla di lotta del bene contro il male, in cui i magistrati sono tutti buoni e politici tutti corrotti».

Lei, invece, come la pensa?

«Io credo ci sia la somma di due mali. E’ vero che la corruzione in Italia alligna più che altrove che questo merita indagini e sanzioni. Se però nelle indagini si cede a eccessi giustizialisti, ecco che si somma male ad altro male: la corruzione diffusa e la repressione arbitraria».

Torna, dunque, al centro il rapporto difficile tra politica a tutti i livelli e magistratura.

«Io credo che, di questo, il caso di Beppe Sala sia emblematico. Ancora non si sa con certezza se abbia ricevuto un avviso di garanzia e tutto è nato da indiscrezioni sui giornali. Quando dalle procure trapelano notizie riservate, storcendo il principio della tutela dell’indagato e del suo diritto alla riservatezza, ecco che si è già compiuto un abuso grave. Ma la violazione del segreto istruttorio è diventata un passatempo, ed anzi è strano quando ciò non avviene. Se si distrugge la reputazione dell’imputato nella fase precedente l’indagine formale, però, si altera il corso della giustizia e questo è il punto cruciale e che più interessa i rapporti tra politica e magistratura. La sentenza, infatti, può anche essere di assoluzione, ma intanto la carriera politica è già bella che finita».

L’autosospensione di Sala è una scelta politica che deriva da questa distorsione del sistema?

«Io credo che lui abbia fatto una scelta opportuna. La sua decisione fungerà da sollecito alla procura generale, perché si decida in fretta a formalizzare le accuse o archiviarle».

Il caso Roma, invece, ha delle implicazioni diverse. Raggi è sotto scacco?

«L’elemento politico di questa vicenda lo ha colto bene Giorgia Meloni, che si è chiesta se ci troviamo di fronte a incompetenza assoluta oppure a stupida malizia della sindaca Raggi. Perché ha insistito a scegliere personaggi che hanno fatto il loro curriculum amministrativo nelle passate gestioni, che in pubblico lei è stata la prima a condannare? Questo a me pare incomprensibile. Noi siamo osservatori estranei, ma anche dal suo stesso movimento in tanti l’hanno messa in guardia. La sua è stata ostinazione, ma del resto questo è un periodo in cui va di moda per sindaci ed ex sindaci non ascoltare i consigli».

Un riferimento a Matteo Renzi?

«Non ho fatto che leggere elogi per la cosiddetta «determinazione» di Matteo Renzi. Eppure io credo che ostinarsi sia un errore, non certo una qualità. E di qualità Renzi ne avrebbe molte altre».

Così nacquero Tangentopoli e poi il giustizialismo, scrive Fabrizio Cicchitto il 27 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". L’intervento del ministro Orlando alla direzione del Pd e la lunga intervista al Dubbio del filosofo Biagio De Giovanni hanno costituito la prima radicale rimessa in questione di quel giustizialismo che nel Pds– Ds e poi nel Pd ha costituito una fondamentale scelta ideologica di larga parte dei post– comunisti (con l’eccezione dei miglioristi come Chiaromonte, Napolitano, Umberto Ranieri) e una altrettanto marcata scelta politica determinata da un misto di strategia e di tattica di cui poi vedremo le ragioni di fondo. Orlando ha denunciato il fatto che per anni il giustizialismo esercitato contro Berlusconi ha sostituito le scelte culturali e politiche di stampo realmente riformista che invece non sono state fatte. Biagio De Giovanni ha denunciato il fatto che sul giustizialismo della sinistra si sono innestati due fenomeni devastanti: “la politica distrutta dall’invadenza della magistratura” e un’antipolitica che si innesta su questo ruolo prevaricante di un potere dello stato e che attraverso di esso sta distruggendo il confronto politico e culturale. De Giovanni ha anche rilevato, a proposito dell’attività più propriamente politica del ministro Orlando, che egli ha realizzato positivi interventi sulle carceri ma non è riuscito neanche a sfiorare i due temi centrali della riforma della giustizia, la separazione delle carriere e il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale. Per completare questa rassegna preliminare citiamo anche l’intervista di Giorgio Napolitano sul Messaggero a proposito del confronto sul referendum: Napolitano ha rilevato che la forza dell’antipolitica è diventata tale che nell’ultima fase della campagna referendaria il Presidente Renzi ha pensato bene di riuscire a smontare il vantaggio del No dando al Sì il valore della lotta alla casta: fatto dal presidente del Consiglio in carica questo appello è risultato controproducente e anche un po’ grottesco. Ciò detto, però, dobbiamo per forza fare un passo indietro. Il finanziamento organicamente irregolare dei partiti parte dagli anni 40 e ha per nome e cognome una serie di padri della patria (da Alcide de Gasperi, a Palmiro Togliatti a Pietro Nenni). Negli anni ’ 40–’ 50 la Dc era finanziata dalla Confindustria, dalla Cia, da una rete di imprenditori privati. Poi, con l’avvento di Fanfani, il finanziamento della Dc fu sostenuto anche dalle aziende a partecipazione statale. A sua volta il Pci era finanziato dal Pcus, dalle cooperative rosse, da una rete di imprenditori amici, specie nelle regioni rosse. Prima di Craxi, il Psi dipendeva per il suo finanziamento dal principale alleato: nella fase frontista esso si basò sul finanziamento sovietico e sulle cooperative rosse, nella fase del centro– sinistra sulle partecipazioni statali. Tutto ciò si aggregò in un sistema organico, quello di Tangentopoli. A fondare quel sistema dal lato imprenditoriale furono altri due padri della patria, cioè Vittorio Valletta ed Enrico Mattei. Mattei considerava i partiti e le loro correnti dei “taxi” (tant’è che finanziava abbondantemente anche l’Msi, un partito che poi anch’esso, come del resto il Pci– Pds, si è rifatto la verginità), e poi fondò in modo esplicito con Albertino Marcora quella sinistra di base (corrente democristiana) che ha esercitato una grande influenza nella Dc e nell’intero sistema politico. Che il Pci affondasse le sue risorse in un finanziamento irregolare dalle molteplici fonti (altro che feste dell’Unità) è messo in evidenza dal verbale di alcune riunioni svoltesi in Via delle Botteghe Oscure citato a pagina 495– 498 nel libro di Guido Crainz “Il paese mancato”. Giorgio Amendola nella direzione del 1 febbraio 1973 disse: “quando me ne sono occupato io “le entrate straordinarie” (eufemismo ndr) erano del 30% ora siamo al 60%”. A sua volta Elio Quercioli disse: “molte entrate straordinarie derivano da attività malsane. Nelle amministrazioni pubbliche prendiamo soldi per far passare certe cose. In questi passaggi qualcuno resta con le mani sporche e qualche elemento di degenerazione finisce per toccare anche il nostro partito”. E nella riunione dell’1 e del 2 marzo 1974 il Pci diede il sostegno alla legge sul finanziamento pubblico con l’esplicita motivazione di ridurre il finanziamento sovietico e le “entrate straordinarie derivanti da attività malsane”. Armando Cossutta disse: “negli ultimi anni si è creato in molte federazioni un sistema per introitare fondi che ci deve preoccupare. C’è un inquinamento nel rapporto con le nostre amministrazioni pubbliche nel quale c’è di mezzo l’organizzazione del partito e poi ci stanno dei singoli che fanno anche il loro interesse personale”. Quando, poi, decollò la politica di unità nazionale, il Pci entrò anche nel “sistema degli appalti pubblici” che aveva come sede di compensazione l’Italstat: in quella sede c’era un meccanismo che assicurava la rotazione nell’assegnazione degli appalti che riguardava tutte le grandi imprese di costruzione pubbliche e private: alle cooperative rosse era garantita una quota che oscillava dal 20 al 30%. A sua volta Bettino Craxi per rendere reale fino in fondo l’autonomia del Psi dalla Dc e dal Pci, prese direttamente e tramite Vincenzo Balzamo rapporti con il mondo imprenditoriale: una mossa i cui rischi furono evidenti poi. Avendo però alle spalle quella realtà del suo partito, Berlinguer fece la famosa intervista sulla questione morale nella quale presentava il Pci come il partito delle “Mani Pulite”: la mistificazione è evidente. In sostanza Tangentopoli era un sistema che si fondava su un organico rapporto collusivo fra tutte le grandi imprese pubbliche e private senza eccezione alcuna (quindi compresa la Cir di De Benedetti, come risultava dalle sue stesse ammissioni processuali) e da tutti i partiti dell’arco costituzionale senza eccezione alcuna (quindi compreso il Pci; l’Msi, a sua volta, o aveva diretti rapporti con le imprese, vedi l’Eni, o, a livello locale era “tacitato” dagli altri partiti). Questo sistema era fondato sulle grandi imprese, sui partiti, sulle correnti dei partiti. In esso, dalla seconda metà degli anni ’ 80 in poi, emersero degenerazioni personali. Comunque, con l’adesione dell’Italia al trattato di Maastricht che costrinse “a calci” il capitalismo italiano a fare i conti con il mercato e la libera concorrenza (cosa che fino ad allora non aveva fatto) il sistema di Tangentopoli diventò chiaramente antieconomico (lo era anche prima ma esistevano meccanismi di compensazione quali il debito pubblico e specialmente le svalutazioni competitive, in genere decise di comune intesa fra la Fiat e Banca d’Italia) e doveva essere superato. Ora la via maestra di quel superamento–eliminazione avrebbe dovuto essere un’operazione consociativa, con un’intesa generale fra le forze politiche, quelle imprenditoriali, quelle giudiziarie, e magari concluso con un’amnistia. Le cose non andarono affatto così. L’ultima amnistia fu quella del 1989 che servì a salvare il Pci dalle conseguenze penali del finanziamento irregolare di derivazione sovietica. Negli anni ’ 90 i partiti, specie la Dc, il Psi, i partiti laici, ma per altro verso anche il Pci (che con il cambio del nome in Pds e il “superamento” del comunismo perse circa metà del suo elettorato) avevano perso vivacità culturale e consenso. A quel punto, invece, si affermò nella magistratura la corrente più aggressiva e più ideologica, cioè Md, che teorizzava il ruolo sostanzialmente rivoluzionario del magistrato che, superando un’asettica e burocratica terzietà, avrebbe dovuto rimettere in questione gli equilibri economici e quelli politici. Questa teorizzazione trovò nel pool di Milano di Mani Pulite chi la cavalcò sul piano dell’esercizio della giurisdizione mettendo in essere un’operazione del tutto unilaterale, fondata su due pesi e due misure: nel caso della Dc, Mani Pulite arrivò addirittura a distinguere fra le correnti di centro–destra di quel partito che furono sostanzialmente distrutte ( chi non ricorda Forlani al processo Enimont, e poi, fuori da Milano, Andreotti alla sbarra per l’assassinio di Pecorelli e per il concorso con la mafia e Antonio Gava e Paolo Cirino Pomicino in carcere?) e invece la sinistra Dc, e sull’altro versante, il Pci–Pds, furono interamente salvati. A loro volta il Psi, il Psdi, il Pli, il Pri furono rasi al suolo. Quando l’unilateralità dell’operazione non era ancora chiara e sembrava che avrebbe colpito tutto e tutti, Achille Occhetto si precipitò alla Bolognina a “chiedere scusa agli italiani” perché conosceva bene il retroterra finanziario del Pci– Pds. Quella di Mani Pulite fu comunque un’operazione rivoluzionario– eversiva unica in Europa: fu l’unico caso nel quale ben 5 partiti di governo furono distrutti prima dai magistrati che dagli elettori. Lo strumento principale di questa operazione era la cosiddetta “sentenza anticipata”: se un dirigente politico viene raggiunto da un avviso di garanzia, enfatizzato da giornali e da televisioni, a quel punto egli perde totalmente il suo consenso elettorale. Se la stessa sentenza colpisce altri mille dirigenti di quel partito, è il partito nel suo complesso ad essere azzerato. Se poi, magari dopo cinque o sette anni, interviene la vera sentenza processuale ed è di assoluzione, i suoi effetti politici sono nulli. In seguito a Mani Pulite, dal ’ 92–’ 94 in poi, i rapporti fra politica e magistratura sono stati totalmente rovesciati. A “comandare” è chiaramente la seconda. A sancire quel cambio di equilibrio fu anche nel 1993 l’eliminazione di quell’immunità parlamentare che fu ideata dai costituenti proprio per bilanciare la totale autonomia di cui gode la magistratura italiana diversamente da altri ordinamenti. In un primo tempo il Pds fu l’utilizzatore passivo di quella unilateralità dell’azione della magistratura. Poi ne diventò il fruitore attivo. La storia, però, è paradossale. Il Pds di Occhetto, D’Alema, Veltroni credeva che grazie a Mani Pulite sarebbe arrivato sicuramente al potere. Di conseguenza la discesa in campo di Berlusconi fu un’amara sorpresa per il gruppo dirigente del Pds. Berlusconi da parte sua fece leva anche sul “nuovismo”, sul populismo e sull’antipolitica che Mani Pulite aveva suscitato. A quel punto, però, il giustizialismo fu esercitato dal Pds (e da tutto il circolo mediatico costituito da Repubblica, il Tg3, Samarcanda, poi Travaglio e Il Fatto) contro Berlusconi provocando una “guerra civile fredda” durata 20 anni. Anche in questo secondo caso, però, c’è stata un’altra amara sorpresa: quando Berlusconi è stato messo fuori gioco attraverso un’interpretazione retroattiva di una legge già di per sé assolutamente iniqua, qual è la Severino, il Pd di Bersani si è trovato di fronte ad un altro scherzo della storia: Forza Italia era stata messa fuori gioco, il centro– destra era in crisi ma a quel punto, a cavalcare fino in fondo la tigre e l’onda del giustizialismo e dell’antipolitica, è nata una forza integralmente protestataria, ultra– giustizialista e gestita con meccanismi di stampo autoritario da un comico– demagogo e dalla società di comunicazione della Casaleggio associati. Bisogna guardare anche all’altra faccia della medaglia: mentre a suo tempo Tangentopoli era un sistema fondato su grandi imprese e sui partiti in quanto tali, da dopo il ’ 92–’ 94 è avvenuta la parcellizzazione della corruzione, che si è fondata su una miriade di mini– catene o reti composte da singoli imprenditori, singoli alti burocrati, singoli politici, in qualche caso anche con singoli magistrati. Questa corruzione capillare è ciò che è avvenuto dopo il ’ 92–‘94 enfatizzando a dismisura il ruolo della magistratura con effetti sconvolgenti. Oggi anche gli apprendisti stregoni sono vittime di sé stessi e cioè anche i grillini sono ormai dominati dall’incubo dell’avviso di garanzia che per loro, è ancor più distruttivo perché finora, quando esso riguardava gli “altri” equivaleva ad una sentenza di terzo grado. Per concludere: le riflessioni del ministro Orlando e di Biagio De Giovanni costituiscono certamente un fatto positivo: non vorrei, però, che essi arrivino troppo tardi, quando già Davigo, non a caso eletto “a furor di popolo” presidente dell’Anm, si comporta come una sorta di super– commissario ad acta nei confronti del fallimento delle istituzioni della Repubblica, del Parlamento e dei parlamentari in primis, soggetti, questi ultimi, considerati dei delinquenti potenziali, da trattare nei dovuti modi.

Non sono i giudici a poter rendere l’Italia un Paese migliore. Assistiamo a un rapporto tra i poteri ormai molto diverso da quello stabilito dalla nostra Costituzione, scrive Giovanni Belardelli il 27 dicembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Le notizie degli ultimi giorni e settimane (le indagini sul ministro Lotti, quelle milanesi sul sindaco Sala, quelle romane su Marra e Muraro e presto — potrebbe essere — sulla stessa Virginia Raggi) confermano che ci troviamo di fronte a un’alterazione stabile, per certi aspetti definitiva, nei rapporti tra politica e giustizia. Dunque questa alterazione non era collegata se non in piccola parte alla discesa in campo di Berlusconi — come invece molti avevano a lungo ritenuto — visto che, anche adesso che il leader di Forza Italia ha un ruolo certamente secondario, continua a segnare la nostra vita collettiva. Caratterizza con ogni evidenza la vita politica, dove assistiamo a un rapporto tra i poteri ormai molto diverso da quello stabilito dalla nostra carta fondamentale. Nella costituzione materiale del Paese — cioè nell’assetto effettivo dei rapporti tra istituzioni e poteri dello Stato — è da tempo evidente infatti che il potere legislativo e quello esecutivo sono condizionati in modo consistente dalla magistratura nelle sue varie giurisdizioni. Questioni che ritenevamo di stretta competenza del governo e del Parlamento — dalla legge elettorale al sistema pensionistico, dalla chiusura di una fabbrica alle norme della «buona scuola» — sono spesso decise da una sentenza della Corte costituzionale o di un tribunale civile, penale, amministrativo. Non è solo la politica ma tutta la vita sociale a risentire di questa accresciuta presenza dell’ordine giudiziario. Negli ultimi anni gran parte del nostro diritto di famiglia — dalle norme sulla fecondazione assistita all’adozione del figlio del partner nelle coppie omosessuali — è stata modificata attraverso decisioni dei tribunali. La liceità di una cura medica, la possibilità di iscriversi all’università, i risultati di un concorso o l’effettività di una promozione: questo e molto altro dipende ormai, come è esperienza comune di tanti italiani, dalla sentenza di un tribunale. Non a caso qualche tempo fa Romano Prodi ha provocatoriamente proposto l’abolizione dei Tar e del Consiglio di Stato per favorire lo sviluppo economico, visto quanto il continuo ricorso alla giustizia amministrativa influisce negativamente sugli investimenti. Naturalmente occorre non dimenticare che un fenomeno del genere caratterizza gran parte delle democrazie contemporanee. Ma forse nel nostro Paese si presenta in modo accentuato. Anzitutto, è lo stesso apparente permanere di una diffusa corruzione politica a sollecitare il continuo intervento delle procure. Abbiamo poi troppe leggi, e troppo mal scritte, così da richiedere spesso l’intervento di un magistrato per chiarire come vadano interpretate e applicate. Ancora, abbiamo una classe politica poco capace o poco incline ad assumersi le proprie responsabilità e ad esercitare i propri poteri: sintomatica la vicenda delle leggi elettorali, in cui la politica chiede alla Corte costituzionale cosa deve e può fare. Ma il progressivo assorbimento della politica nel diritto, il condizionamento che le decisioni della magistratura esercitano sulla vita sociale, dipendono anche da altro, in particolare da una nuova concezione dei compiti della magistratura, soprattutto della magistratura penale, affermatasi nel corso degli ultimi decenni. Tale concezione le assegna come compito fondamentale non solo l’accertamento di, e la pronuncia su, singole ipotesi di reato, bensì un generale controllo di legalità. Il magistrato, dunque, non è tenuto a intervenire soltanto dopo aver ricevuto una notizia di reato, ma — ha scritto Luciano Violante riassumendo (e criticando) questa concezione — ha il compito di verificare «che la legalità non sia stata per caso violata». In questo modo l’ordine giudiziario viene potenzialmente investito — anche grazie al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, che nei fatti estende la discrezionalità della magistratura inquirente — di una funzione di supervisione sul complesso della vita politica e amministrativa. Bisogna dire che in questo la magistratura è stata fortemente sollecitata da una domanda proveniente dall’opinione pubblica, sempre più disgustata dalle cattive prove offerte dalla classe politica. È nata così, da questo doppio movimento, l’idea secondo cui la magistratura stessa sarebbe la grande tutrice della vita collettiva del Paese, il soggetto che dovrebbe renderlo migliore sotto il profilo dell’onestà e della moralità. Ma, a un quarto di secolo da Mani Pulite, i continui casi di corruzione politica, le continue testimonianze di scarso rispetto delle leggi in una parte significativa della società italiana, ci dicono che non possono essere i giudici a rendere un Paese migliore.

De Giovanni: «La politica distrutta dall’invadenza delle magistrature», scrive Errico Novi il 22 Dicembre 2016 su "Il Dubbio".  L’analisi del filosofo sul vuoto della democrazia e il predominio del potere giudiziario. Si può comprendere il mondo e ammettere di non riuscirci. Può farlo solo un grande filosofo. Biagio De Giovanni ha dalla sua non solo il pregio di entrare nella definizione, ma anche la luce di ottantacinque anni, compiuti ieri e segnati in gran parte dalla riflessione rigorosa e appassionata nello stesso tempo. Ne regala una sulla giustizia, e più precisamente sulla perdita di ogni equilibrio tra i poteri, la politica da una parte, «le Corti, le Alte Corti innanzitutto» dall’altra. Un intervento sul Mattino di sabato scorso mette in fila in un sol colpo l’urgenza di superare l’obbligatorietà dell’azione penale, l’ineludibilità della separazione delle carriere, l’impossibilità di contrastare il «populismo giustizialista». Il caso vuole che siano anche le battaglie in cui s’impegna con tutte le forze da anni l’avvocatura. Il professore di Dottrine politiche, ex europarlamentare del Pci e oggi appunto editorialista di Mattino e Corriere della Sera, individua nella «invadenza della giurisdizione» un fenomeno caratteristico della crisi e una concausa della perdita di autorevolezza delle élites. Nel giorno in cui compie ottantacinque anni, è facile chiedere a un filosofo come De Giovanni di fingere la resa di fronte al caos, per trovare molte risposte.

Anche la magistratura può temere una perdita di consenso? E dietro il ritorno a una invadenza della giurisdizione nei confronti della politica si nasconde anche un timore, tra i magistrati, di perdere popolarità?

«In prima battuta mi sentirei di respingere l’ipotesi. C’è sfiducia, scetticismo, disincanto e rifiuto in una forma così violenta nei confronti delle élites politiche che non si riesce a scorgere qualcosa di analogo che riguardi la magistratura. E anzi l’impressione è che mai come adesso l’azione dei magistrati si dispieghi a tutto campo, dalla frittura di pesce a fatti più consistenti. È un’invadenza che non ha precedenti, e che certo si inserisce in un processo iniziato con Mani pulite, passaggio che ha alterato la fisionomia stessa del rapporto tra poteri».

Capita però che alcune sentenze non soddisfino appieno l’attesa alimentata dal “populismo giustizialista”: a Roma una condanna a 20 anni anziché all’ergastolo, per un omicidio, ha scatenato un putiferio in aula, solo qualche giorno fa.

«I casi estremi si verificano. Resta fermo un punto: sono le cosiddette élites politiche dominanti ad essere travolte da quella tendenza del senso comune che faticosamente continuiamo a individuare come populismo giustizialista. Renzi era leader da appena 3 anni eppure, come ho detto dopo l’esito del referendum, è stato interpretato come nuova casta. La vecchia, per converso, è diventata vergine, da De Mita a D’Alema. Ma c’è qualcosa di vero anche nel dissolversi della fiducia nei magistrati: oggi persino il giudizio penale si muove nell’incertezza della decisione. Prima si condanna, poi si assolve, sembra divenuta impalpabile persino la certezza del diritto. Anche questo canone delle vecchie società è crollato».

Non esiste insomma un potere che regga, in questa destrutturazione.

«È possibile che la sfiducia nella magistratura ci sia in una forma più indiretta. Il dispregio verso l’élite politica resta però l’aspetto decisivo del nuovo ordine mondiale, chiamiamolo così, che si va delineando. Una tenuta si registra forse in Germania dove il sistema ha una forza formidabile, ma persino negli Stati Uniti capita che Hillary, ritenuta espressione dell’establishment, ceda a Trump, che non è nessuno, un uomo d’affari, eppure 60 milioni di persone nel Paese più potente al mondo l’hanno votato».

Si delegittima la politica: ma così il potere scivola nelle mani di altri soggetti, le élites finanziarie per esempio.

«Non c’è dubbio. Nel 2008 abbiamo assistito a una prima grande crisi della globalizzazione, di natura finanziaria, ora siamo nel pieno di nuova crisi, politica. E una fenomenologia di questa fase è l’invadenza delle giurisdizioni».

Qual è il meccanismo preciso che spalanca le porte a questa invadenza?

«Nessuno è in grado di governare la complessità del mondo ed emergono poteri indiretti, non legittimati. Nell’intervento apparso la settimana scorsa sul Mattino segnalo anche il predominio delle Alte Corti sui Parlamenti. Che può sembrare un grande fatto di civiltà, e in parte lo è: ma se una Corte costituzionale prevarica il potere legislativo, si arriva alla distruzione dell’autonomia della politica».

Lei sostiene che si tratta di un pericolo sottovalutato.

«Siamo su un crinale che visto nel suo insieme deve necessariamente preoccupare, e molto. Nello specifico si tratta di un tema delicatissimo, di cui si parla con frequenza nel resto d’Europa ma non in Italia, per timore che il solo accenno possa fraintendersi come volontà di intaccare le prerogative della Corte costituzionale».

La causa decisiva di questo squilibrio è nella perdita di autorevolezza della politica?

«Sicuramente, e temo si tratti di uno squilibrio non rimediabile a breve».

Perché?

«La delegittimazione della politica innesca un circolo vizioso che peggiora la qualità della classe dirigente e induce ulteriore delegittimazione. È veramente difficile che ora come ora una persona di spessore si impegni in un ruolo politico o amministrativo, sapendo che al primo stormir di foglie l’obbligatorietà dell’azione penale entra in campo, e arrivano i pm, e arriva la Guardia di finanza… Non è che voglio sottovalutare il grado di degenerazione corruttiva che c’è in Italia, non è questo il punto, ma se i pm oltrepassano ogni confine, mi domando chi ancora possa decidere di mettersi in politica, se non un disperato in cerca di lavoro, per non dire di peggio. Chi è che si va a impegnare in un’attività amministrativa, in condizioni simili? È un pasticcio gigantesco, siamo di fronte a un caos difficile da descrivere, figurarsi a volerlo dominare».

Non è che i cosiddetti privilegi della casta, dai vitalizi alle immunità, sono in fondo garanzie a tutela di chi nel dedicarsi alla politica mette a rischio il proprio ruolo sociale?

«Non c’è dubbio che sia così. E aggiungo: nel Parlamento di oggi c’è ben poco che corrisponda alla condizione di un’assemblea elettiva nazionale, i deputati sono cani sciolti, non sopravvive più alcuna struttura mediana che garantisca l’effettiva espressione della sovranità popolare. E a proposito di garanzie, fino ai primi anni Novanta era necessario ricorressero condizioni davvero molto particolari perché un’assemblea parlamentare potesse perdere un proprio componente. Il che non aveva a che vedere con un privilegio abusivamente autoassegnato da una casta di impostori, ma con il fatto appunto che il Parlamento è espressione del popolo sovrano, e in quanto tale la sua collocazione è sacra, va tutelata, fino a un certo limite che sia in armonia con lo Stato di diritto. Ma sfido a dire che le norme sull’immunità non lo fossero».

Lei ha scritto: “La politica diventa qualcosa in cui si preferisce non immischiarsi, sempre più abbandonata dai migliori”. Oltre all’invadenza della giurisdizione, c’entra anche la retorica anti- casta?

«È un’ulteriore elemento che mette in discussione la qualità della classe dirigente. Intendiamoci: il fenomeno di cui parliamo non esiste solo in Italia, segna l’intero Occidente, come ricordato a proposito di Trump, anche se da noi assume un carattere di gravità eccezionale. Il tratto generale della crisi delle élites politiche, che si vede non solo in Italia, è nell’impossibilità di cogliere un punto di mediazione tra globalismo sovranazionale, cosmopolita, da una parte, e le appartenenze, le identità, dall’altra».

In che modo questo spaesamento ci porta alla crisi della rappresentanza?

«Innanzitutto è in questo vuoto che si accresce il peso di poteri diversi, da quello finanziario al potere giudiziario. Ma la risposta in sintesi è nel caso a noi più vicino: l’Europa si è dimostrata incapace di governare la complessità della crisi finanziaria e politica che si è affacciata nel 2008. Noi non possiamo limitarci a descrivere con tono disgustato i critici delle élites, dobbiamo anche criticare le élites stesse. Non possiamo ignorare cioè le ragioni del cosiddetto populismo, lo scollamento complessivo tra governanti e governati. Non è che tutto sia riducibile alla cattiveria o alla superficialità di chi alimenta la propaganda antisistema: è impossibile negare il fatto che non ci sia una cultura politica in grado di governare la complessità di questa crisi».

Il che non è un giudizio opinabile: è un fatto.

«Be’, abbiamo davanti un’intera generazione distrutta. E appunto non è che si può risolvere tutto con il dito puntato contro i populisti brutti, sporchi, cattivi e urlanti. Dentro quel buio ci sono delle ragioni, non è che nasce dal nulla. Nasce dal fatto che nessuno, tantomeno le élites, riesce a trovare le passerelle di passaggio dallo Stato nazionale alla dimensione sovranazionale».

Lei sul Mattino individua l’urgenza di una riforma della giustizia, e precisamente due passaggi: superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale e separazione delle carriere. La prima delle due questioni non sarebbe perfetta, come terreno di incontro tra politica e magistratura per una riforma, diciamo, concordata dell’ordinamento giudiziario?

«E sì che lo sarebbe, naturalmente, ma abbia pazienza: davvero possiamo pensare che ci sia una politica così autorevole da poter sollevare il tema dell’obbligatorietà dell’azione penale? Prendiamo ad esempio il governo appena sconfitto dal referendum, che pure qualcosa provava a farlo, ma che proprio sulla giustizia non è riuscito a muovere alcuna delle questioni decisive di cui parliamo. Penso al ministro, Andrea Orlando, a questo giovane pure così dinamico, che è riuscito a fare dei passi significativi su un tema difficile come il carcere: ecco, come mai anche lui su punti come obbligatorietà dell’azione penale e separazione delle carriere non ha detto niente per tre anni?»

Ha detto, per essere precisi, che non c’erano assolutamente le condizioni minime perché si potesse anche solo discutere di temi del genere.

«Appunto: alludeva evidentemente al fatto che se ci avesse provato avrebbero subito detto ‘ecco gli amici dei corrotti stanno provando a derubricare l’obbligatorietà dell’azione penale’. Non è che si sarebbe riconosciuta la necessità di razionalizzare l’arbitrio».

Non c’è margine di discussione, nel senso comune si è diffuso un riflesso condizionato che stronca in radice ogni tentativo su questo fronte.

«Nessuno vuol negare il rischio che superare l’obbligatorietà schiuda il rischio di un controllo della giurisdizione da parte dell’esecutivo, come avviene in Francia: eppure deve esserci una diga al potere assoluto dei pubblici ministeri. Qui a Napoli è girata la notizia di una misura chiesta dalla Procura, e negata dal gip, in cui l’accusa di corruzione si basava sul fatto che l’indagato offrisse spesso alla controparte caffè e cappuccini».

Considerare corruttivo il pagamento di un caffè a Napoli è oggettivamente una bestemmia, senza dover scomodare Luciano De Crescenzo.

«Nel ridicolo farsa e tragedia si mescolano sempre».

Figurarsi se esiste un margine per discutere di separazione delle carriere.

«Non c’è possibilità. Dovremmo trovarci con una classe dirigente politica talmente autorevole, dotata di una tale legittimazione da essere in grado di sfidare anche l’ordalia che verrebbe inevitabilmente scatenata dall’Associazione nazionale magistrati. La quale arriverebbe a forme di contestazione estrema, allo sciopero, iniziative gravi che un ordine giudiziario non si dovrebbe consentire. Ecco, possiamo dire che quando ci troveremo con una classe politica in grado di inoltrarsi su un terreno così accidentato allora potremo dire di essere usciti dalla crisi».

Sangermano: «Noi giudici non siamo maestri di morale», scrive Errico Novi il 24 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". «No alla supplenza della magistratura: comprometterebbe la legittimazione del sistema”. Un magistrato sa di non avere strumenti per rimediare alla «debolezza della politica», come la definisce il dottor Antonio Sangermano. Sa di non potersi neppure sostituire al legislatore. Eppure il componente del direttivo Anm e sostituto procuratore a Prato – casa sua e destinazione gradita dopo gli anni a Milano in cui tra l’altro è stato pm al processo Ruby – prova a «proporre una riflessione anche su quello che è inevitabilmente il tema del giorno, l’immigrazione, e su una misura dolorosa, innanzitutto da punto di vista morale e religioso: arrivare a espulsioni immediatamente efficaci per gli immigrati che hanno commesso reati sul territorio nazionale. Lungi dal pretendere di indicare un dispositivo di legge: è una riflessione, punto». Certo un’analisi, per Sangermano, è doverosa anche a proposito della perdita di consenso sofferta dalla politica, che non si risolve con una supplenza da parte dell’ordine giudiziario. E anzi, «se la magistratura si sostituisse alla politica farebbe un danno innanzitutto a se stessa».

Partiamo da qui allora: mai come adesso la politica è al fondo dell’indice di gradimento, e voi magistrati vi rendete conto ancora meglio, forse, che non potete sostituirla: è così?

«Credo che la magistratura non debba fare da supplente, vorrei chiarirlo subito. Il magistrato ha interesse a che la politica sia forte e autorevole e nello stesso tempo rispetti l’autonomia e indipendenza dei giudici. Se assumiamo un ruolo di supplenti, indeboliamo lo stesso ordine giudiziario».

Perché, esattamente?

«Una supplenza dei magistrati certifica il fallimento dello Stato, attribuisce loro un funzione in assenza di legittimazione democratica. Anche se processi del genere non si attivano per volontà espansiva, rappresentano comunque una delegittimazione del sistema: la magistratura è un potere dello Stato, si fortifica quanto più solida è la legittimazione del sistema nel suo complesso».

D’accordo, ma allora Mani pulite come si colloca in questa sua condivisibilissima analisi? 

«Premessa: considero Mani pulite un momento di riscatto nazionale al pari del Risorgimento e della Resistenza, in ufficio ho la foto del Pool. Il punto è che se un potere viene meno ai suoi compiti, se nello specifico è un’intera classe politica a venir meno, la magistratura deve fare il proprio dovere. In un caso come quello di Mani pulite può verificarsi che la notevole quantità degli illeciti faccia apparire l’azione giudiziaria come il processo a un fenomeno. Ma è solo la diffusività del fenomeno a creare la percezione. D’altronde gli effetti che ne derivano tornano a un certo punto nel do- minio della politica, come avvenne dopo il ’ 92-’ 93, quando il vuoto creatosi favorì l’affermarsi di nuovi soggetti come il partito di Berlusconi».

Senza volerla indurre a sostituirsi al legislatore, il tema dell’immigrazione va affrontato semplicemente con una rigorosa distinzione tra chi ha diritto all’asilo e i migranti economici?

«No, temo di no. Che l’accoglienza sia la soluzione più consentanea ai principi di moralità ed etica non c’è dubbio. Sono contrario ai respingimenti in mare: ma l’aspirazione etica va coniugata con i dati di realtà, il che vuol dire riconoscere che un’accoglienza indiscriminata crea un’effettiva insicurezza sociale».

E qual è il punto di equilibrio?

«L’integrazione deve coniugarsi a dei doveri, il primo dei quali è il rispetto della legalità. Ora, se prendiamo i curricula di chi in questi mesi si è reso responsabile di stragi in Paesi europei, sarà difficile trovarne uno che non abbia precedenti per reati commessi in quegli stessi Paesi o in altri del Vecchio Continente. Ecco perché dovremmo riflettere sull’opportunità di rendere obbligatoria e non più facoltativa l’espulsione di chi commette reati sul territorio nazionale».

Si dovrebbe attendere la condanna definitiva?

«No, d’altronde la norma vigente già prevede la possibilità di espellere all’esito di un primo accertamento del reato. Va fatta attenzione a possibili profili di incostituzionalità o di incompatibilità con il diritto europeo. E so che l’obbligatorietà e l’effettività manu militari delle espulsioni va ad impattare con aspetti delicatissimi come i ricongiungimenti familiari. Ma credo si debba riservare una particolare attenzione al profilo della sicurezza. Non v’è dubbio che il legislatore dovrebbe trovare una forma normativa il più possibile umanizzata. Così come si dovrebbe tener conto del fatto che non c’è solo il terrorismo, ma anche il caso di chi reitera sul territorio nazionale reati di altra natura».

Le espulsioni pongono il problema dei Paesi d’origine, spesso poco collaborativi, in materia.

«Però ad esempio il Paese d’origine di Anis Amri, la Tunisia, se li riprende».

Da componente del direttivo Anm, condivide le critiche aspre rivolte dal vostro presidente Davigo ai partiti, responsabili a suo giudizio di non allontanare subito chi è accusato di corruzione?

«Ho un grande rispetto per il presidente Davigo. È una persona di rara cultura e di garbo esemplare, ma non concordo con lui su tutto. La politica ha il dovere di vigilare al proprio interno e ha senso ricordarlo, ma senza che questo appaia come una sorta di monito morale. A noi spetta accertare i reati. Possiamo suggerire soluzioni ma senza che sembrino la scure di Danton».

Certo Davigo ha grande visibilità: potrebbe convenire all’Anm prorogare la sua presidenza?

«Credo che Davigo sia un ottimo presidente. E che la sua visibilità mediatica giovi all’intera magistratura, perché consente di far affiorare giuste rivendicazioni. Nel corso di quest’anno abbiamo ottenuto risultati, e mi lasci dire che questo credo dipenda anche dall’impegno della mia componente, Unicost, servito a smussare posizioni talvolta non condivisibili. Davigo ha avuto grande intelligenza politica nell’incontro con Renzi di fine ottobre: credo che nella misura in cui saprà portare a sintesi le diverse anime dell’Anm sarà un ottimo presidente, non lo sarà se prevalesse un’inclinazione al protagonismo».

Ma potrà restare presidente anche oltre aprile?

«L’accordo fissa quella scadenza e non penso che lui abbia intenzione di andare oltre, ha già pubblicamente dichiarato di non vedere l’ora di concludere il mandato».

È vero che molti giudici si lamentano dei criteri seguiti dal Csm nell’assegnare gli incarichi, e che sarebbe necessario chiarirli?

«Guardi, in questa consiliatura l’organo di autogoverno ha predisposto un testo unico che definisce le regole per l’attribuzione di direttivi e semidirettivi: la trovo una conquista storica. In precedenza la progressione di carriera avveniva per mera assenza di demerito, si è stabilito che invece deve basarsi sul merito. È il Csm che ha titolo a fare le valutazioni: poi certo, il testo unico deve completare una fase di rodaggio, ma al Consiglio superiore si deve dare atto della scelta innovativa. E personalmente credo che non si dovrebbe mai delegittimare il Csm: in questi anni ha assicurato davvero l’autonomia e l’indipendenza di noi magistrati».

Piercamillo Davigo: «A 25 anni da Mani Pulite, l’Italia è ancora più corrotta». Il leader dell’Anm: il codice penale è uno spaventapasseri, in cella vanno solo gli sciocchi. «Il giudice è messo nella condizione di dover scegliere tra rispettare la legge rinunciando a fare giustizia o tentare di fare giustizia forzando la legge», scrive Giuseppe Guastella il 12 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo (foto sopra), ha partecipato ad un forum al Corriere della Sera con il vice direttore Giampaolo Tucci e con i giornalisti Marco Ascione, Giovanni Bianconi, Luigi Ferrarella, Mario Gerevini, Giuseppe Guastella e Fiorenza Sarzanini. Argomento del dibattito, che si è svolto nella redazione di via Solferino a Milano, il pianeta giustizia a 25 anni dall’inizio dell’inchiesta Mani pulite e in occasione dell’uscita del libro «Il sistema della corruzione» (Editori Laterza) scritto dall’ex pm del pool Mani pulite, ora presidente di sezione in Cassazione. 

A 25 anni da Mani pulite, in Italia è cambiato poco o nulla?

«È drammatico quanto poco sia cambiata la situazione e quanto sulla corruzione peggiori la deriva dell’Italia nel panorama internazionale».

Un Paese corrotto?

«A livelli diversi, finalità e modalità diverse. È un Paese che sta morendo. C’è sfiducia, la gente non va più a votare, espatria».

Ci vuole una rivoluzione culturale?

«Bisogna cominciare dalla scuola».

Migliore l’Italia degli anni di Mani pulite?

«L’effetto domino non fu innescato da un sussulto di coscienza civile, ma dal fatto che erano finiti i soldi».

Lei sostiene che per la corruzione ci vorrebbe un doppio binario, come per la mafia.

«Bisognerebbe introdurre alcune delle norme che valgono per i mafiosi».

Ad esempio?

«Un sistema premiale forte e serio e le operazioni sotto copertura».

La corruzione spesso è alimentata da fondi neri esteri, sempre più difficili da aggredire. 

«È un problema internazionale. L’assistenza giudiziaria internazionale è un relitto ottocentesco che richiede tempi talmente lunghi, incompatibili con la durata di un processo».

Corruzione «Simonia secolarizzata». Cioè?

«Nella Chiesa c’è il sacerdote che vende cose sacre, nello stato c’è il funzionario pubblico che vende le cose che per lui dovrebbero essere sacre, perché ha giurato fedeltà alla Repubblica».

Il pool Mani pulite ha fatto errori? 

«Secondo me, no. Ha fatto quello che poteva. Se non ci avessero cambiato le leggi a partita in corso, saremmo andati avanti. Molte leggi possono avere su il nome dell’imputato».

Forse fino a un’epoca determinata. 

«Sì, poi è cambiata la maggioranza e da allora le fanno più sofisticate. Ad esempio, la legge Severino non contrasta la corruzione ma è stata gabellata per una legge che la contrasta».

Monti, il premier di allora, non era sospettabile di essere vicino ai corrotti.

«Quella legge l’ha fatta il Parlamento. Ricordo che il ministro della Giustizia rispose alle obiezioni: “Era il massimo che si potesse fare in quel momento con quelle Camere”».

I vostri rappresentanti dissero che era una buona legge, come nel caso di quella sull’autoriciclaggio. C’è anche un problema vostro? 

«Certo che c’è anche un problema della magistratura, ma cerchiamo di capirci, gioca anche molto il modo di fare leggi dovuto all’incompetenza della pubblica amministrazione che, purtroppo, non è più quella di cento fa, fatta di funzionari competenti e con il senso dello Stato. Quando ho incontrato la prima volta il ministro Orlando, gli ho fatto presente che la depenalizzazione che avevano fatto non serviva a niente perché toglieva solo le briciole ma alcuni reati depenalizzati avevano l’effetto non di ridurre il carico di lavoro, ma di aumentarlo. Mi rispose che l’Anm aveva dato parere favorevole, io gli dissi che non sarebbe accaduto più perché avevamo costituito delle commissioni interne».

Ha un giudizio molto negativo sui politici.

«Ce ne sono anche perbene, ma i meccanismi talvolta favoriscono il malaffare».

Cosa ne pensa di chi, come i 5 Stelle, ha introdotto codici interni legati alle inchieste? 

«La politica non deve agganciarsi ad atti formali nel giudizio, ma a una valutazione autonoma dei fatti. Si può cacciare uno che è innocente o tenerlo se è colpevole. Sono due valutazione diverse, una è politica, l’altra di giustizia».

Non si introduce così un’inversione del principio di non colpevolezza?

«Non è così. Molte volte non c’è bisogno di aspettare la sentenza per far scattare la responsabilità politica, ma in questo Paese non avviene mai, neanche di fronte ai casi evidenti».

Prendiamo il caso di Roma e della sindaca Raggi, è un caso controverso.

«Premesso che non parlo dei procedimenti in corso, in qualche caso la politica può dire “aspetto di vedere come va finire” o “mi sono fatto un’idea”, ma non può dire sempre “aspettiamo le sentenze”. Significa caricare sulla decisione del giudice la selezione della classe politica».

I politici dovrebbero darsi codici di comportamento?

«Secondo me sì. Basta anche il buonsenso».

Non c’è il rischio di finire nel moralismo? 

«Se mi mandano in udienza con un collega che si è saputo che ruba, io non vado perché chi ci vede pensa che siamo uguali. Io non rubo».

L’Anm accoglie pm e giudici. Non le sembra forte dire che il codice di procedura penale è fatto per farla fare franca ai farabutti?

«Il nostro giudice è vincolato da un sistema di inutilizzabilità sconfortante perché una prova acquisita, valida nei confronti di un imputato, diventa inutilizzabile per un altro se è stata acquisita a termini delle indagini preliminari scaduti. Il giudice è messo nella condizione di dover scegliere tra rispettare la legge rinunciando a fare giustizia o tentare di fare giustizia forzando la legge. È inaccettabile. E allora è normale che uno venga arrestato e poi assolto. Se non volevano questo non dovevano scrive il codice così, oppure dovevano dirci di non arrestare più».

Riporta una frase del generale Dalla Chiesa che diceva: che c’è chi parla di manette facili e chi di ingiustizia che assolve. Ingiustizia?

«L’ingiustizia può essere nella legge oltre che negli uomini, se la legge è contraria al senso comune di giustizia, e molte delle norme che applichiamo lo sono. Ora la minaccia del carcere non è credibile perché il codice penale è uno spaventapasseri, da lontano fa paura, quando ci si avvicina appare innocuo. In galera ci va chi è così sciocco da farsi arrestare in flagranza e gli appartenenti alla criminalità organizzata. Gli altri in media ci vanno di meno».

Lei è un giudice, un suo imputato potrebbe avere difficoltà leggendo: «Ne prendiamo pochi e quando li prendiamo vengono condannati a pene esigue che non vengono fatte scontare».

«Nel nostro sistema il rispetto delle regole formali, che il più delle volte non hanno nessuna utilità, vanifica la ricostruzione storica dei fatti. A un certo punto ho lasciato la Procura per fare il giudice in appello, volevo capire come mai le sentenze venissero quasi sempre riformate. Ho visto che era vero quello che mi aveva insegnato un anziano magistrato che diceva che i giudici del tribunale sono come i padri, severi quando è necessario, quelli della Corte d’appello come i nonni, di regola rovinano i nipoti. Dato che su cento ricorsi in appello, 98 sono degli imputati condannati, si cominciano a vedere i problemi solo con una certa ottica e spesso è impossibile resistere alla tentazione di ridurre le pene. Bisognerebbe cambiare anche l’appello».

Solo carcere? E l’esecuzione esterna? 

«Dipende dai reati e dal tipo degli imputati».

E stato mai tentato di forzare le regole?

«No. Le ho sempre rispettate, e anche quando ero convinto che l’imputato fosse colpevole l’ho assolto se la prova era inutilizzabile, pensando che era un mascalzone che l’aveva fatta franca».

Un sistema che protegge l’impunità? 

«In un sistema ben ordinato, un innocente non deve essere assolto, non deve neppure andare a giudizio perché per lui il processo è una tragedia. I filtri dovrebbero essere all’inizio».

Qual è la priorità? 

«La depenalizzazione. Il problema della giustizia è il numero dei processi. O abbiamo il coraggio di dire che va drasticamente ridotto o non se ne uscirà mai. Nel penale basta intervenire con una massiccia depenalizzazione e introdurre meccanismi di deterrenza delle impugnazioni, quelli che ci sono, sono risibili».

La politica invece va su una strada diversa e introduce nuovi reati come l’omicidio stradale. 

«Cose prive di senso. Per l’omicidio stradale la pena è talmente alta che tra un po’ a qualcuno converrà dire che voleva ammazzare per rispondere di omicidio volontario».

Che ne dice dei suoi colleghi dell’Anm dell’Emilia Romagna dopo il comunicato sulla decisione del Tribunale del riesame?

«Non lo conosco, non posso sapere tutto».

È stata trovata la decisione di un collegio prima dell’udienza. L’Anm locale ha detto che poi altri giudici hanno confermato la decisione dei primi che si erano astenuti...

«Bisogna distinguere l’ipocrisia dal malcostume. Un giudice diligente non potendo ricordare a memoria decine di processi al giorno, si appunta lo studio che fa. L’ho sempre fatto, ma non firmo gli appunti e non li metto nel fascicolo».

E allora, a cosa serve la discussione?

«Si può cambiare la decisione».

Lei lo fa?

«Quando un avvocato dice cose che non avevo notato, raro, o che mi convincono, cambio opinione perché solo gli imbecilli non lo fanno».

Trump, il giudice e Davigo a piede libero, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 05/02/2017, su "Il Giornale". Un giudice americano, James Robart, ha annullato il decreto di Donald Trump che blocca l'ingresso negli Stati Uniti di cittadini provenienti da sette Paesi sospettati di complicità con il terrorismo islamico. È il primo braccio di ferro tra il potere giudiziario e il neopresidente che non demorde e parla di «decisione ridicola di un cosiddetto giudice che sarà presto ribaltata». Come andrà a finire lo vedremo, ma è comunque bello vedere che il detentore del potere esecutivo non si faccia intimorire e alzi la voce di fronte allo sconfinamento del potere giudiziario, che le leggi le deve applicare e non contestare, quest'ultimo compito - nei sistemi democratici - spetta al Parlamento e alla Corte costituzionale. La sindrome di onnipotenza dei magistrati è purtroppo cosa a noi nota. La differenza con quello che sta succedendo in America è che dalle nostre parti nessuno osa contrastarla a dovere. La politica si è arresa ed è di fatto commissariata dalle toghe. Non dico un Trump, ma mi sarei aspettato, per esempio, un sussulto di fronte alle parole pronunciate l'altra sera a Porta a Porta da Piercamillo Davigo, noto manettaro di Mani pulite e oggi presidente dell'Associazione nazionale magistrati. Di fronte a un allibito Bruno Vespa, ha sostenuto che un imputato assolto non è un innocente ma solo un colpevole che l'ha fatta franca e che gli errori giudiziari non sono colpa dei giudici ma degli inquirenti, cioè polizia e carabinieri, che non sanno fare il loro lavoro e che «estorcono false confessioni con la forza e a volte la tortura». Detto alla Marchese del Grillo: «Noi siamo noi e tutti voi non siete un cazzo». C'è chi si chiede: chi ci difenderà da Trump? Io sono molto più preoccupato perché non vedo nessuno che difenda noi e la democrazia da Piercamillo Davigo. Pensavo che finita la trasmissione fosse caricato su una ambulanza e sottoposto a un trattamento sanitario obbligatorio. Mi dicono invece che l'uomo è a piede libero e che continua a fare il capo dei magistrati, senza che nessuno abbia da eccepire. Forse è proprio vero che i colpevoli a volte la fanno franca, Davigo ne è la prova. E siccome nessuno ha il coraggio di dirglielo, ci provo io: si vergogni, signor presidente, e comunque si ricordi che «noi siamo noi» e il «nessuno» è lei.

Gli avvocati in rivolta contro Davigo (Anm): "Democrazia in pericolo". Appello dell'Associazione Italiana Giovani Avvocati alle istituzioni: stop alla deriva giustizialista, scrive Orlando Sacchelli, Giovedì 09/02/2017, su "Il Giornale". Nel corso degli anni Piercamillo Davigo ha rilasciato alcune dichiarazioni che denotano il suo modo di concepire la giustizia. Vediamone alcune: «Non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti»; «Se la giustizia perde di severità ed efficienza è a causa dell'elevato numero di avvocati»; «L'errore giudiziario non esiste: sono i testimoni che, mentendo, traggono in inganno il giudice. Il giudice non sbaglia»; «Non esistono nemmeno le ingiuste detenzioni: la colpa è del nostro ordinamento che non consente l'utilizzabilità nel dibattimento delle dichiarazioni assunte nella fase delle indagini preliminari». Ovviamente ciascuna frase va contestualizzata, perché estrapolata dal discorso in cui è stata pronunciata può avere un significato diverso da quello voluto. Però, si sa, le parole pesano. Specie se a pronunciarle è un magistrato. E il crescente attivismo mediatico di Davigo, in qualità di presidente dell'Associazione nazionale magistrati, non poteva di certo passare inosservato. E infatti provoca le proteste dei legali, controparti naturali dei pubblici ministeri. «Il crescendo delle esternazioni del dottor Davigo - dichiara l'avvocato Michele Vaira, presidente dell'Aiga (Associazione italiana giovani avvocati) - inizialmente derubricate dalla maggior parte degli osservatori a mere provocazioni retoriche di un singolo, sebbene autorevole, esponente della magistratura, comincia a preoccupare». Cerchiamo di capirne di più. «Rese in rappresentanza del 90% dei magistrati italiani osserva Vaira - mettono in discussione non solo i principali punti fermi segnati in secoli di progresso giuridico, ma le stesse fondamenta della nostra architettura costituzionale e delle più importanti convenzioni internazionali». In altre parole sono a rischio «la presunzione di innocenza, il diritto di (e alla) difesa e il contraddittorio nella formazione della prova». Preoccupa inoltre un altro aspetto. «Da quando Davigo ha assunto la presidenza dell'Anm denuncia Vaira - non una voce di dissenso si è levata da parte di alcuna componente dell'ordinamento giudiziario». Vuol dire che le tesi di Davigo coincidono con la visione che la magistratura italiana ha del processo e dei diritti fondamentali della persona? «Se così fosse - puntualizza il presidente dell'Aiga - saremmo in presenza di una vera e propria emergenza democratica». Una cosa è certa: le affermazioni di Davigo suscitano quasi sempre un notevole clamore mediatico, alimentato dalla forte esposizione del presidente di Anm sugli organi di stampa. Ciò per Vaira comporta un rischio enorme: «Che le stesse contribuiscano a formare un'opinione pubblica insensibile al rispetto dei fondamentali diritti della persona umana». E visto che Davigo ricopre anche la carica di presidente di sezione della Corte di cassazione, osserva Vaira, ciò «contribuisce ad aumentare lo sconcerto e la preoccupazione per le sue argomentazioni». Il quadro è indubbiamente allarmante. I giovani avvocati sollecitano le massime istituzioni politiche (nella persona del ministro della Giustizia), giudiziarie (il vice presidente del Csm) e forensi (presidente del Consiglio nazionale forense) ad una «immediata ed inequivoca presa di posizione, con l'obiettivo di porre un argine (prima di tutto culturale) alla deriva giustizialista insita nella teorizzazione da parte del presidente dell'Anm di principi in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo e con la Costituzione della Repubblica italiana». Le istituzioni chiamate in causa dai giovani avvocati interverranno, in qualche modo, per rispondere a questa grave denuncia?

Quando Beppe Grillo creò la politica del vaffa: l'intervista del 1992 è il suo vero manifesto. I partiti? Nuovi o vecchi, fanno schifo. La gente? Stordita dalla tv. La satira? Non serve a nulla. In questo colloquio con l'Espresso allo scoppio di Tangentopoli, il comico enunciava la sua teoria sull'efficacia del fanculare politici e gente comune. Una testimonianza che letta oggi assume un sapore tutto diverso, scrive Roberto Gatti il 16 febbraio 2017 su “L’Espresso”. Lo spettacolo è appena terminato, e Beppe Grillo, madido di sudore, elegantissimo nel suo doppiopetto Armani «identico a quello di Michele Santoro, ma io sono di famiglia ricca» - se ne sta in piedi nel suo camerino piccolissimo e affollatissimo, a bere acqua minerale e a esternare in totale libertà. È un Grillo furioso, quello che ci si para davanti. Ha appena finito di "fanculare" mezzo mondo, da Vittorio Sgarbi al ministro Francesco De Lorenzo, da Licio GeIIi a Maurizio Costanzo: e ora, non contento, se la prende con un paio di malcapitati ambientalisti, che non gli hanno perdonato le battutine ironiche lanciate all'indirizzo di Fulco Pratesi, l'ex presidente del Wwf Italia. Reo di aver fatto da testimoniai all'American Express, e di aver quindi contribuito a incrementare il tasso di inquinamento atmosferico: «Perché per ogni spesa fatta con la carta di credito ti danno in dotazione tre foglietti di carta, che poi vengono bruciati e creano pulviscolo atmosferico, che poi ricade in mare e viene mangiato dai pesci, che vengono poi mangiati da noi, nei ristoranti alla moda. Come siamo intelligenti: ci mangiamo le nostre carte di credito a 50 mila lire il chilo...». Questo Grillo furioso, lontano le mille miglia dal comico giovialone del "Te la do io l'America", ma anche dal Grillo rabbioso che spara dalla tv contro Bettino Craxi e Pietro Longo, ha appena finito di fare il pieno allo Smeraldo di Milano e si appresta a rifarlo al teatro Olimpico di Roma, dal 9 al 18 marzo prossimi. Sempre da solo, con l'unico sostegno di un telefono amplificato e di una linea verde, con i quali entra in contatto con mezza Italia: un po' per dialogare amabilmente con il suo interlocutore di turno, più spesso per "fancularli" di brutto. In questo aiutato, con enorme entusiasmo, dal pubblico presente in sala: che non vede l'ora di urlare tutta la sua rabbia in faccia al nemico di turno. Quasi si fosse accorto che ormai dopo la protesta urlata, dopo i graffi sanguinosi della satira politica non resti altro che l'insulto. Grazie all'efficacia di un usatissimo trisillabo.

La pagina dell'intervista a Grillo, sull'Espresso del 1992.

Signor Grillo, partiamo dai "fanculo" che ogni sera spara a raffica: non le sembrano un mezzo un po' volgare per scatenare l'ilarità della gente?

«Ma quale volgare... Volgare non sono io, che dico "figa, cazzo, culo" quando il senso della frase lo richiede. Volgare è la Sampò, che chiama "cappuccetto" il preservativo, e pensa così di essersi salvata la faccia: e allora io la mando affanculo. Ancora. C'è gente che mi chiama al telefono in teatro, e ha il cervello talmente spappolato dalla televisione che mica mi chiede come sto; mi chiede: "sono in diretta?". E io, questa gente qua, non dovrei fancularla? Ma mi faccia il piacere...».

Non è un po' troppo facile, però, prendersela con gli Sgarbi e con i Ferrara, e lasciare in ombra i nemici veri, i politici corrotti, i mafiosi, i disonesti?

«Guardi, in tanti prima sparano l'apprezzamento, dicono che sei geniale e che hai trovato il modo giusto di comunicare con la gente; poi incominciano a correggere il tiro, dicono che questo è troppo facile e quest'altro troppo scontato, insomma che da te s'aspettava di più. In tanti trinciano giudizi senza neanche venirti a vedere. Ma Io vorrei ricordare a tutti questi che non è colpa mia se Licio Gelli o Paolo Cirino Pomicino non si fanno trovare al telefono. Così come non è colpa mia se quella merda del mago Othelma ha deciso di presentarsI alle elezioni con un programma che prevede l'abolizione delle cinture di sicurezza e il ripristino della pena di morte; oppure se Maurizio Costanzo prima dIchiara che si è iscritto alla P2 per caso, e poi fa il testimoniai per un settimanale contro gli sprechi e contro la corruzione; oppure se la Raffai, oltre a fare la spiona di professione, ha scritto pure un libro da 29 mila lire su quelli che scappano dalla famiglia proprio perché c'hanno quella famiglia lì. E io tutta questa gente non dovrei fancularla? Ma la fanculo a raffica!».

Mi tolga una curiosità: il suo fanculo odierno ricorda da vicino il "fangala" urlato da MaIik Maluk, alias Giorgio Bracardi, nell'"Alto gradimento" di Arbore e Boncompagni. È da lì che le è nata l'idea?

«No, perché quello era un divertentissimo motto di spirito, e invece il mio è un autentico urlo di rabbIa. In quanto tale, sono certo che il suo antecedente sia il "coglione" con cui, anni fa, ho apostrofato il giornalista Sandro Mayer: perché, a "Domenica in", aveva intervistato un bambino appena liberato da un lunghissimo rapimento. Giuro che non volevo offendere Mayer: volevo soltanto urlare la mia rabbia, il mio disgusto, per un uso così cinico dell'intervista giornalistica. E quando, nei giorni successivi, ho ricevuto i messaggi di tantissima gente incazzata come me, che mi diceva che avevo fatto bene a urlare "coglione", ho capito che quella era la strada giusta. E il fanculo di oggi ne è la logica conseguenza».

Ma non trova un po' strano che questo urlo di rabbia sia sempre più spesso indirizzato contro la gente comune, invece che contro i potenti?

«Lei lo trova strano? lo no. Sono stanco delle battute, sono stanco della satira politica: non serve a nulla. Tant'è vero che Cossiga ormai non è più un uomo: è uno spot. E dell'ex sindaco ho semplicemente detto che deve avere due palle così, per aver sposato la sorella: di quello la. E dei socialisti non voglio più parlare, perché quando li ho accusati di rubare hanno guadagnato il cinque per cento dei voti: e dunque è meglio che me ne stia zitto, così magari si eliminano da soli. E di Mario Chiesa, presidente della Baggina, ho parlato solo all'inizio, quando sembrava che avesse rubato sette o otto milioni e il suo mi pareva proprio un caso di disperazione esistenziale. Ed è vero che ho ripetutamente fanculato il ministro De Lorenzo: ma non perché sia incompetente, ma per il semplice fatto che ha accettato un ministero senza speranza come quello della Sanità. Diciamolo chiaro: io di questa gente non voglio più saperne. E se ogni tanto mi capita di fancularli, è solo perché voglio parlare alla suocera perché nuora intenda».

Sarebbe a dire?

«È semplice. Il fanculamento dei politici, dei potenti, è un mero pretesto per fanculare la gente, lei, me stesso. Perche è colpa nostra se siamo ancora comandati da individui di questo tipo. È colpa nostra se continuiamo a farci truffare dai pubblicitari, quelli che hanno inventato la famiglia di dementi del Mulino Bianco: quando nei paesi più civili, per esempio in Danimarca, hanno già fatto leggi che tutelano splendidamente i consumatori. È colpa nostra se l'ambiente è ridotto allo schifo che sappiamo, al buco nell'ozono, alle targhe alterne che non risolvono niente. E guardi che queste cose mica gliele dice un ambientalista. Anzi, gli ambientalisti proprio non li reggo, perché sono gli unici che non hanno ancora capito che il vero problema dell'umanità non è la tutela della foca monaca: ma la riduzione del tempo di lavoro. Lavorare meno per poter lavorare tutti. E godere di più».

E quindi secondo lei, signor Grillo, anche le prossime elezioni serviranno a poco... 

«A poco? Dica pure a nulla. Perché i partiti nuovi fanno ancora più schifo di quelli vecchi. E perché, soprattutto, in Italia la situazione è talmente disgregata, deteriorata, compromessa, da lasciar presagire un futuro nero. Nero come la pece».

Pubblicata sull'Espresso dell'8 marzo 1992

Tangentopoli si fermò davanti al Pci. D'Ambrosio disse: "Mani pulite è finita". Il pm del Pool nel '93 mi confessò: il marcio è già emerso. Ecco perché le mazzette "rosse" non travolsero il partito, scrive Stefano Zurlo, Sabato 18/02/2017, su "Il Giornale". A volte modesti dettagli aiutano a capire. A volta la concatenazione precisa degli avvenimenti può sfuggire nel frastuono generale. A maggior ragione se l'epopea di cui parliamo è quella di Mani pulite, oggi sotto i riflettori per il venticinquesimo compleanno. L'opinione pubblica si è divisa, anzi accapigliata, perché il Pool non riuscì a espugnare Botteghe oscure, così come aveva travolto il ponte di comando della Dc e del Psi. E ciascuno dei protagonisti a distanza di tanto tempo racconta i passaggi di quella storia controversa e cerca di spiegare perché lo squadrone di Mani pulite si arenò davanti alle mura della cittadella rossa. Dunque, un piccolo episodio può fornire gocce di informazione a chi vuol capire, senza teoremi e tabù. Era la primavera del 1993 e lavoravo per l'Europeo, il settimanale di casa Rizzoli. Il direttore Myriam De Cesco mi aveva chiesto di seguire proprio l'indagine milanese che stava squassando i palazzi del potere. Un pomeriggio arrivai dunque a Palazzo di giustizia. Era la prima volta o una delle primissime occasioni che avevo di entrare nel tempio della giustizia italiana. Com'è sempre stato da quelle parti, a dispetto di mille annunci di cambiamento e razionalizzazione delle abitudini e dei comportamenti, a quell'ora non c'era nessuno o quasi e io mi aggiravo, perplesso, per quei lunghissimi corridoi che mi ricordavano i quadri di De Chirico. Conoscevo a grandi linee l'intricata geografia del Palazzaccio, se non altro perché figlio di avvocati, ma vagavo con un certo disagio in quegli ambienti, sonnacchiosi a quell'ora, in cui si stava riscrivendo la storia d'Italia. Mi ritrovai nell'interminabile corridoio della Procura, al quarto piano, il punto nevralgico della rivoluzione di rito ambrosiano. Camminavo e qualcuno mi veniva incontro: era Gerardo d'Ambrosio, il procuratore aggiunto, il coordinatore del Pool, in quel momento con Di Pietro, Borrelli, Davigo e Colombo uno degli uomini più famosi d'Italia. Mi squadrò, io mi presentai. Due minuti, qualche battuta con il suo inconfondibile timbro napoletano denso di ironie e umorismo, poi il procuratore mi rifilò la notizia che quasi non entrava nella mia testa: «Mani pulite è finita». Lui parlava, io ascoltavo sgranando gli occhi, incredulo per lo scoop che stavo arpionando senza nemmeno aver buttato l'amo. La sostanza del ragionamento era che il più era stato fatto. Tangentopoli era stata svelata e il marcio attaccato. Formulai qualche domanda, tornai in redazione pronto a ricevere i complimenti della direzione che puntualmente arrivarono. Capivo e non capivo il perché di quella clamorosa confessione. Come mai un magistrato così navigato si era spinto fino a quel punto? Preparai il pezzo che fu pubblicato nei giorni successivi con grande enfasi e fu ripreso dai telegiornali. Lui, visto l'inevitabile clamore, accennò un mezzo dietrofront, qualcosa smentì e qualcosa smussò ma il messaggio era chiaro. E quella «lettera» aveva un destinatario: Tiziana Parenti, il pm del Pool che indagava sulle presunte mazzette versate proprio al Pci-Pds e cercava di avanzare su quello che allora i quotidiani chiamavano pomposamente il fronte orientale di tangentopoli. In quelle settimane cruciali l'inchiesta era arrivata davvero a un passo da Botteghe oscure. Molti osservatori ritenevano che la svolta fosse vicina. Ancora un po' e pure il vecchio, glorioso Partito comunista sarebbe franato sotto il piccone del Pool. C'erano grandi aspettative, ma anche enormi difficoltà. Per la struttura del partito e dei suoi quadri, gente all'antica che non era certo disposta a piegarsi davanti al vento di Mani pulite. I personaggi alla Greganti, per capirci, rimanevano in cella senza fiatare, alimentando leggende e voci di ogni tipo. Certo, non correvano come centometristi per raccontare a Di Pietro quel che sapevano e inguaiare qualcun altro come facevano i loro colleghi del pentapartito. C'erano poi i rapporti complicati della Parenti con il resto del Pool: la pm, già alle prese con un contesto ostico, non godeva di grande simpatia e stima presso gli altri magistrati. Fuori le claque si dividevano: la Parenti veniva beatificata dai moderati, D'Ambrosio, da sempre icona della sinistra e in una futura seconda vita, anni dopo, parlamentare dei Ds, scaldava le platee dei compagni. E poco importava che a proposito di piazza Fontana e della morte di Pinelli non avesse sposato la vulgata più facile che voleva l'anarchico vittima della violenza di Stato. Quell'intervista arrivò in testa alla pm come un missile. O almeno così la prese lei: qualche settimana dopo, incrociandola nel solito corridoio, fu lei a dirmi poche parole colme di sconforto: «Quell'articolo mi ha delegittimato». Chissà cosa replicherebbe D'Ambrosio che oggi purtroppo non c'è più e non può ribattere. Probabilmente la partita sarebbe finita allo stesso modo. Chissà. Alla fine gli assediati si salvarono e il partito pagò un prezzo tutto sommato accettabile alla grande tempesta: gli arresti decimarono la corrente dei miglioristi, scaricati come succursale dei corrotti del Psi. Il fronte orientale, che era stato fatale a Napoleone, lo fu anche a Mani pulite. E quella sconfitta, inattesa, raffreddò gli entusiasmi di una parte del Paese. Cominciava, fra divisioni e spaccature, un'altra storia che va avanti ancora oggi.

Gherardo Colombo: «Lasciai la toga perché mi sentivo un idraulico». In un’intervista a Tv2000, l’ex magistrato racconta perché disse addio alle aule di giustizia e perché da tempo ha cambiato il suo modo di vedere la funzione del carcere, scrive Franco Stefanoni il 17 febbraio 2017 su "Il Corriere della Sera". «Mi sono dimesso dalla magistratura perché mi sono sentito come un idraulico». Lo ha detto Gherardo Colombo, in un’intervista al telegiornale di Tv2000, rilasciata nel 25esimo anniversario dell’inizio di Tangentopoli. «Spiego questa mia frase - ha aggiunto Gherardo Colombo - con una metafora: un signore va in cucina per farsi il caffè ma dal rubinetto non esce acqua. Così decide di chiamare l’idraulico che prova a smontare il rubinetto e i tubi ma l’acqua continua a non arrivare. Allora l’idraulico va in cantina e lavora al rubinetto centrale, quello che porta l’acqua al condominio. Così torna in cucina e finalmente l’acqua esce dal rubinetto. È come se per 33 anni in magistratura mi fossi occupato solo del rubinetto della cucina. Per quanto impegno ci si mettesse non c’era niente da fare: la giustizia funzionava malissimo. Così ho pensato di guardare a qualcosa che venisse prima dei tribunali, le corti d’appello, le sentenze, gli avvocati. Alla fine ho trovato il `rubinetto centrale´ cioè la relazione che esiste tra le persone e le regole. Se non capiamo questo la giustizia non funziona». Colombo ha anche ribadito il suo cambio di rotta sulla funzione del carcere: «Sulla custodia cautelare ho cambiato il mio modo di vedere. Per quanto pensassi che il carcere dovesse essere l’extrema ratio, cioè l’ultima misura possibile e immaginabile, tuttavia pensavo che fosse educativo. Oggi non la penso più così: il carcere non solo non serve ma danneggia anche la cittadinanza. Il 70% delle persone che sono state in carcere, ci ritornano perché hanno ricommesso di nuovo il reato. Il carcere è più una scuola di criminalità che un rimedio. Per questo penso che non si possano tenere le persone in carcere per tutta la vita».

Mani Pulite, l'eredità disastrosa di Tangentopoli. Le scuse di Borrelli: non valeva la pena buttar via il mondo precedente, scrive Claudio Martelli il 17 febbraio 2017 su “Il Quotidiano.net”. Per alcuni "Mani Pulite" fu la giusta – divina forse? – punizione per l’indebita l’euforia degli anni ottanta che indebitò lo Stato. Ma è una leggenda. Nell’83 quando Craxi diventa presidente del Consiglio il debito pubblico ammontava già al 70 per cento del Pil. La dilatazione della spesa era cominciata nei Settanta col consociativismo spendaccione tra Dc e Pci e con l’inflazione a due cifre che moltiplicava gli interessi sul debito. È vero che con il governo Craxi e i successivi il debito continua a salire ma, almeno, nel quadriennio di Craxi l’inflazione venne abbattuta e l’economia crebbe sino al 4,5 per cento. Un miraggio negli anni successivi. Ora il debito pubblico – in euro – in metà del tempo è cresciuto del doppio nonostante i bassissimi interessi e i massicci acquisti della Bce. Quanto a industrie e infrastrutture quelle non vendute ristagnano, la produttività e il tenore di vita sono calati rispettivamente del 20 e del 14 per cento e abbiamo meno diplomati e laureati di tre lustri fa. Solo la corruzione è aumentata eppure i partiti sono morti. Vive la partitocrazia in simulacri al servizio di capi e capetti che nominano senatori e deputati i loro servitori. Nulla più della parabola di Di Pietro dà il senso del disastro. Il grande inquisitore processato perché prendeva soldi in prestito da chi inquisiva dovette lasciare la toga. Poi, svergognato da un’inchiesta tv per aver fatto man bassa dei finanziamenti pubblici al suo partito, ha dovuto lasciare anche la politica. Non diversa la storia dei segretari amministrativi della Lega e della Margherita arrestati per analoghi motivi. O vogliamo parlare di Fini? O degli scandali Parmalat, Cirio, Monte dei Paschi? Ciascuno eccede dieci, venti volte il finanziamento Enimont che ruinò la Prima repubblica. Quella che Di Pietro marchiò come «la madre di tutte le tangenti» al confronto appare quasi una parente povera. L’epitaffio l’ha scritto Francesco Saverio Borrelli, l’inflessibile guida del pool «Mani pulite»: «Chiedo scusa per il disastro seguito a Mani pulite. Non valeva la pena di buttare il mondo precedente per cadere in quello attuale». Nei codici questa condotta si chiama «delitto colposo» e la colpa ammessa è quella, avendo «buttato» la Prima repubblica di aver propiziato la Seconda. La Prima era quella dei partiti che l’avevano creata trasformando il regime fascista in un regime di partiti. Partiti veri, formazioni storiche, comunità organizzate, divise da ideologie, legami internazionali, conflitti di classe. Migliaia di sedi, giornali, funzionari, congressi, associazioni fiancheggiatrici, campagne elettorali non si finanziano con parole. Il sistema di finanziamento era vasto, ramificato e spesso illegale. Casi di corruzione individuale e scandali clamorosi furono neutralizzati o dal regime delle immunità politiche o dall’indulgenza giudiziaria. La repubblica doveva essere riformata in radice, soprattutto da quando, con il crollo del comunismo e il varo del mercato unico europeo, il contesto internazionale da protettivo si era fatto ostile. Ma i leader democratici o non capirono o non agirono e furono travolti dalla rivolta antipartitica scatenata da un establishment impaurito e dai media, dalle nuove e vecchie forze anti sistema. Mentre il paese precipitava nella crisi economica, la lira veniva svalutata e il governo nottetempo metteva le mani sui conti correnti degli italiani si aprì la caccia al capro espiatorio. Arma letale fu l’uso violento della giustizia, gli arresti e il carcere preventivo per estorcere confessioni, delazioni, chiamate di correità a catena. «Mani pulite» è stata la più colossale operazione di polizia giudiziaria della nostra storia: trentamila indagati, tremila arrestati, tra cui cinquecento parlamentari, decine tra ministri e primi ministri, grandi e piccoli imprenditori, dirigenti, funzionari. Decapitati in piazza e in effigie i leader e i partiti di governo la repubblica si schiantò e cominciò una crisi che non ci ha più lasciato.

Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano il 18 febbraio 2017: Mani pulite, coscienze sporche. Così i magistrati sono diventati una casta di intoccabili. Domani ricorrono i 25 anni di Mani Pulite. Manette d’argento potrebbe andare come titolo della celebrazione del quarto di secolo, e invece della marcia nuziale con l’organo, per la colonna sonora suggerirei il tintinnare degli schiavettoni a cura dei comunisti col Rolex, J-Ax e Fedez, possibilmente ospiti di Fabio Fazio. Ma che tristezza. Di solito si dice: sembrava ieri. A tutti noi, parlo a naso ma ci azzecco, paiono invece cento anni. Le decrepite rievocazioni raccolgono quattro gatti acciaccati. Le tricoteuses, che affollavano furenti e festanti corridoi e aule di Palazzo di Giustizia di Milano, preferiscono da tempo Sanremo. Tutto il resto è noia, per restare in tema di canzoni. Una barba. Un coro universale di lamenti, da destra e sinistra, inquirenti e inquisiti d’accordo nel giudizio: il rimedio non è servito o addirittura è stato peggiore del male. I componenti del famoso pool, che hanno fatto tutti carriera, si lagnano che quella stagione della loro gloria non è servita a niente, eccettuata la loro popolarità, e ogni cosa è come prima, quanto a corruzione e latrocini. I parenti dei 45 suicidi, tra i 5.000 arrestati di quella epopea carceraria, eccepiscono che non è proprio come prima: mancano i loro cari, annientati dal terrore e dal discredito preventivo della carcerazione un tanto al chilo, usata a mo’ di tortura. Venticinque anni per nulla? Un bilancio è roba da storici più che da gazzettieri. Mi affido perciò al professor Paolo Mieli. Da direttore della Stampa e del Corriere della Sera egli fu protagonista di quella macchina da guerra che assemblava in magica alchimia pool di toghe e di cronisti. Ci diede dentro da par suo, occupandosi anche di consegnare lui, tramite edicola, un mandato di comparizione per corruzione a Berlusconi durante il raduno dell’Onu contro la criminalità che il Cavaliere presiedeva da premier a Napoli (22 novembre 1994), dopo di che precipitò. Tutto bello, tutto giusto? Mica tanto. Mieli ammise lealmente nel 1998, a frittata fatta a proposito di Mani pulite: «Ci ho creduto e l’ho sostenuta. Ma adesso capisco che Mani Pulite non è il nuovo, è la vecchia storia dei buoni contro i cattivi. Perché ci sono voluti tanti anni per comprendere che anche il Pci-Pds non era estraneo al sistema di Tangentopoli? Con Berlusconi abbiamo esagerato, mentre con l’Ulivo siamo stati troppo cortigiani». Parole sante, ma tardive come è giusto sia per gli storici. Da modesto scriba di note quotidiane me ne accorsi un bel po’ di anni prima. Non c’era bisogno di aquile per denunciare la parzialità dell’ambaradan messo su alla procura di Milano e che il procuratore generale del tempo, Giulio Catelani, buon’anima, definì «Rivoluzione italiana», che è cosa un po’ fuori dai binari dell’amministrazione della giustizia e diventa politica della peggior specie, quella che non si nutre di voti ma di fax. Con il risultato di travolgere il sistema democratico e di nuocere alla reputazione dei Tribunali. In effetti Mani Pulite divenne ben presto un modo per stringersi intorno al collo di qualcuno lasciando intatti altri. La macchina da guerra delle toghe infatti preparò la strada - una volta demoliti leader e quadri dirigenti del pentapartito (per i giovani: democristiani e socialisti non filocomunisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali) - all’altra macchina da guerra, quella gioiosa, quella di Occhetto. Che fu preservata per un incantesimo da decimazioni e inchieste, salvo a livello basso, dove i tangentari furono trattati persino da eroi che non parlano. Con L’Indipendente sostenni dagli inizi e fino al 1993, il lavoro di lavanderia specialmente di Antonio Di Pietro: avevo creduto alla promessa che la sua scopa avrebbe spazzato il letame anche dagli angoli di sinistra della piazza politica. Non accadde, e ne tirai presto le conseguenze proponendo l’alleanza trinitaria tra Berlusconi, Bossi e Fini, con ciò mandando all’aria il disegno neanche tanto sotterraneo sopra rivelato da Mieli, il quale, non dimentichiamolo, aveva per editore la Fiat. Sono certo che uno come Piercamillo Davigo se avesse avuto modo di rovesciare i calzini dei compagni avrebbe sistemato da par suo anche capi e capetti comunisti ed ex comunisti. Questo magistrato, oggi capo del sindacato delle toghe, non ha mai avuto venerazione per le Botteghe Oscure, semmai per le gattabuie. Il suo ideale politico sono sempre state le galere, purché piene. Ma i risultati sono quelli che sono. Noia e persino nostalgia (ingiusta) degli Anni 80, quando la magistratura aveva buttato le ancore nel porto delle nebbie. Il risultato di quell’attivismo unilaterale è una stanchezza generale. E l’impressione non immune da verità è che la magistratura abbia abusato di quella popolarità guadagnata a suon di arresti e processi di alti papaveri per erigersi a casta di intoccabili. Infatti la politica, che per tanti aspetti fa schifo, così come ripugnano i mestieranti della medesima, subisce di tanto in tanto la scrematura delle elezioni popolari e le scrollate spesso politicamente orientate dei colleghi di Davigo. Mentre le toghe si sono elevate da se stesse sopra i cieli dove pretendono di essere come la Madonna. Che non a caso è l’appellativo con cui colleghi, cronisti e simpatizzanti avevano battezzato Di Pietro. Il quale sarà pure una brava persona ma è la cosa più lontana dall’Immacolata Concezione che io riesca ad immaginare. Di Vittorio Feltri

Venticinque anni fa i Pm demolirono la prima Repubblica, scrive Piero Sansonetti il 17 Febbraio 2017 su "Il Dubbio". “Mani pulite” fu una grandiosa operazione politica, l’obiettivo era “purificare”: 25mila indagati, 4mila arresti, meno di 2mila condanne e il sistema dei partiti venne raso al suolo. Vinse l’alleanza tra magistratura e media. L’operazione “mani pulite” iniziò esattamente 25 anni fa, il 17 febbraio del 1992, con l’arresto di Mario Chiesa, funzionario socialista milanese piuttosto ignoto, beccato con sette milioni di tangente in tasca. Anche se dall’arresto di Chiesa all’esplodere dello scandalo politico che travolse la prima repubblica passarono poi diversi mesi. In mezzo ci fu una campagna elettorale, la vittoria della Lega Nord, l’uccisione del big democristiano (andreottiano) siciliano Salvo Lima, il terrificante attentato mortale a Giovanni Falcone, e infine l’elezione del nuovo presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Poi arrivò l’estate e in una caldissima giornata di fine giugno ci si preparava a dare notizia della nomina di Bettino Craxi a presidente del consiglio incaricato, e invece successe il finimondo. Nelle redazioni dei giornali arrivarono delle carte nelle quali si parlava del coinvolgimento diretto di Bettino Craxi in una storia di tangenti milanesi. Le carte – presumibilmente: molto presumibilmente – erano state inviate dalla stessa procura di Milano, dove – agli ordini del Procuratore Saverio Borrelli – si era costituito un pool di magistrati, incaricato esplicitamente di muovere l’assalto al quartier generale della politica, e in particolare all’asse Dc-Psi, e ancor più in particolare alla persona di Bettino Craxi. I nomi dei magistrati del pool sono i nomi più noti tra tutti i nomi dei magistrati del mondo: Di Pietro, D’Ambrosio, Colombo, Davigo. La prima mossa fu quel dossier fatto giungere anonimamente alla redazioni. La notizia rimbalzò a Montecitorio e al Quirinale, e Scalfaro da un mese presidente della repubblica, decise di soprassedere alla nomina di Craxi. Fece qualcosa di più: avvertì Craxi che il suo nome era fuorigioco e che toccava a lui scegliere tra i suoi due delfini: Claudio Martelli o Giuliano Amato. Craxi scelse Amato, facendo infuriare Martelli (che mai gliela perdonò) e il 28 giugno Amato fu incaricato. È da quel momento che “mani pulite”, eliminato il nemico numero 1, inizia in grande stile. Il Psi viene travolto in pochi mesi. La destra Dc altrettanto. La sinistra Dc e il Pci vengono colpiti di striscio, ma escono quasi incolumi dal bombardamento. I numeri dell’inchiesta “mani pulite” sono incerti. Ieri Repubblica par- lava di 4520 indagati e di 661 tra condannati e persone che accettarono di patteggiare (i condannati veri e propri furono 316, cioè circa il 7 per cento degli indagati). In realtà questi numeri si riferiscono solo alla Procura di Milano, che fu il motore di “mani pulite”, ma le inchieste, e gli avvisi di garanzia, e gli arresti, si estesero a tutt’Italia. I numeri finali sono incerti: più o meno gli indagati furono 25 mila, gli arrestati circa 4000, il numero delle condanne non si conosce ma comunque la media nazionale è simile a quella milanese: circa il 7 per cento. Capite bene che 25 mila indagati è un numero enorme. Un pezzo gigantesco del ceto politico fu messo alla sbarra. E nel clima che si era creato, soprattutto per la partecipazione attiva della stampa e della televisione alle indagini, si era realizzata una situazione nella quale chiunque ricevesse un avviso di garanzia era costretto a dimettersi e a lasciare la politica. Di quelle circa 20 mila persone che furono costrette a lasciare la politica e poi risultarono innocenti (o comunque non furono condannate) si e no una decina riuscì a rientrare nel giro. Gli altri furono messi fuori dal campo e basta. Gli avvisi di garanzia arrivavano quasi sempre al momento giusto. A Craxi arrivò l’avviso nel dicembre del ‘ 92, dieci giorni prima di Natale, e fu un siluro che lo costrinse a lasciare la segretaria del partito. Claudio Martelli si mise in corsa per prendere il posto di Craxi, disse che voleva “salvare l’onore politico del Psi”, ma il 19 febbraio del 1993, mentre era in corso una riunione dell’assemblea nazionale del Psi all’hotel Ergife di Roma, e mentre Martelli si stava per candidare alla segretaria, arrivò l’avviso anche a lui. Lui era il ministro della Giustizia, era il leader politico che aveva promosso e protetto Falcone: non piaceva alla Procura di Milano, che se ne disfò in quattro e quattr’otto. Martelli, che era uno dei dieci uomini più potenti d’Italia, scomparve dalla scena in quell’esatto momento. Naturalmente questo meccanismo da Santa Inquisizione non poteva funzionare se la magistratura fosse stata sola a guidare l’operazione. Ma la magistratura non era sola: con lei si era schierata praticamente tutta la stampa italiana. Quella di destra, quella di sinistra, quella di centro, quella politica e quella scandalistica. Guidata dai giornali della Fiat, dal Corriere della Sera, ma anche dai giornali più vicini al Pci come la Repubblica e naturalmente anche l’Unità. La magistratura in un primo tempo aveva spaventato anche gli editori dei giornali, perché aveva colpito duro i vertici della Fiat e aveva persino, per qualche ora, messo in arresto De Benedetti. Ma l’imprenditoria si arrese quasi subito e accettò di collaborare con la magistratura e di mettere a disposizione i propri giornali, in cambio dell’impunità. Così fu. E’ ancora così. Dicevamo dei 25.000 procedimenti avviati e conclusi con un po’ più di mille condanne. Possiamo dire che dal punto di vista giudiziario “mani pulite” fu un fallimento. Fu però un successo senza precedenti dal punto di vista politico. Il pool di Milano riuscì a portare a termine la più clamorosa riforma istituzionale mai realizzata nell’Italia repubblicana. Il sistema democratico fondato sui partiti – sulle loro strutture, sulle loro idee, sui loro meccanismi popolari – fu raso al suolo in poco più di un anno. I leader di quel sistema politico scacciati e messi in fuga o alla berlina. I rapporti tra politica e magistratura rovesciati. Diciamo che la prima repubblica fu cancellata. Quando si dice prima repubblica spesso si intende un sistema politico partitocratico e corrotto, che stava rovinando il paese. Non è esatto. La prima repubblica era quella costruita sui valori della lotta partigiana e sulle idee di grandi tradizioni politiche come quelle del cristianesimo sociale, del comunismo, del socialismo e del liberalismo. Immaginata e costruita da personaggi come De Gasperi, Einaudi, Croce, Togliatti, Nenni, Calamandrei, La Malfa. Sarebbe quella compagine che ricostruì l’Italia distrutta dal fascismo, la portò pienamente dentro un regime democratico, ne promosse lo sviluppo economico e sociale, la modernizzò attraverso grandiose riforme di tipo socialista o di tipo liberale. Non proprio una schifezza. Se uno prova a fare un bilancio storico politico e sociale della prima repubblica e lo mette a confronto con un bilancio della seconda repubblica (quella nata sulla spinta dell’inchiesta “mani pulite”) si mette a ridere. La fine della prima repubblica pone fine al primato della politica. E dunque ridimensiona fortemente la portata della democrazia. Il potere si trasferisce. In particolare nelle mani dei potentati economici, che dettano le scelte di fondo. In parte nelle mani della magistratura, che da quel momento diventa largamente in grado di controllare il ceto politico e di determinarne la selezione e anche le scelte. “Mani pulite fu un complotto”? No, io non lo credo. Però “mani pulite” riuscì perché perseguì un disegno politico. Che era duplice: “purificare” la società italiana e abolire i partiti. Il pool di Milano credeva sinceramente e con passione che le due cose coincidessero. La seconda parte di questo disegno è perfettamente riuscita. La prima no. E da quel momento la magistratura si convinse che il proprio compito non fosse quello di giudicare i colpevoli e gli innocenti, come dice la Costituzione, ma quello di assumere un ruolo di Guida Etica della società e dello Stato. E di garante della moralità.

Martelli: «Alla fine i moralisti finiscono alla gogna», scrive Giulia Merlo il 17 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". «Chiunque faccia dell’onestà il principale, se non l’unico motivo della propria iniziativa politica, nasconde un’assenza di programmi più approfonditi”. «Nessun ritorno a Mani Pulite». Claudio Martelli, ex ministro della Giustizia nel difficile biennio tra il 1991 e il 1993, analizza le inchieste che hanno gettato nel caos le amministrazioni di Milano e Roma, a partire dal rapporto sempre teso tra politica e magistratura.

Onorevole, traballano sia Milano che Roma: con Beppe Sala autosospeso e il braccio destro della sindaca Virginia Raggi arrestato. Ci sono somiglianze con il 1992 di Mani Pulite?

«Somiglianze non direi. Non vedo un’ondata di arresti scatenati da metodi di indagine alla Di Pietro, in cui il motto era «o parli o butto la chiave», con una catena di delazioni a comando provocate dalla carcerazione preventiva. Vedo però uno stillicidio continuo di indagini e accuse e una particolare devozione della nostra magistratura alle indagini sulla pubblica amministrazione. Per un verso bisogna rallegrarsene, per altro verso suscita qualche interrogativo, a fronte della mole di reati, anche più gravi, non perseguiti».

Partiamo dal caso–Roma. L’amministrazione grillina rischia di crollare sotto il peso delle dimissioni di Paola Muraro e l’arresto di Raffaele Marra. Che fine ha fatto lo slogan “onestà–onestà”?

«Come le volpi finiscono in pellicceria, così i moralisti finiscono alla gogna. S’è già visto in passato: quelli che sbandieravano il partito degli onesti poi finirono nel tritacarne giudiziario e questo è vero anche oggi.

Chiunque faccia dell’onestà il principale se non l’unico motivo della propria discesa politica in campo nasconde un’assenza di programmi più approfonditi. L’onestà è una precondizione e la politica è un mestiere talmente difficile e insidioso che pensare di cavarsela semplicemente restando onesti è una pia illusione».

Poi anche Milano, la sua città: Expo è stato uno dei più sbandierati successi del governo Renzi e ora rischia di essere la pietra tombale del Comune, faticosamente mantenuto dal Pd. Quali equilibri si stanno muovendo?

«La procura aveva archiviato il caso Sala, in cui non si era trovata traccia di tangenti. Per dirla con Ilda Boccassini, non c’era odor di «piccioli», ma solo una gran fretta, che ha fatto compiere anomalie. Sembra infatti che sia stato retrodatato un documento di indizione di una gara d’appalto, per poter rientrare nei termini di legge. Nei giorni di Expo, infatti, ricordo grande frenesia per arrivare con le opere compiute all’inaugurazione, smentendo i gufi del «non ce la farete mai»».

Invece la procura generale ha ritenuto di riaprire l’inchiesta…

«Che la procura generale abbia ritenuto di riaprire un caso archiviato dalla procura della Repubblica e come questo si inserisca nella lotta devastante della magistratura milanese, purtroppo è nelle carte. Del resto, è stato lo stesso Csm a tentare di sedare le lotte, legittimando Edmondo Bruti Liberati e trasferendo Alfredo Robledo. Io temo che l’iscrizione di Sala ne registro degli indagati possa essere un danno collaterale provocato da quel conflitto. Del resto, i conflitti tra magistrati sono i più accaniti e avvelenati, perché tutte le parti brandiscono il diritto, indossano la toga e sono ammantati di intransigenza assoluta, impuntata su dettagli e cavilli».

Una magistratura milanese, dunque, molto diversa da quella di Mani Pulite?

«Decisamente. Allora c’era una compattezza incredibile nel pool di Mani Pulite: anche quando – come poi si scoprirà – i giudici non erano d’accordo uno con l’altro, erano però tutti saldi nel far fronte comune contro l’opinione pubblica rispetto ai politici».

Ma anche oggi si ripete, però, un dualismo guerriero tra magistratura e politica?

«Questa è la visione manichea di Piercamillo Davigo, che parla di lotta del bene contro il male, in cui i magistrati sono tutti buoni e politici tutti corrotti».

Lei, invece, come la pensa?

«Io credo ci sia la somma di due mali. E’ vero che la corruzione in Italia alligna più che altrove che questo merita indagini e sanzioni. Se però nelle indagini si cede a eccessi giustizialisti, ecco che si somma male ad altro male: la corruzione diffusa e la repressione arbitraria».

Torna, dunque, al centro il rapporto difficile tra politica a tutti i livelli e magistratura.

«Io credo che, di questo, il caso di Beppe Sala sia emblematico. Ancora non si sa con certezza se abbia ricevuto un avviso di garanzia e tutto è nato da indiscrezioni sui giornali. Quando dalle procure trapelano notizie riservate, storcendo il principio della tutela dell’indagato e del suo diritto alla riservatezza, ecco che si è già compiuto un abuso grave. Ma la violazione del segreto istruttorio è diventata un passatempo, ed anzi è strano quando ciò non avviene. Se si distrugge la reputazione dell’imputato nella fase precedente l’indagine formale, però, si altera il corso della giustizia e questo è il punto cruciale e che più interessa i rapporti tra politica e magistratura. La sentenza, infatti, può anche essere di assoluzione, ma intanto la carriera politica è già bella che finita».

L’autosospensione di Sala è una scelta politica che deriva da questa distorsione del sistema?

«Io credo che lui abbia fatto una scelta opportuna. La sua decisione fungerà da sollecito alla procura generale, perché si decida in fretta a formalizzare le accuse o archiviarle».

Il caso Roma, invece, ha delle implicazioni diverse. Raggi è sotto scacco?

«L’elemento politico di questa vicenda lo ha colto bene Giorgia Meloni, che si è chiesta se ci troviamo di fronte a incompetenza assoluta oppure a stupida malizia della sindaca Raggi. Perché ha insistito a scegliere personaggi che hanno fatto il loro curriculum amministrativo nelle passate gestioni, che in pubblico lei è stata la prima a condannare? Questo a me pare incomprensibile. Noi siamo osservatori estranei, ma anche dal suo stesso movimento in tanti l’hanno messa in guardia. La sua è stata ostinazione, ma del resto questo è un periodo in cui va di moda per sindaci ed ex sindaci non ascoltare i consigli».

Un riferimento a Matteo Renzi?

«Non ho fatto che leggere elogi per la cosiddetta «determinazione» di Matteo Renzi. Eppure io credo che ostinarsi sia un errore, non certo una qualità. E di qualità Renzi ne avrebbe molte altre».

Così nacquero Tangentopoli e poi il giustizialismo, scrive Fabrizio Cicchitto il 27 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". L’intervento del ministro Orlando alla direzione del Pd e la lunga intervista al Dubbio del filosofo Biagio De Giovanni hanno costituito la prima radicale rimessa in questione di quel giustizialismo che nel Pds– Ds e poi nel Pd ha costituito una fondamentale scelta ideologica di larga parte dei post– comunisti (con l’eccezione dei miglioristi come Chiaromonte, Napolitano, Umberto Ranieri) e una altrettanto marcata scelta politica determinata da un misto di strategia e di tattica di cui poi vedremo le ragioni di fondo. Orlando ha denunciato il fatto che per anni il giustizialismo esercitato contro Berlusconi ha sostituito le scelte culturali e politiche di stampo realmente riformista che invece non sono state fatte. Biagio De Giovanni ha denunciato il fatto che sul giustizialismo della sinistra si sono innestati due fenomeni devastanti: “la politica distrutta dall’invadenza della magistratura” e un’antipolitica che si innesta su questo ruolo prevaricante di un potere dello stato e che attraverso di esso sta distruggendo il confronto politico e culturale. De Giovanni ha anche rilevato, a proposito dell’attività più propriamente politica del ministro Orlando, che egli ha realizzato positivi interventi sulle carceri ma non è riuscito neanche a sfiorare i due temi centrali della riforma della giustizia, la separazione delle carriere e il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale. Per completare questa rassegna preliminare citiamo anche l’intervista di Giorgio Napolitano sul Messaggero a proposito del confronto sul referendum: Napolitano ha rilevato che la forza dell’antipolitica è diventata tale che nell’ultima fase della campagna referendaria il Presidente Renzi ha pensato bene di riuscire a smontare il vantaggio del No dando al Sì il valore della lotta alla casta: fatto dal presidente del Consiglio in carica questo appello è risultato controproducente e anche un po’ grottesco. Ciò detto, però, dobbiamo per forza fare un passo indietro. Il finanziamento organicamente irregolare dei partiti parte dagli anni 40 e ha per nome e cognome una serie di padri della patria (da Alcide de Gasperi, a Palmiro Togliatti a Pietro Nenni). Negli anni ’ 40–’ 50 la Dc era finanziata dalla Confindustria, dalla Cia, da una rete di imprenditori privati. Poi, con l’avvento di Fanfani, il finanziamento della Dc fu sostenuto anche dalle aziende a partecipazione statale. A sua volta il Pci era finanziato dal Pcus, dalle cooperative rosse, da una rete di imprenditori amici, specie nelle regioni rosse. Prima di Craxi, il Psi dipendeva per il suo finanziamento dal principale alleato: nella fase frontista esso si basò sul finanziamento sovietico e sulle cooperative rosse, nella fase del centro– sinistra sulle partecipazioni statali. Tutto ciò si aggregò in un sistema organico, quello di Tangentopoli. A fondare quel sistema dal lato imprenditoriale furono altri due padri della patria, cioè Vittorio Valletta ed Enrico Mattei. Mattei considerava i partiti e le loro correnti dei “taxi” (tant’è che finanziava abbondantemente anche l’Msi, un partito che poi anch’esso, come del resto il Pci– Pds, si è rifatto la verginità), e poi fondò in modo esplicito con Albertino Marcora quella sinistra di base (corrente democristiana) che ha esercitato una grande influenza nella Dc e nell’intero sistema politico. Che il Pci affondasse le sue risorse in un finanziamento irregolare dalle molteplici fonti (altro che feste dell’Unità) è messo in evidenza dal verbale di alcune riunioni svoltesi in Via delle Botteghe Oscure citato a pagina 495– 498 nel libro di Guido Crainz “Il paese mancato”. Giorgio Amendola nella direzione del 1 febbraio 1973 disse: “quando me ne sono occupato io “le entrate straordinarie” (eufemismo ndr) erano del 30% ora siamo al 60%”. A sua volta Elio Quercioli disse: “molte entrate straordinarie derivano da attività malsane. Nelle amministrazioni pubbliche prendiamo soldi per far passare certe cose. In questi passaggi qualcuno resta con le mani sporche e qualche elemento di degenerazione finisce per toccare anche il nostro partito”. E nella riunione dell’1 e del 2 marzo 1974 il Pci diede il sostegno alla legge sul finanziamento pubblico con l’esplicita motivazione di ridurre il finanziamento sovietico e le “entrate straordinarie derivanti da attività malsane”. Armando Cossutta disse: “negli ultimi anni si è creato in molte federazioni un sistema per introitare fondi che ci deve preoccupare. C’è un inquinamento nel rapporto con le nostre amministrazioni pubbliche nel quale c’è di mezzo l’organizzazione del partito e poi ci stanno dei singoli che fanno anche il loro interesse personale”. Quando, poi, decollò la politica di unità nazionale, il Pci entrò anche nel “sistema degli appalti pubblici” che aveva come sede di compensazione l’Italstat: in quella sede c’era un meccanismo che assicurava la rotazione nell’assegnazione degli appalti che riguardava tutte le grandi imprese di costruzione pubbliche e private: alle cooperative rosse era garantita una quota che oscillava dal 20 al 30%. A sua volta Bettino Craxi per rendere reale fino in fondo l’autonomia del Psi dalla Dc e dal Pci, prese direttamente e tramite Vincenzo Balzamo rapporti con il mondo imprenditoriale: una mossa i cui rischi furono evidenti poi. Avendo però alle spalle quella realtà del suo partito, Berlinguer fece la famosa intervista sulla questione morale nella quale presentava il Pci come il partito delle “Mani Pulite”: la mistificazione è evidente. In sostanza Tangentopoli era un sistema che si fondava su un organico rapporto collusivo fra tutte le grandi imprese pubbliche e private senza eccezione alcuna (quindi compresa la Cir di De Benedetti, come risultava dalle sue stesse ammissioni processuali) e da tutti i partiti dell’arco costituzionale senza eccezione alcuna (quindi compreso il Pci; l’Msi, a sua volta, o aveva diretti rapporti con le imprese, vedi l’Eni, o, a livello locale era “tacitato” dagli altri partiti). Questo sistema era fondato sulle grandi imprese, sui partiti, sulle correnti dei partiti. In esso, dalla seconda metà degli anni ’ 80 in poi, emersero degenerazioni personali. Comunque, con l’adesione dell’Italia al trattato di Maastricht che costrinse “a calci” il capitalismo italiano a fare i conti con il mercato e la libera concorrenza (cosa che fino ad allora non aveva fatto) il sistema di Tangentopoli diventò chiaramente antieconomico (lo era anche prima ma esistevano meccanismi di compensazione quali il debito pubblico e specialmente le svalutazioni competitive, in genere decise di comune intesa fra la Fiat e Banca d’Italia) e doveva essere superato. Ora la via maestra di quel superamento–eliminazione avrebbe dovuto essere un’operazione consociativa, con un’intesa generale fra le forze politiche, quelle imprenditoriali, quelle giudiziarie, e magari concluso con un’amnistia. Le cose non andarono affatto così. L’ultima amnistia fu quella del 1989 che servì a salvare il Pci dalle conseguenze penali del finanziamento irregolare di derivazione sovietica. Negli anni ’ 90 i partiti, specie la Dc, il Psi, i partiti laici, ma per altro verso anche il Pci (che con il cambio del nome in Pds e il “superamento” del comunismo perse circa metà del suo elettorato) avevano perso vivacità culturale e consenso. A quel punto, invece, si affermò nella magistratura la corrente più aggressiva e più ideologica, cioè Md, che teorizzava il ruolo sostanzialmente rivoluzionario del magistrato che, superando un’asettica e burocratica terzietà, avrebbe dovuto rimettere in questione gli equilibri economici e quelli politici. Questa teorizzazione trovò nel pool di Milano di Mani Pulite chi la cavalcò sul piano dell’esercizio della giurisdizione mettendo in essere un’operazione del tutto unilaterale, fondata su due pesi e due misure: nel caso della Dc, Mani Pulite arrivò addirittura a distinguere fra le correnti di centro–destra di quel partito che furono sostanzialmente distrutte ( chi non ricorda Forlani al processo Enimont, e poi, fuori da Milano, Andreotti alla sbarra per l’assassinio di Pecorelli e per il concorso con la mafia e Antonio Gava e Paolo Cirino Pomicino in carcere?) e invece la sinistra Dc, e sull’altro versante, il Pci–Pds, furono interamente salvati. A loro volta il Psi, il Psdi, il Pli, il Pri furono rasi al suolo. Quando l’unilateralità dell’operazione non era ancora chiara e sembrava che avrebbe colpito tutto e tutti, Achille Occhetto si precipitò alla Bolognina a “chiedere scusa agli italiani” perché conosceva bene il retroterra finanziario del Pci– Pds. Quella di Mani Pulite fu comunque un’operazione rivoluzionario– eversiva unica in Europa: fu l’unico caso nel quale ben 5 partiti di governo furono distrutti prima dai magistrati che dagli elettori. Lo strumento principale di questa operazione era la cosiddetta “sentenza anticipata”: se un dirigente politico viene raggiunto da un avviso di garanzia, enfatizzato da giornali e da televisioni, a quel punto egli perde totalmente il suo consenso elettorale. Se la stessa sentenza colpisce altri mille dirigenti di quel partito, è il partito nel suo complesso ad essere azzerato. Se poi, magari dopo cinque o sette anni, interviene la vera sentenza processuale ed è di assoluzione, i suoi effetti politici sono nulli. In seguito a Mani Pulite, dal ’ 92–’ 94 in poi, i rapporti fra politica e magistratura sono stati totalmente rovesciati. A “comandare” è chiaramente la seconda. A sancire quel cambio di equilibrio fu anche nel 1993 l’eliminazione di quell’immunità parlamentare che fu ideata dai costituenti proprio per bilanciare la totale autonomia di cui gode la magistratura italiana diversamente da altri ordinamenti. In un primo tempo il Pds fu l’utilizzatore passivo di quella unilateralità dell’azione della magistratura. Poi ne diventò il fruitore attivo. La storia, però, è paradossale. Il Pds di Occhetto, D’Alema, Veltroni credeva che grazie a Mani Pulite sarebbe arrivato sicuramente al potere. Di conseguenza la discesa in campo di Berlusconi fu un’amara sorpresa per il gruppo dirigente del Pds. Berlusconi da parte sua fece leva anche sul “nuovismo”, sul populismo e sull’antipolitica che Mani Pulite aveva suscitato. A quel punto, però, il giustizialismo fu esercitato dal Pds (e da tutto il circolo mediatico costituito da Repubblica, il Tg3, Samarcanda, poi Travaglio e Il Fatto) contro Berlusconi provocando una “guerra civile fredda” durata 20 anni. Anche in questo secondo caso, però, c’è stata un’altra amara sorpresa: quando Berlusconi è stato messo fuori gioco attraverso un’interpretazione retroattiva di una legge già di per sé assolutamente iniqua, qual è la Severino, il Pd di Bersani si è trovato di fronte ad un altro scherzo della storia: Forza Italia era stata messa fuori gioco, il centro– destra era in crisi ma a quel punto, a cavalcare fino in fondo la tigre e l’onda del giustizialismo e dell’antipolitica, è nata una forza integralmente protestataria, ultra– giustizialista e gestita con meccanismi di stampo autoritario da un comico– demagogo e dalla società di comunicazione della Casaleggio associati. Bisogna guardare anche all’altra faccia della medaglia: mentre a suo tempo Tangentopoli era un sistema fondato su grandi imprese e sui partiti in quanto tali, da dopo il ’ 92–’ 94 è avvenuta la parcellizzazione della corruzione, che si è fondata su una miriade di mini– catene o reti composte da singoli imprenditori, singoli alti burocrati, singoli politici, in qualche caso anche con singoli magistrati. Questa corruzione capillare è ciò che è avvenuto dopo il ’ 92–‘94 enfatizzando a dismisura il ruolo della magistratura con effetti sconvolgenti. Oggi anche gli apprendisti stregoni sono vittime di sé stessi e cioè anche i grillini sono ormai dominati dall’incubo dell’avviso di garanzia che per loro, è ancor più distruttivo perché finora, quando esso riguardava gli “altri” equivaleva ad una sentenza di terzo grado. Per concludere: le riflessioni del ministro Orlando e di Biagio De Giovanni costituiscono certamente un fatto positivo: non vorrei, però, che essi arrivino troppo tardi, quando già Davigo, non a caso eletto “a furor di popolo” presidente dell’Anm, si comporta come una sorta di super– commissario ad acta nei confronti del fallimento delle istituzioni della Repubblica, del Parlamento e dei parlamentari in primis, soggetti, questi ultimi, considerati dei delinquenti potenziali, da trattare nei dovuti modi.

Non sono i giudici a poter rendere l’Italia un Paese migliore. Assistiamo a un rapporto tra i poteri ormai molto diverso da quello stabilito dalla nostra Costituzione, scrive Giovanni Belardelli il 27 dicembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Le notizie degli ultimi giorni e settimane (le indagini sul ministro Lotti, quelle milanesi sul sindaco Sala, quelle romane su Marra e Muraro e presto — potrebbe essere — sulla stessa Virginia Raggi) confermano che ci troviamo di fronte a un’alterazione stabile, per certi aspetti definitiva, nei rapporti tra politica e giustizia. Dunque questa alterazione non era collegata se non in piccola parte alla discesa in campo di Berlusconi — come invece molti avevano a lungo ritenuto — visto che, anche adesso che il leader di Forza Italia ha un ruolo certamente secondario, continua a segnare la nostra vita collettiva. Caratterizza con ogni evidenza la vita politica, dove assistiamo a un rapporto tra i poteri ormai molto diverso da quello stabilito dalla nostra carta fondamentale. Nella costituzione materiale del Paese — cioè nell’assetto effettivo dei rapporti tra istituzioni e poteri dello Stato — è da tempo evidente infatti che il potere legislativo e quello esecutivo sono condizionati in modo consistente dalla magistratura nelle sue varie giurisdizioni. Questioni che ritenevamo di stretta competenza del governo e del Parlamento — dalla legge elettorale al sistema pensionistico, dalla chiusura di una fabbrica alle norme della «buona scuola» — sono spesso decise da una sentenza della Corte costituzionale o di un tribunale civile, penale, amministrativo. Non è solo la politica ma tutta la vita sociale a risentire di questa accresciuta presenza dell’ordine giudiziario. Negli ultimi anni gran parte del nostro diritto di famiglia — dalle norme sulla fecondazione assistita all’adozione del figlio del partner nelle coppie omosessuali — è stata modificata attraverso decisioni dei tribunali. La liceità di una cura medica, la possibilità di iscriversi all’università, i risultati di un concorso o l’effettività di una promozione: questo e molto altro dipende ormai, come è esperienza comune di tanti italiani, dalla sentenza di un tribunale. Non a caso qualche tempo fa Romano Prodi ha provocatoriamente proposto l’abolizione dei Tar e del Consiglio di Stato per favorire lo sviluppo economico, visto quanto il continuo ricorso alla giustizia amministrativa influisce negativamente sugli investimenti. Naturalmente occorre non dimenticare che un fenomeno del genere caratterizza gran parte delle democrazie contemporanee. Ma forse nel nostro Paese si presenta in modo accentuato. Anzitutto, è lo stesso apparente permanere di una diffusa corruzione politica a sollecitare il continuo intervento delle procure. Abbiamo poi troppe leggi, e troppo mal scritte, così da richiedere spesso l’intervento di un magistrato per chiarire come vadano interpretate e applicate. Ancora, abbiamo una classe politica poco capace o poco incline ad assumersi le proprie responsabilità e ad esercitare i propri poteri: sintomatica la vicenda delle leggi elettorali, in cui la politica chiede alla Corte costituzionale cosa deve e può fare. Ma il progressivo assorbimento della politica nel diritto, il condizionamento che le decisioni della magistratura esercitano sulla vita sociale, dipendono anche da altro, in particolare da una nuova concezione dei compiti della magistratura, soprattutto della magistratura penale, affermatasi nel corso degli ultimi decenni. Tale concezione le assegna come compito fondamentale non solo l’accertamento di, e la pronuncia su, singole ipotesi di reato, bensì un generale controllo di legalità. Il magistrato, dunque, non è tenuto a intervenire soltanto dopo aver ricevuto una notizia di reato, ma — ha scritto Luciano Violante riassumendo (e criticando) questa concezione — ha il compito di verificare «che la legalità non sia stata per caso violata». In questo modo l’ordine giudiziario viene potenzialmente investito — anche grazie al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, che nei fatti estende la discrezionalità della magistratura inquirente — di una funzione di supervisione sul complesso della vita politica e amministrativa. Bisogna dire che in questo la magistratura è stata fortemente sollecitata da una domanda proveniente dall’opinione pubblica, sempre più disgustata dalle cattive prove offerte dalla classe politica. È nata così, da questo doppio movimento, l’idea secondo cui la magistratura stessa sarebbe la grande tutrice della vita collettiva del Paese, il soggetto che dovrebbe renderlo migliore sotto il profilo dell’onestà e della moralità. Ma, a un quarto di secolo da Mani Pulite, i continui casi di corruzione politica, le continue testimonianze di scarso rispetto delle leggi in una parte significativa della società italiana, ci dicono che non possono essere i giudici a rendere un Paese migliore.

De Giovanni: «La politica distrutta dall’invadenza delle magistrature», scrive Errico Novi il 22 Dicembre 2016 su "Il Dubbio".  L’analisi del filosofo sul vuoto della democrazia e il predominio del potere giudiziario. Si può comprendere il mondo e ammettere di non riuscirci. Può farlo solo un grande filosofo. Biagio De Giovanni ha dalla sua non solo il pregio di entrare nella definizione, ma anche la luce di ottantacinque anni, compiuti ieri e segnati in gran parte dalla riflessione rigorosa e appassionata nello stesso tempo. Ne regala una sulla giustizia, e più precisamente sulla perdita di ogni equilibrio tra i poteri, la politica da una parte, «le Corti, le Alte Corti innanzitutto» dall’altra. Un intervento sul Mattino di sabato scorso mette in fila in un sol colpo l’urgenza di superare l’obbligatorietà dell’azione penale, l’ineludibilità della separazione delle carriere, l’impossibilità di contrastare il «populismo giustizialista». Il caso vuole che siano anche le battaglie in cui s’impegna con tutte le forze da anni l’avvocatura. Il professore di Dottrine politiche, ex europarlamentare del Pci e oggi appunto editorialista di Mattino e Corriere della Sera, individua nella «invadenza della giurisdizione» un fenomeno caratteristico della crisi e una concausa della perdita di autorevolezza delle élites. Nel giorno in cui compie ottantacinque anni, è facile chiedere a un filosofo come De Giovanni di fingere la resa di fronte al caos, per trovare molte risposte.

Anche la magistratura può temere una perdita di consenso? E dietro il ritorno a una invadenza della giurisdizione nei confronti della politica si nasconde anche un timore, tra i magistrati, di perdere popolarità?

«In prima battuta mi sentirei di respingere l’ipotesi. C’è sfiducia, scetticismo, disincanto e rifiuto in una forma così violenta nei confronti delle élites politiche che non si riesce a scorgere qualcosa di analogo che riguardi la magistratura. E anzi l’impressione è che mai come adesso l’azione dei magistrati si dispieghi a tutto campo, dalla frittura di pesce a fatti più consistenti. È un’invadenza che non ha precedenti, e che certo si inserisce in un processo iniziato con Mani pulite, passaggio che ha alterato la fisionomia stessa del rapporto tra poteri».

Capita però che alcune sentenze non soddisfino appieno l’attesa alimentata dal “populismo giustizialista”: a Roma una condanna a 20 anni anziché all’ergastolo, per un omicidio, ha scatenato un putiferio in aula, solo qualche giorno fa.

«I casi estremi si verificano. Resta fermo un punto: sono le cosiddette élites politiche dominanti ad essere travolte da quella tendenza del senso comune che faticosamente continuiamo a individuare come populismo giustizialista. Renzi era leader da appena 3 anni eppure, come ho detto dopo l’esito del referendum, è stato interpretato come nuova casta. La vecchia, per converso, è diventata vergine, da De Mita a D’Alema. Ma c’è qualcosa di vero anche nel dissolversi della fiducia nei magistrati: oggi persino il giudizio penale si muove nell’incertezza della decisione. Prima si condanna, poi si assolve, sembra divenuta impalpabile persino la certezza del diritto. Anche questo canone delle vecchie società è crollato».

Non esiste insomma un potere che regga, in questa destrutturazione.

«È possibile che la sfiducia nella magistratura ci sia in una forma più indiretta. Il dispregio verso l’élite politica resta però l’aspetto decisivo del nuovo ordine mondiale, chiamiamolo così, che si va delineando. Una tenuta si registra forse in Germania dove il sistema ha una forza formidabile, ma persino negli Stati Uniti capita che Hillary, ritenuta espressione dell’establishment, ceda a Trump, che non è nessuno, un uomo d’affari, eppure 60 milioni di persone nel Paese più potente al mondo l’hanno votato».

Si delegittima la politica: ma così il potere scivola nelle mani di altri soggetti, le élites finanziarie per esempio.

«Non c’è dubbio. Nel 2008 abbiamo assistito a una prima grande crisi della globalizzazione, di natura finanziaria, ora siamo nel pieno di nuova crisi, politica. E una fenomenologia di questa fase è l’invadenza delle giurisdizioni».

Qual è il meccanismo preciso che spalanca le porte a questa invadenza?

«Nessuno è in grado di governare la complessità del mondo ed emergono poteri indiretti, non legittimati. Nell’intervento apparso la settimana scorsa sul Mattino segnalo anche il predominio delle Alte Corti sui Parlamenti. Che può sembrare un grande fatto di civiltà, e in parte lo è: ma se una Corte costituzionale prevarica il potere legislativo, si arriva alla distruzione dell’autonomia della politica».

Lei sostiene che si tratta di un pericolo sottovalutato.

«Siamo su un crinale che visto nel suo insieme deve necessariamente preoccupare, e molto. Nello specifico si tratta di un tema delicatissimo, di cui si parla con frequenza nel resto d’Europa ma non in Italia, per timore che il solo accenno possa fraintendersi come volontà di intaccare le prerogative della Corte costituzionale».

La causa decisiva di questo squilibrio è nella perdita di autorevolezza della politica?

«Sicuramente, e temo si tratti di uno squilibrio non rimediabile a breve».

Perché?

«La delegittimazione della politica innesca un circolo vizioso che peggiora la qualità della classe dirigente e induce ulteriore delegittimazione. È veramente difficile che ora come ora una persona di spessore si impegni in un ruolo politico o amministrativo, sapendo che al primo stormir di foglie l’obbligatorietà dell’azione penale entra in campo, e arrivano i pm, e arriva la Guardia di finanza… Non è che voglio sottovalutare il grado di degenerazione corruttiva che c’è in Italia, non è questo il punto, ma se i pm oltrepassano ogni confine, mi domando chi ancora possa decidere di mettersi in politica, se non un disperato in cerca di lavoro, per non dire di peggio. Chi è che si va a impegnare in un’attività amministrativa, in condizioni simili? È un pasticcio gigantesco, siamo di fronte a un caos difficile da descrivere, figurarsi a volerlo dominare».

Non è che i cosiddetti privilegi della casta, dai vitalizi alle immunità, sono in fondo garanzie a tutela di chi nel dedicarsi alla politica mette a rischio il proprio ruolo sociale?

«Non c’è dubbio che sia così. E aggiungo: nel Parlamento di oggi c’è ben poco che corrisponda alla condizione di un’assemblea elettiva nazionale, i deputati sono cani sciolti, non sopravvive più alcuna struttura mediana che garantisca l’effettiva espressione della sovranità popolare. E a proposito di garanzie, fino ai primi anni Novanta era necessario ricorressero condizioni davvero molto particolari perché un’assemblea parlamentare potesse perdere un proprio componente. Il che non aveva a che vedere con un privilegio abusivamente autoassegnato da una casta di impostori, ma con il fatto appunto che il Parlamento è espressione del popolo sovrano, e in quanto tale la sua collocazione è sacra, va tutelata, fino a un certo limite che sia in armonia con lo Stato di diritto. Ma sfido a dire che le norme sull’immunità non lo fossero».

Lei ha scritto: “La politica diventa qualcosa in cui si preferisce non immischiarsi, sempre più abbandonata dai migliori”. Oltre all’invadenza della giurisdizione, c’entra anche la retorica anti- casta?

«È un’ulteriore elemento che mette in discussione la qualità della classe dirigente. Intendiamoci: il fenomeno di cui parliamo non esiste solo in Italia, segna l’intero Occidente, come ricordato a proposito di Trump, anche se da noi assume un carattere di gravità eccezionale. Il tratto generale della crisi delle élites politiche, che si vede non solo in Italia, è nell’impossibilità di cogliere un punto di mediazione tra globalismo sovranazionale, cosmopolita, da una parte, e le appartenenze, le identità, dall’altra».

In che modo questo spaesamento ci porta alla crisi della rappresentanza?

«Innanzitutto è in questo vuoto che si accresce il peso di poteri diversi, da quello finanziario al potere giudiziario. Ma la risposta in sintesi è nel caso a noi più vicino: l’Europa si è dimostrata incapace di governare la complessità della crisi finanziaria e politica che si è affacciata nel 2008. Noi non possiamo limitarci a descrivere con tono disgustato i critici delle élites, dobbiamo anche criticare le élites stesse. Non possiamo ignorare cioè le ragioni del cosiddetto populismo, lo scollamento complessivo tra governanti e governati. Non è che tutto sia riducibile alla cattiveria o alla superficialità di chi alimenta la propaganda antisistema: è impossibile negare il fatto che non ci sia una cultura politica in grado di governare la complessità di questa crisi».

Il che non è un giudizio opinabile: è un fatto.

«Be’, abbiamo davanti un’intera generazione distrutta. E appunto non è che si può risolvere tutto con il dito puntato contro i populisti brutti, sporchi, cattivi e urlanti. Dentro quel buio ci sono delle ragioni, non è che nasce dal nulla. Nasce dal fatto che nessuno, tantomeno le élites, riesce a trovare le passerelle di passaggio dallo Stato nazionale alla dimensione sovranazionale».

Lei sul Mattino individua l’urgenza di una riforma della giustizia, e precisamente due passaggi: superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale e separazione delle carriere. La prima delle due questioni non sarebbe perfetta, come terreno di incontro tra politica e magistratura per una riforma, diciamo, concordata dell’ordinamento giudiziario?

«E sì che lo sarebbe, naturalmente, ma abbia pazienza: davvero possiamo pensare che ci sia una politica così autorevole da poter sollevare il tema dell’obbligatorietà dell’azione penale? Prendiamo ad esempio il governo appena sconfitto dal referendum, che pure qualcosa provava a farlo, ma che proprio sulla giustizia non è riuscito a muovere alcuna delle questioni decisive di cui parliamo. Penso al ministro, Andrea Orlando, a questo giovane pure così dinamico, che è riuscito a fare dei passi significativi su un tema difficile come il carcere: ecco, come mai anche lui su punti come obbligatorietà dell’azione penale e separazione delle carriere non ha detto niente per tre anni?»

Ha detto, per essere precisi, che non c’erano assolutamente le condizioni minime perché si potesse anche solo discutere di temi del genere.

«Appunto: alludeva evidentemente al fatto che se ci avesse provato avrebbero subito detto ‘ecco gli amici dei corrotti stanno provando a derubricare l’obbligatorietà dell’azione penale’. Non è che si sarebbe riconosciuta la necessità di razionalizzare l’arbitrio».

Non c’è margine di discussione, nel senso comune si è diffuso un riflesso condizionato che stronca in radice ogni tentativo su questo fronte.

«Nessuno vuol negare il rischio che superare l’obbligatorietà schiuda il rischio di un controllo della giurisdizione da parte dell’esecutivo, come avviene in Francia: eppure deve esserci una diga al potere assoluto dei pubblici ministeri. Qui a Napoli è girata la notizia di una misura chiesta dalla Procura, e negata dal gip, in cui l’accusa di corruzione si basava sul fatto che l’indagato offrisse spesso alla controparte caffè e cappuccini».

Considerare corruttivo il pagamento di un caffè a Napoli è oggettivamente una bestemmia, senza dover scomodare Luciano De Crescenzo.

«Nel ridicolo farsa e tragedia si mescolano sempre».

Figurarsi se esiste un margine per discutere di separazione delle carriere.

«Non c’è possibilità. Dovremmo trovarci con una classe dirigente politica talmente autorevole, dotata di una tale legittimazione da essere in grado di sfidare anche l’ordalia che verrebbe inevitabilmente scatenata dall’Associazione nazionale magistrati. La quale arriverebbe a forme di contestazione estrema, allo sciopero, iniziative gravi che un ordine giudiziario non si dovrebbe consentire. Ecco, possiamo dire che quando ci troveremo con una classe politica in grado di inoltrarsi su un terreno così accidentato allora potremo dire di essere usciti dalla crisi».

Sangermano: «Noi giudici non siamo maestri di morale», scrive Errico Novi il 24 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". «No alla supplenza della magistratura: comprometterebbe la legittimazione del sistema”. Un magistrato sa di non avere strumenti per rimediare alla «debolezza della politica», come la definisce il dottor Antonio Sangermano. Sa di non potersi neppure sostituire al legislatore. Eppure il componente del direttivo Anm e sostituto procuratore a Prato – casa sua e destinazione gradita dopo gli anni a Milano in cui tra l’altro è stato pm al processo Ruby – prova a «proporre una riflessione anche su quello che è inevitabilmente il tema del giorno, l’immigrazione, e su una misura dolorosa, innanzitutto da punto di vista morale e religioso: arrivare a espulsioni immediatamente efficaci per gli immigrati che hanno commesso reati sul territorio nazionale. Lungi dal pretendere di indicare un dispositivo di legge: è una riflessione, punto». Certo un’analisi, per Sangermano, è doverosa anche a proposito della perdita di consenso sofferta dalla politica, che non si risolve con una supplenza da parte dell’ordine giudiziario. E anzi, «se la magistratura si sostituisse alla politica farebbe un danno innanzitutto a se stessa».

Partiamo da qui allora: mai come adesso la politica è al fondo dell’indice di gradimento, e voi magistrati vi rendete conto ancora meglio, forse, che non potete sostituirla: è così?

«Credo che la magistratura non debba fare da supplente, vorrei chiarirlo subito. Il magistrato ha interesse a che la politica sia forte e autorevole e nello stesso tempo rispetti l’autonomia e indipendenza dei giudici. Se assumiamo un ruolo di supplenti, indeboliamo lo stesso ordine giudiziario».

Perché, esattamente?

«Una supplenza dei magistrati certifica il fallimento dello Stato, attribuisce loro un funzione in assenza di legittimazione democratica. Anche se processi del genere non si attivano per volontà espansiva, rappresentano comunque una delegittimazione del sistema: la magistratura è un potere dello Stato, si fortifica quanto più solida è la legittimazione del sistema nel suo complesso».

D’accordo, ma allora Mani pulite come si colloca in questa sua condivisibilissima analisi? 

«Premessa: considero Mani pulite un momento di riscatto nazionale al pari del Risorgimento e della Resistenza, in ufficio ho la foto del Pool. Il punto è che se un potere viene meno ai suoi compiti, se nello specifico è un’intera classe politica a venir meno, la magistratura deve fare il proprio dovere. In un caso come quello di Mani pulite può verificarsi che la notevole quantità degli illeciti faccia apparire l’azione giudiziaria come il processo a un fenomeno. Ma è solo la diffusività del fenomeno a creare la percezione. D’altronde gli effetti che ne derivano tornano a un certo punto nel do- minio della politica, come avvenne dopo il ’ 92-’ 93, quando il vuoto creatosi favorì l’affermarsi di nuovi soggetti come il partito di Berlusconi».

Senza volerla indurre a sostituirsi al legislatore, il tema dell’immigrazione va affrontato semplicemente con una rigorosa distinzione tra chi ha diritto all’asilo e i migranti economici?

«No, temo di no. Che l’accoglienza sia la soluzione più consentanea ai principi di moralità ed etica non c’è dubbio. Sono contrario ai respingimenti in mare: ma l’aspirazione etica va coniugata con i dati di realtà, il che vuol dire riconoscere che un’accoglienza indiscriminata crea un’effettiva insicurezza sociale».

E qual è il punto di equilibrio?

«L’integrazione deve coniugarsi a dei doveri, il primo dei quali è il rispetto della legalità. Ora, se prendiamo i curricula di chi in questi mesi si è reso responsabile di stragi in Paesi europei, sarà difficile trovarne uno che non abbia precedenti per reati commessi in quegli stessi Paesi o in altri del Vecchio Continente. Ecco perché dovremmo riflettere sull’opportunità di rendere obbligatoria e non più facoltativa l’espulsione di chi commette reati sul territorio nazionale».

Si dovrebbe attendere la condanna definitiva?

«No, d’altronde la norma vigente già prevede la possibilità di espellere all’esito di un primo accertamento del reato. Va fatta attenzione a possibili profili di incostituzionalità o di incompatibilità con il diritto europeo. E so che l’obbligatorietà e l’effettività manu militari delle espulsioni va ad impattare con aspetti delicatissimi come i ricongiungimenti familiari. Ma credo si debba riservare una particolare attenzione al profilo della sicurezza. Non v’è dubbio che il legislatore dovrebbe trovare una forma normativa il più possibile umanizzata. Così come si dovrebbe tener conto del fatto che non c’è solo il terrorismo, ma anche il caso di chi reitera sul territorio nazionale reati di altra natura».

Le espulsioni pongono il problema dei Paesi d’origine, spesso poco collaborativi, in materia.

«Però ad esempio il Paese d’origine di Anis Amri, la Tunisia, se li riprende».

Da componente del direttivo Anm, condivide le critiche aspre rivolte dal vostro presidente Davigo ai partiti, responsabili a suo giudizio di non allontanare subito chi è accusato di corruzione?

«Ho un grande rispetto per il presidente Davigo. È una persona di rara cultura e di garbo esemplare, ma non concordo con lui su tutto. La politica ha il dovere di vigilare al proprio interno e ha senso ricordarlo, ma senza che questo appaia come una sorta di monito morale. A noi spetta accertare i reati. Possiamo suggerire soluzioni ma senza che sembrino la scure di Danton».

Certo Davigo ha grande visibilità: potrebbe convenire all’Anm prorogare la sua presidenza?

«Credo che Davigo sia un ottimo presidente. E che la sua visibilità mediatica giovi all’intera magistratura, perché consente di far affiorare giuste rivendicazioni. Nel corso di quest’anno abbiamo ottenuto risultati, e mi lasci dire che questo credo dipenda anche dall’impegno della mia componente, Unicost, servito a smussare posizioni talvolta non condivisibili. Davigo ha avuto grande intelligenza politica nell’incontro con Renzi di fine ottobre: credo che nella misura in cui saprà portare a sintesi le diverse anime dell’Anm sarà un ottimo presidente, non lo sarà se prevalesse un’inclinazione al protagonismo».

Ma potrà restare presidente anche oltre aprile?

«L’accordo fissa quella scadenza e non penso che lui abbia intenzione di andare oltre, ha già pubblicamente dichiarato di non vedere l’ora di concludere il mandato».

È vero che molti giudici si lamentano dei criteri seguiti dal Csm nell’assegnare gli incarichi, e che sarebbe necessario chiarirli?

«Guardi, in questa consiliatura l’organo di autogoverno ha predisposto un testo unico che definisce le regole per l’attribuzione di direttivi e semidirettivi: la trovo una conquista storica. In precedenza la progressione di carriera avveniva per mera assenza di demerito, si è stabilito che invece deve basarsi sul merito. È il Csm che ha titolo a fare le valutazioni: poi certo, il testo unico deve completare una fase di rodaggio, ma al Consiglio superiore si deve dare atto della scelta innovativa. E personalmente credo che non si dovrebbe mai delegittimare il Csm: in questi anni ha assicurato davvero l’autonomia e l’indipendenza di noi magistrati».

I GIORNALISTI. I KILLER DELLA PRIMA REPUBBLICA.

Così i giornalisti fecero i killer della prima Repubblica, scrive Piero Sansonetti il 29 Dicembre 2016, su "Il Dubbio". La grande alleanza tra media e pm affondò un intero sistema politico. La Prima Repubblica era una cosa buona? Chi l’ha uccisa? Pierluigi Battista ha scritto un articolo sulla “Lettura” (il supplemento domenicale del “Corriere della Sera”) nel quale rimpiange quel periodo della storia recente del nostro paese, che fu il periodo del grande sviluppo economico e della affermazione della democrazia. E ne esalta molti aspetti positivi. Ieri Emanuele Macaluso, in uno scritto che abbiamo pubblicato sul Dubbio, ha fatto osservare che negli anni nei quali la prima Repubblica fu liquidata dall’inchiesta “Mani Pulite” i giornali certamente non la difesero. Vorrei andare un pochino oltre la giusta affermazione di Macaluso (che è stato tra i dirigenti più importanti di quella fase della vita repubblicana). Credo che i giornali e i giornalisti svolsero il ruolo di killer del sistema dei partiti e quindi della prima Repubblica. Assumendosi l’incarico di demolire una parte della Costituzione repubblicana, e cioè quella che delineava un sistema democratico forte e fondato sulla struttura dei partiti e dei sindacati. (Curioso notare che oggi quelli che ritengono intoccabile la Costituzione repubblicana sono o gli stessi o gli eredi di coloro che la demolirono 25 anni fa). I giornali e i giornalisti presero su di se, consapevolmente e baldanzosamente, una responsabilità diretta e macroscopica. Guidando la cacciata dei partiti dal potere politico, spianando la strada alla magistratura, e costruendo le basi materiali e teoriche per il giustizialismo, e cioè per quella ideologia robusta che – dall’inizio degli anni novanta – diventò (ed è ancora) l’ideologia nazionale, sostituendo l’ideologia dell’antifascismo, che nel primo mezzo secolo del dopoguerra aveva costituito l’elemento unificante dello spirito pubblico nazionale. Cosa fecero i giornali e i giornalisti? Usarono le inchieste della magistratura come artiglieria per sparare sul quartier generale. Decisero, con uso largo di grandi mezzi, di descrivere il Palazzo della politica come un luogo ignobile di ruberie e sotterfugi, abitato esclusivamente da malfattori e lestofanti. E subito dopo assunsero il ruolo di guida del paese, che era stato abbandonato dalla politica in fuga e che non poteva essere raccolto direttamente dai magistrati, modificando completamente la propria funzione intellettuale e civile, e preparandosi a partecipare al nuovo potere politico. Il disegno non riuscì del tutto perché quando la prima Repubblica sprofondò definitivamente, prima con un plebiscito che abolì la legge elettorale e quindici giorni dopo con il linciaggio in piazza di Bettino Craxi ( 18 e 30 aprile 1993), cioè con due strumenti tipici dell’insurrezione, ci fu la reazione ( imprevista) di un pezzo minoritario ma assai rampante della borghesia, guidato da Silvio Berlusconi, che deviò la rotta che giornali, magistrati e poteri economici ( soprattutto quelli che si radunavano attorno alla famiglia Agnelli) avevano previsto. E’ nata così, un po’ sbilenca, la seconda repubblica. In quella alleanza coi magistrati e la grande finanza, il compito dei giornalisti fu decisivo, e il modo nel quale si organizzarono molto ben studiato e definito. E’ vero che alla fine gli altri due membri dell’alleanza portarono a casa gran parte del bottino, e i giornalisti restarono a mani vuote, ma questo non ridimensiona il ruolo che ebbero di “punta di lancia” dell’operazione. Altre volte ho parlato come testimone diretto di quella vicenda. Ora, visto che il tema è tornato alla ribalta – e credo che sia un nodo decisivo della storia, non spettacolare, della crisi del giornalismo italiano e dello stato di subalternità e di inferiorità nel quale vive – voglio essere ancora più preciso. I principali giornali italiani avevano costituito un “pool”, rinunciando a quell’elemento decisivo, storicamente, nella vita dei giornali e del giornalismo, che è la competizione e la concorrenza. Quattro giornali firmarono un patto di ferro: “Il Corriere della Sera”, “La Stampa”, “L’Unità” e “La “Repubblica”. Tranne Eugenio Scalfari, tutti gli altri direttori furono direttamente coinvolti in questo patto. Erano personaggi di primissimo piano, e contavano moltissimo nell’establishment, e furono tra i pochissimi che non furono travolti dall’” insurrezione”, anzi la guidarono. Paolo Mieli, Ezio Mauro, Walter Veltroni, che erano i direttori dei primi tre giornali, e un certo numero di capiredattori di Repubblica, il nome più noto è quello di Antonio Polito. Non ho mai potuto accertare se Scalfari sapesse e se approvasse. Ho solo un sospetto. Io all’epoca ero condirettore dell’Unità, e dunque – lo confesso – partecipai direttamente a molti colloqui e assistetti a tutto ciò che avvenne. Ogni sera, verso le sette, i direttori o i vicedirettori o i capiredattori, si sentivano per telefono e decidevano come fare le prime pagine, come dare le notizie, con quale forza, con quale gerarchia. Tutte le notizie, ovviamente, ma soprattutto le notizie che riguardavano il palazzo e l’inchiesta sulle Tangenti, che ogni giorno mieteva nuove vittime. Le “macchine”, come si dice in gergo, dei giornali furono rivoluzionate. I giornalisti non erano più titolari delle notizie, rispondevano a questa specie di “spectre” che era il supervertice dei quattro giornali. Il pool di direttori si interfacciava con in pool di giornalisti giudiziari, che aveva coinvolto anche giornalisti delle Tv, ed era alle dirette dipendenze delle Procure, e in particolare della Procura di Milano. Nessun giornalista giudiziario che non facesse parte del pool poteva più accedere a nessun tipo di notizia di giudiziaria, e rapidamente, per questa ragione, veniva eliminato dalla piazza. Il pool dei direttori – nel quale spiccava una specie di diarchia: Mieli che era il giornalista più autorevole, e Veltroni, che guidava un giornale ma era l’unico esponente della politica ammesso a questo consesso – aveva assunto anche vere e proprie funzioni legislative. L’esempio più clamoroso è quello del decreto– Conso. E’ un decreto legge varato dal Consiglio dei ministri il 5 marzo del 1993 ( come vedete, se fate attenzione alle date, di poche settimane precedente al referendum– plebiscito e al linciaggio di Craxi, cioè agli atti finali dell’insurrezione) nel quale il ministro della giustizia, Giovanni Conso ( giurista celebre e stimatissimo, ex presidente della Corte Costituzionale) disponeva la depenalizzazione del finanziamento illecito dei partiti ( non degli arricchimenti personali) per porre un argine all’ondata giustizialista. Il decreto non fu bocciato dal Parlamento ma dal pool dei giornali. Ricordo che quel giorno all’ Unità era arrivato un articolo di un dirigente del partito, favorevole al decreto. Poi alle sette del pomeriggio ci fu l’abituale giro di telefonate con gli latri direttori e si decise di affossare il decreto. L’editoriale fu corretto. Il giorno dopo i quattro giornali spararono a palle incatenate, e tutti gli altri giornali li seguirono (la potenza di fuoco di quei quattro giornali era grandissima e costringeva le altre testate ad adeguarsi). Il Presidente della Repubblica si rifiutò di firmare il decreto, che decadde. E quello fu lo squillo di tromba che diede il via all’ultima e definitiva offensiva che travolse gli argini e annientò la prima Repubblica e un’intera, e valorosissima, classe dirigente che aveva portato l’Italia ai grandi successi economici e alla conquista della democrazia piena e dello Stato di diritto. Le cose andarono così, e tanti miei colleghi possono confermare. Quali furono le conseguenze per la solidità della nostra democrazia è ancora oggetto di discussione. Personalmente credo che la democrazia fu fortemente indebolita. Da due elementi. Il primo è il dilagare dell’ideologia giustizialista, che ha travolto lo Stato di diritto. Il giustizialismo è una ideologia che non credo sia compatibile con la democrazia liberale. Il secondo elemento è lo strapotere che è stato assunto dalla magistratura e dall’economia, che ha messo in discussione lo Stato liberale. Non si è mai invece nemmeno discusso di quali furono le conseguenze per il giornalismo italiano. Io credo che in quei giorni il giornalismo italiano morì. Sepolto dal suo tradimento. Il giornalismo nel suo Dna ha l’obbligo di informare, ha la ricerca dell’oggettività, la terzietà rispetto agli scontri di potere. Il giornalismo ha l’obbligo di criticare il potere, di contrapporvisi. In quelle giornate tra il 1992 e il 1993 abiurò. Decise di farsi travolgere nelle lotte del potere e di diventarne parte attiva e anzi parte dirigente. Di accettare la subalternità ai magistrati e ai potenti dell’economia, nella convinzione di poter poi svolgere una funzione di guida nella nuova alleanza. Non gli fu affidata la guida, invece, ma solo una funzione servile. Non si è mai ripreso – credo – da quel crollo. Forse per questo oggi il giornalismo italiano è lontano mille miglia dal grande giornalismo europeo e americano. Loro hanno “Le Monde”, il “New York Times”, fanno informazione e cultura. Noi abbiamo “Il Fatto” (e molti altri simili), facciamo propaganda e ufficio stampa alle Procure.

Quella giornata particolare del 1992 in cui incontrai Di Pietro…scrive Francesco Damato il 30 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". Il pm mi rassicurò che in nessuna delle carte spedite dalla procura alla Camera si può trovare uno spunto a carico dell’ex presidente del Consiglio Bettino Craxi. All’onesto e autocritico racconto di Piero Sansonetti, ieri sul Dubbio, vorrei aggiungere una testimonianza sul ruolo a dir poco improprio svolto dai giornali negli anni terribili delle indagini giudiziarie sul finanziamento troppo a lungo illegale della politica. Terribili, come li ha giustamente definiti in un libro di meritato successo Mattia Feltri, rimbrottato dal padre, Vittorio, che diede in quei tempi il suo contributo all’imbarbarimento dell’informazione, scambiando spesso lucciole per lanterne, comunque trasformandosi in un megafono delle Procure, a cominciare naturalmente da quella di Milano. È proprio a Milano che scorre, nella primavera del 1992, quella giornata particolare, diciamo così, della mia esperienza più diretta di Mani pulite, che è rimasto il nome della vicenda giudiziaria costata la vita a un po’ di imputati, suicidi o no, e soprattutto alla cosiddetta prima Repubblica. Che pure non aveva certamente demeritato nella costruzione della democrazia in Italia dopo le tragedie del fascismo e della guerra. Quella giornata particolare del 1992 quando incontrai a Milano Tonino Di Pietro…Le agenzie trasmettono dalla prima mattina indiscrezioni provenienti dalla Camera, dove la giunta delle autorizzazioni a procedere è alle prese con le carte giunte dalla Procura ambrosiana sugli ex sindaci socialisti di Milano Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli, sospettati di ricettazione delle tangenti gestite dal collega di partito Mario Chiesa, arrestato il 17 febbraio in flagranza di reato con un’operazione diretta da Antonio Di Pietro. Le indiscrezioni romane, in gran parte diffuse o attribuite poi, a torto o a ragione, al deputato ambientalista Mauro Paissan, ex direttore del Manifesto, considerano il leader del Psi Bettino Craxi, peraltro cognato di Pillitteri, già coinvolto nelle indagini. E quindi fortemente a rischio nella crisi che sta gestendo il nuovo presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro per la formazione del primo governo della legislatura uscita dalle urne del 18 aprile. Si sa che esiste un accordo addirittura pre-elettorale fra democristiani e socialisti per un ritorno di Craxi a Palazzo Chigi, da dove egli era stato sfrattato in malo modo nel 1987, dopo quasi quattro anni di governo, dall’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita, sostituito poi da Arnaldo Forlani, vice dello stesso Craxi in quell’esperienza di capo del governo. Nel pomeriggio di quella giornata di primavera, tornando a piedi nella redazione del Giorno, che dirigo da tre anni, incontro per caso in Piazza della Scala Antonio Di Pietro. Che allontana col cenno di una mano gli agenti della scorta per venirmi incontro e parlarmi. Ci conosciamo solo superficialmente, avendolo incontrato una sola volta a pranzo, all’inizio del mio incarico al Giorno, col comune amico Claudio Dini, presidente della Metropolitana Milanese. Debbo inoltre a Di Pietro una certa gratitudine professionale perché, pur conoscendo il modo non acritico in cui seguivo le sue inchieste, ha avuto l’onestà in una intervista di difendermi dalle accuse, provenienti anche dall’interno del mio giornale, di non divulgare col dovuto rilievo, diciamo così, le notizie della Procura. D’altronde era stato proprio Il Giorno a destare l’anno prima la curiosità della Procura con servizi di cronaca su ciò che accadeva negli ospedali per la macabra corsa delle agenzie funebri all’accaparramento dei clienti. E all’arresto di Chiesa, presidente della cosiddetta Baggina, ospedale e insieme casa di riposo, Il Giorno era stato il solo a sparare la notizia in prima pagina, per mia personale decisione: tanto che all’indomani, visti gli altri giornali, nella prima riunione redazionale chiesi, un po’ preoccupato, al responsabile della Cronaca se fosse sicuro della notizia nei termini da noi riferiti. Cosa, questa, che dopo qualche tempo – giusto per darvi l’idea del clima che stava montando – avrei trovato raccontato su un quotidiano come prova di un mio intervento censorio sulla redazione. Ma torniamo all’incontro con Di Pietro in quel pomeriggio. Tonino, come lo chiamano gli amici, allarga le braccia e mi esprime tutto il suo stupore per le notizie, anzi per le indiscrezioni diffuse dalle agenzie sul coinvolgimento del presidente. Ch’egli nomina così facendo cenno verso la Galleria, cioè verso gli uffici milanesi di Craxi. Di Pietro mi assicura che in nessuna delle carte spedite dalla Procura alla Camera si può trovare uno spunto a carico dell’ex presidente del Consiglio. E mi anticipa che fra poco la stessa Procura emetterà una nota. In effetti dopo un paio d’ore viene diffusa una smentita dagli uffici giudiziari con la classica formula dell’estraneità di Craxi ‘ allo stato’ delle indagini. Formula che poi sarà usata dal capo della Procura, Francesco Saverio Borrelli, nella inusuale partecipazione alle consultazioni riservate del presidente della Repubblica per la formazione del nuovo governo. Che si risolveranno col conferimento dell’incarico a Giuliano Amato, anziché a Craxi. Nella riunione serale di redazione per la confezione della prima pagina decidiamo di titolare sul comunicato della Procura, destinando le indiscrezioni a carico del segretario socialista non ricordo più se al sommario o al catenaccio, come si chiama in gergo tecnico un rigo vistoso di sottotitolo: tutto a metà pagina, per dare più spazio agli arresti ormai di giornata. A tarda sera, mentre sto per scendere in tipografia a chiudere il giornale – altro gergo tecnico – mi chiama da Roma l’amico Ugo Intini, portavoce e consigliere di Craxi, per chiedermi la cortesia di dirgli come saremmo usciti. Alla lettura del titolo mi chiede un’altra cortesia: Posso farti chiamare da Roberto? Che è Villetti, direttore dello storico Avanti!, il quotidiano ufficiale del Psi. Villetti mi chiama dopo un quarto d’ora e non mi lascia neppure il tempo di salutarlo perché mi assale, letteralmente, con questa domanda: ‘ Ma è vero che esci titolando sulla smentita della Procura? Certo. È l’unica notizia vera. Il resto è un assemblaggio di condizionali, di sembra che, di pare. Vuoi che privilegi questa roba, utile solo a boicottare l’incarico di governo a Craxi?, gli rispondo. Roberto si traveste da fratello, non bastandogli più l’amicizia, e mi dice, accorato: ‘ Francesco, ma che fai? Non essere più realista del re. Questo ti nuoce professionalmente. Non reggo più a sentirlo. Lo saluto e fuggo via dal telefono. Sono sinceramente esterrefatto. Mi metto le mani fra i capelli pensando a qualche mese prima, a quella trattoria di Bari dove avevo trattenuto Bettino dall’intenzione che mi aveva espresso di cambiare il direttore dell’Avanti!. Non avevo neppure fatto tanta fatica. Mi era bastato chiedere a Craxi perché mai volesse fare di Roberto un martire. Il primo avviso di garanzia al leader socialista sarebbe arrivato verso la fine del 1992: il primo di una lunga serie. E dopo qualche settimana si sarebbe dimesso da segretario del partito scrivendomi, con quella sua grafia grande e frettolosa: ‘ Faccio come il generale Kutuzov. Indietreggio per poter poi attaccare’. Povero Bettino. Si illudeva di poter ancora fronteggiare la belva scatenata da quella che dopo, molto dopo, il buon Luciano Violante avrebbe sarcasticamente chiamato la carriera unica di pubblici ministeri e giornalisti. E che Piero Sansonetti ha efficacemente descritto raccontando delle telefonate che scorrevano ogni sera fra le redazioni dei maggiori giornali, compreso il suo, l’Unità, per consultarsi e uscire poi il più omogeneamente possibile. *** Fa bene Piero a dubitare della consapevolezza di Eugenio Scalfari in questa partita. Di lui ricordo nitidamente, senza bisogno di ricorrere all’archivio, l’editoriale sui decreti che, su iniziativa dell’allora guardasigilli Giovanni Conso, il primo governo di Giuliano Amato varò nel marzo del 2013 per la cosiddetta ‘ uscita politica’ da Tangentopoli. Che non sarebbe forse servita a salvare lo stesso la prima Repubblica – quella vera, non la Repubblica di carta di Scalfari – ma avrebbe probabilmente ridotto le perdite. Usciti peraltro da una lunghissima riunione del Consiglio dei ministri, sospesa una ventina di volte per consentire consultazioni telefoniche fra gli uffici di Palazzo Chigi e del Quirinale, i decreti Conso furono giudicati positivamente da Scalfari. Che non aveva previsto le proteste della Procura di Milano, il cui capo lesse personalmente davanti alle telecamere una dichiarazione di forte dissenso, negando che quella roba lì rispondesse in qualche modo, come si era scritto da qualche parte, alle attese degli ormai stanchi inquirenti; spiegando che le nuove norme avrebbero invece danneggiato le indagini; minacciando infine ricorsi alla Corte Costituzionale. Tanto bastò al capo dello Stato per scomodare di domenica i suoi uffici al Quirinale e fare annunciare un suo motivato rifiuto di firmare i decreti legge e renderli esecutivi. Giocò, in particolare, contro uno dei decreti il fatto che, riformando la legge sul finanziamento dei partiti avrebbe fatto saltare un imminente referendum abrogativo della stessa legge promosso dai radicali. Se il decreto non fosse stato approvato dalle Camere entro i 60 giorni prescritti dalla Costituzione, il danno apportato al referendum – osservò Scalfaro – sarebbe risultato irrimediabile. Comunque motivato, l’imprevisto rifiutò della firma di Scalfaro segnò, dopo la resa della libera informazione e quella della politica, la resa anche delle istituzioni. Per la Repubblica, senza discontinuità purtroppo fra la prima che moriva e la seconda che si affacciava in quei giorni alle finestre del referendum elettorale contro il sistema proporzionale, fu un’altra storia. Per uscire dalla quale, con un riequilibrio fra politica e giustizia, entrambe al minuscolo per favore, chissà quanto altro tempo dovrà ancora trascorrere.

Com'è stato "ucciso" Craxi, scrive "Abcnews.free.fr" (Da "Sicilia Sera"). La morte di Bettino Craxi ha messo in luce alcune gravi aberrazioni del sistema giuridico italiano (condannate costantemente già da tempi dalla Corte europea per i diritti dell'uomo di Strasburgo) che hanno permesso e permettono abusi in serie. Calpestati sistematicamente principi fondamentali del diritto. Una dichiarazione illuminante del Procuratore della Repubblica di Milano, Gerardo D'Ambrosio. A seguito della morte di Bettino Craxi, il "pool" milanese detto di "mani pulite" è stato letteralmente sommerso da accuse per non aver permesso a Craxi di rientrare in Italia da libero per consentirgli di curarsi adeguatamente in una clinica milanese che dava ogni garanzia operatoria e post-operatoria, invece che in una struttura tunisina assai meno adeguata. Ciò avrebbe permesso a Craxi di essere curato seriamente, ed oggi sarebbe probabilmente ancora in vita. Per difendersi da queste critiche, il Procuratore di Milano Gerardo D'Ambrosio ha dichiarato a "Repubblica" che non era possibile far rientrare Craxi in Italia da libero, poiché c'erano ormai a suo carico condanne definitive. Ebbene, con questa dichiarazione, il D'Ambrosio non ha fatto che dare - certo involontariamente - la misura di quanto aberrante sia l'attuale sistema giuridico italiano. In qualunque altro paese civile infatti una condanna non può mai diventare definitiva se emessa in un processo in cui l'accusato, per una ragione o l'altra, non è stato presente. Anche nel caso che, come Craxi, vi si sta sottratto volontariamente "con la fuga", come suol dirsi. Nessuno in effetti è tenuto ad andare volontariamente contro se stesso presentandosi al carnefice, o comunque ad un tribunale che potrebbe attribuirgli una pesante condanna. Per esempio in Francia (la cui magistratura è notoriamente fra le più rispettate del mondo) se un tribunale condanna qualcuno non presente al processo (cioè, come suol dirsi, "contumace" o "latitante") la condanna non può diventare definitiva. Se in seguito il condannato si presenta volontariamente, oppure è catturato, il processo viene rifatto in sua presenza. Un processo è infatti costituito da tre elementi indispensabili: l'accusatore, l'accusato e il giudice. Se ne manca uno - per esempio l'accusato - non può considerarsi un vero processo. Si tratta di un principio fondamentale, inderogabile del diritto, mirante ad evitare che si possa condannare qualcuno senza che si difenda. Anche in Italia "culla del diritto"(ma divenutane la tomba) vigeva naturalmente questo principio fondamentale. Finchè prima della seconda guerra mondiale, negli anni 30, il regime di allora, per mettere facilmente i suoi oppositori nell'impossibilità di nuocere, trovò comodo sostituirlo con il criterio antigiuridico che una condanna "contumaciale" poteva diventare definitiva ed esecutiva. Questo "criterio" mostrò largamente la sua efficacia con accusati che si chiamavano, per esempio, Pietro Nenni, Giuseppe Saragat, Sandro Pertini, Luigi Sturzo, Giorgio Amendola. Grazie ad esso, alcuni di costoro si trovarono in galera senza essersi potuti difendere, in seguito a condanne che si facevano risultare "definitive ed esecutive" senza che al processo si fossero mai visti gli accusati; ed altri, per non subire la stessa sorte, dovettero riparare all'estero, Francia e Stati Uniti soprattutto. Finita la guerra e caduto il regime di allora, molte cose cambiarono in Italia, ed anche si ribaltarono. Saragat e Pertini, i condannato rifugiatisi in Francia, divennero perfino Presidenti della repubblica italiana. Ma, stranamente, quel criterio antigiuridico che era stato loro applicato non fu eliminato dal nuovo regime repubblicano...Ed è così che lo si è potuto applicare ora anche a Bettino Craxi ... fino alla sua morte. Il più strano è che nessun media ha rilevato quanto elemento di importanza capitale. Eppure, a causa di questo criterio antigiuridico, l'Italia ha già subito innumerevoli condanne dalla Corte europea per i diritti dell'uomo di Strasburgo che le ha ingiunto, come in suo potere, di rientrare nella legalità rispettando quel principio fondamentale. Ma l'Italia non ha ancora ottemperato, restando così in piena illegalità. Identico sistema era stato a suo tempo usato contro un giornalista e scrittore le cui famose inchieste e campagne di stampa negli anni 60 e 70 rendevano particolarmente "scomodo" per certi ambienti e personaggi politici ed economici italiani molto "in alto, dalle attività non precisamente confessabili. Stiamo parlando di Stefano Surace. Non riuscendo a farlo condannare normalmente, poiché le sue inchieste erano ben documentate, gli si lanciarono contro degli ordini di cattura per pretesti reati a mezzo stampa, sicché fu costretto a riparare all'estero (come farà appunto Craxi). Dopodiché gli si lanciò, in sua assenza, una vera raffica di condanne per pretesi reati a mezzo stampa, per un assurdo totale di ... diciotto anni di galera (neanche per un assassinio efferato); che, come per Craxi, furono fatte diventare subito definitive ed esecutive grazie a quel criterio antigiuridico. Ma per Surace le cose andarono un po' diversamente che per Craxi. La magistratura francese (ripetiamo, fra le più stimate del mondo) ha considerato "inesistenti giuridicamente" tutte (diciamo tutte) quelle condanne attribuitegli in Italia, constatando che erano state emesse in violazione di principi fondamentali del diritto; fra cui quello, appunto, che una condanna contumaciale non può essere dichiarata definitiva. Per di più il Presidente della repubblica francese, Jacques Chirac, decorò Surace della medaglia d'oro, sulla quale è inciso "Parigi a Stefano Surace"...Lezione esemplare per quei magistrati italiani che pretendevano di fargli fare diciotto anni di galera! Surace è stato letteralmente coperto di onori anche in Spagna, in Gran Bretagna e perfino in Giappone. Lo stesso governo italiano, rendendosi conto di quanto l'"affaire Surace" danneggiasse anche all'estero l'immagine della Penisola - e non sapendo cos'altro fare poiché il giornalista-scrittore rifiutava ogni ipotesi di grazia che non comportasse una esplicita sconfessione ufficiale di quelle condanne - rinunciò a qualsiasi tentativo di estradizione (d'altronde senza speranza) vietando agli organi competenti qualsiasi procedura in tal senso nei suoi riguardi. Da aggiungere che, allorché Surace dovette espatriare in Francia, certi personaggi dell'Ordine dei giornalisti, invece di mobilitarsi in sua difesa come loro dovere, tentarono di pugnalarlo alle spalle, radiandolo. Ma in seguito la Corte di Appello di Napoli e la Corte di Cassazione hanno dichiarato illegittima questa radiazione e l'Ordine ha dovuto reiscriverlo. Ed ora i legali del Surace hanno citato l'Ordine per 19 miliardi di lire, a titolo di risarcimento dei danni materiali e morali cagionati da quella radiazione indebita. Ma questo contro Surace non era stato che l'ultimo episodio di una lunga serie di autentici "safari" contro personaggi scomodi. Per esempio quello contro un altro grande giornalista, Gaetano Baldacci. Fondatore de "Il Giorno" (quotidiano che in qualche mese di vita, con lui direttore, aveva quasi superato il "Corriere della Sera") in seguito aveva lasciato "Il Giorno" fondando il celebre settimanale "ABC" (di cui era direttore ed editore) concentrandovi quasi tutti i giornalisti italiani "troppo vivaci". Ma non si tardò a lanciargli un ordine di cattura con un'accusa fasulla, tanto che dovette rifugiarsi in Libano e poi in Canada. Parecchi anni dopo si riconobbe che l'accusa era fasulla, ma intanto era stato distrutto: tornato in Italia, dopo pochi mesi morì di crepacuore. Mino Pecorelli, giornalista molto deprecato in certi ambienti anche per la straordinaria esattezza delle sue notizie, commentò ad un certo punto sul suo settimanale "OP" ("Osservatorio Politico"): "Una giustizia che realizzi simili exploits perde ogni residua credibilità non solo all'interno del Paese, ma anche a livello internazionale. Non si tratta difatti di semplici errori come possono sempre capitarne, ma di una serie lunghissima di fatti aberranti". Ebbene, pochi giorni dopo aver scritto queste righe, Pecorelli fu ucciso da un killer. Si cercò di addossare la colpa del delitto ad Andreotti, chiudendo sistematicamente gli occhi su altre piste, indicate proprio da Stefano Surace in alcuni suoi libri e interviste alla stampa e alla televisione. Piste che conducevano diritto ad ambienti vicini a certi magistrati di Monza, che Pecorelli aveva additato alla pubblica attenzione per certo loro operato a favore di petrolieri evasori e di loro complici "ad alto livello", nel quadro del famoso scandalo dei petroli. Dopo anni, le accuse contro Andreotti sono cadute clamorosamente, ma - poiché le altre piste erano state ignorate con cura - i responsabili di quel delitto restano tuttora "ignoti"...Intanto un gruppo di intellettuali (l'italiano Federico Navarro, il francese Daniel Mercier e l'italo-francese Angelo Zambon) hanno promosso una petizione indirizzata alle autorità politiche, in cui si sottolineano fra l'altro "i casi gravissimi che sono stati resi possibili dal fatto che in Italia è ancora in vigore un tipo di processo penale contumaciale che viola gravemente il diritto, consentendo fra l'altro di dichiarare definitive ed esecutive condanne emesse in assenza dell'accusato; come costantemente ribadito anche dalla Corte europea pei diritti dell'uomo, che per questa ragione ha condannato ormai innumerevoli volte l'Italia". Affare da seguire...

TANGENTOPOLI. UN TEMA STORICO.

Vi racconto la vera storia del linciaggio a Bettino Craxi, scrive Francesco Damato l'1 dicembre 2016, su "Il Dubbio". Il paragone tra lui e Renzi? Non è esatto. Così fu lasciato solo il leader socialista. La timida difesa di D'Alema da "l'assalto dei cani". A Bettino Craxi non è capitata la disavventura del suo antagonista Enrico Berlinguer, arruolato d'ufficio ai primordi della campagna referendaria nel fronte del Sì alla riforma costituzionale fra le proteste della figlia Bianca. Che forse ha perduto anche per questo, la direzione del Tg3, già pericolante di suo e logorata da una durata non comune nella storia della Rai. Bianca, d'altronde, è lì, professionalmente in sella come merita. Ma allo scomparso leader socialista è forse accaduto anche di peggio. Non so, se dove si trova, e presumo possa guardare molto dall'alto ciò che miseramente accade quaggiù, può aver gradito quella "certa arroganza" rimproveratagli dall'amico Silvio Berlusconi, in una intervista alla nostra Paola Sacchi, per paragonarlo all'attuale presidente del Consiglio. Dal quale comunque, e per fortuna, l'ex Cavaliere ha avuto almeno il buon gusto di distinguerlo per l'ampiezza di visione politica che mancherebbe al toscano. Meno male, visto anche come Renzi parla di Craxi, lamentandone quanto meno l'"opportunismo", contrapposto alla "generosità", o qualcosa di simile, di Berlinguer. Non so neppure quanto abbia potuto Craxi apprezzare da lassù il merito appena rivendicato quaggiù da Massimo D'Alema di averlo difeso dai "cani" che l'azzannarono dopo la caduta, come forse lo stesso D'Alema teme o spera di dover fare col rottamatore Renzi dopo la prevedibile, e comunque da lui prevista, sconfitta rovinosa nel referendum di domenica prossima. L'ultima immagine di D'Alema conservata da Craxi, riferitagli da me dopo un incontro col nostro comune amico Gerardo Bianco, è quella di un uomo gelidamente silenzioso, e consenziente, in una riunione che precedette alla Camera le votazioni a scrutinio segreto sul grappolo delle autorizzazioni a procedere contro l'ormai ex segretario giornalista avanzate dalla Procura di Milano e altre. Si era a fine aprile del 1993. Il governo di Carlo Azeglio Ciampi, comprensivo di ministri e sottosegretari del Pds-ex Pci, era fresco di nomina e attendeva la fiducia dei deputati. Achille Occhetto, accompagnato appunto da D'Alema, chiese un incontro col segretario della Dc Mino Martinazzoli, che Bianco ospitò nel proprio ufficio di Montecitorio. Il segretario dell'ex Pci chiese come "prova della svolta" politica costituita dal governo Ciampi, subentrato al primo governo di Giuliano Amato, che i deputati democristiani, per i quali avrebbe parlato in aula proprio Bianco, votassero a favore dei processi a Craxi. Martinazzoli cadde dalle nuvole e, anche come avvocato, spiegò come e perché i parlamentari democristiani non fossero soliti ricevere ordini in quelle circostanze, dovendo votare solo "secondo coscienza". Cosa che in effetti fu poi ripetuto in assemblea da Bianco con un discorso interrotto dalla sinistra, dalla destra e dai leghisti perché troppo riguardoso verso l'ex presidente del Consiglio. Di cui furono permessi solo alcuni dei processi, non tutti. Scoppiò allora il finimondo, in aula e fuori. Occhetto, sempre nel silenzio del suo capogruppo, ordinò per ritorsione il ritiro della "delegazione" post-comunista dal governo. E la folla inferocita, raccolta per un comizio in Piazza Navona, si riversò davanti alla vicina residenza alberghiera di Craxi per rovesciargli addosso ingiurie, sputi, monetine, accendini, ombrelli: uno spettacolo semplicemente ignobile, sul piano umano ma anche politico. L'allora capogruppo dell'ex Pci alla Camera non si vide e neppure si sentì allora per soccorrere Craxi dall'assalto dei "cani". Egli cercò invece di soccorrerlo dopo sei anni da presidente del Consiglio, come si è appena vantato in quel di Campobasso, per avviare o sostenere una "trattativa umanitaria", apertamente auspicata dall'Unità diretta da Peppino Caldarola, dopo che Piero Sansonetti aveva già proposto la grazia, perché a Craxi, ormai prossimo alla morte, fosse concesso di tornare libero in Italia dal suo rifugio tunisino: libero, cioè senza che fosse piantonato come un detenuto in ospedale. Fedeli alla "durezza senza uguali" che sarebbe stata lamentata dopo dieci anni da Giorgio Napolitano, nel frattempo diventato presidente della Repubblica, i magistrati di Milano resistettero. "Resistere, resistere, resistere" era del resto diventato un po' il motto di Francesco Saverio Borrelli, il mitico capo della Procura di Milano negli anni di Mani pulite e poi Procuratore generale della Corte d'Appello, quando, chiuso il caso Craxi, cominciò all'ombra della Madonnina la lunga avventura giudiziaria e politica di Berlusconi. Non ho motivo per non credere a ciò che D'Alema ha raccontato a Campobasso: che Craxi avesse conosciuto e apprezzato il suo soccorso parlandone con l'amico Arafat, a sua volta affrettatosi alla prima occasione a riferirne, come a ringraziarlo, all'allora presidente del Consiglio. Temo, purtroppo, a dramma consumatosi, dopo la morte e la sepoltura di Bettino in quel piccolo cimitero di Hammamet affacciato sul mare che separa la Tunisia dall'Italia. Ma non ho motivo neppure per nascondere o dimenticare una scena raccontatami dal carissimo e compianto Nicola Mansi, amico oltre che fedelissimo autista di Craxi. Molti furono i messaggi arrivati a Bettino prima e dopo il difficile, direi disperato intervento chirurgico eseguito su di lui dai suoi medici di Milano nell'ospedale militare di Tunisi, il più attrezzato del paese, dove però i chirurghi avevano dovuto portare i ferri dall'Italia e la lampada per illuminare quell'angolo della sala operatoria fu sollevata è tenuta ferma con le mani da un infermiere. Fra i messaggi augurali ce ne fu uno portato personalmente, credo, dall'ambasciatore italiano a Tunisi. Ma era un dispaccio desolante per la sua forma burocratica. Non era neppure firmato Massimo D'Alema, potendo, anzi dovendo bastare la qualifica del presidente del Consiglio. Craxi sarà pure rimasto contento e commosso del pur inutile tentativo di D'Alema di farlo tornare vivo e libero in Italia, senza peraltro che il presidente del Consiglio avesse pubblicamente polemizzato con i magistrati insensibili anche a questo passaggio estremo, ma di quel messaggio fece un mezzo gomitolo di carta e lo buttò a terra. Lì, arrotolata, fini in qualche modo anche la già malmessa sinistra italiana. Com'era finita nel 1968, fra gli inutili e disperati appelli di Aldo Moro all'umanità e alla sua personale salvezza nella guerra dichiarata e condotta da un manipolo di brigatisti rossi, la Democrazia Cristiana. Che alla fine di Moro sopravvisse come un vegetale per 15 anni, per buona parte proprio grazie a Craxi. Sarò forse esagerato, mi faranno velo la stima e l'amicizia avute con entrambi, al netto di tutti gli errori che l'uno e l'altro, così diversi fra loro, potettero commettere come uomini e come politici, ma questa è la convinzione che ho maturato vedendo ciò che è seguito alla loro scomparsa, compreso questo pasticciatissimo referendum alle porte. Del quale ormai prima ci libereremo e meglio sarà per i troppi significati di cui è stato caricato, nel bene e nel male. Un referendum che credo lascerà la bocca amara a tutti, vincitori o sconfitti che saranno, o si proclameranno.

Tangentopoli è materia per gli storici, scrive il 27 settembre Federico Di Luigi su Rete 8. La parola ai vinti. Tangentopoli allo scanner, tra problematiche interne e scenari internazionali è stato questo il titolo del convegno organizzato dal Master “Enrico Mattei” dell’Università degli studi di Teramo. Al convegno sono intervenuti, tra gli altri, Bobo Craxi, sottosegretario per i rapporti con l’ONU sotto il governo Prodi il quale ha parlato della Fine della guerra fredda, falsa “Rivoluzione” italiana e Paolo Cirino Pomicino, ministro dei governi democristiani, con un intervento dal titolo “Un paese politicamente disarmato”.  All’incontro anno partecipato anche Danilo Sentella, opinionista politico ed economico e direttore del Centro Studi Malfatti il quale è intervenuto sulle Conseguenze di Tangentopoli sulla politica italiana, Nico Perrone, storico presso le Università di Bari e di Roskilde (DN) il quale ha parlato del patrimonio pubblico italiano mentre Claudio Moffa, coordinatore del master Enrico Mattei, ha illustrato le Proiezioni internazionali dell’operazione Mani Pulite. «I vinti – ha spiegato Moffa – sono i cittadini italiani, colpiti dalle conseguenze economiche di Tangentopoli. Ne parlano alcune persone fuori dal coro, a ricordare che nei rivolgimenti drammatici di quegli anni, segnati da abusi, morti oscure e attentati, non c’era solo l’innegabile corruzione esistente tra i politici di allora, ma anche altri temi meno citati e discussi, cruciali per la storia della Repubblica: le privatizzazioni dell’Industria di Stato e della Banca d’Italia del 1992, gli scenari internazionali caratterizzati dall’attivismo di eminenti personalità americane contro il governo Craxi-Andreotti, il duo protagonista della storica pagina di Sigonella (7 ottobre 1985)».

1992-93. Tangentopoli investe l’Italia. Gli Stati Uniti temono un golpe. Report e cablo inviati dall’ambasciata al Dipartimento di Stato raccontano i timori di Washington e le fonti utilizzate per aggiornarsi. Nei dispacci anche le simpatie per i pm, scrive Francesco Battistini il 22 ottobre 2016 su "Il Corriere della Sera". L’Italia rischia un golpe? È la sera del 12 marzo 1993, ore 18.49. L’aria di Roma è ancora fresca, la bufera giudiziaria infuria. Dall’ambasciata americana, l’incaricato d’affari Daniel Serwer invia al Dipartimento di Stato l’ennesimo rapporto sulla «rivoluzione» (la chiama così) di Tangentopoli. Tempi duri: da Washington premono per capire che cosa diavolo stia succedendo in Italia. Nelle ultime settimane si sono dimessi i segretari Bettino Craxi e Giorgio La Malfa, il presidente Scalfaro s’è rifiutato di firmare l’ennesimo decreto salvaladri, i manager Fiat sono finiti in manette, il finanziere Pacini Battaglia s’è costituito per svelare i fondi neri Eni… Un intero mondo sta crollando, scrive Serwer, e non manca «any worry about a possible coup»: qualche preoccupazione per un possibile colpo di Stato. Ma di chi? Il diplomatico fa un giro d’opinioni e riferisce le parole di vari leader italiani. C’è il segretario pds Achille Occhetto che esclude un simile rischio: «L’Italia non ha una tradizione di golpe». E Piero Fassino che rassicura di persona l’ufficio politico dell’ambasciata Usa: «Le forze armate italiane sono di leva e riluttanti a farsi coinvolgere nella politica interna». Gli americani però non si fidano, perché «il leader leghista Umberto Bossi in private conversazioni ha espresso ripetutamente preoccupazione per tentativi di golpe o per l’uso di forze paramilitari che ostacolino il cambiamento». Anche in ambienti del Pds, osserva il rapporto, si dubita che «i servizi d’intelligence o i carabinieri rimangano spettatori neutrali», tanto che Massimo D’Alema è stato esplicito nell’insinuare «che i servizi segreti siano coinvolti nelle rivelazioni sui collegamenti fra il Pds e un conto svizzero utilizzato per le tangenti». Insomma, c’è da temere? La rivoluzione italiana è in corso e «i venti sono potenti», dice l’ambasciatore, ma oltreoceano stiano tranquilli: «Roma oggi non è la Parigi del 1789, la Pietroburgo del 1917 e nemmeno la Boston del 1775, il cambiamento non si raggiungerà con armi e ghigliottina». E questo — il diplomatico spiega con un filo d’ironia le immagini tv dei giuramenti di Pontida — «nonostante alcune persone si siano travestite da guerrieri medievali e abbiano contestato le tasse inique». Sono 42 pagine «confidential». Sette cablo, inviati fra il 15 settembre 1992 e il 27 luglio 1993. Report inediti e declassificati di cui il «Corriere della Sera» è entrato in possesso. Raccontano come l’ambasciatore americano Peter Secchia e il reggente Serwer valutassero Mani pulite e la fine della Prima Repubblica. Con chi parlavano, di chi si fidavano, che cosa prevedevano. Con qualche sorprendente giudizio: sull’operato del Quirinale, per esempio, definito «insolito» quando Scalfaro suggerisce al premier Giuliano Amato di stare alla larga dalle direzioni d’un Psi ormai morente (un’evidente reazione alle parole di Craxi, scrivono da via Veneto, dopo che il segretario socialista ha chiesto una commissione parlamentare d’inchiesta sul finanziamento di tutti i partiti...). Gli americani hanno le idee chiare: la strategia di Bettino è «disperata», anche se «le possibilità che finisca in prigione sono remote». I report dell’ambasciata non nascondono per il leader socialista un’antipatia che dura fin dai tempi del blitz di Sigonella ed è evidente che Washington, adesso, preferisca puntare sul Pds di Occhetto, considerato nei cablo «personalmente ostile» a Craxi e un interlocutore privilegiato degli americani: a Bettino, pur riconoscendo d’aver tenuto il Pci fuori dal governo fin dagli anni Settanta, si rimprovera proprio d’avere poi evitato di proposito l’unità delle sinistre, pur di non perdere il suo ruolo d’«indispensabile alleato della Dc». «Queste carte invertono la vulgata di un’America che temeva gli eredi del Pci — commenta Andrea Spiri, storico e ricercatore che ha spulciato gli archivi di Washington —. Tangentopoli aveva cambiato tutto rispetto al 1989, solo quattro anni prima, quando la storica visita del comunista Occhetto negli Usa era stata accolta ancora con grande diffidenza». A un quarto di secolo da Mani pulite, ci si chiede sempre quale fu il ruolo degli americani. Il socialista Formica lo dà per certo. L’ambasciatore Reginald Bartholomew, succeduto a Secchia in via Veneto, disse una volta che il suo predecessore era molto vicino al Pool. E anche il console a Milano, Peter Semler, ammise una stretta confidenza con Di Pietro. Dai nuovi report declassificati, affiora di sicuro una chiara simpatia: «Le intenzioni dei magistrati sono nobili — si legge —, seguono solo la via giudiziaria, i martelletti delle loro decisioni sono risultati efficaci come pistole (…). Hanno intrapreso un processo di cambiamento che non possono controllare o guidare completamente (…), ma come giudici la loro responsabilità è d’assicurarsi che giustizia sia fatta, non d’indicare linee politiche per stabilire quando se ne ha abbastanza. Quello è un lavoro che spetta ad altri». A chi? L’Amico Americano qui ha meno certezze. Ed entrando nelle questioni interne del Psi, il più in crisi del Pentapartito, descrivendo nei dettagli gli ultimi congressi «senza garofani e in sale modeste», punta senza troppa convinzione su Claudio Martelli bell’e «pronto a mollare Craxi», sponsorizzando un suo viaggio negli Usa. L’ambasciata è un’antenna e capta dove può: fonti dirette e privilegiate, convocate spesso a collaborare nella raccolta d’informazioni e citate nei report, sono i socialisti Gino Giugni («ci dice che Craxi è pronto a tutto per salvarsi»), Valdo Spini e Luca Josi, assieme a un non meglio specificato «portavoce del Pds». Interessa la politica italiana, certo, ma soprattutto sapere se la portaerei Italia rischi la deriva. Il timore di via Veneto è che «i continui scossoni possano avere un impatto negativo» sulle relazioni bilaterali con gli Usa: «Abbiamo avuto la dimostrazione nella saga di Ustica che politici fra loro rivali, come i ministri Martelli e Andò, possono lustrarsi a nostre spese», mentre «in questa fase di cambiamento dovremo stare molto attenti a evitare d’essere trascinati nei maneggi politici italiani». Intromettersi è sempre rischioso, come hanno insegnato gli endorsement di Obama e del suo ambasciatore sul referendum: già 25 anni fa, s’apprende, a Washington erano convinti che «senza una riforma elettorale che dia all’Italia governi più forti (…), si fa difficile la leggendaria arte italiana d’arrangiarsi». Gli americani spulciavano le proposte in cantiere, nei cablo s’accenna anche a Mattarella, ma alla fine si trovavano a citare il Gattopardo: per tutto il dopoguerra, scrivevano, «l’Italia ha dato un nuovo senso all’adagio “tutto cambia perché tutto resti uguale”…». E se questo «cambiamento politico senza precedenti» sarà pacifico e l’Italia resterà comunque ancorata all’Occidente, sempre meglio stare attenti: nessuna rivoluzione ha un esito prevedibile. La chiusa è truce: «Il vecchio sistema politico muore, il sangue versato continuerà a scorrere ancora per un po’ e altre teste rotoleranno. Ci vorrà una buona dose di competenza e di fortuna, per venirne fuori».

"Tangentopoli nera", dalle carte segrete di Mussolini arriva la verità sulla corruzione del Ventennio fascista. Le mazzette giravano sotto il Regime, mentre la propaganda inneggiava all'austerità, scrive il 16/10/2016 "Adn Kronos". Quando c’era Lui, il Duce, non solo i treni arrivavano in orario, ma si poteva lasciare aperta la porta di casa, perché l’ordine e la legalità erano così importanti da valere persino il sacrificio della libertà. L’immagine di un potere efficiente e incorruttibile, costruita da una poderosa macchina propagandistica, ha alimentato fino a oggi il mito di un fascismo onesto e austero, votato alla pulizia morale contro il marciume delle decrepite istituzioni liberali. Ma le migliaia di carte custodite nei National Archives di Kew Gardens, a pochi chilometri da Londra, raccontano tutta un’altra storia: quella di un regime minato in profondità dalla corruzione e di gerarchi spregiudicati dediti a traffici di ogni genere. Dalle carte segrete di Mussolini arriva la verità sulla corruzione, la faida interna al partito fascista, le ruberie, i ricatti e gli scandali nell'Italia del Ventennio. A raccontarla due studiosi Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella nel saggio "Tangentopoli nera", ora in uscita per Sperling e Kupfer (pagg. 252, euro18). Il primo, saggista, è esperto di archivi anglosassoni; il secondo è un giornalista investigativo, specializzato nella storia segreta italiana. Così, si scopre che, a Milano, il segretario federale del Fascio, Mario Giampaoli, e il podestà Ernesto Belloni si arricchiscono con le mazzette degli industriali e con i lavori pubblici per il restauro della celebre Galleria, coperti dall’amicizia col fratello di Mussolini. Il ras di Cremona, Roberto Farinacci, conquista posizioni sempre più importanti tramite una rete occulta di banchieri, criminali e spie. Diventa così il principale antagonista del Duce, che a sua volta fa spiare i suoi maneggi. Lo squadrista fiorentino Amerigo Dumini tiene in scacco il governo con le carte - sottratte a Giacomo Matteotti dopo averlo assassinato - che provano le tangenti pagate alle camicie nere dall’impresa petrolifera Sinclair Oil. Utilizzando i documenti della Segreteria particolare di Mussolini e quelli britannici desecretati di recente, gli autori ricostruiscono, con lo scrupolo degli storici e il fiuto degli investigatori, l’intreccio perverso tra politica, finanza e criminalità nell’Italia del Ventennio. E attraverso alcune storie emblematiche che si dipanano col ritmo di una 'spy story', vengono mostrati i meccanismi profondi e mai completamente svelati delle ruberie, delle estorsioni e degli scandali sui quali crebbe, in pochi anni, una vera e propria "Tangentopoli nera". Ma i misteri continuano ad essere tanti. Ad esempio quelli dei documenti scomparsi a Roma il 10 giugno 1924: si tratta delle carte della borsa di Matteotti, sottratte da Amerigo Dumini, militare a capo della squadraccia che sequestrò e uccise il politico antifascista. Saranno usati come arma di ricatto contro Mussolini e poi seguiranno Dumini nelle sue peregrinazioni nel mondo. "A oltre 90 anni dal delitto -spiegano all'Adnkronos i due autori- quelle carte continuano ad essere irreperibili, malgrado decenni di ricerche in Europa e in America, da parte di storici e studiosi. Ma è innegabile che, al giorno d'oggi, siano custodite negli archivi segreti del Naval Intelligence Department, a Londra, e in quelli del Federal Bureau of Investigation e del Dipartimento di Stato statunitense, a Washington". Inglesi e americani, dunque, gli alleati.

Le mazzette dei gerarchi nella “Tangentopoli nera”. Cereghino e Fasanella raccontano in un libro la corruzione ai tempi di Mussolini, scrive Pietro Spirito il 10 ottobre 2016 su “Il Piccolo". Tra i più attivi c’erano, a Milano, Mario Giampaoli, segretario federale del Fascio, e il podestà Ernesto Belloni. In combutta tra loro si arricchirono con le mazzette degli industriali e i lavori pubblici per il restauro della Galleria, facendo sentire tutto i loro peso politico, forti dell’amicizia di Arnaldo Mussolini, il fratello del Duce. E poi c’era il ras di Cremona, Roberto Farinacci, che da un lato denunciava il malaffare e il marcio all’interno del partito, dall’altro conquistava posizioni sempre più importanti grazie a una rete occulta di banchieri, criminali e spie. E che dire dello squadrista fiorentino Amerigo Dumini, che tiene in scacco lo stesso governo fascista con le carte sottratte a Giacomo Matteotti dopo averlo assassinato, carte che provano le tangenti pagate alle camicie nere dall’impresa petrolifera Sinclair Oil. Del resto, in un colloquio personale poi riferito al Duce dalle spie, il grande filosofo liberale Benedetto Croce l’aveva detto già nel 1930: non c’è da credere «alla veridicità dei bilanci dello Stato», perché «il Fascismo è una grande organizzazione di affaristi. Tutti pensano a rimpinguare le tasche e, quando si farà la storia di questi tempi, quello che uscirà fuori farà rabbrividire». E a fare la storia del malaffare al tempo del fascismo ci hanno pensato adesso. Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella nel libro “Tangentopoli nera” (Sperling&Kupfer. pagg. 252, euro 15,30), da domani in tutte le librerie. Segugi d’archivio di lungo corso, investigatori del passato con uno sguardo sempre rivolto al presente, Cereghino e Fasanella sono una coppia rodata della storiografia investigativa e hanno come terreno d’azione i National Archives di Kew Gardens, a pochi chilometri da Londra, la memoria dello spionaggio britannico, uno dei più antichi e organizzati del mondo. Ed è qui, nei National Archives, che i due studiosi hanno scovato «migliaia di carte private di Mussolini». «Sono - spiegano gli autori - per lo più resoconti scritti da agenti segreti, lettere di camerati, soffiate anonime e precise denunce con tanto di firma». Materiali che Mussolini aveva conservato gelosamente fino al 25 luglio 1943 quando, sfiduciato dal Gran Consiglio, finì agli arresti. Solo una parte di quell’archivio seguì il Duce a Salò dopo la liberazione da parte dei parà tedeschi, mentre il resto «subì una vera e propria diaspora». Dopo la guerra in parte i documenti vennero copiati dagli alleati in un’impegnativa ricostruzione dell’archivio di Mussolini, e le copie inviate sia negli Stati Uniti che a Londra, mentre le carte originali, depositate all’Archivio Centrale dello Stato, subirono nel tempo non pochi «saccheggi»: «Molte scomparvero - scrivono Cereghino e Fasanella -, probabilmente quelle sui personaggi del vecchio regime riciclati nell’establishment (...) molte altre finirono invece sul mercato nero e, da qui, su rotocalchi e giornali scandalistici». Così, dopo il libro “Le carte segrete del Duce”, dove si parla dei rapporti tra il fascismo e la massoneria e degli scandali sessuali del regime, Cereghino e Fasanella mettono insieme i tasselli recuperati negli archivi londinesi per tracciare una mappa dettagliata dei livelli di corruzione e malaffare al tempo del fascismo. Ne esce un quadro che se nelle sue grandi linee era noto, nella messa a fuoco dei dettagli fa emergere in modo netto quanto per il fascismo la politica fosse in buona misura «strumento di elevazione sociale e di arricchimento illecito attraverso tangenti, colossali ruberie pubbliche e traffici di ogni genere, anche con la malavita organizzata». Senza per altro «dimenticare l’uso spregiudicato del potere bancario per conquistare e mantenere il consenso, e di quello mediatico per regolare i conti fra cricche rivali». La “fabbrica del fango” non è certo un’invenzione dei nostri giorni. Nella loro inchiesta a ritroso Cereghino e Fasanella puntano l’obiettivo su alcuni episodi e personaggi chiave della diffusa tangentopoli, come i citati Giampaoli e Belloni, Farinacci, lo stesso Arnaldo Mussolini, e altri nomi che usciranno da archivi segreti privati. Come quello del massone Leandro Arpinati, un ricattatore (e non era l’unico) con il pallino di archiviare qualsiasi documento e prova sulle questioni interne del regime per trarne profitto. Da questo archivio saltano fuori i nomi per esempio di Marcello Diaz, figlio del “Duca della Vittoria” Armando Diaz, a capo di una vera e propria «cricca affaristica», o quello di Italo Balbo che, diventato potente al punto di insidiare la leadership del Duce, finirà come noto abbattuto con il suo aeroplano “per sbaglio” dal fuoco amico dalla contraerea italiana sui cieli di Tobruk, in Cirenaica. Non prima, però, che uno dei suoi più stretti collaboratori, il giornalista Gino D’Angelo, finisse travolto da uno scandalo con l’accusa di essersi «appropriato di gran parte del fondo istituito dal sindacato dei giornalisti, circa 60.000 lire, per i sussidi di disoccupazione». Altro che ordine e disciplina, il regime fascista era marcio alle radici, più di quelle decrepite istituzioni liberali che aveva combattuto. Ma la domanda delle domande che punteggia le pagine della “Tangentopoli nera” è: Mussolini sapeva? Naturalmente sì, visto che la stragrande maggioranza delle fonti utilizzate dagli autori provengono dal suo archivio. Sapeva eccome, e utilizzava il suo sapere a seconda del bisogno: qua e là teste cadevano - come quelle di Giampaoli e Belloni -, polizia e magistratura facevano il loro dovere. Qualche volta con punizioni esemplari, altre volte con misure blande o di facciata. Altre volte ancora Mussolini lasciava correre, o indirizzava le reti occulte a suo vantaggio, per sciogliere questo o quel nodo politico, questa o quella faida intera al partito. Insomma il Duce sapeva e faceva con il malaffare quello che ha sempre fatto e sempre farà ogni dittatore e ogni detentore di un potere fuori controllo.

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

In Questo Mondo Di Ladri di Antonello Venditti.

Eh, in questo mondo di ladri

C' ancora un gruppo di amici

Che non si arrendono mai.

Eh, in questo mondo di santi

Il nostro cuore rapito

Da mille profeti e da quattro cantanti.

Noi, noi stiamo bene tra noi

E ci fidiamo di noi.

In questo mondo di ladri,

In questo mondo di eroi,

Non siamo molto importanti

Ma puoi venire con noi.

Eh, in questo mondo di debiti

Viviamo solo di scandali

E ci sposiamo le vergini.

Eh, e disprezziamo i politici,

E ci arrabbiamo, preghiamo, gridiamo,

Piangiamo e poi leggiamo gli oroscopi.

Voi, vi divertite con noi

E vi rubate tra voi.

In questo mondo di ladri,

In questo mondo di eroi,

Voi siete molto importanti

Ma questa festa per noi.

Eh, ma questo mondo di santi

Se il nostro cuore rapito

Da mille profeti e da quattro cantanti.

Noi, noi stiamo bene tra noi

E ci fidiamo di noi.

In questo mondo... in questo mondo di ladri...

In questo mondo... in questo mondo di ladri...

In questo mondo... in questo mondo di ladri... 

Le persone perbene non riescono a fare carriera all’interno della pubblica amministrazione. Un giudizio lapidario che viene dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, scrive “Blitz Quotidiano” il 28 ottobre 2015. Un giudizio appena mitigato dai due minuti di spiegazione dell’affermazione: Cantone spiega che, a volte, questo avviene anche per colpe dei diretti interessati. “Spesso le persone perbene all’interno della pubblica amministrazione sono quelle che hanno meno possibilità di fare – dice Cantone – Spesso fanno meno carriera. Spesso sono meno responsabilizzati perché considerati per bene”. Secondo Cantone è ora di recuperare parole che non si usano nel nostro mondo del lavoro. Una è la parola “controllo”. E il presidente dell’anticorruzione si riferisce a chi osserva i colleghi timbrare il cartellino e poi lasciare il posto di lavoro senza denunciare nulla. Quello che serve, secondo Cantone, è una “riscossa interna” e un recupero non imposto dall’alto di moralità e cultura dello Stato, il terzo settore e di conseguenza il nostro Paese si salveranno dalla mala gestione della cosa pubblica.

Commenti disabilitati su Cantone: “Non sono tutti fannulloni ma nella Pubblica amministrazione, le persone perbene hanno meno possibilità”, scrive Antonio Menna il 28 ottobre 2015 su “Italia Ora”. “Non sono tutti fannulloni nella Pubblica amministrazione. Meno che mai sono tutti corrotti. Ma è vero che le persone perbene sono quelli che vengono meno coinvolti nelle scelte, meno responsabilizzati. Sono quelli che hanno meno possibilità di fare carriera”. Lo dice chiaro e tondo, Raffaele Cantone, magistrato anticamorra, e presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Lo dice nel corso di una intervista pubblica al Sermig di Torino e il segmento sulla corruzione nella pubblica amministrazione (rilanciato da un video del Corriere della Sera) è quello che impressiona di più. Quante volte lo abbiamo pensato che essere onesti è una penalizzazione? Chi è onesto non va lontano. “A volte, però”, chiarisce Cantone, “anche per sue responsabilità. Dobbiamo trovare il coraggio di ripristinare alcune parole che nel nostro lessico si sono dimenticate: la parola controllo, per esempio. Se il mio amico, vicino di stanza, usa il badge per coprire i colleghi che magari sono in vacanza, devo stare zitto? Perché devo stare zitto? Queste apparenti distrazioni sono complicità. La società dei piccoli favori, magari banali, magari che non portano necessariamente alla corruzione, ci abitua all’idea che ci sia uno spazio dove tutto si può comprare.” “Il problema – conclude Cantone – non è solo la disonestà ma, a volte, anche non capire con chi parlare. Ci sono cento centri di costo solo nella città di Roma, cento uffici che fanno appalti e spesa. Come li controlli? La deresponsabilizzazione la fa da padrona, ed è essa stessa una delle ragioni che giustifica la corruzione.”

In Italia si fa carriera solo se si è ricattabili, scrive il 5 giugno 2015 Claudio Rossi su "L'Uomo qualunque". “Il nostro Paese sta sprofondando nel conformismo (…) siamo usciti da una consultazione elettorale che ha dato il risultato a tutti noto, ma la cosa che colpisce è questo saltare sul carro del vincitore. Tacito diceva che una delle abitudini degli italiani è di ruere in servitium: pensate che immagine potente, correre ad asservirsi al carro del vincitore. Noi tutti conosciamo persone appartenenti al partito che ha vinto le elezioni che hanno opinioni diverse rispetto ai vertici di questo partito. Ora non si tratta affatto di prendere posizioni che distruggono l’unità del partito, ma di manifestare liberamente le proprie opinioni senza incorrere nell’anatema dei vertici di questo partito (…) Queste persone, dopo il risultato elettorale, hanno tirato i remi in barca e le idee che avevano prima, oggi non le professano più. Danno prova di conformismo. (…) La nostra rappresentanza politica è quella che è (…) La diffusione della corruzione è diventata il vero humus della nostra vita politica, è diventata una sorta di costituzione materiale. Qualcuno, il cui nome faccio solo in privato, ha detto che nel nostro Paese si fa carriera in politica, nel mondo della finanza e dell’impresa, solo se si è ricattabili (…) Questo meccanismo della costituzione materiale, basato sulla corruzione, si fonda su uno scambio, un sistema in cui i deboli, cioè quelli che hanno bisogno di lavoro e protezione, gli umili della società, promettono fedeltà ai potenti in cambio di protezione. È un meccanismo omnipervasivo che raggiunge il culmine nei casi della criminalità organizzata mafiosa, ma che possiamo constatare nella nostra vita quotidiana (…) Questo meccanismo funziona nelle società diseguali, in cui c’è qualcuno che conta e che può, e qualcuno che non può e per avere qualcosa deve vendere la sua fedeltà, l’unica cosa che può dare in cambio (…) Quando Marco Travaglio racconta dei casi di pregiudicati o galeotti che ottengono 40 mila preferenze non è perché gli elettori sono stupidi: sanno perfettamente quello che fanno, ma devono restituire fedeltà. Facciamoci un esame di coscienza e chiediamoci se anche noi non ne siamo invischiati in qualche misura. (…) Questo meccanismo fedeltà-protezione si basa sulla violazione della legge. Se vivessimo in un Paese in cui i diritti venissero garantiti come diritti e non come favori, saremmo un paese di uomini e donne liberi. Ecco libertà e onestà. Ecco perché dobbiamo chiedere che i diritti siano garantiti dal diritto, e non serva prostituirsi per ottenere un diritto, ottenendolo come favore. Veniamo all’autocoscienza: siamo sicuri di essere immuni dalla tentazione di entrare in questo circolo? (…) Qualche tempo fa mi ha telefonato un collega di Sassari che mi ha detto: “C’è una commissione a Cagliari che deve attribuire un posto di ricercatore e i candidati sono tutti raccomandati tranne mia figlia. Sono venuto a sapere che in commissione c’è un professore di Libertà e Giustizia…”. Io ero molto in difficoltà, ma capite la capacità diffusiva di questo sistema di corruzione, perché lì si trattava di ristabilire la par condicio tra candidati. Questo per dire quanto sia difficile sgretolare questo meccanismo, che si basa sulla violazione della legge. Siamo sicuri di esserne immuni? Ad esempio, immaginate di avere un figlio con una grave malattia e che debba sottoporsi a un esame clinico, ma per ottenere una Tac deve aspettare sei mesi. Se conosceste il primario del reparto, vi asterreste dal chiedergli il favore di far passare vostro figlio davanti a un altro? Io per mia fortuna non mi sono mai trovato in questa condizione, ma se mi ci trovassi? È piccola, ma è corruzione, perché se la cartella clinica di vostro figlio viene messa in cima alla pila, qualcuno che avrebbe avuto diritto viene posposto. Questo discorso si ricollega al problema del buon funzionamento della Pubblica amministrazione: se i servizi funzionassero bene non servirebbe adottare meccanismi di questo genere. Viviamo in un Paese che non affronta il problema della disonestà e onestà in termini morali. (…) Se non ci risolleviamo da questo, avremo un Paese sempre più clientelarizzato, dove i talenti non emergeranno perché emergeranno i raccomandati, e questo disgusterà sempre di più i nostri figli e nipoti che vogliono fare ma trovano le porte sbarrate da chi ha gli appoggi migliori. È una questione di sopravvivenza e di rinascita civile del nostro Paese. Ora, continuiamo a farci questo esame di coscienza: non siamo forse noi, in qualche misura, conniventi con questo sistema? Quante volte abbiamo visto vicino a noi accadere cose che rientrano in questo meccanismo e abbiamo taciuto? Qualche tempo fa, si sono aperti un trentina di procedimenti penali a carico di colleghi universitari per manipolazione dei concorsi universitari (…) Noi non sapevamo, noi non conoscevamo i singoli episodi (…) e per di più non siamo stati parte attiva del meccanismo, ma dobbiamo riconoscere che abbiamo taciuto, dobbiamo riconoscere la nostra correità. Proposta: Libertà e Giustizia è una associazione policentrica che si basa su circoli, che sono associazioni nella associazione, radicati sul territorio e collegati alla vita politica. Non sarebbe il caso che i circoli si attrezzassero per monitorare questi episodi, avendo come alleati la stampa libera e la magistratura autonoma? Potrebbe essere questa una nuova sfida per Libertà e Giustizia, controllare la diffusione di questa piovra che ci invischia tutti, cominciando dal basso, perché dall’alto non ci verrà nulla di buono, perché in alto si procede con quel meccanismo che dobbiamo combattere.” Gustavo Zagrebelsky.

“I cittadini silenziosi possono essere dei perfetti sudditi per un governo autoritario, ma sono un disastro per una democrazia”. Robert Alan Dahl

Il volume più letto dai politici? Un manuale per ottenere l'immunità. Alle Biblioteca delle Nazioni Unite non hanno più nemmeno una copia. Spiega i vari tipi di immunità e chi può usufruire, scrive Gabriele Bertocchi Venerdì, 08/01/2016, su “Il Giornale”. Non è un semplice libro, è il libro che ogni politico dovrebbe leggere. E infatti è cosi, tutto lo vogliono. È diventato il libro più richiesto alla biblioteca delle Nazioni Unite. Vi starete chiedendo che volume è: magari se è un'opera di letteratura classica, oppure un trattato sulla politica internazionale. Nessuno di questi, si chiama "Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali", è uno scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum che spiega e illustra che tipo di immunità esistono per tali soggetti. "Più che un libro è una star" commenta Maria Montagna sulle pagine de La Stampa, una delle addette alla gestione banca dati di Dag Hammarskjold Library, libreria dedicata al'ex segretario generale, alle Nazioni Unite. "È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier" continua l'addetta. Il successo lo si deve anche a Twitter, infatti la Dag Hammarskjold Library ha pubblicato il "primato" del libro, creando così un vero e prioprio cult da leggere. Ma all'interno cosa si può imparare, come scrive la Pedretti, autrice del volume, si può scoprire che esistono due dtipi di immunità: quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. La Montagna spiega che "ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social", ma prima era perlopiù composta da funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. E intanto, come si legge su La Stampa, arriva la conferma da parte della libreria: "Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile".

Va a ruba all’Onu il libro che insegna ai leader come avere l’immunità. Esaurito in biblioteca. Tesi di laurea. Il pamphlet è stato scritto da Ramona Pedretti ex studentessa dell’Università di Lucerna, scrive Francesco Semprini su “La Stampa” l’8 gennaio 2016. Basta entrare nella biblioteca delle Nazioni Unite e menzionare il nome del libro per capire che non stiamo parlando di un volume qualunque. Maria Montagna, una delle addette alla gestione della banca data di Dag Hammarskjold Library - la libreria dedicata all’ex segretario generale - guarda la collega Ariel Lebowitz e sorride. «Più che un libro è una star - dice - aspetti qui, controlliamo subito». L’opera in questione è «Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali», un pamphlet scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa oriunda dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum per capire che tipo di immunità esistono per tali soggetti. Ne esistono due, come spiega Pedretti nel suo scritto, quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. «È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier», dice Maria. Twitter ha fatto il resto, visto che Dag Hammarskjold Library ha rilanciato sul social network il «primato» del libro moltiplicandone notorietà e richieste. Ma chi lo chiede in prestito? All’inizio erano soprattutto funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi dell’autrice è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. È questo il principio ad esempio che ha portato all’arresto di Adolph Eichmann da parte di Israele e Augusto Pinochet dalla Spagna. «Ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social», chiosa Maria. E arriva la conferma: «Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile».  

Fondazioni, i soldi nascosti dei politici. Finanziamenti milionari anonimi. Intrecci con banchieri, costruttori e petrolieri. Società fantasma. Da Renzi a Gasparri, da Alfano ad Alemanno, ecco cosa c'è nei conti delle fondazioni, scrivono Paolo Biondani, Lorenzo Bagnoli e Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Finanziamenti milionari ma anonimi. Un intreccio tra ministri, petrolieri, banchieri e imprenditori. Con una lunga inchiesta nel numero in edicola “L'Espresso” ha esaminato i documenti ufficiali delle fondazioni che fanno capo ai leader politici, da Renzi a Gasparri, da Alfano a Quagliarello, tutte dominate dall'assenza di trasparenza. Nel consiglio direttivo di Open, il pensatoio-cassaforte del premier, siedono l’amico che ne è presidente Alberto Bianchi, ora consigliere dell’Enel, il sottosegretario Luca Lotti, il braccio destro Marco Carrai e il ministro Maria Elena Boschi. Il sito pubblica centinaia di nomi di finanziatori, ma omette «i dati delle persone fisiche che non lo hanno autorizzato esplicitamente». Il patrimonio iniziale di 20 mila euro, stanziato dai fondatori, si è moltiplicato di 140 volte con i contributi successivi: in totale, 2 milioni e 803 mila euro. Sul sito compaiono solo tre sostenitori sopra quota centomila: il finanziere Davide Serra (175), il defunto imprenditore Guido Ghisolfi (125) e la British American Tobacco (100 mila). Molto inferiori le somme versate da politici come Lotti (9.600), Boschi (8.800) o il nuovo manager della Rai, Antonio Campo Dell’Orto (solo 250 euro). Ma un terzo dei finanziatori sono anonimi per un importo di 934 mila euro. Ad Angelino Alfano invece fa oggi capo la storica fondazione intitolata ad Alcide De Gasperi, che ha «espresso il suo dissenso» alla richiesta ufficiale della prefettura di far esaminare i bilanci: per una fondazione presieduta dal ministro dell’Interno, la trasparenza non esiste. Nell’attuale direttivo compaiono anche Fouad Makhzoumi, l’uomo più ricco del Libano, titolare del colosso del gas Future Pipes Industries. Tra gli italiani, Vito Bonsignore, l’ex politico che dopo una condanna per tangenti è diventato un ricco uomo d’affari; il banchiere Giovanni Bazoli, il marchese Alvise Di Canossa, il manager Carlo Secchi, l’ex dc Giuseppe Zamberletti, l’ex presidente della Compagnia delle Opere Raffaello Vignali, l’avvocato Sergio Gemma e il professor Mauro Ronco. Ma tutti i contributi alla causa di Alfano sono top secret. Invece la fondazione Magna Carta è stata costituita dal suo presidente, Gaetano Quagliariello, da un altro politico, Giuseppe Calderisi, e da un banchiere di Arezzo, Giuseppe Morbidelli, ora numero uno della Cassa di risparmio di Firenze. Gli altri fondatori sono tre società: l’assicurazione Sai-Fondiaria, impersonata da Fausto Rapisarda che rappresenta Jonella Ligresti; la Erg Petroli dei fratelli Garrone; e la cooperativa Nuova Editoriale di Enrico Luca Biagiotti, uomo d’affari legato a Denis Verdini. Il capitale iniziale di 300 mila euro è stato interamente «versato dalle tre società in quote uguali». I politici non ci hanno messo un soldo, ma la dirigono insieme ai finanziatori. Nel 2013 i Ligresti escono dal consiglio, dove intanto è entrata Gina Nieri, manager di Mediaset. L’ultimo verbale (giugno 2015) riconferma l’attrazione verso le assicurazioni, con il manager Fabio Cerchiai, e il petrolio, con Garrone e il nuovo consigliere Gianmarco Moratti. La fondazione pubblica i bilanci, ma non rivela chi l’ha sostenuta: in soli due anni, un milione di finanziamenti anonimi. La Nuova Italia di Gianni Alemanno invece non esiste più. “L’Espresso” ha scoperto che il 23 novembre scorso la prefettura di Roma ne ha decretato lo scioglimento: «la fondazione nell’ultimo anno non ha svolto alcuna attività», tanto che «le raccomandate inviate dalla prefettura alla sede legale e all’indirizzo del presidente sono tornate al mittente con la dicitura sconosciuto». Ai tempi d’oro della destra romana sembrava un ascensore per il potere: dei 13 soci promotori, tutti legati all’ex Msi o An, almeno nove hanno ottenuto incarichi dal ministero dell’agricoltura o dal comune capitolino. All’inizio Gianni Alemanno e sua moglie Isabella Rauti figurano solo nel listone dei 449 «aderenti» chiamati a versare «contributi in denaro». I primi soci sborsano il capitale iniziale di 250 mila euro. Tra gli iscritti compaiono tutti i fedelissimi poi indagati o arrestati, come Franco Panzironi, segretario e gestore, Riccardo Mancini, Fabrizio Testa, Franco Fiorito e altri. La “Fondazione della libertà per il bene comune” è stata creata dal senatore ed ex ministro Altero Matteoli assieme ad altre dieci persone, tra cui politici di destra come Guglielmo Rositani (ex parlamentare e consigliere Rai), Eugenio Minasso, Marco Martinelli e Marcello De Angelis. A procurare i primi 120 mila euro, però, sono anche soci in teoria estranei alla politica, come l’ex consigliere dell’Anas Giovan Battista Papello (15 mila), il professor Roberto Serrentino (10 mila) e l'imprenditore, Erasmo Cinque, che versa 20 mila euro come Matteoli. La fondazione, gestita dal tesoriere Papello, pubblica i bilanci: tra il 2010 e il 2011, in particolare, dichiara di aver incassato 374 mila euro dai «soci fondatori», altri 124 mila di «contributi liberali» e solo duemila dalle proprie attività (convegni e pubblicazioni). Gli atti della prefettura però non spiegano quali benefattori li abbiano versati. Espressione di Massimo D'Alema, ItalianiEuropei nel 1999 è stata una delle prime fondazioni. I fondatori sono l'ex premier Giuliano Amato, il costruttore romano Alfio Marchini, il presidente della Lega Cooperative, Ivano Barberini, e il finanziere esperto in derivati Leonello Clementi. Il capitale iniziale è di un miliardo di lire (517 mila euro), quasi totalmente versati da aziende o uomini d’affari: 600 milioni di lire da varie associazioni di cooperative rosse, 50 ciascuno da multinazionali come Abb ed Ericsson, la Pirelli di Tronchetti Provera, l’industriale farmaceutico Claudio Cavazza, oltre che da Marchini (50) e Clementi (55). ItalianiEuropei deposita regolari bilanci e ha autorizzato la prefettura di Roma a mostrarli. L’ultimo è del 2013. Gli atti identificano solo i finanziatori iniziali del 1998. A quei 517 mila euro, però, se ne sono aggiunti altri 649 mila sborsati da «nuovi soci», non precisati. Nei bilanci inoltre compare una diversa categoria di «contributi alle attività» o «per l’esercizio»: in totale in sei anni i finanziamenti ammontano a un milione e 912 mila euro. Italia Protagonista nasce nel 2010 per volontà di due leader della destra: Maurizio Gasparri, presidente, e Ignazio La Russa, vicepresidente. Tra i fondatori, che versano 7 mila euro ciascuno, c’è un ristretto gruppo di politici e collaboratori, ma anche un manager, Antonio Giordano. Dopo la fine di An, però, La Russa e i suoi uomini escono e la fondazione resta un feudo dell’ex ministro Gasparri. Come direttore compare un missionario della confraternita che s’ispira al beato La Salle, Amilcare Boccuccia, e come vice un suo confratello spagnolo. Tra i soci viene ammesso anche Alvaro Rodriguez Echeverria, esperto e uditore del sinodo 2012 in Vaticano, nonché fratello dell’ex presidente del Costarica. L’ultimo bilancio riguarda il 2013, quando il capitale, dai 100 mila euro iniziali, è ormai salito a 231 mila. Le donazioni di quell’anno, 56 mila euro, non sono bastate a coprire le spese, con perdite finali per 63 mila, però in banca ci sono 156 mila euro di liquidità. Ma sui nomi dei benefattori, zero informazioni. «Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici», dichiara Raffaele Cantone a “l'Espresso” : «Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori». 

«Non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi», scrive Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su "L'Espresso". «È una situazione che ha raggiunto i limiti dell’indecenza». Un anno fa Raffaele Cantone fu il primo a lanciare l’allarme sui fondi opachi trasferiti alla politica attraverso le fondazioni. Con un’intervista a “l’Espresso” il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione sottolineò il problema della carenza di controlli. Negli ultimi mesi le indagini hanno poi evidenziato altri sospetti sui soldi passati attraverso questi canali per finanziare l’attività dei partiti.

Raffaele Cantone, ma da allora è cambiato qualcosa?

«Non è cambiato nulla. Ma questo più che un finanziamento ai partiti è un modo di sovvenzionare gruppi interni ai partiti, quelle che un tempo si chiamavano correnti. Nel tempo le correnti si sono organizzate in realtà di tipo associativo: questa scelta potrebbe essere positiva, perché in qualche modo dà una struttura evidente alle correnti. Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici. Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia. Viene previsto solo il controllo formale e generico delle prefetture, che non hanno capacità di incidere sui bilanci: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi».

Molte di queste fondazioni politiche sono semplici associazioni, che non depositano neppure una minima documentazione.

«Bisogna tenere presente che nel nostro Paese per ragioni culturali queste realtà sono state un momento significativo della libertà di associazione. Nel diritto civile sono previste le associazioni non riconosciute, tutelate perché si tutela la libertà di associazione, che devono avere una loro possibilità di operare. Il problema è che in questi casi viene a mancare persino quel minimo di controllo esercitato dalle prefetture: sono in tutto uguali a una bocciofila. Non ci sono né regole, né rischi legali quando vengono usate per incassare finanziamenti sospetti: possono solo incorrere in verifiche fiscali della Guardia di Finanza se emergono pagamenti in nero. È una carenza normativa che si fa sentire e più volte il Parlamento ha espresso esigenza di intervenire. Sono stati presentati diversi disegni di legge, alcuni dei quali validi, ma non sono mai andati in discussione».

Negli organi che gestiscono le fondazioni politiche c’è poi una diffusa commistione tra centinaia di imprenditori e di politici. È una confusione che può alimentare i conflitti di interesse?

«In sé non è un aspetto deleterio. Che ci sia un legame nelle attività delle fondazioni tra chi svolge politica attiva e chi si occupa di attività economiche, imprenditoriali e professionali, non è un dato atipico delle moderne democrazie. Anzi, avviene in tutte le democrazie occidentali. Il problema è che i potenziali conflitti di interesse possono essere contrastati o attenuati solo attraverso meccanismi di trasparenza. Se l’imprenditore Tizio finanzia la fondazione del politico Caio e questo dato è noto, come avviene ad esempio negli Usa, questo sterilizza il conflitto d’interessi perché quando si discuterà di provvedimenti che riguardano l’imprenditore Tizio, direttamente o indirettamente, tutti potranno rendersi conto dei legami. Quello che è grave è l’assenza di pubblicità nel modo in cui le due situazioni si interfacciano all’interno delle fondazioni».

Alfano nasconde i soldi perfino ai suoi prefetti. La Fondazione presieduta dal ministro non pubblica l'elenco dei finanziatori. E il dg Rai è sponsor di Renzi, scrive Paolo Bracalini Sabato, 09/01/2016, su “Il Giornale”. Un investimento da appena 250 euro che ne rende ogni anno 650mila (di stipendio), un posto di assoluto comando nella tv pubblica e prima ancora il Cda di Poste italiane. In epoca di rendimenti bassi o negativi, l'investimento di Antonio Campo Dall'Orto è da manuale di finanza. Il nuovo direttore generale della Rai ha donato 250 euro alla Fondazione Open, la cassaforte renziana, entrando così nel cerchio ristretto degli amici dell'ex sindaco di Firenze, che poi da premier ha ricambiato quelli che aveva creduto in lui nominandoli nelle partecipate pubbliche. Dall'Orto è uno dei molti finanziatori «in chiaro» della fondazione guidata da Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai. I donatori, cioè, che hanno dato il consenso alla pubblicazione dei propri nomi nell'elenco dei finanziatori del think tank legato a Renzi.Ma c'è una zona grigia. Sui 2.803.953,49 euro raccolti dalla Open, infatti, quasi un terzo (913mila euro) arriva da ignoti sostenitori del renzismo che preferiscono restare anonimi. E nemmeno tirando in ballo le prefetture, che per legge vigilano (poco) su enti di diritto privato come le fondazioni, si riesce a sapere di più. Il test lo ha fatto l'Espresso, contattando via mail sette prefetti di altrettanti città italiane (da Roma a Napoli) dove hanno sede le associazioni politiche espressione di qualche leader o presunto tale. Ma anche l'intervento dello Stato, nella figura del prefetto, non sembra illuminare granché di quella zona d'ombra che nasconde le modalità di finanziamento delle fondazioni. Il paradosso è che persino quella che fa capo ad Angelino Alfano, ministro dell'Interno e dunque riferimento istituzionale dei prefetti, «esprime dissenso» alla richiesta di fornire bilanci e informazioni sulla Fondazione De Gasperi, presieduta appunto dal leader di Ncd e capo del Viminale. L'unico patrimonio tracciabile risale all'eredità della vecchia Dc, 400 milioni di lire, passati alla fondazione intitolata al grande statista democristiano. Il resto dei finanziatori si può solo immaginare guardando i membri del consiglio di amministrazione (Bazoli di Intesa San Paolo, il miliardario libanese Makhzoumi Fouad...), visto che la fondazione del ministro non si rende trasparente ai prefetti. E donatori ne servono, visto che anche il 5 per mille per l'associazione di Alfano è andato molto male: l'ultima volta solo 59 contribuenti hanno espresso la preferenza nella dichiarazioni dei redditi, per complessivi 6.700 euro. Spiccioli. Di fondazioni politiche ce n'è un centinaio, ma le più importanti (e ricche) sono una ventina. Ricevono fondi ministeriali, accedono al 5 per mille, hanno sgravi fiscali, a differenza dei partiti possono ricevere donazioni da aziende pubbliche - munifici colossi come Eni, Finmeccanica, Poste - e non devono rendere pubblici i bilanci. Tanti vantaggi che ne spiegano la proliferazione. Una di quelle storiche è ItalianiEuropei di Massimo D'Alema. Quando nasce, nel 1999, viene innaffiata di soldi da cooperative rosse, grosse multinazionali, colossi della farmaceutica. La fondazione dell'ex premier Ds ha autorizzato la prefettura a rendere pubblici i suoi bilanci. Dai quali, però, non si ricavano le informazioni complete sui finanziatori. In totale dai rendiconti fino al 2013 risultano quasi 2 milioni di euro di donazioni, registrate genericamente come «contributi all'attività» da «nuovi soci». Ma quali siano i loro nomi non è dato saperlo.

Figuraccia italiana nella visita a Riad: rissa per il Rolex regalato a Renzi & C. I 50 membri della delegazione si sono azzuffati per i regali offerti dalla famiglia reale. Il premier li fa sequestrare ma a Palazzo Chigi non sono ancora arrivati, scrive TGCOM il 9 gennaio 2016. Monta la polemica per il viaggio diplomatico e commerciale compiuto da Matteo Renzi e una delegazione politico-economica in Arabia Saudita l'8 novembre 2015. E non c'entrano gli appalti miliardari o la crisi internazionale con l'Iran a causa delle esecuzioni capitali compiute da Riad. Il problema sono i Rolex, i regali che i ricchi sauditi avevano preparato per alcuni membri della delegazione italiana ma che alla fine tutti avrebbero preteso. Stando alle indiscrezioni di stampa questi Rolex non è chiaro che fine abbiano fatto. E' il Fatto Quotidiano a ricostruire la vicenda: i 50 ospiti arrivati da Roma (tra cui vertici di aziende statali e non come Finmeccanica, Impregilo e Salini) sono a cena con la famiglia reale. Arrivano gli omaggi preparati dagli sceicchi, pacchettini con nomi e cognomi, in italiano e arabo. C'è il pacchettino di serie A, con il Rolex svizzero, e quello, diciamo, di serie B con un cronografo prodotto a Dubai che vale "solo" 4mila euro. Il fattaccio avviene quando un furbetto della delegazione italiana scambia il suo cronografo arabo col pacchetto luccicante svizzero. Il "proprietario" del Rolex se ne accorge e scoppia una quasi rissa. Tutti vogliono il Rolex, i reali sauditi sarebbero anche pronti a cambiare tutti i regali pur di non vedersi di fronte questa scena da mercato del pesce. Ma interviene la security di Renzi che sequestra tutti i pacchetti. Ora, denuncia il Fatto Quotidiano, di questi orologi si è persa traccia. Va ricordato che il governo di Mario Monti varò una norma che impedisce ai dipendenti pubblici di accettare omaggi del valore superiore a 150 euro. I Rolex e gli altri cadeau avrebbero dovuto essere depositati nella stanza dei regali al terzo piano di Palazzo Chigi. Ma qui non si trovano. Interpellata sul caso, Ilva Saponara, padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non risponde, dice di avere la febbre e di non ricordare nemmeno il contenuto dei doni offerti dai sauditi. Anche l’ambasciatore Armando Varricchio, consigliere per l'estero di Renzi, non parla ma annuisce di fronte alla ricostruzione del caso. Non dice che fine hanno fatto i Rolex ma rassicura: "I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali". Se ne deduce che qualcuno ancora non ha restituito il Rolex in questione. E chissà se mai lo farà.

Governo in visita in Arabia Saudita. La missione finisce in rissa per i Rolex in regalo. Durante la trasferta a Ryad dello scorso novembre, i delegati italiani si sono accapigliati per dei cronografi da migliaia di euro, un omaggio dei sovrani sauditi. Per questo la delegazione del premier li ha sequestrati. Nota di Palazzo Chigi: "Sono nella nostra disponibilità", scrive Carlo Tecce l'8 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Parapiglia tra dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renziper i Rolex elargiti dagli amici di Ryad. Questo racconto, descritto da testimoni oculari, proviene dall’Arabia Saudita. È una grossa figuraccia internazionale per l’Italia. È ormai la notte tra domenica 8 e lunedì 9 novembre. Il palazzo reale di Ryad è una fonte di luce che illumina la Capitale saudita ficcata nel deserto. La delegazione italiana, che accompagna Matteo Renzi in visita ai signori del petrolio, è sfiancata dal fuso orario e dal tasso d’umidità. La comitiva di governo è nei corridoi immensi con piante e tende vistose, atmosfera ovattata, marmi e dipinti. Gli italiani vanno a dormire. Così il cerimoniale di Palazzo Chigi, depositario degli elenchi e dei protocolli di una trasferta di Stato, prima del riposo tenta di alleviare le fatiche con l’inusuale distribuzione dei regali. Quelli che gli oltre 50 ospiti di Roma – ci sono anche i vertici di alcune aziende statali (Finmeccanica) e private (Salini Impregilo) – hanno adocchiato sui banchetti del salone per la cena con la famiglia al trono: deliziose confezioni col fiocco, cognome scritto in italiano e pure in arabo. Gli illustri dipendenti profanano la direttiva di Mario Monti: gli impiegati pubblici di qualsiasi grado devono rifiutare gli omaggi che superano il valore di 150 euro oppure consegnarli subito agli uffici di competenza. Qui non si tratta di centinaia, ma di migliaia di euro. Perché i sovrani sauditi preparano per gli italiani dei pacchetti con orologi preziosi: avveniristici cronografi prodotti aDubai, con il prezzo che oscilla dai 3.000 ai 4.000 euro e Rolex robusti, per polsi atletici, che sforano decine di migliaia di euro, almeno un paio. A Renzi sarà recapitato anche un cassettone imballato, trascinato con il carrello dagli inservienti. Il cerimoniale sta per conferire i regali. Il momento è di gioia. Ma un furbastro lo rovina. Desidera il Rolex. Scambia la sua scatoletta con il pacchiano cronografo con quella dell’ambito orologio svizzero e provoca un diverbio che rimbomba nella residenza di re Salman. Tutti reclamano il Rolex. Per sedare la rissa interviene la scorta di Renzi: sequestra gli orologi e li custodisce fino al ritorno a Roma. La compagine diplomatica, guidata dall’ambasciatore Armando Varricchio, inorridisce di fronte a una scena da mercato di provincia per il chiasso che interrompe il sonno dei sauditi. Anche perché i generosi arabi sono disposti a reperire presto altri Rolex pur di calmare gli italiani. Non sarà un pezzo d’oro a sfaldare i rapporti tra Ryad e Roma: ballano miliardi di euro di appalti, mica affinità morali. Nonostante le decapitazioni di Capodanno, tra cui quella dell’imam sciita che scatena la furia dell’Iran, per gli italiani Ryad resta una meta esotica per laute commesse. E che sarà mai una vagonata di Rolex? Il guaio è che degli orologi, almeno durante le vacanze natalizie, non c’era più traccia a Palazzo Chigi. Non c’erano nella stanza dei regali al terzo piano. Chi avrà infranto la regola Monti e chi l’avrà rispettata? E Renzi ce l’ha o non ce l’ha, il Rolex? La dottoressa Ilva Sapora, la padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non rammenta il contenuto dei doni. Ha la febbre e poca forza per rovistare nella memoria. Varricchio ascolta le domande e la ricostruzione dei fatti di Ryad: annuisce, non replica. Varricchio è il consigliere per l’estero di Renzi, nonché il prossimo ambasciatore italiano a Washington. Allora merita un secondo contatto al telefono. Non svela il destino del Rolex che ha ricevuto, ma si dimostra comprensivo: “I cittadini devono sapere. Queste vicende meritano la massima attenzione. Le arriverà una nota di Palazzo Chigi. Che la voce sia univoca”. Ecco la voce del governo, che non smentisce niente, che non assolve la Sapora, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”. Il racconto non finisce. Cos’è accaduto dopo la notte di Ryad? Chi non voleva restituire o non ha ancora restituito i Rolex? Da il Fatto Quotidiano di venerdì 8 gennaio 2016.

Renzi, Caporale vs Fiano (Pd): “Ci fu rissa tra dirigenti per Rolex regalati dai sauditi”. “Scena ignominiosa, ma per me non c’è notizia”, continua "Il Fatto Quotidiano tv". Polemica vivace tra Antonello Caporale, inviato de Il Fatto Quotidiano, e il deputato Pd Emanuele Fiano, durante Omnibus, su La7. Lo scontro è innescato dall’articolo di Carlo Tecce, pubblicato sul numero odierno del Fatto, circa il parapiglia esploso nello scorso novembre tra i dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renzi in Arabia Saudita: la rissa tra i dirigenti governativi della folta delegazione italiana è stata scatenata dalla generosa elargizione di circa 50 Rolex di varia fattura ad opera del re saudita. Come spiega Caporale nella trasmissione, nella hall dell’hotel di Ryad alcuni dirigenti italiani si sono ribellati perché avevano ricevuto l’orologio meno lussuoso, peraltro in barba alla legge Monti che impone di rifiutare doni oltre i 150 euro. Successivamente la scorta di Renzi ha dovuto sequestrare gli orologi, tutti prodotti a Dubai e dal valore oscillante tra3mila e 4mila euro. Caporale commenta: “Temo che la mediocrità del gruppo dirigente e di coloro che dovrebbero guidare l’Occidente a risolvere questa crisi internazionale sia tale che anche i dettagli illustrino il pessimismo generale. E questo episodio è un dettaglio significativo”. Il giornalista definisce il caso dei Rolex d’oro donati dagli ‘amici di Ryad’ un dettaglio di costume non certo folkloristico: “E’ indicatore della nostra ambiguità che ovviamente non è solo italiana, e simboleggia la debolezza dell’Occidente. Che non riesce non solo a porre un’idea generale cu come far fronte a una guerra così asimmetrica, pericolosa, atipica, difficile da condurre, ma nemmeno a misurare le forze per far fronte a cose più banali”. Insorge Fiano, che ribadisce di aver letto l’articolo de Il Fatto Quotidiano ‘parola per parola': “Qui c’è un grande titolo, ma di notizie certe non c’è nulla”. “E’ notizia certa che i Rolex siano stati dati”, replica Caporale. “L’unica fonte che viene citata” – obietta il parlamentare Pd – “è un consigliere diplomatico di Palazzo Chigi”. “C’è la nota di Palazzo Chigi alla fine dell’articolo” – ribatte la firma de Il Fatto – “lo legga tutto”. Ma il deputato Pd, pur definendo “ignominiosa” la rissa descritta nell’articolo di Tecce, ripete che non c’è notizia, né la nota di Palazzo. In realtà, la versione del governo c’è e non smentisce nulla, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”.

CHI FA LE LEGGI? 

Chi fa le leggi? Tante proposte ma poche tagliano il traguardo. E otto su dieci sono del governo. Dati Openpolis: nelle ultime due legislature la percentuale di successo delle iniziative di Palazzo Chigi è stata 36 volte più alta di quelle parlamentari. L'apice con Letta. I tempi: neanche due settimane per il trattato su risanamento banche e bail in, quasi 800 giorni per Italicum, divorzio breve e anti-corruzione, scrive Michela Scacchioli il 5 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Neanche due settimane per ratificare il trattato sul fondo di risoluzione unica, quello - tanto discusso in questi giorni di proteste dei risparmiatori - su risanamento bancario e salvataggio interno (bail in). Ben 871 giorni, invece, per licenziare il ddl sull'agricoltura sociale che ha impiegato quasi due anni e mezzo per diventare legge. Nel mezzo ci sono da un lato lo svuota-carceri, i decreti lavoro, fallimenti, missione militare Eunavfor Med, competitività e riforma della pubblica amministrazione che hanno tagliato il traguardo con - al massimo - 44 giorni di tempo. Dall'altro si piazzano Italicum, divorzio breve, ecoreati, anti-corruzione e affido familiare che oscillano tra i 664 e i 796 giorni necessari al via libera finale. Leggi lepre. E leggi lumaca. Per rimanere in tema: durante la consueta conferenza stampa di fine anno, il premier Matteo Renzi ha detto a proposito delle unioni civili che sì, il tema divide, ma che "nel 2016 queste vanno" necessariamente "portate a casa" perché "a differenza di quello che avrei voluto, non siamo riusciti ad approvare nel 2015" il ddl Cirinnà presentato in commissione a Palazzo Madama già a marzo del 2013 e successivamente modificato. "Purtroppo - ha poi aggiunto Renzi - non siamo riusciti a tenere il tempo. Da segretario del Pd farò di tutto perché il dibattito che si apre al Senato" a fine gennaio "sia il più serio e franco possibile. Un provvedimento di questo genere non è un provvedimento su cui il governo immagina di inserire l'elemento della fiducia, bisognerà lasciare a tutti la possibilità di esprimersi". In fatto di leggi, tuttavia, i numeri appaiono chiari. Sono 565 le norme approvate nelle ultime due legislature su un totale di oltre 14mila proposte. In percentuale, però, tra quelle che sono riuscite a completare l'iter, otto su dieci sono state presentate dal governo e non dal parlamento italiano nonostante - costituzionalmente - siano Camera e Senato a essere titolari del potere legislativo. Vero è che nel corso degli anni, i governi, detentori di quello esecutivo, hanno ampliato il proprio raggio d'azione. Tanto che la percentuale di successo delle proposte avanzate da Palazzo Chigi è 36 volte più alta di quelle parlamentari. Le cifre sono quelle analizzate (al 4 dicembre 2015) da Openpolis per Repubblica.it. Secondo l'osservatorio civico, infatti, "ormai è diventata una prassi che la stragrande maggioranza delle leggi approvate dal nostro parlamento sia di iniziativa del governo". Nell'attuale legislatura, come nella scorsa, circa l'80% delle norme approvate è stato proposto dai vari esecutivi che si sono succeduti. Ma cosa trattavano le oltre 500 leggi votate nelle ultime due legislature? E poi: nei pochi casi in cui l'iniziativa del parlamento è andata a buon fine, quali gruppi si sono resi protagonisti? Con che provvedimenti? Quanto ci vuole in media a dire sì a una legge?

Chi arriva in fondo. Un’analisi sulla produzione legislativa del nostro parlamento non può che partire dai numeri. Dei circa 183 disegni di legge che vengono presentati ogni mese, solo sei raggiungono la fine del percorso. Di questi sei, nell'80% dei casi si tratta di proposte avanzate dal governo. E mentre le iniziative di deputati e senatori diventano legge nello 0,87% delle volte, la percentuale sale al 32,02% quando si tratta del governo. Delle oltre 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, ben 440 sono state presentate dai vari esecutivi che si sono succeduti. Fra i governi presi in considerazione, l’apice è stato raggiunto con il governo di Enrico Letta: in quel periodo il parlamento ha presentato soltanto l’11% delle leggi poi approvate.

I tempi. In media, dal momento della presentazione a quello dell’approvazione finale trascorrono 151 giorni se si tratta di una proposta del governo. Ne passano 375 se si tratta di un’iniziativa parlamentare. Non stupisce quindi che la top 10 delle 'leggi lumaca' sia composta per il 90% da ddl presentati da deputati e senatori, e che nella top 10 delle 'leggi lepre' vi siano soltanto quelle proposte del governo. Se in media l’esecutivo impiega 133 giorni a trasformare una proposta in legge (poco più di 4 mesi), i membri del parlamento ne impiegano 408 (oltre 1 anno). Nell’attuale legislatura si evidenziano trend opposti: mentre le proposte del governo sono più lente rispetto allo scorso quinquennato, quelle del parlamento risultano più veloci.

Tante ratifiche di trattati. Un altro elemento analizzato è il contenuto di questi testi. Delle 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, il 36,28% erano ratifiche di trattati internazionali, il 26,55% conversione di decreti leggi. Questo vuol dire che 6 volte su 10 una legge approvata da Camera e Senato non nasce in seno al parlamento ma viene sottoposta all’aula per eventuali modifiche o bocciature.

Cambi di gruppo e instabilità. Se da un lato la XVII legislatura ha confermato lo squilibrio fra governo e parlamento nella produzione legislativa, dall'altro ha introdotto una forte instabilità nei rapporti fra maggioranza e opposizione. Il continuo valzer parlamentare dei cambi di gruppo, con la nascita di tanti nuovi schieramenti (molti dei quali di 'trincea' fra maggioranza e opposizione) ha fatto sì che l'opposizione reale, dati alla mano, fosse composta solamente da tre gruppi: Fratelli d'Italia, Lega Nord e Movimento 5 Stelle. Soltanto questi tre infatti, alla fine hanno votato nella maggior parte dei casi in contrasto con il Partito democratico.

Pd in testa. Dalle politiche del 2013, sono 30 le proposte di deputati e senatori che hanno completato l’iter parlamentare (su più di 5mila ddl di iniziativa parlamentare). Protagonista assoluto è il Partito democratico, che ha presentato il 73,33% dei testi in questione. A seguire Forza Italia (10%), e poi 5 gruppi a pari merito: Movimento 5 Stelle, Scelta Civica, Per le Autonomie-Psie-Maie, Misto e Lega Nord.

I decreti. A seguire nell'analisi, con un’altra fetta importante della torta, le conversioni in legge dei decreti emanati dai vari governi che si sono susseguiti. La conversione in legge dei decreti è una delle attività principali del nostro parlamento. Succede molto raramente che un testo deliberato dal Consiglio dei ministri non venga poi approvato da Camera e Senato. Negli ultimi 4 governi, il più 'efficiente' è stato è stato quello a guida Letta, con soltanto il 12% dei decreti decaduti. I decreti deliberati dal Consiglio dei ministri devono essere convertiti entro 60 giorni. Non sorprende quindi che il 90% delle leggi che rientra nella top 10 delle più veloci sia conversione di decreti. Fra le 10 più lente invece, tutte tranne una sono state proposte da membri del parlamento. La legge di iniziativa governativa più lenta è stata l’Italicum, che ha impiegato 779 giorni dal momento della presentazione per completare il suo iter.

Le Regioni. Nelle ultime due legislature le Regioni italiane hanno presentato 119 disegni di legge. Di questi, solamente 5 hanno completato l’iter, e tutti nello scorso quinquennato. Tre dei cinque erano modifiche agli statuti regionali (di Sicilia, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna), uno è stato approvato come testo unificato (in materia di sicurezza stradale), mentre l’ultimo è stato assorbito nella riforma del federalismo fiscale sotto il governo Berlusconi.

Come si vota. Un altro elemento fondamentale nell'approvazione delle leggi è il voto. Soffermandosi in particolare sull'attuale legislatura, l'analisi si è concentrata su chi ha contribuito, e in che modo, all'approvazione finale di questi provvedimenti. Dalla percentuale di posizioni favorevoli sui voti finali dei singoli gruppi presenti in aula, alla consistenza della maggioranza nel corso della legislatura, passando per il rapporto fra voti finali e questioni di fiducia. Se si prende il Pd come punto di riferimento in qualità di principale forza politica all'interno della coalizione di governo, si è ricostruita la distanza (o vicinanza) dall’esecutivo degli altri gruppi parlamentari. Il primo dato che emerge è che su 435 votazioni finali, in 104 occasioni (23,01%), tutti i gruppi alla Camera e al Senato hanno votato con il Pd.

Le opposizioni. Il comportamento delle opposizioni nei voti finali regala molti spunti interessanti. Perché se su carta alcuni schieramenti nel corso dei mesi si sono dichiarati in contrasto con gli esecutivi di Letta prima e Renzi poi, i dati raccontano altro. Nei voti finali alla Camera, ad esempio, Sel, gruppo di opposizione, ha votato il 52% delle volte in linea col Pd. Al Senato, ramo in cui i numeri a favore dell’esecutivo sono più risicati, solamente due gruppi (Lega Nord e Movimento 5 Stelle) hanno votato nelle maggior parte dei voti finali (più del 50%) diversamente dal Pd.

Voto di fiducia: chi l'ha usato di più. Per completare il quadro sulle votazioni, non si poteva non affrontare il tema delle questioni di fiducia sui progetti di legge. Due gli aspetti analizzati: da un lato il rapporto tra blindatura e leggi approvate, dall’altro le occasioni durante le quali lo strumento è stato utilizzato più di due volte sullo stesso provvedimento. Non solo la maggior parte delle leggi viene proposta dal governo, ma emerge pure che l'approvazione richiede un utilizzo elevato delle questioni di fiducia. In media, nelle ultime due legislatura, il 27% delle leggi approvate ha necessitato di un voto di fiducia, con picchi massimi raggiunti dal governo Monti: il 45,13 per cento. Ma quali sono stati i provvedimenti che hanno richiesto più voti di fiducia? Al primo posto c'è la riforma del lavoro, governo Monti, che ha richiesto 8 voti di fiducia. Cinque voti di fiducia per il ddl anti-corruzione (sempre governo Monti) e ancora cinque per la Stabilità 2013. Quattro voti di fiducia per il decreto sviluppo e la riforma fiscale (governo Monti), tre per la legge sviluppo 2008 (governo Berlusconi). Tre voti di fiducia per la Stabilità 2014 (governo Letta), tre anche per Stabilità 2015, Italicum, Jobs Act e riforma Pa (governo Renzi).

Voti finali alla Camera. Uno dei modi per capire il reale posizionamento in aula dei gruppi parlamentari è vedere se il loro comportamento durante i voti finali è in linea o meno con quello del governo. Questo esercizio permette anche di osservare come è variato il sostegno all’esecutivo con la staffetta Letta-Renzi. Se da un lato Forza Italia durante il governo Letta votava l’86% delle volte con il Pd (al tempo in maggioranza), con il governo Renzi - e il riposizionamento dei berlusconiani - la percentuale è scesa al 64,57 per cento.

Voti finali al Senato. I numeri del governo a Palazzo Madama sono molto più risicati rispetto a quelli di Montecitorio. Non sorprende quindi che la maggior parte dei gruppi, per un motivo o per l’altro, spesso e volentieri abbia votato con il Pd nei voti finali dei provvedimenti discussi in aula. Da sottolineare come i fuoriusciti da Forza Italia, sia Conservatori e Riformisti (di Raffaele Fitto) che Alleanza Liberalpopolare-Autonomie (di Denis Verdini), da quando sono nati hanno votato rispettivamente il 78,69% e il 78,13% delle volte in linea con il governo nei voti finali.

Voti finali panpartisan. Nel dibattito parlamentare può succedere che su determinati argomenti si arrivi ad una votazione panpartisan. Sono i casi i cui tutti i gruppi che siedono in aula votano a favore, con nessuno ad astenersi o votare contro. Su 435 voti finali che si sono tenuti da inizio legislatura, è successo ben 104 volte (23,91%). Più ricorrente al Senato (28,10%) che alla Camera (20%). Trattasi principalmente, nel 74% dei casi, di ratifica di trattati internazionali.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

Moratoria dei pm su Expo? Il pm snobba la questione. Nel suo ultimo discorso pubblico da Procuratore, Edmondo Bruti Liberati liquida con poche ma esplicite righe il tema della presunta "moratoria" concessa durante Expo per non infierire con arresti e avvisi di garanzia sull'andamento dell'esposizione universale, scrive Luca Fazzo Mercoledì 11/11/2015 su “Il Giornale”. "La Procura di Milano ha svolto il ruolo che le compete di accertamento rigoroso dei fatti di reato. "La magistratura penale non deve farsi carico di "compatibilitá"". Nel suo ultimo discorso pubblico da Procuratore, Edmondo Bruti Liberati liquida con poche ma esplicite righe il tema che da settimane, ma soprattutto nelle ultime ore, incombe sulla sua gestione della Procura di Milano: la presunta "moratoria" concessa durante Expo per non infierire con arresti e avvisi di garanzia sull'andamento dell'esposizione universale. Una sorta d conferma dell'esistenza della moratoria é venuta ieri dal presidente del Consiglio Matteo Renzi, che nel suo discorso milanese ha ringraziato la magistratura per la "responsabilità " dimostrata in questi mesi. "Non ci siamo fermati checché se ne dica oggi in alcuni commenti", ha detto Bruti replicando agli articoli odierni innescati dal "ringraziamento" di Renzi. Bruti, che aveva assunto su di sé il coordinamento delle indagini sull'evento milanese, nega che una moratoria vi sia stata. Rivendica le inchieste compiute prima dell'avvio dell'esposizione, "la massima celerità" impressa alle indagini, che "ha consentito alla struttura Expo 2015 di adottare te elettivamente i provvedimenti per la sostituzione dei manager colpiti da custodia cautelare evitando ogni stasi nel periodo delicatissimo di predisposizione delle strutture di base dell'evento". "Spettava ad altre articolazioni istituzionali operare affinché seguissero iniziative gestionali ed amministrative atte a assicurare la prosecuzione delle opere in condizioni di ripristinata legalità ". Il riferimento é alle indagini che portarono all'arresto di alcuni tra i collaboratori più stretti del commissario di Expo Giuseppe Sala e di alcuni sopravvissuti di Tangentopoli. Se altre indagini si sono accumulate nel frattempo nei cassetti, e se daranno i loro frutti dopo la chiusura di Expo, lo si scoprirà solo nelle prossime settimane. Oggi Bruti Liberati dá l'addio alla carica, presentando il Bilancio sociale della procura che ha guidato per cinque anni. Alla presenza del ministro Andrea Orlando, Bruti rivendica numeri alla mano una serie di numeri che dimostrano come il lavoro quotidiano dei suoi ottanta sostituti abbia risposto sempre meglio alle esigenze di una città alle prese con i multiformi aspetti della criminalità. Vero. Ma lo stesso Procuratore sa bene che il tema cruciale é quello del rapporto con il potere politico. E su questo punto le polemiche non sono destinate a chiudersi con la sua uscita di scena. 

Trattativa Pd-magistrati. Renzi svela l'accordo con la procura di Milano: grazie per la vostra sensibilità, scrive Alessandro Sallusti Mercoledì 11/11/2015 su “Il Giornale”. In visita ieri a Milano per il dopo Expo, Matteo Renzi ha detto: «Ringraziamo i magistrati che hanno avuto sensibilità nel rispetto rigoroso delle leggi», svelando così un segreto di Pulcinella. Perché quello che tutti sapevano, e che nessuno osava dire, è che c'è stata una trattativa sull'asse Quirinale-Palazzo Chigi-Procura di Milano per sospendere le inchieste giudiziarie sui vertici dell'Expo per tutto il periodo della rassegna universale. Non si doveva rovinare la festa al governo di sinistra, non scalfire l'immagine di Giuseppe Sala, capo di Expo e futuro candidato sindaco del Pd a Milano. Altro che trattativa Stato-mafia. Qui siamo alla trattativa Stato-magistrati, che evidentemente - ce lo dice Renzi in persona - è andata a buon fine. Sarebbe interessante sapere chi ha trattato con chi, chi ha ordinato ai magistrati di fermarsi e chi a Palazzo di giustizia si è fatto garante dell'accordo. Verrebbe da dire: finalmente qualcuno fa valere l'interesse di Stato sulla furia devastatrice di pm incoscienti. Ma ci chiediamo anche perché questo sano principio non sia stato applicato durante la ventennale caccia a Silvio Berlusconi presidente del Consiglio, che enormi danni ha provocato all'interessato ma soprattutto al Paese. Ricordate l'avviso di garanzia - il primo a un premier in carica nella storia repubblicana - spedito da questi stessi magistrati a Berlusconi a Napoli, nel pieno della conferenza internazionale sulla criminalità organizzata? Non ci fu alcuna «sensibilità», né «rispetto delle leggi», tanto che l'allora premier fu poi totalmente assolto. Così come gli interessi del Paese sono stati negli anni calpestati con inchieste farlocche sui vertici delle nostre grandi aziende, da Eni a Finmeccanica, da Fastweb a Unicredit. Solo con un governo di sinistra i magistrati abbassano la testa e ripongono nei cassetti i faldoni delle intercettazioni. Questa è la prova che l'uso politico della giustizia non è una fantasia di qualche squilibrato. È un fatto. Le procure si muovono contro una parte, che è sempre la stessa, ma anche a difesa di una parte che, guarda caso, è pure quella sempre la stessa. Tutto ciò spiega anche perché Giuseppe Sala stia prendendo tempo prima di accettare la candidatura del Pd a guidare Milano: vuole sapere se il suo lasciapassare è scaduto con la chiusura dei cancelli di Expo o se sarà rinnovato fino alle elezioni, meglio all'infinito. Ma così la partita è truccata. E addio democrazia.

Trattativa Pd-pm milanesi: presto cadranno tutti i segreti. Dopo il plauso di Renzi ai giudici che hanno salvato Expo e Sala, il procuratore smentisce: "Nessuna moratoria". Bruti va in pensione, se ripartono le inchieste sarà la controprova, scrive Luca Fazzo Giovedì 12/11/2015 su “Il Giornale”. Procuratore, cosa c'è nei vostri cassetti? La domanda rimane senza risposta. Edmondo Bruti Liberati scivola via, inghiottito nel nugolo di agenti che scortano, pochi metri più in là, il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Per Bruti è il giorno dell'addio. Nell'aula magna del tribunale il Procuratore ha tenuto il suo ultimo discorso. Tra tre giorni andrà in pensione. È un addio amaro. Non solo perché Bruti se ne va anzitempo, sull'onda delle polemiche furibonde che hanno lacerato la Procura milanese, e che lo esponevano al rischio di essere esautorato dal Csm. Ma anche perché, manco a farlo apposta, alla vigilia del suo addio gli è piombato addosso un ringraziamento che somiglia a un killeraggio: quello del presidente del Consiglio.«Voglio ringraziare i magistrati di Milano per il rispetto rigoroso della legge ma anche del sistema istituzionale», aveva detto Matteo Renzi. Parole che a chiunque (compresi numerosi magistrati) sono suonate come la conferma ufficiale di quanto da mesi si dice nel Palazzo di giustizia milanese, e che solo un vecchio reporter iconoclasta come Frank Cimini aveva osato scrivere: l'esistenza di una moratoria tacita, un accordo tra potere politico e procura milanese per consentire a Expo di svolgersi al riparo da retate e avvisi di garanzia. «Nessuna moratoria - dice ieri Bruti - io sto ai fatti: le indagini su Expo sono state fatte». Se un riguardo c'è stato, dice il procuratore, è consistito nella «celerità dell'indagine» perché non si bloccassero i lavori dell'esposizione». Nient'altro. E il ministro Orlando prova anche lui a smosciare, spiegando che il «rispetto istituzionale» dimostrato dalla Procura milanese ha significato soltanto «fare ciò che impone la legge»: frase evidentemente priva di significato. E dunque? Di cosa parla davvero Renzi, quali accordi taciti o espliciti sono intercorsi in questi mesi perché non si disturbasse l'Expo di Giuseppe Sala? Per capire la portata di questi interrogativi bisogna andare indietro, alla nomina di Bruti alla guida della Procura cinque anni fa, conquistata grazie ad un accordo bipartisan in Csm fortemente voluto da Giorgio Napolitano: e a come il Quirinale abbia sempre vegliato su Bruti, considerandolo un magistrato non ottusamente chiuso nei codici ma aperto anche alle esigenze della società e della politica, e poi difendendolo apertamente anche nel momento più difficile, lo scontro con il suo vice Alfredo Robledo.Di questa interpretazione «politica» del suo ruolo, Bruti ha beneficiato a volte anche il centrodestra: come quando evitò il carcere a Alessandro Sallusti, o aprì la strada all'affidamento ai servizi sociali di Silvio Berlusconi. Ma è oggettivo che il caso più eclatante, l'inchiesta Sea dimenticata in cassaforte, ha tolto una rogna dal cammino della giunta rosso-arancione di Milano. Ed è altrettanto evidente che le inchieste su Expo che ieri Bruti rivendica si sono fermate tutte alla vigilia dell'esposizione. Dopo le retate del 2014, le indagini si sono fermate.Solo nelle prossime settimane, chiusa Expo e pensionato Bruti, si capirà se davvero, come si dice da tempo in tribunale, le notizie di reato relative all'esposizione siano continuate ad arrivare, e siano tenute sotto nomi di copertura in attesa della fine della moratoria.

Cassazione, Stefania Craxi deve pagare debito per condanne Bettino: all’Erario andranno 676 mila euro. Una tegola fiscale piombata addosso alla figlia dell’ex leader Psi per una sentenza dei di «Mani pulite», quella sulle tangenti della metropolitana di Milano, scrive “Il Corriere della Sera” del’11 novembre 2015. Una tegola fiscale, chiamiamola così, che le piomba addosso dai tempi di «Mani pulite». Stefania Craxi deve pagare al fisco 676 mila per il recupero dell’imposta di registro - tassa che colpisce i trasferimenti di proprietà - iscritta a debito anni e fa e riferita alla sentenza penale di condanna a quattro anni e sei mesi di reclusione riportata da suo padre Bettino. Era relativa al processo per le tangenti della «Metropolitana milanese» (forse il più importante del filone meneghino di Tangentopoli) per corruzione e illecito finanziamento ai partiti, davanti alla Corte di Appello di Milano il 24 luglio 1998. Lo ha stabilito la Cassazione. I supremi giudici, infatti, hanno respinto il ricorso con il quale la figlia di Craxi - difesa da Giancarlo Zoppini e Giuseppe Russo Corvace, dello studio Virtax - ha provato ad evitare la condanna al pagamento di questa somma. Ingente assai dato che la quantificazione è rapportata al valore della causa nella quale l’ex segretario del Psi era stato condannato a risarcire la metropolitana con dieci miliardi di vecchie lire per i danni provocati dalle sue malversazioni. Senza successo, Stefania Craxi ha sostenuto nel ricorso alla Suprema Corte di aver accettato l’eredità paterna con beneficio d’inventario, atto che consente di «fare confusione» tra patrimoni ricevuti in eredità in caso di debiti .E dunque di potersi esimere - nel caso di Stefania e Bettino - dall’assumere l’onere di adempiere a questo debito erariale maturato dal padre per via della sua pendenza giudiziaria penale. Tale circostanza è però rimasta sguarnita di prova, secondo i giudici della Commissione tributaria di Milano. Gli «ermellini» le hanno spiegato che ormai è troppo tardi per far valere l’eventuale beneficio di inventario, dal momento che la circostanza dell’accettazione condizionata dell’eredità doveva essere fatta presente impugnando a suo tempo l’avviso di liquidazione dell’imposta di registro. «Nel caso di specie - rilevano i supremi giudici - non è stato impugnato il titolo (l’avviso di pagamento) a mezzo del quale era stata fatta valere illimitatamente dall’erario, nei riguardi dell’erede, la pretesa obbligatoria concernente il debito tributario del defunto Bettino Craxi». «Dunque - conclude il verdetto della sentenza 23061 della Sezione tributaria della Cassazione - l’erede non poteva più eccepire, in sede di riscossione, né potrà farlo nell’eventuale sede di esecuzione, la ridotta responsabilità derivante dall’accettazione con beneficio di inventario».

Lo Stato perseguita Craxi: la figlia paghi 700mila euro. La Cassazione boccia il ricorso contro una cartella esattoriale legata all'imposta di registro per una condanna risalente al 1998. L'ira di Stefania: "È una vergogna", scrive Anna Maria Greco Giovedì 12/11/2015 su “Il Giornale”. Le colpe dei padri ricadono sui figli. Almeno se ti chiami Craxi. Ora Stefania deve pagare al fisco ben 676 mila euro di imposta di registro, dovuti per la condanna del 1998 a 4 anni e 6 mesi di reclusione di suo padre Bettino, nel processo per le tangenti della Metropolitana milanese, per corruzione e illecito finanziamento ai partiti.La Cassazione, infatti, non fa sconti. La sezione Tributaria di piazza Cavour ha infatti bocciato il ricorso della figlia del leader socialista che rivendicava la «prescrizione del diritto azionato» e, soprattutto, affermava di aver accettato l'eredità paterna con «beneficio d'inventario».Ma le sue ragioni, sostenute dai legali Giancarlo Zoppini e Giuseppe Russo Corvace, sono state respinte dai Supremi giudici. Stefania dovrà dunque pagare questa grossa somma, la cui quantificazione è rapportata al valore della causa nella quale l'ex segretario del Psi era stato condannato a risarcire la metropolitana con dieci miliardi di vecchie lire, per i danni provocati dalle sue malversazioni.L'interessata è semplicemente furiosa: «Questo Stato - dice Stefania Craxi al Giornale - si deve vergognare. Mio padre è stato condannato in processi senza prove, lui che ha reso l'Italia grande nel mondo e ha migliorato la vita di tutti i cittadini. Ora è incredibile che si chieda a me, che mi sono sempre guadagnata ogni cosa nella mia vita, di pagare una somma del genere. È l'ennesima vergogna di questo Stato e della sua magistratura»Per la Cassazione, ormai è troppo tardi perché la figlia di Bettino faccia valere la sua «ridotta responsabilità», per esimersi dal far fronte al debito erariale maturato dal padre in seguito alla sua pendenza giudiziaria penale.L'eventuale beneficio d' inventario (di cui, per i giudici, non ci sarebbe prova), cioè l'accettazione condizionata dell'eredità, doveva essere fatta presente impugnando a suo tempo l'avviso di liquidazione dell'imposta di registro. Dopo, non è più possibile esimersi dal pagamento. La Craxi contesta decisamente questo aspetto. «Non è vero, io ho accettato l'eredità con beneficio d'inventario. Ho parlato con il mio avvocato e anche lui è caduto dal pero per questa sentenza. Non capisce, come non capisco io. Domani leggeremo la sentenza, che ancora non abbiamo».Per la Cassazione, invece, tutta la procedura è stata regolare, perché per la somma «infruttuosamente richiesta», l'invito di pagamento «era stato notificato in base alla sentenza il 5 marzo 2005 sicché la cartella pacificamente notificata il 15 aprile 2006 era tempestiva».La figlia del leader socialista aveva impugnato davanti alla Commissione provinciale di Milano la cartella di pagamento per l'iscrizione a ruolo di 676.717 euro per il recupero dell'imposta di registro, prenotata a debito, dovuta in riferimento alla sentenza penale di condanna pronunciata dalla Corte d'appello di Milano il 24 luglio 1998 nei confronti di Bettino Craxi.La Suprema Corte, bocciando il ricorso, ha ricordato che nel caso in questione «non è stato impugnato il titolo a mezzo del quale era stata fatta valere illimitatamente dall'erario, nei riguardi dell'erede, la pretesa obbligatoria» relativa al debito tributario di Bettino Craxi.E i Supremi giudici hanno contestato l'aspetto della prescrizione, perché per il calcolo dei tempi, in caso di procedimento di riscossione del tributo di registro relativo alle imposte prenotate a debito su atti giudiziari, è applicabile il termine decennale di prescrizione e non quello cui faceva riferimento la difesa della figlia di Bettino.Quindi, come erede di suo padre, Stefania dovrà far fronte al suo debito tributario. Il verdetto della sentenza 23061 della Sezione tributaria della Cassazione non lascia spazio a dubbi.

Tutti i segreti di Tonino Di Pietro: "Vi dico il mio rimpianto più grande", scrive Luca Telese su “Libero Quotidiano” l’11 novembre 2015.

 Pronto Tonino?

«Ciao Luca! Scusami: è un brutto momento con il trattorino, puoi richiamare? Tra poco, dammi un secondo». (Click)

Pronto Tonino?

«Oh, buongiorno! Gesù, che ora è? Ti sembrerà assurdo, ma adesso c' è un problema serio con la scuotitrice». (Click)

Pronto, Tonino? Ti ricordi quell' intervista, per Libero?

«Oh si! Ma dobbiamo fare sabato! Adesso sto al frantoio».

Ma torni a Roma?

«Stai scherzando? E lascio tutto qui, a marcire sulle piante? Mi sa che ti tocca proprio venire a Montenero, ah ah ah ah! Ci sentiamo sabato, ore 14.30 Sii puntuale!».

Pronto, Tonino: indovina?

Sono le 14.30 e… «Oh scusami, stavolta: l'ora è giusta ma sono sbagliato io».

In che senso?

«È che stavo tendendo la rete, quando dal tronco di un albero è scappato fuori uno sciame di calabroni. Mi hanno punto proprio sotto l' occhio. Sto qui al pronto soccorso».

Le interviste a volte sono così. Cerchi qualcuno e finisci per infilarti in un frammento della sua vita. Cercavo Antonio Di Pietro perché ci eravamo fatti l' idea che la cosa più interessante, in questo momento di scandali e di inchieste era tornare al Di Pietro magistrato, al giustizialista degli esordi. Chiedergli quello che ha da dire oggi su Mafia capitale, Expo, sul suo ex segretario regionale dell' Italia dei Valori, Vincenzo Maruccio, indagato per rapporti con la 'ndrangheta nell' inchiesta Hydra. Sull' ipotesi ricicciata più volte di una sua candidatura a Milano. Lo cerchi e scopri che Tonino sta proprio da un' altra parte. Ha indossato un' altra vita, ti dice con tono tra l' ironico e il disincantato che potrebbe fare simpatia persino al suo grande nemico, Filippo Facci: «Senti, io adesso per la politica sono un ex. La seguo come un guardone che punta le coppiette».Di Pietro in questo momento sta qui. Dice tutto quello che passa per la testa, abbiamo deciso di pubblicare l' intervista comunque.

Uno pensa Di Pietro e pensa il magistrato…

«Errore: sono un dimissionario e pensionato».

Uno pensa Di Pietro e immagina il leader di partito…«Quale partito?» Come quale? L' Italia dei valori, il tuo. L'hai fondata tu.

«Non ho più nulla a che vedere».

Addirittura.
«Si, ma con il massimo del rispetto, senza un filo di pensieri o rancore. Io sto a Montenero di Bisaccia a raccogliere le olive, loro a Roma. So che vogliono entrare nella maggioranza di Renzi».

E non ti convince?

«Mhhhfffg….». Cosa? «Diciamo così. Rispetto ai miei valori è follia. Rispetto alla logica di chi fa politica per la politica può avere senso».

Sei acidino, adesso.

«No, giuro, non mi importa proprio nulla, sto lontano mille miglia. Facciano quello che vogliono, io non c' entro più».

E il tuo erede, Messina?

«Tanto buono e caro, poverino. Ma sono altrove».

Perché?

«Hanno ucciso il padre, hanno de-dipietrizzato. Io gli ho lasciato un gruzzolo da 11 milioni. Loro se lo amministrano belli belli, è giusto così. Hanno, come si dice? Ucciso il padre, ecco».

Dici Di Pietro e pensi il dipietrese.

«Vedi? Quasi non lo parlo più».

Dici Di Pietro e pensi all'avvocato.

«Ecco: quello ancora lo faccio, teoricamente».

Come teoricamente?

«Ho lo studio, sono un penalista. Ma per ora ho pochi clienti, e quasi tutti squattrinati».

Non ci credo. Chi non si farebbe difendere dal campione dei tribunali?

«Effettivamente in Aula ho fatto tutto, dal piemme all'imputato. E poi giudice civile, testimone, l'indagato, il querelante… Non mi manca nulla».

E quindi?

«Vedi, è proprio quello. Il problema? In linea di massimo ho due tipo di aspiranti clienti che vengono a bussare alla mia porta».

Quali?

«O il grande personaggio, quello con tanti soldi e grandi problemi che la sera lo vedi inguaiato nei titoli dei tiggì ... Oppure il caso disperato, quello con il processo già compromesso in Cassazione».

E perché?

«Gli hanno detto: a te ti salva solo Tonino o Lourdes. E lui ha scelto la prima che hai detto. Hai capito la morale?».

Non ancora.

«O zozzoni o poveri cristi».

Beh, sono clienti: cosa volevi, tutti santi?

«Insomma. È che non me la sento di tradire la mia storia, di andare a fare la balia di un Quattrocentosedici-bis…». Proviamoci. Tu entri con il signor quattrocentosedici-bis, la toga in spalla… «Vedi? Non riesco a immaginarmi con un boss di mafia a fare l' arringa: è innocente, vostro onore, innocente! Ve lo dice Di Pietro».

Dovresti difendere tutti per deontologia, lo sai.

«Sto dicendo che conosco le regole, ma il problema è mio. Eppure come vorrei buttarmi in un processo, trovare uno disperato che vale la pena di salvare. Per questo ascolto tutti, valuto».

E in attesa del principe azzurro?

«Patrocini gratuiti, la mia passione».

Adesso, per esempio?

«Mi sto divertendo con due poveracci che c'hanno sul collo due cartelle esattoriali ammazzacristi».

Il grande Di Pietro e la cartella esattoriale.

«Non sfottere. Perché il bello deve ancora venire: c' ho una cartellina con un paio di tartassati di multe, e infrazioni varie».

Ma allora, se penso Di Pietro, che devo raccontare ai nostri lettori?

«Coltivatore diretto».

Maddaì!

«È quello che faccio ogni giorno. Quando maturano a novembre, devi macinare il più presto possibile, sennò arriva la mosca».

Hai tante piante?

«Ce n'ho qualche migliaio».

Mica male…Rendono? «Un quintale, tredici litri» E prima delle olive?

«Raccolta dell' uva».

Sei biologico?

«Ehhhh… certo. Potato, arato, concime organico».

E l' uva?

«Pure. Ecche mi metto a infilare le medicine per due quintali in più di raccolto?».

Ci guadagni?

«Ecco il problema. Mentre stiamo parlando il frantoio l' olio me lo paga sei euro, ma solo se gli spari in fronte».

Ci rientri?

«Scherzi? A me costa 30 euro il litro. C' ho tre pakistani e tre italiani: contratto di bracciante agricolo. Possono fare i vaucher solo pensionati e studenti».

Quanto ti costa?

«Sono 48,6 euro al giorno. E 70 euro di costo aziendale».

Però incassi.

«Per i due quintali che ho qui sono 1200 euro. Mi spieghi come cazzo si fa?».

Sei tu il coldiretto.

«È che questo contadino non esiste più. C'ho amici che l'olio se lo vendono all' estero, ed è una strada. Oppure vai a finire in una grande macchina, pendono la tua roba, lo tagliano con la polvere di topo, ed ecco l' olio che ti bevi tu».

Ma tu che ci fai con 35 quintali di olio?

«Venti li vendo, cinque li regalo. Se questa intervista mia piace, e lo escludo, ti becchi due litri pure tu.... Ma lo faccio soprattutto come realizzazione di me stesso».

Vediamo la tabella mi marcia.

«Mi sveglio alle 5.30 della mattina. Carico i braccianti con il pulmino».

Ma ci vai tu?

«Come diceva mio nonno: il contadino sa sempre stare un metro avanti».

Riecco il dipietrese.

«Ti sei giocato i due litri».

Lavorate fino al buio?

«Alle 16.30 metto a posto gli attrezzi, alle 17.30 vado col carico al frantoio».

E i contatti con D' Alema, Renzi, Vendola…?

«Quelli li sente Belpietro al telefono più di me».

Fatica?

«Sì, ma guardala così. Prima prendevo i farmaci per lo stress, non dormivo, crisi epilettiche tachicardia. E ora? Dormo come un angioletto».

Ma perdi tutti questi soldi per ammazzarti di lavoro?

«Domanda a Renzi. Se ti mando l' olio a Natale. Mi dovrei fare autofattura?».

Programmi per stasera?

«Maria, la mia vicina mi ha portato le bietole. Domani si spenna il pollo. Mo' lascio te e vado a prendere l' olio fatto al frantoio».

Ma la politica per cui ti stavi prendendo il coccolone?

«La mattina non posso leggere i giornali. Vado al computer dopo cena, guardo le mail, scrivo. Alle 23 sono già a letto».

Ah, ti piace….

«Lo dico sinceramente? La politica si è fatta oscena».

Eri disposto a candidarti a Milano, però.

«Sì, ma tra il dire e il fare c' è di mezzo il mare. Come li metti in pista 400 candidati?».

Però ti sarebbe piaciuto.

«Tanto. Il giorno stesso il Pd ha detto con lui mai, i Grillini hanno già fatto un loro statuto e li rispetto, ed ecco perché sto qui a Montenero».

Non ti è rimasto nulla?

«Lo dici tu. C' è stata una bellissima stagione, quella dei referendum. E poi un' altra molto bella, quella della foto di Vasto. La rivendico orgogliosamente».

Hai perso.

«Perché c' è stato l' atto anticostituzionale di fare il governo Monti, altrimenti noi staremmo al posto di Grillo. Sono bivi».

O ti ha ammazzato la Gabanelli?

«Ho una causa in corso, posso dirti questo: con quale intenzione l'abbia fatto non lo so. Ma so che la gente ha percepito una realtà distorta».

Quindi non hai fatto errori?

«Eccome: mi sono messo con Ingroia, Occhetto... Ferrero. Pensavo: l'unione non fa la forza. È stato devastante».

Sempre la querela facile?

«La Santanché è stata condannata a 20 mila euro. Però da quando sono in campagna ho sospeso le cause…». E la scorta? «Prima che la togliessero ho rinunciato. Per me, che l'ho avuta tanti anni è stata una liberazione. E poi che ci facevo, li mettevo a fare vendemmia?».

Adesso mi dirai che non hai letto di Maruccio.

«Invece seguo tutto: voglio sapere esattamente che cosa è successo».

Lo difendi?

«Era un bravo ragazzo: se ce n' era un altro lo vedrò. Apprezzo che si affidi alla giustizia e non la contesta».

E Mannino?

«Lo hanno assolto per non aver commesso il fatto. Ci credo punto».

Però sotto sotto….

«No. Si è fatto venti anni di processo: massimo rispetto. A lui e al giudice. Non condivido che lui attacchi i magistrati, e, peggio ancora, che qualcuno si infili in questa cosa per fare campagne».

Ti piacerebbe tornare in aula con questi processi?

«Rimpiango di essermene andato, sì: mi piacerebbe essere in campo».

Adesso sei proprio crepuscolare.

«Non illudetevi che io scompaia, è una stagione interlocutoria. Ci si vede dopo la semina».

Di nuovo dipietrese.

«Lù, a Milano aspettano il tuo pezzo: Corri a scrivere e lasciami in pace!».

Luca Telese

Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".

Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".

ONESTA’ E DISONESTA’

1. Era una donna virtuosa, ma il caso volle che sposasse un cornuto. (Sacha Guitry)

2. L'amore ha diritto di essere disonesto e bugiardo. Se è' sincero. (Marcello Marchesi)

3. Proposta: "Facciamo il governo degli onesti!". "Già, e il pluralismo?". (Manetta)

4. Il socialista più elegante?  Martelli. Il più grasso? Craxi. Il più onesto? Manca!

5. Due manager discutono di come scegliere la segretaria e uno dei due dice di avere un metodo speciale tutto suo: "Io la ricevo in ufficio e le faccio trovare per terra un biglietto da 100.000 lire; poi con una scusa mi allontano e osservo quello che succede. La loro reazione è molto istruttiva". Dopo qualche tempo si reincontrano e il primo chiede: "Allora, amico mio, come è andata la scelta della segretaria?". "Ho fatto come mi hai detto: la prima ha raccolto il biglietto e l'ha messo velocemente nella sua borsetta. La seconda l'ha raccolto e me lo ha consegnato. La terza ha fatto come se niente fosse".  "E quale hai scelto?". "Quella con le tette più grosse!".

6. La disumanità del computer sta nel fatto che, una volta programmato e messo in funzione, si comporta in maniera perfettamente onesta (Isaac Asimov).

7. Convinto dalla tangente, il cerchio accettò di trasformarsi in quadrato. L'angolo invece rifiutò: era sempre stato retto e tale voleva restare.

8. Come ci sono oratori balbuzienti, umoristi tristi, parrucchieri calvi, potrebbero esistere benissimo anche politici onesti. (Dario Fo)

9. A volte è difficile fare la scelta giusta perché o sei roso dai morsi della coscienza o da quelli della fame. (Totò in "La banda degli onesti")

10. C'è un modo per scoprire se un uomo è onesto: chiedeteglielo. Se risponde di sì, è marcio. (Groucho Marx)

11. Se la canaglia impera, la patria degli onesti è la galera (proverbio italiano)

12. L'onestà paga. La disonestà è pagata. (Silvia Ziche)

13. Definizione di corrotto: vezzeggiativo politico. (S. M. Tafani)

14. Il segreto della vita è l'onestà e il comportarsi giustamente. Se potete simulare ciò lo avete raggiunto. (Groucho Marx)

15. Niente assomiglia tanto a una donna onesta quanto una donna disonesta di cui ignori le colpe.

16. Se l'esperienza insegna qualcosa, ci insegna questo: che un buon politico, in democrazia, è tanto impensabile quanto un ladro onesto. (H.L Mencken)

17. Nel dolore un orbo è avvantaggiato, piange con un occhio solo. (Antonio (Totò) in "La banda degli onesti")

18. L'onestà è la chiave di una relazione sentimentale. Se riuscite a far credere di essere onesti, siete a cavallo. (Richard Jeni)

19. L'onestà è lodata da tutti, ma muore di freddo. (Giovenale)

20. "Jim, dove posso trovare dieci uomini onesti?". "Cosa? Diogene si sarebbe contentato di trovarne uno". (Robert A. Heinlein, Cittadino della galassia)

21. A molti non mancano che i denari per essere onesti. (Carlo Dossi)

22. Le donne oneste non riescono a consolarsi degli errori che non hanno commesso. (SachaGuitry)

23. Un politico onesto è quello che una volta "comprato" resta comprato. (Legge di Simon Cameron)

24. Le persone oneste e intelligenti difficilmente fanno una rivoluzione, perché sono sempre in minoranza. (Aristotele)

25. "Signora - dice la nuova cameriera - in camera sua, sotto il letto, ho trovato questo anello!". "Grazie Rosi. L'avevo messo apposta per controllare la sua onestà". "E' proprio quello che ho pensato anch'io, signora!".

26. Ero veramente un uomo troppo onesto per vivere ed essere un politico. (Socrate)

27. Un governo d'onesti è come un bordello di vergini. (Roberto Gervaso)

28. Si dice: "La disonestà dei politici non paga mai!". E' vero. Generalmente riscuote.

29. Sei onesta come le mosche d'estate, al mattatoio, che rinascono dalla loro stessa merda. (dall'Otello) (William Shakespeare)

30. A volte mi viene il sospetto che avere la fama di essere scrupolosamente onesto equivalga a un marchio di idiozia. (Isaac Asimov)

31. In tutta onestà, non credo nell'onestà.

32. Un uomo onesto può essere innamorato come un pazzo, ma non come uno sciocco. (François de La Rochefoucauld) 33. Ammetto di essere onesto. Ma se si sparge la voce, sono rovinato: nessuno si fiderà più di me. (Pino Caruso)

34. Donne oneste ce ne sono più di quelle che non si crede, ma meno di quelle che si dice. (Alessandro Dumas figlio) (in "L'amico delle donne")

35. La principale difficoltà con le donne oneste non è sedurle, è portarle in un luogo chiuso. La loro virtù è fatta di porte semiaperte. (Jean Giraudoux)

36. Una volta l'onestà, in un individuo, era il minimo che gli si richiedesse. Oggi è un optional. (Maurizio Costanzo)

37. Le anime belle, le figurine del presepe, le persone oneste... Ne ho conosciute tante, erano tutte come te. Facevano le tue domande, e con voi il mondo diventa più fantasioso, più colorato... Ma non cambia mai !! (Il ministro Nanni Moretti a Silvio Orlando in "Il portaborse")

38. Non è grave il clamore chiassoso dei violenti, bensì il silenzio spaventoso delle persone oneste. (Martin Luther King)

39.  Era così onesto che quando trovò un lavoro, lo restituì.

40. Mi piace un soprabito scoperto dagli americani, il koccomero, quello che si aggancia con i calamari. (Totò in "La banda degli onesti")

41. Il tipografo Lo Turco ammira tutto l'armamentario per fabbricare banconote false: "Ma questa è filagrana!".  Toto': "Sfido io! Viene dal policlinico dello Stato!". (In "La banda degli onesti")

42. L'onestà nella compilazione della dichiarazione dei redditi viene considerata in Italia una forma blanda di demenza. (Dino Barluzzi)

43. Non abbiamo bisogno di chissà quali grandi cose o chissà quali grandi uomini. Abbiamo solo bisogno di più gente onesta. (Benedetto Croce)

44. Ci sono fortune che gridano "imbecille" all'uomo onesto. (Edmond e Jules de Goncourt)

45. L'onestà dovrebbe essere la via migliore, ma è importante ricordare che, a rigor di logica, per eliminazione la disonestà è la seconda scelta. (George Carlin)

46. In Italia si ruba con onestà, rispettando le percentuali. (Antonio Amurri)

47. I nordici prendono il caffè lungo, noi sudici lo prendiamo corto. (Totò in "La banda degli onesti")

48. Ben poche sono le donne oneste che non siano stanche di questo ruolo. (FriedrichNietzsche)

49. L'onestà è un lusso che i ricchi non possono permettersi. (Pierre de Coubertin)

50. Neanche la disonestà può offuscare la brillantezza dell’oro.

51. Ti ho insegnato ad essere onesto, perché intelligente non sei. (Bertold Brecht)

52. L'onestà paga, ma pare non abbastanza per certe persone. (F. M. Hubbard)

53. Nessuna persona onesta si è mai arricchita in breve tempo. (Menandro)

54. Nessuno può guadagnare un milione di dollari onestamente. (No one can earn a million dollars honestly). (William Jennings Bryan)

55. Sicuramente ci sono persone disoneste nei governi locali. Ma è anche vero che ci sono persone disoneste anche nel governo nazionale. (Richard Nixon)

56. Le persone oneste si riconoscono dal fatto che compiono le cattive azioni con più goffaggine. (Charles Péguy)

57. L'onestà, come tante altre virtù, dipende dalle circostanze. (Roberto Gervaso)

58. Nessun uomo può guadagnare un milione di dollari onestamente, così come è disonesto ed invidioso chi dichiara il contrario. (Antonio Giangrande)

59. Colmo per un uomo retto: innamorarsi di una donna tutta curve.

60. Una politica onesta proietta una nazione sana nel futuro. Per questo si chiama Fantascienza. (Mauroemme)

61. Per il mercante anche l'onestà è una speculazione. (Charles Baudelaire)

62. In politica l'onestà è forse la cosa più importante. Chi ce l'ha deve partire con un grosso handicap! (Bilbo Baggins)

63. Dimettersi per una multa è soprattutto un ennesimo esempio della severità del rapporto tra etica e politica in Gran Bretagna. Tranquilli, ci pensiamo noi qua a ristabilire l'equilibrio europeo. (Annalisa Vecchiarelli)

64. La massima ambizione dell'uomo? Diventare ricco. Come? In modo disonesto, se è possibile; se non è possibile, in modo onesto. (Mark Twain)

65. Era un uomo così onesto e probo, da non essere neanche capace d'ingannare il tempo... (Fabio Carapezza)

66. Se l'esperienza ci insegna qualcosa, ci insegna questo: che un buon politico, in democrazia, è tanto impensabile quanto un ladro onesto.

67. La disperazione più grave che possa colpire una società e' il dubbio che vivere onestamente sia inutile. (Corrado Alvaro)

68. In un'epistola Orazio fustiga un doppiogiochista della morale che, ammirato da tutto il popolo, offre un bue e un porco agli dei, pregando Giove e Apollo ad alta voce. Ma subito dopo si rivolge a LAVERNA, dea protettrice dei ladri e a fior di labbra, in modo che nessun lo intenda, prega: "Laverna bella, fammi la grazia ch'io possa imbrogliar il prossimo, concedi ch'io passi per un galantuomo, un santo, e sopra i miei peccati distendi la notte, sopra gli imbrogli una nube". (Orazio)

69. Ingiuriare i mascalzoni con la Satira è cosa nobile, a ben vedere significa onorare gli onesti. (Aristofane)

70. L'onestà andrà di moda. (Beppe Grillo)

71. L'onestà è sempre la migliore scelta... ma spesso bisogna seguire la seconda scelta.

72. Odiare i mascalzoni è cosa nobile. (Quintiliano)

73. Uomini onesti si lasciano corrompere in un solo caso: ogniqualvolta si presenti l'occasione. (Gian Carlo Moglia)

74. Maresciallo: "...hanno arrestato anche il tipografo". Totò: "Lo Turco!!". Maresciallo: "No, lo svizzero". Totò: "Allora mi ha dato un nome falso!!" (Totò in "La banda degli onesti")

75. Portieri si nasce, non si diventa. (Totò in "La banda degli onesti")

76. Perchè anch'io, modestamente, nella media borghesia italiana occupo una società... condomini che vanno e che vengono, che quando è natale, pasqua mi danno la mancia, per il mio nome mi regalano lumini..." (Totò ne "La banda degli onesti")

77. Ho mandato mia moglie e i miei figli a un funerale, così si divagano un po'. (Totò' ne "La banda degli onesti")

78. Tanto Gentile il segretario pare se si dimette

e la poltrona sua saluta

e ogni lingua de li colleghi trema muta

che altrimenti vorrebber commentare.

Egli si va, sentendosi laudare,

per la rinuncia d’umiltà vestuta,

e par quasi fosse cosa non dovuta

ma invece scelta per obbligo morale.

Che il popolino l’onestà l’ammira,

e dà agli illusi una dolcezza al core,

chi se ne va senza aspettar altre prove.

Ma i peggiori non v’è modo li si muova,

né per decenza oppur spinti dall’onore,

che sol per la poltrona l’anima lor sospira. (Bilbo Baggins)

79. L'onestà non paga. Se vuoi fare l'onesto lo devi fare gratis. (Pino Caruso)

80. Ricòrdati che l'onestà paga sempre! Specialmente le tasse! (Renato R.)

81. La madre dei cretini è sempre incinta. Quella degli onesti ormai è in menopausa.

82. L'onestà è un lusso che i ricchi non possono permettersi. (Pierre de Coubertin)

83. Sto cercando di fare di mio figlio un italiano onesto, leale, corretto, solidale, amante della giustizia... "Un disadattato, insomma". (Stefano Mazzurana)

84. Io sono onesto. Contro chi devo scagliare la prima pietra? (Renato R.)

85. Nigeriano disoccupato trova 4.350 euro e li restituisce. Bisogna dire basta a questi gesti inappropriati, se vengono nel nostro paese devono rispettare le nostre regole. Che sono venuti qua ad insegnarci l'onestà? (Barbara Zappacosta)

86. Viviamo tempi in cui se dici "onesto!" a qualcuno, rischi d'offenderlo... (Alessandro Maso)

87. Sono una persona molto onesta e corretta. Mi sento un verme anche quando, ad un incontro, inganno l'attesa. (DrZap)

88. Secondo un emendamento del decreto milleproroghe, il M5S verrà multato per aver rifiutato i rimborsi elettorali. Sancendo la nascita di un nuovo reato: ONESTARE. (Kotiomkin) (Giovy Novaro)

Di Pietro, Grillo, il Movimento 5 Stelle e gli “utili idioti giustizialisti”.

L’Opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Le incalzanti notizie di cronaca giudiziaria provocano reazioni variegate tra i cittadini della nostra penisola. Sgomento, sorpresa, sdegno, compassione o incredulità si alternano nei discorsi tra i cittadini. Ma emerge, troppo spesso, una ipocrisia di fondo che è la stessa che attraversa, troppo spesso, la nostra società. Ma… chi è onesto al cento per cento? Credo nessuno, nemmeno il Papa. Chi non ha fatto fare qualche lavoretto in nero? Chi ha fatturato ogni lavoro eseguito? Chi ha sempre pagato l’iva? Chi ha dichiarato l’esatta metratura dei propri locali, per evitare di pagare più tasse sulla spazzatura? Chi lavora per raccomandazione o ha vinto un concorso truccato? Chi è un falso invalido o un baby pensionato? Chi per una volta non ha marinato l’impiego pubblico? Ecc.. Chi è senza peccato scagli la prima pietra! Naturalmente, quando non paghiamo qualche tassa, ci giustifichiamo in nome della nostra “onestà” presunta, oppure del fatto che fan tutti così: “Io non sono un coglione”!  E così via…

Ecco allora che mi sgranano gli occhi all'ultimo saluto a Casaleggio il 14 aprile 2016. La folla grida “Onestà, onestà, onestà”, frase di sinistroide e giustizialistoide natali. "Onestà, onestà". Questo lo slogano urlato a più riprese dai militanti del M5S alla fine dei funerali del cofondatore Roberto Casaleggio a Milano. Applausi scroscianti non solo al feretro, ma anche ai parlamentari presenti a Santa Maria delle Grazie, tra cui Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio. Abbracci, lacrime e commozione fra i parlamentari all'uscita.

“La follia di fare dell'onestà un manifesto politico”, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 15/04/2016, su "Il Giornale".  «Gli unici onesti del Paese sarebbero loro, come vent'anni fa si spacciavano per tali i magistrati del pool di Mani pulite, come tre anni fa sosteneva di esserlo il candidato del Pd Marino contrapposto a Roma ai presunti ladri di destra. Come tanti altri. Io non faccio esami di onestà a nessuno, me ne guardo bene, ma per lavoro seguo la cronaca e ho preso atto di un principio ineluttabile: chi di onestà colpisce, prima o poi i conti deve farli con la sua, di onestà. Lo sa bene Di Pietro, naufragato sui pasticci immobiliari del suo partito; ne ha pagato le conseguenze Marino con i suoi scontrini taroccati; lo stesso Grillo, a distanza di anni, non ha ancora smentito le notizie sui tanti soldi in nero che incassava quando faceva il comico di professione».

In pochi, pochissimi lo sanno. Ma prima di diventare il guru del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, Gianroberto Casaleggio aveva avuto rapporti con la politica attraverso le sue società di comunicazione. In particolare con un politico anni fa molto in voga e oggi completamente in disgrazia: Antonio Di Pietro.

«E' così, quando vedono una figura che potrebbe offuscare o affiancare la popolarità di Grillo, i vertici del Movimento si affrettano a epurarla». La sua storia, dall'appoggio incondizionato ricevuto all'allontanamento improvviso, è il simbolo del rapporto tra l'Italia dei Valori e Beppe Grillo, scrive Francesco Oggiano il 22 giugno 2012 su “Vanity Faire”. Il partito dell'ex pm è da sempre quello più vicino per contenuti al Movimento. Il sodalizio è iniziato con la nascita del blog ed è continuato almeno fino agli scorsi mesi. Grillo ha sempre sostenuto l'ex pm, definito una «persona perbene» e soprannominato «Kryptonite», per essere rimasto «l'unico a fare veramente opposizione al Governo Berlusconi». I «vertici» sarebbero quelli della Casaleggio Associati, società fondata dal guru Gianroberto che cura la comunicazione del Movimento 5 Stelle. La «figura» in ascesa era lei, Sonia Alfano. 40 anni, l'esplosiva eurodeputata eletta con l'Idv, poi diventata Presidente della Commissione Antimafia europea, arrivando al culmine di una carriera accidentata (prima la rottura con Grillo, poi con l'Idv) iniziata nel 2008. Figlia del giornalista Beppe assassinato dalla mafia, l'eurodeputata è stata la prima ad aver creato una lista civica regionale certificata da Grillo, nel 2008. Già attiva da tempo nel Meetup di Palermo, si presentò in Sicilia ignorata dai media tradizionali e aiutata dal comico prese il 3% e 70 mila preferenze. «Alla vigilia delle elezioni europee del 2009, Grillo e Di Pietro vennero da me e mi chiesero di candidarmi a Strasburgo. Io non sapevo neanche di che si occupava l'Europarlamento», racconta oggi. Perché Casaleggio avrebbe dovuto allontanare due europarlamentari popolari come Sonia Alfano e Luigi De Magistris? Chiede Francesco Oggiano a Sonia Alfano: «La mia sensazione è che quando i vertici del Movimento annusano una figura "carismatica" che può offuscare, o quantomeno affiancare, la leadership mediatica di Grillo, diano inizio all'epurazione».

Già dal gennaio 2003 il Presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, dr Antonio Giangrande, in una semideserta ed indifferente assemblea dell'IDV a Bari, in presenza di Antonio Di Pietro e di Carlo Madaro (il giudice del caso Di Bella) criticò il modo di fare nell'IDV. L'allora vice presidente provinciale di Taranto contestò alcuni punti, che furono causa del suo abbandono: Diritto di parola in pubblico e strategie politiche esclusiva di Di Pietro; dirigenti "Yes-man" scelti dal padre-padrone senza cultura politica, o transfughi da altri partiti, o addirittura con troppa scaltrezza politica, spesso allocati in territori non di competenza (in Puglia nominato commissario il lucano Felice Bellisario); IDV presentato come partito della legalità-moralità in realtà era ed è il partito dei magistrati, anche di quelli che delinquono impunemente; finanziamenti pubblici mai arrivati alla base, così come ne hanno tanto parlato gli scandali mediatici e giudiziari.

Ma non è questo che fa pensare cento volte prima di entrare in un movimento insipido come il M5S. Specialmente a chi, come me, per le sue campagne di legalità contro i poteri forti è oggetto perpetuo degli strali dei magistrati. Incensurato, ma per quanto?

FU IL TENENTE GIUSEPPE DI BELLO IL PRIMO A SCOPRIRE L’INQUINAMENTO IN BASILICATA, PER PUNIZIONE LO DENUNCIARONO PER “PROCURATO ALLARME!” Tenente della polizia provinciale di Potenza denuncia l’inquinamento e perde la divisa. A Potenza viene sospeso e condannato. Il caso affrontato con un servizio di Dino Giarrusso su "Le Iene" del 17 aprile 2016. “Io rovinato per aver fatto il mio dovere. E per aver raccontato i veleni del petrolio in Basilicata prima di tutti”. In un colloquio lo sfogo di Giuseppe Di Bello, tenente di polizia provinciale ora spedito a fare il custode al museo di Potenza per le sue denunce sull'inquinamento all'invaso del Pertusillo, scrive Antonello Caporale il 4 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". «La risposta delle istituzioni è la sentenza con la quale vengo condannato a due mesi e venti giorni di reclusione, che in appello sono aumentati a tre mesi tondi. Decido di candidarmi alle regionali, scelgo il Movimento Cinquestelle. Sono il più votato nella consultazione della base, ma Grillo mi depenna perché sono stato condannato, ho infangato la divisa, sporcato l’immagine della Basilicata. La Cassazione annulla la sentenza (anche se con rinvio, quindi mi attende un nuovo processo). Il procuratore generale mi stringe la mano davanti a tutti. La magistratura lucana ora si accorge del disastro ambientale, adesso sigilla il Costa Molina. Nessuno che chieda a chi doveva vedere e non ha visto, chi doveva sapere e ha taciuto: e in quest’anni dove eravate? Cosa facevate?».

A questo punto ritengo che i movimenti a monoconduttura o padronali, che basano il loro credo sulla propria presunta onestà per non inimicarsi i magistrati, ovvero per non essere offuscati dall’ombra degli eroi che combattono i poteri forti e ne subiscono le ritorsioni giudiziarie, vogliano nelle loro fila solo “utili idioti”. Cioè persone che non hanno una storia da raccontare, o un’esperienza vissuta; non hanno un bacino elettorale che ne conosca le capacità. Insomma i padroni del movimento vogliono dei “Yes-Man” proni al volere dei loro signori. “Utili idioti” scelti in “camera caritatis” o a forza di poche decine di click su un blog imprenditoriale. “Utili idioti” sui quali fare i conti in tasca: sia mai che guadagnino più del loro guru. A pensarci bene, però, gli altri partiti non è che siano molto diversi dal Movimento 5 Stelle o l’IDV. La differenza è che gli altri non gridano all’onestà, ben sapendo di essere italiani.

TRIBUNALE DI POTENZA. SI DECIDE SUL DIRITTO DI CRITICA, MA ANCHE SUL DIRITTO DI INFORMARE.

Le maldicenze dicono che i giornalisti sono le veline dei magistrati. Allora, per una volta, facciamo parlare gli imputati.

Tribunale di Potenza. All’udienza tenuta dal giudice Lucio Setola finalmente si arriva a sentenza. Si decide la sorte del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, conosciutissimo sul web. Ma noto, anche, agli ambienti giudiziari tarantini per le critiche mosse al Foro per i molti casi di ingiustizia trattati nei suoi saggi, anche con interrogazioni Parlamentari, tra cui il caso di Sarah Scazzi e del caso Sebai, e per le sue denunce contro l’abilitazione nazionale truccata all’avvocatura ed alla magistratura. Il tutto condito da notizie non iscritte nel registro dei reati o da grappoli di archiviazioni (anche da Potenza), spesso non notificate per impedirne l’opposizione. Fin anche un’autoarchiviazione, ossia l’archiviazione della denuncia presentata contro un magistrato. Lo stesso che, anziché inviarla a Potenza, l’ha archiviata. Biasimi espressi con perizia ed esperienza per aver esercitato la professione forense, fin che lo hanno permesso. Proprio per questo non visto di buon occhio dalle toghe tarantine pubbliche e private. Sempre a Potenza, in altro procedimento per tali critiche, un Pubblico Ministero già di Taranto, poi trasferito a Lecce, dopo 9 anni, ha rimesso la querela in modo incondizionato.

Processato a Potenza per diffamazione e calunnia per aver esercitato il suo diritto di difesa per impedire tre condanne ritenute scontate su reati riferiti ad opinioni attinenti le commistioni magistrati-avvocati in riferimento all’abilitazione truccata, ai sinistri truffa ed alle perizie giudiziarie false. Alcuni giudizi contestati, oltretutto, non espressi dall’imputato, ma a lui falsamente addebitati. Fatto che ha indotto il Giangrande per dipiù a presentare una istanza di rimessione del processo ad altro Foro per legittimo sospetto (di persecuzione) ed a rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Rigettata dalla Corte di Cassazione e dalla Cedu, così come fan per tutti.

Per dire: una norma scomoda inapplicata.

Processato a Potenza, secondo l’atto d’accusa, per aver presentato una richiesta di ricusazione nei confronti del giudice di Taranto Rita Romano in tre distinti processi. Motivandola, allegando la denuncia penale già presentata contro lo stesso giudice anzi tempo. Denuncia sostenuta dalle prove della grave inimicizia, contenute nelle motivazioni delle sentenze emesse in diversi processi precedenti, in cui si riteneva Antonio Giangrande una persona inattendibile. Atto di Ricusazione che ha portato nel proseguo dei tre processi ricusati all’assoluzione con giudici diversi: il fatto non sussiste. Questione rinvenibile necessariamente durante le indagini preliminari, ma debitamente ignorata.

Ma tanto è bastato all’imputato, nell’esercitare il diritto di difesa ed a non rassegnarsi all’atroce destino del “subisci e taci”, per essere processato a Potenza. Un andirivieni continuo da Avetrana di ben oltre 400 chilometri. Ed è già una pena anticipata.

L’avvocato della difesa ha rilevato nell’atto di ricusazione la mancanza di lesione dell’onore e della reputazione del giudice Rita Romano ed ha sollevato la scriminante del diritto di critica e la convinzione della colpevolezza del giudice da parte dell’imputato di calunnia. La difesa, preliminarmente, ha evidenziato motivi di improcedibilità per decadenza e prescrizione. Questioni Pregiudiziali non accolte. L’accusa ha ravvisato la continuazione del reato, pur essendo sempre un unico ed identico atto: sia di ricusazione, sia di denuncia di vecchia data ad esso allegata.

Il giudice Rita Romano, costituita parte civile, chiede all’imputato decine di migliaia di euro di danno. Imputato già di per sé relegato all’indigenza per impedimento allo svolgimento della professione.

Staremo a vedere se vale la forza della legge o la legge del più forte, al quale non si possono muovere critiche. Che Potenza arrivi a quella condanna, dove Taranto dopo tanti tentativi non è riuscita?

Dicono su Avetrana accusata di omertà: “Chi sa parli!” Se poi da avetranese parli o scrivi, ti processano.

La “presunta” onestà degli italiani, scrive il 2 agosto 2015 don Giorgio De Capitani. In questi ultimi tempi, anche a causa delle polemiche inerenti ai profughi che, dietro ordini delle Prefetture, vengono smistati e messi in alcuni locali dismessi dei Comuni, è uscita di colpo la “presunta” onestà dei cittadini italiani. Anche sul mio sito, ho letto frasi simili: da 50 anni pago le tasse, ho lavorato e sudato onestamente, ed ecco che arriva questa gente, per non dire “gentaglia”, che mi fa sentire cittadino di serie B o Z, quasi umiliato nei miei diritti, eccetera, eccetera. C’è un giornale online locale, Merateonline, dove, ogni giorno, magari con la soddisfazione del suo Direttore, appaiono lettere e lettere di cittadini frustrati dalla presenza di questi “loschi” individui, che non pagano le tasse, non lavorano, anzi li disturbano, non li fanno più vivere in santa pace. Se volete toccare di persona il polso della solidarietà o umanità della gente brianzola, ecco, ne potete avere una certa idea. Sì, una certa idea, perché in realtà i brianzoli sono ancor più egoisti, al di là della loro “innocenza” battesimale o del loro utile pragmatismo pastorale, con la benedizione dei parroci consenzienti. Ma… chi è onesto al cento per cento? Credo nessuno, nemmeno il papa. Chi non ha fatto fare qualche lavoretto in nero? Chi ha fatturato ogni lavoro eseguito? Chi ha sempre pagato l’iva? Chi ha dichiarato l’esatta metratura dei propri locali, per evitare di pagare più tasse sulla spazzatura? Chi lavora per raccomandazione o ha vinto un concorso truccato, chi è un falso invalido o un baby pensionato, ecc. Chi è senza peccato scagli la prima pietra! Naturalmente, quando non paghiamo qualche tassa, ci giustifichiamo in nome della nostra “onestà” presunta, oppure del fatto che gli altri non pagano: “Io non sono un coglione”!  E così via…E poi, soprattutto nel campo ecclesiastico, c’è sempre una ragione “valida” per non pagare tutte le tasse: faccio il bene, mi do da fare per gli altri, sono qui tutto il giorno al servizio della comunità anche civile, e poi dovrei pagare anche le tasse? Il bene mi fa sentire in diritto di esserne esente! Ma questo è un altro discorso, anche complesso. Ma ciò che non sopporto è la “presunta” onestà degli italiani, a giustificazione del proprio egoismo di cittadini che, per il fatto di vantare la propria onestà in base a criteri del tutto personali (ognuno si è fatto il proprio Codice e la propria Costituzione), rifiutano coloro che essi ritengono “diversi”, “estranei”, “illegali”, addirittura “pericolosi”, che mettono a rischio la “presunta” onestà di cittadini italiani.

Chi scaglia la prima pietra? L’editoriale di Sebastiano Cultrera del 06.02.2016. Le incalzanti notizie di cronaca giudiziaria provocano reazioni variegate tra i cittadini della nostra isola. Sgomento, sorpresa, sdegno, compassione o incredulità si alternano nei discorsi tra i cittadini. Ma emerge, troppo spesso, una ipocrisia di fondo che è la stessa che attraversa, troppo spesso, la nostra società procidana. “La devono pagare cara!” ho sentito dire da qualche anima bella “Anche per rispetto ai procidani onesti”. E questa storia dell’ONESTA’ è una specie di ritornello al quale, anche in politica, qualcuno si appella, e di solito lo fa chi è a corto di argomenti: naturalmente declinando il concetto di “onestà” a propria convenienza e piacimento. Io sono convinto, e ho cercato di sostenerlo anche recentemente, che il popolo procidano è un popolo profondamente onesto. Forse il nostro peggior difetto è il menefreghismo, unito ad un individualismo esasperato (i procidani sono “sciuontere”, usa dirsi). Ma rispetto ad altre realtà, anche contigue alla nostra, non possiamo certo lamentarci: non prosperano qui bande criminali, né (per fortuna) si registrano un numero di crimini particolarmente allarmante. Sostanzialmente il popolo procidano (che ha una grande storia imprenditoriale, densa di integrazione culturale e di commerci internazionali) è un popolo sano, produttivo e lavoratore, con un bagaglio etico del lavoro e della famiglia di tipo tradizionale. Tuttavia l’Onestà Aà Aà (quella degli slogan) è un’altra cosa, e proprio quegli esacerbati che la proclamano ai quattro venti (o semplicemente nelle chiacchiere da bar o da aliscafo) dovrebbero, prima, almeno, farsi delle domande. Il quadro che, in effetti, emerge dalle notizie che i media ci restituiscono, rispetto alle inchieste in corso, è un quadro complesso, che lascia intendere una vastissima rete di complicità, con l’abitudine a piccoli e grandi privilegi individuali o di “categoria” che erano diventati, nel tempo, dei veri e propri abusi; magari questi episodi non rivestono sempre rilevanza penale, ma, ciò non di meno, sono egualmente molti distanti da qualunque ideale corretto di ONESTA’. E’, poi, meritevole di approfondimento (e a breve mi piacerebbe farlo) la differenza tra i concetti di ONESTA’, di ETICA e di MORALE, recentemente abusati e usati talvolta a sproposito. Faccio solo notare che essi necessitano, per concretarsi, di un quadro di VALORI condiviso, che invece non esiste più o non è sufficientemente condiviso. Giacché ciascuno si fa una morale a proprio uso e consumo e si finisce per riferirsi, volentieri, alla sola dis-ONESTA’ degli ALTRI, in un eterno gioco di specchi asimmetrico: che, come Lui ha insegnato, ci fa concentrare, colpevolmente, esclusivamente sulle pagliuzze altrui. I sepolcri imbiancati di oggi è facile riconoscerli: sono quelli che, in certi frangenti, si sbattono più di tutti, quelli che vagano stracciandosi le vesti predicando ONESTA’ a sproposito, come se fosse una confezione di dentifricio atta a pulire bocca e denti. E nulla dicono su di loro stessi e sui loro amici, sui costumi diffusi di una comunità che non si riscatta additando le colpe di altri, neanche di uno o più capri espiatori. Invece il largo stuolo di professionisti, impiegati, commercianti e cittadini che beneficiavano (o beneficiano?) di quel “sistema” o comunque si integravano in quel quadro è imponente (e non risparmia neanche molti soggetti dispensatori di slogan o in vario modo in contiguità col moralismo di maniera); essi non sono esattamente dei criminali, almeno fino a prova contraria (e nessuno lo è, quindi, fino a sentenza definitiva). Ma certo dobbiamo dire con ONESTA’ INTELLETTUALE (ahia, l’ho detto anche io!) che tra multe cancellate, impunità varie, spiate e dossier, professionalità tecniche asservite a “papocchi” amministrativi, emerge un quadro sconfortante. Se poi apriamo il focus e vediamo anche il popolo delle casse marittime facili, dei piccoli e grandi abusi e delle piccole e grandi evasioni, possiamo allora essere certi di avere toccato quasi ogni famiglia isolana. Poiché l’averla “fatta franca” non significa essere moralmente meno colpevoli, ciò NON AUTORIZZA a scagliare la PRIMA PIETRA per ferire (a colpi di ONESTA’) chi sciaguratamente è stato scoperto. Spesso, infatti, è proprio la cattiva coscienza che porta a voler concentrarsi su uno o più responsabili (presunti) del decadimento morale, anche al fine di mondare catarticamente le proprie responsabilità e quindi la coscienza stessa. Invece la strada per la “salvezza” (cioè verso una nuova consapevolezza) passa attraverso una presa di coscienza collettiva delle VIRTU’, ma anche dei VIZI di una comunità: al fine di migliorarla.

La follia di fare dell'onestà un manifesto politico. Io non so se Casaleggio, parlandone da vivo, fosse o no il re degli onesti. So che il suo partito, dove governa, non riesce a risolvere neppure mezzo problema in più di qualsiasi altro, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 15/04/2016, su "Il Giornale". «Onestà, onestà», hanno intonato dirigenti e simpatizzanti grillini sul sagrato della chiesa di Santa Maria delle Grazie all'uscita della bara di Gianroberto Casaleggio. Come ultimo saluto, una preghiera laica in linea con il dogma pentastellato che al di fuori del loro club tutto è marcio e indegno. Gli unici onesti del Paese sarebbero loro, come vent'anni fa si spacciavano per tali i magistrati del pool di Mani pulite, come tre anni fa sosteneva di esserlo il candidato del Pd Marino contrapposto a Roma ai presunti ladri di destra. Come tanti altri. Io non faccio esami di onestà a nessuno, me ne guardo bene, ma per lavoro seguo la cronaca e ho preso atto di un principio ineluttabile: chi di onestà colpisce, prima o poi i conti deve farli con la sua, di onestà. Lo sa bene Di Pietro, naufragato sui pasticci immobiliari del suo partito; ne ha pagato le conseguenze Marino con i suoi scontrini taroccati; lo stesso Grillo, a distanza di anni, non ha ancora smentito le notizie sui tanti soldi in nero che incassava quando faceva il comico di professione. Cari Di Maio e compagnia, smettetela con questa scemenza del partito degli onesti che fa la morale a tutti, cosa che fra l'altro porta pure male. L'onestà non è un programma politico, è una precondizione personale per affrontare la vita in un certo modo. Io voglio comportarmi onestamente, e mi piacerebbe facessero altrettanto il mio fruttivendolo, chi mi vende l'automobile, chi si occupa della mia salute, il politico che voto. Ma da loro pretendo solo una cosa: che la frutta sia buona e sana, che l'auto funzioni come mi aspettavo, che se necessario il mio medico mi salvi la vita, che la politica sia efficiente nel risolvere i miei problemi. L'onestà che viene a mancare è un problema della loro coscienza, e giudiziario se comporta la violazione delle leggi e se danneggia la comunità. Io non so se Casaleggio, parlandone da vivo, fosse o no il re degli onesti. So che il suo partito, dove governa, non riesce a risolvere neppure mezzo problema in più di qualsiasi altro. Anzi, a volte, vedi casi Livorno e Quarto, fanno disastri ben peggiori. Cosi come in Parlamento la strategia grillina ha prodotto tanto fumo e zero arrosto. Sarò all'antica, ma in chiesa, ai cori sull'esclusiva dell'onestà («chi è senza peccato scagli la prima pietra», diceva il Padrone di casa) preferisco ancora una preghiera. 

IL GIUSTIZIALISMO GIACOBINO E LA PRESCRIZIONE.

Appello contro i Giustizialisti Giacobini (e invito alla sollevazione contro il Klan delle tre G). Come si sa, i Giustizialisti Giacobini dormono, la notte, adagiati fra le teste mozzate dei nemici uccisi. Di essi hanno bevuto il sangue. Delle loro carni si sono saziati. Non c’è nulla di più detestabile di un Giustizialista Giacobino. In lui infatti convergono, tautologicamente, due orribili vizi: l’essere giustizialista, e l’essere giacobino. E’, come si sa, una combinazione devastante ed esiziale. Da essa proviene ogni male della terra. Si pensa che anche Eva, quella di Adamo, fosse malata di questa malattia. Non parliamo di Giuda. Si nutrono cauti sospetti anche su Robespierre. Data la gravità dei loro crimini, siamo tutti in grado di riconoscere i Giustizialisti Giacobini, tutti conosciamo le loro malefatte. Appare dunque superfluo definirli. Si sa quello che sono. Nomina sunt consequentia rerum. Dunque parliamo di fatti e bando alle ciance:

1) Il Giustizialista Giacobino è colui che non evoca la giustizia come risoluzione di alcuni problemi giudiziari, ma vorrebbe perversamente che essa li risolvesse tutti. Tutti ovviamente vogliamo la giustizia e tutti, socraticamente, sappiamo che la “giustizia è giusta”. Quello che è ingiusto ovviamente è l’uso giacobino e giustizialista della giustizia. Tale uso si caratterizza per la pretesa, assolutamente ignobile, di processare coloro che sono indiziati, e di condannare coloro che sono risultati colpevoli dagli atti processuali, quando quei reati ci riguardano e riguardano i nostri interessi. I Giudici Giustizialisti e Giacobini (l’orribile Klan delle Tre G) se ne fregano della micro o macro criminalità quotidiana e di strada. Come se un criminale abituale e seriale, ad esempio il ladruncolo di strada extra comunitario, fosse ladro tanto quanto (forse meno!) di finanzieri e politici corrotti e corruttori, di falsificatori di bilanci e dispensatori di mazzette, di evasori fiscali. Come se il gioielliere che spara al ladro che l’ha privato di tutti i suoi averi, fosse colpevole come il ladro stesso!

2) Si dirà che tale idea della differenziazione della giustizia ha un che di antiquato, di classista, distingue ricchi da poveri, privilegiati e non, potenti e miserabili. Ma questa, ovviamente, è la tipica obiezione del Giustizialista Giacobino. Questa ignobile creatura sa infatti molto bene, ma finge di non sapere, che se la giustizia è sempre giusta non sempre lo sono i giudici. Essi si dividono in Giudici Giustizialisti Giacobini e Giudici Non Giustizialisti e Non Giacobini. I primi condannano per scopi politici, per rancori personali, per invidia sociale. I secondi sono animati da giustizia, saggezza e santità. Per riconoscere una sentenza come Giustizialista basta individuare chi è stato colpito da essa. Se è qualcuno che ha sparato a zero sul Giustizialismo Giacobino, potete stare certi che la sentenza sarà il prodotto del medesimo. E’ un circolo da cui non si sfugge.  Ne consegue che, chi denuncia il Giustizialismo Giacobino, verrà preferibilmente condannato dai Giudici Giustizialisti. La denuncia del Giustizialismo causa la vendetta dei Giustizialisti. Qualcuno forse obietterà che spesso i giudici vengono definiti Giustizialisti Giacobini a sentenza di condanna avvenuta. Ma a questo è facile rispondere che, fino ad allora, l’imputato ingiustamente condannato non si era reso conto di quando il suo giudice fosse Giustizialista e Giacobino. Certo i cittadini sono troppo onesti e hanno un troppo elevato senso della giustizia per concepire che un giudice possa essere così perverso. E quando lo scoprono sulla loro pelle, perché vengono condannati, sentono il dovere morale di denunciarlo.

3) Altra cosa del Giustizialismo Giacobino è invocare una giustizia rapida, inflessibile, con inasprimento delle pene e accelerazione dell’iter processuale, incarcerazione preventiva prolungata e cancellazione delle attenuanti e dell’habeas corpus per i reati commessi dai nemici giurati della comunità civica e dunque della giustizia giusta. Neri, maghrebini, rumeni ed albanesi, frange estremiste e disperate, vagabondi che insozzano le nostre strade, devastatori e disturbatori dell’ordine pubblico di qualsiasi etnia, debbono patire la giustizia giusta, severa e spietata, e questo ovviamente non è Giustizialismo. Il Giustizialismo Giacobino è infatti l’uso politico, ingiusto ed abusivo della giustizia. In questo caso si tratta invece di eque pene (anche troppo morbide, diciamola tutta) che dimostrano che lo Stato ha forte e coerente il senso della giustizia giusta.

Riassumiamo dunque. La giustizia è sempre giusta, ma i giudici possono essere giusti ed ingiusti. I giudici ingiusti sono i Giustizialisti Giacobini, che condannano animati da sete di vendetta politica. Il cittadino che denuncia un giudice come Giustizialista Giacobino lo fa perché capisce, presto o tardi e sulla sua pelle, che tale giudice lo odia e vuole condannarlo. Su di lui piove crudele la vendetta dei Giustizialisti. Pertanto, alla fine della sua giornata, il Giudice Giustizialista può aver condannato anche moltissimi innocenti. E’ dunque opportuno costituire un Partito degli Innocenti (P.d.I.) che ribatta colpo su colpo all’offensiva dei Giudici Giustizialisti e Giacobini. Il Klan delle tre Gdeve essere colpito e affondato. Trattiamo finalmente da esuli i latitanti e da innocenti i colpevoli. Distinguiamo fra colpevoli-colpevoli, innocenti-innocenti, innocenti-colpevoli e colpevoli-innocenti. Rendiamo un utile servizio all’umanità e al nostro paese. Diciamo basta al Giustizialismo Giacobino e ai giudici che perversamente lo praticano! Viva la libertà! Viva la giustizia giusta! Abbasso la giustizia ingiusta! Prescrizione per tutti!

Glossario (nel caso ci fosse ancora qualcuno che non sappia del Klan delle Tre G)

Giudici: Strane creature, in genere provenienti dai reparti neuropsichiatrici, la cui sindrome si manifesta attraverso la pretesa di giudicare altri esseri umani, in genere mentalmente molto più stabili di loro, mediante uno strano sistema di norme, astratte e sconclusionate, chiamate leggi. Si tratta di un comportamento evidentemente insolito, assurdo, e chiaramente inficiato da delirio paranoico e di onnipotenza. Si guardassero a casa loro e nel loro orto, invece di cercare la trave del vicino nel primo cammello che capita a tiro (forse non è così, non mi ricordo bene...). Questo non vuol dire che alcuni di questi strani individui non si comportino egregiamente e tendano ad assolvere le persone che noi vogliamo che assolvano (compresi noi stessi). Ma gli altri sono inguaribili strafottenti, che esercitano la giustizia come se brandissero una clava.

Giustizialismo: Il temine in sé è neutrale e vorrebbe indicare, immaginiamo, l’esercizio della giustizia tramite la condanna dei colpevoli. In realtà il termine tende ad evidenziare il comportamento della maggior parte dei giudici, che condannano tutti quelli che ritengono colpevoli e non solo quelli che noi onesti cittadini vorremmo che fossero giudicati tali. Il Giustizialismo è quindi definibile come l’attitudine ad esercitare la giustizia in modo abusivo. Questo ovviamente comporta il problema di chi possa giudicare i giudici riguardo a tali abusi. La risposta è quanto mai ovvia e scontata: coloro che si oppongono al giustizialismo!

Giacobini: Esseri dalle apparenti sembianze umane (o che assumono ingannevoli sembianze umane), ma probabilmente provenienti da altri pianeti e comunque non dalle comunità occidentali progredite del nostro pianeta. Coloro i quali affermano che i giacobini nascano in Occidente, e affondino le loro radici culturali nella tradizione occidentale, sono probabilmente giacobini essi stessi. I giacobini sono esseri talmente crudeli che spesso si divorano tra di loro. Sono dotati di una doppia fila di zanne e secernono liquidi urticanti dai pori delle loro pelle squamosa. Quando sorridono, si vede che non lo sanno fare. Né si divertono mai, perché passano il loro tempo a tramare contro l’umanità. Si riuniscono in luoghi oscuri e fangosi dove praticano l’accoppiamento fra coppie non sposate (e spesso dello stesso sesso) e il sacrificio umano (bambini soprattutto). Quando si travestono da uomini e popolano le nostre città, vivono spesso anche nei quartieri alti. In tal caso si riuniscono in salotti bene e firmano petizioni allo scopo di epurare l’umanità dai suoi elementi migliori. Tendono naturalmente a diventare giudici (per natura e per attitudine, data la loro devastata biologia e la loro perversione innata) o a influenzare i giudici, probabilmente per mezzo di facoltà telepatiche e di controllo della mente.

“I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo e nel presentare il loro programma di governo si affrettano a sottolineare che tra i primi punti ci sarebbe l’abolizione della prescrizione. Prescrizione che, tra l’altro, è stata allungata nei tempi dal Governo Renzi. Anziché voler lavorare per una giustizia vera e per garantire tempi certi nei processi ai cittadini, così come sancito dalla nostra Costituzione, i grillini optano per procedimenti giudiziari infiniti che paralizzerebbero la vita delle persone, anche di quelle innocenti. Se malauguratamente diventassero forza di governo ci sarebbe davvero di che preoccuparsi”. Così Gabriella Giammanco, parlamentare di Forza Italia. 18 ottobre 2015.

Quali saranno i primi punti di un governo a 5 Stelle? “La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l’onesta, mettere mano alla giustizia, eliminare la prescrizione, mettere persone oneste nelle amministrazioni”. Lo sostiene Gianroberto Casaleggio, che ha risposto così ai giornalisti che, a Italia 5 Stelle, gli chiedevano i primi punti del programma.  Il primo criterio sarà “la fedina penale”, i sospettabili non sarà possibile sceglierli. La piattaforma è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi, il problema sarà fare una sintesi. “Fra i primi punti del programma dell’ipotetico governo del Movimento 5 stelle c’è l’abolizione della prescrizione, il che vuol dire la possibilità di tenere sotto processo un innocente per tutta la vita. I grillini si dimostrano sempre più funzionali alla retorica giustizialista che tanti danni ha provocato in questi anni, non avendo mai nascosto del resto la loro avversione verso il Parlamento e le Istituzioni rappresentative”. Lo afferma Deborah Bergamini, responsabile Comunicazione di Forza Italia.  18 ottobre 2015

LA PRESCRIZIONE. Dissertazione di Giovanni Ciri, sabato 18 maggio 2013. "Detesto il fanatismo, la faziosità e le mode pseudo culturali. Amo la ragionevolezza, il buon senso e la vera profondità di pensiero". La Prescizione. E' l'istituto più odiato dai giustizialisti, sto parlando della prescrizione del reato. Vorrebbero tempi di prescrizione lunghissimi, praticamente infiniti. Non conta quando hai commesso un reato, dicono, conta se lo hai commesso, e se lo hai commesso devi essere punito, punto e basta. E non va loro giù che la prescrizione intervenga dopo che il processo ha avuto inizio. Citano addirittura gli Stati Uniti d'America, dove i termini di prescrizione si interrompono appena è stata emessa la sentenza di rinvio a giudizio. Si, è proprio così, negli Usa la prescrizione si interrompe dal momento in cui il sospettato è rinviato a giudizio, ma, quali sono i termini di prescrizione negli Stati uniti d'America? Un delitto che comporta la pena dell'ergastolo è sempre perseguibile. Ogni altro delitto grave (rapine, furti, stupri, sequestri di persona) è perseguibile entro CINQUE ANNI. I delitti meno gravi sono perseguibili entro DUE ANNI, quelli minimi entro UN ANNO. Esclusi i delitti gravissimi, sempre perseguibili, negli Usa ogni crimine deve essere perseguito entro termini temporali abbastanza ristretti. Nel momento in cui inizia il processo però i termini di prescrizione si interrompono, e si evitano in questo modo eventuali manovre dilatorie. Questo non fa sì che l'imputato debba passare lunghi periodi nella “zona di nessuno” in cui necessariamente vive chi è sottoposto a procedimento penale. Negli Usa infatti i processi sono piuttosto rapidi. Le udienze sono quotidiane, i giurati vivono praticamente da reclusi, impossibilitati addirittura a leggere i giornali o a guardare la TV, questo perché chi è chiamato a giudicare della vita di un essere umano deve formarsi la propria convinzione in base a ciò che emerge dal dibattimento, non dai talk show televisivi o dai predicozzi di giornalisti alla Travaglio. La differenza con quanto avviene in Italia è lampante. Un giudice popolare italiano ascolta oggi un teste, fra due mesi un altro, fra sei mesi la requisitoria del PM e fra otto l'arringa del difensore. Se tutto va bene fra un anno entrerà in camera di consiglio (fanno eccezione i processi a carico di Berlusconi che sono di solito rapidissimi). E' difficile pensare che in questo modo il giudice popolare italiano possa maturare una convinzione ponderata sulla base di quanto emerge dal dibattimento. Si aggiunga che negli Usa il pubblico accusatore non è, come in Italia, un collega del giudice, che la difesa contribuisce alla selezione della corte giudicante, che i giurati devono decidere alla unanimità e ci si renderà conto che in quel paese il processo penale, anche se esclude i tre gradi di giudizio automatici, è molto più garantista che nel nostro. E' interessante mettere in evidenza una cosa: se nel nostro paese fosse in vigore la normativa americana molti procedimenti a carico di Berlusconi non avrebbero neppure potuto iniziare. Come hanno agito infatti i magistrati col cavaliere? Non appena è entrato in politica hanno iniziato inchieste riguardanti vecchie storie sulle quali sino a quel momento nessuno aveva indagato o, se indagini c'erano state le loro risultanze giacevano da tempo sotto montagne di pratiche inevase. Nel processo All Iberian il cavaliere è stato rinviato a giudizio nel 1996 per finanziamento illecito ai partiti, reato che è avvenuto (se è avvenuto) fra il 1991 ed il 1992, e di certo non è un reato grave (negli Usa non è neppure previsto come reato). La prima inchiesta a carico di Berlusconi, quella per le famose tangenti alla guardia di finanza, riguarda diverse tangenti, corrisposte a diversi soggetti, la prima della quali risalente al 1989, l'ultima al 1994. Il rinvio a giudizio è del 1995, quanto meno le prime tangenti non avrebbero quindi dovuto rientrare nel procedimento che, come si sa, si concluse con la piena assoluzione dell'imputato. Una indagine a carico di Berlusconi per traffico di droga si è conclusa nel 1991 con una archiviazione, i fatti risalgono al 1983. Non voglio continuare perché non sono e non mi interessa essere uno specialista in Belusconismo giudiziario (ho preso i dati dalla rete). Mi va solo di sottolineare che i termini americani di perseguibilità avrebbero reso assai più difficile il lavoro di magistrati assolutamente imparziali e privi di pregiudizi come Antonio Di Pietro o Ilda Boccassini. Ma, a parte ogni tecnicismo, quale è la filosofia che sta dietro l'istituto della prescrizione, che i forcaioli di ogni tipo odiano? La risposta è semplicissima, la si può riassumere in una sola parola: garantismo. Garantismo che vale a tre livelli. In primo luogo, una persona non può essere indagata a vita. Se sei indagato vivi in una situazione di estrema provvisorietà. Se cerchi lavoro tutto diventa più difficile se è in corso un procedimento giudiziario a tuo carico, se il lavoro lo hai già le prospettive di carriera si complicano terribilmente. Chi è indagato ha diritto che in tempi ragionevolmente brevi il suo caso si chiuda. Ha diritto a questo anche chi è stato offeso dall'eventuale azione criminosa dell'indagato. Insomma, una giustizia rapida è nell'interesse di tutti, meno che dei criminali e dei calunniatori di professione. In secondo luogo, a meno che non si tratti di reati gravissimi, nessuno può essere chiamato a rispondere di cose avvenute molto tempo prima, con tutte le difficoltà di ricordare eventi, nomi, situazioni. Infine, ed è la cosa più importante di tutte, i termini di perseguibilità tendono ad impedire che qualche solerte magistrato possa perseguitare un cittadino andando a spulciare nella sua vita passata in cerca di qualche reato. Questa in particolare è la filosofia che sta dietro alla normativa americana. Tizio può essere indagato solo se esiste una specifica ipotesi di reato a suo carico e se c'è il ragionevole sospetto che possa essere implicato in quel reato. I magistrati insomma devono indagare su reati accertati, non andare alla ricerca di reati, meno che mai lo devono fare concentrandosi su una persona, ancora meno andando a spulciare tutta la sua esistenza per appurare se per caso ci sia in essa qualcosa di poco regolare. L'istituto della prescrizione è inoltre collegato teoricamente con il principio della presunzione di innocenza. Non è vero che la assoluzione per prescrizione equivale ad una condanna. I termini di prescrizione fissano dei limiti alla azione del magistrato: questi deve riuscire a far condannare il sospettato da lui ritenuto colpevole entro quei limiti, se non ci riesce il sospettato è innocente perché nei paesi civili la innocenza è presunta. Da quanto si è detto emerge che non è affatto un caso che i giustizialisti forcaioli di tutte le risme abbiano profondamente in odio la prescrizione. Il loro ideale è una società in cui tutti si sia indagati, tutti si viva sempre sotto sorveglianza. Un “magistrato” come Ingroia è arrivato addirittura a proporre, in campagna elettorale, la inversione dell'onere della prova nei processi per reati finanziari: se Tizio è sospettato di evasione gli si confischino i beni, ha detto, poi lui avrà sei mesi di tempo per dimostrare la sua innocenza... magnifico! A Tizio sono concessi sei mesi per provare la sua innocenza, ma dieci anni per prescrivere un reato sono pochi, per il dottor Ingroia! E ora questo signore è di nuovo magistrato, non invidio valdostani. La cosa grave è che simili idee forcaiole sono molto diffuse nel paese. Molta, troppa gente è convinta che il garantismo sia quasi un lusso, che tutto sia lecito pur di mettere dentro un presunto corrotto. Non si capisce che ogni arbitrio è possibile se vengono meno le fondamentali garanzie a tutela della libertà dei singoli, ogni arbitrio ed anche ogni corruzione.

Se La Repubblica vuole ancora più processi, scrive Giovanni Torelli su “L’Intraprendente” il 15 febbraio 2016. No, alla sinistra non basta la quantità abnorme di processi penali che si celebrano ogni anno in Italia e di quelli ancora pendenti (sono circa 3 milioni e mezzo). Ne vuole ancora di più, perché desidera un sacco alimentare sia la macchina della Burocrazia che quella del Giustizialismo. E così, in un dossier pubblicato lo scorso sabato, la Repubblica lamenta il fatto che, per colpa della prescrizione troppo breve voluta dalla legge ex Cirielli del 2005, nel nostro Paese vengano cancellati ogni anno circa 130mila reati. E che quindi altrettanti presunti colpevoli restino inevitabilmente impuniti…Insomma, alla macchina già ingolfata della giustizia italiana (la cui inefficacia non è certo colpa della prescrizione troppo breve, semmai della lentezza di certi magistrati) la Repubblica vorrebbe aggiungere un ulteriore carico, appoggiando l’ipotesi di riforma voluta dal ministro della Giustizia Orlando, che intende allungare di tre anni per tutti i processi penali i tempi della prescrizione. Il sovraccarico potrebbe essere facilmente calcolabile: “riabilitando” 130mila processi annui è verosimile che in un decennio i processi ancora pendenti in Italia diventino circa 5 milioni. Che dire, un’ideona…E vabbè, uno dirà, non è giusto che 80mila fascicoli non arrivino neppure in sede di dibattimento ma vengano bloccati dalla scure della prescrizione già in fase di indagini preliminari; ed è ingiusto che la giustizia non faccia il suo pieno corso, “costringendo” oltre 23mila processi a fermarsi in primo grado per raggiunti limiti di tempo e altri 24mila a bloccarsi in Appello per la stessa ragione. La giustizia piena vuole che siano affrontati tutti i tre gradi di giudizio, dicono loro. È una forma di garanzia verso l’imputato ma anche di sicurezza che il colpevole ottenga la giusta pena, dicono loro. Il punto vero però è che molte di quelle indagini preliminari muoiono ancor prima di addivenire a giudizio perché vengono aperte in ritardo rispetto al reato, sono fondate su prove inconsistenti, non hanno riscontri concreti e tergiversano fino a concludersi in un nulla di fatto: altroché prescrizione, molte di quelle indagini non dovevano neppure essere aperte. Se poi in fase di dibattimento quei processi si arenano fino a interrompersi, la colpa spesso è oltre che dell’oggettiva lentezza della giustizia italiana (che ha scambiato il garantismo con una dilazione immotivata di tutti i passaggi processuali) anche di una mancata operosità di chi dovrebbe invece favorire l’accelerazione di quei processi. Il fardello pendente dei processi mai portati a compimento, per capirci, grava non solo sulle spalle dell’imputato, ma soprattutto sulle coscienze di dipendenti (non sempre efficienti) dello Stato che si chiamano magistrati. E non vorremmo che la riforma della prescrizione voluta da Orlando e difesa da la Repubblica diventi una scusa per prolungare ulteriormente i tempi di lavoro dei giudici. Avranno pure le ferie più corte, adesso, ma hanno anche tre anni in più per trastullarsi con le carte di un processo…

"Troppo potere mediatico ai pm. La giustizia italiana è una follia". Piero Sansonetti, direttore del nuovo quotidiano "il Dubbio", in edicola da martedì: "Le toghe fanno politica, riforma necessaria", scrive Anna Maria Greco, Giovedì 07/04/2016, su "Il Giornale". Si chiama il Dubbio, esce in edicola martedì e per 5 giorni la settimana, ha 16 pagine, full color, una redazione di 13 professionisti: è il nuovo quotidiano diretto da Piero Sansonetti. Che ha come editore la Fondazione del Consiglio nazionale forense.

Insomma, sarà il giornale degli avvocati. Con quale obiettivo?

«La linea politico-editoriale sarà quella dell'avvocatura, che si riassume così: i diritti avanti a tutto. Si propone di spezzare il predominio di un pezzo della magistratura sul mondo dell'informazione italiana e così anche la supremazia del potere giudiziario su quello politico».

E questo nome, Il dubbio?

«Fa riferimento al ragionevole dubbio verso ogni accusato. Ai diritti della difesa, che sono il fondamento dello stato di diritto. Da noi gran parte della stampa è giustizialista, amplifica le accuse, gli avvisi di garanzia, gli arresti e quando poi gran parte dei processi finisce con l'assoluzione, si scrive che è stata negata la giustizia e non c'è un colpevole. Se si sostengono le ragioni della difesa si passa per complici, così spesso vengono considerati gli avvocati di un accusato. Questa etica della colpevolezza va contrastata».

Sarà un nuovo Garantista?

«Sarà un quotidiano apertissimo, in cui parleranno tutti. Non sarà né con il governo né con l'opposizione, né di destra né di sinistra, né con Renzi né con Berlusconi. Aperto al dialogo, su tutto e con tutti».

Però, diciamolo, sarà un giornale contro le toghe.

«No, perché ce ne sono di ottime e noi vogliamo fare un giornalismo senza risse e insulti, beneducato. Contro il giustizialismo, sì. Contro quella parte forcaiola dei magistrati e della stampa, sì. Contro quel potere politico in ginocchio davanti alla magistratura, sì».

Che ne dici dell'uscita critica di Renzi sulle lentezze dei magistrati, dopo il caso Guidi, cui ha replicato l'Anm Basilicata?

«Un'uscita coraggiosa, perché è raro che un politico osi sfidare le toghe. È vero che si comincia con le accuse e non si arriva mai ai processi. Non hanno interesse a celebrarli i magistrati stessi. Altro che accuse agli avvocati sulla prescrizione: nel 70 per cento dei casi interviene in fase di indagini preliminari, quando la difesa non ha certo potuto ritardare l'iter. I guai dipendono dai tempi lunghi della giustizia. Ma quando Renzi l'ha detto, immediatamente l'Anm ha reagito. Perché è una forza politica, polemizza col governo, interviene sulle leggi da fare e come, mette in discussione continuamente l'equilibrio tra i poteri. È impressionante. In questo scambio di battute c'è il riassunto della follia che è oggi la giustizia».

Serve la famosa riforma.

«Non la fa nessuno. Non l'ha fatta Berlusconi, non la fa Renzi. E l'opinione pubblica viene spinta dal sistema dell'informazione sempre dalla parte della pena e della forca. Così, anche i diritti alla privacy scompaiono».

In prima pagina ci sono Panama papers e intercettazioni dello scandalo petrolio.

«E qualcuno si chiede se la fuga di notizie sui conti off-shore sia legale? Nessuno. O se lo siano le intercettazioni della Guidi (che ha fatto benissimo a dimettersi, beninteso) e degli altri? Nessuno. Chi si pone la questione che in Italia ci siano mille volte più intercettazioni che in Gran Bretagna? Il rispetto delle regole, il diritto alla difesa, non interessa nessuno».

Piero Sansonetti lancia "Il Dubbio": "Non è un giornale contro i magistrati ma contro il giustizialismo e per i diritti", scrive Laura Eduati su L'Huffington Post il 07/04/2016. Un giornale garantista e battagliero in difesa dei diritti, senza padroni politici. Piero Sansonetti lancia "Il Dubbio", il quotidiano che ha come editrice unica la Fondazione dell'Avvocatura Italiana del Consiglio Nazionale Forense e che sarà in edicola e online dal 12 aprile. "Saremo la testata di riferimento per coloro che vorranno comprendere le ragioni della difesa e non soltanto quelle dell'accusa, ma non per questo saremo ossessionati dalla perfidia dei magistrati. Tanto è vero che ho invitato all'inaugurazione anche il procuratore Pignatone", spiega un po' scherzosamente l'ex cronista politico dell'Unità, già direttore di Liberazione, di Calabria Ora e del Garantista con la parentesi del settimanale Gli Altri. La squadra dei giornalisti è pronta. Le firme del politico e della cronaca giudiziaria comprendono l'ex notista storico del Messaggero Carlo Fusi, Davide Varì (ex vicedirettore di Calabria Ora) ed Enrico Novi (Indipendente, Liberal). Per il momento non esiste un vicedirettore, il ruolo di caporedattore centrale è affidato ad Angela Azzaro che dai tempi di Liberazione fa parte dei cronisti di fiducia di Sansonetti. Sono già 45mila gli abbonamenti attivati dagli avvocati in tutta Italia. Dodici le città dove sarà possibile trovare la versione cartacea: Roma, Milano, Torino, Genova, Padova, Venezia, Bologna, Bari, Napoli, Firenze, Pescara, Ancona. Un progetto ambizioso: 16 pagine a colori e un contenuto generalista che troverà nella politica e nella giustizia l'osso da mordere. L'obiettivo, spiega Sansonetti, non è tanto criticare l'operato della magistratura quanto "mettere in discussione la mentalità di un'Italia giustizialista che ritiene l'indagato immediatamente colpevole, trova giusta la pubblicazione delle intercettazioni private di Federica Guidi e scende in piazza per manifestare contro i giudici che hanno assolto i geologi processati per il terremoto dell'Aquila". "Perché agli italiani piacciono i processi di piazza", argomenta, "ma dimenticano che dei 4500 politici indagati per Tangentopoli ne sono stati condannati 800: moltissimi, anzi, troppi. Dobbiamo ricordare però che gli altri 3700 sono innocenti". C'è un altro esempio che Sansonetti ama citare per spiegare il clima contro il quale vorrebbe scrivere e fare cultura: il processo Cucchi. Gli agenti della polizia penitenziaria assolti in Cassazione eppure per anni additati come colpevoli: "Ora sono sotto inchiesta dei carabinieri per pestaggio. E' evidente che qualcuno dovrebbe chiedere scusa ai poliziotti". "La colpa di questa mentalità è più dei giornali che dei pubblici ministeri", osserva Sansonetti. "Il numero delle assoluzioni in realtà è altissimo e sono sicuro che molti magistrati la pensano come noi". A proposito della percezione che in realtà la macchina della giustizia sia lenta e non vi sia la certezza della pena, il direttore del "Dubbio" si trova quasi d'accordo ma con una precisazione statistica che rovescia in parte la credenza popolare: "Spesso si dice che per colpa della prescrizione i colpevoli non sono condannati. La verità è che il 70% delle prescrizioni avviene durante le indagini preliminari perciò non possiamo addossare la colpa della mancanza di giustizia agli avvocati, come se facessero di tutto per allungare i tempi". Da anni la battaglia di Sansonetti si concentra sulle storture dei processi. Non a caso il suo nuovo quotidiano prende il nome dall'articolo del codice penale secondo il quale il giudice deve condannare se ritiene l'imputato colpevole "oltre ogni ragionevole dubbio". Purtroppo, osserva, le condanne arrivano anche quando questo dubbio esiste ed è fondato: "Prendiamo Alberto Stasi. Il fatto che fosse stato assolto due volte doveva scalfire la certezza della sua colpevolezza. E invece si trova in prigione dopo l'ultimo passo alla Cassazione". Perché il pallino è la riforma della giustizia: "Sarei per eliminare l'appello se in primo grado ti assolvono. E naturalmente per la riforma delle carriere e in generale uno sveltimento dei procedimenti giudiziari per evitare di celebrare un processo anche otto anni dopo il fatto". Ma il governo è "timoroso": "Purtroppo nessuno è riuscito a far passare questa riforma e penso che nemmeno Andrea Orlando ce la farà, il potere della magistratura è ancora troppo forte. Matteo Renzi è un garantista timoroso. Ricordiamoci che è probabilmente il primo premier a non godere dell'immunità parlamentare, ciò significa che potrebbero arrestarlo senza passare dal Parlamento". Dopo la politica e la giustizia, "Il Dubbio" avrà una seconda missione: i diritti. "La nostra idea è che i diritti sociali e civili non possono essere influenzati dal mercato". A chi pensa che Sansonetti stia tornando al suo alveo politico originario (il Pci), arriva immediata la precisazione: "Il Dubbio non sarà un quotidiano anti-mercato, così come nemmeno io lo sono. Ma il mercato non può governare la società, a meno che non si vogliano schiacciare i diritti fondamentali e quelli acquisiti negli ultimi decenni in Occidente".

Davigo: corrompiamo la corruzione. Piercamillo Davigo eletto presidente dell'Associazione nazionale magistrati. Riproponiamo l'intervista su “Dirigente" il 9 aprile 2016 fatta con lui, pubblicata sul numero di settembre della rivista Dirigente, sui temi della corruzione, della giustizia e del ruolo della politica e dei cittadini per far cambiare le cose. Piercamillo Davigo, ex pm di Mani Pulite, è stato eletto oggi alla presidenza dell'Associazione nazionale magistrati (ANM). Davigo guiderà una giunta alla quale partecipano tutte le correnti della magistratura e resterà in carica per un anno. 

L’Italia ha tanti mali, ma quello forse più diffuso ed endemico è la corruzione. Esiste una spiegazione?

«Secondo gli indici di percezione della corruzione, l’Italia è collocata nelle peggiori posizioni in Europa. Le ragioni sono da ricercare nel fatto che, dopo quanto era emerso negli anni dal 1992 al 1995 il mondo politico, anziché cercare di contenere la corruzione, ha cercato di contenere le indagini e i processi».

La corruzione tra l’altro è il principale freno a una crescita strutturale e duratura a livello economico e sociale, perché annichilisce il merito, falsa la concorrenza sana e premia i peggiori. Come possiamo combatterla e vincerla?

«Ci sono molti esempi storici, ma anche contemporanei, di paesi che hanno combattuto la corruzione con efficacia: fra gli altri la Gran Bretagna di fine Settecento e in epoca attuale Singapore. I rimedi sono relativamente semplici dal punto di vista tecnico, in Italia probabilmente inattuabili per la resistenza della politica e, temo, delle imprese. È necessaria un’effettiva trasparenza contabile nelle imprese, il che implica un efficace contrasto anche all’evasione fiscale, e la previsione di operazioni sotto copertura in materia di corruzione e turbativa d’asta. Le operazioni sotto copertura sono previste in Italia per settori quali terrorismo, crimine organizzato, traffico di stupefacenti e di armi, pedopornografia e consistono nel fatto che ufficiali di polizia giudiziaria – Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza eccetera – agiscono sotto mentite spoglie. Negli Usa chiamano operazioni come queste test di integrità. Mi è stato detto che è troppo difficile fare indagini sulla corruzione e che loro, dopo le elezioni, mandano agenti sotto copertura a offrire denaro agli eletti: coloro che lo accettano vengono arrestati. A ogni elezione ripuliscono la classe politica».

Qual è il ruolo della politica, potere esecutivo e legislativo?

«La politica dovrebbe preoccuparsi di ricondurre il fenomeno a livelli fisiologici e soprattutto far scattare meccanismi rigorosi di selezione del personale politico e amministrativo, allontanando coloro che non tengono comportamenti trasparenti».

E quale quello del potere giudiziario?

«Il sistema giudiziario è stato l’unica forza che ha tentato di contenere la corruzione, con scarsi esiti, stante la crisi in cui si dibatte per una domanda di giustizia patologica che non ha equivalenti in altri paesi».

E i cittadini e la società quale ruolo hanno e cosa dovrebbero fare?

«Informarsi e indignarsi. Quando la reazione dell’opinione pubblica è forte, la politica adotta comunque provvedimenti. Il cosiddetto Parlamento degli inquisiti, quello in carica fra il 1992 e il 1994, ha abolito l’autorizzazione a procedere a fronte dell’indignazione dell’opinione pubblica».

Noi da anni riceviamo richieste a gran voce dai nostri manager di fare qualcosa per combattere la corruzione. Qual è il ruolo di imprenditori e manager che hanno maggiori responsabilità degli altri lavoratori?

«Rifiutarsi di sottostare a richieste corruttive. Purtroppo per anni molte imprese che hanno rapporti prevalenti con le pubbliche amministrazioni si sono difese dicendo di essere concusse, anziché denunziare le richieste, anche quando le loro dimensioni e la loro influenza le ponevano al riparo da rappresaglie».

Lei pensa che ci siano speranze che si risalga dagli infimi livelli nei quali siamo relegati nella classifica sulla corruzione a livello mondiale?

«Basta volerlo fare».

Cosa c’è nei paesi più virtuosi che permette di relegare la corruzione a livello fisiologico?

«Nel suo bel volume Atlante della corruzione, Alberto Vannucci, docente di Scienza della politica all’Università di Pisa, cita un’interessante ricerca: fino ad alcuni anni fa i diplomatici degli stati accreditati all’Onu godevano di una totale immunità, che si estendeva anche alle violazioni del divieto di sosta. Verificando i verbali restituiti alla Città di New York, si sono classificati i comportamenti dei diplomatici dei vari Stati. La sorpresa è stata che la classifica corrisponde agli indici di percezione della corruzione. I diplomatici dei paesi scandinavi non avevano neppure una violazione a testa. Anche senza sanzioni rispettano la legge. Evidentemente il miglior antidoto è il senso civico».

Tra l’altro, la corruzione è figlia dell’evasione, che serve per fare i soldi in nero per corrompere. Insomma, un cane che si morde la coda?

«La cosa che trovo davvero curiosa è che in Italia a ogni annuncio di lotta all’evasione fiscale segue un condono fiscale o una riduzione delle sanzioni penali. Capisco che non è pensabile processare milioni di evasori, ma il condono è un potente incentivo all’evasione».

Cosa fare per non continuare ad evadere il problema dell’evasione?

«Basterebbe usare gli stessi strumenti affinati nelle misure di prevenzione, soprattutto antimafia, la confisca dei beni di cui un soggetto abbia la disponibilità anche per interposta persona, non compatibili con i redditi dichiarati».

I giudici, nelle loro varie funzioni, sono anche un po’ manager?

«C’è una deriva aziendalista in magistratura che non condivido. Si cerca di fronteggiare la domanda patologica con incrementi di produzione. Peraltro ogni incremento di efficienza determina nuova domanda di giustizia che la riassorbe, però si rischia di abbassare la qualità delle decisioni».

Cosa pensa dei manager, di quelli privati che in un’Italia fatta di tantissime imprese a gestione familiare, scarseggiano?

«Il capitalismo a gestione familiare talvolta privilegia la fedeltà ai soci di maggioranza piuttosto che la fedeltà alla società. Tuttavia ci sono ottimi manager».

E della dirigenza pubblica, della quale fate parte anche voi giudici? La “burocrazia”, nel senso nobile, dovrebbe essere l’ossatura dell’apparato statale, ma noi forse soffriamo di “osteoporosi” a questo livello?

«Lo Stato italiano non ha una élite amministrativa paragonabile all’amministrazione francese o al Civil Service Britannico. Una delle ragioni è che spesso i dirigenti devono il loro posto non solo alla loro capacità, ma anche alla protezione di qualche politico. In magistratura questo fenomeno è meno presente. Naturalmente ci sono anche ottimi manager pubblici».

Non le pare che oggi in Italia troppi non svolgano appieno il loro ruolo tra i canonici poteri, nelle organizzazioni politiche e nei corpi intermedi?

«Certamente la passività rispetto a determinati comportamenti è inquietante. Rivendico alla mia categoria di aver trattato con fermezza i comportamenti devianti. I magistrati corrotti, quando scoperti, vengono arrestati e comunque si crea il vuoto intorno a loro. Altrove questo non sempre accade».

Anche noi cittadini italiani siamo un po’ troppo passivi?

«Certamente. Serve, come dicevo, informazione e indignazione. Invece di solito si scade nel qualunquismo. Quando qualcuno mi dice che rubano tutti, gli chiedo se ruba anche lui. Siccome mi dice di no, gli rispondo “Neanche io. Come vede, non è vero che rubano tutti”. Occorre saper distinguere e prendere le distanze da chi ruba, anche se è della nostra parte politica, soprattutto se è della nostra parte politica».

Come valuta oggi la giustizia in Italia, cosa va migliorato e, se ci sono colpe, quali sono?

«Un carico di lavoro eccessivo che non ha equivalenti in altri paesi. Occorre introdurre serie deterrenze che scoraggino dall’agire o resistere indebitamente in giudizio. Le colpe altrui non le valuto, quella dei magistrati è stata di non contrastare l’idea che si potesse risolvere il problema solo dal lato dell’offerta di giustizia e non anche da quello della domanda. L’eccesso della domanda di giustizia dipende anche dal fatto che in Italia è molto più tutelato chi viola la legge, rispetto a chi subisce le violazioni altrui».

Giustizia e politica: quale deve essere il rapporto? E cosa pensa degli uomini di Giustizia che scendono in politica?

«Dovrebbe esserci rispetto reciproco. A mio giudizio i magistrati non devono dedicarsi alla politica solo quando vanno a votare».

Guardando l’Italia tra dieci anni, come la vede?

«Di tutte le attività umane quella del profeta è la più difficile e costantemente a rischio di smentite».

Cosa farà da grande?

«Il pensionato».

Tra Vangelo e toghe con l’elmetto, il ritorno della “dottrina Davigo”, scrive Mario Ajello su “Il Messaggero” l’11 aprile 2016. Anche Torquemada diceva di ispirarsi al Vangelo. Ora comunque c’è Piercamillo Davigo («Il sì sia sì, il no sia no», c’è scritto sul biglietto da visita del nuovo presidente dell’Anm) e più che alla grande storia il tutto sembra appartenere al vintage. Dopo un quarto di secolo da Mani pulite di cui egli fu proverbialmente il Dottor Sottile nel pool milanese, anche se non sempre sembra amare le sottigliezze, riguardo a Davigo viene da pensare a Lucio Battisti: «Ancora tu, non dovevamo vederci più?». Tra revival e remake, il «non esistono innocenti ma soltanto colpevoli ancora da scovare» - mantra del giudice di Cassazione diventato capo sindacalista - rappresenta il riassunto di un assolutismo etico e di un’eterna religione morale di cui il personaggio è sempre voluto essere il simbolo senza mediazioni o sfumature. «Dopo Tangentopoli», ecco la dottrina Davigo, «i politici non hanno smesso di rubare, hanno soltanto smesso di vergognarsi». Insomma, l’Onestà non può che peggiorare nel Paese dei Disonesti, agli occhi di questa toga super-combat per il quale la guerra non finisce mai e guai a togliersi la mimetica: «È giusto che ci sia tensione tra potere politico e giudiziario». Se gli si dice che è un pessimista, Davigo - che vede la “devianza” in ogni anfratto e in ogni posto di potere - condivide la definizione: «Il pessimista - così ha spiegato - è quello che pensa che peggio non possa andare, mentre l’ottimista è convinto che possa andare peggio». A un tipo così, guai a parlargli di riformismo: «L’unica riforma non inutile della giustizia è che lo Stato smetta di favorire i colpevoli». Le manette dovrebbero tintinnare di più: «Ma purtroppo la politica da più di 20 anni è più impegnata a contenere l’attività degli organi preposti alla repressione piuttosto che a colpire le devianze delle classi dirigenti». Quanto alla presunzione d’innocenza, la pensa così: «I politici che delinquono vanno mandati a casa senza il bisogno di attendere il giudizio definitivo di un giudice». Un Incorruttibile come Robespierre, il Maximilien Piercamillo? Il suo mito è l’America: «Lì sì che sono organizzati. Il processo è basato non sulle esigenze dell’imputato e del difensore, come in Italia, ma su quelle del poliziotto». E lui poliziotto si sente, o meglio un «militare»: «Come i militari, noi giudici usiamo la forza. Ci sentiamo dei guerrieri, non dei sacerdoti». Le due funzioni in lui - «Un giustizialista io? Il giustizialismo non esiste» - in realtà convivono. E questo mix produce letizia francescana nei suoi ricchi ammiratori, come Gad Lerner: «Sono stato a casa sua e mi ha colpito la sua (dignitosissima) modestia: buon segno, in bocca al lupo!». I grillini lo adorano e lui ricambia partecipando alla Notte dell’Onestà (gennaio 2015) e un suo intervento sul blog di Grillo entusiasmò quella platea. Egli non fa differenza tra destra e sinistra: «Le cose peggiori, quelle devastanti, le fanno insieme».

PM a caccia di reati, scrive Massimo Bordin il 12 Aprile 2016 su “Il Foglio”. Se Antonio Di Pietro era il bulldozer, Piercamillo Davigo nel pool Mani pulite era il rifinitore, il giurista, “il dottor sottile”, insieme a Gherardo Colombo. L’irruenza dell’inquisitore molisano esigeva infatti il raddoppio della marcatura. Dunque nelle interviste diciamo così di presentazione del nuovo presidente dell’Anm bisogna calcolare e pesare i termini usati. Sul Corriere della Sera di sabato una frase colpisce. Sulle intercettazioni: “Se i reati spuntassero nei prati come le margherite, il nostro lavoro sarebbe molto più semplice”. La parola chiave è “reati”. Avesse detto “prove” non ci sarebbe nulla da obiettare. Anzi, bella l’immagine del pm che si inoltra nel prato per cogliere facilmente le prove-margherite. Sarebbe bello e i tempi della giustizia ne avrebbero giovamento. Non è comunque così, d’accordo, fermo restando che l’accusatore deve comunque partire da un’ipotesi di reato e poi cercare le prove. L’ipotesi di reato è il prato, le prove sono le margherite. Altrimenti il prato diventa un’altra cosa, un ambiente, una comunità, un’istituzione nella quale il pm scruta alla ricerca di un’ipotesi di reato da formulare. Si chiama in gergo “controllo di legalità”. Si può obiettare che non è un compito da magistrati, se mai da poliziotti, da intelligence, e con le dovute cautele e garanzie se no si rischierebbe uno “stato di polizia” come quello di certi regimi militari. Ma è una obiezione che è meglio non fare al dottore Davigo. Potrebbe dire, come ha fatto due anni fa, che secondo lui chi aveva fatto l’obiettore alla leva non avrebbe dovuto poter accedere alla magistratura.

La toga che vuole l'Italia pura ​non usa l'incenso ma le manette. Da Mani pulite in poi il presidente dell'Anm ha un unico credo: non esistono innocenti, solo colpevoli da incastrare a tutti i costi, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 18/04/2016, su "Il Giornale". Le sue massime, poco importa se vere o verosimili, costituiscono ormai un genere letterario. E sono un metronomo dell'Italia da Mani pulite in poi. Piercamillo Davigo sta tutto in quelle parole, sempre in bilico fra suggestione e provocazione: «In Italia non ci sono troppi detenuti, ma troppe poche carceri». Una grammatica chiara: molti arresti, pene alte, zero pietà. Più detenuti e meno gente in giro. Il magistrato lombardo è in prima linea da una vita e non ha mai cambiato il suo metro di giudizio. Così tutti gli appiopparono una frase che in realtà fu pronunciata per la prima volta da Giuliano Ferrara: «Rivolteremo l'Italia come un calzino». Battuta disconosciuta e però perfettamente calzante sul Davigo-pensiero. Sempre un metro avanti, sempre paradossale, sempre urticante e spiazzante. Era così ai tempi del Pool, quando gli fu attribuito un altro adagio - in compartecipazione con Marco Travaglio, come ha annotato sulla Stampa Mattia Feltri - «non ci sono innocenti, ma colpevoli ancora da scoprire». Oggi, vent'anni e passa dopo, non è più pm ma giudice, non è più a Milano ma a Roma, non sta più in tribunale ma in Cassazione. E però tutti questi sono dettagli, la sostanza è immutata. Quando c'è da polemizzare lui non si tira indietro, sempre sicuro di sé, con la sua visione dell'universo in bianco e nero. Senza tante sfumature. Così se Renzi accusa i pm di Potenza perché non arrivano a sentenza, toccando uno dei tanti nervi scoperti dell'azione giudiziaria, lui replica tranchant: «È colpa della prescrizione». Una spiegazione che fa felici girotondini, grillini e giustizialisti doc, ma che convince solo a metà. «La verità - spiega al Giornale un collega di Davigo - è che le cause di questa lentezza sono molteplici, ma un aspetto non può essere trascurato, anche se non se ne parla mai: ci sono pm che vogliono fare le inchieste, ma non i processi. In aula, a dibattimento, mandano magari un collega che non sa nulla di quello che è successo in precedenza e che deve ricominciare da capo». Davigo non coltiva questo dubbio o non lo manifesta. È troppo innamorato di se stesso e impegnato a difendere il ruolo, anzi la missione che la legge gli ha affidato. A maggior ragione adesso che è diventato il potente presidente dell'Associazione nazionale magistrati, il temuto sindacato delle toghe tricolori. Dal palco della sua notorietà, il magistrato cita come esempio di inchiesta addirittura eroica quella su Abu Omar e i servizi segreti che a suo tempo aveva provocato scintille fra poteri e fra l'Italia e gli Usa. No, lui va dritto per la sua strada e tributa la standing ovation ad Armando Spataro, altro peso massimo della magistratura italiana, oggi procuratore a Torino. Allo stesso modo taglia con un colpo solo nodi aggrovigliati da un quarto di secolo. Interviene a gamba tesa sulle intercettazioni, oggetto di una querelle interminabile, più lunga di Beautiful. «È sufficiente - è la presa di posizione, disarmante, del neopresidente dell'Anm - la legge sulla diffamazione. Il resto è superfluo». Dove, oltre allo snobismo di chi neanche prende in considerazione le questioni sollevate da più parti, quel che conta è il non detto, per lui sottinteso: quando si captano con cimici e microspie le conversazioni altrui non serve fare gli schizzinosi. L'intercettazione è come il maiale: non si butta via niente. Quando l'ormai ex ministra Federica Guidi dice al fidanzato: «Mi hai trattato come una sguattera del Guatemala», e quelle parole così private e intime finiscono in pasto sulla tavola di milioni di italiani, quella per lui non è una violazione possibile della privacy, ma la spia di una relazione che interessa molto al magistrato, perché potrebbe illuminare il reato su cui s'indaga, in quel caso il traffico di influenze, lo sciagurato illecito introdotto qualche anno fa nel nostro codice. Conclusione: quelle parole possono essere divulgate senza problemi perché aiutano a dipanare la rete criminale. Certo, i politici s'inalberano e parlano un giorno sì e l'altro pure di invasione di campo. Lui li lascia strepitare e di fatto replica riproponendo sempre lo stesso concetto: i giudici applicano le norme che i partiti hanno scritto. Se quelle leggi non vanno bene, basta riscriverle. Dove il non detto questa volta è lo scalino, alto, che separa i giudici dal Palazzo. I magistrati, nella concezione aristocratica del Pool, hanno il compito di purificare la società. Manca l'incenso, ma ci sono le manette. E c'è la corazza foderata con l'acciaio dell'autostima di chi si ritiene parte di un'élite che non deve chiedere permessi o lasciapassare a nessuno. Da questo punto di vista se Di Pietro era un super poliziotto, Davigo è il magistrato più magistrato che sia mai passato nella cittadella di Porta Vittoria. Attenzione: tirare in ballo le toghe rosse o quelle azzurre sarebbe fuorviante. La sacralità della toga non ha nulla a che fare con le categorie della destra o della sinistra; no, la toga, secondo questo schema, sta da un'altra parte, più in alto. E non deve contaminarsi con queste dinamiche. Per la cronaca Davigo non è mai stato di sinistra; di sinistra nel Pool era Gherardo Colombo che poi ha lasciato la magistratura, è entrato nel cda della Rai ed è arrivato fino quasi a candidarsi a Milano come sindaco per la sinistra radicale. Davigo semmai era ed è di destra, ma la sua destra non si trova nella geografia del Palazzo. I suoi riferimenti sono lontani nel tempo: Cavour, il barone Ricasoli, la scrivania di Quintino Sella. È la destra storica, zero chiacchiere e tanto rigore. Mito più che realtà. E però per lui che è nato a Candia Lomellina, Lombardia piatta come un'ostia che un tempo era agganciata al Piemonte sabaudo, lo Stato dev'essere puro e smacchiato come un vestito, inflessibile con chi lo svilisce. L'unica ambizione di chi ne fa parte, dal magistrato al burocrate fino al funzionario, è quella di indossare la giubba del re, insomma dimostrare zelo e fedeltà. Fino a farne un programma di vita e il titolo di un saggio sulla corruzione. Se Di Pietro attaccava i Craxi e i Forlani con la bava alla bocca, il pane di Davigo, nella stagione gloriosa del Pool, erano i finanzieri che si erano venduti. È lui a contestare per la prima volta l'associazione a delinquere ai militari colti con le mani nel sacco e a perquisire il Comando generale in viale XXI Aprile a Roma. Una profanazione. Secondo lui un atto necessario per un Corpo che dovrebbe essere immacolato. Torniamo sempre lì: estirpare il male, al fonte battesimale delle procure. E colpire le amnesie e le titubanze dei governi, Berlusconi o Renzi non fa differenza. Così Davigo bolla il nuovo presidente del Consiglio: definisce l'esecutivo «poco dialogante», liquida con una punta di fastidio l'uscita sulle troppe ferie dei magistrati. E, conversando con Repubblica, invoca gli agenti sotto copertura ammirati negli Usa dove ha scoperto i test di integrità: poliziotti coperti che offrono denaro ai politici: «Chi lo accettava veniva arrestato». Un modello che lui porterebbe subito in Italia.

Adesso che Davigo è capo dell’Anm posso smettere di comprare Topolino. Tangentopoli come Paperopoli e Topolinia: un classico Disney, scrive Guido Vitiello il 16 Aprile 2016 su “Il Foglio”. Rassegniamoci stoicamente a chiamarla Tangentopoli perché, come si dice, il destino guida chi lo asseconda ma trascina a forza i riluttanti. Per anni ho aggirato quella detestabile formula giornalistica, ricorrendo a tutte le perifrasi e le circonlocuzioni del caso, ma è arrivato il momento di capitolare. Quanto più il 1992 si allontana nel tempo, tanto più cresce il vizio di leggere i problemi della giustizia e della corruzione alla luce non già dei grandi classici del pensiero politico ma dei Grandi Classici Disney. Tangentopoli si è aggiunta ormai alle due capitali di quel regno di fantasia, Paperopoli e Topolinia, dove s’incontrano personaggi come il commissario Basettoni, l’ispettore Manetta, la Banda Bassotti e l’avvocato Cavillo Busillis. Niente di nuovo, si potrà obiettare, ci sono disneyani di lungo corso – Travaglio con i suoi monologhi teatrali tanto amati dalle scolaresche, l’ex magistrato Bruno Tinti che invocava tempo fa un “partito delle guardie” nel paese dei ladri – ma lo spirito dei fumetti vive in questi giorni la sua grande rivincita. E’ stata una settimana campale per il fanciullino che alberga in me. Mercoledì ho preso in edicola il nuovo numero di Topolino. Venerdì, su Repubblica, ho letto un editoriale di Stefano Rodotà che si apriva recuperando l’“Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti” – una fantasia un po’ bolsa da maestro elementare dove Italo Calvino, nel 1980, descriveva una società retta dal malaffare al cui margine resiste una “controsocietà degli onesti” – e si chiudeva biasimando chi se la prende con la magistratura e i moralisti, “quasi che insistere sull’etica pubblica fosse un attacco alla politica e non la via per la sua rigenerazione”. L’ipotesi che qualcuno possa aver da ridire sull’azione dei magistrati in nome di quella stessa etica pubblica non arrivava a turbare la semplicità gioconda dello schema di Rodotà – e dire che perfino nell’apologo di Calvino, a leggerlo bene, c’erano spunti per un ragionamento meno paperopolitano. Passa appena un giorno, e il 9 aprile Piercamillo Davigo diventa presidente dell’Anm. Ora, devo confessare che Davigo ha da sempre, ai miei occhi, il fascino degli eroi dell’infanzia. Sarà per quel suo bel faccione da bebé, tra Elmer Fudd e Ciccio di Nonna Papera; sarà perché l’anno scorso ha aderito alla Disneyland politica della “Notte dell’Onestà” grillina; sarà perché il suo epiteto di Dottor Sottile, fatte salve le competenze giuridiche, riesco a spiegarmelo solo in una logica da fumetto, la stessa per cui, poniamo, un camionista di tre quintali è soprannominato lo Smilzo. La visione del mondo di Davigo, ribadita in mille apparizioni televisive, non mi pare proprio un esempio di sottigliezza: è quella del magistrato come buon padre di famiglia che dà uno scappellotto al figlio che ha rubato la marmellata. Più o meno la stessa filosofia di una canzone che ascoltavo da bambino, Johnny Bassotto (“Che poliziotto Johnny Bassotto, con le manette arresta la tua fantasia; ti fa svegliare e confessare tutto quel che hai combinato, tu da solo o in compagnia”; e ha anche “un pappagallo che gli fa da radiospia”). Davigo d’altronde è uomo di spirito, e un paio d’anni fa, nella prefazione a un libro di Enzo Beretta, “Favole alla sbarra. Processo ai buoni e ai cattivi dei cartoni animati”, si chiedeva: “Che ne sarà di soggetti come il Gatto e la Volpe? E la condotta del Grillo parlante è lineare? In Biancaneve i sette nani sono simpatici, ma bisognerà pure porsi delle domande sulla liceità della costruzione della loro casetta nel bosco”. Ora che Davigo è presidente dell’Anm, il dibattito sulla giustizia riguadagnerà la magia dei fumetti. Già gli ho sentito dire che lo scontro tra magistratura e politica finirà quando i politici smetteranno di rubare, che in fondo un’intercettazione è come una chiacchierata in un bar, che solo chi ha la coscienza sporca scappa alla vista della polizia, che chi non ha nulla da nascondere non teme di essere intercettato, che “male non fare paura non avere”. E siamo solo al 13 aprile. Potrò smettere di comprare Topolino.

Di nuovo il dott. Stranamore (ovvero Pier Camillo Davigo). Ciao Direttore, qui nell’aldilà dove possiamo passare il tempo a contemplare, abbiamo un punto di vista su quello che accade nel mondo terreno un po’ diverso dal vostro ed io che ancora vi voglio bene, amo darvi qualche spunto perché sempre di più temo che la vostra libertà di pensiero e non solo, venga offuscata dalle necessità. Orbene, non ditemi che vi è sfuggita la nomina di Pier Camillo Davigo alla Presidenza della Associazione Nazionale Magistrati, ANM. Se non è così, sbagliate a non replicare con forza pensando che il problema riguardi solo Renzi. Renzi non sta simpatico nemmeno a me, non foss’altro che ha candidato Sindaco quel pesce freddo lesso di Beppe Sala per il vostro Comune, ma non è questo il punto. Davigo è stato messo su quella poltrona in ragione di tre fatti che hanno rilievo per la prosecuzione della vostra democrazia.

E’ stato eletto, direttamente o indirettamente poco importa, dagli stessi che hanno voluto il colpo di stato noto alle cronache giornalistiche come “mani pulite”.

E’ stato eletto per dare successo definitivo a quel processo eversivo che ha come obiettivo l’elezione della magistratura a potere statuale principale e sovraordinato agli altri, perché sovrasti e controlli con strumenti dittatoriali il paese, per favorire interessi stranieri.

E’ stato eletto perché possiate continuare a non capire di cosa parlavano Falcone e Borsellino quando si riferivano al terzo livello.

Non lo penso solo io che sono qui da secoli, ma come me ne parlano Sandro, Enrico, Giovanni, Ugo, Bettino, Giulio, Renato, Francesco, Carol e tanti altri (mi correggo, sono tanti ma non sono altri) che lì da voi hanno avuto un ruolo e che conoscono i fatti che riguardano l’Italia moderna e contemporanea. Il vostro Davigo, novello Stranamore, vorrebbe annullare la prescrizione dei reati dopo l’inizio dei dibattimenti nei procedimenti penali. Significa che, mi conferma qui un noto penalista papà di un pessimo Sindaco, che chiunque potrebbe rimanere anche 20 o 30 anni sotto processo ed in galera senza avere una sentenza ed a prescindere da qualunque valutazione di merito sull’operato degli inquirenti e dei giudicanti.  Nemmeno ai tempi del Nazareno, quello nato a Betlemme, o a quelli di Socrate, entrambi giudicati colpevoli dalla magistratura del tempo, vigevano simili regole processuali.

Sempre Stranamore ritiene che:

se i processi durano troppo è colpa degli avvocati;

se le intercettazioni prive di rilevanza penale vengono pubblicate è colpa dei giornalisti;

se ci sono troppe inchieste che finiscono nel nulla è perché si commettono troppi reati;

Ieri sera, a questo proposito, ha litigato per davvero, ma educatamente, con paolino mieli che a lungo negli anni ’90 sostenne lui e chi gli stava dietro. Forse invecchiando anche paolino ha capito la cazzata che ha fatto. Lui è più intelligente e capisce prima. Ma voi, quando vi svegliate? Concludo perche è arrivato Ernest e vado a fami un drink: vi sono rimaste solo alcune aziende competitive e poco altro sul piano economico. Ma avete ancora un popolo che merita di conoscere la verità sulla propria storia prima di decidere del proprio destino. Stranamore è tornato per impedirlo. Provvedete da soli o deve ridiscendere il diluvio? Con affetto, Tommaso Campanella (Milano Post 13 aprile 2016)

Piercamillo Davigo: “Renzi attacca i pm? Ma è la politica che non fa pulizia”. Toghe e potere, il neopresidente dell'Anm replica al presidente del consiglio che ha parlato di "barbarie giustizialista". "Giustizialismo? Una vecchia storia, noi facciamo indagini e processi". L'inchiesta di Potenza e l'accusa di "non arrivare mai a sentenza". "Che discorso è? Se intende lamentare un eccesso di prescrizione, può modificare le norme", scrive Marco Travaglio il 20 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Piercamillo Davigo, dopo l’inchiesta di Potenza Renzi parla di “25 anni di barbarie giustizialista”, mentre Napolitano denuncia un “riacutizzarsi” del conflitto politica-giustizia e invoca la riforma delle intercettazioni.

«Non commento le dichiarazioni del presidente del Consiglio. Ma è una vecchia storia, questa del "giustizialismo" e del "conflitto". Non c’è nessuna guerra. Noi facciamo indagini e processi. Se poi le persone coinvolte in base a prove e indizi che dovrebbero indurre la politica e le istituzioni a rimuoverle in base a un giudizio non penale, ma morale o di opportunità, vengono lasciate o ricandidate o rinominate, è inevitabile che i processi abbiano effetti politici. Se la politica usasse per le sue autonome valutazioni gli elementi che noi usiamo per i giudizi penali e ne traesse le dovute conseguenze, processeremmo degli ex. Senza conseguenze politiche».

Il conflitto fra politica e magistratura è fisiologico?

«Le frizioni fra poteri dello Stato sono la naturale conseguenza della loro separatezza e indipendenza. Chi vuole che tutti i poteri vadano d’amore e d’accordo dovrebbe proporre il ritorno alla monarchia assoluta, dove il sovrano deteneva tutti i poteri senz’alcun conflitto: il re era sempre d’accordo con se stesso. È questo che vogliono? Io, se non ci fosse tensione fra politica e giustizia, mi preoccuperei».

Napolitano e Renzi reclamano una legge che vi imponga di espungere dagli atti le intercettazioni penalmente irrilevanti o riguardanti i non indagati, così i giornali non potranno più pubblicarle.

«Non ne vedo la necessità. Bastano e avanzano le norme sulla diffamazione e sulla privacy, che puniscono chi mette in piazza fatti davvero privati e privi di interesse pubblico: si possono sempre aumentare le pene, specie per la violazione della privacy, ma poi si va a sbattere contro la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che sconsiglia lo strumento penale contro la libertà di stampa. E, soprattutto, ha già affermato che, quando un giornalista pubblica notizie anche penalmente irrilevanti, ma moralmente importanti, su personaggi pubblici, non può essere punito».

Ma la legge dice che dovete essere voi magistrati a cancellare dagli atti le conversazioni extra-penali.

«A parte il fatto che una conversazione può essere irrilevante ai fini del reato per cui si procede e non di un altro per cui è comunque lecito procedere. Ma poi, chi decide cosa mettere o togliere? Il pm? Il gip? E i diritti della difesa chi li tutela? Mi meraviglia che questi discorsi vengano da chi sbandiera garantismo un giorno sì e l’altro pure: ma lo sanno o no che ciò che è irrilevante per il pm o per il giudice può essere rilevantissimo per il difensore? Esempio: Tizio intercettato racconta una sua serata con un trans. Tutti diranno: orrore, privacy, bruciare tutto! Già, e se poi quella serata col trans serve a uno dei due interlocutori come alibi per provare che la sera di un delitto erano altrove? Siccome l’alibi è stato distrutto, l’innocente rischia la condanna. Bel garantismo».

A Potenza si procede anche per traffico d’influenze illecite, reato istituito nel 2012 con la Severino per punire chi usa amicizie o vicinanze con un pubblico ufficiale per farsi dare soldi o altre utilità da chi vuole favori leciti o illeciti da quest’ultimo.

«E mica l’hanno scritta i giudici, quella legge. Era per ottemperare alla Convenzione Ue anticorruzione, ratificata dall’Italia nel 1999 e mai attuata, anche se forse bastava ritoccare le norme sul millantato credito. Non entro nei processi in corso. Ma è ovvio che, per processare Tizio per la sua influenza su Caio, e Caio, si debba verificare quali rapporti aveva con Caio».

Dicono: le raccomandazioni son vecchie come il mondo.

«E io rispondo: le raccomandazioni sono reato in tutta Europa, tant’è che la Convenzione Ue ratificata da tutti gli Stati, buon’ultima l’Italia, prevede il traffico d’influenze».

Violante dice che le cronache politiche sembrano ormai mattinali di questura.

«Perché processiamo gente abbarbicata alla poltrona, che nessuno si sogna di mandare a casa malgrado condotte gravissime. Aspettano la Cassazione: Renzi ricorda la presunzione d’innocenza, per lui conta solo la sentenza definitiva. Ma la presunzione d’innocenza è un fatto interno al processo, non c’entra nulla coi rapporti sociali e politici. Ha presente il professore universitario che faceva sesso con le allieve, e sempre prima degli esami (e mai dopo, il che esclude che fossero innamorate di lui)? L’hanno assolto e il preside s’è detto ansioso di riaverlo in cattedra. Come se un fatto penalmente irrilevante non fosse deontologicamente disdicevole. Ecco, i politici ragionano così».

Che dovrebbero fare?

«Smetterla di delegare ai magistrati la selezione delle classi dirigenti, e poi di lamentarsi pure. Dicono: aspettiamo le sentenze. Poi, se arriva la condanna, strillano. Se il mio vicino di casa è rinviato a giudizio per pedofilia, io mia figlia di sei anni non gliel’affido quando vado a far la spesa. Poi, se verrà scagionato, si vedrà. La giustizia è una virtù cardinale: ma anche la prudenza! Tutti, al posto mio, si comporterebbero così. Perché ciò che vale nella vita quotidiana non vale nel mondo politico-imprenditoriale?»

Appena è esplosa l’inchiesta di Potenza, Renzi ha accusato la Procura di non arrivare mai a sentenza.

«Ma che discorso è? Tutte le inchieste arrivano a sentenza. Che può essere di condanna, di assoluzione o di non doversi procedere per prescrizione. Se intende lamentare un eccesso di prescrizione, può modificarne le norme».

Il governo dice di averlo fatto almeno per la corruzione.

«In realtà ha aumentato un po’ le pene, dunque ha un pochino allungato la prescrizione. Ma il problema è rimasto pressoché inalterato: abbiamo una prescrizione relativamente lunga prima che il reato venga scoperto, e scandalosamente breve dal momento in cui iniziano le indagini. Per i reati puniti fino a 6 anni, compresi molti contro la PA, è di 6 anni, prorogabile al massimo fino a 7 anni e mezzo (dal giorno in cui il reato è stato commesso, s’intende): se il delitto viene scoperto dopo 6 anni, restano 18 mesi per indagini, udienza preliminare e tre gradi di giudizio. Le pare serio? Il nostro sistema, dopo il dimezzamento dei termini causato dalla ex-Cirielli, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte di giustizia europea per le frodi comunitarie, con l’invito ai giudici italiani a disapplicarlo. Così abbiamo un doppio binario: i reati contro l’Ue non si prescrivono mai, tutti gli altri quasi sempre. Basta una norma di una riga che sospenda la prescrizione col rinvio a giudizio, o almeno con la prima sentenza: perché non la fanno?»

Renzi dice che dovete lavorare di più.

«Mettere in relazione la durata dei processi con l’accusa ai giudici di essere dei fannulloni è un’offesa e una bugia. Segnalo i dati della Commissione del Consiglio d’Europa sull’efficienza della giustizia: i giudici italiani, su 47 Stati membri, sono quelli che lavorano di più. Il doppio dei francesi e il quadruplo dei tedeschi. Se i processi durano troppo è perché se ne fanno troppi e con troppi gradi e fasi di giudizio. Invece di lanciare accuse infondate, i politici facciano qualcosa per scoraggiare il contenzioso e i ricorsi, così calerebbe il numero dei processi. E siano più severi con chi viola la legge e più attenti ai diritti delle vittime, così calerebbero i reati».

Napolitano vi chiede di “collaborare” con la politica.

«Se collaborare vuol dire fornire un apporto tecnico, come fa per statuto il Csm, alle leggi in discussione sulla giustizia, l’abbiamo sempre fatto. Poi però noi magistrati facciamo un mestiere diverso: se prendiamo un politico che ruba, dobbiamo processarlo. Non collaborare».

Come valuta la deregulation renziana sui reati fiscali? Dal tetto alzato a 3 mila euro per i pagamenti in contanti alle soglie più alte di non punibilità per l’evasione?

«Parlamento e governo sono liberi di fare le leggi che vogliono. Anche di depenalizzare i reati tributari, se l’Europa glielo permette. Ma non possono dire che così combattono l’evasione fiscale».

L’inchiesta di Potenza fa molto discutere anche perché, secondo alcuni, si rischia di processare la tal legge, il tal emendamento, violando l’insindacabilità dei parlamentari.

«Del caso concreto non parlo. Ma, in linea di principio, la Costituzione tutela il parlamentare nell’esercizio delle funzioni quando vota, non quando prende mazzette o riceve favori per votare. In uno Stato di diritto, nessuno è al di sopra della legge».

Renzi s’è scandalizzato perché è stato intercettato il capo di Stato maggiore della Marina, “mettendo a rischio la sicurezza nazionale”.

«Quand’ero militare, mi insegnarono che è vietato trattare argomenti classificati al telefono. Ergo, chi intercetta un militare non può mai violare alcun segreto: semmai, accertare una violazione del segreto da parte di chi dovrebbe custodirlo».

Nota differenze fra questo governo e quelli precedenti nel rapporto con la magistratura e la legalità?

«Qualche differenza di linguaggio, ma niente di più: nella sostanza, una certa allergia al controllo di legalità accomuna un po’ tutti. Paolo Mieli mi ha detto che ho sempre litigato con tutti i governi. Gli ho risposto che è un segno di imparzialità. Sa, io ho subìto molti processi penali e non mi sono mai messo a strillare: mi sono difeso nel processo. E sono sempre stato archiviato. Non perché fossi un magistrato: perché ero innocente. Capisco che chi finisce imputato non gradisca, ma chi ricopre cariche pubbliche non deve mai usarle per tutelare i suoi interessi personali o per invocare trattamenti privilegiati».

Giuliano Ferrara spera che lei sia un presidente Anm così forte e rappresentativo da firmare la pace con la politica. Come l’israeliano Begin con l’egiziano Sadat.

«Se vuol dire che tengo unita la magistratura, lo prendo come un complimento. Se qualcuno pensa che io sia qui per svendere la magistratura e la legalità, si sbaglia di grosso. L’Anm deve tutelare l’indipendenza dei magistrati, non asservirli alla politica».

Davigo: "I politici rubano di più. E non si vergognano". Il presidente dell'Anm, Piercamillo Davigo, tuona contro la corruzione, scrive Luca Romano, Venerdì 22/04/2016, su "Il Giornale". I politici "non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto. Dicono cose tipo: "Con i nostri soldi facciamo quello che ci pare". Ma non sono soldi loro; sono dei contribuenti". Lo afferma al Corriere della Sera, Piercamillo Davigo, presidente dell'Anm, spiegando che "prendere i corrotti è difficilissimo. Nessuno li denuncia, perché tutti hanno interesse al silenzio: per questo sarei favorevole alla non punibilità del primo che parla. Il punto non è aumentare le pene; è scoprire i reati. Anche con operazioni sotto copertura". Alla domanda se quindi si ruba più di prima, Davigo spiega: "Si ruba in modo meno organizzato. Tutto è lasciato all'iniziativa individuale o a gruppi temporanei. La corruzione è un reato seriale e diffusivo: chi lo commette, tende a ripeterlo, e a coinvolgere altri. Questo dà vita a un mercato illegale, che tende ad autoregolamentarsi: se il corruttore non paga, nessuno si fiderà più di lui. Ma se l'autoregolamentazione non funziona più, allora interviene un soggetto esterno a regolare il mercato: la criminalità organizzata". Dopo Mani Pulite, prosegue Davigo, "hanno vinto i corrotti, abbiamo migliorato la specie predata: abbiamo preso le zebre lente, le altre sono diventate più veloci". A fermare quel pool "cominciò Berlusconi, con il decreto Biondi; ma nell'alternanza tra i due schieramenti, l'unica differenza fu che la destra le fece così grosse e così male che non hanno funzionato; la sinistra le fece in modo mirato. Non dico che ci abbiano messi in ginocchio; ma un pò genuflessi sì". Il governo Renzi? "Fa le stesse cose - dice Davigo -. Aumenta le soglie di rilevanza penale. Aumenta la circolazione dei contanti, con la scusa risibile che i pensionati non hanno dimestichezza con le carte di credito". Sulla responsabilità civile dei magistrati, il presidente dell'Anm parla di norme ridicole: "L'unica conseguenza è che ora pago 30 euro l'anno in più per la mia polizza: questo la dice lunga sulla ridicolaggine delle norme. Tutti abbiamo un'assicurazione. Non siamo preoccupati per la responsabilità civile, ma per la mancanza di un filtro. Se contro un magistrato viene intentata una causa, anche manifestamente infondata, gli verrà la tentazione di difendersi; ma così non farà più il processo, e potrà essere ricusato. È il modo sbagliato per affrontare un problema serio: perché anche i magistrati sbagliano". Sul rapporto tra toghe e Palazzo, Davigo osserva: "I magistrati avendo guarentigie non sono abituati al criterio di rappresentanza: per questo sovente sono pessimi politici". Poi nel pomeriggio, intervenendo a Pisa, Davigo ha rincarato la dose: "Dire che i magistrati devono parlare solo con le loro sentenze equivale a dire che devono stare zitti. Le avete mai lette le sentenze? - ha ironizzato Davigo parlando del presunto protagonismo dei magistrati - è come quando sui giornali di provincia qualche volta c’è il pescatore che ha pescato un luccio enorme. Io dico: è il pescatore affetto da protagonismo o è il luccio che è enorme?". E ancora: "La classe dirigente di questo Paese quando delinque fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente da strada e fa danni più gravi". E alle parole di Davigo ha risposto il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini: "Le dichiarazioni del presidente Davigo rischiano di alimentare un conflitto di cui la magistratura e il Paese non hanno alcun bisogno tanto più nella difficile fase che viviamo nella quale si sta tentando di ottenere, con il dialogo ed il confronto a volte anche critico riforme, personale e mezzi per vincere la battaglia di una giustizia efficiente e rigorosa, a partire dalla lotta alla corruzione e al malaffare". E sullo scontro tra Davigo e il governo sono arrivate diverse reazioni dalla politica. "Conosco e stimo il presidente Anm. Lo incontrerei volentieri e lo incontrerò. Mi piacerebbe che da parte sua ci fossero considerazioni più circonstanziate. Io sono un politico, mi sono candidato la prima volta nel '93 e in 23 anni non ho mai rubato una lira né sono mai stato processato o indagato per aver rubato una lira". Così il leader della Lega Matteo Salvini, inaugurando la sede romana del partito, risponde a chi gli chiede un commento all'accusa di Pier Camillo Davigo . "Colui che rappresenta i magistrati non può permettersi di dire 'i politici, i tassisti rubano e le maestre picchiano i bambini. Ci sono politici che rubano e maestre che picchiano i bambini, ma altri no. Ci sono tantissimi giudici che fanno il loro lavoro e altri che non fanno una mazza dalla mattina alla sera. Lo incontrerò, potremo fare delle battaglie comuni". Poi nel pomeriggio Davigo ha rincarato la dose intervenendo a Pisa: "Dire che i magistrati devono parlare solo con le loro sentenze equivale a dire che devono stare zitti. Le avete mai lette le sentenze? - ha ironizzato Davigo parlando del presunto protagonismo dei magistrati - è come quando sui giornali di provincia qualche volta c’è il pescatore che ha pescato un luccio enorme. Io dico: è il pescatore affetto da protagonismo o è il luccio che è enorme?". E ancora: "La classe dirigente di questo Paese quando delinque fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente da strada e fa danni più gravi". Le sue parole hanno scatenato le reazioni della politica.

"Quello di Davigo è un maldestro tentativo di alimentare un inedito e violento scontro tra istituzioni. Non mi sembra ci siano altre parole per commentare le prime sortite del fresco leader dell'Anm, prima sul Fatto e oggi sul Corriere della sera. Le sue dichiarazioni sono eufemisticamente poco responsabili e gli effetti potrebbero essere devastanti qualora ci si lasciasse trascinare in quella direzione". Lo ha detto Antonio Leone, componente laico delCsm in quota Ncd. "Additare indiscriminatamente tutti i politici come ladri - ha precisato Leone - può sicuramente innescare reazioni a catena. Ad esempio i politici potrebbero dire 'come mai l'auspicio di Davigo sul fatto che sia la stessa classe politica a cacciare i corrotti prima ancora che venga celebrato un processo, non lo si usa anche per i magistratì? I politici potrebbero ancora chiedersi perché "ci sono magistrati che, pur condannati e che scontano la pena in galera, continuano a percepire lo stipendio a spese degli italianì? Giacobinismo per giacobinismo vale per tutti. Ma tant'è. La struttura democratica di questo Paese - ha concluso Leone - mi sembra più matura di molti rappresentanti, magistrati e non, e ci auguriamo che le parole di Davigo restino il solito e banale metodo per raggiungere il massimo della visibilità. Questo non significa derubricare la gravità di certe affermazioni".

«Non c' è nessuna guerra» tra politica e magistratura, dice Davigo, e l'unico problema è che la politica e le istituzioni non rimuovono il personale da rimuovere. Cioè chi, i condannati? No, s' intendono quelli da rimuovere «in base a un giudizio morale o di opportunità», scrive Filippo Facci per “Libero Quotidiano”. Tutto va bene, madama la travaglia: la politica è sporca e non si ripulisce, la giustizia invece è perfetta e non c'è niente da cambiare. Sul Fatto Quotidiano, ieri, il neo presidente dell'Associazione magistrati Piercamillo Davigo si è profuso in un lungo monologo di due pagine che, tramite la trasformazione in neretto di alcune parti del testo, è stato poi ribattezzato «intervista»; lo stenografo si chiama Marco Travaglio, e, data la collaudata ripetitività delle asserzioni di Davigo negli anni, la cosiddetta intervista avrebbe potuto anche scriverla direttamente lui, Travaglio, utilizzando il noto metodo giornalistico marzulliano «fatti una domanda, datti una risposta e riciclala per vent' anni». In effetti Davigo dice più o meno le stesse cose dai tempi di Mani pulite: storielle, aneddoti, paradossi, freddure, roba da far sorridere una platea alla presentazione di un libro. Ma ora che ha un ruolo politico - capo del sindacato dei magistrati, maggior potere non elettivo del Paese - ogni sua uscita potrebbe diventare una posizione strategica o appunto politica, soprattutto se il presidente del Consiglio ha appena parlato degli stessi temi. È successo ieri. Renzi, in Senato, aveva da poco pronunciato delle doverose ovvietà: che negli ultimi vent'anni questo Paese ha conosciuto «autentiche barbarie giustizialiste», che spesso un avviso di garanzia è bastato per rovinare mediaticamente persone perbene, che per esempio la recente indagine di Potenza ha diffamato un governo prima di qualsiasi sentenza (anche se nessun governativo è indagato) e che le intercettazioni spesso sono diffuse solo per sputtanare: insomma delle banalità, tanto da porre il dubbio sul perché, semmai, certi discorsi non siano stati fatti altre volte. Ecco: la risposta di Davigo, indiretta, converge come può farlo la pallina di una partita di tennis: l'importante è risbatterla nel campo dell'avversario. Il tappeto rosso steso dal Fatto Quotidiano già non faceva grinze: Renzi, nel titolo, era paragonato a Berlusconi, mentre l'editoriale di Travaglio (titolato «negazionismo peloso») lo paragonava a Craxi. Fine della dialettica. Le negazione totale di qualsiasi problema o difetto in seno alla magistratura italiana, da parte di Davigo, lasciava peraltro intendere quanto il personaggio appaia indisponibile a muoversi da una posizione di arcigna schermaglia sindacale, e quanto poco insomma appaia disposto a un cosiddetto confronto fondato perlomeno su una minima presa d' atto della realtà in cui si vive. Macché: «Non c' è nessuna guerra» tra politica e magistratura, dice Davigo, e l'unico problema è che la politica e le istituzioni non rimuovono il personale da rimuovere. Cioè chi, i condannati? No, s' intendono quelli da rimuovere «in base a un giudizio morale o di opportunità». Che spetta a chi? Forse a Davigo e al Fatto Quotidiano? La leggerezza con cui Davigo nega o liquida qualsiasi cosa fa capire che la «sua» magistratura non vuole fare prigionieri, o meglio, vuole fare tutti prigionieri. Il conflitto tra politica e magistratura? «Naturale conseguenza della loro separatezza e indipendenza». Le intercettazioni penalmente irrilevanti? «Bastano e avanzano le norme sulla diffamazione e sulla privacy», come è noto. Ma perché le intercettazioni irrilevanti non le eliminano direttamente i magistrati? Facile: perché possono essere irrilevanti per tizio ma rilevanti per caio. Le raccomandazioni? «Sono reato». La presunzione d' innocenza? Quella è un fatto tecnico, «un fatto interno al processo, non c' entra nulla coi rapporti sociali e politici», cioè: «un fatto penalmente irrilevante può essere deontologicamente disdicevole». E via così, i problemi non esistono: i tempi della giustizia? «Tutte le inchieste arrivano a sentenza», «i giudici italiani sono quelli che lavorano di più», «Parlamento e governo non possono dire che combattono l'evasione fiscale», l'insindacabilità dei parlamentari non viene mai violata, anche questo governo denota «una certa allergia al controllo di legalità». Tutto così: questo il biglietto da visita di un uomo che dovrebbe essere di «trattativa» ma che pare incazzato anche quando dorme.

Qualcuno dirà: “vabbè, Filippo Facci è di destra!”

Ecco come funziona la “barbarie giustizialista”, scrive Fabrizio Rondolino su “L’Unità” il 20 aprile 2016. Un’intervista della premiata ditta Davigo-Travaglio, condita con intercettazioni prive di qualsiasi rilevanza penale: il Fatto dimostra che Renzi ha ragione. Per comprendere bene che cosa sia la “barbarie giustizialista” denunciata con coraggio e lucidità da Matteo Renzi è sufficiente sfogliare il numero odierno del Fatto. Si comincia con un’autointervista di Piercamillo Davigo, neopresidente dell’Anm, firmata dal suo segretario e portavoce Marco Travaglio. La tesi del Piccolo Inquisitore è semplice: tutti i governi, e naturalmente anche quello in carica, hanno “una certa allergia al controllo di legalità”. Il che, in italiano corrente, significa che tutti i governi sono associazioni criminali. Chiarissimo. “Processiamo gente abbarbicata alla poltrona che nessuno si sogna di mandare a casa”, prosegue il Piccolo Inquisitore. Le intercettazioni vanno pubblicate perché rivelano “notizie anche penalmente irrilevanti, ma moralmente importanti”. E infine: “La presunzione d’innocenza è un fatto interno al processo, non c’entra nulla coi rapporti sociali e politici”. Preferiamo non commentare il delirio carcerario del Piccolo Inquisitore perché ne avremmo, inesorabilmente, una denuncia: i magistrati militanti querelano sempre chi li critica e, guarda caso, ottengono sempre la condanna dell’importuno dissidente. La giustizia, si sa, è uguale per tutti: un po’ come il server della Casaleggio Associati srl. Continuiamo invece a sfogliare il Fatto, e a pagina 7 troviamo un esempio perfetto di uso selvaggio delle intercettazioni. L’obiettivo questa volta è il sottosegretario Umberto Del Basso De Caro, di cui si riportano alcune affermazioni sulla propria passione per il gentil sesso, sull’omosessualità di Nichi Vendola e sulla prestanza virile di non si sa bene chi. Le telefonate intercettate, precisa l’addetta alle fognature del Fatto, “non sono penalmente rilevanti” ma meritano la pubblicazione perché “rivelano una certa distanza fra le dichiarazioni pubbliche di Del Basso De Caro e le sue convinzioni reali”. Ancora più incredibile è la modalità con cui queste frasi sono state carpite: il sottosegretario, scrive l’addetta alle fognature, “non è mai stato indagato, ma i Pm lo hanno fatto intercettare per un mese e mezzo per cercare reati di terzi. […] L’inchiesta si è sgonfiata. […] A ottobre 2015 il Pm ha inviato l’avviso di conclusione delle indagini a cinque persone per un reato minore sui servizi sociali del Comune di Benevento”. E Del Basso De Caro che c’entra? Niente, assolutamente niente: “non è mai stato indagato”. Eccola, la barbarie giustizialista: fino a quando consentiremo al Piccolo Inquisitore, al suo segretario e all’addetta alle fognature di minare sistematicamente la civiltà giuridica dell’Occidente liberale, nessuno in Italia potrà più sentirsi sicuro.

L’INTERVISTA RAFFAELE CANTONE. «Non si risolve tutto con le manette. La magistratura ha le sue colpe». Il capo dell’Anac: «Dire che tutto è corruzione significa che niente è corruzione». E sottolinea: «Il mio mandato scade nel 2020. E la mia idea è tornare a fare il magistrato», scrive Aldo Cazzullo il 22 aprile 2016 su "Il Corriere della Sera".

Dottor Cantone, lei è presidente dell’Autorità anticorruzione. Piercamillo Davigo sostiene che in Italia hanno vinto i corrotti. E lei?

«Non è assolutamente vero. Dire che tutto è corruzione significa che niente è corruzione, e il sistema non può essere emendato. Io non accetto questo pessimismo cosmico. Mi ribello a questa visione che esclude qualsiasi ricetta. Il pessimismo fine a se stesso diventa una resa. E questa resa nell’Italia di oggi non c’è».

Quindi non è vero che oggi è peggio di Tangentopoli?

«No, non è vero. È vero che Tangentopoli non sradicò la corruzione, che è continuata come un fiume carsico. Ma ora vedo molte persone che vogliono provare a uscirne. E pensano che la soluzione non sia solo la repressione, che la ricetta non sia solo la stessa del 1993, che all’evidenza ha fallito. Uno non può ripetere le stesse cose a distanza di anni, e dire che è sempre colpa degli altri se le vecchie ricette non hanno funzionato».

Che cosa intende?

«L’idea che tutto si risolva con le manette è stata smentita dai fatti. La repressione da sola non funziona. Colpisce ex post; spesso in modo casuale; sempre quando i danni sono già fatti. La prevenzione ha tempi più lenti. Ma nei Paesi del Nord Europa, dove la corruzione è bassissima, ha funzionato».

Anche Davigo parla di prevenzione, di agenti infiltrati che incastrino i politici. E dice che pure lei, fino a qualche tempo fa, ne parlava.

«E continuo a farlo. Ho parlato di agenti infiltrati un mese fa, a un convegno di magistrati. Capisco che Davigo possa non seguire quello che dico, ma in questo caso non è molto informato. Lo stimo, sono stato tra i primi a fargli gli auguri. Condividiamo l’amore smisurato per la magistratura; ma l’amore porta lui a vedere solo gli aspetti positivi; e porta me a vedere gli aspetti critici».

Quali aspetti critici?

«Molto spesso la magistratura non riesce a dare risposte ai cittadini, perché è sovraccaricata di compiti non suoi. Si pensa che debba occuparsi soprattutto dei grandi temi, e un po’ meno del senso di giustizia individuale. Sul piano dei tempi e della prescrizione la risposta è insufficiente. Non a caso Ilvo Diamanti sostiene che la magistratura negli ultimi anni ha perso oltre il 20% della sua credibilità, passando dal 70% a sotto il 50. Si può sempre dire che la colpa è degli altri? Io mi ribello a questa logica del fortino assediato. La magistratura ha meriti eccezionali; ma sarebbe scorretto non evidenziare che certi meccanismi organizzativi non funzionano».

A cosa si riferisce?

«A tante persone che vengono in contatto con il sistema giustizia – non gli imputati; i testimoni, le parti lese – e non ne darebbero questi giudizi entusiasti. Non è giusto dire: va tutto bene madama la marchesa, e se va male la colpa è altrui. Ci sono testimoni che sono andati dieci volte ai processi e dieci volte sono stati rimandati indietro. Ci sono uffici giudiziari che danno risposte, e altri che non lo fanno. Ripeto: io amo la magistratura. Ma ho un’idea diversa del suo ruolo».

La sua idea qual è?

«In certe battaglie la magistratura è uno dei soggetti. Davigo pensa che sia l’unico a poter risolvere i problemi. Non condivido una visione autoreferenziale e salvifica. La magistratura non deve salvare il mondo; deve accertare i reati penali e decidere i processi civili. In nessun Paese del pianeta ha il monopolio nelle questioni di legalità; altrimenti finisce per esercitare una funzione di supplenza nei confronti della politica».

Se i politici smettessero di rubare darebbero una bella mano, non crede?

«Certo. La politica deve fare molto di più. Ma è ingiusto non riconoscere quanto è stato fatto negli ultimi anni. Dire che non cambia mai nulla è funzionale all’idea di non far cambiare mai nulla. Noi come magistratura abbiamo chiesto nuove norme sul falso in bilancio, sul voto di scambio politico mafioso, sull’autoriciclaggio: e queste riforme sono state fatte. Alcune potevano essere scritte meglio, ma qualche perplessità è stata superata dalle interpretazioni della giurisprudenza. Non riconoscere che qualcosa si può fare è come dire che non c’è più niente da fare, che l’unica strada sono le manette. Ma non è così».

Il sentire diffuso è che il governo stia facendo poco contro la corruzione, e usi lei come foglia di fico.

«Io sto ai fatti, non alle allusioni. Tutte le volte che c’era da criticare il governo non mi sono mai tirato indietro. Il primo a denunciare il rischio dell’innalzamento dei contanti a 3 mila euro sono stato io. Ma per la prima volta c’è in Italia un’Autorità indipendente contro la corruzione cui sono stati dati poteri, secondo una visione nuova che non è affatto alternativa alla magistratura, al contrario di quel che qualcuno tende a pensare. L’Ocse, che bacchetta sempre l’Italia, ha elogiato il nostro lavoro sull’Expo. Il nuovo codice degli appalti ci attribuisce poteri autentici».

Non direi: potete intervenire solo sugli appalti sopra i 5 milioni di euro, escludendo il 95% dei contratti.

«Non è così. Quella soglia riguarda solo le commissioni di gara; i nostri poteri riguardano tutti gli appalti».

Sicuro?

«Ci sono criticità, ma c’è uno sforzo autentico, e se ne vedranno i risultati».

Però continuano gli scandali. E gli arresti.

«Sono fatti molto gravi. Ma se emergono è la prova che il sistema reagisce. Fino a poco fa qualche leader politico sosteneva che la corruzione non esisteva; oggi nessuno la nega. Non dico che la strada sia conclusa, sarei un folle. Ma è sbagliato non prendere atto di quel che è avvenuto, grazie al Parlamento che ha votato andando oltre la maggioranza di governo».

È d’accordo con Renzi che parla di «barbarie giustizialista»?

«Barbarie giustizialista è un’espressione esagerata. C’è stato un periodo in cui non tanto la magistratura, quanto l’interpretazione dei provvedimenti della magistratura ha creato eccessi: bastava essere indagato per venire messo alla gogna».

I paragoni sono sempre impossibili, ma viene in mente che, in un contesto diverso, Falcone quando andò a lavorare per il ministero di Grazia e Giustizia si ritrovò isolato.

«Una parte della magistratura è convinta che collaborare col potere politico ti inquina. Io dico che in questo periodo, e sono disponibile a essere sfidato sul piano della verità, nessun politico di nessuna parte mi ha mai chiesto di fare qualcosa che non potevo fare. Quando facevo il magistrato, qualcuno ci ha provato».

Chi le ha fatto pressioni?

«Nessuna pressione. Semmai, il sentore che qualcuno ci stesse provando: poteva capitare il collega che diceva “ti stai occupando del processo X…”. Nessuno è mai andato oltre. Ma lo posso testimoniare in qualsiasi tribunale, soprattutto nel tribunale della mia coscienza: l’idea che ci sia un mondo tutto pulito, la magistratura, e un mondo tutto sporco, la politica e la burocrazia, è comoda da vendere come fiaba; ma è falsa. La magistratura è fatta al 99 per cento di persone perbene, ma le mele marce ci sono; come ci sono persone perbene in politica. Il retropensiero che ci si debba sporcare con i rapporti istituzionali, malgrado quello che è successo a Falcone, continua a essere usato: con allusioni e attacchi ingiustificati, basati sul nulla. In che cosa noi dell’Autorità abbiamo fatto da ruota di scorta? Se Renzi la evoca di continuo è perché finalmente l’Autorità sta provando a lottare contro la corruzione, non perché ci sia un rapporto incestuoso. Se qualcuno ha le prove di rapporti incestuosi, le tiri fuori; non usi illazioni. Altrimenti finisce come quando Falcone veniva chiamato eroe dagli stessi che lo appellavano come traditore».

A chi si riferisce?

«Ero uditore giudiziario quando partecipai ad assemblee di magistrati che, quando fu fatta la Direzione nazionale antimafia, usavano per Falcone parole tra cui la più buona era traditore. Quegli stessi, 15 giorni dopo, usavano la parola eroe».

Quegli stessi chi?

«Riportare i nomi di chi interveniva in assemblee private non mi pare corretto. E comunque non è una cosa che sto improvvisando: l’ho scritta in un libro del 2007».

In Italia servono più carceri?

«Sì, ma la questione riguarda soprattutto l’ordine pubblico: per i reati di criminalità di strada abbiamo una legislazione e un’applicazione della legislazione eccessivamente elastiche».

Ci sono troppi magistrati in politica?

«Ci sono stati troppi magistrati in politica; e molto spesso non hanno fatto grandi figure. Il nostro lavoro non ti abitua certo alla ricerca del consenso. È sbagliata l’idea che un magistrato non possa fare politica; è sbagliato semmai che dopo aver fatto politica torni a fare il magistrato».

Lei la politica non la farà mai?

«Non ci penso assolutamente. Il mio mandato scade nel 2020. E la mia idea è tornare a fare il magistrato».

"In Italia il partito dei giudici fa e disfa le leggi da decenni". L'ex senatore: «Le continue invasioni di campo non nascono per caso I magistrati si sentono depositari della volontà popolare, un'anomalia», scrive Stefano Zurlo, Sabato 23/04/2016, su "Il Giornale". Prende una sentenza del 2009. E legge il passo decisivo in cui la Cassazione rivendica, testualmente, «la funzione interpretativa del giudice in ordine alla formazione della cosiddetta giurisprudenza-normativa, quale autonoma fonte di diritto». «Ecco - riprende Giuseppe Valditara, ex senatore di Fli e professore ordinario di Diritto romano all'università di Torino - la Suprema corte ci dice che il giudice è una fonte autonoma di diritto. È sconvolgente, capisce? Perché solo in Italia la magistratura arriva a concepirsi come soggetto normativo che affianca e sostituisce il legislatore. Le leggi, per capirci, le fa il Parlamento, ma la Cassazione si mette sullo stesso piano. Succede solo nel nostro Paese, ma la nostra storia è un susseguirsi di anomalie, una più inaccettabile dell'altra. Tutto si tiene». Tutto si spiega. Anche le feroci polemiche di queste ore. Piercamillo Davigo, neopresidente dell'Associazione nazionale magistrati, parla al Corriere della Sera e liquida la nostra classe dirigente: «I politici rubano più di prima, ma adesso non si vergognano». Scintille e ancora scintille sullo sfondo di un conflitto fra poteri che va avanti da troppi anni. Valditara ha appena scritto il libro Giudici e legge che vorrebbe essere una meditazione scientifica e tecnica sulla magistratura tricolore, ma basta sfogliare quelle trecento pagine dense di citazioni per incrociare l'attualità bruciante, le polemiche chi si ripetono sempre uguali, le esternazioni del partito dei giudici e di tutto l'armamentario del giustizialismo italiano.

Professor Valditara, perché parla di anomalie italiane?

«Perché le continue invasioni di campo delle toghe non nascono per caso».

Più d'uno a sinistra ci aveva spiegato che i giudici alzavano la voce per rispondere alle provocazioni e agli sconfinamenti di Berlusconi.

«Ma no. Quella è una battaglia dentro una guerra molto più lunga e complessa. Bisogna tornare indietro agli anni '50».

No, un attimo, partiamo dalla diagnosi: qual è la malattia?

«Gliel'ho detto: i giudici italiani si considerano in qualche modo i depositari della volontà popolare e di fatto scrivono e riscrivono le leggi, le interpretano, le disapplicano, fanno un po' quello che gli pare».

Non le pare di esagerare?

«Ma no. Sono loro a parlare di tutte queste cose. Prendiamo il testo della norma sulla legittima difesa, modificato nel 2006».

D'accordo, ma che c'entra?

«C'entra perché la modifica è stata di fatto annullata dai giudici che, interpretando le parole, spesso finiscono per rimettere il padrone di casa che si ribella ai ladri sul banco degli imputati. L'esatto opposto di quel che voleva il legislatore».

Ma come è possibile?

«Non solo è possibile, questo è solo un episodio dentro una strategia molto più aggressiva».

Addirittura?

«La sentenza che riguarda il rapporto fra la Renault e le concessionarie arriva ad un punto estremo: il giudice è autorizzato a modificare il contratto fra le parti. Non so se ci rendiamo conto della portata di questa considerazione: c'è un contratto e la toga lo modifica in base a sue valutazioni. Altro che equilibrio fra i poteri. Qua il partito dei giudici fa e disfa a suo piacimento. E d'altra parte, la sentenza numero uno della Corte costituzionale, nel 1956...»

Si fermi, non possiamo tornare all'ormai lontano 1956.

«E invece dobbiamo. Perché già quel lontanissimo verdetto dice che le norme della Costituzione non hanno un valore solo programmatico. E dunque in questo modo si scardina un'altra porta e si apre un varco enorme: gli articoli della Carta, che hanno un indirizzo politico, vengono applicati al caso concreto dal giudice che quindi esce dal recinto tecnico e fa politica, saltando la legge ordinaria. Siamo all'interpretazione costituzionalmente orientata».

In concreto?

«Per fare un esempio paradossale il giudice potrebbe arrivare ad annullare un contratto di affitto».

E perché?

«Perché potrebbe giudicare troppo alto il canone in relazione all'articolo 2 della Costituzione e dunque al dovere di solidarietà politica, economica, sociale».

Dunque, con la sentenza del 1956 i giudici cominciano a fare politica?

«Certo. Si avvia quel percorso perverso che arriva fino al verdetto che ricordavo del 2009. Con tutte le conseguenze che conosciamo».

Sia più esplicito.

«Solo in Italia la magistratura è organizzata per correnti che sembrano clonare i meccanismi e le divisioni del Parlamento».

Siamo a Magistratura democratica, alle toghe rosse...

«In proposito c'è un testo esemplare del 1970 di Franco Marrone. Marx ha affermato - nota Marrone - che il diritto non dà niente, ma sanziona solo ciò che esiste. Che cosa esiste attualmente nella nostra società? Esiste il dominio di una classe, quella borghese, sulle altre. Chiaro? Il resto è solo uno sviluppo coerente di quel programma: un'oligarchia al posto della democrazia».

POOL MANI PULITE, MAGISTRATURA DEMOCRATICA E COMUNISMO: ATTRAZIONE FATALE PER FAR FUORI AVVERSARI POLITICI E MAGISTRATI SCOMODI!

L'attrazione fatale del Pool per la sinistra, scrive Stefano Zurlo, Giovedì 10/03/2016, su "Il Giornale". La gente, che correva ad adorarli sotto le finestre del Palazzo di giustizia piacentiniano, gridava «Di Pietro- Davigo-Colombo andate fino in fondo». Missione compiuta: in fondo a sinistra. Fatta a pezzi la Prima repubblica, gli alfieri del Pool hanno preso il posto di quelli che prima ammanettavano. Un'attrazione fatale o, più banalmente, una seconda vita dopo aver esaurito l'adrenalina disponibile per l'esistenza in toga. Chissà. Autorevoli commentatori hanno scritto che questo salto dall'altra parte della barricata autorizza inquietanti letture retrospettive di quell'epopea che, in tre anni, dal 92 al 94, cambiò la storia d'Italia. E lanciò in orbita i post comunisti. Percorsi differenziati, una prospettiva comune, quasi una tendenza irresistibile: l'ultimo ad essere tentato è Gherardo Colombo che peraltro ha già lasciato la magistratura da un pezzo, ha visitato, con le sue lezioni sulla legalità, più scuole di Matteo Renzi, è stato presidente della Garzanti e consigliere d'amministrazione della Rai. Ora potrebbe scendere in campo come bandiera della sinistra-sinistra per il Comune di Milano. Si vedrà. E però il destino sembra compiersi. Cominciò il più scalpitante del gruppo, Antonio Di Pietro: neanche il tempo di togliersi la toga, ammaccata dalle inchieste di Brescia, e via di corsa verso il Parlamento. Fu la destra a corteggiarlo, ma fu poi la sinistra, più strutturata e seducente, a reclutarlo paracadutandolo nel collegio sicuro del Mugello, rosso che più rosso non si può. Il Tonino nazionale, che era arrivato con le sue inchieste fin sulla porta di Botteghe oscure, si ritrovò senatore nel partito di D'Alema e Occhetto che aveva provato, invano, a scandagliare. Cortocircuiti di quell'intreccio perverso fra politica e giustizia. Ministro del governo Prodi, senatore, deputato, ancora ministro, fondatore dell'Italia dei valori. Il curriculum del Di Pietro numero due è chilometrico e pare una smentita su tutta la linea alla predicazione purissima di Piercamillo Davigo, il più intransigente fra gli Intoccabili di Mani pulite, che ripeteva davanti alle continue offerte di poltrone e laticlavi: «Un arbitro non può entrare in campo e giocare la partita». Invece, dopo Di Pietro anche Gerardo D'Ambrosio, il coordinatore del Pool, non seppe resistere alle sirene del Palazzo. E fu eletto senatore, sempre nel Pd. Certo, D'Ambrosio era già in pensione e la brillante carriera da Pm si era conclusa per via anagrafica. Ma anche in questo caso non si può non avvertire un retrogusto di disagio. Lo stesso che scatterebbe se Colombo dovesse buttarsi nella mischia. Una scelta scansata solo da Davigo, ancora oggi in prima linea ma dentro la magistratura, e da Francesco Saverio Borrelli, troppo innamorato della propria posizione per cedere alle lenticchie di una poltrona in Parlamento.

Da «pool» a pollaio, il triste tramonto della Procura. I pm di Mani pulite per la gente erano eroi. Oggi, con la guerra tra il capo e il suo vice, il timore è che le toghe si arrestino tra loro, scrive Vittorio Feltri, Domenica 12/10/2014, su "Il Giornale". I ricordi quando invecchiano si affastellano e confondono. Ma non tutti. Molti di essi rimangono impressi nella memoria, magari non con ogni dettaglio, ma nella sostanza sì. Ci fu un lungo momento, 20 e rotti anni orsono, in cui la Procura di Milano era considerata come una cattedrale, piena di santi e di madonne. La madonna era Antonio Di Pietro. I santi erano Borrelli (il capo carismatico), Davigo, Colombo eccetera. I magistrati, in particolare i rappresentanti della pubblica accusa, furono protagonisti di una svolta assai apprezzata dal popolo, stanco della Balena bianca, dei socialisti (ladri per definizione, allora) e di qualsiasi partito che non fosse tinto di rosso vermiglio. Le toghe avevano buona fama. Chi le indossava con orgoglio e supponenza era guardato con ammirazione, facendo parte attivissima di una sorta di esercito di liberazione. I giudici (pensavano in molti, tra cui io stesso) ci libereranno dai tangentari, dai gaglioffi, dai mariuoli che hanno trasformato la democrazia italiana in una palestra di disonesti, pronti ad arricchirsi alle nostre spalle senza badare all'interesse dei cittadini, sfruttando e mortificando la povera gente oppressa dalle tasse. Un Di Pietro che, infischiandosene della consueta prudenza attribuita agli amministratori della giustizia, procedeva lancia in resta contro i magliari della politica, veniva portato in trionfo. Il suo nome si leggeva sui cavalcavia delle autostrade: «Tonino salvaci tu». Il contadino togato piaceva da matti. In lui identificavamo il vendicatore, colui che avrebbe ripulito anche gli angoli della stalla politica, ormai mefitica, infetta. Le sue prime mosse non erano gradite ai colleghi della Procura, i quali si dichiaravano stupiti e infastiditi dal fatto che costui, da anonimo magistrato, fosse diventato in poche settimane molto popolare, un divo acclamato. Borrelli mi scrisse una lettera all' Indipendente, che allora dirigevo con spirito garibaldino, un po' folle, nella quale raccomandava di non esagerare col giustizialismo. Poi successe una cosa strana ma non troppo. I Pm si resero conto che il dipietrismo era più forte della tradizionale ponderazione cui erano avvezzi i magistrati e mutarono registro. Cavalcarono quasi subito il dipietrismo che in precedenza avevano criticato, consapevoli che esso era foriero di grandi successi e incontrava il consenso delle masse. Se dapprincipio era il solo Di Pietro ad essere applaudito, nel giro di poco tempo il cosiddetto pool di Mani pulite salì in blocco sul palcoscenico, salutato con entusiasmo, e incoraggiato a castigare i mariuoli. I giornali, inizialmente titubanti e restii ad appoggiare la Procura, abbandonarono in fretta ogni timidezza e si prestarono a fare da cassa di risonanza alle inchieste che avevano scoperchiato il malaffare e la corruzione diffusa. Il pentapartito - maggioranza di governo - fu presto sgominato, ogni sua componente ridotta al lumicino. In pratica restarono in piedi soltanto l'ex Pci (cioè il Pds), il Movimento sociale di Gianfranco Fini e la Lega di Umberto Bossi. Ma queste sono cose note, anche se gli italiani più giovani, o meno anziani, le ignorano. Quello che è accaduto nel nostro Paese negli ultimi 20 anni ha dell'incredibile. Poiché la famosa discesa in campo di Silvio Berlusconi, sorprendendo gli addetti ai lavori politici, coincise con la vittoria di Forza Italia, frenando la corsa al potere della sinistra (sconfitta alle elezioni del marzo 1994), l'attenzione del pool milanese si concentrò sul ricco Cavaliere, sospettato di aver brigato - e commesso dei reati - allo scopo di agguantare il potere. Per un paio di decenni la Procura si è così distinta nella caccia grossa con questo obbiettivo: se incastriamo l'erede del Cinghialone torniamo alla regolarità democratica. Come è andata a finire lo sappiamo e non è il caso di ricostruire le fasi che hanno portato alla condanna di Berlusconi, base di lancio di Matteo Renzi, succeduto alle meteore Mario Monti e Enrico Letta. Ciò indispensabilmente premesso, dobbiamo ora registrare che la parziale caduta del fondatore di Forza Italia ha provocato un altro crollo: quello della Procura di Milano, che sta vivendo un periodo orrendo, contrastante con gli anni d'oro inaugurati da Di Pietro e che permisero a Borrelli di candidarsi - regnante Oscar Luigi Scalfaro - alla guida dell'esecutivo (senza fortuna). Oggi il pool sembra un pollaio. Nel senso che le liti interne alla casta dei signori magistrati prevalgono sull'attività dei medesimi. I media non si occupano più delle mirabili (si fa per dire) indagini condotte dai Vip togati, saliti alla ribalta negli anni Novanta e successivi, bensì dei contrasti violenti tra Bruti Liberati - procuratore capo - e Robledo, suo vice. I due da mesi sono in combattimento e non si è ancora capito perché cerchino vicendevolmente di farsi fuori. Lo spettacolo che essi mostrano ai cittadini è desolante. Non sappiamo chi abbia ragione e chi torto, probabilmente sbagliano entrambi a scannarsi senza requie, suscitando nei cittadini un sentimento negativo ai confini dello scandalo. Addirittura qualcuno, con perfida ironia, ha commentato in questo modo la disputa fra gli alti magistrati: avanti di questo passo, in Procura si arresteranno fra loro, in una gara a chi ne fa secchi di più. È solo una battuta, ma esprime una preoccupazione non campata in aria. Il settore giustizia è sotto attacco da alcuni lustri. Per un po' si è pensato che le polemiche con al centro i giudici fossero strumentali, tese a delegittimarli per motivi di bassa bottega politica. Poi però si è constatato che anche negli ambienti tribunalizi (che dovrebbero essere austeri e riservati) ci si mena come disperati per una poltrona, e allora la reputazione di lorsignori ne ha sofferto. I sondaggi sulla credibilità dei magistrati sono crollati rispetto ad altre epoche e dimostrano che la stima di cui essi godevano quando imperversava Mani pulite si è assottigliata paurosamente ed è prossima ad esaurirsi. Qui più che una riforma del sistema giudiziario nel suo complesso, che il legislatore non è stato capace neanche di cominciare ad abbozzare, urge un drastico richiamo alle toghe di non rendersi ridicole. Già. La giustizia può far piangere, ma non deve farsi compatire se desidera conservare un minimo di dignità.

Ecco perché stronco il libro di mio figlio. L'allora direttore de "L'Indipendente" sul saggio scritto dal figlio: "L'inchiesta è finita male ma fu necessaria", scrive Vittorio Feltri, Martedì 19/01/2016, su "Il Giornale". Non avrei mai scritto un rigo sull'ultimo libro di mio figlio Mattia, Novantatré (L'anno del Terrore di Mani pulite), se egli non mi avesse, pur con qualche ragione, scaraventato nella discarica dei reietti che seguirono con passione la cosiddetta Tangentopoli, ricavandone la sensazione che fosse un'operazione di giustizia non sommaria, ma diretta a punire i reati commessi dai politici col pretesto di fare politica. Non voglio impegnarmi in una difesa dalle accuse del mio diletto consanguineo rivolte ai magistrati e ai loro complici, cioè i giornalisti (categoria alla quale non mi onoro di appartenere): sarebbe un esercizio velleitario. Le opinioni si discutono, ma raramente si cambiano. Tu, caro Mattia, narri con efficacia ciò che accadeva nei giorni del 1993 (e anche del 1992): arresti in massa, il tintinnio minaccioso delle manette che era diventato la colonna sonora di quei tempi funesti, le detenzioni tese a strappare confessioni, le delazioni finalizzate a ottenere la libertà (almeno) provvisoria. Racconti con dovizia di particolari le vanterie della Procura di Milano, la paura che serpeggiava nelle segreterie dei partiti (del Caf), le angosce degli indagati, le varie porcherie commesse nelle stanze del Palazzaccio, la disinvoltura acritica dei cronisti giudiziari che si abbeveravano negli uffici dei Pm e compilavano articoli interamente ispirati dalle toghe. Hai ricostruito fedelmente, con autentico pathos, il clima che si respirava in quegli anni tribolati a Milano: Antonio Di Pietro, oscuro manovale del diritto, all'improvviso salito sul piedistallo riservato agli eroi, venerato come la Madonna, invocato quale purificatore, amato dalle folle perché per primo castigava i reprobi. Hai dipinto un quadro in parte abbacinante e in parte fosco. La realtà, d'altronde, non è mai a tinta unita. Hai reso alla perfezione l'atmosfera diurna dell'epoca. Ma hai completamente trascurato cosa accadeva nelle notti della Prima Repubblica. Di notte entrava in azione la Banda Bassotti. Forse te ne sei dimenticato. Forse ti sei lasciato trascinare dalla vena letteraria e ti sei fissato sulle nequizie della famosa e turpe inchiesta. La smemoratezza è una malattia di molte famiglie, figurati se la nostra ne è immune. Di giorno i magistrati facevano strage di mariuoli, di ladri e anche di innocenti: ma al calar delle Tenebre, caro Mattia, si perpetravano furti su furti per decenni impuniti, considerati perdonabile routine. Era diffusa la sensazione che la tangente fosse lecita, una pratica di ordinaria furfanteria. I politici che rubavano per il partito non si sentivano colpevoli, erano persuasi di agire per il bene della Patria e non esitavano a riempirsi le tasche di denaro sporco, confondendolo con il proprio e usandolo in proprio per pagarsi le ville sull'Appia Antica, la cui pigione veniva saldata prelevando l'occorrente dal bottino. Su questo è opportuno sorvolare? Essi spendevano e spandevano senza requie. Vivevano ben oltre le loro disponibilità. Con quali mezzi? Da notare che se fregare per il partito non sembra una grave scorrettezza, in verità è gravissima, perché non c'è neppure l'attenuante dello stato di necessità. Rubavano, i politici, allegramente a livello istituzionale. Autorizzati dal superiore principio secondo il quale la democrazia costa. I partiti organizzavano congressi e riunioni faraoniche, cui seguivano serate in discoteca dove scorrevano fiumi di champagne. Chi saldava il conto? Le aziende che versavano le stecche in cambio di lavoro. Ciò faceva comodo anche agli imprenditori, i quali però, se non si fossero piegati alle richieste delle segreterie, sarebbero stati tagliati fuori dagli appalti. Un'opera pubblica da un milione, finiva così per costare due milioni o tre. La spartizione era assai onerosa. Risultato. Il debito pubblico impazziva. E ne soffriamo ancora gli effetti devastanti. Che dovevano fare Di Pietro e i suoi soci, voltare la testa dall'altra parte, fingere di non vedere? I magistrati hanno sbarellato, ansiosi com'erano di salire alla ribalta. Ed io, come altri cronisti, ho assecondato ciecamente un sistema investigativo pressappochistico e dozzinale che, però, se non giustificabile, era comprensibile dato il momento. Un momento di forti tensioni sociali, influenzato ed alimentato dal desiderio di cancellare una classe dirigente incapace (come quella attuale) di amministrare la cosa pubblica, sacrificandola alla saccoccia. Mattia, ti chiedo per quale motivo il pentapartito, che era al governo, non ha mai pensato a legittimare il finanziamento privato della politica. Era nelle sue facoltà approvare una legge in proposito. Non ha mai provveduto a farlo perché, se tutto fosse stato chiaro e controllato, nessuno avrebbe più distratto una lira in quanto ogni partito sarebbe stato costretto a presentare bilanci verificati. Zero margini per appropriazioni indebite. E con quali soldi sarebbero stati liquidati gli affitti delle ville sull'Appia Antica? E chi avrebbe contribuito ad incrementare i consumi della cosiddetta Milano da bere? Non siamo nati ieri, né tu né io; abbiamo uso di mondo e siamo consapevoli di come girasse il fumo negli ambienti politici. Sono stati trovati conti ricchi all'estero attribuibili a personaggi dei partiti. Ovvio che la magistratura abbia colpito duro, acquisendo poi un potere eccessivo di cui sopportiamo ancora i riflessi. Ti do atto che nel casino generato da Mani pulite, accresciuto dallo sbandamento provocato dalla avanzata della Lega, dal crollo del muro di Berlino, dalla perdita di credibilità dei partiti, si sono compiute nelle indagini delle immonde esagerazioni. Cosicché ha preso piede un giustizialismo che si spiega soltanto con la fregola di spingere la sinistra alla conquista del primato nazionale a spese degli altri partiti. E cara grazia che Berlusconi ha spaccato il giochino degli ex comunisti. Questo è noto a tutti. Ma prima di dire che il dipietrismo è stato solo schifezze occorre riflettere. Tonino non ha violentato un esercito di vergini, ma ha sbaragliato una cosca di ladri che non ebbe il coraggio di varare una legge idonea a porre ordine nella materia. Una classe politica di straccioni. Alcuni dei quali sono stati castigati ingiustamente, ma altri l'hanno fatta franca, per esempio i compagni. E ciò è indigeribile e autorizza a sospettare che le toghe non abbiano agito con troppo zelo. Tuttavia, non sottovalutiamo un fatto: se la Giustizia ha sbagliato al 30 per cento, i ladri della Prima Repubblica hanno sbagliato al 70 per cento. Amen. Peccato che un libro sui grassatori non sia mai uscito, completo. Per concludere. Craxi quando disse che il ladrocinio era un male comune colse nel segno. Sul piano storico e politico pronunciò un discorso condivisibile in pieno. Su quello giudiziario egli aveva torto: non esistono malversazioni a fin di bene. Se il prezzo della democrazia è la disonestà endemica, conviene intervenire col pugno di ferro. Quanto agli errori dei magistrati, non è il caso di enfatizzare quelli a danno dei politici. I cittadini ogni giorno sono vittime di soprusi e angherie in tribunale, e nessun parlamentare di oggi e di ieri ha osato fiatare.

Vent'anni di persecuzione continua. Cambiano accuse e processi, ma l'obiettivo della Procura di Milano è sempre lo stesso: il berlusconismo e l'impero del Cav, scrive Luca Fazzo, Venerdì 02/08/2013, su "Il Giornale". E pensare che sarebbe bastato poco. Forse un po' di pazienza in più da parte di Silvio Berlusconi. Forse qualche oscillazione nei misteriosi, delicati equilibri di potere che governano la Procura milanese. Quattordici anni fa, la pace che avrebbe cambiato la storia del paese era a portata di mano: e non si sarebbe arrivati alla sentenza di oggi. Una domenica di maggio del 1999 Berlusconi salì nell'ufficio del pubblico ministero Francesco Greco e ci rimase tre ore. Con Greco e il suo collega Paolo Ielo si parlò ufficialmente di una accusa di falso in bilancio. Ma era chiaro a tutti - e il procuratore capo Gerardo D'Ambrosio lo rese esplicito - che quell'incontro era il segno di un tentativo di dialogo. Berlusconi faceva alcune ammissioni, concedeva - e lo mise per iscritto in una memoria - che l'«espansione impetuosa» del suo gruppo poteva avere creato «percorsi finanziari intricati». La Procura si impegnava ad evitare accanimenti, e a trattare Berlusconi alla stregua di qualunque altro imprenditore: con la possibilità di fuoriuscite soft come quelle concesse al gruppo Fiat. Sarebbe interessante capire ora, a distanza di tanti anni, dove si andò a intoppare il dialogo. Sta di fatto che rapida come era emersa, la strada si arenò. Il partito della trattativa si arrese. E riprese, violento come prima e più di prima, lo scontro senza quartiere. Da una parte un gruppo inquirente che ha dimostrato di considerare Berlusconi, nelle multiformi incarnazioni dei suoi reati, all'interno di quello che può in fondo essere letto come un unico grande processo, come la sintesi dei vizi peggiori dell'italiano irrispettoso delle leggi: il berlusconismo, insomma, come autobiografia giudiziaria della nazione. Dall'altra, il Cavaliere sempre più convinto di avere di fronte un potere fuori dalle regole, dalla cui riduzione ai binari della normalità dipende la sua stessa sopravvivenza. Da vent'anni Berlusconi e la Procura di Milano pensano che l'Italia sia troppo piccola per tutti e due. Ma da dove nasce, come nasce, questa contrapposizione insanabile? L'apertura formale delle ostilità ha, come è noto, una data precisa: 22 novembre 1994, data del primo avviso di garanzia a Berlusconi. Ma la marcia di avvicinamento inizia prima. Inizia fin dalla prima fase di Mani Pulite, quando il bersaglio grosso della Procura milanese è Bettino Craxi. E, passo dopo passo, i pm si convincono che Berlusconi - che pure con le sue televisioni tira la volata all'inchiesta - è la vera sponda del «Cinghialone», il suo finanziatore e beneficiario. Chi c'è dietro All Iberian, la misteriosa società che nell'ottobre 1991 versa quindici miliardi di lire a Craxi, e riesce anche a farsene restituire cinque? Dietro questa domanda, che diventa strada facendo una domanda retorica, i pm lavorano a dimostrare la saldatura tra Craxi e Berlusconi. Quando nell'aprile 1994 Berlusconi diventa presidente del Consiglio, per il pool la vicinanza Craxi-Berlusconi diventa anche continuità politica, perché da subito la battaglia craxiana contro il potere (o strapotere) giudiziario diventa uno dei cavalli di battaglia del nuovo premier. Dal Quirinale viene messo il veto alla nomina di Cesare Previti a ministro della Giustizia. Ma al ministero va Alfredo Biondi, che di lì a poco vara il decreto subito etichettato come «salva ladri», ritirato a furor di popolo dopo il pronunciamento del pool in diretta tv. È da quel momento che lo scontro compie il salto di qualità. Per la Procura milanese non c'è differenza sostanziale tra il Berlusconi imputato e il Berlusconi politico, perché il secondo è funzionale al primo: come dimostreranno poi le leggi ad personam, e, più di recente, la telefonata salva-Ruby alla questura di Milano. Le inchieste che si susseguono in questi vent'anni stanno tutte in questo solco, dentro la teoria della «capacità a delinquere» che diverrà uno dei passaggi chiave della sentenza per i diritti tv. Sotto l'avanzare degli avvisi di garanzia, Berlusconi si irrigidisce sempre di più, come ben racconta l'evoluzione delle strategie difensive: da un professore pacato come Ennio Amodio si passa all'ex sessantottardo Gaetano Pecorella, poi si approda alla coppia da ring, Niccolò Ghedini e Piero Longo. Le dichiarazioni di sfiducia di Berlusconi verso la serenità della giustizia milanese si fanno sempre più esplicite. Per due volte, nel 2003 e nel 2013, il Cavaliere chiede che i suoi processi siano spostati a Brescia, sotto un clima meno ostile. Per due volte la Cassazione gli dà torto. Eppure, fino alla condanna definitiva di oggi, nessuno dei processi era arrivato ad affossare Berlusconi. Assoluzioni con formula piena, prescrizioni, proscioglimenti. Il catalogo dei modi in cui l'asse Ghedini-Longo riesce a tenere l'eterno imputato al riparo da condanne definitive è ricco. Una parte nasce da leggi varate per l'occasione, ma altre assoluzioni danno atto dell'inconsistenza di accuse che la Procura riteneva granitiche. La si potrebbe leggere come una prova della tenuta di fondo del sistema giudiziario, dei contrappesi tra pubblici ministeri e giudici? Berlusconi non la pensa così. E la severità delle ultime sentenze, i giudizi sferzanti dei tribunali del caso Unipol, la batosta del risarcimento a De Benedetti, la decisione dei giudici del processo Ruby 2 di candidarlo a una nuova incriminazione per corruzione in atti giudiziari lo avevano già convinto definitivamente che la contiguità tra pm e giudici era arrivata livelli intollerabili. Guardia di finanza, All Iberian, Mills, Sme, Lodo Mondadori, diritti tv, Mediatrade, Ruby, il rosario delle pene giudiziarie del Cavaliere a Milano sembra interminabile. Cambiano i procuratori, cambiano alcuni dei pubblici ministeri, ma la linea non cambia. Eppure questa è la Procura dove due magistrati di spicco del pool, Antonio Di Pietro e Gerardo D'Ambrosio, hanno detto a posteriori di non avere condiviso la decisione dell'avviso di garanzia del 1994 (il procuratore Borrelli replicò a Di Pietro pacatamente, «Ha detto così? Beh, se si presenta in Procura lo butto giù dalle scale»). È la Procura dove, con Romano Prodi al governo, Francesco Greco andò a un convegno di Micromega ad accusare il centrosinistra, «questi fanno quello che neanche Forza Italia ha osato fare». È insomma la Procura dove la parte più pensante si rende conto che l'insofferenza di Berlusconi verso la magistratura è in fondo l'insofferenza di tutta la politica verso il potere giudiziario, e che non è affatto sicuro che il dopo Berlusconi porti alle toghe spazio e prebende. Ma per adesso lo scontro è con lui, con il Cavaliere. E i pochi giudici che in questi anni hanno disertato, in corridoio venivano guardati storto.

Così Berlusconi smaschererà i giudici. L'ex premier spiegherà agli italiani tutte le falle del processo Mediaset e l'assurdità della condanna: ecco cosa dirà, scrive Paolo Guzzanti, Giovedì 22/08/2013, su "Il Giornale". Che dirà agli italiani Silvio Berlusconi all'inizio di settembre? Tutti si arrovellano, molti si chiedono, altri ipotizzano e quanto a me, ho formato il numero di telefono di Arcore e ho avuto fortuna: mi ha risposto dopo un paio di minuti. Quella che segue non è un'intervista, ma quel che resta di una conversazione durata otto minuti e 43 secondi, tanti quanti ne ha contati il mio cellulare. Che cosa farà dunque l'ex presidente del Consiglio? Se ho capito bene, sta preparando una vera lezione di storia. Certo, sarà la sua storia, ma nessuno può negare che la sua storia coincida con una parte della storia collettiva del nostro Paese. Berlusconi traccerà dunque la storia del suo processo e spiegherà ciò che a suo parere documenta la sua innocenza e l'ingiustizia subíta. Spiegherà che cosa avrebbero potuto dire i testimoni che la sua difesa aveva chiesto di udire, ma che sono stati rifiutati dalla Corte. Sosterrà l'assurdità di una condanna penale per un reato fiscale su una vicenda ancora aperta in sede di ricorso per dire ai suoi ascoltatori ed elettori (prima o poi, si dovrà pur andare a votare) di essere stato vittima di un'antica e ben oliata trappola giudiziaria per farlo fuori. Mi ha però particolarmente colpito quel che Berlusconi ha detto a proposito della magistratura. La sua tesi è che il problema non è tanto quello di un'entità astratta (potere? ordine?) come la magistratura, ma di quella specifica parte dei magistrati che fa capo alla corrente politica chiamata Magistratura democratica. Così, mentre ascoltavo mi è venuto un flash: rivedevo me stesso negli anni Sessanta e Settanta, quando ero psiuppino (da Psiup, Partito socialista di unità proletaria) cioè parecchio più a sinistra del Pci, e cominciai a seguire le vicende e le parole dei primi magistrati di sinistra - chi ricorda più i «pretori d'assalto»? - i loro congressi, le pubblicazioni, i dibattiti. Non ne mancavo uno e li trovavo straordinari: vi si diceva, su una vasta scala di tonalità, che in Italia c'è un deficit di democrazia che sarebbe stato colmato soltanto quando la sinistra, allora comunista, sarebbe andata al potere. I magistrati di quella corrente che diventò «Emmedì» (Magistratura democratica, appunto) non facevano mistero della loro missione politica mentre indossavano la toga e dicevano tutti più o meno così: «Noi, in quanto operatori della giustizia, dobbiamo fare tutto quanto in nostro potere per bloccare qualsiasi persona o partito che possa ostacolare l'avanzata della sinistra». A me, allora che avevo quarant'anni meno di oggi, sembravano propositi meravigliosi, rivoluzionari e «in linea» con la nostra linea di allora. Non ce ne fregava assolutamente niente - politicamente parlando - di che cosa fosse vero e che cosa fosse falso, di chi fosse buono e di chi fosse cattivo, purché la linea andasse avanti. Eravamo tutti, allora, «sdraiati sulla linea». Non avevamo, noi giovani rivoluzionari e i giovani magistrati di allora, nulla di liberale: la parola «libertà» la trovavamo utile per le lapidi e le canzoni partigiane che cantavamo a squarciagola, perché venivamo da una scuola di pensiero - comune a tutti i comunisti, ma anche a tutti i fascisti e nazionalsocialisti del secolo scorso - secondo cui l'unica cosa che importa è la presa del potere, possibilmente per vie legali e democratiche (ma senza rinunciare ad altre opzioni che la Storia nella sua generosità può metterti a disposizione) sapendo che questa presa del potere, come ogni parto difficile, ha bisogno di bravi ginecologi, talvolta del forcipe e anche della lama del bisturi. «La rivoluzione non è un pranzo di gala» disse Lenin a Bertrand Russell orripilato per le esecuzioni di massa a Mosca, e neanche la giustizia deve essere tanto ossessionata dalle buone maniere, o semplicemente dall'idea «borghese» del giudice terzo, indipendente, sereno, che appende con il cappotto anche le sue idee sull'attaccapanni. Qualcosa di analogo avveniva in psichiatria. Ero molto amico di Franco Basaglia, padre della psichiatria democratica, che quando era a Roma veniva spesso a prendere un caffè da me. Basaglia mi spiegava con entusiasmo rivoluzionario che non esiste la malattia mentale, ma soltanto la malattia generata dalla classe borghese che con le sue contraddizioni e violenze crea la malattia, schizofrenia e paranoia. Dunque, mi diceva, il disturbo andava trattato come una questione politica: «Non si tratta soltanto di chiudere i manicomi - chiariva - ma di far esplodere il nucleo sorgente della borghesia stessa, ovvero la famiglia borghese». Ne seguì una legge di riforma psichiatrica che ha seguito quelle direttive: i manicomi sono stati chiusi, ma la sofferenza psichiatrica è stata spostata sulla famiglia incriminata con il bel risultato di far accatastare negli anni più di diecimila morti per violenze psichiatriche, come documentò l'indimenticato psicanalista liberale e libertario Luigi De Marchi in un convegno che promovemmo insieme in Senato anni orsono. È sintomatico come due cardini regolatori della stabilità sociale come la psichiatria e la giustizia siano stati mossi dallo stesso impulso ideologico e negli stessi anni. E che da allora seguitino a diffondere le conseguenze di quella distorsione ideologica. Ma torniamo alla chiacchierata con Berlusconi. Quando mi ha riportato alla memoria storica di Emmedì per averne letto - mi ha detto - centinaia di documenti antichi e recentissimi - mi sono suonati parecchi campanelli. Ho ricordato che quando io stesso mi sentivo dalla loro parte mi rendevo conto che non avessero come primo scopo l'esercizio di una giustizia indipendente, tale da garantire ogni cittadino a prescindere dalle sue idee. Volevano, al contrario, garantire la vittoria di chi stava sul carro della presa del potere e procurare la sconfitta di chiunque fossa dalla parte opposta e ostacolasse la sinistra. La fedina penale di Berlusconi diventò subito nerissima appena sfidò «la gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto e la ridusse in frantumi. Partirono subito raffiche di avvisi di garanzia che mi ricordavano i killer di Al Capone che, quando andavano a far fuori qualcuno, prima di tirare il grilletto ci tenevano a precisare: «Nothing personal: it's just business». Nulla di personale, è solo una questione di affari, e facevano fuoco. Anche con Berlusconi, e non soltanto con lui molti magistrati sembrano comportarsi come se fossero animati da quell'antico modo di intendere la giustizia. E così quando il Cavaliere mi ha detto che si era messo a studiare i dossier di tutte le dichiarazioni politiche dei magistrati di Emmedì raccolte negli ultimi anni, ho capito perfettamente a che cosa si riferiva. Spesso si leggono delle espressioni sarcastiche sulla questione delle «toghe rosse», come se si trattasse di una tipica panzana berlusconiana, del tutto inventata. Penso che siano sarcasmi difensivi. Penso anche - calendario e fatti alla mano - che la magistratura avesse fin dal 1980, almeno, tutti gli elementi per scatenare una campagna moralizzatrice sulle ruberie della politica, sulla commistione tra affari e politica, come io documentai con la storica e fortunata intervista a Franco Evangelisti passata alla storia delle cronache come «A' Fra' che te serve». La risposta della magistratura fu il silenzio di tomba. Il sistema di approvvigionamento dei partiti, Pci in testa, andava allora benissimo anche a quella parte della magistratura democratica che soltanto quando partì la parola d'ordine di decapitare la prima Repubblica, scattò gridando allo scandalo, alla necessità di fare pulizia, di castigare e demolire. Prima, neanche un fiato. L'operazione Mani pulite annunciò con le trombe e i tamburi la scoperta dell'acqua calda, annunciando che i partiti prendevano il pizzo dagli imprenditori e il Pci, in barba al codice penale e alla Costituzione, lo prendeva dall'Urss. Anzi, il reato commesso dal Pci, che importava capitali in nero su cui non pagava una lira di tasse - a proposito di evasione fiscale! - veniva usato come alibi: poiché i comunisti prendono soldi dai russi, noi per pareggiare il conto li andiamo a prelevare dalle tasche degli imprenditori. La magistratura inquirente usò senza risparmio la detenzione preventiva come forma di tortura che condusse molti al suicidio (penso a Gabriele Cagliari che si ficca in testa un sacchetto di plastica e muore in cella e a Raul Gardini che si ficca una pallottola nella tempia dopo essersi fatto una lunga doccia purificatrice) e tutte le suggestioni mediatiche che indussero gli italiani a credere davvero che la corruzione a favore dei partiti fosse nata con il Psi di Craxi e con la Dc di Andreotti e Forlani. Mentre la memoria mi riportava a quei vecchi fatti - ma come mai il libro The Italian Guillotine di Peter Burnett e Luca Mantovano non è stato mai tradotto in italiano? - Berlusconi sosteneva che è veramente un caso straordinario in Italia che un uomo sia condannato a una pena detentiva per una supposta evasione fiscale per una cifra ancora sottoposta a vari ricorsi. E riflettevo: è vero. Ditemi voi, dica qualcuno più informato di me, quanti imprenditori, evasori, uomini politici e no, sono finiti in galera per evasione. La memoria non mi soccorre. La Guardia di finanza ha appena accertato che 5mila evasori totali, ora identificati, hanno sottratto al fisco ben 17 miliardi di euro «a spese dei contribuenti onesti». Non ricordo di aver letto che una processione di cellulari li abbia trasferiti in galera. Eppure, 17 miliardi sottratti sono più del doppio dei miliardi di ricchezza che le aziende di Berlusconi hanno versato nelle casse dello Stato. Ma Berlusconi è stato condannato alla galera per una supposta evasione dell'1,2 per cento delle sue imposte. Bah, sarà tutto vero, ma non c'è qualcosa che non quadra? Per la cronaca, Berlusconi mi ha confermato che non chiederà la grazia, non chiederà i servizi sociali, non chiederà i domiciliari, non chiederà nulla: c'è in ballo un enorme problema politico e a quello deve pensare chi ha gli strumenti per farlo, dice. Penso alluda al presidente della Repubblica, ma non l'ha detto. Ci siamo salutati e mi sembrava tutt'altro che depresso e rassegnato.

Gli Usa: l'ex Pci voleva rovinare Berlusconi e tutte le sue aziende. Nel maggio '94 l'ambasciatore avvisò la presidenza Clinton: "Il Pds è deciso a distruggere il nuovo premier". Pochi mesi dopo l'agguato dei pm di Milano, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 29/02/2016, su "Il Giornale". La sinistra vuole distruggere Silvio Berlusconi. I postcomunisti non accettano la discesa in campo del Cavaliere e hanno deciso di toglierlo di mezzo. Come un abusivo. Le carte della diplomazia Usa, pubblicate oggi per la prima volta dal Giornale, sono un documento straordinario, un'anticipazione di quel che sarebbe puntualmente successo di lì a pochi mesi: l'uscita di scena del premier, azzoppato dall'avviso di garanzia del Pool Mani pulite. L'ambasciatore Usa Reginald «Reg» Bartholomew aveva capito tutto e aveva avvisato Washington e l'amministrazione Clinton. I documenti trovati a Washington al Dipartimento di Stato da Andrea Spiri, professore della Luiss, confermano la previsione dell'accerchiamento e poi dell'attacco letale. È il 4 maggio 1994 quando Bartholomew invia a Washington un documento profetico, chiamato «Profilo del primo ministro incaricato Silvio Berlusconi». Il 4 maggio il governo deve ancora insediarsi, il Cavaliere entrerà a Palazzo Chigi solo il 10 maggio, ma il film è già scritto: il countdown è partito, il Pds non tollera l'idea che la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto sia stata battuta quando pensava di avere campo libero sulle macerie della Prima Repubblica. A dicembre, ben prima delle elezioni, Bartholomew aveva già incontrato Berlusconi e il Cavaliere gli aveva spiegato che «il suo primo obiettivo, quando ha deciso di entrare in politica, era sconfiggere la sinistra». Il problema è che la sinistra, che verrà presa in contropiede dal clamoroso successo di Forza Italia, ha deciso di far fuori la nascente anomalia in grado di scompaginare i piani di D'Alema e Occhetto. Berlusconi l'ha raccontato subito all'ambasciatore che però ha messo insieme altri indizi e non si fa nessuna illusione su quello che avverrà: «Berlusconi ha riferito, e i contatti giornalistici giurano sia vero, che gli uomini del Pds (e D'Alema in particolare) hanno apertamente fatto sapere che se venissero eletti distruggerebbero economicamente Berlusconi. È stato riferito che D'Alema avrebbe detto (e non l'ha mai smentito) che il suo grande desiderio era quello di vedere Berlusconi elemosinare nel parco. È stato anche riferito che altri esponenti Pds avrebbero detto che lo stesso Berlusconi farebbe bene a lasciare l'Italia in caso di loro vittoria perché l'avrebbero distrutto». Storie note, fra voci e suggestioni, rimbalzate per molti anni nell'arena del bipolarismo italiano. Ma certo, in quel fatale maggio di 22 anni fa, Bartholomew, scomparso nel 2012 a 76 anni, mette in fila gli elementi e prefigura il copione che puntualmente si svolgerà nelle settimane successive: il 10 maggio, solo sei giorni dopo, il Cavaliere giura ma la macchina bellica, per niente gioiosa, è già in moto. I postcomunisti troveranno una sponda decisiva nell'azione della magistratura che il 21 novembre uccide di fatto il governo inviando al premier un invito a comparire per corruzione, recapitato direttamente in edicola dal Corriere della sera. Per di più nelle stesse ore in cui Berlusconi è impegnato in una conferenza internazionale contro la criminalità a Napoli. L'effetto è devastante e si somma alle manovre di Palazzo del presidente Oscar Luigi Scalfaro, lo stesso di cui altri report americani, pubblicati ieri in esclusiva dal Giornale, documentano l'ostilità totale verso il Cavaliere. Un intruso da sloggiare prima possibile, come ha svelato agli americani una fonte autorevolissima: l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. «Cossiga - scriverà Bartholomew il 20 dicembre, quando ormai Berlusconi è sull'orlo delle dimissioni - ha detto di ritenere che Scalfaro farebbe qualunque cosa pur di evitare un ritorno di Berlusconi al governo». Ma il 4 maggio 1994 la breve avventura del Cavaliere deve ancora cominciare. Eppure, con alcuni distinguo e con la necessaria prudenza, l'amministrazione democratica sembra accogliere senza diffidenza l'uomo cresciuto lontano dal Palazzo: «Berlusconi è un uomo che si assume dei rischi... che si è mosso in maniera rapida per colmare il vuoto politico provocato da Tangentopoli». Del resto con straordinaria preveggenza in un altro report, datato addirittura 15 ottobre '92, l'ambasciatore Peter Secchia, a Roma prima di Bartholomew, già aveva battezzato il Cavaliere «come nuovo leader politico», con la benedizione del declinante Craxi. E aveva evidenziato la sua partecipazione a una cena organizzata dal segretario del Pli Renato Altissimo per creare un soggetto politico in grado di raccogliere l'eredità del pentapartito. «Il governo Berlusconi sembra cadere - scrive a dicembre Bartholomew - E poi? Se cade - nota con un affilato giudizio controcorrente - questo potrebbe rafforzare l'impressione che l'Italia stia scivolando indietro».

Da Scalfaro a Napolitano: le trame anti Cav del Colle nei rapporti segreti Usa. Ecco le carte choc della diplomazia americana che dimostrano il pressing del Quirinale dietro le cadute dei governi Berlusconi nel 1994 e nel 2011, scrive Stefano Zurlo, Domenica 28/02/2016, su "Il Giornale". Strategie e complotti. Washington e Silvio Berlusconi. Amministrazioni diverse, repubblicana e poi soprattutto democratica, ma grande attenzione ai volteggi del Cavaliere, alle convulsioni della politica italiana dominata da Berlusconi alle cospirazioni di Palazzo. Un monitoraggio fittissimo e a tratti invasivo lungo un ventennio. Alcune carte inedite, oggi pubblicate per la prima volta dal Giornale, documentano rapporti consolidati e preferenziali con alcune personalità, dubbi e oscillazioni dei presidenti a stelle e strisce e dei loro staff. Una mole di carte che Andrea Spiri, professore a contratto alla Luiss, ha scovato al Dipartimento di Stato di Washington, dopo la progressiva desecretazione dei file fra l'ottobre 2012 e il dicembre 2015. Gli americani mostrano di avere antenne molto sensibili nel nostro Paese e individuano subito, addirittura nell'ottobre '92, in piena tempesta Mani pulite, Silvio Berlusconi come possibile leader di un nuovo partito. Siamo molto prima della discesa in campo, a Washington sono gli ultimi mesi della presidenza di Bush padre, ma i riflettori si accendono subito su un futuro che ancora nessuno conosce. L'ambasciatore Peter Secchia invia un documento classificato come confidential: Le incertezze italiane. La soluzione è un nuovo partito politico? L'ambasciatore ha fatto indagini che riassume con concisione e pragmatismo: «Il segretario del Pli Altissimo ha organizzato una cena di lavoro segreta il 12 ottobre per proporre la formazione di un nuovo partito... La cena si è tenuta il 13 ottobre presso il Grand Hotel. Da quanto viene riferito il gruppo, di cui faceva parte il magnate dei media Berlusconi, così come Francesco Cossiga, ha deciso di chiedere allo stesso Cossiga di formare un nuovo partito... La partecipazione di Berlusconi è di speciale significato, per via della vicinanza di Craxi. La sua apparizione come un nuovo leader politico potrebbe avere la benedizione dello stesso Craxi. Comunque è anche la riprova che la potenza di Craxi, duramente colpito dagli scandali, continua a declinare». In ogni caso, «gli italiani - spiega - sono confusi e cercano il cambiamento». Una discontinuità che porterà a Palazzo Chigi nel '94 proprio Berlusconi. Due anni più tardi, a fine '94, il nuovo ambasciatore Reginald Bartholomew scrive a Washington e descrive con una certa preoccupazione l'agonia del primo esecutivo Berlusconi, minato dall'avviso di garanzia e dalla manovre del presidente Oscar Luigi Scalfaro. «Il governo Berlusconi - nota l'ambasciatore - sembra cadere. E poi? Se cade, questo potrebbe rafforzare l'impressione che l'Italia stia scivolando indietro verso la politica screditata che ha visto succedersi dalla fine della Seconda guerra mondiale 52 governi. Potrebbe inoltre consolidare la percezione che la politica operi essenzialmente in maniera indipendente e lontana dalla gente». Bartholomew, insomma, ha più di un dubbio sull'operazione in corso a Roma per sloggiare il Cavaliere. Ma non c'è niente da fare. Il 20 dicembre, due giorni prima delle dimissioni, Bartholomew invia una nota a Washington in cui spiega senza tanti giri di parole che il presidente Scalfaro l'ha giurata a Berlusconi e vuole cacciarlo da Palazzo Chigi. A svelargli gli intrighi è stato un testimone eccellente come Francesco Cossiga. «Cossiga - scrive l'ambasciatore rivolgendosi alo staff di Bill Clinton - ha sottolineato che uno dei fattori che stanno incidendo sulla crisi è la rottura irrecuperabile fra Scalfaro e Berlusconi. Cossiga ha riferito che Scalfaro si sentiva profondamente offeso dalle recenti batoste pubbliche ricevute dai berlusconiani, in particolare dal portavoce del governo Ferrara. Cossiga ha detto di ritenere che Scalfaro farebbe qualunque cosa pur di evitare un ritorno di Berlusconi al governo». Il destino è segnato. Di crisi in crisi si arriva fino all'attualità. E all'ultimo giro di valzer del Cavaliere a Palazzo Chigi. A novembre 2011, con lo spread impazzito e la coppia Merkel-Sarkozy che lo guarda con sorrisetti di scherno, Berlusconi getta la spugna. Il 12 novembre il sottosegretario alla crescita economica Robert Hormats invia una mail a Jacob Sullivan, capo dello staff del segretario di Stato Hillary Clinton. Hormats riprende il report spedito il 9 novembre dall'ambasciatore David Thorne: «Continuano i battibecchi politici, ma la direzione generale è fissata». Segue un misterioso omissis. Quindi Thorne riprende: «Sono anche intervenuti la Merkel e Sarkozy. Lo spread è sotto il picco, ma ancora molto alto. L'Italia sa quello che deve fare. David». «Spero - riprende un per niente galvanizzato Hormats - che Thorne abbia ragione, che l'Italia sappia quello che deve fare. Dovremmo vedere se Monti può farcela con gli insofferenti e se può portare dalla sua parte l'opinione pubblica. Egli è molto brillante, ma le sue capacità politiche e motivazionali andranno verificate». E infatti Monti si rivelerà un disastro. Intanto, Giorgio Napolitano, presunto regista del complotto anti Cav del 2011, annuncia che non risponderà alle domande su quel che successe in quelle settimane. Quel che è accaduto nel 2011 - confida all'Huffington Post - possono ricavarsi da molteplici miei interventi pubblici. Non ritengo ritornarci attraverso mie memorie che al pari dei miei predecessori non scriverò».

Così si decapita la democrazia. Un uomo politico è stato fatto fuori con una sentenza anziché con il voto: i pm hanno un potere illimitato, scrive Vittorio Feltri, Venerdì 02/08/2013, su "Il Giornale". Fino all'ultimo non ci avevamo creduto. Pensavamo fosse impossibile che si potesse far secco un uomo politico con una sentenza anziché col voto popolare. E invece è successo proprio questo: Silvio Berlusconi è stato fatto fuori; non potrà più mettere piede in Parlamento. Non solo perché la pena accessoria (interdizione dai pubblici uffici) glielo vieta per un periodo ancora da stabilirsi, ma anche perché esiste una legge, paradossalmente voluta dal centrodestra, secondo la quale chi ha subìto una condanna superiore a due anni di carcere non ha facoltà di presentarsi candidato alla Camera o al Senato. Peggior disastro era inimmaginabile. Anzi, si supponeva che il terzo grado di giudizio agisse con mano più leggera rispetto all'appello e trovasse il modo per salvare capra e cavoli. Dove per capra si intende la dignità della giustizia, che aveva infierito sull'imputato eccellente, e per cavoli si intende l'equilibrio politico che la maggioranza cosiddetta delle larghe intese garantiva all'Italia, sostenendo il governo guidato da Enrico Letta e tenuto a battesimo dal presidente Giorgio Napolitano. Non è stato così. I giudici della Corte di Cassazione, nonostante la difesa brillante dell'avvocato Franco Coppi, affiancato dal collega Niccolò Ghedini, hanno preferito confermare il verdetto infausto che costringe il fondatore di Forza Italia e del Popolo della libertà ad arrendersi. Non è questa la sede più adatta per entrare nel merito delle accuse rivolte al proprietario di Mediaset nonché capo carismatico del Pdl. Ci limitiamo a valutare le conseguenze della sentenza. Che sono terribili per il nostro Paese. L'eliminazione diremmo fisica di un soggetto politico importante, quale è (era) il Cavaliere, per via giudiziaria, costituisce un precedente che fa venire i brividi: la democrazia è stata per la prima volta decapitata in un tribunale. Un fatto inedito e gravissimo che segna l'inizio, probabilmente, di un'era in cui l'esito della lotta politica non sarà più determinato dal consenso popolare, bensì dalle toghe cui gli stessi politici hanno consegnato poteri illimitati, illudendosi di trarne chissà quali vantaggi. Ci riferiamo alla rinuncia avvenuta vent'anni orsono, da parte dei deputati e dei senatori, dell'immunità parlamentare che i padri costituenti avevano introdotto nella Carta allo scopo di tutelare gli eletti nella loro libertà e indipendenza, anche dalla magistratura. Abolita l'immunità, i parlamentari si sono esposti all'azione penale obbligatoria col risultato che qualunque sostituto procuratore può aprire un'inchiesta e portarla a compimento contro chi sia stato prescelto dai cittadini e ne abbia ricevuto il mandato di rappresentarli alla Camera o in Senato. Se poi aggiungiamo che, nel periodo di Tangentopoli e Mani pulite, si è creata una strana alleanza tra sinistra e alcune toghe, si comprende il motivo per il quale vari magistrati hanno dato l'impressione, col loro lavoro, di favorire un partito danneggiandone altri. Naturalmente, queste sono chiacchiere, il cui senso molti non condividono. Rimane il fatto storico che Berlusconi, da quando ha smesso di fare l'imprenditore e si è gettato nell'agone politico, non ha più avuto pace. I suoi guai giudiziari cominciarono infatti nel 1994, subito dopo aver vinto le elezioni nazionali. Decine di processi, accuse d'ogni tipo, perquisizioni, controlli. Mediaset non ha mai più avuto requie. E il suo principale azionista, il Cavaliere, ha trascorso più tempo a difendersi che non a curare gli interessi degli italiani che governava o che rappresentava all'opposizione. Un fenomeno mai visto, al quale tuttavia ci eravamo abituati. A un certo punto, Berlusconi indagato o processato non faceva più notizia. Era una consuetudine. Tant'è che nessuno immaginava che egli potesse essere condannato. Anche ieri, in attesa del verdetto della Cassazione, eravamo tutti tranquilli: non lo condanneranno mai. La nostra fantasia, pur fervida, non contemplava l'ex premier privato della libertà personale. Viceversa, è successo anche questo: in galera. O ai domiciliari. O ai servizi sociali. Non sono i dettagli che contano ma la liquidazione di un personaggio con le maniere forti. Quelle della legge. Che non si discute. Chissà perché, poi, una sentenza emessa in nome del popolo italiano non può essere discussa, ma solamente rispettata. C'è qualcosa di abnorme, di assurdo. Quale futuro ci attende? Non lo sappiamo. Sappiamo però che stiamo sprofondando. E la chiamano giustizia.

Silvio no, Matteo neppure Non è che il problema sono proprio i magistrati? I magistrati si sentono dei padreterni e rifiutano critiche desiderando continuare a spadroneggiare, scrive Vittorio Feltri, Domenica 25/10/2015, su "Il Giornale". Ieri i giornaloni italiani, Corriere e Repubblica, avevano in prima pagina un titolo dedicato allo scontro tra toghe e governo. Le prime si lagnano con il secondo perché si sentono delegittimate. Cosa vuol dire? Senza perderci in voli pindarici, semplifichiamo: i magistrati, dei quali non voglio parlare male perché li temo (peggio, ne ho una paura fottuta) ce l'hanno a morte con l'esecutivo, lo accusano di essere più attento alle intercettazioni (odiate dai politici) che alla mafia. Il premier Matteo Renzi risponde irritato: i giudici non fanno mai autocritica. Per pura piaggeria sarei tentato di dare ragione ai signori della cosiddetta giustizia allo scopo di tenermeli buoni, però non posso nascondere il sospetto che essi si sentano dei padreterni e rifiutino critiche desiderando continuare a spadroneggiare. Perché dico questo? Quando a menare il torrone era Silvio Berlusconi, notoriamente intenzionato a riformare l'ordine giudiziario, i magistrati hanno fatto il diavolo a quattro per incastrarlo e ci sono riusciti alla grande, vincendo la partita. Tant'è che lo hanno messo fuori gioco conservando i privilegi di cui godono da sempre. Poi è arrivato Renzi a Palazzo Chigi ed è noto com'è andata. Il premier ha cercato di ridurre le loro ferie, ha introdotto un ampliamento della possibilità di ricorso contro di loro in caso di negligenza, senza contare altri ritocchi limitativi. Non entriamo nei dettagli della mini riforma onde non annoiare il lettore che, comunque, avrà capito quanto sia difficile disciplinare il lavoro nei tribunali. Ciò che ci sorprende è il fatto che, a prescindere dal colore della maggioranza da cui dipende la guida del Paese, i magistrati - non tutti, ma quasi - mal sopportino le ingerenze nella loro attività, dando l'impressione di considerarsi intoccabili, al di sopra di ogni autorità, come se costituissero una casta divina, non soggetta ad alcun controllo. Perfino noantri, gente volgare, siamo consapevoli che una Repubblica democratica si regga sull'equilibrio dei poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. Ma non ignoriamo neppure che esista la legittima possibilità che ciascuno di essi sia soggetto a modifiche tese a migliorare il funzionamento dello Stato. Un esempio. Per quale motivo qualunque lavoratore che commette un errore è chiamato a risponderne in sede penale o civile, tranne colui che indossi una toga? I medici, ai quali la nostra vita è legata, se sbagliano una diagnosi o una terapia, sono processati ed eventualmente obbligati a risarcire, mentre i magistrati sono sollevati da responsabilità? Inoltre, perché i dipendenti pubblici sono costretti a timbrare il cartellino, eccetto lorsignori addetti all'amministrazione della giustizia? Ci sono giudici che si portano a casa fascicoli giudiziari, nei quali chiunque, dai figli alle mogli e alle collaboratrici domestiche, ha facoltà di ficcarvi il naso, quando invece dovrebbero restare segreti? Non sarebbe il caso di rivedere certe norme? Vietato anche solo parlarne senza suscitare reazioni scomposte da parte degli interessati. Noi non siamo tifosi di Renzi, e il lettore se ne sarà accorto, ma nella presente circostanza siamo con lui, che non ha in programma di distruggere l'ordine giudiziario, bensì di renderlo compatibile con gli schemi vigenti in altri settori, non solo pubblici. Suvvia magistrati, siamo nelle vostre mani; vi preghiamo di averle pulite. Vi consigliamo altresì la lettura del libro di un vostro collega aderente a Magistratura democratica, Piero Tony, ex procuratore capo di Prato, ovviamente di sinistra, che ha denunciato le porcherie della propria categoria. Un testo istruttivo, mai smentito, dove si scoprono molti altarini e si dimostra quanto una riforma della corporazione non sia necessaria, bensì indispensabile. Se destra e sinistra sono critiche nei confronti della casta togata forse la casta stessa dovrebbe tacere e cogliere l'occasione per farsi un esame di coscienza. Se ce l'ha. Dimenticavo il titolo del volume: Io non posso tacere.

ECCO COME MD HA IMPEDITO OGNI RIFORMA. Le mosse di Magistratura Democratica per bloccare le riforme della giustizia, scrive Stefano Zurlo, Giovedì 15/08/2013, su "Il Giornale". Coincidenze. Un ministro della Giustizia, Clemente Mastella, nella te­naglia della magistratura: estate 2007, l’Anm,a trazione Magistratura democratica, minaccia scioperi se la riforma del­la giustizia, ormai in dirittura d’arrivo, non seguirà le indicazioni del partito dei giudi­ci; dall’altra parte lo stesso Mastella, continuamente al telefono con pm e giudici dell’Anm, è indagato a Catanzaro nell’inchie­sta Why Not. Domanda: si può scrivere un testo così importante sotto la doppia pressione del partito dei giudici e di un’inchiesta? Ma questo è lo stato dell’arte su un crinale deci­sivo nei rapporti fra politica e magistratura e più in generale per la definizione del ruo­lo della magistratura in Italia. La sfida è de­cisiva: in quei giorni convulsi di luglio Ma­stella viene bombardato dall’Anm, il cui segretario è Nello Rossi di Md, perché siano recepite le direttive delle toghe. Ma contemporaneamente si svolge una gara con­tro il tempo perché il fallimento di Mastella farebbe scattare inesorabilmente la prece­dente riforma Castelli, che per l’Anm è fumo negli occhi. Roberto Castelli, Guardasigilli del governo Berlusconi, ha partorito un’ambiziosissima legge che prevede, addirittura, la mitica separazione delle carrie­re. O meglio, prevedeva perché i dubbi e qualcosa in più dei dubbi dei centristi hanno finito con l’annacquare lo spirito della norma. La separazione delle carriere, di cui si parla a vuoto da una ventina d’anni,è rimasta in un cassetto, perché per portarla in porto sarebbe stato necessario passare per la cruna dell’ago di una nuova legge costituzionale, figurarsi, ma Castelli ha tenuto duro. E ha licenziato un testo che, in sintesi, colloca i pm da una parte e i giudici dall’altra. È la separazione non delle carriere ma delle funzioni, il massimo che si può fare in Italia, fra debolezze della politica e proteste dei giudici. Il conto alla rovescia va avanti in quelle settimane: Mastella è bersagliato dai vertici dell’Anm e, con il premier Romano Prodi, è sotto inchiesta a Catanzaro dove Luigi De Magistris si avvale dell’opera di un con­sulente discusso, Gioacchi­no Genchi. Mastella a fine mese porta a casa le norme che disinnescheranno quelle targate Castelli. La controriforma Castelli, come l’hanno bollata i signori del­l’Anm. L’Italia, che oggi avrebbe bisogno di cam­biare marcia proprio sulla giustizia, sconta ritardi che sono anche il frutto di quelle giornate. Mastella, pur di non perdere il tre­no, è andato anche a genuflettersi al conve­gno di Md, ma è stato trattato con una certe rudezza. Edmondo Bruti Liberati, oggi pro­curatore a Milano, gli ha risposto per le ri­me: «Attendiamo i fatti» senza rilasciare «cambiali in bianco».E Nello Rossi, segreta­rio dell’Anm, è stato altrettanto chiaro: «Vo­gliamo vedere i fatti e prima non faremo sconti a nessuno». Poi Mastella trova la qua­dra, ovvero vara una riforma che piace ai magistrati e manda su tutte le furie gli avvo­cati che da sempre denunciano lo strapote­re dell’accusa nelle aule di giustizia. Non importa, va be­ne così. Il comitato direttivo centrale dell’Anm - la termi­nologia è ancora sovietica ­approva con i voti decisivi di Md e delle altre correnti di si­nistra il doc­umento che fa re­tromarcia sugli scioperi. Tut­ti al lavoro. «Con la revoca della mia riforma- commen­ta amaro Castelli - emerge la verità vera che avevo previ­sto. L’agitazione è finita». Coincidenze. De Magistris e l’indagine vengono spazzati via dal Csm. Per la cronaca Roma indaga e Rossi seque­stra l’archivio Genchi in cui c’è anche una telefonata fra lo stesso Rossi e Mastella, in­dagato da De Magistris e Genchi ma autore di una riforma non sgradita a Rossi. Sem­bra una filastrocca. La giustizia è passata e passa ancora oggi lungo questi tornanti.

Un campionato truccato. La magistratura di sinistra è realtà: il pm indaga e propone, il suo compagno di corrente giudice dispone. Una anomalia che ormai si è radicata in tutti i livelli di giudizio, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 12/08/2013, su "Il Giornale". La magistratura di sinistra, ideologica e settaria, non è un'invenzione, o addirittura una paranoia, del berlusconismo. Nel corso degli anni le toghe rosse hanno seminato tracce documentali che le configurano come una setta a tratti segreta. Lo ammise anche Massimo Caprara, segretario particolare di Palmiro Togliatti e membro del comitato centrale del Pci. Nel 2005, testimoniando a Trento in un processo per diffamazione, Caprara svelò l'esistenza di un registro segreto di magistrati iscritti al Pci che era custodito a Mosca. Craxi, in tempi non sospetti, confidò di essere venuto a conoscenza di scuole del Pci per formare magistrati organici al partito e Cossiga, nel 1997, ascoltato dalla commissione stragi, sostenne che la magistratura occupava uno dei livelli della Gladio rossa, la struttura paramilitare e clandestina che doveva essere pronta a ribaltare lo Stato democratico. A metà degli anni Sessanta accadde un fatto nuovo, destinato a cambiare per sempre la giustizia italiana. Alcuni magistrati uscirono allo scoperto fondando, cosa senza precedenti in Paesi occidentali, una corrente ideologica di sinistra chiamata Magistratura democratica, alla quale aderì (e aderirà più tardi) la maggior parte dei pm e dei giudici italiani, poi protagonisti delle inchieste che azzerarono tutti i partiti meno il Pci (Tangentopoli) e più di recente della maggior parte dei 42 processi contro Berlusconi. Il Pm indaga e propone, il suo compagno di corrente giudice dispone. Chi è iscritto a Magistratura democratica fa politica, dichiara la sua fede e combatte apertamente le altre, partecipa a convegni e dibattiti per orientare scelte legislative, alcuni si fanno eleggere in Parlamento, ne abbiamo pure visto uno, Ingroia, fondare un partito e candidarsi premier contro i suoi inquisiti di centrodestra. Una anomalia che ormai si è radicata in tutti i livelli di giudizio. Nella corte che ha confermato il carcere per Berlusconi ben due giudici, De Marzo e Aprile, erano di area Md. Può un magistrato che dichiara la sua idea politica, e sostiene di volerla imporre, giudicare serenamente politici di segno opposto? È come se un giocatore arbitrasse la partita della vita della sua squadra. La partita sarebbe truccata a prescindere, come quella che ha visto in campo Berlusconi. E questo lo sa bene anche Napolitano, che da quel mondo viene.

Ecco la vera storia di «Md»: i giudici rossi che fanno politica. Così Magistratura democratica ha acquisito potere e condizionato le scelte dei partiti La regola sin dall'inizio: le toghe devono schierarsi e cercare il consenso della piazza, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 12/08/2013, su "Il Giornale". Sono di sinistra e hanno accompagnato la storia della sinistra italiana. I giudici di Magistratura democratica sono diventati anche uno dei più famosi brand d'Italia da quando il Cavaliere ha dichiarato loro guerra. Forse, ingenuamente, qualche anima bella penserà che chiamarle toghe rosse sia una forzatura del nostro bipolarismo muscolare, ma non è così. O meglio, la storia di questa costola del potere giudiziario è un riassunto delle ideologie, degli ideali, delle ubriacature, dei condizionamenti e delle illusioni che hanno animato il versante della magistratura che da sempre ha coltivato ambizioni progressiste. Risultato: in un sistema malato, in cui le toghe sono divise in correnti e le correnti compongono una sorta di parlamento parallelo, Md è uno degli attori del sistema politico italiano. Inutile scandalizzarsi: in Italia, come ha spiegato a suo tempo Antonio Ingroia al Giornale, «la magistratura si concepisce per metà come corporazione per metà come contropotere». Ecco, Md è o dovrebbe essere, perché poi spesso è diventata il suo esatto contrario, il contropotere che si oppone alla presunta casta, coglie le sensibilità più profonde del Paese, cattura le esigenze e le istanze sociali più avanzate, capovolgendo gli equilibri reali dentro le istituzioni. Si può essere d'accordo o no, ma questo è un po' il senso dei tanti manifesti e proclami e documenti elaborati in questi lunghi anni dalle teste d'uovo della corrente. Citiamo, per esempio, Livio Pepino con il suo articolo Appunti per la storia di Magistratura democratica. Scrive il magistrato: «Che Magistratura democratica sia stata (sia) la sinistra della magistratura è noto e da sempre rivendicato». Questo l'incipit che toglie ogni ambiguità e fraintendimento. Certo, questo non vuol dire che i magistrati siano pedine del sistema dei partiti, dal Pci e dai suoi eredi a Rifondazione, ma indica comunque una precisa collocazione. Ma Pepino va ben oltre, verso la militanza attiva: «La rottura con il passato è radicale e gravida di conseguenze: ad una magistratura longa manus del governo, si addice, infatti, un modello di giudice burocrate e neutrale, mentre ad una magistratura radicata nella società più che nell'istituzione deve corrispondere un giudice consapevole della propria autonomia, attento alle dinamiche sociali e di esse partecipe». Eccolo qui il magistrato che si afferma come contropotere: questo giudice fugge dal Palazzo, inteso come luogo di conservazione e di stagnazione, e si mette in testa al popolo, ne guida le battaglie, lo conduce verso la liberazione, come nel celebre dipinto di Pellizza da Volpedo Il Quarto Stato. Si dirà che si tratta di suggestioni ma non è non è così. E Pepino, in quel testo, lo spiega fin troppo bene: «Il dogma dell'apoliticità si rovescia nel suo contrario». La magistratura fa politica. Appunto. Md fa politica, da sinistra. Anche se fuori dal parlamento e senza tessere. È tutto scritto e declamato nei sacri testi. Nei comizi. Nei convegni. Nelle controinaugurazioni dell'anno giudiziario. Nei pugni alzati, come al funerale di Ottorino Pesce, anima della sezione romana di Md, morto nel gennaio '70. È quasi cinquant'anni ormai che Md cerca la sua bussola nel grande arcipelago della sinistra. Talvolta soffrendo di collateralismo, talvolta cercando di dettare la linea al Pci-Pds e alle altre sigle della sinistra, oppure ancora spaccandosi al suo interno fra ortodossi e movimentisti e fra garantisti e giustizialisti. Se un giudice, per stare ancora a Pepino, fa a pezzi il modello basato sulla neutralità, sceglie «l'opzione di sinistra», testuale, «fa la sua scelta di campo», afferma il suo «sentirsi dalla parte dei soggetti sottoprotetti», fin dove si può spingere? Siamo su un piano inclinato su cui, sin dall'atto di fondazione del 27 luglio 1964, e poi attraverso la virata del 30 novembre 1969, si sono esercitate almeno due generazioni di toghe, con risultati che è difficile riassumere. Ma certo si tratta di alcuni dei nomi più noti della magistratura italiana: da Gian Carlo Caselli a Gerardo D'Ambrosio e a Gherardo Colombo, per rimanere fra Palermo e Milano, fra i processi alla cupola, ad Andreotti e a Dell'Utri e l'epopea di Mani pulite. E poi Livio Pepino, Vittorio Borraccetti, Elena Paciotti, Giuseppe Palombarini, autore del fondamentale Giudici a sinistra. Ma l'elenco è chilometrico. E molti i tornanti, le curve, le risse, le divisioni e le ricomposizioni, le diverse sottolineature. Qualcuno, brutalmente, ritiene che la parabola di Md sia quella di un movimento che porta aria fresca nelle ovattate stanze degli ermellini, rompe tabù, distrugge un vecchio e logoro apparato di relazioni elitarie, poi piano piano, di emergenza in emergenza, fra il terrorismo e tangentopoli, si appiattisce sulle posizioni giustizialiste. Quelli di Md, con dietro tutti gli altri, un tempo ribattezzati per la loro furia culturale gli iconoclasti, diventano i picconatori della Prima repubblica e poi del berlusconismo consegnando i santuari del potere ai postcomunisti. E così la sinistra vince in Italia passando per la scorciatoia della via giudiziaria, ma dopo essere stata sconfitta proprio sul piano delle idee, delle ideologie e degli ideali naufragati fra le macerie del Muro di Berlino. È la storia drammatica che Francesco Misiani racconta nel suo bellissimo La toga rossa. Una lunga cavalcata nelle contraddizioni dei magistrati rossi: dall'epoca dei processi popolari, cui il giovane e compiaciuto Misiani assiste in Cina, all'ubriacatura da manette ai tempi di Tangentopoli quando le tentazione di abbattere un sistema marcio entra a piedi uniti anche nelle aule di giustizia. Il matrimonio è arrivato nel grande braciere di Mani pulite, scrive "Il Giornale" il 27/11/2013. Un partito ormai svuotato, senza ideologia, ha sposato un'ideologia senza partito, ovvero Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe italiane. La corporazione ha orientato l'ago della sua bussola sull'antiberlusconismo, la sinistra si è accodata. Non è una fiction, ma il pensiero di un ex di Md, Sergio d'Angelo, oggi in pensione, ma per lunghi anni giudice a Milano. D'Angelo, dopo le tante giravolte e contorsioni dei colleghi, se n'è andato. E oggi consegna al Giornale un memoriale sul rapporto malato fra politica e giustizia.

Primavera '93. Nei lunghi corridoi dechirichiani della Procura di Milano incrocio il capo del Pool Gerardo D'Ambrosio, scrive Stefano Zurlo, Venerdì 29/11/2013, su "Il Giornale". Lui mi concede al volo un'intervista clamorosa: «Mani pulite è finita». Peccato che in quelle settimane Tiziana Parenti stia indagando sul cosiddetto fronte orientale di Tangentopoli. Impresa difficilissima, fra reticenze, silenzi, difese d'ufficio. Botteghe oscure resiste all'assalto dei pm milanesi. Qualche giorno dopo la Parenti, sempre più emarginata e destinata ad uscire da quel gruppo, me lo dirà apertamente: «La sua intervista mi ha delegittimato. Ho capito che non sarei andata da nessuna parte». Sono passati vent'anni, il Pci-Pds è passato indenne, o quasi, attraverso le forche caudine della magistratura di rito ambrosiano e ha assaporato il potere, salvo poi farselo portare via da un certo Silvio Berlusconi e avviarsi a recuperarlo, giusto l'altro ieri e cambiato ancora il nome, con l'estromissione del Cavaliere dal Senato. La battaglia politico-giudiziaria va avanti intrecciata e confusa. E proprio di quella stagione gloriosa e terribile, ancora oggi controversa, parla Sergio d'Angelo nella terza puntata del memoriale scritto in esclusiva per il Giornale. D'Angelo, che per molti anni è stato fra i membri di Magistratura democratica e Milano e ora è in pensione, lo sguardo critico e anche di più sullo specchietto retrovisore del suo passato, si sofferma proprio su quel periodo e fa scorrere le facce dei magistrati che, fra avvisi di garanzia e tintinnar di manette, hanno scritto un pezzo della nostra storia. Per D'Angelo è proprio in quei mesi che si realizza il matrimonio fra Md, insomma la costola sempre inquieta della sinistra in toga, e gli eredi del Partito comunista. Un partito senza ideologia, smarritosi sotto le macerie del Muro di Berlino, sposa un'ideologia senza partito, quella dei giudici che dagli anni Sessanta hanno elaborato una loro strategia per cambiare i rapporti di forza dentro il potere giudiziario e poi per entrare nei Palazzi della nomenklatura. La lunga marcia di Md, fra bandiere rosse pugni chiusi, si compie secondo d'Angelo, con «l'occupazione» del partito. Contemporaneamente, e se ne parlerà nella parte conclusiva del saggio, l'ideologia forte delle toghe forti -gli iconoclasti per usare un termine allora in voga - inizia a contaminare tutta la magistratura. Compatta conservatori e progressisti. E troverà la sua declinazione, quasi la sua colonna sonora, nell'antiberlusconismo. Fino all'epilogo drammatico di queste ore.

Da vent'anni è in corso una guerra tra magistratura e mondo politico, scrive "Il Giornale" il 01/12/2013. Il cuore del problema è la messe di privilegi cui la casta in toga non vuole rinunciare, grazie soprattutto agli eredi dell'ex Pci cresciuti all'ombra del giustizialismo propagandato dall'ala più massimalista di Magistratura democratica. L'ideologia senza partito di Md, che sogna di essere una delle colonne della lotta di classe, ha sposato un partito senza ideologia come il Pci-Pds-Ds-Pd per combattere chi aveva deciso di ostacolare il loro piano di potere: Bettino Craxi prima, Silvio Berlusconi poi. In mezzo c'è un Paese dilaniato tra le macerie.

Falce, Falcone e martello. Falcone è stato ucciso da Cosa Nostra, o forse no. Mai la giurisprudenza ha seguito la "pista russa". Oggi esce in italia un libro che cerca di fare luce sulla vicenda: "Il viaggio di Falcone a Mosca", scrive Paolo Guzzanti, Sabato 31/10/2015, su "Il Giornale". Nessuno ha mai saputo dire per quale motivo preciso Giovanni Falcone fu assassinato. Leggeremo il libro di Valentin Stepankov, ex procuratore russo e amico di Falcone, e del giornalista Francesco Bigazzi «Il viaggio di Falcone a Mosca» (Mondadori) con nuovi documenti sullo scenario che in sede giudiziaria italiana è stato evitato come la peste. Sostenere che Cosa Nostra abbia ucciso Falcone perché era «il più grande nemico della mafia» è puerile, ma anche fraudolento: Cosa Nostra non dà premi Oscar alla carriera. La mafia è una macchina per fare soldi, non per vendette teatrali. Quando Cosa Nostra uccide, c'è sempre un motivo gravissimo e immediato. Dunque: per schivare quale pericolo imminente fu assassinato Falcone? Quando arrivò a Mosca la notizia della sua morte, il procuratore Valentin Stepankov ebbe un collasso, disse di aver capito l'antifona e lasciò il suo posto, ufficialmente per dissensi politici. Tutti coloro che in Italia dovrebbero sapere, sanno della pista seguita da Falcone «following the money», ovvero seguendo il cammino in Italia del tesoro del Kgb e del Pcus. L'ambasciatore russo Anatolij Adamiscin supplicò Cossiga di intervenire. Cossiga si rivolse ad Andreotti che suggerì Falcone come investigatore non ufficiale. Non aveva poteri di magistrato inquirente, ma li aveva il suo amico e confidente Paolo Borsellino. Falcone non fece in tempo ad andare a Mosca e il 23 maggio 1992 fu Capaci. Seguì, dopo meno di tre mesi, via D'Amelio.

Rubli, falce e tritolo. Le lunghe ombre russe sulla morte di Falcone. Nuove carte svelano gli intrecci tra mafia dell'Urss, Cremlino e Pci. Il magistrato doveva recarsi a Mosca per indagare sui finanziamenti ai partiti "fratelli". Ma non fece in tempo..,scrive Dario Fertilio, Mercoledì 28/10/2015, su "Il Giornale".  Un secolo e mezzo fa, per Marx, l'ideologia era «la falsa coscienza della classe al potere». Mai l'autore de Il Capitale ne avrebbe immaginato una versione aggiornata così: «l'ideologia comunista è la falsa coscienza della mafia al potere». Eppure, anche in termini rigorosamente marxiani, questa conclusione pare ineccepibile dopo aver letto Il viaggio di Falcone a Mosca, saggio firmato da Francesco Bigazzi e Valentin Stepankov in uscita per Mondadori (pagg. 156, euro 20). Perché l'immagine degli ultimi giorni dell'Urss e di quelli immediatamente successivi, impressi nei nuovi documenti raccolti dal giornalista italiano, già autore con Valerio Riva del fondamentale Oro da Mosca, e dal primo procuratore della Federazione Russa dopo il crollo del gigante totalitario, mostrano un panorama di macerie impressionante: senza nulla di grandioso, e invece percorso da torme di criminali e lezzo di corruzione che soltanto i compartimenti stagni del regime avevano saputo fino all'ultimo dissimulare. Non bisogna pensare che il termine mafia sia metaforico: qui batte il cuore di tenebra dell'Urss, centro propulsore di una criminalità organizzata prima sotto le insegne della falce e martello e poi, strappate le insegne di partito, alleata dei malavitosi di tutto il mondo, da Cosa Nostra alla Yakuza giapponese, dalla Triade cinese alle famiglie di New York. I documenti mettono in luce la stretta continuità fra la gestione segreta del denaro statale al tempo del potere sovietico, il suo utilizzo all'estero sotto forma di finanziamento ai partiti fratelli - primo fra tutti il Pci - e il programma di sopravvivenza al crollo del sistema: una trama di conti segreti, tra cui l'ingegnoso quanto spregiudicato utilizzo di aziende partecipate dai partiti comunisti stranieri - di cui il sistema delle cooperative del Pci rappresentava un modello - e il possibile riciclaggio di quegli ingenti «contributi» da parte di organizzazioni criminali. E qui entra in campo il nome di Giovanni Falcone richiamato nel titolo: non solo nel suo ruolo simbolico di nemico numero uno della mafia italiana, assassinato a Capaci, ma anche in qualità di investigatore a tutto campo, teso a scoprire i segreti dei legami tra il Pci e il Pcus, in particolare quelli riguardanti i finanziamenti a Botteghe Oscure e le cosiddette «attività speciali» di Mosca all'estero. È Falcone che, durante una visita a Roma del collega russo nel maggio del fatale 1992, scopre un'affinità elettiva con Valentin Stepankov, al punto da programmare con lui un successivo viaggio a Mosca. Le loro strade erano fatte per incrociarsi: Falcone, rivela Stepankov, aveva tra l'altro il compito di accertare se, nell'ambito dei finanziamenti inviati dal Pcus al Pci, fosse stato istituito un canale per finanziare anche le Brigate rosse e la cosiddetta «Gladio rossa», un'organizzazione clandestina tesa al sovvertimento violento della democrazia in Italia. A sua volta, Stepankov si aspettava dal collega italiano un aiuto di fondamentale importanza per rintracciare il percorso dell'«oro da Mosca», volatilizzatosi proprio nei giorni immediatamente successivi al fallito golpe comunista contro la nascente democrazia. Stepankov era convinto che per portare a termine questo compito fosse intervenuta una cooperazione tra mafia italiana e «alcuni personaggi del Pci». Non il partito in quanto tale, piuttosto suoi singoli esponenti collusi con la criminalità organizzata. Per non perdere tempo, l'intrepido Stepankov inviò anche alla Procura di Roma tutta la documentazione, e una parte dell'istruttoria raccolta per il processo che doveva essere intentato agli autori del fallito golpe. Una simile coppia di ferro costituiva un pericolo mortale per la nomenklatura sovietica alleata di Cosa Nostra. Venne spezzata dai cinque quintali di tritolo fatti esplodere a Capaci il 23 maggio del 1992.Tutto, o quasi, oggi si conosce sull'identità degli esecutori. Ma l'attentato venne attuato con una tecnica militare così raffinata da far apparire subito la sua matrice quantomeno sospetta. E Stepankov, che se ne intende, non manca di farne notare l'effetto principale: le inchieste avviate con Falcone finirono su un binario morto. Aggiunge la sensazione che il collega italiano possa «essere stato danneggiato dalle attività» che stava conducendo al suo fianco. E conclude: gli attentatori hanno raggiunto «l'obiettivo di impedire il suo viaggio a Mosca».La collaborazione italo-russa, in realtà, continuò, ma il vento della politica stava cambiando. Lo stesso Stepankov, dopo aver sfidato il presidente Boris Eltsin condannando il bombardamento della sede dove si erano asserragliati i parlamentari ribelli della Duma, fu costretto a dimettersi. Fine della storia? Non del tutto, anche se l'«oro del Pcus» svanisce nel nulla, in un vorticoso valzer d'investimenti immobiliari, nascite e morti di società fittizie. Proprio come - rivelano i documenti - sognava a suo tempo il tesoriere del Pcus, Nikolaj Krucina. E l'insegnamento che se ne trae? Se dietro a ogni sistema totalitario si nasconde una piovra mafiosa, non basta tagliarne alcuni tentacoli per farla morire. Il diritto sovietico, fino alla caduta, si basava sul teorema Pashukanis: un reato si giudica principalmente secondo il grado di pericolosità per il regime. Il «ladro in legge» (in russo, vor v zakone) aveva poteri più grandi del padrino in Sicilia: come se avesse ricevuto una delega dallo Stato, controllava tutte le attività criminali e doveva rispondere solo ai capi dei servizi di sicurezza. Il bilancio del Pcus era per così dire in nero, sottratto senza controllo a quello ufficiale. E il suo «tesoro», nonché i beni dell'Urss rimasti all'estero - il ricchissimo patrimonio immobiliare sparso in tutto il mondo e i fondi clandestini che per decenni erano stati messi a disposizione non solo del Kgb, ma anche di altri servizi segreti militari e politici - diventarono la grande torta da spartire e proteggere a colpi di mitra e pistola Makarov. E, forse, anche di tritolo.

I soldi del Pcus e gli omicidi Falcone e Borsellino. Un libro torna sull'indagine che il magistrato ucciso a Capaci stava svolgendo sul denaro che da Mosca arrivava al Pci. Dell'inchiesta non si parlo più, scrive Paolo Guzzanti, Giovedì 12/11/2015, su "Il Giornale". «Chi ha ammazzato il povero Ivan?», titolava un giornale russo dando la notizia della strage di Capaci e della morte di Giovanni (Ivan in russo) Falcone avvenuta il 23 maggio del 1992. «Chi ha ammazzato il povero Ivan» è il verso di una filastrocca popolare russa simile a «Maramao perché sei morto?». Il significato era ironico: tutti avevano capito chi ha ammazzato il povero Ivan. E perché. Giovanni Falcone era molto popolare presso l'opinione pubblica russa ancora stordita dalla fine della dittatura comunista e dell'Unione Sovietica. Lo era diventato ancora di più quando aveva stretto un rapporto di ferro con il procuratore generale russo Valentin Stepankov. «Ivan» era così diventato per i russi non soltanto l'alleato, ma anche il maestro di Stepankov, autore del libro Il viaggio di Falcone a Mosca con Francesco Bigazzi (Mondadori, pagg. 156, euro 20) e già recensito su queste colonne da Dario Fertilio il 28 ottobre scorso. Il viaggio di Falcone a Mosca non ebbe mai luogo: la strage avvenne poche settimane prima della data concordata. Si realizzava così la cinica massima di Stalin: «Dove c'è uomo, c'è problema. Niente più uomo, niente più problema». Quando fu ucciso, Falcone non aveva più poteri da procuratore, confinato dietro la scrivania di Direttore degli affari penali in via Arenula a Roma. Francesco Cossiga mi raccontò che l'ambasciatore russo Anatolij Adamiscin era venuto a trovarlo agitatissimo. «Si può sapere a che gioco giocano gli italiani? Perché nessuno interviene?». Il presidente della Repubblica apprese così da Adamiscin che fra il 1991 e l'inizio del 1992, la Repubblica Russa ex Sovietica era stata dissanguata dall'esportazione del tesoro del Pcus, dei fondi segreti del Kgb e di molti patrimoni occulti della nomenklatura sovietica. «Adamiscin disse Cossiga parlò della più devastante operazione criminale-finanziaria di tutti i tempi». Secondo l'ambasciatore, il tesoro di Mosca era stato fatto affluire in Italia attraverso canali finanziari già usati per il trasferimento di «aiuti ai partiti fratelli» e alle loro aziende. Cossiga parlò con il presidente del Consiglio Giulio Andreotti, che era allora in corsa per il Quirinale, benché l'assassinio del suo proconsole siciliano Salvo Lima, il 12 marzo di quell'anno, l'avesse ormai azzoppato. Andreotti rispose: «Sì, bisogna fare qualcosa. Ma non sono io la persona adatta: se tiro in ballo il Pcus e il Kgb potrei solo irritare i comunisti, mentre i loro voti mi sono indispensabili. Ho un'idea: chiama Giovanni Falcone e chiedigli di dare una mano con discrezione. Gli fornirò la copertura diplomatica». Cossiga convocò così il giudice e gli fece la proposta che, se non era indecente, era almeno stravagante, visto che Falcone non aveva più il potere giudiziario di indagare: «Dobbiamo far capire ai russi che prendiamo sul serio il problema. Sono sicuri che dietro il trasferimento di fondi ci siano entità potenti che vanno oltre la vecchia filiera dei finanziamenti del Pcus al Pci». Falcone accettò e si gettò a capofitto nell'inchiesta che aveva a un capolinea Mosca e all'altro Palermo e Roma. Cercò Stepankov, che lo raggiunse a Roma. I due si piacquero molto. Claudio Martelli, che era stato ministro di Grazia e giustizia all'epoca della strage di Capaci, alla presentazione del libro Oro da Mosca di Valerio Riva e Francesco Bigazzi (Mondadori, 1999) - cui parteciparono lo stesso Valentin Stepankov e Giulio Andreotti - rievocò lo stato d'animo di Falcone: «Un giorno venne in ufficio da me. Era molto eccitato perché aveva avuto un'eccellente impressione di Stepankov (un uomo di prim'ordine) e poi per la materia evidentemente incandescente di cui si stava occupando». «Incandescente» è un aggettivo appropriato. Tre giorni dopo Capaci, il quotidiano russo Izvestia (Notizie, già organo dei soviet dal 1917) pubblicò un articolo subito ripreso dal Corriere della Sera in cui si leggeva che «l'omicidio del magistrato è probabilmente connesso con quel che avviene in Russia, visto che era stato incaricato di coordinare le indagini sul riciclaggio dei fondi del Pcus in Italia, su invito dell'ex presidente Cossiga». Falcone, scriveva Izvestia, «lavorava in coordinazione con la brigata speciale che si occupa della medesima indagine a Mosca sui fondi trafugati dal Pcus e portati all'estero prima del crollo del regime comunista». L'Italia, secondo Izvestia, «faceva parte del ristretto numero di Paesi in cui i soldi del partito e dello Stato sovietico scorrevano a fiumi: solo negli anni Settanta, sei milioni di dollari erano stati trasferiti annualmente dal Politburo come aiuto fraterno. La cosa più probabile è che i soldi del partito e dello Stato fossero pompati nelle strutture occulte italiane. L'Italia non è stata scelta a caso, visti gli investimenti del Partito comunista, le strutture della mafia molto sviluppate, la posizione di forza dei comunisti locali, i solidi contatti stabiliti da tempo: tutto ciò prometteva grandi profitti agli investitori. Già alla fine del 1991 il procuratore generale della Russia, Valentin Stepankov, aveva incontrato Falcone a Roma. E da allora i due si scrivevano costantemente, concordavano incontri di persona e pianificavano azioni comuni dei giudici italiani e russi...». Nello stesso articolo si sostiene che i miliardi trafugati e portati in Italia potessero essere riciclati soprattutto attraverso canali mafiosi. Dirà nel 1999 Stepankov alla presentazione del libro Oro da Mosca: «Ho avuto due incontri con Falcone. Gli ho raccontato dei metodi utilizzati per il trasferimento dei soldi in Italia e lui mi rispose che il presidente della Repubblica gli aveva chiesto di scoprire che fine facevano questi soldi. Quando sono tornato in Russia, lo invitai ufficialmente, ma dopo il telegramma di conferma, abbiamo saputo della sua tragica morte». La divisione dei compiti fra Stepankov e Falcone era chiara: il primo si occupava di indagare su quel che succedeva alla valuta in uscita e Falcone cercava i punti d'arrivo. Lo shock che investì il Parlamento italiano per la strage di Capaci produsse l'elezione accelerata di un presidente istituzionale, Oscar Luigi Scalfaro. Andreotti si era dimesso e gli era succeduto al governo Giuliano Amato, il quale, partecipando il 28 luglio alla trasmissione di Alberto La Volpe Lezioni di mafia, disse: «Una cosa è certa: Cosa Nostra non è soltanto italiana». E poi: «Non c'è più bisogno di infiltrare il Kgb, che forse infiltrava noi. Dobbiamo usare l'intelligence per avere più occhi ed orecchie dentro la mafia».

Paolo Cirino Pomicino pubblicò nel 2000 il libro Strettamente Riservato (Mondadori) in cui scrisse: «Giovanni Falcone avrebbe dovuto incontrare a Mosca il procuratore Valentin Stepankov, che indagava sull'uscita dalla Russia di somme ingenti di denaro nelle disponibilità del Pcus. Stepankov ha detto che dopo la morte di Falcone, nessuno gli ha mai più chiesto nulla. Come mai Falcone svolgeva indagini non più di sua competenza? Tutte le conoscenze che Falcone aveva sui flussi di denaro sporco passarono allora a Paolo Borsellino che, a sua volta, secondo l'annuncio dato da Scotti e Martelli in tv, avrebbe dovuto assumere la guida della Procura nazionale antimafia. Fu la sua condanna a morte. Due mesi dopo Borsellino saltò in aria alla stessa maniera di Falcone». Vincenzo Scotti era allora ministro dell'Interno. Il 18 giugno del 1992 (lo riferì la Repubblica) disse ai corrispondenti della stampa estera: «La decisione di uccidere Giovanni Falcone e l'organizzazione dell'attentato non sono stati soltanto opera della mafia siciliana». Il direttore dell'agenzia spagnola Efe, Nemesio Rodriguez, scrisse una lunga nota in cui riferiva che il ministro degli Interni italiano «si è detto convinto che l'assassinio di Falcone va molto al di là dei confini nazionali...». E poi: «La mafia non può essere considerata soltanto un problema italiano. È invece un problema internazionale perché internazionali sono i rapporti di Cosa Nostra, internazionali i suoi interessi e complicità, su scala internazionale le sue operazioni di riciclaggio». Lo storico Giancarlo Lehner, che è stato per anni mio compagno di banco alla Camera, mi raccontò un retroscena che definire inquietante è poco. Mi disse di aver progettato un libro sulla morte di Falcone e che la notizia era stata pubblicata da un settimanale. Giulio Andreotti gli telefonò: «Mi venga a trovare. Forse posso fornirle dei documenti». Lehner andò nello studio di piazza San Lorenzo in Lucina ed Andreotti gli disse di aver personalmente fornito a Falcone la copertura diplomatica per lavorare con Stepankov e la sua squadra di investigatori sul riciclaggio del tesoro sovietico in Italia: «Al ministero degli Esteri ci sono tutti i dispacci che davano la necessaria copertura diplomatica a Falcone. Posso farglieli avere come prova documentale di quel che cerca». Lehner ringraziò e attese. Ma Andreotti lo chiamò di nuovo nel suo studio: «Se posso darle un consiglio, lasci perdere il suo libro sulla morte di Falcone». Lehner era sbalordito. Andreotti spiegò: «Alla Farnesina, dove non si è mai perso neanche un francobollo, mi hanno detto che i documenti della missione di Falcone non si trovano più. È impossibile. Devo concludere che sono stati eliminati da una entità più forte di noi». Di questa vicenda parlammo insieme un giorno alla Camera Lehner, Andreotti ed io. Andreotti confermò con il suo sorriso enigmatico di chi preferirebbe cambiare discorso. Il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso disse il 27 ottobre 2009, davanti alla Commissione Antimafia: «Resta il sospetto che l'attentato non sia stato opera solo di Cosa nostra». Morto Falcone e ucciso Paolo Borsellino, che aveva ereditato l'inchiesta del suo amico, tutto si fermò. La memoria di quel che era successo fu rapidamente resettata e oggi pochi ricordano questi fatti. Nessuno ha scoperto, o voluto scoprire, a quanto ammontasse il tesoro sovietico arrivato in Italia e che molto probabilmente modificò la storia del nostro Paese. Stepankov ha confermato che l'inchiesta avviata con grande slancio fu abbandonata. Diventò obbligatorio da allora negare che la morte di Falcone e Borsellino fosse probabilmente collegata alla storia del tesoro russo inghiottito in Italia. Fu così scelta, per dare un senso alle stragi di Capaci e via D'Amelio, eseguite con una regia e con strumenti che non appartengono all'identità della mafia siciliana, la sacra versione semi-teologica di una mafia che si comporta come un anti-Stato e che quindi colpisce i «simboli» dello Stato, cosa che la mafia non si è mai sognata di fare. Resta dunque aperta la questione: chi ha deciso la morte del povero Ivan e poi di Paolo Borsellino, la cui agenda rossa sparì dalla scena del delitto?

CRAXI E LE INTERPRETAZIONI DELLA STORIA TRA MANETTARI E GARANTISTI.

"L'era di Craxi: in 16 anni dagli altari alla polvere. La battaglia per l'egemonia a sinistra: le vittorie, le sconfitte e la rovina di un politico", è l'interpretazione che dello statista ne dà "La Repubblica" il 19 gennaio 2000. E' durata più di 16 anni l'era Craxi: dal luglio del 1976, quando al comitato centrale riunito all'Hotel Midas spodestò Antonio De Martino dalla segreteria del Psi, al febbraio 1993, quando dovette cedere la mano sotto l'impeto delle inchieste su Tangentopoli. Anni cruciali nella vita del Paese, che iniziarono con il Pci al suo massimo storico, mentre il Psi era sull'orlo dell'estinzione; che rappresentarono il culmine dell'attacco terroristico al cuore dello Stato; che affidarono all'Italia un ruolo essenziale nell'ultima spallata all'Unione Sovietica, con il dispiegamento dei missili Cruise a Comiso. Ma sono stati anche gli anni che diedero per la prima volta un socialista alla guida del governo, che videro il premier italiano reagire contro un alleato storico come gli Usa. Gli anni della P2, ma anche dell'offensiva dello Stato contro i poteri criminali, a cominciare da Cosa Nostra, dopo decenni di colpevole tolleranza. Craxi di quella lunga stagione è stato l'emblema, pagando il prezzo più alto quando è rovinosamente terminata. Uomo "totus politicus", Craxi fece da ragazzo, negli anni '50, quella che Amendola chiamava una scelta di vita". Anni durissimi per chi stava a sinistra, ma forse ancor di più per chi, come lui, a sinistra era considerato un destro. Nenniano, entrò nel comitato centrale del partito al Congresso di Venezia, nel '57, che vide il leader storico del socialismo italiano sonoramente battuto dai morandiani coalizzati con i bassiani e la sinistra di Sandro Pertini. Aveva 23 anni (essendo nato a Milano il 24 febbraio del '34). Nel '68, Craxi venne eletto per la prima volta deputato, ed entrò nella segreteria nazionale del Psi, come uno dei vice segretari prima di Giacomo Mancini e poi di Francesco De Martino. In quegli anni, per conto del partito, iniziò un'intensa attività di politica estera, soprattutto nei confronti dei partiti fratelli aderenti all'Internazionale socialista. Nacque così una passione che non si appannò più. Nel 1976, eletto segretario del partito in seguito ad una sorta di congiura di palazzo ai danni di De Martino, la sua sembrò la classica soluzione di transizione. Non era forte nel partito, e i leader socialisti più importanti pensarono a torto di poterlo levare di mezzo alla prima occasione. Il Pci sembrava in un'ascesa inarrestabile. Molti pensavano che il Psi non avesse più ragione d'esistere. "Primum vivere" fu il suo orgoglioso slogan. E cominciò la battaglia per svecchiare il partito e per l'egemonia a sinistra. Il comunista Enrico Berlinguer aveva lanciato il "compromesso storico"? E lui al congresso di Torino, alleato con il lombardiano Claudio Signorile, replicò con la strategia dell'alternativa. Durante i tremendi 55 giorni di Moro, la Dc e il Pci si attestavano sulla linea della "fermezza"? Il Psi divenne l'alfiere della linea trattativista. E fu sempre nel '78 che il Psi riuscì a mandare per la prima volta un suo uomo al Quirinale: Sandro Pertini. E anche il partito fu rivoltato come un calzino, seguendo una stella polare: svecchiare il socialismo italiano, e riscattare il Psi da una sudditanza culturale e ideologica nei confronti del "grande partito comunista italiano", come si diceva in quegli anni. E fu infatti nel '78 che Craxi avviò una feroce polemica ideologica con il Pci. Berlinguer operava il suo "strappo" dall'Urss e dalla tradizione comunista ortodossa proponendo una terza via, e Craxi gli rispose duro buttando a mare non solo Lenin, ma anche Marx, ed esaltando il pensiero di Pierre Joseph Proudon. Riuscì a far cambiare anche il vecchio simbolo del suo partito (falce e martello su libro e sole nascente) con un garofano rosso. Al congresso di Verona (1984), che si ricorda anche per la salve di fischi che accolse Berlinguer un paio di settimane prima della sua morte (anni dopo, Craxi, non facile alle autocritiche, disse di essersi pentito per quell'episodio), era già presidente del Consiglio da un anno. Ciò era stato possibile per la sconfitta subita dalla Dc nelle elezioni dell'83. La Borsa perse l'8,6 per cento per un risultato dello Scudo Crociato che sembrò tragico: il 32,9% dei voti, 225 deputati e 120 senatori. Il 4 agosto Craxi formò il suo primo governo, e a fargli da braccio destro prese con sè il futuro premier Giuliano Amato. I problemi non si fecero attendere. La grana maggiore fu da subito la decisione di accogliere in Italia i Cruise statunitensi. Ma la prova di forza decisiva per gli equilibri interni fu senza dubbio il referendum dell'85 sui punti di scala mobile promosso dal Pci. Craxi, infatti, non cercò di evitare lo scontro, e vinse quella partita che all'inizio era sembrata senza speranza. A Settembre dovette affrontare la più grave crisi diplomatica della sua carriera, quando ordinò di impedire ai marines americani di ripartire da Sigonella, in Sicilia, con i terroristi palestinesi, tra i quali Abu Abbas, responsabili del sequestro dell'Achille Lauro. Craxi rimase a Palazzo Chigi fino al 17 aprile '87, conquistando un record: la permanenza alla guida del governo più lunga della storia dell'Italia repubblicana. Tornato al partito, Craxi riprese di lena la sua politica: contendere alla Dc il suo primato, e rilanciare l'offensiva contro il Pci per creare un solo grande partito socialdemocratico. Nel biennio '89-'90 gli sembrò essere venuto il momento della definitiva rivincita socialista in Italia. Craxi andò a vedere con i suoi occhi a Berlino sgretolarsi quel muro che aveva diviso in due l'Europa, e si tolse la soddisfazione di dargli anche lui due bei colpi con martello e scalpello. E volle poi seguire di persona il XX congresso del Pci di Rimini, e si vedeva con quanto interesse assistesse alla nascita del nuovo partito voluto da Occhetto, il Pds. E' in questa cornice che Craxi lanciò la parola d'ordine dell'"Unità socialista". Nel febbraio '89 aveva già assorbito nel Psi una componente dello Psdi, e mai come nei tumultuosi mesi che seguirono a Craxi dovette sembrare più vicino l'obiettivo di una grande sinistra europea. Per questo, se si deve ora indicare una data del primo scricchiolio, forse è bene partire da prima dell'inizio di Tangentopoli. Fu alla conferenza stampa del 7 novembre 1990, convocata da Craxi per ribadire che lui dell'esistenza di Gladio non aveva in effetti mai saputo nulla, che i giornalisti ebbero l'impressione di non trovarsi più di fronte il solito "Bokassa" (questo il nomignolo con cui lo chiamavano dentro e fuori il partito). Apparve già come un leader sulla difensiva. Tutto ciò avveniva ben prima di quel 17 febbraio 1992, quando venne arrestato Mario Chiesa, il socialista presidente del Pio Albergo Trivulzio, che diede il via a Mani Pulite. Tra le due date, ci fu quello che lui stesso poi riconobbe come un errore politico: l'aver invitato gli italiani ad andare al mare e a non votare per il referendum di Mario Segni sulla preferenza unica. Arrestato Chiesa, Craxi pensò di poter archiviare tutto con un epiteto: "Mariuolo". Ma l'indagine di Tangentopoli non si sarebbe arrestata al primo nome. Iniziò il declino, sotto i colpi degli avvisi di garanzia, ma ci volle un anno prima che il vecchio leone decidesse di gettare la spugna e lasciare la guida del partito. Un processo che si accompagnò al disgregarsi del gruppo dirigente, con Claudio Martelli sicuro di poter salvare il partito contrapponendosi a Craxi, e con quest'ultimo determinato a non far finire il bastone di comando nelle mani dell'ex delfino, che infatti fu poi preso da Giorgio Benvenuto. Subito dopo Craxi si preoccupò di sottrarsi alla magistratura, ai suoi occhi impegnata in un'offensiva politica, in una "falsa rivoluzione". A convincerlo dovette certo contribuire la manifestazione davanti all'Hotel Raphael, che lo costrinse ad allontanarsi in gran fretta sotto un fitto lancio di monetine. Si era tolto la soddisfazione di ottenere un No del Parlamento, dopo un appassionato discorso alla Camera, ad una richiesta di autorizzazione dei pm di Milano. Ma la via dell' "esilio" gli dovette apparire come l'unica soluzione. E si rifugiò ad Hammamet, sempre più malato di quel diabete che già nel '90 aveva fatto temere per la sua vita. E da lì ha proseguito la sua battaglia fino all'ultimo a colpi di fax, chiedendo continuamente che si cercasse la verità sul finanziamento illecito dei partiti, rifiutandosi di passare alla storia, lui che aveva dedicato la vita alla causa del socialismo, come il capo di una banda di criminali.

La grande bugia di Sigonella, affranca da par suo Gianni Barbacetto su "Il Fatto Quotidiano" del 10 gennaio 2010. Sigonella: è la parola magica che il fan di Bettino Craxi introduce nella discussione, quando sta per soccombere a causa dell’elenco delle tangenti, delle condanne, dei conti all’estero; e poi degli incontri con Licio Gelli, delle spartizioni di potere con Giulio Andreotti, del vertiginoso incremento del debito pubblico…Sigonella: dimostrazione che il segretario del Psi era uno statista, capace di scelte coraggiose e autonome anche nei confronti dell’alleato Usa. Ma a Sigonella andò davvero come ci hanno detto? Un documento americano su cui recentemente è stato tolto il segreto ci permette oggi di raccontare una storia molto diversa. Tutto comincia il 7 ottobre 1985, quando quattro terroristi del Fronte per la Liberazione della Palestina s’impossessano, al largo delle coste egiziane, della nave italiana Achille Lauro che sta compiendo una crociera nel Mediterraneo. Il commando chiede la liberazione di una cinquantina di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. In caso contrario, minaccia di uccidere i passeggeri e di far esplodere la nave. Iniziano frenetiche consultazioni militari e diplomatiche. Le trattative sembrano arrivare a una conclusione positiva quando Abu Abbas, il mediatore indicato dal leader dell’Olp Yasser Arafat, convince i dirottatori ad abbandonare la nave, in cambio dell’immunità e di un salvacondotto per la Tunisia.Ma si viene a sapere che nel frattempo i terroristi a bordo avevano ucciso e gettato in mare una persona: Leon Klinghoffer, un cittadino americano di religione ebraica, disabile bloccato in carrozzella. A questo punto gli Stati Uniti intervengono. L’11 ottobre i caccia americani intercettano l’aereo egiziano che sta portando in Tunisia i dirottatori e lo costringono ad atterrare nella base militare di Sigonella, in Sicilia. Venti carabinieri e trenta avieri dell’Aeronautica militare circondano l’aereo. Sono a loro volta subito circondati da una cinquantina di militari americani della Delta Force. Poi affluiscono alla base i rinforzi dei carabinieri, che circondano gli americani. Il presidente Usa Ronald Reagan telefona a Craxi nella notte, chiedendogli la consegna immediata dei palestinesi. Craxi mantiene fermo il suo rifiuto, finché gli americani ritirano i loro uomini. Cinque mesi dopo. Certo a Sigonella il comportamento del governo italiano nei confronti degli americani appare diverso da quello tenuto dopo il rapimento, nel 2003 a Milano, dell’imam Abu Omar da parte di uomini della Cia. Messi sotto processo per sequestro di persona insieme ai vertici del Sismi, nel 2009 sono salvati dal segreto di Stato apposto da Silvio Berlusconi. Ma ora sappiamo che, nel 1985, anche Craxi tratta subito con gli americani e fa un immediato atto di riparazione, concedendo segretamente a Reagan la base di Sigonella per attaccare la Libia di Gheddafi. Solo cinque mesi dopo la tanto osannata dimostrazione di orgoglio nazionale, infatti, nel marzo 1986 gli F111 Usa, provenienti dalla Gran Bretagna e ufficialmente diretti alle basi inglesi di Cipro, decollano dalla base siciliana per attaccare e bombardare il golfo della Sirte. La concessione avviene in segreto: Craxi permette l’uso della base, ma chiede discrezione e in pubblico critica aspramente l’azione militare. Lo ha scoperto una giornalista italiana, Sofia Basso, analizzando materiale Usa recentemente declassificato. Si è imbattuta in una nota confidenziale scritta a Reagan nella primavera 1986 dall’allora segretario di Stato americano, George Shultz, uscita dagli archivi segreti del Dipartimento di Stato. L’appunto di Shultz spiega che «i rapporti con Craxi erano eccellenti», l’episodio dell’Achille Lauro era ormai «cosa del passato» e che «su base confidenziale, l’Italia aveva permesso l’uso di Sigonella per operazioni di supporto in relazione all’esercitazione nel golfo della Sirte». A una sola condizione: la riservatezza. È il marzo 1986. La Libia è accusata di essere dietro gli attentati compiuti in varie parti del mondo da terroristi arabi. Reagan, senza consultare né il Congresso, né i partner europei, il 22 marzo manda navi e aerei nel golfo della Sirte, che Gheddafi considera acque territoriali libiche. Si scatena una battaglia. Gli Usa colpiscono due navi libiche e una base missilistica. Le cancellerie occidentali si dividono: Gran Bretagna e Germania applaudono la dimostrazione di forza, il resto dell’Europa esprime forti dubbi. Il più duro nelle critiche agli Usa è proprio Craxi il quale, in una seduta straordinaria del Parlamento, proclama che non è con ripetute "esercitazioni militari" in un’area già scossa da forti tensioni che si può difendere il diritto internazionale. L’uso della forza, anzi, non potrà che minare la stabilità della regione e rafforzare il ruolo di Gheddafi nel mondo arabo. Deve essere chiaro che l’Italia non vuole «guerre alle soglie di casa». Fin qui la versione ufficiale. Il memorandum di Shultz rivela invece la verità segreta. Spiega che Craxi vuole farsi perdonare l’episodio dell’Achille Lauro, punta a essere considerato partner privilegiato degli Usa nelle relazioni tra Est e Ovest e a essere ammesso nel gruppo dei cinque Paesi industrializzati. Per questo, in pubblico strilla contro gli americani ma, sottobanco, dà loro il via libera. Purché non lo si dica in giro. Da Il Fatto Quotidiano del 10 gennaio.

Da par suo non poteva mancare l’intervento di Marco Travaglio: Craxi al netto delle tangenti (Passaparola, 18 gennaio 2010). Buongiorno a tutti, siamo nel pieno delle celebrazioni di Bettino Craxi, mi sono un po’ stufato di ricordare le tangenti che prendeva, anche perché l’abbiamo già fatto in queste ultime settimane e poi ci viene autorevolmente raccomandato e stiamo aspettando tutti con ansia il messaggio del Capo dello Stato, per celebrare degnamente il decennale del latitante, che bisogna andare oltre le vicende giudiziarie e che bisogna dare un giudizio politico, perché naturalmente un uomo politico non può essere ridotto soltanto alle condanne e ai processi. E’ vero, Craxi non ha avuto soltanto condanne e processi, Craxi è stato anche altro: ha fatto politica, da questo punto di vista vale sempre la vecchia battuta di Grillo, che nella Prima Repubblica di solito prendevi un politico e, dopo un po’, diventava un ladro, mentre nella seconda di solito prendi un ladro e dopo un po’ diventa un politico. Certamente Craxi quando ha iniziato a fare politica non l’ha fatta per rubare, ha cominciato a rubare mentre faceva politica e su Il Fatto Quotidiano ho pubblicato un’intervista del 93 di Fabrizio Cicchitto, che non era craxiano, era socialista lombardiano, ma fu messo da parte nel Partito Socialista dopo l’81, quando si scoprì che era iscritto alla Loggia P2. Cicchitto è un raro caso di socialista espulso da Craxi, messo ai margini da Craxi per indegnità morale e per la sua iscrizione alla P2 e infatti, rancoroso nei confronti di Craxi per essere stato sbattuto fuori per dieci anni e recuperato soltanto nel 92, Cicchitto nel 93 diede un’intervista - pensate un po’ - a Augusto Minzolini, l’attuale direttore del TG1, che all’epoca era cronista de La Stampa e, in quell’intervista, Craxi veniva dipinto da Cicchitto come poco meno o poco più di un malfattore. Se la trovo, ho qui Il Fatto di questi ultimi giorni, un piccolo brano ve lo devo regalare, perché? Perché Cicchitto ricorda come Craxi scalò il Partito Socialista quando, alla fine degli anni 70, sembrava che non ce la dovesse fare a prendere il potere e poi invece ce la fece per pochissimi voti e, disse Cicchitto, quei pochissimi voti se li era comprati, aveva praticamente lanciato un’Opa sul Partito Socialista con quali soldi? Eh, con i soldi del conto protezione, ossia con i soldi che gli aveva pagato il Banco Ambrosiano, grazie ai buoni uffici di Licio Gelli e di Roberto Calvi. Conseguentemente, se andate sul sito antefatto, o ilfattoquotidiano.it la trovate integrale quell’intervista. Cicchitto disse, “quando scoprimmo che Craxi aveva questo ben di Dio messo a disposizione sul conto svizzero, il famoso conto protezione, da Licio Gelli e Roberto Calvi beh, capimmo che non ce l’avremmo fatta”. Dice anche che Pietro Nenni gli mandò una lettera nella quale gli intimava di dimettersi, a Craxi, ma che quella lettera fu fatta sparire: lo dico, perché chi sta a Roma vede in questi giorni la città tappezzata di manifesti in cui si vede Craxi giovane e Nenni vecchio con il bastone. Il rapporto tra i due era appunto che il vecchio patriarca, sdegnato nei confronti di Craxi, aveva mandato una lettera per intimargli di dimettersi, lettera che poi è stata fatta sparire, ma in quel partito l’abitudine a fare sparire molte cose era diffusa. Però ci dicono che non ci sono soltanto le tangenti, c’è anche la politica, c’è anche altro e conseguentemente, per dare un giudizio complessivo su Craxi, bisogna valutare il suo ruolo politico: lo scrive ancora questa mattina L’Ambasciatore Romano in uno dei suoi pezzi solitamente ambigui, dove dà un colpo al cerchio e uno alla botte e penso che possiamo benissimo parlare solo esclusivamente, oggi, della politica di Craxi, per vedere se ha portato bene o ha portato male all’Italia: in fondo stiamo parlando di un signore che ha imperversato nella politica italiana per quasi venti anni come leader del partito, come ago della bilancia dall’alto del suo 12 o 14% della politica italiana, come Presidente del Consiglio tra l’83 e l’87 e come parlamentare fino al 1994, quando non si ricandidò perché sepolto sotto le vicende giudiziarie e invece scappò all’estero. Vediamoli, dunque, questi grandi meriti politici che ha avuto Craxi al netto delle tangenti, perché è un po’ ricattatorio questo modo di giudicare e di dire che non bisogna pensare soltanto alle tangenti, ma anche alla politica: intanto, se uno prende tangenti è un tangentaro e poi è chiaro che anche il mostro di Firenze credo abbia offerto qualche brioches a qualche bambino povero, o abbia aiutato qualche vecchina a attraversare la strada, eppure rimane sempre il mostro di Firenze! In ogni caso cediamo pure a questo ricatto e parliamo dei grandi meriti politici che, secondo alcuni, ne farebbero un grande statista, paragonato addirittura a De Michelis o a De Gasperi, o paragonato ieri sera da Claudio Martelli a qualcosa di meglio rispetto a Berlinguer e dal Ministro Sacconi a un genio praticamente, a un numero uno della politica italiana. Credo che, stringi stringi, le uniche due cose positive che personalmente riesco a intravedere in quei quasi venti anni di leadership nazionale Craxi le abbia fatte quando si è opposto al nucleare e ha patrocinato il referendum contro il nucleare e, in parte, quando ha dato un colpo all’inflazione stroncando, smantellando la scala mobile. Sul secondo punto il fine giustificava i mezzi forse, visto che avevamo un’inflazione più vicina al 20% che al 10%, ma non dimentichiamo che stroncare la scala mobile voleva dire sganciare lo stipendio, il salario dei lavoratori dipendenti dal costo del lavoro e quindi, naturalmente, hanno perso di potere d’acquisto gli stipendi dei lavoratori, tanto per cambiare si è deciso di far pagare ai più poveri i disastri della finanza pubblica, che non erano colpa loro, per dare uno scrollone ai sindacati, che sicuramente avevano delle grosse responsabilità. Quanto al nucleare, non so se avete notato, ma tutti i fans di Craxi di oggi se la dimenticano quella faccenda del nucleare, del no dei socialisti al nucleare, che poi portò al referendum che fu vinto dai nemici del nucleare e infatti oggi tutti i fans di Craxi sono per il nucleare e sorvolano sul fatto che Craxi era contro. Al di là di questo, francamente non vedo nessun motivo per parlare di meriti politici, al netto delle tangenti: cominciamo dal debito pubblico. Per fortuna, sia pure nascosto in fondo a una pagina, a pagina 17 de Il Corriere della Sera di giovedì, Salvatore Bragantini, economista molto in gamba, molto esperto, ci ricorda che cosa ha fatto Craxi per il debito pubblico e dice “il caso Grecia ora tiene banco, ma è solo l’inizio, tutti i Paesi dell’Eurozone a alto debito - si fa più presto a dire chi non c’è - sono condizionati dai vincoli di Maastricht, svuotare i quali vorrebbe dire silurare l’Euro. Non è loro preclusa solo la leva della politica monetaria, anche lo spazio per quella fiscale si fa impervio, non c’è una lira, i soldi (pochi) vengono spessi per pagare gli interessi sul debito e quindi non c’è trippa per tagliare le tasse. Si può giostrare solo a parità di gettito e la manovra è limitata dalle norme dell’Unione Europea, per esempio per l’Iva. In questo frangente, cosa fare in concreto per restare un grande Paese, senza farsi pian piano relegare nella serie inferiore? Un’opinione pubblica disinformata potrebbe reagire prendendosela con l’Europa, mentre in realtà ce la dobbiamo prendere con noi stessi e, soprattutto, con chi oggi celebra Craxi.” E ricorda, Bragantini, che “il risanamento morale, utile in sé, darebbe anche un robusto contributo a quello economico”, perché l’immoralità pubblica, la corruzione pubblica che porta aumenti di spesa pubblica sono, in realtà, all’origine del boom del nostro debito punto di riferimento, che non è sempre stato alle stelle: ha cominciato a andare alle stelle a partire dal 1980, cioè da quando imperò sull’Italia per dodici anni il famoso Caf  (Craxi, Andreotti, Forlani). Se ci fosse ancora una classe dirigente degna del nome, anziché assistere in un silenzio forse non imbarazzato, ma certo imbarazzante alla rivalutazione di Bettino Craxi, questa classe dirigente ricorderebbe al Sindaco di Milano, che vuole dedicargli una via o un parco, alcuni fatti stranoti nelle metropoli straniere che ama frequentare la signora Moratti. Lasciamo pure stare i gravi reati per cui Craxi è stato condannato e che paiono divenuti trascurabili, c’è molto di più: sotto la guida politica sua e di De Mita, che oggi non a caso ne canta le gesta, il nostro debito pubblico è volato dal 60 al 120% del Pil, in dodici anni è raddoppiato il rapporto tra debito e prodotto interno lordo; di qui il macigno che tutt’ora grava sulle spalle del Paese e ne frena lo sviluppo, sapete che quel debito lo paghiamo con 80 miliardi di Euro all’anno di soli interessi. Nell’éscalation del debito ebbe il suo bel peso l’aumento dei costi delle opere pubbliche dovuto alle tangenti, scoperte grazie a Mani Pulite: quei costi, in seguito alle indagini, crollarono di botto e chi allora accusò il colpo ce lo restituisce con gli interessi. Nel 1992, quando crollò la Prima Repubblica sotto i colpi delle tangenti e poi si travestì da Seconda Repubblica grazie a quel grande gattopardo che è Berlusconi, un chilometro di metropolitana a Milano costava 192 miliardi, nello stesso periodo a Amburgo un chilometro di metropolitana costava 45 miliardi, meno di un quarto. In quel periodo il passante ferroviario di Milano costava 100 miliardi a chilometro e è stato realizzato in dodici anni; nello stesso periodo il passante ferroviario di Zurigo è costato la metà, 50 miliardi a chilometro, e ha richiesto la metà del tempo per i cantieri (sette anni, anziché dodici). E’ così che nasce il boom del debito pubblico che, nell’80, era il 60% del Pil, nell’83 era già il 70% del Pil, nell’83 Craxi diventa Presidente del Consiglio, ci rimane quattro anni, è il governo più lungo della Prima Repubblica, in quei quattro anni il rapporto tra debito e Pil passa dal 70 al 92% e, in termini liquidi, il debito pubblico passa da 400 e qualcosa mila miliardi a un milione di miliardi in quattro anni, gli anni del governo Craxi. Dopodiché, negli anni dei governi Goria e De Mita, il rapporto debito /Pil balza ulteriormente dal 92 al 118%, che è il valore che ha praticamente oggi, perché abbiamo avuto qualche anno di risanamento grazie alle politiche del centrosinistra, soprattutto dei Ministri Ciampi e Padoa Schioppa e poi abbiamo avuto invece lo sfondamento del centrodestra che, guarda caso, ha affidato l’economia nelle mani degli stessi che collaboravano con Craxi ai tempi in cui veniva scavato il grande buco del debito pubblico: oggi la nostra economia è nei mani dei Tremonti, dei Brunetta e dei Sacconi, cioè degli stessi consulenti economici di Craxi e De Michelis, che all’epoca stavano scavando quel gigantesco buco che ancora non siamo riusciti a riempire. “Craxi politicamente ebbe ragione su diversi punti: per esempio, sulla scala mobile e, chi era privo di paraocchi ideologici lo vide subito”, scrive ancora Bragantini, “ma non uscì di scena solo per i reati: soprattutto perché ci stava trascinando nell’abisso. Non era il solo, ma la sua riabilitazione, oltre a reiterare il teorema per cui la magistratura rossa dà la caccia ai politici, sancisce anche ufficialmente l’inanità del tentativo di sfuggire a ruberie e malgestione, è questa la cosa più grave e dà il senso di un Paese che ha smarrito con la memoria la bussola dell’interesse generale. Tutti quelli che nelle aziende esportatrici si dannano a recuperare la competitività perduta dovrebbero pensarci bene, prima di avallare con il silenzio la restaurazione. Se poi Milano dovrà davvero scegliere una via da dedicare a Craxi, cambiamo nome a quella oggi intitolata Giorgio Ambrosoli: daremmo icasticamente l’idea di come ci siamo ridotti e del futuro che ci stiamo preparando”, scrive il grande Bragantini, seminascosto in fondo a pagina 17 de Il Corriere della Sera. Vediamo altri meriti dello statista Craxi: ricorderete, per esempio, le partecipazioni statali, erano le imprese dello Stato, ce ne era una in particolare che si chiamava Sme e perdeva migliaia di miliardi ogni anno per produrre panettoni e pomodori pelati di Stato. Era la grande Finanziaria alimentare dell’IRI, che conteneva nella sua pancia i marchi di Motta, Alemagna, Cirio e era gestita dai partiti, quindi era gestita con i piedi e noi, ogni anno, ripianavamo i buchi della Sme: ecco perché Prodi saggiamente, nel 1984, decide di privatizzarla, la mette sul mercato, chiede se c’è qualche privato disposto a prendersi quel carrozzone puzzolente e maleodorante. Ebbene, si fa avanti la Buitoni, unica offerente, la Buitoni di De Benedetti: Craxi per ragioni politiche, ossia perché odiava De Benedetti, decide di bloccare la privatizzazione della Sme, incaricando Berlusconi, Barilla e Ferrero di, obtorto collo, presentare una controfferta rispetto a quella della Buitoni, per altro fuori tempo massimo, in modo da mandare a monte il preaccordo che la Buitoni ha stipulato con l’IRI. Risultato: va tutto a catafascio, la Sme rimane nelle partecipazioni statali e gli italiani per anni hanno continuato a ripianare migliaia di miliardi di debiti a quell’azienda pluridecotta, che Prodi saggiamente aveva trovato a chi affidare per liberare lo Stato da quel bubbone purulento. Questo sarebbe il modernizzatore, uno che non ha mai privatizzato neanche un canile: io non sono un fanatico delle privatizzazioni, ci sono cose che debbono rimanere pubbliche, ma i panettoni di Stato e i pomodori pelati forse potevano essere privatizzati e gestiti meglio! Craxi si opposte e perché si oppose? Perché le partecipazioni statali erano delle aziende che venivano gestite dagli uomini dei partiti, la DC e il PSI e i partiti usavano le aziende pubbliche come vacche da mungere, le depredavano per rubare, venivano finanziati da aziende pubbliche anche se era vietato dalla legge che essi stessi avevano approvato nel 74: quella del finanziamento pubblico dei partiti, che consentiva ai partiti di ricevere contributi da aziende private, ma non da aziende pubbliche. E invece Craxi usava le partecipazioni statali come se fossero il cortile di casa sua: ci metteva i suoi uomini, il famoso Di Donna, i famosi Cagliari, Bitetto, Necci e poi ciucciava i soldi, questa è la ragione per cui alimentò l’impresa pubblica anche laddove non se ne sentiva il bisogno, perché rubavano i soldi pubblici dalle aziende pubbliche. Pensate alla RAI, pensate a che cosa era la RAI nel periodo della lottizzazione più feroce dei partiti: si dirà “ c’è anche adesso”, sì, ma non è una buona ragione per dire che era buono quello che facevano allora o per dire che, dato che si fa male adesso, allora va bene tutto, la RAI ha cominciato a diventare - e ne sa qualcosa Beppe Grillo, tra l’altro - una protesi dei partiti proprio in quegli anni, quando tra l’altro non c’erano più neanche grandi partiti che segnalavano grandi personalità, come era accaduto nel passato in televisione, ma c’erano partiti che segnalavano mezze calzette, le loro amanti, i loro amici, i loro portaborse etc., per ottenere in cambio quello che avete visto ancora l’altra sera da Giovanni Minoli. La stessa cosa accadde nel settore televisivo privato: se oggi non abbiamo un libero mercato nella televisione privata, se oggi non abbiamo un antitrust nella televisione privata, se oggi abbiamo una mostruosa concentrazione nelle mani del signor Berlusconi, lo dobbiamo a Bettino Craxi, che cominciò a salvarlo con i due famosi decreti dell’84, quando i pretori tentarono di fare rispettare la legge a Berlusconi e Craxi neutralizzò le ordinanze dei pretori con due decreti chiamati Berlusconi e poi, nel 1990, quando perdemmo la grande opportunità di avere una legge antitrust sulla televisione, perché la Legge Mammì alla fine diventò una fotografia del trust esistente, tre reti aveva Berlusconi e tre reti potè tenersi vita natural durante. A chi lo dobbiamo tutto questo? A Craxi, il grande modernizzatore che ha creato il più mostruoso monopolio, soltanto perché il monopolista era il suo amichetto che gli pagava 21 miliardi, o forse di più, 21 sono stati trovati, estero su estero. Ecco perché la corruzione non può essere disgiunta dall’azione politica, perché queste scelte politiche venivano fatte da uno che poi si faceva pagare: ecco perché il corrotto non è staccabile dall’attività politica, perché la corruzione richiede qualcosa in cambio e quel qualcosa in cambio erano le politiche che hanno ridotto l’Italia a un Paese pseudo sovietico, per quanto riguarda la televisione, visto che abbiamo il potere politico che controlla la televisione e questo è cominciato grazie a Craxi, il berlusconismo lo dobbiamo a Bettino Craxi. La stessa cosa è accaduta nell’editoria quando, raccomandato da Craxi, Berlusconi si impossessò della Mondadori e si impossessò della Mondadori grazie a magistrati romani che facevano parte dell’harem di Cesare Previti e da dove viene Cesare Previti? Dal Partito Socialista, era Consigliere di amministrazione di Lalenia, ai tempi in cui Lalenia era un feudo socialista, tutto si tiene il giudice Squillante, il giudice che aveva 9 miliardi sui conti svizzeri, il giudice corrotto da Previti, anche se poi l’ha fatta franca grazie alla prescrizione, ebbene il giudice Squillante era il consigliere giuridico di Craxi a Palazzo Chigi, un giudice con i conti all’estero comunicanti con i conti di Previti e della Fininvest. Ecco perché a Roma i processi non si facevano mai e Craxi fu beccato dalla Procura di Milano: perché a Roma i giudici erano capitanati - capo dei G.I.P. - da Renato Squillante, consulente giuridico di Craxi, pappa e ciccia con Craxi, ecco perché la corruzione non può essere disgiunta dalla politica! Pensate soltanto alle politiche sulla droga che ha fatto Craxi: la prima legge proibizionista in materia di droghe è proprio la legge che fu fatta, la famosa Iervolino /Vassalli, che fu imposta da Craxi, che poi era legato ai peggiori personaggi delle comunità, da Don Gelmini a Muccioli, vengono tutti di lì, dal craxismo. La penalizzazione delle droghe anche leggere, il proibizionismo più retrivo, pensate all’imbarcata di extraparlamentari di sinistra che fece il Partito Socialista, che si importò i Boato, i Liguori, i Sofri, tutti socialisti erano diventati quando lotta continua chiuse i battenti! Pensate alla politica istituzionale di Craxi, che lanciò per primo il presidenzialismo, l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, perché naturalmente la voleva disegnare sulle proprie caratteristiche, voleva diventare Presidente della Repubblica con il plebiscito, è lui che ha cominciato a picconare la Costituzione, è lui che per primo, nel 1980, insieme a Giulano Amato, suo degno consulente su queste questioni, ha lanciato la proposta della grande riforma: che cosa era la grande riforma? Era la trasformazione dell’Italia in una Repubblica presidenziale craxiana, è lui che ha cominciato a diffondere il virus dell’ostilità ai valori costituzionali e è lui il primo politico importante del governo a attaccare in Parlamento la magistratura. Oggi ci sembra normale che i politici attacchino la magistratura, non fanno niente altro: all’epoca non si usava, i democristiani se ne guardavano bene, chi aveva fatto parte della Costituente e aveva mantenuto quella tradizione si guardava bene dal delegittimare gli altri poteri, mica per ragioni di onestà di impeccabilità, per ragioni di autoconservazione. Se un potere comincia a distruggere gli altri, gli altri distruggeranno quel potere lì, il potere non può delegittimarsi, le istituzioni tra loro non si possono delegittimare, Craxi fu il primo a rompere il galateo istituzionale e costituzionale e quando cominciò a attaccare i magistrati? Quando fu arrestato per reati valutari nei primi anni 80 Roberto Calvi, il responsabile del più grave crack della storia d’Europa prima del crack Parmalat, ovviamente, il crack dell’Ambrosiano, che mandò sul lastrico migliaia, migliaia e migliaia di famiglie e Craxi, invece di ringraziare i magistrati, che avevano beccato il bancarottiere Calvi, il quale aveva depredato le casse dell’Ambrosiano per compiacere la mafia, la P2 e tutto quel giro losco che c’era intorno, Craxi attaccò i giudici in Parlamento, dicendo che rovinavano l’economia! Cioè l’economia, che era stata appena rovinata dal più grave crack mai visto nella storia d’Italia, veniva rovinata dai giudici che avevano scoperto il crack e il colpevole del crack: questo fu un attacco violentissimo, che segnò una rottura, molti che prima votavano socialista non votarono più socialista, quando sentirono che Craxi difendeva Calvi e poi si scoprì perché Craxi difendeva Calvi, perché in Svizzera, sul conto protezione, Calvi gli aveva appoggiato, grazie ai buoni ufficio di Licio Gelli, una mazzettona di una decina di miliardi dei primi anni 80, una cifra spropositata! Ecco perché ancora una volta la corruzione non può essere disgiunta dall’attività politica: perché Craxi difende un figuro come Calvi? Perché prendeva i soldi da Calvi! La gestione interna del partito, l’insofferenza del dissenso, il partito cesarista, il partito mussoliniano nella Repubblica italiana l’ha inventato Craxi, il quale espelleva gli oppositori e reprimeva il dissenso interno: nel 1981 ha cacciato gente onesta e perbene, oltre che grossi intellettuali come Codignola, Bassanini, Enriquez Agnoletti, Leon, Veltri e altri dirigenti chiamandoli “ piccoli trafficanti della politica”: pensate, Craxi che dà del piccolo trafficante della politica a gente onesta, accusandola di intelligenza con il nemico! Non si sa chi fosse il nemico, perché li ha cacciati? Perché avevano sollevato la questione morale, la stessa questione morale che aveva sollevato Berlinguer dopo che, nelle liste della P2, erano stati trovati molti socialisti craxiani e lombardiani, nel caso di Cicchitto. Pensate ai faccendieri che si aggiravano nell’éntourage di Craxi, ora la figlia pietosamente dice “mio padre si fidò delle persone sbagliate, che tradirono la sua fiducia”: certo, era uno sprovveduto, un ingenuo! E’ stato subornato, era circondato da un’associazione per delinquere e non se ne era accorto, l’ingenuo Craxi! Faccio dei nomi, eh: Gelli, Calvi, Tradati, Troielli, Gianlombardo, De Toma, Bitetto, Mac Di Palmestein, Cusani, Larini, Fiorini, Parretti, Cagliari, Zampini, Biffi Gentili, Mario Chiesa, Maurizio Raggio, Francesco Cardella. Fate qualche ricerchina su Internet con questi nomi e vedrete che pedigree viene fuori di ciascuno di essi! Erano tutti nell’éntourage di Craxi, ne fosse mancato uno! Uno dice “va beh, Gesù Cristo è stato tradito da Giuda”, sì, ma uno su dodici era, qui trovarne uno su venti che non fosse un mascalzone! Senza ricordare, naturalmente, che cosa era diventata l’assemblea socialista, quest’organismo pletorico che si riuniva nei palasport e dove svettavano riccastri, pervénus da mazze, mignotte: sono i famosi ladri e ballerine di cui parlava Formica, che adesso evidentemente se ne è dimenticato, tant’è che ieri pare che abbia baciato addirittura la scrivania dove Craxi compilava le sue veline ricattatorie e mandava in fax in Italia per rovinare la reputazione di quelli che diceva che l’avevano tradito. Pensate che Craxi riuscì persino a candidare al Parlamento Gerri Scotti e Massimo Boldi: voi direte “Massimo Boldi quello lì?”, esattamente quello lì! Questa era la nuova classe dirigente dello statista modernizzatore, Massimo Boldi, detto anche Max Cipollino, questa è la classe dirigente del grande statista anticipatore di Tony Blair, come ieri sera ci ha detto Sacconi! Per non parlare naturalmente di Giuliano Ferrara, Budget Bozzo etc., insomma non si è fatto mancare niente, tutte persone altamente equilibrate! Prendiamo la politica estera: per quanto riguarda la politica estera Craxi, che viene dipinto come un fedele atlantista, uno anticomunista, uno ancorato all’occidente e quindi quello che aveva fatto la scelta giusta tra l’est e l’ovest, mentre l’Unione Sovietica voleva colpire etc., gli euromissili e tutta la retorica che si fa sugli euromissili, Craxi è quello che fa entrare nel Parlamento italiano Yasser Arafat con la pistola nel cinturone, non lo disarmano neanche, non lo perquisiscono neanche prima di farlo entrare in Parlamento e, quando qualcuno protesta, lui dice che Arafat è come Mazzini e Garibaldi, Arafat come Mazzini e Garibaldi! Il capo di un’organizzazione che, in quel periodo, era ancora un’organizzazione terroristica, che faceva gli attentati negli aeroporti e sequestrava le navi, come poi successe qualche anno dopo con l’Achille Lauro, che non aveva ancora neanche riconosciuto il diritto all’esistenza dello Stato di Israele, questo sarebbe quello che le aveva azzeccate tutte! Quando l’Inghilterra andrò a riprendersi le isole Faulklands, che i generali argentini, i dittatori fascisti militari argentini erano andati a occupare per distrarre l’opinione pubblica dalla crisi economica dell’Argentina e la Thatcher andò a riprendersi le Faulklands, indovinate un po’ con chi si schierò l’Italia, grazie al governo Craxi: con la democrazia inglese, o con i dittatori argentini? L’Italia fu l’unico Paese in Europa alleato ai generali argentini, quelli che sterminavano gli oppositori lanciandoli dagli aerei in quota, quelli che fecero i desapareçidos, noi eravamo alleati con quella gentaglia lì, grazie a Craxi che aveva visto giusto! Noi ci siamo alleati con un tiranno lurido, sanguinario come Si Agbar, il tiranno della Somalia, missioni continue dei vari Pilliteri, Boniver, Francesco Forte, che andavano a portare denaro pubblico a questo delinquente: con la scusa della cooperazione con il terzo mondo abbiamo foraggiato per anni questo tiranno sanguinario. Quando poi è stata rapita la nave Achille Lauro, adesso voi sentite raccontare che ci fu l’episodio di Sigonella, dove Craxi gliela fece vedere agli americani: per l’amor del cielo, fargliela vedere agli americani quando sbagliano è sacrosanto, ma non è quello che è successo a Sigonella; tutti dimenticano che cosa è successo a Sigonella, raccontano solo la prima parte della storia, un commando di terroristi dell’Olp, capitanato da Yasser Arafat - la frangia era uno delle organizzazioni che componevano l’Olp e era il Fronte Popolare di Abu Abbas - sequestrò questa nave nel Mediterraneo, dopodiché ci fu una trattativa con la mediazione di Mubarak, Presidente egiziano e, alla fine, i terroristi decisero di riconsegnare la nave e gli ostaggi in cambio della impunità per il loro capo, questo fu l’accordo segreto, il capo era Abu Abbas, che si era spacciato per un mediatore e poi si scoprì che era il capo della banda e che, per di più, questa banda, che aveva garantito di non aver ucciso nessuno, aveva ucciso un ebreo paralitico, Lion Klingoffer, che se ne stava in carrozzella e che fu preso, assassinato e buttato giù dalla nave, tant’è che sulla chiglia dell’Achille Lauro c’era una bava di sangue, era il sangue di questo anziano ebreo che era stato ucciso in quanto ebreo e in quanto americano. Una cosa oscena che, quando la si scoprì, doveva evidentemente imporre al governo italiano di prendere l’intero commando, da Abu Abbas a tutti gli esecutori materiali, e assicurarlo alla giustizia italiana, perché quel delitto era avvenuto su una nave italiana e quindi le navi italiane sono territorio italiano anche quando navigano in acque internazionali. Reagan, con una cow boyata, come la chiamò Montanelli, tentò di prelevare il commando nella base americana di Sigonella, in territorio italiano e di portare i terroristi per processarli in America, perché avevano ammazzato un americano. Giustamente Craxi disse “ no, li processiamo noi”: fin lì va bene, il problema è quello che succede dopo, ossia il gioco delle trae carte, per cui una volta assicurato agli americani che i terroristi li processavamo noi, Abu Abbas è stato preso, caricato su un aereo dei servizi segreti italiani, mandato a Belgrado dal maresciallo Tito e da Belgrado è stato regalato in omaggio al regime di Saddam Hussein, che ha ospitato Abu Abbas a Baghdad fino al giorno in cui c’è stata la guerra nel 2003, quando Abu Abbas è stato trovato morto, non si è ben capito in quali circostanze. Questo abbiamo fatto: abbiamo fatto scappare il capo dei terroristi che avevano assassinato un ebreo paralitico inerme, altro che il gesto coraggioso di Sigonella! Abbiamo fatto scappare un terrorista e l’abbiamo restituito al suo legittimo proprietario, che era Saddam Hussein e tutti quelli che oggi celebrano Craxi sono quelli che hanno voluto che l’Italia partecipasse alla guerra in Iraq e sono tutti quelli che dicono di essere contrari al terrorismo, però difendono un signore che appoggiava e salvava i terroristi assassini! Pensate alla gestione del caso Moro: nel caso Moro fu presa una linea sacrosanta da parte delle autorità italiane, ossia non trattare con le brigate rosse, perché se tratti una volta i brigatisti sapranno che, ogni volta che faranno un ostaggio, lo Stato si calerà le brache e quindi non c’è più Stato, se lo Stato tratta con i brigatisti e infatti la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista decisero che non bisognava trattare, grazie al governo Andreotti e all’oppositore. anzi, scusate, in quel momento era il governo sostenuto dalle astensioni del Partito Comunista e quindi, grazie all’astenuto PC di Berlinguer, la linea di Zaccagnini, segretario della DC, e di Berlinguer, segretario del PC , nonché di Ugo Lamalfa. Sapete chi è l’unico segretario dei partiti di maggioranza che invece voleva trattare con le brigate rosse? Era Craxi e oggi, tutti quelli che dicono “non si tratta con i terroristi” etc. etc., celebrano un signore che rivendicava la trattativa con le brigate rosse, cioè liberare dei terroristi in cambio della vita di Moro! Una cosa che avrebbe messo definitivamente in ginocchio lo Stato italiano e avrebbe segnato la vittoria politica delle brigate rosse. Concludo con quello che faceva Craxi nei confronti della stampa libera e degli intellettuali: diciamo che è stato il politico - prima che arrivassero Berlusconi e anche D’Alema, in un certo qual modo - più feroce nei confronti della stampa libera e più insofferente nei confronti delle critiche: “intellettuale dei miei stivali” disse, quando Galli Della Loggia si permise una critica e, quando Alberto Cavallari, direttore de Il Corriere della Sera, scrisse che lui tra i ladri e le guardie stava dalla parte delle guardie - Cavallari era il direttore de Il Corriere della Sera che aveva bonificato il corriere dopo la P2 - Craxi lo denunciò, una cosa che fece epoca, perché all’epoca non si usava intimidire i giornalisti con continue denunce come si fa adesso, lo denunciò e lo fece condannare a un risarcimento di 500 milioni. Dopodiché purtroppo Cavallari non ebbe la possibilità di essere riabilitato, cioè di vedere le prove di ciò che lui aveva scritto su Il Corriere della Sera a metà degli anni 80, perché un giorno arrivò il momento in cui si scoprì che veramente Craxi era un ladro, soltanto che lui nel frattempo aveva dovuto pagare il risarcimento, era stato condannato e era morto. Ecco perché oggi forse bisognerebbe dedicare una via di Milano a Cavallari e non a Craxi, perché è stato un grande giornalista che aveva visto giusto, come tanti altri avevano visto giusto su Craxi, prima che arrivassero le prove nelle mani della magistratura. Passate parola e continuate a seguire Il Fatto Quotidiano, che questa settimana lancerà probabilmente una specie di referendum tra i lettori per scegliere, invece, gli esempi positivi: li prenderemo sicuramente tra quelli che avete visto nel calendario dei santi laici, che è stato distribuito anche quest’anno insieme con il blog di Beppe Grillo. Passate parola, buona settimana. 

Bettino per sempre. Anna Craxi parla di Bettino: "la parabola discendente cominciò con Sigonella. Gli americani non gli perdonarono lo sgarbo. Subito dopo cominciò la persecuzione." Scrive sabato 20 dicembre 2014 Franco Bucarelli su “Visto”. «Sono trascorsi quindici anni dalla sua morte, ma a me sembra di vederlo ancora qui, seduto in questa poltrona, quasi sommerso da pile di giornali, scritti, fax e documenti di ogni genere, ammonticchiati su questo tavolo, il suo preferito». Anna Maria Moncini Craxi, 80 anni portati con classe anche dopo una fastidiosa flebite, parla con voce pacata, ricordando suo marito Bettino Craxi, morto a 66 anni, il 19 gennaio 2000, qui in Tunisia, dove si era rifugiato per sfuggire all’arresto, poco prima di subire una condanna a diversi anni di carcere nel periodo di Tangentopoli. Il caldo sole della Tunisia illumina il meraviglioso giardino di villa Craxi, che non ha alcun nome all’esterno. Ma basta chiedere a qualunque tassista di Hammamet dove si trova, e vi portano direttamente. La signora Anna non ama concedere interviste, perché preferisce un dignitoso silenzio. Ma io sono stato un vecchio amico del marito, sin da quando, giovane funzionario del suo partito, venne a lavorare a Roma, dove c’incontravamo all’Osteria dell’Orso. Per questo sua moglie ha concesso a Visto questo eccezionale colloquio. «Mio marito non ha mai rubato nulla a nessuno», continua Anna Craxi, «e quei soldi li ha impiegati per la vita del partito. La prova evidente è che qui viveva soltanto con la sua pensione di parlamentare. Senza nessun deposito milionario in banche straniere, come altri personaggi della politica italiana. Spesso passava il suo tempo dipingendo vasi tricolori. Oppure chiacchierando con la gente umile, come i pescatori di Hammamet».

Signora Anna, suo marito però, direttamente o indirettamente, è stato pienamente coinvolto nell’inchiesta nota come Tangentopoli.

«Certo, ma era il capo di un partito che, come tutti gli altri partiti facevano all’epoca, si manteneva con finanziamenti leciti e anche irregolari, a cui hanno concorso i maggiori gruppi economici ed industriali d’Italia, pubblici e privati. Il Pci, Partito comunista italiano, accettava persino di essere finanziato dal governo dell’Urss, e nessun giudice ha mai osato mettere bocca. Lei ha un’idea di cosa costasse la vita di un partito? C’era da organizzare convegni, periodici, pagare la struttura organizzativa, i manifesti, i viaggi dei funzionari e cento altre spese ingenti, che servivano a un’attiva presenza democratica, nella vita del Paese».

Quando è cominciata la parabola discendente di Bettino Craxi, presidente del consiglio italiano?

«Credo l’11 ottobre 1985, quando aerei da guerra americani dirottarono un velivolo egiziano, con a bordo alcuni palestinesi, sulla base di Sigonella in Sicilia, per catturare due ricercati arabi. Mio marito si oppose con molta durezza e non consegnò i due latitanti. Fu un grande e inaspettato gesto di dignità nazionale, e un grosso schiaffo per il presidente Ronald Reagan. Poco dopo iniziò la persecuzione politica anche ad opera della nostra magistratura, che voleva scardinare il sistema politico italiano».

Signora Craxi, sono stato a visitare la tomba di suo marito. Alì, il guardiano del cimitero, mi ha detto che in questi quindici anni sono venuti migliaia di italiani, sia per ammirazione verso l’uomo di Stato, sia per semplice curiosità. Sono stati riempiti ventisei libri pieni di commenti lusinghieri, ma anche di qualche invettiva, scritti su quelle pagine sistemate accanto al bianco loculo. Perché le sue spoglie non riposano in Italia?

«Perché Bettino volle espressamente rimanere qui, in questa terra ospitale, dove ancora oggi la famiglia Craxi è circondata dall’affetto di questa gente semplice, alla quale mio marito ha fatto anche molto bene. In occasione dell’anniversario dei quindici anni dalla morte, i miei figli, Stefania e Bobo, porteranno qui, ad Hammamet, uno splendido busto del padre in bronzo, che le autorità tunisine vogliono sistemare sulla strada che gli hanno intitolato. Al ristorante Achour, dove spesso mangiavamo, c’è ancora una sua foto, segno evidente della sua popolarità in terra tunisina. Bettino mi disse: “Non consentirò ai miei nemici di riscrivere la storia”. E io sono certo che il tempo galantuomo restituirà alla figura di quest’uomo politico la sua giusta statura. Il suo funerale avvenne di notte, la salma trasportata su un furgone Transit e sepolta nella sabbia, sotto le mura dell’antica Hammamet, a fronte mare. Io non tornerò più in Italia, e gli ho promesso di riposare per sempre accanto a lui, un italiano che non piegò mai il capo dinanzi alle ingiustizie ed alla prepotenza straniera».

Signora Craxi, le confesso che mi ha colpito molto un passo del libro scritto da suo marito dove, venti anni prima, profetizzava quello che è l’Europa oggi. Infatti scriveva: “Sarà in preda alla disoccupazione e alla conflittualità sociale, mentre il governo italiano sarà costretto a rinegoziare i trattati, perché diventati obsoleti e pericolosi”. Parole che, indubbiamente, denotano una notevole visione politica.

«È vero. Mio marito pensava sempre al futuro, perché si aggrappava alla speranza di poter tornare nella sua patria da uomo libero. Aveva dedicato al nostro Paese tutta la sua vita, sin dalla più giovane età, e non ha mai accettato di essere trattato come un delinquente comune, considerando quanto gli era accaduto come una vera infamia. Mi diceva di non conoscere la felicità, perché la sua vita era stata una corsa ad ostacoli e non si era mai fermato, per dire a se stesso: adesso sono un uomo felice».

Mani Pulite, sfasciare l’Italia per venderla ai suoi carnefici, scrive “Libre idee”. Mani Pulite? Un “golpe” giudiziario per radere al ruolo la Prima Repubblica, corrotta fin che si vuole ma non disposta a demolire la sovranità nazionale. «La vecchia dirigenza Dc-Psi, che per anni, nel bene e nel male, aveva governato l’Italia – scrive Gianni Petrosillo – non avrebbe mai ceduto alle pressioni esterne tese ad ottenere la liquidazione degli asset strategici e patrimoniali del Belpaese, per una sua completa subordinazione a (pre)potenze straniere, in atto di ricollocarsi sullo scacchiere geopolitico dopo l’implosione dell’Unione Sovietica». Tutto ciò «verrà fatto dopo, dai residuati della Prima Repubblica, sospettamente scampati alla mannaia giudiziaria, pur avendo ricoperto ruoli e funzioni di primo piano per una lunga fase, e da nuovi partiti frettolosamente nati sulle macerie di quelli vecchi o appena riverniciati di falso moralismo necessario a mimetizzarsi tra scandali e persecuzioni». Un magistrato come Tiziana Maiolo denunciò le “stranezze” del pool di Milano, «il quale, incredibilmente, insabbiò le indagini sui comunisti e mise i bastoni tra le ruote a quei magistrati che avrebbero voluto fare maggiore chiarezza anche da quella parte». La stessa Maiolo, scrive Petrosillo su “Conflitti e Strategie”, «riprende la tesi del complotto della Cia nell’affaire Tangentopoli», anche se «non arriva a comprendere come gli americani potessero fidarsi dei comunisti, cresciuti sotto l’ala di Mosca, per raggiungere i loro scopi». Forse alla Maiolo erano sfuggiti «importanti spostamenti di campo che il Pci iniziò ad operare sin dalla fine degli anni ’60 e che diventarono sempre più evidenti con il compromesso storico, le dichiarazioni berlingueriane favorevoli alla Nato e i viaggi d’oltreoceano di Giorgio Napolitano». L’onda lunga del “tradimento” si completerà in seguito alla caduta dell’Urss con la svolta occhettiana della Bolognina, che porterà la “ditta” a cambiare apertamente nome e ragione sociale. «E’ vero che la gioiosa macchina da guerra del Pds s’ingripperà sul più bello, mentre dava l’assalto al potere», ma in effetti anche il complotto meglio pianificato può incontrare un inghippo: in quel caso l’inghippo fu Berlusconi, «catalizzatore del bacino elettorale dei partiti distrutti dai giudici». Quando il pool di Milano «procedeva come un carro armato e tutti aspettavano che finalmente andasse a colpire anche il Pci-Pds, che andasse a fondo, che facesse una pulizia totale», grande stupore destarono quindi le parole del procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, che in un’intervista rilasciata al quotidiano “L’Unità” il 26 maggio 1993 annunciò che a grandi linee l’inchiesta su Tangentopoli era finita, dopo aver colpito Dc e Psi e risparmiato il Pci-Pds. Fu lo stesso D’Ambrosio, aggiunge Petrosillo, a battersi per dimostrare che Primo Greganti, il faccendiere del Pci-Pds che aveva prelevato denaro in Svizzera dal “Conto Gabbietta”, «rubava per sé e non per il partito». Un paio di anni dopo, quando il quadro politico era radicalmente cambiato e non esistevano più la Dc né il Psi (ma esisteva ancora l’ex partito di Occhetto), il ministro di giustizia del governo Dini, Filippo Mancuso, avvierà un’ispezione nei confronti del pool di Milano, e la questione Greganti salterà di nuovo fuori. Dov’erano finiti quei soldi? «Nelle casse del Pci-Pds». Ma il pool di Milano cessò di indagare. E a Tiziana Parenti, la giovane magistrata che aveva osato sfidare i vertici della Quercia, l’inchiesta fu tolta. «Ci sarà un altro magistrato la cui inchiesta sul Pci-Pds si infrangerà su un muro di omertà complici e di “aiutini”», continua Petrosillo. Si tratta del procuratore di Venezia, Carlo Nordio, cui a un certo punto furono trasferiti anche atti provenienti da Milano. «L’interrogatorio di Luigi Carnevale, che chiamava in causa esplicitamente Stefanini, Occhetto e D’Alema, non arrivò mai. Si disse che era stata una “dimenticanza”. E così l’inchiesta di Venezia, come tante altre che si snodarono in tutta Italia, si risolse con le condanne dei pesci piccoli». E che dire di quel miliardo di lire che Raul Gardini, patron di Enimont, avrebbe consegnato a Botteghe Oscure, su cui esistono diverse testimonianze e per il quale Sergio Cusani fu condannato a sei anni di carcere? «Sparito nelle stanze buie della grande federazione del Pci-Pds. Nessun magistrato, né Di Pietro né in seguito i diversi tribunali individuarono in quali mani il denaro fosse finito. Per D’Alema e Occhetto non è mai valso il principio del “non poteva non sapere” o della “responsabilità oggettiva” con cui fu colpito Bettino Craxi. Eppure c’era stato il racconto (indiretto) di Sergio Cusani che aveva riferito di aver consegnato un miliardo nelle mani di Achille Occhetto». Il tribunale che condannò Cusani scrisse: «Gardini si è recato di persona nella sede del Pci portando con sé 1 miliardo di lire. Il destinatario non era quindi semplicemente una persona, ma quella forza di opposizione che aveva la possibilità di risolvere il grosso problema che assillava Enimont e il fatto così accertato è stato dunque esattamente qualificato come illecito finanziamento di un partito politico». Non si ricordano urla e strepiti del pubblico ministero Antonio Di Pietro (anche se chiederà timidamente di interrogare D’Alema), che dopo quel processo gettò la toga, scrive Petrosillo. Occhetto e D’Alema non furono neppure sentiti e il miliardo passò alla storia come finanziamento illegale “a un partito”. Francesco Misiani, pm romano di sinistra aderente alla corrente più radicale di “Magistratura democratica”, ha spiegato in un libro quale fosse il suo stato d’animo quando scoprì che il Pci-Pds, «lungi dal rappresentare quella “diversità” su cui tanto si era appassionato Enrico Berlinguer, era invece assolutamente omologo (un terzo, un terzo, un terzo) ai partiti di governo e, proprio come aveva denunciato l’inascoltato Craxi, si era sempre finanziato in modo illecito o illegale». Anzi, avendo anche ricevuto finanziamenti dall’Unione Sovietica, come racconterà con franchezza in un altro libro Gianni Cervetti, aveva persino maggiore disponibilità finanziaria. Un politico di Forza Italia come Giuliano Urbani racconta: «Nel 1994, quando ero ministro del primo governo Berlusconi, fui avvicinato da alcuni professori miei amici, che erano legati alla Cia, i quali mi misero in guardia da Di Pietro, mi suggerirono di diffidare della persona. Mi dissero con certezza che Di Pietro nella costruzione di tangentopoli era stato aiutato dai servizi segreti americani». Secondo i “contatti” di Urbani, il desiderio di vendetta degli Stati Uniti nei confronti di Craxi, Spadolini e Andreotti per i fatti di Sigonella ebbe diversi strumenti operativi, tra cui appunto l’uso di Tonino Di Pietro. «Il quale in effetti arrivò, distrusse e se ne andò. Su mandato dei servizi segreti americani». Il racconto di Urbani, proprio perché proviene da un liberale che arrivò nei palazzi del potere “dopo”, e quindi non aveva nessun motivo di revanchismo nei confronti del Pm di Mani Pulite, sembra convincente: «Quegli amici mi hanno avvicinato per avvertirmi della doppiezza dell’uomo, che era stato protagonista di una pagina oscura. E mi hanno proprio cercato loro, appositamente». Vengono con facilità alla memoria quelle trattative, poi saltate, per far entrare Di Pietro nel governo Berlusconi. E i dubbi aumentano. «Sappiamo come è cominciata, ma non sappiamo perché», osserva Petrosillo. «Perché una colossale retata giudiziaria a strascico abbia rivoluzionato la fisionomia politica del paese». C’è chi ha sposato la teoria del complotto internazionale, scrive Petrosillo. Sostenuta da molti esponenti governativi prestigiosi della Prima Repubblica (Craxi in primis), questa ipotesi parte dal presupposto che la magistratura fino al 1992 ignorò il finanziamento illecito dei partiti. Poi, con l’arresto di Mario Chiesa, il caso esplose e si trasformò in un “processo al sistema”. «Qualcuno, si dice, aveva interesse ad annientare l’intera classe politica al governo e sostituirla con un’altra. Chi? Perché?». Francesco Cossiga ha fatto parte di coloro che hanno creduto al complotto internazionale. In una delle sue ultime interviste, attribuì alla Cia un ruolo importante sull’inizio di Tangentopoli, così come sulle “disgrazie” di Craxi e Andreotti. In quel periodo alla Casa Bianca c’erano amministrazioni del Partito democratico, «le più interventiste e implacabili». Un altro boss della Prima Repubblica, l’ex ministro democristiano Paolo Cirino Pomicino, sostiene che il “complotto” iniziò proprio nel 1992, la data fatidica di Mani Pulite. In quei giorni il capo della Cia, James Woolsey, spiegò che l’amministrazione Clinton aveva disposto un vero spionaggio industriale, e a Milano sbarcò l’agenzia privata di investigazioni Kroll. Gli Usa raccolsero corposi dossier sul finanziamento illecito. E il capo della Cia fece sapere al suo governo che c’era la possibilità di far scoppiare scandali, se fosse servito. Nell’analisi di Cirino Pomicino, aggiunge Petrosillo, c’è anche la Gran Bretagna, dove «la Thatcher aveva perso la battaglia sulla moneta unica e gli americani iniziarono una politica aggressiva per difendere il dollaro», oltre che una certa attenzione ai problemi avuti da Chirac in Francia e Kohl in Germania. In quel momento «sarebbe stata scelta l’Italia, come luogo dove far scoppiare lo scandalo». Il punto debole, conclude Petrosillo, è la strategia che gli americani avrebbero avuto sul “dopo”. «Chi assaltò il Palazzo d’inverno, chi prese la Bastiglia aveva un progetto per il giorno dopo la rivoluzione. I servizi segreti americani avevano dunque un accordo con Occhetto? Oppure con quei “poteri forti” che cercavano la discontinuità e che non ameranno mai Berlusconi, trattato sempre come un Maradona, geniaccio arrivato d’improvviso dalle favelas?». La risposta è nei fatti, dal Britannia in poi, col clamoroso precedente del divorzio tra il Tesoro e Bankitalia, quando la banca centrale era retta da Ciampi. Lo ha spiegato molto bene Nino Galloni, consulente di Andreotti alla vigilia del Trattato di Maastricht: l’Italia fu deliberatamente azzoppata, con la complicità delle sue élite tecnocratiche in quota al futuro centrosinistra, per sabotare il sistema produttivo nazionale, come chiedeva la Germania per aderire all’euro e gestire il disegno strategico di indebolimento generale dell’Europa. Il resto è cronaca, e si chiama crisi. Mani Pulite? Un “golpe” giudiziario per radere al ruolo la Prima Repubblica, corrotta fin che si vuole ma non disposta a demolire la sovranità nazionale. «La vecchia dirigenza Dc-Psi, che per anni, nel bene e nel male, aveva governato l’Italia – scrive Gianni Petrosillo – non avrebbe mai ceduto alle pressioni esterne tese ad ottenere la liquidazione degli asset strategici e patrimoniali del Belpaese, per una sua completa subordinazione a (pre)potenze straniere, in atto di ricollocarsi sullo scacchiere geopolitico dopo l’implosione dell’Unione Sovietica». Tutto ciò «verrà fatto dopo, dai residuati della Prima Repubblica, sospettamente scampati alla mannaia giudiziaria, pur avendo ricoperto ruoli e funzioni di primo piano per una lunga fase, e da nuovi partiti frettolosamente nati sulle macerie di quelli vecchi o appena riverniciati di falso moralismo necessario a mimetizzarsi tra scandali e persecuzioni». Un magistrato come Tiziana Maiolo denunciò le “stranezze” del pool di Milano, «il quale, incredibilmente, insabbiò le indagini sui comunisti e mise i bastoni tra le ruote a quei magistrati che avrebbero voluto fare maggiore chiarezza anche da quella parte». La stessa Maiolo, scrive Petrosillo su “Conflitti e Strategie”, «riprende la tesi del complotto della Cia nell’affaire Tangentopoli», anche se «non arriva a comprendere come gli americani potessero fidarsi dei comunisti, cresciuti sotto l’ala di Mosca, per raggiungere i loro scopi». Forse alla Maiolo erano sfuggiti «importanti spostamenti di campo che il Pci iniziò ad operare sin dalla fine degli anni ’60 e che diventarono sempre più evidenti con il compromesso storico, le dichiarazioni berlingueriane favorevoli alla Nato e i viaggi d’oltreoceano di Giorgio Napolitano». L’onda lunga del “tradimento” si completerà in seguito alla caduta dell’Urss con la svolta occhettiana della Bolognina, che porterà la “ditta” a cambiare apertamente nome e ragione sociale. «E’ vero che la gioiosa macchina da guerra del Pds s’ingripperà sul più bello, mentre dava l’assalto al potere», ma in effetti anche il complotto meglio pianificato può incontrare un inghippo: in quel caso l’inghippo fu Berlusconi, «catalizzatore del bacino elettorale dei partiti distrutti dai giudici». Quando il pool di Milano «procedeva come un carro armato e tutti aspettavano che finalmente andasse a colpire anche il Pci-Pds, che andasse a fondo, che facesse una pulizia totale», grande stupore destarono quindi le parole del procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, che in un’intervista rilasciata al quotidiano “L’Unità” il 26 maggio 1993 annunciò che a grandi linee l’inchiesta su Tangentopoli era finita, dopo aver colpito Dc e Psi e risparmiato il Pci-Pds. Fu lo stesso D’Ambrosio, aggiunge Petrosillo, a battersi per dimostrare che Primo Greganti, il faccendiere del Pci-Pds che aveva prelevato denaro in Svizzera dal “Conto Gabbietta”, «rubava per sé e non per il partito». Un paio di anni dopo, quando il quadro politico era radicalmente cambiato e non esistevano più la Dc né il Psi (ma esisteva ancora l’ex partito di Occhetto), il ministro di giustizia del governo Dini, Filippo Mancuso, avvierà un’ispezione nei confronti del pool di Milano, e la questione Greganti salterà di nuovo fuori. Dov’erano finiti quei soldi? «Nelle casse del Pci-Pds». Ma il pool di Milano cessò di indagare. E a Tiziana Parenti, la giovane magistrata che aveva osato sfidare i vertici della Quercia, l’inchiesta fu tolta. «Ci sarà un altro magistrato la cui inchiesta sul Pci-Pds si infrangerà su un muro di omertà complici e di “aiutini”», continua Petrosillo. Si tratta del procuratore di Venezia, Carlo Nordio, cui a un certo punto furono trasferiti anche atti provenienti da Milano. «L’interrogatorio di Luigi Carnevale, che chiamava in causa esplicitamente Stefanini, Occhetto e D’Alema, non arrivò mai. Si disse che era stata una “dimenticanza”. E così l’inchiesta di Venezia, come tante altre che si snodarono in tutta Italia, si risolse con le condanne dei pesci piccoli». E che dire di quel miliardo di lire che Raul Gardini, patron di Enimont, avrebbe consegnato a Botteghe Oscure, su cui esistono diverse testimonianze e per il quale Sergio Cusani fu condannato a sei anni di carcere? «Sparito nelle stanze buie della grande federazione del Pci-Pds. Nessun magistrato, né Di Pietro né in seguito i diversi tribunali individuarono in quali mani il denaro fosse finito. Per D’Alema e Occhetto non è mai valso il principio del “non poteva non sapere” o della “responsabilità oggettiva” con cui fu colpito Bettino Craxi. Eppure c’era stato il racconto (indiretto) di Sergio Cusani che aveva riferito di aver consegnato un miliardo nelle mani di Achille Occhetto». Il tribunale che condannò Cusani scrisse: «Gardini si è recato di persona nella sede del Pci portando con sé 1 miliardo di lire. Il destinatario non era quindi semplicemente una persona, ma quella forza di opposizione che aveva la possibilità di risolvere il grosso problema che assillava Enimont e il fatto così accertato è stato dunque esattamente qualificato come illecito finanziamento di un partito politico». Non si ricordano urla e strepiti del pubblico ministero Antonio Di Pietro (anche se chiederà timidamente di interrogare D’Alema), che dopo quel processo gettò la toga, scrive Petrosillo. Occhetto e D’Alema non furono neppure sentiti e il miliardo passò alla storia come finanziamento illegale “a un partito”. Francesco Misiani, pm romano di sinistra aderente alla corrente più radicale di “Magistratura democratica”, ha spiegato in un libro quale fosse il suo stato d’animo quando scoprì che il Pci-Pds, «lungi dal rappresentare quella “diversità” su cui tanto si era appassionato Enrico Berlinguer, era invece assolutamente omologo (un terzo, un terzo, un terzo) ai partiti di governo e, proprio come aveva denunciato l’inascoltato Craxi, si era sempre finanziato in modo illecito o illegale». Anzi, avendo anche ricevuto finanziamenti dall’Unione Sovietica, come racconterà con franchezza in un altro libro Gianni Cervetti, aveva persino maggiore disponibilità finanziaria. Un politico di Forza Italia come Giuliano Urbani racconta: «Nel 1994, quando ero ministro del primo governo Berlusconi, fui avvicinato da alcuni professori miei amici, che erano legati alla Cia, i quali mi misero in guardia da Di Pietro, mi suggerirono di diffidare della persona. Mi dissero con certezza che Di Pietro nella costruzione di tangentopoli era stato aiutato dai servizi segreti americani». Secondo i “contatti” di Urbani, il desiderio di vendetta degli Stati Uniti nei confronti di Craxi, Spadolini e Andreotti per i fatti di Sigonella ebbe diversi strumenti operativi, tra cui appunto l’uso di Tonino Di Pietro. «Il quale in effetti arrivò, distrusse e se ne andò. Su mandato dei servizi segreti americani». Il racconto di Urbani, proprio perché proviene da un liberale che arrivò nei palazzi del potere “dopo”, e quindi non aveva nessun motivo di revanchismo nei confronti del Pm di Mani Pulite, sembra convincente: «Quegli amici mi hanno avvicinato per avvertirmi della doppiezza dell’uomo, che era stato protagonista di una pagina oscura. E mi hanno proprio cercato loro, appositamente». Vengono con facilità alla memoria quelle trattative, poi saltate, per far entrare Di Pietro nel governo Berlusconi. E i dubbi aumentano. «Sappiamo come è cominciata, ma non sappiamo perché», osserva Petrosillo. «Perché una colossale retata giudiziaria a strascico abbia rivoluzionato la fisionomia politica del paese». C’è chi ha sposato la teoria del complotto internazionale, scrive Petrosillo. Sostenuta da molti esponenti governativi prestigiosi della Prima Repubblica (Craxi in primis), questa ipotesi parte dal presupposto che la magistratura fino al 1992 ignorò il finanziamento illecito dei partiti. Poi, con l’arresto di Mario Chiesa, il caso esplose e si trasformò in un “processo al sistema”. «Qualcuno, si dice, aveva interesse ad annientare l’intera classe politica al governo e sostituirla con un’altra. Chi? Perché?». Francesco Cossiga ha fatto parte di coloro che hanno creduto al complotto internazionale. In una delle sue ultime interviste, attribuì alla Cia un ruolo importante sull’inizio di Tangentopoli, così come sulle “disgrazie” di Craxi e Andreotti. In quel periodo alla Casa Bianca c’erano amministrazioni del Partito democratico, «le più interventiste e implacabili». Un altro boss della Prima Repubblica, l’ex ministro democristiano Paolo Cirino Pomicino, sostiene che il “complotto” iniziò proprio nel 1992, la data fatidica di Mani Pulite. In quei giorni il capo della Cia, James Woolsey, spiegò che l’amministrazione Clinton aveva disposto un vero spionaggio industriale, e a Milano sbarcò l’agenzia privata di investigazioni Kroll. Gli Usa raccolsero corposi dossier sul finanziamento illecito. E il capo della Cia fece sapere al suo governo che c’era la possibilità di far scoppiare scandali, se fosse servito. Nell’analisi di Cirino Pomicino, aggiunge Petrosillo, c’è anche la Gran Bretagna, dove «la Thatcher aveva perso la battaglia sulla moneta unica e gli americani iniziarono una politica aggressiva per difendere il dollaro», oltre che una certa attenzione ai problemi avuti da Chirac in Francia e Kohl in Germania. In quel momento «sarebbe stata scelta l’Italia, come luogo dove far scoppiare lo scandalo». Il punto debole, conclude Petrosillo, è la strategia che gli americani avrebbero avuto sul “dopo”. «Chi assaltò il Palazzo d’inverno, chi prese la Bastiglia aveva un progetto per il giorno dopo la rivoluzione. I servizi segreti americani avevano dunque un accordo con Occhetto? Oppure con quei “poteri forti” che cercavano la discontinuità e che non ameranno mai Berlusconi, trattato sempre come un Maradona, geniaccio arrivato d’improvviso dalle favelas?». La risposta è nei fatti, dal Britannia in poi, col clamoroso precedente del divorzio tra il Tesoro e Bankitalia, quando la banca centrale era retta da Ciampi. Lo ha spiegato molto bene Nino Galloni, consulente di Andreotti alla vigilia del Trattato di Maastricht: l’Italia fu deliberatamente azzoppata, con la complicità delle sue élite tecnocratiche in quota al futuro centrosinistra, per sabotare il sistema produttivo nazionale, come chiedeva la Germania per aderire all’euro e gestire il disegno strategico di indebolimento generale dell’Europa. Il resto è cronaca, e si chiama crisi.

Quando Bettino Craxi osò sfidare il gigante Usa. In La notte di Sigonella documenti d'epoca, rapporti segreti e testi del premier socialista svelano tutti i retroscena del braccio di ferro tra Roma e Washington, scrive Stefano Zurlo lunedì 5 ottobre 2015. L'orgoglio italiano. La rabbia americana. E una scena da film di fantascienza: cinquanta carabinieri che circondano un aereo egiziano e sono circondati a loro volta da cinquanta militari della Delta Force. Tutto sulla pista di una base Nato siciliana. Tutto in poche ore. Tutto dentro un grande scombussolamento dei rapporti fra Roma e Washington. Ora quella storia drammatica e intricata, ultimo atto del sequestro dell'Achille Lauro, diventa un libro, La notte di Sigonella, Mondadori, da domani in libreria, a firma del protagonista numero uno di quelle giornate dell'autunno 1985: Bettino Craxi. Un volume particolarmente interessante, soprattutto perché dai documenti, alcuni inediti, e dalla corrispondenza, finalmente declassificata, a stelle e strisce, si capisce che, nel turbinio di quelle ore fra notizie contraddittorie e confuse, Craxi prese infine la strada giusta. Il governo italiano assicurò alla giustizia i quattro dirottatori dell'Achille Lauro, responsabili dell'atroce morte dell'ebreo americano Leon Klinghoffer, ucciso a sangue freddo e gettato in mare; l'Italia però non si piegò agli Usa che avevano organizzato un blitz a Sigonella per catturare e portare via Abu Abbas, il mediatore della vicenda, ritenuto dagli americani un complice dei terroristi. Craxi disse no e ora, dalle carte finalmente disponibili, s'intuisce che gli americani dovettero infine riconoscere, al di là del malumore, le ragioni italiane. In una missiva del 24 ottobre 1985, pochi giorni dopo la conclusione della vicenda, l'ambasciatore a Roma Maxwell Rabb scrive alla Segreteria di Stato: «L'esperienza dimostra che dobbiamo migliorare il nostro coordinamento, agire insieme piuttosto che unilateralmente». Sì, autocritica più che critica davanti alla scoperta, probabilmente inattesa, che l'Italia di quell'ottobre 1985 non è più l'Italietta dell'8 settembre. Debole, incerta, senza voce nel concerto delle grandi potenze. Craxi si fa sentire, eccome. E nella nota spedita a tutte le rappresentanze diplomatiche del Medio Oriente e del Sudest asiatico, la Segreteria di Stato ammette candidamente: «Secondo il nostro trattato di estradizione, se l'Italia processa per gli stessi fatti per i quali vorremmo processare, l'Italia ha il diritto di rigettare la nostra richiesta di estradizione. Non abbiamo alcuna giurisdizione sull'omicidio di Leon Klinghoffer». Sembra di leggere il pensiero tricolore, per una volta alto e forte, e invece è quello che si sostiene a Washington. Insomma, il coraggio tricolore, quel no e ancora no detto e ripetuto, lacera la tela dei rapporti ma non la strappa. E semmai costringe gli Usa a riflettere. Del resto gli americani in quelle ore trattano Roma come una colonia. La storia comincia alle 13.10 del 7 ottobre quando al largo di Port Said, in Egitto, viene dirottata la nave da crociera; i terroristi sono palestinesi. Arafat invia Abu Abbas e il 9 ottobre sembra delinearsi il lieto fine: la nave viene liberata. All'apparenza senza spargimento di sangue e invece non è così, in un susseguirsi di colpi di scena. Il primo: si scopre che un passeggero paralitico è stato scaraventato in mare. Il secondo arriva alle 23.50 del 10 ottobre; la Casa Bianca chiama il premier Bettino Craxi e annuncia: il Boeing dell'EgyptAir, con a bordo i dirottatori e Abu Abbas, è stato intercettato da quattro caccia F-14 e obbligato a dirigersi verso l'Italia. Di lì a pochi minuti tutti i velivoli saranno a Sigonella. L'America vuole tutto e subito: la consegna degli assassini e dei mediatori palestinesi che verranno immediatamente trasferiti negli Usa. Craxi però non si arrende e anzi delinea una sua linea ben precisa: i sequestratori hanno colpito una nave italiana in acque internazionali, dunque saranno processati a Roma e non negli Usa. Inoltre Abu Abbas è un mediatore e non un complice, anche se il commando è una scheggia impazzita della sua fazione. In quell'interminabile notte si rischia un conflitto a fuoco senza precedenti: i carabinieri sono intorno al Boeing egiziano, ma sono a loro volta nel mirino dei militari americani del generale Carl Steiner. Lunghi minuti di tensione. Poi, alle quattro del mattino, l'alto ufficiale si ritira e lascia il campo ai padroni di casa. E' finito il primo round, la contesa va avanti. In una difficilissima operazione di equilibrio, Craxi sposta il Boeing da Sigonella a Ciampino. E questo per due ragioni: per garantire ai membri dell'Olp a bordo la possibilità di consultarsi con l'ambasciata egiziana a Roma e poi per dare tempo agli americani che stanno cercando nuove prove contro Abu Abbas. Alle sei del mattino del 13 ottobre gli Stati Uniti recapitano la richiesta di arresto provvisorio. L'Italia però scandisce un altro no: le prove non ci sono. Abu Abbas è libero e abbandona l'Italia via Belgrado. In una lettera al Giornale, pubblicata l'11 marzo 1997, Craxi afferma: «Mi si chiedeva una cosa francamente impossibile e perciò non la feci, anche se mi costò una crisi di governo, subito poi rientrata. Il presidente americano mi scrisse una lettera che iniziava “caro Bettino” e mi invitava a New York». Ronald Reagan alla fine si adeguò.

OPERATORI DI (IN)GIUSTIZIA…..

Giustizia: per l'Unione europea la presunzione d'innocenza è un diritto fondamentale, scrive Damiano Aliprandi su "Il Garantista" del 15 aprile 2015. Iniziato iter per la Direttiva. Il giustizialismo è diventato un problema europeo e la commissiono europarlamentare vuole correre ai ripari. "La presunzione d'innocenza è un diritto fondamentale e anzitutto un principio essenziale che intende garantire da abusi giudiziari e giudizi arbitrari nei procedimenti penali!", ha dichiarato la francese Nathalie Griesheck, relatore del provvedimento in Commissione Libertà civili che prevede una normativa in grado di dissuadere le autorità giudiziarie nazionali dal fare dichiarazioni sulla colpevolezza di un condannato prima del giudizio definitivo, o che violino i principi dell'onere della prova (che spetta alla pubblica accusa), quello di rimanere in silenzio durante gli interrogatori e quello di essere presenti fisicamente al proprio processo. Questa "proposta di direttiva nasce dal fatto che notiamo un'erosione del principio di presunzione di innocenza in diversi Paesi membri", ha aggiunto sempre la Griesheck, Il provvedimento della Commissione pone anche il problema dei mezzi di informazione molto spesso legati con le autorità giudiziarie che fanno da megafono. Infatti l'emendamento richiede ai Paesi membri di vietare alle autorità giudiziarie locali di dare informazioni - incluse interviste e comunicazioni in collaborazione con i media - che potrebbero creare pregiudizio o biasimo nei confronti di indagati o accusati prima della sentenza finale in tribunale. L'europarlamento in pratica chiede di promuovere un vero e proprio codice etico e di rispettarlo. Un altro aspetto dell'emendamento è quello di non far travisare - attraverso i mezzi di informazione - la legittima facoltà di non rispondere dell'imputato come "prova" di colpevolezza. "L'esercizio di questo diritto - spiega sempre la relatrice Nathalie Griesbeck - non deve mai essere considerato come una conferma dì una tesi sui fatti occorsi". Con l'approvazione della Commissione ora inizia il negoziato con il Consiglio Uè per poi arrivare alla formale proposta di direttiva. Sempre attraverso la suddetta Commissione, in questi giorni, ci si sta occupando della situazione carceraria e il commissario Nìls Muiznieks ha espresso gratitudine per i miglioramenti apportati per rimediare al nostro sovraffollamento penitenziario, ma ha precisato che ancora non abbiamo risolto definitivamente il problema. Nel corso di un'audizione della Commissione Libertà civili, è stato ascoltato il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri e consulente del Governo Renzi sui problemi della giustizia e la lotta alle mafie, ha dichiarato di non rallegrarsi per quello che è stato detto dal Consiglio d'Europa sullo svuotamento delle carceri in Italia. Ma sempre per Gratteri la soluzione è la costruzione di nuove carceri e non subire ciò che dice l'Europa. Gratteri, ricordiamo, solo per un soffio al momento della formazione del Governo Renzi non diventò ministro della Giustizia così come era stato annunciato.

Gherardo Colombo: "Io, magistrato pentito, non credo più nella punizione". Il modello possibile della giustizia riparativa. Rispetto a un sistema che non riconosce le vittime e che crea solo inutile sofferenza. Rendendo più insicura la società. Ma i politici hanno un solo cruccio: aumentare le pene. Come nel caso - "fuori luogo" - dell'omicidio stradale. Parla il grande giudice e pm, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Gherardo Colombo: «Questa donna ha ragione. E va ascoltata. Perché se oggi il carcere svolge una funzione, è la vendetta». Prima giudice, poi pubblico ministero in inchieste che hanno fatto la storia d’Italia come la Loggia P2 o Mani Pulite, Gherardo Colombo ha messo profondamente in discussione le sue idee: «Ero uno che le mandava le persone in prigione, convinto fosse utile. Ma da almeno quindici anni ho iniziato un percorso che mi porta a ritenere errata quella convinzione».

Da uomo di legge, la sua è una posizione tanto netta quanto sorprendente.

«È concreta. I penitenziari sono inefficaci, se non dannosi per la società. Anziché aumentare la sicurezza, la diminuiscono, restituendo uomini più fragili o più pericolosi, privando le persone della libertà senza dare loro quella possibilità di recupero sancita dalla Costituzione. Esistono esempi positivi, come il reparto “La Nave” per i tossicodipendenti a San Vittore, o il carcere di Bollate, ma sono minimi».

Molti dati mostrano la debolezza della rieducazione nei nostri penitenziari. Ma perché parlare addirittura di vendetta?

«Credo sia così. Pensiamo alle vittime: cosa riconosce la giustizia italiana alla vittima di un reato? Nulla. Niente; se vuole un risarcimento deve pagarsi l’avvocato. Così non gli resta che una sola compensazione: la vendetta, sapere che chi ha offeso sta soffrendo. La nostra è infatti una giustizia retributiva: che retribuisce cioè chi ha subito il danno con la sofferenza di chi gli ha fatto male».

Esistono esperienze alternative?

«Sì. In molti Paesi europei sono sperimentate da tempo le strade della “giustizia riparativa”, che cerca di compensare la vittima e far assumere al condannato la piena responsabilità del proprio gesto. Sono percorsi difficili, spesso più duri dei pomeriggi in cella. Ma dai risultati molto positivi».

Se questa possibilità è tracciata in Europa, perché un governo come quello attuale, così impegnato nelle riforme, non guarda anche alle carceri?

«Nei discorsi ufficiali sono tutti impegnati piuttosto ad aumentare le pene, a sostenere “condanne esemplari”, come sta succedendo per la legge sull’omicidio stradale - una prospettiva che trovo quasi fuori luogo: quale effetto deterrente avrebbe su un delitto colposo? Ma al di là del caso particolare, il problema è che i politici rispondono alla cultura dei loro elettori. Il pensiero comune è che al reato debba corrispondere una punizione, che è giusto consista nella sofferenza. Me ne accorgo quando parlo nelle scuole del mio libro, “Il perdono responsabile”: l’idea per cui chi ha sbagliato deve pagare è un assioma granitico, che solo attraverso un dialogo approfondito i ragazzi, al contrario di tanti adulti, riescono a superare. D’altronde il carcere è una risposta alla paura, e la paura è irrazionale, per cui è difficile discuterne».

È una paura comprensibile, però. Parliamo di persone che hanno rubato, spacciato, ucciso, corrotto.

«Ovviamente chi è pericoloso deve stare da un’altra parte, nel rispetto delle condizioni di dignità spesso disattese nei nostri penitenziari. Ma solo chi è pericoloso. Ed è invece necessario pensare fin da subito, per tutti, alla riabilitazione. Anche perché queste persone, scontata la condanna, torneranno all’interno di quella società che li respinge».

Luigi Manconi: "Aboliamo il carcere". Inefficace, costoso e violento. Per questo il sistema penitenziario va cambiato. Le proposte in un libro appena uscito, continua Francesca Sironi. Primo: il carcere È inutile, perché sette detenuti su dieci tornano a compiere reati. Secondo: le galere non esistono da sempre. Terzo: le celle sono violente. Cambiare l’esecuzione della pena in Italia è l’obiettivo di un libro implacabile scritto da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, appena pubblicato da Chiarelettere con il titolo: «Abolire il carcere, una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini». Il volume raccoglie dati, storie e notizie su torture, recidiva, costi assurdi, sbagli e omissioni di un sistema che restituisce alla collettività criminali peggiori di quelli che aveva rinchiuso. Da questa analisi, scrive Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, emerge come «la pena si mostri in carcere nella sua essenzialità quale vera e propria vendetta. E in quanto tale priva di qualunque effetto razionale e totalmente estranea a quel fine che la Costituzione indica nella rieducazione del condannato». Per questo gli autori propongono dieci riforme possibili. A partire dall’idea che «il carcere da regola dovrebbe diventare eccezione, extrema ratio», come sostiene il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky nella postfazione.

Soro, Garante della privacy: «Stop ai processi mediatici, ne va della vita delle persone», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. C’è una parola che Antonello Soro non si stanca di ripetere: «Dignità». A un certo punto tocca chiedergli: presidente, ma com’è possibile che non riusciamo a tenercela stretta, la dignità? Che abbiamo ridotto il processo penale a un rodeo in cui la persona è continuamente sbalzata per aria? E lui, che presiede l’Autorità garante della Privacy, può rispondere solo in un modo: siete pregati di scendere dalla giostra. La giostra del processo mediatico, s’intende. «È una degenerazione del sistema che può essere fermata in un modo: se ciascuna delle parti, stampa, magistrati, avvocati, evita di dare un’interpretazione un po’ radicale delle proprie funzioni. C’è un nuovo integralismo, attorno al processo, da cui bisogna affrancarsi. Anche perché la giustizia propriamente intesa si fonda sulla presunzione d’innocenza. Quella mediatica ha come stella polare la presunzione di colpevolezza».

Senta presidente Soro, ma non è che il processo mediatico è una droga di cui non possiamo più fare a meno, magari anche per alleviare i disagi di una condizione generale del Paese ancora non del tutto risollevata?

«Non credo che per spiegare le esasperazioni dell’incrocio tra media e giustizia sia necessario arrivare a una lettura del genere. Siamo in una fase, che ormai dura da molto, in cui prevale un nuovo integralismo, anche rispetto alla preminenza che ciascuno attribuisce al proprio ruolo. Succede in tutti gli ambiti, compreso quello giudiziario. Ciascuna delle parti si mostra poco disponibile ad affrontare le criticità del fenomeno che chiamiamo processo mediatico.

Be’, lei descrive una tendenza che brutalmente potremmo definire isteria forcaiola.

«È il risultato di atteggiamenti – che pure non rappresentano la norma – sviluppatisi tra i giornalisti e anche tra i magistrati, persino tra gli avvocati. Ciascuna di queste componenti finisce in alcuni casi per deformare la propria missione. Il tema è sicuramente complesso, io mi permetto sempre di suggerire che si lascino da parte i toni ultimativi, quando si affronta la questione. Lo sforzo che va fatto è proprio quello di trattenersi dall’esaltare la propria indispensabile funzione. Esaltare la propria si traduce fatalmente nel trascurare la funzione degli altri.

È una situazione di squilibrio in cui parecchi sembrano trovarsi a loro agio, tanto da difenderla. È il caso delle intercettazioni.

«Nessuna persona ragionevole può mettere in discussione l’utilità delle intercettazioni e il diritto dei cittadini all’informazione. Due elementi di rango differente ma ugualmente imprescindibili. Nessuno pensa di rinunciare né alle intercettazioni né all’informazione. Si tratta di valutare con il giusto spirito critico la funzione di entrambe.

E non dovrebbe volerci uno sforzo così grande, no?

«No. Però cosa abbiamo davanti? Paginate intere di intercettazioni, avvisi di garanzia anticipati ai giornali, interrogatori di indagati in stato detentivo di cui apprendiamo integralmente il contenuto, immagini di imputati in manette, processi che sembrano celebrarsi sui giornali più che nelle aule giudiziarie. E in più c’è una variabile moltiplicatrice.

Quale?

«La rete. E’ un tema tutt’altro che secondario. La diffusione in rete delle informazioni e della produzione giornalistica non è neppure specificamente disciplinata dal codice deontologico dei giornalisti, che risale al 1998, quando il peso oggi acquisito dal web non era ancora stimabile.

Qual è l’aspetto più pericoloso, da questo punto di vista?

«Basta riflettere su una differenza, quella tra archivi cartacei e risorse della rete. Su quest’ultima la notizia diviene eterna, non ha limiti temporali, ha la forza di produrre condizionamenti irreparabili nella vita delle persone.

La gogna della rete costituisce insomma un fine pena mai a prescindere da come finisce un processo.

È uno degli aspetti che contribuiscono a rendere molto complesso il fenomeno dei processi mediatici. Tutto può essere riequilibrato, ma ora vedo scarsa attenzione per tutto quanto riguardi il bilanciamento tra i diritti fondamentali in gioco. Un bilanciamento che invece ritengo indispensabile quando riguarda la dignità delle persone.

È un principio di civiltà così elementare, presidente, che il fatto stesso di doverlo invocare fa venire i brividi. Di paura.

«Nel nostro sistema giuridico anche chi è condannato deve veder riconosciuta la propria dignità. Basterebbe recuperare questo principio. Che nella nostra Costituzione è centrale. Una comunità che rinuncia a questo presidio di civiltà ha qualche problema».

Com’è possibile che abbiamo rinunciato?

«Ripeto: stiamo dicendo per caso che dobbiamo eliminare l’uso delle tecnologie più sofisticate nelle indagini? No. Si pretende di negare il diritto all’informazione? Neppure. Si dovrebbe solo coniugare questi aspetti con la dignità delle persone, anche con riguardo alla loro vita privata. La privacy non è un lusso. Il fondamento della privacy è sempre la dignità della persona».

Se si prova a toccare le intercettazioni parte subito la retorica del bavaglio.

«Al giudice, in una prima fase, spetta la decisione sull’acquisizione delle intercettazioni rilevanti ai fini del procedimento, mentre al giornalista spetta, in seconda battuta, la scelta di quelle da pubblicare perché di interesse pubblico. Non è detto che il giornalista debba pubblicare tutti gli atti che ha raccolto compresi quelli irrilevanti ai fini del processo».

Spesso quelli irrilevanti sul piano penale sono i più succosi da servire al lettore.

«Guardi, è plausibile che alcune intercettazioni contengano elementi utili per la ricostruzione dei fatti penalmente rilevanti anche se non riguardano la persona indagata. Può avere senso che elementi del genere vengano resi pubblici. Ma altri che non hanno utilità ai fini del processo andrebbero vagliati con particolare rigore in funzione di un vero interesse pubblico. Prescinderei dai singoli episodi. Ma ricorderei due princìpi abbastanza trascurati. Da una parte, la conoscenza anche di un dettaglio della vita privata di un personaggio che riveste funzioni pubbliche può essere opportuna, se quel fatto rischia di condizionarne l’esercizio della funzione. È giusto che il cittadino conosca cose del genere».

Ad esempio, il fatto che Berlusconi ospitasse a casa sua molte giovani donne, alcune delle quali erano prostitute e lui neppure lo sapeva.

«Sì, però poi i dettagli sulle attività erotiche di un leader politico, tanto per dire, possono alimentare curiosità, ma è difficile riconoscerne il senso, in termini di diritto all’informazione. In altre parole: può essere utile sapere che quel leader, in momenti in cui esercita la propria funzione pubblica, compie atti che, ad esempio, lo espongono al ricatto; ma riportare atti giudiziari che entrano morbosamente nel dettaglio, diciamo così, va al di là di quell’informazione utile di cui sopra. A meno che non riferiscano comportamenti che costituiscono reato».

Negli ultimi anni l’inopportunità di certe divulgazioni spesso è emersa quand’era troppo tardi.

«E in proposito mi preoccupa ancor di più il dramma vissuto da privati cittadini casualmente intercettati ed esposti a una gogna molto pesante. E la gogna mediatica è una pena inappellabile, a prescindere da come finisce in tribunale. Ho segnalato più volte la situazione del cittadino Massimo Bossetti. Nel suo caso sono stati divulgati i dati genetici di tutta famiglia, i comportamenti del figlio minore e di tutti familiari, fino al filmato dell’arresto, all’ audio dell’interrogatorio e al colloquio con la moglie in carcere: tutto questo contrasta la legge sul diritto alla riservatezza. Che rappresenta una garanzia per i cittadini e che però viene travolta da una furia iconoclasta, funzionale al processo mediatico. Nel processo propriamente inteso vige la presunzione di innocenza, in quello mediatico si impone la presunzione di colpevolezza».

Come se ne esce?

«Tutti, magistrati, giornalisti, avvocati, cittadini, debbono cercare il punto di equilibrio più alto. E smetterla di pensare che qualche diritto debba essere cancellato. Anche perché oltre alla dignità delle persone è in gioco anche la terzietà del giudice».

Cosa intende?

«Chi siede in una Corte viene ‘inondato’ da una valanga di informazioni dei media che finiscono per costruire un senso comune. In un ordinamento in cui esistono anche i giudici popolari c’è il rischio che questi non formino la loro convinzione in base alla lettura degli atti ma in base al processo mediatico, che ha deciso la condanna molto tempo prima, e non nella sede dovuta. Intercettazioni, atti e immagini divulgati dai media, non solo costituiscono uno stigma perenne per la persona, ma rischiano di condizionare anche l’esercizio della giurisdizione in condizioni di terzietà».

Ma non è che i magistrati alla fine spingono il processo mediatico perché pensano di acquisire in quel modo maggiore consenso?

«Guardi, quando un singolo magistrato ricerca il consenso può casomai far calare un po’ il consenso dell’intera magistratura. E questo lo hanno affermato negli ultimi tempi autorevoli magistrati, che hanno usato parole molto eloquenti nel criticare gli abusi di singoli colleghi. Mi riferisco in particolare al procuratore capo di Torino Armando Spataro quando dice che durante Mani pulite, per esempio, alcuni magistrati sembravano più preoccupati della formazione della notizia da prima pagina che della conclusione del processo. Ecco, la legittimazione che ha il magistrato viene messa in discussione proprio da quei comportamenti impropri. La ricerca del consenso non è propria della funzione del magistrato. Chi ha da decidere della giustizia ha un compito che da solo gratifica e impegna la vita. Io ho una grandissima considerazione di questo compito e credo vada preservato».

Nordio agita i colleghi in toga: "Niente multe, via i pm scarsi". Il procuratore di Venezia critica la scelta del governo sulla responsabilità civile: "Inutile, paga l'assicurazione", scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. I magistrati hanno una gran fretta: per denunciare davanti alla Consulta l'incostituzionalità della legge sulla responsabilità civile, varata solo a febbraio, non hanno aspettato che un cittadino chiedesse i danni a uno di loro. Hanno giocato d'anticipo. Per il giudice civile Massimo Vaccari del tribunale di Verona basta il timore di un giudizio di responsabilità per condizionare l'autonomia e l'indipendenza della toga, ledere i suoi diritti e privarla della necessaria serenità nel suo lavoro. Così, il 12 maggio ha inviato alla Corte costituzionale 17 pagine di ricorso, che sostengono contrasti con diversi articoli della Carta. La notizia arriva proprio mentre il Matteo Renzi ricorda su Twitter l'anniversario della morte di Enzo Tortora, sottolineando che da allora, e grazie a lui, le cose sono cambiate. «Ventisette anni dopo la morte di Tortora - scrive il premier-, abbiamo la legge sulla responsabilità civile dei giudici e una normativa diversa sulla custodia cautelare #lavoltabuona». Nella stessa giornata e proprio partendo dal tempestivo ricorso del giudice veronese, su Il Messaggero il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio firma un editoriale che certo non farà piacere ai suoi colleghi. Basta il titolo: «Il magistrato che sbaglia va rimosso più che multato». Mentre le toghe, con l'Anm in testa, protestano aspramente per la legge, minacciano lo sciopero e si organizzano perché la Consulta la faccia a pezzi, Nordio sostiene dunque che le nuove norme sono troppo deboli e non risolvono i problemi, cioè le cause degli errori giudiziari: dall'«irresponsabile potere dei pm» a quello dei giudici di «riprocessare e condannare un cittadino assolto», con una «catena di sentenze». Il magistrato accusa governo e Parlamento di aver «risposto in modo emotivo» alle richieste dell'opinione pubblica, puntando sull'«effetto intimidatorio delle sanzioni, privilegiando peraltro quelle pecuniarie». Così, per Nordio, hanno fatto «una scelta inutile, perché ci penserà l'assicurazione; e irragionevole, perché la toga inetta o ignorante non va multata, va destituita». Denunciando davanti all'Alta corte, sostiene il pm, «la parte più ambigua della legge, quella che consente, o pare consentire, di far causa allo Stato prima che la causa sia definitivamente conclusa», paralizzando i processi, se ne otterrà forse una parziale abrogazione. E «i magistrati impreparati o inetti tireranno un sospiro di sollievo». Vedremo se andrà proprio così. Intanto, il ricorso a bocce ferme del giudice veronese deve superare il giudizio di ammissibilità. Vaccari cita un precedente simile contro la legge del 1989, ma non è affatto detto che riesca nel suo intento. I magistrati, però, si sono organizzati da un pezzo per ricorsi singoli o collettivi e, se questo verrà bloccato, di certo alla Consulta ne arriveranno molti altri. L'ultima parola sarà anche stavolta dei giudici costituzionali.

Il super-Pm sbotta: «Giudici, ora basta», scrive l'11 maggio 2015 Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Lo sapete tutti che nei manuali di giornalismo c’è scritto che una notizia è notizia quando l’uomo morde il cane, e non viceversa. Beh, stavolta è ancora più notizia: è il magistrato che morde il magistrato. Cosa mai vista, finora. E il magistrato in questione non è un tizio qualunque, ma è il Procuratore di Torino Armando Spataro, anni 67, carriera lunghissima, sempre impegnato in indagini molto delicate, prima la lotta al terrorismo di sinistra, nei primi anni ottanta, poi l’antimafia. Spataro è un’icona di coloro che amano i Pm. Duro, rigoroso, burbero, cattivo, non sorride mai. Uno sceriffo. E uno che parla chiaro, non si nasconde, te le grida in faccia. A occhio non è proprio il tipo del magistrato garantista. Ed è difficile trovare qualche sua frase di simpatia per i garantisti. Beh, ieri Spataro è andato a parlare nella tana del nemico, e cioè a un convegno organizzato dalla camere penali del Piemonte, e ha pronunciato una requisitoria delle sue, ma stavolta contro i suoi colleghi. Spataro ha tuonato contro i magistrati protagonisti, i magistrati presunti ”eroi”, i magistrati moralisti, i magistrati maestri di storia, i magistrati faziosi, i magistrati narcisi eccetera eccetera. Ha messo nel mirino (senza mai nominarli) Ilda Boccassini, Vittorio Teresi, Antonio Ingroia, Antonio Di Pietro (ma anche Borelli, D’Ambrosio e Colombo) forse anche Pignatone, sicuramente, e con durezza, il ministro Alfano. E poi ha disintegrato l’immagine dei giornalisti giudiziari, accusandoli di pigrizia e scarsa professionalità (ma anche un po’ di servilismo…). Ha pronunciato un discorso simile agli articoli che su questo giornale scrive Tiziana Maiolo…I casi sono due. O prendiamo questo sfogo di Armando Spataro come una boutade (o come semplice espressione della lotta interna tra le correnti della magistratura); oppure lo prendiamo sul serio ed esaminiamo una a una le cose che lui ha detto e immaginiamo che forse si è arrivati – nella vicenda del potere sempre più grande in mano alla magistratura – a quel punto di rottura che provoca reazioni, discussioni, dubbi, e che forse può portare a una inversione di tendenza. Speriamo. Naturalmente è chiaro che alcuni degli attacchi di Spataro possono essere effettivamente letti all’interno della lotta tra correnti della magistratura. Spataro ce l’ha sempre avuta con ”Magistratura Democratica” e oggi gli tira un po’ di frecce avvelenate. Così come è noto che Spataro non ha mai amato la Boccassini, che addirittura una volta fece pedinare degli indagati sui quali stava indagando, appunto, Spataro, che la prese molto male. Ed è anche noto che Spataro non ama il ministro Alfano e perciò – come vedrete – lo espone a impietosi paragoni con ministri dell’Interno del passato (Virginio Rognoni, in particolare) e lo maltratta in tutti i modi. Detto ciò, vediamo quali sono i sassolini che Spataro si toglie dalla scarpa. Trascrivendo pari pari le frasi che ha pronunciato a Torini, senza cambiare una virgola. «E’ una fortuna che sia finita l’era di mani pulite e l’era di Di Pietro. Rammento i giornalisti a frotte dietro i pubblici ministeri nei corridoi, e devo dire che alla fine qualche collega era più convinto dell’importanza della notizia in prima pagina che non dell’esito del processo…«Badate che non sto contestando il diritto e il dovere del magistrato di intervenire nel dibattito civile. E’ giusto che intervenga. Senza però dare alcun segnale di dipendenza o vicinanza politica…«Vi faccio qualche esempio di protagonismo non virtuoso: c’è un magistrato che a Palermo, dopo aver letto una sentenza che disattendeva le sue conclusioni, disse che se lui fosse stato un professore avrebbe dato quattro meno al giudice che aveva fatto quella sentenza (e qui si riferisce al dottor Vittorio Teresi, coordinatore del pool antimafia della Procura di Palermo, il quale pronunciò quella frase infelice commentando la sentenza del processo Mori, ndr); poi c’è chi ha detto che il Csm avrebbe dovuto valutare, al fine di designare il nuovo procuratore capo di Palermo, il grado di condivisione dei candidati con l’impostazione del processo sulla trattativa Stato mafia (e qui si riferisce ancora a Teresi, ma anche a Ingroia e più in generale a tutti i Pm che fanno capo all’ex Procuratore di Palermo De Matteo, ndr). Mi sembra una impostazione inaccettabile». «Poi c’è il caso di quei pubblici ministeri che a distanza di 20 anni dall’inizio dei processi di mafia al Nord, dicono: ”Finalmente arrivo io e indago sulle infiltrazioni di mafia al Nord”, oppure che continuamente fanno riferimenti a entità esterne, ai poteri forti…Il vizio più pesante della magistratura è la tendenza a porsi come moralisti, come storici, cioè pensare che tocca ai magistrati moralizzare la società e ricostruire un pezzo di storia». «Non sopporto più i colleghi che si propongono come gli unici eroi che lottano per il bene, mentre tutto attorno c’è male, e loro sono una sorta di Giovanna D’Arco, e sono alla continua denuncia dell’isolamento nel quale si trovano. Ma l’isolamento del magistrato non ha niente di eccezionale, è una condizione tipica del nostro lavoro. Non sopporto quelli che vanno in piazza per raccogliere firme di solidarietà». «Se si dovesse fare una riforma della Costituzione, vorrei che fosse inserita una norma che prevede l’indipendenza della stampa dal potere politico. Anni fa feci un viaggio negli Stati Uniti e chiesi al Procuratore federale di Chicago come facessero a mantenere l’indipendenza visto che sono nominati dal presidente degli Stati Uniti. Lui mi rispose: «Ma qui c’è la stampa», alludendo al ruolo della stampa e alla sua assoluta indipendenza. In Italia invece abbiamo degenerazioni di ogni tipo: magistrati che sfruttano il processo famoso per curare la propria icona, avvocati che tendono a trasferire il processo in Tv per auto-promuoversi, giornalisti che non cercano riscontri ma inseguono misteri, e ministri che inseguono slogan e telecamere. «Quando arrestammo Mario Moretti, il capo delle Br, non potrò mai scordarmi che mi telefonò l’allora ministro dell’Interno (Virginio Rognoni ). Avevo 31 anni, mi emozionai ( in verità ne aveva 33…anche lui bada un po’ alla sua immagine e si cala l’età…peccato veniale…, ndr). Il ministro mi chiamò per dirmi: ”lei sa quanto è importante per noi diffondere la notizia dell’arresto di Moretti, ma deve essere lei a dirmi che posso farlo, perché prima vengono le indagini”. Oggi avviene esattamente il contrario: notizie di operazioni contro il terrorismo internazionale vengono diffuse prima ancora che si realizzino, abbiamo notizie che vengono riprese senza alcun potere critico da parte della stampa, ad esempio quella sui terroristi che arrivano sui barconi dei migranti in Sicilia. Veicolare questa informazione interessa alla politica: possibile che non ci sia nessun giornalista che scriva che questa cosa non sta né in cielo né in terra?…» Questa è la sintesi del discorso di Spataro. Non mi è mai capitato di parlare bene di Spataro…Però questi suoi ragionamenti, se fossero ripresi da qualche altro Pm, potrebbero essere un punto di partenza per una discussione seria, no? Del resto sono convinto che la possibilità di fermare l’aggressività politica della magistratura (e del patto di ferro tra magistratura e giornalismo) , oggi esiste solo se la critica parte dall’interno della magistratura.

Eppure, ciononostante succede questo!

Della serie: subisci e taci…

"Assassini" ai pm di Mani Pulite: la Cassazione condanna Sgarbi a risarcire 60mila euro. Le dichiarazioni dell'allora deputato contro Davigo, Colombo e Greco si riferivano ai suicidi di Gabriele Cagliari e Raul Gardini. La Cassazione: "Il diritto di critica è limitato dal rispetto della dignità", scrive “Il Corriere della Sera".  Confermata dalla Cassazione la condanna nei confronti di Vittorio Sgarbi a risarcire con 60mila euro tre ex pm del pool 'Mani pulite' di Milano, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo e Francesco Greco, per averli definiti - in dichiarazioni riprese nel luglio 1994 dai quotidiani Avvenire e Il Giornale, a un anno dai suicidi di Gabriele Cagliari e Raul Gardini - come degli "assassini" che "avevano fatto morire delle persone" e per questo dovevano "essere processati e condannati" in quanto costituivano "una associazione a delinquere con libertà di uccidere". Secondo la Terza sezione civile della Suprema Corte - sentenza 10276/2015 -  "il diritto di critica è limitato dal rispetto della dignità altrui, e la dignità altrui è violata quando la critica trascende il limite della continenza verbale". E per quanto riguarda le espressioni usate da Sgarbi, che all'epoca deputato, "nemmeno la più benevola concezione del limite della continenza verbale - ritengono gli ermellini - potrebbe mai giungere ad ammettere che tali espressioni non violino quel limite". La Cassazione, inoltre, sottolinea che la condanna di Sgarbi a risarcire i pm con 60mila euro non può considerarsi "esorbitante" se si considera il "lavoro svolto" dai tre magistrati offesi, la "gravità degli addebiti loro mossi" e "l'impatto sociale di affermazioni così drastiche". Senza successo Sgarbi ha protestato perché gli editori delle due testate e i giornalisti che avevano riportato le sue esternazioni non erano stati condannati in solido con lui a risarcire i danni ai pm diffamati. Secondo Sgarbi, era compito dei giornalisti "verificare la violazione del limite della continenza verbale". In proposito i supremi giudici - con la sentenza - gli rispondono che questa richiesta lui l'ha avanzata ben nove anni dopo l'apertura del procedimento a suo carico mentre avrebbe dovuto proporla nella prima memoria di costituzione in giudizio. Quanto al fatto che gli ex del pool hanno promosso azioni risarcitorie per le stesse dichiarazioni di Sgarbi pubblicate, però, da altre testate, la Cassazione ha fatto presente all'ex parlamentare che "una medesima dichiarazione diffamatoria diffusa da più organi di stampa genera più danni. La lesione dell'onore consiste infatti nel detrimento della reputazione che l'offeso vanta presso il pubblico dei lettori; sicchè - conclude il verdetto - dovendo presumersi che ogni quotidiano abbia lettori in gran parte diversi, a ogni pubblicazione corrisponderà un danno differente". E' stata così interamente confermata la sentenza emessa dalla Corte di appello di Milano il 14 aprile del 2011.

Criticare Mani pulite è reato. Sberla dei giudici a Sgarbi. Il critico definì assassini i pm di Tangentopoli. Ora deve risarcire i magistrati con 60mila euro, scrive Marcello Di Napoli su “La Notizia Giornale”. Non c’è da meravigliarsi se la giustizia italiana ha perso ogni credibilità in tutto il mondo. Un rispetto perduto a causa del protagonismo di alcuni pubblici ministeri e dei tempi lunghissimi dei processi. Il tutto mentre centinaia di giudici scrivono libri, vanno a ogni genere di conferenze e non si perdono un vernissage. Insomma, purtroppo il discredito la magistratura se l’è cercato da sé. A causa anche delle inchieste spettacolo. L’ultima è stata riservata a Vittorio Sgarbi. Ieri (20 maggio 2015) il critico d’arte è stato condannato a pagare un risarcimento di 60mila euro ai tre ex pm del pool di Milano: Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo e Francesco Greco. Si sa, il noto opinionista è sempre stato contrario ai metodi usati dai magistrati milanesi nella stagione di mani pulite. In particolare, ha sempre contrastato quello che lui ritiene un abuso della carcerazione preventiva. Ma nel 1994, all’epoca dei fatti, secono la Cassazione ha usato “espressioni lesive della dignità dei magistrati”. L’allora deputato dell’appena nata Forza Italia definì “assassini” i pm. Lo scrisse su due testate nazionali (“Il Giornale” e “Avvenire”) e lo ribadì durante la trasmissione Sgarbi Quotidiani. Accuse che erano state espresse in merito ai suicidi di Raul Gardini e di Gabriele Cagliari (che si tolse la vita nelle docce del carcere di San Vittore). Dunque la Terza sezione civile della Suprema Corte ha confermato la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Milano, affermando che: “il diritto di critica è limitato dal rispetto della dignità altrui, e la dignità altrui è violata quando la critica trascende il limite della continenza verbale”. La Cassazione ha evidenziato che la pena pecuniaria inflitta all’ex di Forza Italia non può essere considerata esorbitante se si tengono in conto il “lavoro svolto” dai tre pm, “la gravità degli addebiti loro mossi” e “l’impatto sociale di affermazioni così drastiche”. Inoltre, la Corte ha fatto presente che “una medesima dichiarazione diffamatoria diffusa da più organi di stampa genera più danni”. Sgarbi, a suo tempo, ha protestato perché gli editori dei giornali che hanno riportato le sue dichiarazioni non sono stati condannati in solido con lui a risarcire i danni ai pm. Per il critico d’arte, inoltre, era compito delle testate quello di “verificare la violazione del limite della continenza verbale”. Ma i giudici gli hanno dato torto, perché questa richiesta è stata inoltrata solo nove anni dopo l’apertura del procedimento, e non nella prima memoria di costituzione in giudizio. Insomma, mentre mentre procedimenti vitali per tanta gente comune si rimandano alla calende greche, i giudici scelgono di occuparsi, anche per molti anni, di vicende paradossali come quella di Sgarbi (i morti ci furono per davvero) o come il bunga bunga di Berlusconi. E poi non meravigliamoci se la giustizia italiana ha perso ogni credibilità in tutto il mondo.

Appunto!!!

Fanciullacci, vigliacco assassino». Per la Cassazione non è diffamazione. La Suprema Corte ha assolto, «perchè il fatto non costituisce reato» Achille Totaro, dall’accusa di aver diffamato il partigiano Bruno Fanciullacci, scrive “Il Corriere Fiorentino”. La quinta sezione della corte di Cassazione ha assolto, «perchè il fatto non costituisce reato» il senatore toscano del Pdl, Achille Totaro, dall’accusa di aver diffamato il partigiano Bruno Fanciullacci, eroe della Resistenza, definendolo «vigliacco assassino» riguardo all’omicidio del filosofo Giovanni Gentile avvenuto nel 1944 a Firenze. Totaro aveva fatto ricorso in Cassazione dopo che la corte d’appello di Firenze lo aveva condannato al risarcimento simbolico di un euro verso gli eredi di Fanciullacci, avendo stabilito che il reato era prescritto. «Stavolta invece la suprema Corte con questa sentenza - ha commentato l’avvocato di Totaro, Paolo Florio - ha riconosciuto che Totaro aveva esercitato, con le sue valutazioni, il diritto di critica politica nel giudicare la condotta di Fanciullacci limitatamente a quella determinata circostanza dell’assassinio di Gentile, e che quindi non espresse una valutazione generale sull’uomo Fanciullacci». «Totaro - ha osservato ancora il legale - parlò di Fanciullacci in una seduta del consiglio comunale di Firenze, e lo fece da politico che si rivolgeva ad un consesso politico». I fatti risalgono al 2000. Il 10 gennaio si tenne il consiglio comunale dove fu discussa una mozione su Fanciullacci durante la quale Totaro, consigliere comunale di An, lo definì «vigliacco assassino»; due giorni dopo lo stesso giudizio fu riportato in un’intervista concessa a un quotidiano. La famiglia di Fanciullacci, in particolare la sorella, denunciò per diffamazione non solo Totaro ma anche i consiglieri comunali che firmarono un comunicato stampa di sostegno all’attuale senatore del Pdl. Nel tempo, quattro di quei consiglieri sono stati assolti. Invece, dopo esser stati assolti con formula piena in primo grado sia Totaro sia un altro consigliere comunale di An, poi del Pdl, Stefano Alessandri, nel maggio 2009 la corte di appello cambiò l’orientamento della vicenda ravvisando per entrambi il reato di diffamazione anche se prescritto e stabilendo il risarcimento simbolico. Ora la Cassazione ha assolto alla stessa maniera di Totaro anche Alessandri, che nello stesso procedimento era co-imputato con il senatore.

Aldro, non è diffamazione dire assassino all’agente. La motivazione del gip Tassoni che ha archiviato la denuncia di Paolo Forlani, scrive “La Nuova Ferrara”. Un altro atto giudiziario va ad arricchire l’ormai copioso archivio del caso Aldrovandi: è il decreto di archiviazione del gip Piera Tassoni che ha annullato le accuse di diffamazione mosse da Paolo Forlani, uno degli agenti condannati per la morte di Federico Aldrovandi, alla madre Patrizia Moretti per aver detto nel blog che scrive ormai da 7 anni di aver visto appunto il poliziotto in un bar cittadino, ossia «uno degli assassini di Federico». Indicare Forlani come assassino, secondo il gip Tassoni che ha accolto le tesi della pm Volta, non è diffamatorio: perchè con il termine assassino Patrizia Moretti - scrive il gip - «aveva inteso indicare in Forlani colui che era stato ritenuto responsabile in primo grado dell’omicidio di suo figlio, non essendovi elementi per poter sostenere che si volle muovere un’accusa di omicidio volontario». La decisione del giudice Tassoni è arrivata a conclusione dell’ennesimo processo che Patrizia Moretti deve subire, come strascico di sue dichiarazioni, o affermazioni in questi anni. Uno tra i tanti lo ricordiamo, è il processo per diffamazione attivato dal pm Mariaemanuela Guerra, processo aggiornato al 2 ottobre prossimo davanti al tribunale di Mantova dove la Moretti comparirà con giornalisti de la Nuova Ferrara. Una contesta giudiziaria tra il nostro giornale e il pm Mariaemanuela Guerra che si è spostata ieri mattina ad Ancona: davanti al tribunale marchigiano è partito infatti il processo civile in cui la pm Guerra chiede all’editore del nostro giornale e a 7 tra giornalisti e direttori, un indennizzo per danni, di non meno di 1 milione e mezzo di euro, per una campagna stampa (presunta) diffamatoria e denigratoria nei suoi confronti.

ANTONIO GIANGRANDE, GABRIELLA NUZZI, SILVIO BERLUSCONI: LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI.

IO, MAGISTRATO OLTRAGGIATA. Gabriella Nuzzi: Come si uccide un’inchiesta. Da Il Fatto Quotidiano del 6 Agosto 2010. "Ho scelto di percorrere in questi mesi la strada della riflessione e del silenzio. Non certo per timore, né per rassegnazione. L’esame introspettivo degli eventi consente di trovare soluzioni, le migliori possibili, per sé e per gli altri. Di fronte all’ingiustizia, e più di tutto se gli è inflitta, un magistrato, che sia davvero tale, non cerca vie di fuga, né comodi ripari. Perciò, ho continuato a credere nella magistratura e nel suo operato. La Grande Bugia della guerra tra le procure di Salerno e Catanzaro, creata ad arte per sottrarre a me e ai colleghi salernitani le inchieste sugli uffici giudiziari calabresi e privarci delle funzioni inquirenti, non può non trovare risposte giuridiche e giudiziarie. Macigni e ostacoli sulla verità. Quando il 2 dicembre 2008 furono eseguiti il sequestro probatorio del fascicolo “Why Not” e le perquisizioni ai magistrati che l’avevano gestito a colpi di stralci e archiviazioni, si accusarono i Pubblici ministeri salernitani di aver redatto provvedimenti “abnormi” ed eversivi, manifestando in tal modo “un’eccezionale mancanza di equilibrio, un’assoluta spregiudicatezza nell’esercizio delle funzioni ed un’assenza del senso delle istituzioni e del rispetto dell’Ordine giudiziario”. Con queste motivazioni, l’8 gennaio 2009, su proposta del capo dell’Ispettorato Arcibaldo Miller (coinvolto nello scandalo P3), il ministro della Giustizia Alfano richiese, in via d’urgenza, alla Sezione Disciplinare del Csm, presieduta da Nicola Mancino, l’applicazione di “misure cautelari” disciplinari nei miei confronti, del collega Verasani e del procuratore Apicella. Intervento preannunciato in Parlamento dal sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo (coinvolto nello scandalo P3) ai suoi amici di partito On.li Amedeo Laboccetta & C., che, in difesa dei calabresi, chiedevano la testa del dott. De Magistris e di noi altri suoi “sodali”. L’intero mondo politico-giudiziario, spalleggiato dalla grande “libera” stampa, che scatenò una tempesta mediatica, condannò la nostra scelta investigativa come un atto di “terrorismo giudiziario”, un attacco “senza precedenti” alle istituzioni democratiche, ispirato al perseguimento di fini personalistici e politici, di pericolosità tale da esigere una repressione esemplare e immediata. La Prima Commissione del Csm presieduta da Ugo Bergamo avviò il trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale, poi sospeso in attesa degli esiti disciplinari. L’Associazione Nazionale Magistrati accettò di buon grado l’epurazione, nell’illusione di una futura pace dei sensi. Dopo appena dieci giorni, con un processo da Santa Inquisizione, ci strapparono le funzioni inquirenti, allontanandoci dalla nostra Regione. Una cortina di silenzio e indifferenza s’innalzò intorno al “caso Salerno”. I magistrati calabresi inquisiti, autori del contro-sequestro del “Why Not”, instaurarono un procedimento penale a nostro carico e del dott. De Magistris, trasmettendolo poi alla Procura di Roma che, con l’Aggiunto Achille Toro (indagato sullo scandalo G8 Sardegna), si mise a investigare liberamente sulle nostre vite private, senza alcun fondamento. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione presiedute dal dott. Vincenzo Carbone (coinvolto nello scandalo P3) chiusero in gran fretta il capitolo disciplinare con una pronuncia sommaria, storico esempio di come sia possibile, in tema di etica giudiziaria, affermare tutto e il contrario di tutto. Si aprirono a nostro carico ulteriori procedimenti penali e disciplinari, branditi come clave, affinché ci sentissimo sotto perenne minaccia. Il 19 ottobre 2009, la stessa Sezione Disciplinare, su relazione dell’avv. Michele Saponara, accolse l’azione disciplinare promossa dal Procuratore generale della Cassazione Esposito, infliggendo a me e al collega Verasani la sanzione della perdita di anzianità (rispettivamente, sei e quattro mesi) e del trasferimento d’ufficio di sede e funzione. Non è stato facile resistere a tanta violenza morale. Una violenza frutto di arbitrio, che ha indecentemente calpestato ogni regola, senza arretrare neppure di fronte al riconoscimento giurisdizionale della legalità e necessità dei nostri comportamenti. La delegittimazione, l’isolamento, l’eliminazione sono metodi di distruzione mafio-massonici. E noi abbiamo pagato per aver osato far luce sulla massoneria politico-giudiziaria. Da allora, pazientemente, ho atteso che a parlare fossero i fatti. E i fatti, nel tempo, come tasselli di un incomprensibile puzzle, si stanno lentamente ricomponendo. Logge, cappucci e grandi vecchi. Alcuni di coloro che hanno concorso alla nostra epurazione pare avessero incontri con presunti appartenenti ad un’associazione segreta. Dunque, di fronte a innegabili evidenze, parlare oggi di consorterie massoniche interne anche agli apparati giudiziari non è più atto eversivo o scandaloso. Ampi dibattiti si sono aperti sulla “questione morale” delle nostre istituzioni. L’Associazione Nazionale Magistrati, rimembrando proprio la nostra vicenda, ha stigmatizzato la “caduta nel vuoto” delle sue richieste di rigore, gridate a gran voce. Sicché contro l’ennesima ipocrisia del “sistema” s’infrange oggi il mio silenzio. Mi rivolgo agli illustri attivisti del correntismo giudiziario, quelli che mai sono stati sfiorati da un dubbio o da un ripensamento, trovando superfluo finanche articolare il pensiero. Esprimano, nella loro purezza, e possibilmente con cognizione di causa, una posizione precisa su ciò che di illecito è stato compiuto ai nostri danni, sull’“etica” che l’avrebbe ispirato, sulle scandalose ingiustizie di un “sistema” che, ancora oggi, incredibilmente, avalla l’impunità, lasciando che i potenti, corrotti o collusi, continuino a rimanere ai loro posti o peggio, siano premiati. Non sono i loro rappresentanti più degni a spartirsi gli scranni del nostro “autogoverno”, a decidere nomine, promozioni, trasferimenti, punizioni disciplinari? O forse l’associazionismo sta dissociandosi da se stesso? Non vi sono oggi “questioni morali” che non lo fossero anche ieri. E allora occorre ripartire da zero, passando attraverso un profondo mea culpa. Questa pericolosa caduta libera di credibilità può arrestarsi soltanto con il ripristino del primato del Diritto e il ripudio definitivo delle logiche di appartenenza e protezionismo. Solo proponendosi tali obiettivi e scegliendo figure di guida autorevoli, per integrità, indipendenza e competenza, l’Ordine giudiziario può sperare in un autentico rinnovamento morale, nell’interesse supremo del popolo e della democrazia."

Nubi minacciose si addensano sul futuro delle «toghe» coinvolte nell’inchiesta romana sulla P3. Dopo il presidente della Corte d’Appello di Milano, Alfonso Marra, tocca a un altro magistrato subire l’onta del procedimento disciplinare, scrive Fulvio Milone su "La Stampa".

L’inchiesta della procura romana ha provocato un terremoto nella magistratura. Oltre alla Cassazione, si è mosso il Csm, che dopo avere avviato una procedura di trasferimento per il giudice Marra, ha adottato un provvedimento analogo per incompatibilità ambientale nei confronti di Umberto Marconi.

La Prima Commissione del Csm ha avviato una procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale a carico di Umberto Marconi, scrive "Il Corriere della Sera", il presidente della Corte di Appello di Salerno il cui nome compare nella mole delle intercettazioni dell’inchiesta sulla cosiddetta P3.  Anche il suo nome compare nelle carte del procedimento. A lui i carabinieri attribuiscono un ruolo determinante nella fabbricazione del dossier falso che avrebbe dovuto fare affondare la candidatura a Governatore della Campania di Stefano Caldoro: una faida all’interno del Pdl, organizzata da Carboni e soci che si muovevano per favorire Nicola Cosentino. Marconi, però, ha anticipato le mosse del Csm: ha già chiesto il trasferimento, anche se giura di essere «assolutamente estraneo» alla vicenda. «Ho anche chiesto alla procura di Roma di essere sentito per quello che ritengo essere un complotto ordito contro di me», ha detto.

Signor Presidente, le comunico l'irrevocabile decisione di lasciare l'Associazione Nazionale Magistrati. Il plauso da lei pubblicamente reso all'ingiustizia subita, per mano politica, da noi magistrati della Procura della Repubblica di Salerno è per me insopportabilmente oltraggioso. Oltraggioso per la mia dignità di Persona e di essere Magistrato. Sono stata, nel generale vile silenzio, pubblicamente ingiuriata; incolpata di ignoranza, negligenza, spregiudicatezza, assenza del senso delle istituzioni; infine, allontanata dalla mia sede e privata delle funzioni inquirenti, così, in un battito di ciglia, sulla base del nulla giuridico e di un processo sommario. Per bocca sua e dei suoi amici e colleghi, la posizione dell'Associazione era già nota, sin dall'inizio. Quale la colpa? Avere, contrariamente alla profusa apparenza, doverosamente adottato ed eseguito atti giudiziari legittimi e necessari, tali ritenuti nelle sedi giurisdizionali competenti. Avere risposto ad istanze di verità e di giustizia. Avere accertato una sconcertante realtà che, però, doveva rimanere occultata. Né lei, né alcuno dei componenti dell'associazione che oggi degnamente rappresenta ha sentito l'esigenza di capire e spiegare ciò che è davvero accaduto, la gravità e drammaticità di una vicenda che chiama a riflessioni profonde l'intera Magistratura, sul suo passato, su ciò che è, sul suo futuro; e non certo nell'interesse personale del singolo o del suo sponsor associativo, ma in forza di una superiore ragione ideale, che è - o dovrebbe essere - costantemente e perennemente viva nella coscienza di ogni Magistrato: la ricerca della verità. Più facile far finta di credere alla menzogna: il conflitto, la guerra tra Procure, la isolata follia di "schegge impazzite". Il disordine desta scandalo: immediatamente va sedato e severamente punito. Il popolo saprà che è giusto così. E il sacrificio di pochi varrà la Ragion di Stato. L'Associazione non intende entrare nel merito. Chiuso. Nel dolore di questi giorni, Signor Presidente, il mio pensiero corre alle solenni parole che da Lei (secondo quanto riportato dalla stampa) sarebbero state pubblicamente pronunciate pochi attimi dopo l'esemplare "condanna": «Il sistema dimostra di avere gli anticorpi». Dunque, il sistema, ancora una volta, ha dimostrato di saper funzionare. Mi chiedo, allora, inquieta, a quale "sistema" Lei faccia riferimento. Quale il "sistema" di cui si sente così orgogliosamente rappresentante e garante. Un "sistema" che non è in grado di assicurare l'osservanza minima delle regole del vivere civile, l'applicazione e l'esecuzione delle pene? Un "sistema" in cui vana è resa anche l'affermazione giurisdizionale dei fondamentali diritti dell'essere umano; ove le istanze dei più deboli sono oppresse e calpestato il dolore di chi ancora piange le vittime di sangue? Un "sistema" in cui l'impegno e il sacrificio silente dei singoli è schiacciato dal peso di una macchina infernale, dagli ingranaggi vetusti ed ormai irrimediabilmente inceppati? Un "sistema" asservito agli interessi del potere, nel quale è più conveniente rinchiudere la verità in polverosi cassetti e continuare a costellare la carriera di brillanti successi? Mi dica, Signor Presidente, quali sarebbero gli anticorpi che esso è in grado di generare? Punizioni esemplari a chi è ligio e coraggioso e impunità a chi palesemente delinque? E quali i virus? E mi spieghi, ancora, quale sarebbe «il modello di magistrato adeguato al ruolo costituzionale e alla rilevanza degli interessi coinvolti dall'esercizio della giurisdizione» che l'Associazione intenderebbe promuovere? Ora, il "sistema" che io vedo non è affatto in grado di saper funzionare. Al contrario, esso è malato, moribondo, affetto da un cancro incurabile, che lo condurrà inesorabilmente alla morte. E io non voglio farne parte, perché sono viva e voglio costruire qualcosa di buono per i nostri figli. Ho giurato fedeltà al solo Ordine Giudiziario e allo Stato della Repubblica Italiana. La repentina violenza con la quale, in risposta ad un gradimento politico, si è sommariamente decisa la privazione delle funzioni inquirenti e l'allontanamento da inchieste in pieno svolgimento nei confronti di Magistrati che hanno solo adempiuto ai propri doveri, rende, francamente, assai sconcertanti i vostri stanchi e vuoti proclami, ormai recitati solo a voi stessi, come in uno specchio spaccato. Mentre siete distratti dalla visione di qualche accattivante miraggio, faccio un fischio e vi dico che qui sono in gioco i principi dell'autonomia e dell'indipendenza della Giurisdizione. Non gli orticelli privati. Non vale mai la pena calpestare e lasciar calpestare la dignità degli esseri umani. Per quanto mi riguarda, so che saprò adempiere con la stessa forza, onestà e professionalità anche funzioni diverse da quelle che mi sono state ingiustamente strappate, nel rispetto assoluto, come sempre, dei principi costituzionali, primo tra tutti quello per cui la Legge deve essere eguale per deboli e potenti. So di avere accanto le coscienze forti e pure di chi ancora oggi, nonostante tutto, crede e combatte quotidianamente per l'affermazione della legalità. Ed è per essa che continuerò sempre ad amare ed onorare profondamente questo lavoro. Signor Presidente, continui a rappresentare se stesso e questa Associazione. Io preferisco rappresentarmi da sola. Gabriella Nuzzi, Sostituto Procuratore Salerno (tratta dall'edizione salernitana de "Il Mattino).

Chi spiegherà al pm Carbone di sinistra (espressione di Area: Magistratura Democratica e Movimento per la Giustizia) che le leggi si applicano e si rispettano, e non si contestano? Scrive “Il Corriere del Giorno” il 6 luglio 2015. “No comment e musi lunghi tra i magistrati tarantini all’indomani dell’ennesimo decreto del governo salva Ilva, l’ottavo, che dissequestra l’altoforno 2 dell’Ilva di Taranto, azzerando il provvedimento cautelare era stato deciso dalla procura dopo l’incidente dell’8 giugno scorso in cui ha perso la vita l’operaio trentacinquenne, Alessandro Morricella, investito da una colata di ghisa fusa. Per il magistrato inquirente prima, e per il gip dopo, l’impianto non era sicuro pertanto doveva essere fermato per evitare altri incidenti mortali. Questa presunta pericolosità è ora scomparsa per decreto” secondo quanto racconta il Corriere del Mezzogiorno, cioè l’edizione barese del Corriere della Sera – “Ad esprimere il malessere che serpeggia tra i magistrati tarantini, ma non solo, è il segretario dell’Associazione nazionale magistrati, Maurizio Carbone, egli stesso pubblico ministero presso la Procura della Repubblica di Taranto.”. Il segretario dell’Associazione nazionale dei magistrati, dimenticando che le Leggi si rispettano ed applicano, contesta quanto deciso dal Governo ed avvallato dal Presidente della Repubblica sostenendo che    “Il caso ILVA – dice – è la dimostrazione di come il legislatore tuteli l’interesse economico rispetto ad altri interessi come quelli sulla sicurezza dei lavoratori e della tutela ambientale». Il segretario dell’Anm– sempre secondo il Corriere del Mezzogiorno – mette in luce una pericolosa spaccatura tra i due poteri dello Stato. “Tutto questo – continua Carbone – crea una ulteriore contrapposizione tra potere giudiziario e potere legislativo sulla base di una evidente e più volte dimostrata priorità di quest’ultimo verso la tutela economiche rispetto ad altri diritti….  Ognuno –ha concluso Carbone – valuta le situazioni a modo suo. Certo è che scelte come questa sull’ ILVA, da parte della politica, non possono che lasciare perplessi e destare preoccupazione e non soltanto tra gli operatori della giustizia». Il dottor Carbone non spende nessuna parola però sulla circostanza che non risulta che  la Procura e tantomeno il gip abbiano richiesto a dei periti (da nominare)  una perizia tecnica sull’incidente mortale, nè tantomeno il magistrato si sofferma sulla circostanza che i soliti giornalisti “ventriloqui” di Palazzo Giustizia , abbiano censurato quanto circola in ambienti industriali interni (fornitori e dipendenti) allo stabilimento siderurgico dell’ ILVA, e cioè che il tragico incidente occorso all’operaio Alessandro Morricella sia stato provocato e determinato in realtà da comportamenti operativi di alcuni operai, molto lontani dalle note vigenti disposizioni aziendali in materia di sicurezza.  Comportamenti analoghi a quelli che proprio nei giorni scorsi hanno portato alla condanna di alcuni operai dell’ILVA, responsabili di “scherzi” poco piacevoli ad un loro collega. Secondo nostre fonti confidenziali infatti, sembrerebbe che l’operaio deceduto non indossasse l’abbigliamento tecnico di sicurezza necessario sul posto di lavoro, di cui infatti nei primi rilievi di polizia giudiziaria dicono non ci sia alcuna traccia. Ma tutto questo nessuno lo dice e racconta. Come nessuno in Procura si meraviglia che il marito di un magistrato ricopra incarichi di gestione e rappresentanza societaria in aziende municipali e pubbliche. O di altro “professionista” tarantino legato ad un altro magistrato che vive, lavora e guadagna fior di quattrini (letteralmente) grazie alle CTU cioè le “perizie” affidategli dal Tribunale di Taranto, come questo quotidiano in un recente articolo ha già raccontato e denunciato. Di questi conflitti d’interesse, l'Associazione Nazionale dei Magistrati ed il suo segretario none parlano. Strano vero? Poi qualcuno si meraviglia che in un recente passato a Taranto siano stati arrestati un magistrato ed un giudice! Tutto ciò probabilmente spiega anche le ragioni per cui il dr.Cataldo Motta, Procuratore della Repubblica di Lecce, che regge anche il vertice della Direzione Distrettuale Antimafia che sovrintende per competenza sul territorio di Taranto, ha ottenuto dal plenum del Consiglio Superiore della Magistratura con parere favorevole del Ministro di Giustizia, la deroga a reggere il suo incarico sino al 2017. Mentre invece per il dr. Franco Sebastio, procuratore capo della repubblica di Taranto, la deroga non è arrivata. P.S. nel frattempo attendiamo ancora risposta ad una richiesta “pubblica” al dr. Sebastio di intervista da video filmare (invito che estendiamo anche al dr. Carbone). O forse le nostre domande scomode danno un pò di fastidio…?

Perchè leggere Antonio Giangrande?

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI. Con procedimento n. 1833/13 il PM di Potenza d.ssa Daniela Pannone, chiedeva ed otteneva il rinvio a giudizio da parte della d.ssa Rosa Larocca per il processo tenuto dal dr Lucio Setola, ex PM.

Imputato: Antonio Giangrande, nato ad Avetrana (Ta) il 02.06.1963 ed ivi elettivamente domiciliato, ex art. 161 c.p.p., alla via Manzoni, 41.

Persona Offesa: Rita Romano, nata a Roma il 30.05.1967, magistrato in servizio presso il Tribunale di Taranto.

A) Reato previsto e punito dall’art. 595 comma 3 codice penale (diffamazione) perché, nella qualità di imputato nel procedimento n° 8486/08 RGNR e n° 5089/05 r.g.n.r, nell’atto di avocazione delle indagini indirizzato al Procuratore Generale di Taranto – depositata in data 27/01/2011 presso la Sezione Distaccata di Manduria del Tribunale di Taranto – offendeva la reputazione della dott.ssa Rita Romano, magistrato in servizio presso il Tribunale di Taranto, scrivendo che il predetto magistrato “abusando dell’ufficio adottava atti con intento persecutorio, lesivi degli interessi, dell’immagine e della sua persona, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove” e che “nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha condannato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza; ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza”. In Manduria (TA) il 27/01/2011 – competenza dell’A.G. di Potenza ex art. 11 c.p.p.

B) Reato previsto e punito dall’art. 368 Codice penale (calunnia) perché, nella qualità di imputato nel procedimento n° 8486/08 RGNR e n° 5089 RGNR, nell’atto di avocazione delle indagini indirizzato al Procuratore Generale di Taranto - depositato in data 27/01/2011 presso la Sezione Distaccata di Manduria del Tribunale di Taranto – autorità che ha l’obbligo di riferirne, pur sapendola innocente, accusava la dott.ssa Rita Romano, magistrato in servizio presso il Tribunale di Taranto, del reato di abuso d’ufficio, di falso in atto pubblico. In particolare, accusava il predetto magistrato utilizzando le seguenti frasi: “abusando dell’ufficio adottava atti con intento persecutorio, lesivi degli interessi, dell’immagine e della sua persona, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove” e “nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha adottato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza; ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza”. In Manduria (TA) il 27/01/2011 – competenza dell’A.G. di Potenza ex art. 11 c.p.p.

Il procedimento penale su denuncia di Rita Romano. Denuncia per calunnia e diffamazione, questa è l’accusa che mi si oppone. Calunnia per aver presentato in data 27/01/2011 al Presidente del Tribunale di Taranto in allegato ed a sostegno dell’atto di ricusazione, in procedimenti penali per il quale il magistrato denunciato era decidente sulle mie sorti, una richiesta motivata e circostanziata di avocazione delle indagini inviata al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Taranto, ma anche di Potenza. Avocazione delle indagini presentata il 18 aprile 2008 a Taranto e Potenza. Magistrato già precedentemente denunciato alle procure di Taranto e Potenza ben prima del 18 aprile 2008, sapendolo colpevole con prove a sostegno. Denunce presentate in data 22/03/2006 e rimaste lettera morta.

Diffamazione per aver presentato in data 27/01/2011 tale richiesta di avocazione delle indagini al Presidente del Tribunale di Taranto in allegato ed a sostegno dell’atto di ricusazione in procedimenti penali per il quale il magistrato denunciato era decidente sulle mie sorti. Diffamazione perché denunciavo la grave inimicizia causa di persecuzione. Diffamazione tardiva perché richiesta simile di ricusazione era stata presentata già il 29/09/2010. Le ricusazioni (erano tre per tre distinti procedimenti), poi, non sono state rese operative, in quanto il magistrato ricusato ha presentato la denuncia contro di me per giustificare la sua astensione. Cosa che rimarca ogni volta in tutti i procedimenti nei quali, investita come magistrato titolare, sia costretta a rinunciare: «Mi astengo dal procedimento a carico dell’imputato in quanto ho presentato denuncia penale contro lo stesso per calunnia e diffamazione.» Intanto per quei processi, sempre per diffamazione a mezzo stampa, con condanna scontata se fossi rimasto inerte,  sono stato successivamente prosciolto dagli altri giudici subentranti.   

La grave inimicizia, causa della ricusazione di cui si pretendeva l’impedimento dell’esercizio del diritto, era palesata dai precedenti giudizi di causa cui tale magistrato era competente ed io sempre soccombente, quando io esercitavo la professione forense, per le quali io ero imputato o difensore di parte. Dalla lettura delle sentenze si evince tale pregiudizio.

In effetti, la denuncia nei miei confronti, è un atto ritorsivo. Non tanto per la richiesta di ricusazione ed avocazione delle indagini ed atti allegati, ma per la mia attività di scrittore noto nel mondo che denuncia le malefatte dei magistrati a Taranto e pubblica quanto gli altri non osano dire. Vedi caso killer delle vecchiette, Sarah Scazzi, Ilva, ecc.

D'altronde la calunnia non sussiste, sapendo il magistrato colpevole ed evidenziandolo in più atti di denuncia, né sussiste la diffamazione, in quanto, ai sensi dell’art. 596 c.p., come pubblico Ufficiale la prova della verità del fatto determinato è ammessa nel processo penale.

Oltretutto i reati sono ampiamente prescritti e decaduti, ove vi fosse bisogno della querela.

Questa è la denuncia penale, così come richiesta in sede di avocazioni delle indagini alla procura Generale della Corte di Appello di Potenza, e per la quale è stata presentata (a dire di Rita Romano) denuncia per calunnia.

DENUNCIA ALLA S.V.

Rita Romano, giudice monocratico del Tribunale di Taranto, sezione staccata di Manduria,

domiciliata in viale Piceno a Manduria,

per i reati di cui agli artt. 81, 323, 476, 479 c.p., con applicazione delle circostanze aggravanti, comuni e speciali ed esclusione di tutte le attenuanti,

IN QUANTO

Essa, abusando del suo ufficio, ha adottato continuamente atti del suo ufficio, con “INTENTO PERSECUTORIO”, lesivi degli interessi, dell’immagine e della persona del sottoscritto, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove.

Nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha condannato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza, o essa ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza.

PREMESSO CHE:

Giangrande Antonio, da difensore, è stato vittima di un aggressione in casa da parte del marito di una sua assistita in un procedimento di separazione, al fine di impedirgli la presenza all’udienza del giorno successivo. Nel processo penale n. 10354/03 RGD, in data 14 febbraio 2006,  la Romano assolveva l’aggressore Mancini Salvatore. In un processo istruito, in cui il PM non ha richiesto l’ammissione di alcun testimone, pur indicanti in denuncia Giangrande Antonio, sua moglie Petarra Cosima e il figlio Giangrande Mirko, la Romano sente solo i coniugi ai sensi del’art. 507 c.p.p. su indicazione del Giangrande, ma rinuncia alla testimonianza di Mirko, il vero testimone. Tale abnorme decisione di assoluzione è stata assunta disattendendo i fatti, ossia le lesioni e le testimonianze, e definendo testimoni inattendibili il Giangrande e la Petarra.

Giangrande Antonio era accusato di esercizio abusivo della professione forense e per gli effetti di circonvenzione di incapace. Nel processo penale n. 7612/01 RGPM, in data 06/03/2007, nonostante lo stesso PM riteneva il reato di esercizio abusivo della professione forense infondato e inesistente, essendovi regolare abilitazione al patrocinio legale, chiedendone l’assoluzione, la Romano condannava il Giangrande per circonvenzione di incapace. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante le tariffe forensi prevedevano l’obbligatorietà dell’onorario per il mandato svolto. Tale abnorme decisione è stata assunta nonostante più volte si sia denunciata la violazione del diritto di difesa per mancata nomina del difensore, per impedimento illegittimo all’accesso al gratuito patrocinio. E’ seguito appello. Da notare che il giorno della sentenza era l’ultimo processo ed erano presenti solo il PM, il giudice Romano, il cancelliere e il difensore dell’imputato. Dagli uffici giudiziari è partita la velina. Il giorno dopo i giornali portavano la notizia evidenziando il fatto che il condannato Giangrande Antonio era il presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Era la prima volte che le vicende del Tribunale di Manduria avevano degna attenzione.

Giangrande Antonio era difensore di Natale Cosimo in una causa civile di sinistro stradale. Il testimone Fasiello Mario dichiara di non sapere nulla del sinistro. Esso era denunciato per falsa testimonianza. Nel processo penale n. 1879/02 PM , 1231/04 GIP, 10438/05 RGD, in data 27 novembre 2007, la Romano lo assolveva. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante lo stesso rendeva testimonianza contrastante a quella contestata. Lo assolveva nonostante affermava il vero e quindi il contrario di quanto falsamente dichiarato in separata causa. Lo assolveva nonostante a difenderlo ci fosse un difensore, Mario De Marco, impedito a farlo in quanto Sindaco pro tempore di Avetrana. Il De Marco e Nadia Cavallo hanno uno studio legale condiviso.

Giangrande Antonio e Giangrande Monica erano accusati di calunnia, per aver denunciato l’avv. Cavallo Nadia per un sinistro truffa, in cui definiva, in reiterati atti di citazione, Monica “RESPONSABILE ESCLUSIVA” del sinistro. Atti presentati due anni dopo la richiesta di risarcimento danni, che la compagnia di assicurazione ha ritenuto non evadere. Il Giangrande Antonio non aveva mai presentato denuncia. Antonio era fratello e difensore in causa di Monica. La posizione del Giangrande Antonio era stralciata per lesione del diritto di difesa e il fascicolo rinviato al GIP. Nel processo penale n. 10306/06 RGD, in data 18 dicembre 2007, la Romano condannava Giangrande Monica e rinviava al PM la testimonianza di Nigro Giuseppa per falsità. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante la presunta vittima del sinistro non abbia riconosciuto l’auto investitrice, si sia contraddetto sulla posizione del guidatore, abbia riconosciuto Nigro Giuseppa quale responsabile del sinistro, anziché Giangrande Monica. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante Nigro Giuseppa abbia testimoniato che la presunta vittima sia caduta da sola con la bicicletta e che con le sue gambe sia andato via, affermando di stare bene. E’ seguito appello.

Giangrande Antonio era difensore di Erroi Salvatore, marito di Giangrande Monica, sorella di Antonio. In causa civile, in cui difensore della contro parte era sempre Cavallo Nadia, tal Gioia Vincenzo ebbe a testimoniare sullo stato dei luoghi, oggetto di causa. Il Gioia, in chiara falsità, palesava uno stato dei luoghi, oggetto di causa, diverso da quello che con rappresentazione fotografica si è dimostrato in sede civile e penale. Il Gioia, denunciato per falsa testimonianza veniva rinviato a giudizio in proc. 24/6681/04 R.G./mod 21.  Difeso da Cavallo Nadia in proc. 10040/06 RGD. In data 16 aprile 2008 il giudice Rita Romano, pur evidenti le prove della colpevolezza, assolveva il Gioia Vincenzo.

"La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Rigetta, App. L'Aquila, 10 Marzo 2006)". (Cass. civ. Sez. III Sent., 22-02-2008, n. 4603; FONTI Mass. Giur. It., 2008).

Mallegni: "Non chiamatemi più Massimo della pena". Il sindaco di Pietrasanta dopo sei processi racconta la sua Odissea. Iniziata con l’esposto di una vigilessa che Renzi ha portato a Palazzo Chigi, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama” il 6 luglio 2015. "Ho una sola preghiera: non chiamatemi più Massimo della pena". Alla guida di una lista di centrodestra, Massimo Mallegni è stato appena rieletto per la terza volta e a furor di popolo sindaco di Pietrasanta, la città-gioiello della Versilia lucchese. Il nomignolo gliel’hanno affibbiato le malelingue toscane e non hanno tutti i torti: dal maggio 2001, pochi mesi dopo la prima elezione, Mallegni è finito sotto processo ininterrottamente per 13 anni. I processi sono stati sei e tutti duri, brutti e cattivi. Lui oggi scherza: "Silvio Berlusconi  si lamentava perché da presidente del Consiglio doveva dedicare un giorno a settimana ai suoi processi. Io ero costretto ad andare in tribunale tre volte a settimana". Sorride, Mallegni. Eppure è stato accusato di decine di reati, dalla A di abuso fino alla T di truffa. Lo hanno perfino arrestato, ha fatto 39 giorni di carcere e 119 agli arresti domiciliari. Ma tutto è sempre finito in nulla: proscioglimenti in istruttoria, assoluzioni con formula piena. Per qualche reato minore, prescritto, pende l’appello: "E solo perché mi sono sempre opposto alla prescrizione". Dall’ultimo procedimento è uscito definitivamente assolto nel febbraio 2014: un abuso d’ufficio ed edilizio per il quale, a lui albergatore già nel cuore della stagione turistica, il 4 agosto 2010 la Procura di Lucca aveva ordinato il sequestro della Spa dell’hotel. "Il sequestro" sottolinea Sandro Guerra, che del sindaco è (come da nome) il battagliero avvocato "l’aveva firmato un giudice che dopo l’arresto del 2006 aveva querelato Mallegni per diffamazione. Sicuramente non ha collegato le due vicende, ci mancherebbe". Era il momento in cui il già due volte sindaco era appena stato sbattuto, con padre e cinque assessori, nel carcere di Lucca. «Sezione 4, cella numero 17» dice Mallegni. «M’ha salvato la fede. Pensavo a mio figlio, a mia moglie…». Tornato a casa, ebbe la cattiva idea di pronunciare parole di sconforto, qualcosa sulla sua vita rovinata. Bastò a quel giudice per citarlo in giudizio. Il sindaco ricorda la cella: "Ero in isolamento, come i mafiosi al 41 bis, e sempre controllato dal foro nella porta, anche quando andavo al gabinetto. Ma gli agenti erano ottime persone". Questo va detto, di Mallegni. Non porta rancore, né si ritiene un perseguitato. Anzi, continua a ripetere che con lui "la giustizia ha funzionato". Un bel paradosso, non c’è dubbio. "Ho incontrato una ventina di giudici" spiega "e sono stati indipendenti. Hanno letto le carte, mi hanno ascoltato". L’avvocato Guerra è un po’ meno conciliante. Ricorda soprattutto i duelli in aula con il pubblico ministero "fratello". No, non massone, avete equivocato: fratello in senso stretto, di sangue. Perché all’origine dei peggiori guai di Mallegni ci sono stati gli esposti firmati da Antonella Manzione, ex comandante dei vigili urbani di Pietrasanta, e gestiti a livello giudiziario dal pm lucchese Domenico Manzione. Da allora fratello e sorella hanno fatto carriera. Domenico nell’ottobre 2009 fu nominato procuratore di Alba e dal maggio 2013è sottosegretario all’Interno, scelto da Enrico Letta e confermato da Matteo Renzi; Antonella invece è divenuta prima comandante dei vigili urbani di Firenze, con Renzi sindaco, e oggi è il suo capo dell’ufficio legislativo a palazzo Chigi. Mallegni non ce l’ha nemmeno con loro: "Si vede che lei è brava e lui è ancora più bravo" commenta. Ma torniamo alla querelle con la comandante dei vigili. Tutto inizia quando il sindaco si è da poco insediato a Pietrasanta, nel 2000. "Trovo una delibera firmata dal mio predecessore che riorganizza il Comune". La delibera pone fine a un’anomalia: la comandante è anche capo dello Sportello unico attività produttive, e le viene tolto il primo incarico. Mallegni conferma la delibera: "La signora non perde un euro" dice "ma evidentemente la cosa le provoca disagio. E presenta un esposto di 20 pagine alla Procura di Lucca". È da quelle pagine che partono tre processi, con 51 capi d’accusa. Manzione accusa Mallegni di avere abusato dell’auto di servizio ("Si dimostrò che in realtà era l’auto civetta dei carabinieri della scorta: avevo ricevuto 4 proiettili calibro 38 dal Partito comunista combattente"); di avere inalberato un lampeggiante blu sulla sua auto ("Altro errore: era la vettura di Gianfranco Fini, presidente della Camera"); di avere estorto a un vigile la remissione di una multa ("Ma era un’auto del Comune"). L’esposto, firmato da altri 5 vigili, si fa più delicato in campo urbanistico: qui Antonella Manzione accusa il sindaco di avere fatto sperticati maneggi. Ed è su questo tema che partono gli arresti del gennaio 2006, chiesti da Domenico Manzione per associazione a delinquere, truffa, abuso d’ufficio, voto di scambio, estorsione… "L’ex pm oggi nega di avere avuto un ruolo importante nel processo" polemizza l’avvocato Guerra "ma non è così. Lo seguì fino al suo trasferimento ad Alba, e ci sono i verbali delle udienze. Ricordo che, indispettito, uscì sbattendo la porta dall’aula alla fine di un lungo interrogatorio nel quale ponevo a testi e parti civili domande sul ruolo della sorella comandante dei vigili". Già nel 2006 la Cassazione stabilì che gli arresti erano stati illegittimi. "Intanto" ricorda Mallegni "avevo ricevuto 755 lettere di solidarietà dai miei concittadini". In Parlamento ci fu chi si rivolse al ministero della Giustizia, allora retto dal leghista Roberto Castelli, segnalando l’anomalia di Lucca, dove un pm agiva su esposti firmati da sua sorella: in procura arrivarono gli ispettori, poi il governo cadde e tutto finì in niente. Sei anni dopo il processo terminò allo stesso modo. Oggi Mallegni è di nuovo lì. Paura? "No" risponde. "Fare il politico da imprenditore non è conveniente, ma si deve andare avanti". E con il nuovo capo dei vigili urbani è tutto a posto? O si rischiano nuovi guai? "È uno dei cinque che mi aveva denunciato con la sua comandante. Ma è un tipo in gamba. E poi io non porto rancore".

Il Cav? È l'unico corruttore al mondo. La condanna di Silvio Berlusconi per il "tradimento" dell'ex senatore De Gregorio mostra la totale parzialità di una giustizia che vede solo quel che vuole vedere, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama” il 9 luglio 2015. A che cosa deve servire una sentenza di tribunale penale? A fare giustizia, risponderete voi. Errato: serve “a offrire una funzione generalpreventiva". Così ha detto ieri il pubblico ministero napoletano John Henry Woodcock nell'aula del processo sulla presunta compravendita dell'ex senatore Sergio De Gregorio. Il processo di primo grado si è concluso proprio ieri con la condanna di Silvio Berlusconi, il presunto corruttore, a tre anni di reclusione (ma l'accusa ne aveva chiesti cinque). L'altro condannato è Valter Lavitola, presunto tramite del passaggio di denaro (tre milioni di euro, due dei quali in nero) che pure si è visto assegnare tre anni. Strana maniera di vedere la giustizia, quella del pm Woodcock. Il processo, destinato a concludersi per l'intervenuta prescrizione, lascerà proprio per questo a metà ogni certezza giuridica. Non sarà quindi certa né l'attribuzione del reato, né la sua configurazione storica. Parlare di giustizia "generalpreventiva", in questo caso, è davvero improprio. Inoltre, la questione di cui si è dibattuto a Napoli è decisamente controversa: non solo nella verità storica dei fatti, negata con forza dagli imputati, ma anche in punto di diritto. È infatti la prima volta in Italia (ma forse anche nel mondo) che un "cambio di casacca" parlamentare viene punito con una condanna. In Italia, peraltro, la Costituzione prevede all'articolo 67 che nessun deputato o senatore possa essere soggetto a un "vincolo di mandato": questo vuol dire che è libero di esprimersi nel voto parlamentare come meglio crede, e anche di cambiare gruppo. Il procuratore di Napoli, Giovanni Colangelo, ha dichiarato però che a essere punita in questo caso "non è l'insindacabilità del voto, ma il condizionamento del voto: espresso non per libera scelta politica, ma per un pagamento. E il reato di corruzione non si riferisce all'espressione di un voto, ma alla promessa di un voto". Ma anche quella del procuratore Colangelo è una ben strana maniera di vedere le cose. Perché l'alto magistrato pare dimenticare le centinaia, migliaia di altri passaggi di campo che si sono verificati nella Storia parlamentare italiana, e pare dimenticare soprattutto che molti di questi hanno di certo avuto avuto alla loro base scambi di qualche utilità. Quante volte si è saputo (e scritto sui giornali) delle prebende o dei vantaggi ottenuti dal "traditore" di turno? Quanti senatori e deputati sono "migrati" soltanto in virtù delle garanzie di una successiva elezione, o della promessa del successivo ottenimento di posti importanti negli enti pubblici, o della facile carriera garantita in altro settore? Certo, il trasformismo è purtroppo costume trasversale, in questo Paese, fin dai tempi di Agostino Depretis. E non è certo pratica commendevole. Ma allora perché per le altre centinaia e migliaia di "cambi di casacca" parlamentari, comunque premiati con un vantaggio evidente, non si è mai ipotizzato che potesse trattarsi di corruzione? Eppure l'articolo 318 del Codice penale individua la corruzione nello scambio di un atto con "denaro o altra utilità". Non dovrebbe allora essere punito chi ha costretto decine di deputati berlusconiani a passare con il centrosinistra nelle precedenti legislature, per poi ottenere in cambio un seggio più sicuro alle successive elezioni?

Per di più, in questo caso, la ricostruzione giudiziaria del passaggio di De Gregorio con il centrodestra ha stravolto anche la verità storica. L'ex senatore infatti aveva trascorso tutta la sua vita politica nel centrodestra, per poi passare da ultimo (e strumentalmente) con il centrosinistra. Il suo "ritorno a casa" in realtà avviene nel 2006, all'inizio della legislatura. Questa circostanza nega con evidenza la "verità giudiziaria" uscita da Napoli, dove si è sentenziato che il tradimento di De Gregorio avrebbe causato la caduta del governo di Romano Prodi. In realtà il fragilissimo esecutivo di Prodi, che per lunghi mesi si era sostenuto soltanto con l'aiuto dei senatori a vita, avvenne nel 2008 per tutt'altro motivo: le crescenti turbolenze giudiziarie sul suo ministro della Giustizia, Clemente Mastella, e la sua uscita dalla maggioranza.

E poi… Silvio Berlusconi è decaduto da senatore e non è stato più candidabile per effetto della legge Severino, scrive "Il Corriere della Sera". Malgrado la stessa legge, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris (eletto nelle fila dell’Idv) e il neo-governatore della Campania Vincenzo De Luca del PD possono invece restare in carica, per effetto di sentenze sospensive a loro favorevoli. Come quella del 2 luglio 2015 che di fatto consente a De Luca di prendere pieno possesso delle proprie funzioni dopo la sua sospensione decretata nei giorni prima dal governo Renzi. Una diversità di applicazione della norma che fa insorgere il centrodestra: «Dopo il trattamento favorevole a de Magistris e De Luca, non chiamatela più legge Severino ma con il suo vero nome: legge anti-Berlusconi - commenta la deputata di Forza Italia, Elvira Savino -. Ormai è chiaro a tutti che è una legge, applicata addirittura retroattivamente, che è servita solo per estromettere vergognosamente il presidente Berlusconi dal Senato». Stesso concetto ribadito da Maria Stella Gelmini, per la quale si è trattato di una legge «contra-personam» («visto che dopo il caso Berlusconi non è stata più applicata o, laddove applicata, i suoi effetti sono stati cancellati con sentenze del Tar»), che aggiunge: «Ora è chiaro perché il governo non ritiene utile una revisione della legge Severino. Per la semplice ragione che essa viene interpretata per gli amici e applicata ai nemici. Con buona pace dello stato di diritto». Il capogruppo alla Camera di Forza Italia, Renato Brunetta, fa notare via Twitter che «la decisione del Tribunale di Napoli riabilita Berlusconi, ma il caso De Luca resta aperto. Sinistra giustizialista chieda scusa a Cav. Severino da cambiare!». E con un paio di tweet interviene anche Giorgia Meloni, già ministro del governo Berlusconi, secondo cui la legge Severino è «l’unica vera legge ad personam. #superioritamoraleuncorno». E ancora: «De Luca te lo avevamo detto che potevi stare sereno: la Severino vale solo per Berlusconi e il centrodestra. La sinistra è al di sopra della legge». In una nota, i legali del leader FI, Franco Coppi, Piero Longo e Niccolò Ghedini, parlano di «gravissima ingiustizia» osservando come siano «quasi due anni che inascoltati sosteniamo la assoluta inapplicabilità della legge Severino ai fatti precedenti, per il fondamentale principio di irretroattività. Finalmente alcune decisioni stanno riconoscendo la evidente correttezza di questa impostazione».

«Renzi può intervenire con una modifica alla legge Severino, cosa che non ha ritenuto di fare quando si è trattato di Silvio Berlusconi. - Così l’ex Cavaliere a Radio anch’io, commentando la vicenda del candidato Pd alle regionali campane Vincenzo De Luca, candidabile ma ineleggibile per la legge sulla “repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione". - Io chiedevo – ha sostenuto Berlusconi – una cosa semplice, cioè di aggiungere una norma che dice che la presente legge si applica a fatti successivi alla sua entrata in vigore. Cosa addirittura pleonastica ma che è stata dimenticata, e la legge Severino con me è stata applicata retroattivamente. Così sono riusciti a farmi decadere dal Senato e rendermi incandidabile per sei anni. Tuttavia sto aspettando la Corte dei diritti di Strasburgo e spero che la sentenza verrà ribaltata».

«Fino ad ieri potevamo, politicamente, solo sospettare che la legge Severino fosse stata fatta per espellere Berlusconi dal Senato. Da ieri, invece, dopo tre indizi abbiamo raggiunto la prova “regina”, storica e politica al tempo stesso: la legge Severino fu fatta contro e ad personam». Maria Stella Gelmini attacca nonostante siano trascorsi ormai di due anni da quando, all’indomani della sentenza Mediaset della Cassazione, il Senato espulse Silvio Berlusconi. Proprio per effetto della legge Severino, scrive Antonio Manzo su “Il Mattino”.

Quali sono i tre indizi, onorevole Gelmini, che la fanno raggiungere la prova?

«De Luca uno, con il Governo che si guarda bene dal sospenderlo subito; De Luca due, con l’ordinanza urgente del tribunale di Napoli; De Magistris tre, salvato sempre dallo stesso giudice civile del caso De Luca. Abbiamo avuto così la dimostrazione che tra ordinanze e sentenze, la legge Severino è stata interpretata, favorevolmente, per gli amici ed è stata applicata, implacabilmente, per i nemici. Altro che garantismo, qui è la morte dello stato di diritto».

Scusi, ma uno dei presupposti delle valutazioni dei magistrati è che sia nel caso di De Luca, che in quello di de Magistris fossero in gioco valori costituzionalmente protetti come quelli espressi da rappresentanti istituzionali eletti dal popolo?

«Se c’è un leader politico che in Italia può dichiarare, a piena voce, di essere un eletto dal popolo è Silvio Berlusconi. Che poi anche De Luca e de Magistris siano stati eletti dal popolo per governare la Regione Campania ed il Comune di Napoli, è altra storia. Nel caso di Silvio Berlusconi è stata minata, stracciata, distrutta la volontà popolare e il valore elettivo, quello sì costituzionalmente protetto ed universale, incarnato da un membro del Parlamento, massima espressione della democrazia repubblicana. È un vulnus più grave. Non le pare?»

La legge Severino fu votata anche da voi di Forza Italia. È mai possibile che nessuno si sia accorto all’epoca dei fatti dei profili di incostituzionalità che oggi vengono a più riprese evidenziati?

«Vogliamo ricordare in che clima e in che contesto fu varata la legge Severino? Ebbene, contestualizziamo l’epoca, è quella del Governo Monti che cacciò Berlusconi, eletto dal popolo».

Governo votato dal Parlamento, l’unità nazionale con lo spread in salita quotidiana...

«Quella fu la cacciata di Silvio Berlusconi, eletto dal popolo, che inaugurò la stagione dei nominati a Palazzo Chigi, Monti, Letta e Renzi». 

Ma è anche il tempo, ricorderà, degli scandali Fiorito, Lusi, Belsito, tutta gente che aveva preso in ostaggio le casse dei rispettivi partiti rimpinguate dal finanziamento pubblico come un bancomat personale.

«Non vorrà mica farmi dire che la ricostruzione del contesto politico dell’epoca, con la cacciata di Berlusconi da palazzo Chigi, annulli le responsabilità di chi aveva fatto dei partiti un bancomat personale? E allora, che ci volesse una reazione con norme più incisive alla corruzione, che facessero riguadagnare la faccia alla politica, è cosa scontata ed ineludibile. Ma che quella della legge Severino fosse una reazione emotiva è altrettanto vero. Anzi, come poi abbiamo registrato, sottintendeva l’idea piuttosto obliqua di prefigurare una risposta repressiva contro il leader dell’opposizione parlamentare, Silvio Berlusconi. Altro che questione morale...».

La prova definitiva: in Italia la legge non è uguale per tutti, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. La legge non è uguale per tutti. Per qualcuno è più uguale di altri, nel senso che è più rigida, soprattutto se ci si chiama Silvio Berlusconi. Ricordate la sentenza con cui l’ex Cavaliere è stato condannato a quattro anni di detenzione e sospeso dai pubblici uffici? Cioè quella misura che ha consentito la sua estromissione dal Parlamento e ha stabilito la sua ineleggibilità? Per i giudici della Corte di Cassazione il fondatore di Forza Italia fu l’artefice di una frode fiscale ai danni dell’erario e per questo fu costretto non solo a lasciare il suo seggio da senatore, ma anche a risarcire l’agenzia delle entrate. Peccato che in una sentenza del 20 maggio 2014, cioè emessa dieci mesi dopo quella pronunciata contro Berlusconi, la suprema corte si rimangi tutto, sostenendo che non si può condannare un contribuente solo in base alla presunzione di colpevolezza. Per stabilire che ha frodato il fisco ci vuole ben altro, ad esempio un atto fondamentale, ossia che l’accusato abbia materialmente partecipato alla frode compiendo l’atto finale: la dichiarazione dei redditi. Testuale: «I reati di dichiarazione fraudolenta hanno natura istantanea e si consumano soltanto con la presentazione della dichiarazione annuale». Ancor più esplicita: i reati di frode non possono essere provati «dalla mera condotta di utilizzazione, ma da un comportamento successivo e distinto, quale la presentazione della dichiarazione, alla quale in base alla disciplina in vigore non dev'essere allegata alcuna documentazione probatoria». Tradotto, tutto quel che succede prima, tutta la fase di valutazione antecedente al fatto, non ha importanza, perché «il comportamento precedente alla dichiarazione, quindi si configura come ante factum meramente strumentale e prodromico per la realizzazione dell'illecito, e perciò non punibile». La Cassazione, assolvendo nel maggio scorso un imputato di frode fiscale, nega dunque la rilevanza penale delle violazioni «a monte» della dichiarazione e lo fa facendosi forte di una serie di pronunciamenti passati. A qualcuno il discorso potrà sembrare ostico e forse anche ininfluente, in quanto la sentenza si riferisce a un caso diverso rispetto a quello di Silvio Berlusconi e, come è a tutti noto, ogni processo fa caso a sé, anche perché ogni giudice fa caso a sé. E per questo appunto c'è la Cassazione e le sezioni unite che fissano i principi inderogabili. I principi valgono per tutti e non si possono cambiare le carte in tavola a seconda di chi finisce alla sbarra. Dunque «i comportamenti di un soggetto quando era ancora amministratore di una società e che si era dimesso prima della presentazione della dichiarazione dei redditi, non possono essere valorizzati neppure in termini di concorso con colui che, rivestendo successivamente la carica di amministratore, aveva indicato nella dichiarazione gli elementi fittizi». Tutto ciò messo nero su bianco da una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, un provvedimento che fa giurisprudenza e al quale ci si deve attenere.

"Ora la revisione del processo Mediaset". Una sentenza di assoluzione della Cassazione su un caso analogo a quello di Berlusconi riapre la partita. L'annuncio di Ghedini, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. C'è una sentenza della Cassazione che, dieci mesi dopo quella Mediaset di condanna di Silvio Berlusconi, la bolla esplicitamente come sbagliata. Si regge su una tesi, spiega la motivazione, «che non può essere qui condivisa e confermata, perché contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa Corte e al vigente sistema sanzionatorio dei reati tributari». Il caso è del tutto analogo a quello Mediaset, frode fiscale, le conclusioni opposte: sentenza di condanna confermata per il leader azzurro il primo agosto 2013, sentenza di condanna annullata per il signor X il 20 maggio 2014. Colpisce che il relatore sia lo stesso, il giudice Amedeo Franco, che già aveva firmato precedentemente altre sentenze «conformi» a quest'ultima. E che la sezione sia la Terza penale, cui era naturalmente destinato il processo Mediaset prima di venire dirottato a quella Feriale, presieduta da Antonio Esposito, per il timore (poi, a quanto sembra, rivelatosi infondato) che nei mesi estivi potesse scattare la prescrizione. «Questo dimostra - spiega il legale di Berlusconi, Niccolò Ghedini - che la condanna Mediaset ha rappresentato un unicum nella giurisprudenza della Cassazione. Che prima e dopo la legge è stata interpretata in maniera diversa, con un orientamento univoco. Se il processo Mediaset fosse arrivato alla Terza Sezione e non in quella Feriale, e con quello stesso relatore, sarebbero cambiate le sorti di Berlusconi e del Paese, sarebbe cambiata la storia. Questo sarà un elemento importante per la decisione della Corte europea per i diritti dell'uomo, che attendiamo. Ma soprattutto, sulla base di questa sentenza e delle nuove prove che abbiamo raccolto, chiederemo la revisione del processo». La difformità nella giurisprudenza di per sé non produce effetti sulla condanna Mediaset, ma potrebbe convalidare una violazione del principio del giusto processo, tra le ipotesi che giustificano la revisione del processo. E la strada sarebbe aperta se la Corte di Strasburgo, nella pronuncia attesa dopo l'estate, affermasse appunto che questa violazione c'è stata. È vero che ogni giudice e ogni collegio fa giurisprudenza a sé, ma è anche vero che la Suprema Corte ha proprio la funzione di uniformare l'interpretazione e l'applicazione del diritto. È lecito chiedersi perché prima della sentenza Mediaset si è seguita una strada precisa per il reato di frode fiscale e anche dopo è stato così, mentre in quel caso isolato ha prevalso proprio la teoria rivelata dal presidente Esposito in un'intervista al Mattino che gli ha procurato un processo disciplinare: Berlusconi fu condannato «perché sapeva», fu informato da altri della frode, non per il principio astratto del «non poteva non sapere», essendo il capo. Proprio qui sta il punto in cui la sentenza depositata in Cassazione il 19 dicembre scorso contraddice quella Mediaset, che cita esplicitamente, con data e numero di serie. Contestando la condanna dell'imputato, i Supremi giudici scrivono: «In sostanza, la corte d'appello appare aver adottato una interpretazione (analoga a quella poi seguita dalla Sezione feriale 1-8-2013, n.35729) nel senso che per la sussistenza del reato sarebbe sufficiente la prova di un "coinvolgimento diretto e consapevole alla creazione del meccanismo fraudolento... che ha consentito... di avvalersi della documentazione fiscale fittizia", al sottoscrittore della dichiarazione». Invece, continua la sentenza, questo non è affatto sufficiente. E le massime che l'accompagnano, quelle che per il futuro indicano ai giudici come interpretare la legge, dicono chiaro che: «I reati di dichiarazione fraudolenta hanno natura istantanea e si consumano soltanto con la presentazione della dichiarazione dei redditi». Le fasi preparatorie, il sapere o non sapere, non contano.

La Cassazione si rimangia la sentenza su Berlusconi, scrive Davide Giacalone su “Libero Quotidiano”. Il condannato Silvio Berlusconi ha terminato di espiare la pena. E questo è noto a tutti. Quel che non è noto, però, è che nel frattempo la corte di Cassazione ha condannato la sentenza che lo condannava. La considera un’eccezione, da non prendere ad esempio, perché sbagliata. Il nome del condannato agita le tifoserie. Gli capitava da imprenditore, ancor più da politico. La condotta di quelle trincee vocianti non è per nulla interessante. Talora neanche ragionevole. La linea cui ci si deve attenere, quando si affrontano questioni di giustizia, consiste nel non cedere alla contrapposizione fra innocentisti e colpevolisti, ma di attenersi alla difesa del diritto e dei diritti. Solo in questo modo non ci si limita a discutere casi personali, sollevando questioni che, sempre, riguardano tutti. Il che vale anche questa volta. Ma non faccio il falso ingenuo, so bene che il nome di Berlusconi è divisivo, capace, per i simpatizzanti e gli antipatizzanti, di distorcere la percezione della realtà. Chiedo uno sforzo, però: prima si capisca quel che è successo, poi si passi alle considerazioni, anche politiche e personali, che se ne possono far discendere. Con sentenza della Cassazione, emessa il primo agosto del 2013 (numero 35729), è stata confermata la condanna inflitta agli imputati in appello. Per Berlusconi la Cassazione chiese anche il ricalcolo della pena accessoria. Il reato contestato era la frode fiscale, con violazione (scusate la pedanteria, ma fra poco ne sarà chiara la ragione) del decreto legislativo 10 marzo 2000, numero 74. Detto in soldoni: la dichiarazione dei redditi della società (Mediaset) era mendace, giacché contenente riferimenti e contabilizzazioni di documenti falsi (fatture). Il seguito lo conoscono tutti: decadenza da parlamentare e affidamento ai servizi sociali. Il 20 maggio del 2014, quasi un anno dopo, quindi, la terza sezione della corte di Cassazione si è trovata ad esaminare un caso del tutto analogo, emettendo una sentenza, depositata in cancelleria il 19 dicembre successivo. L’imputato era stato condannato a due anni e sei mesi di reclusione. Osserva la Cassazione, a pagina 10 della sentenza: «In sostanza, la corte d’appello appare aver adottato una interpretazione (analoga a quella poi seguita dalla Sezione Feriale 1/8/2013, n. 35729) nel senso che per la sussistenza del reato sarebbe sufficiente la prova di un “coinvolgimento diretto e consapevole alla creazione del meccanismo fraudolento (…) che ha consentito (…) di avvalersi della documentazione fiscale fittizia” al sottoscrittore della dichiarazione» (corsivo e omissioni come da sentenza). Tenetevi forte, perché le parole che seguono vanno valutate una per una. Scrive la Corte: «Si tratta però di una tesi che non può essere qui condivisa e confermata, perché contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa Corte ed al vigente sistema sanzionatorio dei reati tributari introdotto dal legislatore con il decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74». Detto in altro modo: le ragioni per cui Berlusconi, assieme ad altri, è stato condannato non solo sono difformi dalla «contraria» e «assolutamente costante e pacifica giurisprudenza» della Cassazione, ma sono in contrasto con quanto stabilisce la legge. Tanto che, quel 20 maggio dell’anno scorso, la Cassazione annullò la sentenza che le era stata sottoposta. Il primo agosto del 2013, invece, la confermò. Non è finita. Alla sentenza si accompagnano delle «massime», che sono delle brevi citazioni, utili a fissare i principi di diritto che la sentenza afferma. La Cassazione, infatti, esiste quale giudice di legittimità ed ha una funzione nomofilattica, che significa: garantire l’uniformità dell’interpretazione e dell’applicazione del diritto. Le massime aiutano i futuri giudici di merito (e gli avvocati, naturalmente) ad attenersi a quell’uniforme interpretazione e applicazione. Ebbene, la sentenza di cui parliamo è accompagnata da alcune massime, in calce alle quali ci sono i riferimenti a varie sentenze, sempre della Cassazione, «conformi», vale a dire che sostengono la stessa cosa. E c’è la difforme: la numero 35729. Quella che condannò Berlusconi. Nelle motivazioni e nella massime si legge la corretta interpretazione della legge: la frode fiscale nasce e si concretizza nel momento in cui è firmata la dichiarazione mendace, mentre nessuno degli atti preparatori può, in nessun caso, essere utilizzato per dimostrarla e indicarne il colpevole. Tale, del resto, è chi firma il falso, ovvero nessuno degli imputati allora condannati. Ma colpevole può anche essere chi induce l’amministratore di una società in errore, mediante l’inganno. Circostanza negata dalla sentenza d’appello, quindi, ove la si voglia contestare, sarebbe stato un motivo di annullamento (con rinvio), non di conferma. Colpevole può anche essere l’amministratore di fatto, ovvero la persona che non figura come amministratore, ma che ne esercita le funzioni. Nel qual caso, però, si deve dimostrarlo. Senza nulla di ciò non può esserci condanna, questo stabilisce la Cassazione, con «assolutamente costante e pacifica giurisprudenza». Vengo all’ultimo aspetto, che a sua volta ha un peso dirompente. I contrasti di giurisprudenza esistono fin da quando esiste la giurisprudenza. Per quanto la Cassazione s’affanni a perseguire l’uniformità, agguantarla in modo assoluto è impossibile. Quindi, se due giudici emettono sentenze diverse non è una cosa poi così terribile. Peccato, però, che la Cassazione esiste proprio per correggere, non per produrre le difformità. E peccato che, in questo caso, non ci sono due giudici, ma uno solo. I due collegi, quello del 2013 e quello del 2014, si compongono complessivamente di dieci giudici, ma, come si vede dal frontespizio delle due sentenze, il «consigliere relatore» è uno solo. La stessa persona. Che ad agosto del 2013 scrive una cosa e a maggio del 2014 la demolisce. Anche in modo sprezzante, e ben più a lungo e dettagliatamente di quanto qui riportato. Nessuno pensi di cavarsela supponendo uno sdoppiamento della personalità. Meno ancora in un cambio di opinione, perché ha messo nero su bianco che l’orientamento era univoco sia prima che dopo. In quelle parole, dure e inequivocabili, io leggo il dolore. Un cultore del diritto cui si è storto fra le mani. E siccome la legge impedisce a un giudice di manifestare e rendere noto il proprio dissenso (in altri sistemi di diritto si verbalizza il diverso parere e, anzi, lo si utilizza pubblicamente per aiutare l’interpretazione della sentenza), quello ha preso la forma di una sentenza successiva. Tutto questo dice una cosa terribile: s’è scassata la Cassazione. La prova ce l’avete sotto gli occhi, contenuta nelle due sentenze. Questo è il punto che considero più rilevante e, ovviamente, di valore generale. Ma so benissimo che tutti guarderanno al nome del condannato, sicché aggiungo un dettaglio, che le tifoserie interpreteranno da par loro, mentre a me preme perché conferma quanto appena, tristemente, constatato: quel condannato, quando ancora era imputato, sarebbe dovuto finire davanti alla terza sezione, perché così stabilisce la Costituzione, affermando che il giudice non lo sceglie nessuno, ma è precostituito per legge, invece finì davanti alla sezione feriale. Perché accadde? Allora si disse, e ovunque si scrisse, perché i reati contestati sarebbero andati in prescrizione di lì a qualche settimana. In questi casi, giustamente, non si lascia che le ferie dei giudici mandino al macero le sentenze. Ma l’autorità giudiziaria di Milano, dove si era svolto il processo e dove risiedeva la procura che aveva sostenuto l’accusa, aveva inviato un fax con il quale dimostrava che la prescrizione, correttamente conteggiata, non era così imminente. Le tifoserie pro Berlusconi grideranno d’orrore, vedendoci il complotto. Le tifoserie anti Berlusconi grideranno d’orrore, vedendoci la delegittimazione di giudici e sentenza. Lasciatemi accudire l’orrore silente, per una giustizia che si fatica a considerare tale.

I giudici Esposito e Berlusconi: il figlio gli chiedeva favori, il padre lo condannava, scrive  "Articolo 3". Si torna a parlare degli anomali rapporti tra i giudici Esposito, padre e figlio, e l'ex premier Silvio Berlusconi. Il motivo è chiaro: nell'agosto del 2013, il collegio della Corte di Cassazione, presieduta da Antonio Esposito, aveva confermato la condanna di 4 anni per evasione fiscale nei confronti di Berlusconi, nell'ambito del processo Mediaset. Nello stesso periodo, però, il figlio di Antonio, Ferdinando Esposito, giudice a Brescia, aveva avuto rapporti con l'ex premier. E non solo: ci sarebbero state anche delle visite, ad Arcore, e regali. Il rapporto "sconveniente" è emerso nell'ambito di un altro processo, che con quello Mediaset non c'entra niente: Ferdinando Esposito è indagato per “tentata induzione indebita” e “tentata estorsione”. Secondo gli inquirenti, avrebbe fatto pressioni indebite per spingere un avvocato, oggi suo accusatore, a subentrare nell'affitto da 32mila euro annui della casa in cui il pm abitava. L'accusatore di Esposito, nel raccontare il tutto, aveva anche rivelato appunto i rapporti con Berlusconi. E il giudice, da parte sua, li ha confermati: ha rivelato di aver conosciuto l'ex premier attraverso la parlamentare di Forza Italia Michela Brambilla e, tra il 2009 e il 2013, vi furono anche delle visite ad Arcore che, secondo il pm, riguardavano una sua «possibile entrata in politica», cosa che poi non è avvenuta. "Io mai e poi mai nella maniera più assoluta ho trattato questioni che avessero a che fare con i processi Ruby e Mediaset”, ha precisato, pur confessando di aver anche ricevuto dei regali da Berlusconi: «Soltanto regalie d’uso che è solito dare a tutti quando si presentano lì», ossia cravatte.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Più di 5 milioni di italiani con la tangente o la raccomandazione, scrive Paolo Comi su “Il Garantista”. C’è una ricerca del Censis, che è stata presentata a Roma, molto interessante su svariati argomenti (la ricerca è sul rapporto tra mondo produttivo e pubblica amministrazione) e che ci fornisce in particolare un dato sul quale sarà giusto riflettere. Questo: quattro milioni e mezzo di italiani ammettono di avere fatto ricorso a una raccomandazione per ottenere una maggior velocità (e un buon esito) alle pratiche disperse nei meandri dell’amministrazione pubblica. E addirittura 800 mila ammettono di avere fatto un regalino a dirigenti e funzionari per avere in cambio un atto dovuto. Regalino, a occhio, è qualcosa di simile alla tangente. Le cifre poi vanno lette bene. Se quattro milioni e mezzo ammettono, è probabile che altri quattro milioni e mezzo non ammettono. E così per gli 800 mila. Le cifre vere potrebbero essere 9 milioni di raccomandazioni e un milione e seicentomila piccole tangenti. Se consideriamo che non tutta la popolazione attiva (e cioè circa 40 milioni di persone) ha avuto bisogno di velocizzare pratiche nella pubblica amministrazione (diciamo circa la metà) otteniamo questo rapporto: su 20 milioni di persone che hanno avuto problemi con la pubblica amministrazione, 9 milioni hanno fatto ricorso a una raccomandazione, perché conoscevano qualcuno, un milione e seicentomila ha pagato una tangente, altri 9 milioni e quattrocentomila se ne sono stati buoni buoni in fila ad aspettare. E’ abbastanza divertente intrecciare questi dati coi dati su coloro che chiedono più rigore, più pene, severità e ferocia contro la corruzione. Corrotti, corruttori e ”punitori” di corruttori e corrotti, spesso, sono la stessa persona. La ricerca del Censis ci consegna una realtà nitida e incontrovertibile: almeno la metà degli italiani fa uso di forme soft di corruzione. E le forme, probabilmente, sono soft perché non esistono le possibilità che siano hard. Perché questi nove milioni non hanno né potere né soldi. Naturalmente di fronte a questo dato si può dire: colpa dei politici che danno il cattivo esempio. Beh, questa è una stupidaggine. Non c’è un problema di cattivo esempio, perché anzi, da almeno vent’anni, i politici e i giornalisti e tutti i rappresentanti delle classi dirigenti, delle professioni, dei mestieri e della Chiesa, non fanno altro che indicare la corruzione come il peggiore dei mali che ammorba la nostra società. Il problema è che spesso, gli stessi, ricorrono in qualche modo alla corruzione e non si sentono per questo incoerenti. Qualche caso un po’ clamoroso di ipocrisia è saltato fuori recentemente dalla cronaca, fior di imprenditori antimafia e anticorruzione presi con le mani nel sacco. La gran parte dei casi però non emerge. Potete star sicuri, ad esempio, che una buona parte degli opinionisti, dei giornalisti e dei politici che tutti i giorni si impancano e vi fanno la lezione di moralità, qualche mancetta l’hanno lasciata, qualche pagamentino in nero lo hanno accettato, qualche rimborso spese di troppo… L’altro giorno, in una intervista divertentissima, il vecchio Pippo Baudo raccontava, sorridendo, di quando il principe dei moralizzatori, Beppe Grillo, si faceva pagare dalla Rai il rimborso spese per il soggiorno a Roma, se lo metteva in tasca, e poi andava a mangiare e a dormire a casa di Pippo. Il vecchio Baudo se la rideva, e ha anche raccontato di quel giorno che Beppe gli ha detto: «Magari, per sdebitarmi, lascio una mancia alla Nena». La Nena era la donna di servizio di Baudo, e Baudo subito ha detto a Beppe che gli pareva un’ottima cosa, e gli ha chiesto quanto pensava di lasciarle. Grillo, vecchio genovese, ha risposto: «Che dici, cinquemila?». «Non sarà troppo?, gli ha ribattuto, ironico, Pippo Baudo. E allora Grillo ha sentenziato: «No, meno di 5000 no, allora è meglio niente». E non gli ha lasciato niente… Così il rimborso se l’è preso tutto intero. Non sarà colpa dell’esempio, ma comunque è colpa dei politici. La raccomandazione e la tangente sono un frutto del modo nel quale è organizzata la vita pubblica. E i politici di questo sono responsabili. La mancata trasparenza (nella pubblica amministrazione come negli appalti) è la causa vera della corruzione. Perché la rende possibile e perché la rende indispensabile. Però di tutto questo frega poco a tutti. Prendiamo la questione degli appalti. E’ chiaro come l’acqua che il sistema complicatissimo vigente (in Italia ci sono oltre 30 mila stazioni appaltanti, e non si sa a chi rispondano, e non si sa chi decide, e ognuna adopera criteri tutti suoi per valutare, e non sia sa chi e come può controllare ed eventualmente indagare) consegna poteri discrezionali enormi a un certo numero di persone e -spesso – ad alcuni politici. Che naturalmente esercitano questo potere. Alcuni, meritoriamente, in modo onesto – ma perché sono disperatamente onesti loro, incorruttibili – alcuni in modo meno onesto, o comunque traendone qualche utilità. Moltissime volte l’appalto viene assegnato senza gara. Altre volte col sistema del ribasso dei prezzi, che è un sistema assurdo perché consegna un potere immenso a chi decide e presuppone un rapporto forte e sregolatissimo tra impresa e stazione appaltante. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che, in seguito a una perizia seria, si può stabilire che costruire in quel luogo una scuola con certe caratteristiche e di una certa grandezza costa una cifra tot. Diciamo 10 milioni. L’appalto non può essere dato a chi chiede meno. Se uno mi offre di fare quella scuola a 5 milioni, mi sta fregando. O pensa di fare la scuola con la carta pesta, o pensa di farla piano piano e che tra due anni chiederà una revisione prezzi e otterrà 15 milioni ( e poi magari la farà lo stesso di carta pesta…). L’appalto deve essere concesso a una cifra fissa all’azienda che da le maggiori garanzie. E da un numero ridottissimo e quindi controllabile di stazioni appaltanti. Se fosse così sarebbe molto difficile corrompere qualcuno. E la stessa cosa per le pratiche della pubblica amministrazione. Vanno semplificate, spesso abolite, deburocratizzate e risolte in tempi certi. Ottenere qualcosa del genere sarebbe una riforma seria. Una riforma dello Stato molto, molto più utile e profonda dell’abolizione del Senato e roba simile. Perché nessuno le chiede queste leggi? Perchè la politica e l’intellettualità italiana sono nelle mani di un cerchio magico (che si è costruito, trasversale, attorno al triumvirato Anm-Travaglio- Salvini) il quale se ne frega delle riforme e chiede solo pene severe. Per loro non contano le leggi, le idee, contano gli anni di carcere e basta. Adesso hanno stabilito che la pena massima per la corruzione sale da otto o dieci anni. E sono felici, e brindano, e sentono le manette tintinnare allegre. Riforma forcaiola e inutile. Il problema non è di tenere un povero cristo in prigione per due anni di più, il problema è di rendergli impossibile la corruzione. Ma questa idea non piace a nessuno. Non piace a Salvini, non piace a Travaglio, non piace all’Anm, non piace, probabilmente, neanche a Renzi, e nemmeno ai 4 o 9 o 10 milioni di italiani delle raccomandazioni e dei regalini. A loro piace solo sapere che impiccheranno Lupi con una corda d’oro.

«Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Molti puzzano perché tengono lo stesso vestito per settimane. Si costruiscono baracche nelle periferie. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano in 2 e cercano una stanza con uso cucina. Dopo pochi giorni diventano 4, 6, 10. Parlano lingue incomprensibili, forse dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina; spesso davanti alle chiese donne e uomini anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti.

Le nostre donne li evitano sia perché poco attraenti e selvatici, sia perché è voce diffusa di stupri consumati quando le donne tornano dal lavoro. I governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, di attività criminali.

Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione».

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Fonte:
Relazione dell'Ispettorato per l'immigrazione del Congresso degli Stati Uniti sugli immigrati italiani, ottobre 1919.

Razzismo, la gaffe di Germano: falso il testo letto ai bimbi rom. Elio Germano, attore figo, impegnato e perciò di sinistra, ha pensato bene di dare il suo contributo alla mobilitazione contro Salvini. Ma ha fatto una clamorosa gaffe, scrive Giampaolo Rossi su “Il Giornale”. Elio Germano, attore figo, impegnato e perciò di sinistra, ha pensato bene di dare il suo contributo alla mobilitazione delle anime belle contro Salvini e il pericolo della destra intollerante e, soprattutto, ignorante. Per questo ha realizzato un video contro il razzismo; ha preso un gruppo di bambini Rom sullo sfondo di una roulotte, si è seduto in mezzo a loro e ha iniziato a leggere un documento con tono recitato (come si addice ai grandi attori) e l’aria di chi sta svelando al mondo una verità nascosta ma scontata. Il testo è una descrizione offensiva e razzista degli italiani emigrati in America agli inizi del ‘900, definiti ladri, puzzolenti, stupratori, abituati a vivere dentro baracche fatiscenti e organizzati secondo regole di clan. Elio Germano spiega che quel testo è un documento dell’allora Ispettorato per l’Immigrazione degli Stati Uniti. L’obiettivo dell’attore è ovvio: dimostrare che certi italiani di oggi sono razzisti verso gli immigrati e i Rom, come lo erano gli americani verso gli italiani all’inizio del secolo. Tutto molto bello e politically correct, se non fosse che, a quanto pare, quel documento è una patacca, un falso. Il testo, che gira da molti anni su internet, fu già utilizzato nel 2013 da Roberto Saviano (uno che di patacche se ne intende) nel salottino televisivo di Fabio Fazio. Più recentemente, Carlo Giovanardi, l’agguerrito deputato di centrodestra, ha pubblicato il vero documento originale della Commissione Dillingham sull’Immigrazione, che non contiene nulla di quanto letto dagli antirazzisti di mestiere, ma al contrario è un’attenta analisi dell’immigrazione italiana del periodo. Che giudizi sprezzanti e spesso offensivi contrassegnassero l’opinione pubblica americana nei confronti degli italiani (soprattutto meridionali) è cosa appurata storicamente da diversi studi. Ma quel documento che i fulgidi artisti di sinistra si passano di mano in ogni occasione per dare del razzista a chiunque contesti l’immigrazione clandestina, è una patacca degna della loro inutile demagogia.

Saviano va in tv a spiegare che una volta eravamo noi italiani gli zingari d’America. Ma è una bufala. Giugno 12, 2013 Carlo Giovanardi. Ospite di Fabio Fazio, lo scrittore cita «un documento dell’Ispettorato per l’immigrazione Usa» che tratta gli italiani come zecche. Peccato che sia una patacca Domenica 26 maggio Roberto Saviano, intervistato da Fabio Fazio nella trasmissione Che tempo che fa, per combattere quella da lui definita l’ondata di «odio morale verso gli immigrati» ha letto un testo. Cito testualmente le sue parole: «Avevo visto e trascritto qui alcune parole della relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso americano, quindi un documento ufficiale del governo americano del 1912, così descrive gli italiani». Ecco il testo letto da Saviano: «Gli italiani sono generalmente di piccola statura e di pelle scura, non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane, si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Si presentano di solito in due, cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci, tra loro parlano lingue a noi incomprensibili probabilmente antichi dialetti. Molti bambini  vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, fanno molti figli che poi faticano a mantenere. Dicono siano dediti al furto, e le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici, ma perché si parla di stupri o agguati in strade periferiche. Propongo che si privilegino le persone del nord, veneti e lombardi, corti di comprendonio e ignoranti, ma disposti più degli altri a lavorare». Concludeva poi Saviano: «Incredibile che il nostro paese tutto questo non lo ricordi, non ne faccia memoria attiva, ma lo trasferisca quando si rivolge ad altre comunità o “etnie”». Conosco bene la storia dell’emigrazione italiana e delle terribili discriminazioni e umiliazioni di cui i nostri connazionali sono stati vittime all’estero ma, trovandomi per caso quella sera davanti alla tv di Stato, mi è parso del tutto evidente il fumus di “patacca” che emanava da frasi così volgari ed offensive in un documento ufficiale del Senato degli Stati Uniti nei confronti di un intero popolo. Una rapida ricerca su Google mi ha permesso di scoprire che già Paolo Attivissimo sul sito del CICAP (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale), aveva a suo tempo verificato che di quel testo erano in circolazione varie versioni, una delle quali, lanciata da Rainews24, citava come fonte il giornalista e conduttore televisivo Andrea Sarubbi che nel 2009  aveva pubblicato un articolo con quella citazione. Sarubbi, interpellato, aveva precisato di non aver tratto la citazione direttamente dal documento statunitense originale. La sua frase: «Ho fra le mani un documento dell’Ispettorato per l’immigrazione», non era quindi letterale, ma derivava da una fonte italiana, «un articolo pubblicato un anno fa sul giornale Il Verona dall’avv. Guarenti». Guarenti, a sua volta, dichiarava di averlo trovato «in un libro di un anno fa» ma  non era in grado di citare il titolo del libro. Insomma, concludeva Attivissimo: «Siamo di fronte ad una situazione almeno di terza mano di cui non si sa la fonte intermedia». Sulla traccia di Attivissimo ho interpellato pertanto formalmente l’ambasciata americana che mi ha risposto il 30 maggio: «La commissione sull’immigrazione degli Stati Uniti conosciuta come la Dillingham Commission dal nome del senatore del Vermont che l’ha presieduta ha lavorato dal 1907 al 1911 e ha pubblicato 41 volumi  di rapporti contenenti dati statistici sull’immigrazione negli Stati Uniti, l’occupazione degli immigrati, le condizioni di vita, la scolarizzazione dei bambini, le organizzazioni sociali e culturali, delle comunità degli immigrati e la legislazione sull’immigrazione a livello statale e federale». Continuava poi l’ambasciata americana: «Questi sono gli unici rapporti ufficiali sull’immigrazione elaborati in quegli anni e disponibili al pubblico. Da una visione superficiale, la citazione da lei riportata nella sua mail non appare in nessuno di questi rapporti, ma per esserne certi bisognerebbe eseguire una ricerca più accurata, per la quale purtroppo noi non siamo in grado di aiutarla in questo momento». Aiutati che Dio ti aiuta, ho consultato tramite la mail inviatami dall’Ambasciata tutti i volumi senza trovar traccia del documento citato da Saviano, ma viceversa una interessantissima disamina sull’immigrazione dell’Italia che ho fatto tradurre dall’inglese e si può leggere sul sito www.carlogiovanardi.it. Per il resto ringrazio Saviano che mi permette di aggiungere il XII ed ultimo capitolo al libro intitolato Balle che sto pubblicando, dove spiego come l’opinione pubblica italiana fonda le sue convinzioni su vere e proprie bufale che vengono troppo spesso disinvoltamente spacciate come verità.

61ª legislatura, Documento n. 662, RELAZIONI DELLA COMMISSIONE SULL'IMMIGRAZIONE. DIZIONARIO DELLE RAZZE O POPOLI. Presentato da DILLINGHAM il 5 dicembre 1910 alla Commissione sull'immigrazione [...] ITALIANO. La razza o il popolo dell'Italia. L'Ufficio dell'immigrazione [Bureau of Immigration] divide questa razza in due gruppi: Italiani settentrionali e Italiani meridionali. Fra i due gruppi vi sono delle differenze materiali, riconducibili a lingua, aspetto fisico e carattere, e delle differenze relative, rispetto alla distribuzione geografica. Il primo gruppo identifica gli italiani nativi del bacino del Po (compartimenti del Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emelia [sic], i distretti italiani in Francia, Svizzera e Tirolo (Austria) e i loro discendenti. Tutti i popoli della penisola geograficamente definita e delle isole della Sicilia e della Sardegna sono Italiani meridionali. Anche Genova è meridionale.

Linguisticamente, l'italiano rappresenta una delle grandi divisioni del gruppo di lingue romanze derivate dal ceppo latino della famiglia ariana. Esso è articolato in molti dialetti, la cui separazione e conservazione è favorita dalla configurazione geografica dell'Italia. Hovelacque divide questi dialetti in tre gruppi: superiore, centrale ed inferiore. Il primo comprende i dialetti genovese, piemontese, veneto, emiliano e lombardo; il gruppo centrale comprende toscano, romanesco e còrso; il gruppo inferiore comprende napoletano, calabrese, siciliano e sardo. Questi dialetti differiscono fra di loro molto più che i dialetti inglesi o spagnoli. Si dice che è difficile per un Napoletano o un Sardo farsi capire da un nativo della pianura padana. Forse più che in qualsiasi altro paese, le classi colte restano tenacemente aggrappate all'uso del dialetto in àmbito familiare, preferendolo alla forma letteraria nazionale della lingua. Tale forma letteraria è rappresentata dal dialetto toscano di Firenze, come codificato nella letteratura di Dante, Petrarca e Bocaccio [sic] nel XIV secolo. Anche altri dialetti, tuttavia, hanno una considerevole letteratura, soprattutto il veneto, il lombardo, il napoletano e il siciliano. Quest'ultimo ha una poesia particolarmente ricca. Tutto il gruppo superiore di dialetti – per restare alla definizione di Hovelacque – tranne il genovese, è settentrionale. Tali dialetti contengono molti elementi gallici o celtici e mostrano affinità con le lingue provenzali e retoromanze (ladino e friulano), con le quali confinano ovunque tranne che al sud. Il genovese e i dialetti del gruppo centrale ed inferiore sono parlati dagli Italiani meridionali.

Fisicamente, gli Italiani sono una razza tutt'altro che omogenea. La catena montuosa degli Appennini forma una linea geografica che costituisce un confine fra due gruppi etnici distinti. La regione a nord di questa linea, la valle del Po, è abitata da persone – i Settentrionali – abbastanza alte e con la testa larga (la razza "alpina"). Gli abitanti delle zone orientali ed occidentali di questa regione mostrano apporti teutonici in Lombardia ed un'infusione di sangue slavo in Veneto. Tutta l'Italia a sud dell'Appennino e tutte le isole adiacenti sono occupate da una razza "mediterranea", di bassa statura, scura di pelle e con il viso lungo. Si tratta dei "Meridionali", che discenderebbero dall'antica popolazione italica dei Liguri, strettamente imparentati con gli Iberici della Spagna e i Berberi del Nordafrica. Il principale etnologo italiano, Sergi, li fa derivare dal ceppo amitico (v. Semitico-Amitico) del Nordafrica. Bisogna ricordare che gli Amitici non sono negritici, né veri africani, sebbene si possa rintracciare un apporto di sangue africano in alcune comunità in Sicilia e in Sardegna, oltre che in Nordafrica. L'Ufficio dell'immigrazione pone gli Italiani settentrionali nella divisione "celtica" e quelli meridionali in quella "iberica". La commistione fra i due gruppi etnici è stata relativamente scarsa, anche se molti Italiani settentrionali hanno doppiato gli Appennini ad est, facendo ingresso nell'Italia centrale. Pertanto, la linea di demarcazione fra Emiliani e Toscani è molto meno netta che fra Piemontesi e Genovesi. Un sociologo italiano, Niceforo, ha indicato che questi due gruppi etnici differiscono profondamente fra di loro, da un punto di vista sia fisico sia caratteriale. Egli descrive il Meridionale come irritabile, impulsivo, molto fantasioso, testardo; un individualista poco adattabile ad una società ben organizzata. Al contrario, descrive il Settentrionale come distaccato, risoluto, paziente, pratico e capace di grandi progressi nell'organizzazione politica e sociale della civiltà moderna. Sia i Settentrionali sia i Meridionali sono dediti alla famiglia, d'animo buono, religiosi, artistici ed industriosi. Sono quasi tutti di religione cattolica. La maggior parte dell'immigrazione italiana negli Stati Uniti è reclutata fra le classi contadine ed operaie. In America, tuttavia, essi non hanno conseguito successo come agricoltori, con l'eccezione della frutticoltura e dell'enologia, soprattutto in California, dove figurano ai primi posti.

L'esperto di statistica italiano Bosco ammette che l'Italia è tuttora al primo posto in termini di numero di reati contro la persona, anche se questi sono diminuiti notevolmente in seguito al miglioramento del sistema di istruzione e all'ampio flusso di emigrazione. Su questo versante l'Italia è seguita nella graduatoria dall'Austria, dalla Francia e, a una certa distanza, dall'Irlanda, la Germania, l'Inghilterra e la Scozia. Niceforo indica, sulla base dei dati statistici italiani, che tutti i reati, soprattutto i crimini violenti, sono molto più numerosi tra i Meridionali che tra i Settentrionali. Il gioco d'azzardo è diffuso. Il gioco del lotto è un'istituzione nazionale che viene utilizzata per alimentare le casse dello Stato. Il brigantaggio è ormai pressoché estinto, fatta eccezione per alcune parti della Sicilia. Le organizzazioni segrete come la Mafia e la Comorra [sic], istituzioni molto influenti tra la popolazione che esercitano la giustizia in proprio e sono responsabili di molta parte della criminalità, prosperano nell'Italia meridionale. La maggiore difficoltà nella lotta alla criminalità sembra risiedere nella propensione degli Italiani a non testimoniare contro alcuno in tribunale e a riparare i torti ricorrendo alla vendetta (v. Còrsi).

E' indicativo il fatto che l'Italia sia uno dei paesi con il maggiore tasso di analfabetismo in Europa. Nel 1901 il 48,3% della popolazione dai sei anni in su non sapeva leggere e scrivere. In quell'anno in Calabria, la parte più meridionale della penisola, il tasso di analfabetismo tra le persone dai sei anni in su era pari al 78,7%. Il tasso di analfabetismo più basso si registra nella valle del Po, nell'Italia settentrionale. I Lombardi e i Piemontesi sono gli italiani più istruiti. La situazione è tuttavia migliorata dopo che il governo ha reso l'istruzione gratuita e obbligatoria tra i 6 e i 9 anni nei comuni dove vi erano le sole scuole elementari e dai 6 ai 12 anni nei comuni dove erano presenti scuole di più alto grado.

Tra le classi più umili la povertà è estrema; le persone vivono in alloggi miseri e hanno accesso a un'alimentazione carente, basata principalmente su granoturco mal conservato. Perfino a Venezia sembra che un quarto della popolazione viva ufficialmente di carità.

I confini geografici della razza italiana sono più ampi di quelli dell'Italia. Gruppi numerosi sono presenti in paesi vicini come Francia, Svizzera ed Austria. Le province del Tirolo e dell'Istria, in Austria, sono per un terzo italiane.  Ampi gruppi sono inoltre presenti nel Nuovo Mondo. L'Italia stessa è quasi interamente italiana. Ha una popolazione di 34 milioni di persone e comprende solo piccoli bacini di altre razze (circa 80.000 Francesi nell'Italia nordoccidentale, 30.000 Slavi nell'Italia nordorientale, circa 30.000 Greci nell'Italia meridionale, circa 90.000 Albanesi in Italia meridionale e in Sicilia e 10.000 Catalani (Spagnoli) in Sardegna. Un certo numero di Tedeschi, forse meno di 10.000, è presente nelle Alpi italiane. Circa due quinti della popolazione dell'Italia si trovano nella valle del Po, ovvero in meno di un terzo della lunghezza del paese. Suddivisa approssimativamente in compartimenti, la popolazione di quest'area, occupata da Italiani settentrionali, conta circa 14 milioni di persone. Questa cifra include i Friulani dell'Italia nordorientale i quali, pur parlando una lingua latina distinta dall'italiano, sono difficilmente distinguibili dagli Italiani settentrionali. Il loro numero si situerebbe, a seconda delle diverse stime, tra 50.000 e 450.000. La popolazione dei distretti meridionali è di circa 19.750.000 persone, di cui 125.000 appartengono ad altre razze. La maggior parte degli Italiani della Francia, della Svizzera e dell'Austria sono sul piano della  razza Italiani settentrionali. Quelli della Corsica, isola appartenente alla Francia, sono Italiani meridionali.

Distribuzione degli Italiani (stima riferita al 1901)

In Europa:

Italia 33.200.000

Francia 350.000

Svizzera 200.000

Austria 650.000

Corsica 300.000

Altre parti d'Europa 300.000 

Totale 35.000.000 

Altrove:

Brasile 1.000.000

Rep. Argentina 620.000

Altre parti del Sudamerica 140.000

Stati Uniti 1.200.000

Africa 60.000 

Totale 3.020.000

Totale nel mondo (cifra approssimata) 38.000.000 

A partire dal 1900, in alcuni anni oltre mezzo milione di italiani è emigrato nelle diverse regioni del mondo. All'incirca la metà di tale flusso ha come destinazione altri paesi europei ed è di carattere temporaneo, in quanto riguarda sopratutto la popolazione maschile. Dal 1899 fino a tutto il 1910  negli Stati Uniti sono stati ammessi 2.284.601 immigrati italiani, ed è stata altresì consistente  l'immigrazione italiana verso l'America del Sud. La maggior parte delle persone che giunge negli Stati Uniti rientra successivamente in patria. Tuttavia, soprattutto a New York e negli altri Stati dell'Est il numero di coloro che rimangono è elevato. Nel 1907 gli immigrati provenienti dall'Italia meridionale sono stati oltre 240.000, un numero più che doppio rispetto alla razza di immigrazione che come consistenza si colloca subito dopo quella degli immigrati italiani meridionali. Il numero degli arrivi di Italiani settentrionali è solo un quinto di tale cifra. La notevole capacità della razza italiana di popolare altre parti del mondo risulta evidente dal fatto che la presenza italiana supera numericamente quella degli Spagnoli nell'Argentina spagnola e dei Portoghesi in Brasile, nonostante quest'ultimo sia un paese "portoghese". (vedi Ispanoamericani).  Attualmente, ai fini dello studio del fenomeno dell'immigrazione il flusso migratorio degli Italiani verso gli Stati Uniti è forse il più significativo, e non solo perché risulta essere molto più consistente di ogni altro gruppo nazionale in qualunque anno di riferimento e perché è elevata la percentuale degli Italiani per ogni mille immigranti che entra sul territorio degli Stati Uniti. Ancora più significativo è il fatto che questa razza  è più numerosa di qualsiasi altra tra la decina di razze che figurano ai primi posti come tasso di immigrazione. In altre parole, in virtù di una popolazione di 35.000.000 e di un elevato tasso di natalità, questa razza continuerà a primeggiare anche quando la spinta delle altre razze, attualmente responsabili dell'ondata di immigrazione, tra cui gli Ebrei (8.000- 000[sic]), gli Slovacchi (2.250.000) e il gruppo Sloveno-Croato (3.600.000), sarà esaurita,  come di fatto sta già avvenendo per gli Irlandesi. Un fatto non necessariamente noto è che nel decennio 1891-1900 l'Italia era il principale paese di origine dell'immigrazione in America. All'inizio degli anni ottanta, ovvero quasi trent'anni fa, l'Italia aveva già cominciato a guadagnare terreno rispetto ai paesi dell'Europa settentrionale. Tuttavia bisognava attendere il 1890 per vedere gli Stati Uniti sorpassare  l'America meridionale come destinazione privilegiata dei flussi migratori provenienti dall'Italia. Nel decennio precedente e nei periodi antecedenti il Brasile ha accolto più italiani della Repubblica Argentina, sebbene si ritenga erroneamente che sia quest'ultima ad ospitare la più grande comunità italiana dell'America meridionale. Nel 1907 gli Stati Uniti hanno accolto 294.000 dei 415.000 Italiani emigrati oltreoceano. Nello stesso anno le persone emigrate, per lo più temporaneamente, dall'Italia verso altri paesi europei sono state 288.774. L'immigrazione italiana negli Stati Uniti è stata finora prevalentemente di carattere temporaneo. Mosso calcola che il periodo medio di permanenza degli Italiani negli Stati Uniti sia di otto anni. L'emigrazione più consistente verso oltreoceano dall'Italia ha la sua origine nelle regioni a sud di Roma, abitate dagli Italiani meridionali. Gli emigrati provengono soprattutto dalla Sicilia e dalla Calabria, ovvero dai territori meno produttivi e meno sviluppati del paese. L'emigrazione dalla Sardegna (Vedi) è scarsa. Il compartimento della Liguria, territorio di provenienza dei Genovesi, anch'essi appartenenti alla razza degli Italiani meridionali, registra più emigrazione di qualsiasi altra provincia dell'Italia settentrionale. Il flusso complessivo dell'immigrazione verso l'America da alcuni compartimenti italiani  ha raggiunto proporzioni  ingenti, al punto da superare più volte il tasso di crescita naturale della popolazione. Questo ha già causato il parziale spopolamento di alcuni distretti agricoli. Se confrontati con altre razze di immigrati e con il numero assoluto degli arrivi, gli Italiani meridionali sono i più numerosi: 1.911.933 nei dodici anni compresi tra il 1899 e il 1910, seguiti dagli Ebrei, 1.074.442, dai Polacchi, 949.064, dai Tedeschi, 754.375 e dagli Scandinavi, 586.306. I  Settentrionali sono al nono posto nell'elenco relativo allo stesso periodo: 372.668, subito dopo gli Inglesi e gli Slovacchi, ma prima dei Magiari, dei Croati e degli Sloveni e dei Greci. Per quanto riguarda il tasso del movimento transatlantico, è piuttosto evidente un contrasto tra Settentrionali e Meridionali: ad esempio, nel 1905 l'emigrazione dalla Calabria è stata undici volte maggiore di quella proveniente dal Veneto. Nel 1907 l'indice dello spostamento dei Settentrionali verso gli Stati Uniti è stato di circa il 3 per 1000 della relativa popolazione presente in Italia, mentre quello degli Italiani meridionali è stato del 12 per 1000. L'indice di movimento dei Settentrionali è stato più o meno lo stesso di quello degli Svedesi e dei Finlandesi, è stato il triplo di quello dei Tedeschi, ma solo la metà di quello dei Ruteni provenienti dall'Austria-Ungheria. Il tasso di movimento dei Meridionali verso gli Stati Uniti, d'altra parte, è superato solo dal gruppo Croato-Sloveno, che nel 1907 è stato del 13 per mille della popolazione, e dagli Ebrei e dagli Slovacchi che, nello stesso anno, è stato del 18 per mille della popolazione. Gli immigrati italiani giungono negli Stati Uniti, oltre che dall'Italia, principalmente dai seguenti paesi: il Nordamerica britannico (3.800 nel 1907), l'Austria-Ungheria (1.500), il Regno Unito (600), il Sudamerica (600) e la Svizzera (200). Quelli provenienti dalla Svizzera e dall'Austria-Ungheria generalmente sono Settentrionali.

Nei dodici anni tra il 1899 e il 1910, le principali destinazioni negli Stati Uniti dei due gruppi di Italiani sono state le seguenti:

Settentrionali

New York 94.458

Pennsylvania 59.627

California 50.156

Illinois 33.525

Massachusetts 22.062

Connecticut 13.391

Michigan 13.355

New Jersey 12.013

Colorado 9.254 

Meridionali

New York 898.655

Pennsylvania 369.573

Massachusetts 132.820

New Jersey 106.667

Illinois 77.724

Connecticut 64.530

Ohio 53.012

Louisiana 31.394

Rhode Island 30.182

West Virginia 23.865

Michigan 15.570

California 15.018 

Una poesia per i pataccari di sinistra, scrive “L’Anarca” (Giampaolo Rossi ) su “Il Giornale”. I discepoli intellettuali del politically correct hanno l’abitudine di prendersi troppo sul serio; succede sopratutto quando si cimentano nel nobile mestiere dell’impegno sociale mettendo la loro fama e la loro arte a disposizione della lotta all’oscurantismo reazionario. È successo anche a Elio Germano, l’attore militante che ha realizzato il video-patacca contro il razzismo di cui abbiamo denunciato il falso in questo articolo di ieri. Il video si conclude con l’attore che legge, ad un gruppo di bambini Rom visibilmente annoiati e usati come scudi della sua vanità ideologica, una poesia di Trilussa in romanesco. Per non essere da meno, ho deciso di scrivere una poesia anche io, proprio nel dialetto di Trilussa, dedicandola a Elio Germano, ai maestrini radical-chic e alle loro false “verità assolute” diffuse come un virus. Un piccolo omaggio ironico all’abitudine pataccara della sinistra intellettuale e artistica di spargere scemenze spacciandole per verità.

L’ARTISTA DE SINISTRA

Il razzismo, se sa, è brutta robba.

È segno de incivile intolleranza tipica de chi ragiona co’ la panza.

Ma, di certo, ‘na cosa assai più brutta

è l’intellettuale quanno rutta.

Quanno se erge cor dito moralista

e come er Padreterno,

dei buoni e dei cattivi fa la lista.

Filosofo o scrittore, poeta o cantautore, attore o saltimbanco,

è come se la storia s’inchinasse all’astio livoroso e intelligente

de chi se crede sempre er più sapiente.

Spesso nun sa manco de che parla, ma parla per parla’

e per l’impegno preso e coltivato con lo sdegno

de chi è convinto che deve lascià un segno.

L’artista de sinistra in tracotanza,

dall’alto del suo ego trasformato,

diventa un drogato de arroganza.

Lui se convince de esse come un Faro,

invece, spesso, è solo un gran Cazzaro.

Con gli islamisti non si può dialogare. Un cosa è combattere militarmente il terrorismo per ragioni di sicurezza; un'altra è venire politicamente a patti con una teocrazia, scrive Piero Ostellino su “Il Giornale”. Rispetto al fondamentalismo islamico, e all'esigenza di conviverci senza danni per noi, alcuni studiosi americani suggeriscono che l'Occidente prenda ad esempio la propria storia degli ultimi cinquecento anni. Gli Asburgo, la maggior dinastia europea, «erano dei principi - scrive John M. Owen in Confronting political Islam, Six lessons from the West's Past - non dei preti». E si comportarono di conseguenza. Di fronte al radicalismo genericamente anticattolico del protestantesimo, non fecero di ogni erba un fascio, confondendo eretici estremisti ed eretici moderati e trattandoli allo stesso modo, ma constatarono che il protestantesimo era diviso fin dalla nascita in varie fazioni - luterani, calvinisti, anabattisti - e si acconciarono a sfruttarne le divisioni. Fu un grosso rischio? L'approccio non era meno rischioso di quello di fare la faccia feroce ad entrambi, ma ha funzionato. Parimenti, nel XX secolo, gli Stati Uniti dovettero fronteggiare la moderna sinistra politica, ostile alla democrazia liberale, al capitalismo e al libero mercato. Ma non la considerarono, e per lo più non la trattarono, come faceva la destra, come fosse un monolite, bensì utilizzarono ciò che divideva i socialisti dai comunisti. E hanno avuto la meglio sul comunismo. L'islamismo moderato - a differenza di quello fondamentalista, che ricorre volentieri alla violenza - utilizza i mezzi pacifici e legali della democrazia liberale per diffondere la sharia, la morale islamica. Non è liberale, ma rimane una teocrazia che ha fatto una scelta strategica contro la violenza. Ciò non significa, ovviamente, che l'Occidente possa, e debba, instaurare con esso «un dialogo», come suggeriscono certe nostre anime belle. La stessa storia della cooperazione fra gli Asburgo, cattolici, e i protestanti contro i calvinisti insegna che distinguere fra fondamentalisti e moderati non è sempre facile e, se può rivelarsi positivo nel breve termine, minaccia di essere fallimentare nel lungo. La prudenza non è mai troppa. Un cosa è combattere militarmente il terrorismo per ragioni di sicurezza; un'altra è venire politicamente a patti con una teocrazia; che, rispetto alla democrazia liberale, rimane pur sempre una soluzione clericale. Forse, c'è un altro esempio che l'Occidente dovrebbe seguire: quello di Edmund Burke, il liberal-conservatore che difese il diritto delle colonie americane di tassare i propri cittadini solo secondo i dettami delle proprie assemblee e non secondo quelli del Parlamento di Londra. «I vostri affari - aveva scritto Burke ai suoi amici francesi a proposito della Rivoluzione del 1789 - riguardano voi soli; noi ce ne siamo occupati come uomini, ma ce ne teniamo alla larga perché non siamo cittadini della Francia». È il linguaggio che, auspicabilmente, l'Occidente dovrebbe usare nei confronti dell'islamismo...

Niente paura, leggete il Corano. Ci troverete le radici del Male. Per 56 anni ho creduto che l'islam potesse essere riformabile grazie a musulmani moderati come me. Mi sbagliavo. Il libro sacro è la negazione della civiltà, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. «Allah Akhbar! Allah Akhbar! Ash-hadu an-la ilaha illa Allah, Ash-hadu anna Muhammad-Rasul Allah». «Allah è Grande! Allah è Grande! Testimonio che non c'è altro dio all'infuori di Allah, Testimonio che Maometto è il Messaggero di Allah». Per vent'anni la mia giornata è stata cadenzata dall'adhan, l'appello alla preghiera diffuso dall'alto dei minareti nella mia città natale, Il Cairo, ribattezzata la «Città dai mille minareti». Per 56 anni mi sono impegnato più di altri, da musulmano moderato, ad affermare un «islam moderato» in Italia, aderendo e sostenendo sostanzialmente la tesi del Corano «creato», che per l'ortodossia islamica pecca ahimè di una fragilità teologica che scade nell'eresia. Perché così come il cristianesimo è la religione del Dio che si è fatto Uomo e che s'incarna in Gesù, l'islam è la religione del loro dio Allah che si è fatto testo e che si «incarta» nel Corano dopo essere stato rivelato a Maometto attraverso l'Arcangelo Gabriele. Per i musulmani quindi il Corano è Allah stesso, è della stessa sostanza di Allah, opera increata al pari di Allah, a cui ci si sottomette e che non si può interpretare perché si metterebbe in discussione Allah stesso. Per contro, la tesi del Corano «creato», che sottintende che solo Allah è increato, consente l'uso della ragione per entrare nel merito dei contenuti del Corano, che possono essere oggetto di culto da parte della fede ma anche oggetto di valutazione e critica; così come consente la contestualizzazione nel tempo e nello spazio dei versetti rivelati per distinguere ciò che è da considerarsi attuale e lecito da ciò che è invece è da ritenersi prescritto e caduco; ci mette in ultima istanza nella possibilità di poter affermare la dimensione «plurale» dell'islam e, in questo contesto di pluralismo, ci consente di far primeggiare la scelta dell'«islam moderato» che concili la prescrizione coranica con il rispetto dei valori fondanti della nostra comune umanità. Per 56 anni ho scelto di battermi in prima persona, costi quel che costi, per affermare la bontà del Corano quale testo sacro dell'islam pur nella denuncia del terrorismo islamico. Nel 2003, dopo aver conosciuto Oriana Fallaci ed aver instaurato con lei un rapporto che, al di là della reciproca stima professionale, della condivisione della denuncia del terrorismo islamico e della pavidità dell'Occidente, si fondava su un affetto sincero e una solida amicizia, tuttavia il nostro rapporto fu turbato dal mio rifiuto di abbandonare l'islam e di concepire che la radice dell'islam risieda nel Corano. Mi sentivo contrariato quando scriveva: «L'islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà». Eppure, all'indomani della mia conversione al cristianesimo il 22 marzo 2008, ho scritto: «Ho dovuto prendere atto che, al di là della contingenza che registra il sopravvento del fenomeno degli estremisti e del terrorismo islamico a livello mondiale, la radice del male è insita in un islam che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale». L'errore in cui incorsi fu di immaginare che l'islam potesse essere riformabile al suo interno grazie all'impegno dei musulmani moderati. Alla fine, dopo oltre cinque anni trascorsi da condannato a morte dai terroristi islamici e reiteratamente minacciato dagli estremisti islamici, mi sono arreso di fronte all'evidenza: si può essere musulmani moderati come persone, ma non esiste un islam moderato come religione. Oggi più che mai dobbiamo avere l'acume intellettuale e il coraggio umano di leggere ad alta voce il Corano e di affermare pubblicamente i suoi contenuti. Non possiamo essere vittime, da un lato, dei musulmani moderati che difendono aprioristicamente e acriticamente l'islam pur di salvaguardare la loro credibilità ed onorabilità, dall'altro, degli occidentali che per paura di offendere i musulmani sostengono in modo altrettanto aprioristico e acritico che il Corano insegna l'amore e la pace, che i terroristi islamici non centrano nulla con l'islam. Solo leggendo il Corano scopriamo la specificità di una religione che condanna di eresia l'ebraismo e il cristianesimo; la realtà di Allah che era il dio supremo del Pantheon politeista arabo, clemente e misericordioso con chi si sottomette all'islam ma vendicativo e violento con i miscredenti; la verità di Maometto che è stato un guerriero vittorioso che ha fondato una «Nazione di credenti» combattendo e uccidendo i suoi nemici per ordine di Allah. Solo leggendo il Corano potremo capire le radici di un'ideologia che legittima l'odio, la violenza e la morte, che ispira il terrorismo islamico ma anche la dissimulazione praticata dai «musulmani moderati», perseguendo il comune obiettivo di sottomettere l'intera umanità all'islam, che è fisiologicamente incompatibile con la nostra civiltà laica e liberale negando la sacralità della vita di tutti, la pari dignità tra uomo e donna, la libertà di scelta. Solo leggendo il Corano potremo capire chi siamo veramente noi, se siamo ancora o non più in grado di riscattare la civiltà di verità e libertà, di fede e ragione, di valori e regole. L'Italia non ha subito gravi attacchi dal terrorismo islamista, ma non può considerarsi al sicuro se si tiene conto che da anni diversi imam predicano odio, dozzine di centri islamici sono impegnati nel proselitismo e nel finanziamento a gruppi terroristici e che il Paese sta esportando combattenti nei teatri della jihad. Lo rileva un rapporto del Centro militare di studi strategici del ministero della Difesa. La comunità islamica italiana è composta da 1,6 milioni di persone, un terzo degli stranieri presenti, cui si aggiungono 60-70mila convertiti. Sono una ventina le organizzazioni principali, più di 100 le moschee, 159 i centri islamici, decine le scuole coraniche, tanti i siti internet. Secondo il dossier, «la radicalizzazione della comunità islamica rappresenta una potenziale seria minaccia». Dal 2001 ad oggi, circa 200 persone sono state arrestate con l'accusa di terrorismo. Milano è l'epicentro del radicalismo islamico in Italia.

Ecco l'Italia che trasforma il Tricolore in uno straccio. La bandiera nazionale va esposta per legge davanti a scuole e uffici pubblici. Ma nessuno se ne cura. E lo spettacolo è avvilente, scrive Nino Materi su “Il Giornale”. L'Italia è l'unico Paese al mondo in cui la Bandiera nazionale, invece che garrire al vento, rantola in aria. Come un impiccato sul pennone più alto. Tanto in alto che nessuno si premura di prendersene cura. Triste, tristissima la vita del nostro glorioso Tricolore: tradizionale simbolo di (dis)amor di Patria. Un vessillo di cui ci ricordiamo solo in occasione dei Mondiali di calcio, almeno quelli in cui gli Azzurri non fanno figuracce. Ma poi nella vita di tutti i giorni il vessillo Bianco, Rosso e Verde tende a virare in commedia, assumendo i toni del bianco, rosso e verdone. Un film tragicomico (più tragico che comico) che va «in onda» quotidianamente su ogni edificio pubblico: scuole, biblioteche e uffici. Da Nord a Sud l'Unità d'Italia è fatta, ma si incarna in quel pezzo di stoffa che viene vergognosamente esposto alla stregua di uno straccio con cui si è appena smesso di fare le pulizie. E dire che nella Costituzione figura un preciso dettato normativo sancito dalla Legge 5-02-1998 n.22 e dal Dpr 07-04-2000 n. 121, il cui capo IV (punto 9) recita testualmente: «Le Bandiere vanno esposte in buono stato e correttamente dispiegate». Roba che se la violazione venisse effettivamente perseguita, dovrebbe essere denunciata la maggior parte dei funzionari statali. Non fanno eccezione neppure gli edifici sedi di istituzioni «prestigiose» come prefetture, questure, tribunali. Ma anche qui il Tricolore sventolante appare in salute come un moribondo. Non c'è spettacolo più avvilente per un cittadino orgoglioso di essere italiano che vedere la Bandiera della propria nazione ansimare sporca e stracciata. Fateci caso. Quando entrate in un ufficio alzate lo sguardo e, nove volte su dieci, sulla vostra testa vedrete curvo su se stesso un Tricolore sdrucito e sozzo. Nessun direttore, funzionario, dirigente, impiegato, segretario (fin giù a all'ultimo degli inservienti) che si ponga il problema non dico di lavare una bandiera annerita o sostituirne una a brandelli. No. Si cambiano con periodica perizia le merendine dalle macchinette degli uffici, ma del Tricolore non frega nulla a nessuno. Lui può morire d'inedia nell'indifferenza generale. Beh, quasi generale. Considerato che, almeno una persona, ha deciso di levare un urlo di dolore in difesa di un simbolo per il quale sono morti migliaia di soldati. Si tratta del Maggiore Gennaro Finizio, dell'Unuci (Unione ufficiali in congedo) che in una lettera aperta al sito Basilicata24 denuncia lo scandalo-Bandiera: «Se si vuol valutare l'orgoglio di un Popolo e pesarne il livello di diffusione e condivisione del concetto di identità nazionale, è sufficiente osservare se, ed in quale modo, espone la propria Bandiera; nel nostro caso, il Tricolore. Ebbene, le condizioni in cui sono esposte le nostre Bandiere, sulle facciate degli edifici pubblici e sedi di Istituzioni, riflettono chiaramente il livello di crisi sociale e di sfiducia, segnalando la dimensione di un Paese che ha perso i suoi punti di riferimento; un Paese impoverito nei Valori». Chi disonora il Tricolore, infanga la propria Storia. E poi: «Non sfuggirà, all'osservatore attento, che un po' ovunque sono presenti Tricolori laceri, sporchi e, nella migliore delle situazioni, esposti in modo errato; Bandiere offese indecorosamente sino al punto da sembrare private della forza di sventolare. Come si legge questo degrado sociale? Abbiamo, forse, perso la nostra dignità e la volontà di sentirci orgogliosamente italiani? Forse non crediamo più nel nostro simbolo, perché derubricato a semplice icona della Nazionale di calcio?». Il Maggiore Finizio prova anche a dare delle risposte: «Temo che tutto questo sia da ascrivere a semplice, ma deleteria, incuria e mancanza di sensibilità. Quella stessa sensibilità che troviamo ad esempio negli statunitensi, negli inglesi, francesi e tedeschi». Da noi, invece, fino a qualche tempo fa, l'ex leader della Lega poteva impunemente urlare in piazza contro una signora che esponeva il Tricolore alla finestra: «Signora, con quella bandiera può anche pulirsi il culo...».

Un Paese invivibile, scrive Livio Caputo su “Il Giornale”. Nei due mesi scorsi mi sono dedicato a un esercizio che si è rivelato molto deprimente: ho chiesto a cinquanta amici e conoscenti quanti di loro avessero subito, negli ultimi tre anni, scippi, furti in casa o in strada, truffe, vandalismi, violenze,richieste di pizzi o tangenti, o altri “attacchi” da parte dei vari tipi di delinquenza, organizzata e non. Ebbene, il risultato è stato 47, cioè quasi il 95 cento. Tra i racconti che ho raccolto c’era di tutto e di più, perfino quello di due sedicenti dipendenti comunali che si sono introdotti con un pretesto nell’abitazione di una signora e, forse ipnotizzandola, forse drogandola, l’hanno persuasa a consegnare “spontaneamente” tutti i suoi preziosi. Comunque, il campionario dei reati subiti, che peraltro avrei potuto mettere insieme anche compulsando attentamente la cronaca nera dei giornali, era talmente vario da poterci scrivere un trattato di criminologia.  L’impressione complessiva, comunque, era che il Paese, nonostante le statistiche che danno un certo numero di reati in calo, sia sempre più fuori controllo e che un senso di insicurezza si sia ormai impadronito della maggioranza dei cittadini. Un altro dato inquietante emerso dalla mia indagine è che buona parte delle vittime ha ormai rinunciato a denunciare i reati subiti se non ci sono esigenze assicurative di mezzo. Che senso, infatti, ha perdere tempo a denunciare il furto di una bicicletta, lo scippo subito in un parco, una casa svuotata dagli zingari, quando le possibilità di recuperare la refurtiva sono pari a zero? E, comunque, che soddisfazione ricava il cittadino se l’autore del reato, nell’ipotesi remota che venga individuato e arrestato, viene poi subito messo in libertà, libero di reiterare il suo crimine anche l’indomani? O, se anche viene processato, se la cava con pene lievi con la condizionale, o esce comunque di galera assai prima di quanto dovrebbe per condoni, buona condotta, eccessivo affollamento delle carceri o quant’altro? Una delle mie interlocutrici si è particolarmente infuriata leggendo che una donna rom che l’aveva derubata è stata arrestata – mi pare – una dozzina di volte e sempre rilasciata. In effetti, una delle cause principali per cui non solo aumenta la delinquenza nazionale, ma bande di ladri, rapinatori e scassinatori arrivano da ogni parte d’Europa per operare nel nostro Paese è la quasi impunità di cui, alla fine, finiscono di godere. Come reagiamo di fronte a questi fenomeni, che ci rendono tutti più timorosi e insicuri?  Riducendo i mezzi a disposizione delle forze dell’ordine, abbastanza numerose se confrontate con quelle degli altri grandi Paesi occidentali, ma spesso impegnate in altre funzioni, come le scorte a politici, ex politici e compagnia cantante, che li distolgono dai loro compiti primari. Depenalizzando una serie di reati cosiddetti minori, che in realtà colpiscono la cittadinanza nella sua esistenza quotidiana anche peggio di altri. Svuotando periodicamente le carceri perché eccessivamente affollate e non in grado di garantire i diritti dei detenuti, invece di costruirne di nuove o utilizzando quelle già esistenti, ma lasciate vuote per carenza di guardie penitenziarie. Tenendoci gli innumerevoli stranieri che delinquono (la loro percentuale tra i detenuti è molto superiore a quella degli italiani) invece di espellerli appena espiata la pena. Se la percentuale di cittadini carcerati rispetto alla popolazione è metà di quella della Francia e della Gran Bretagna e addirittura un decimo di quella degli Stati Uniti non ci si può poi meravigliare se il tasso di delinquenza, denunciata e non denunciata, è così alto. Un altro scandalo è quello dello scarsissimo numero di cosiddetti colletti bianchi, e in particolare di esponenti di rilievo della burocrazia e della finanza, anche accusati di reati infamanti, di furti e truffe milionari o di reati particolarmente dannosi per la comunità che finiscono effettivamente in galera. Tra appelli, prescrizioni, condoni, sono pochissimi, e nei (rari) casi in cui ciò avviene fa addirittura notizia. La maggior parte, anche se, sulla carta, condannata ad anni di reclusione, continua a godersi la vita in perfetta libertà, con un effetto negativo sulla credibilità della giustizia, specie tra i giovani, che può riuscire devastante. La durata infinita dei processi, e i mille cavilli che la nostra legislazione consente di usare agli avvocati difensori, non fanno che rendere la situazione ancora più insostenibile. Potrei continuare per pagine e pagine, riprendendo episodi incredibili che si incontrano quasi ogni giorno sui giornali, ma sarebbe superfluo. La conclusione sarebbe comunque la stessa, che la qualità della vita dei cittadini onesti va continuamente peggiorando. Ricordo che, ormai molti anni fa, un mio amico inglese, corrispondente di un grande giornale da Roma, soleva dirmi:”Il vostro è il Paese in cui si vive meglio in Europa, basta non avere a che fare con l’autorità (intendendo fisco, burocrazia, vigili, tribuanli, ecc.). Oggi non è più vero. Bisogna aggiungere “….se si ha la fortuna, sempre più rara, di non imbattersi in qualche malfattore”.

I nuovi mostri dei Soliti Idioti "L'Italia? Un inferno da ridere". Biggio e Mandelli rivisitano Dante nel film: «Abbiamo raccontato con affetto le deformità di ciascuno di noi», scrive Cinzia Romani su “Il Giornale”. Nati non foste a viver come bruti. Lo rammentano i Soliti Idioti con la rappresentazione plastica degli abominevoli peccati italiani al giorno d'oggi. Tipo abbruttirsi al bar alle otto di mattina, uccidere per questioni di traffico all'ora di punta, travolgere gli altri al supermercato, stare sempre connessi o farsi irretire dalla pubblicità invasiva. Per forza, poi, ci vuole il Ministero della Bruttezza a dirimere le controversie dei consumatori di laidume. Così col loro terzo film, La solita Commedia. Inferno (da giovedì in sala), Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli puntano alla versione 2.0 de I nuovi mostri , accatastando sketch e personaggi come in pista sul web, dal quale provengono. Pur essendo relativamente giovani (Biggio è classe '74, Mandelli è del '79), gli infernali registi, qui in tandem con Martino Ferro, nonché protagonisti e sceneggiatori d'un racconto corale, rimpiangono il passato. Quando si usava il telefono a gettoni, come fa Minosse (Mandelli) per chiamare il suo superiore, un Dio che tracanna whiskey e fuma. O quando si picchiavano i tasti della macchina per scrivere, come fa un tenente (Biggio), pronto a scagionare due poliziotti dal reato di abuso di potere nei confronti d'una macchinetta che non dà resto. Perché prima era tutto più bello, ancora non ci aveva invasi la Grande Bruttezza: altro che Isis. Siamo dalle parti della surrealtà più dichiarata, con tanti attori che interpretano dai 21 ai 7 ruoli a testa per raccontare una società malata. E c'è pure Tea Falco, già musa di Bertolucci, nei panni d'un Gesù tosto, quando sequestra a un precario di nome Virgilio (ancora Biggio) i suoi attributi. Che riavrà se accompagnerà Dante (ancora Mandelli) a catalogare i nuovi peccati commessi sulla terra, segnatamente a Milano, postaccio caotico zeppo di hackers, pornomani e tecno-incontinenti. «Volevamo raccontare con affetto l'Italia e gli italiani. E la mostruosità di ognuno di noi, guardando a I nuovi mostri », dice Biggio. Ironia a parte, alcune categorie vengono prese di petto. Quella dei poliziotti, per esempio, raffigurati come paranoici violenti. Diverte l'interrogatorio stile Csi della macchinetta del caffè, rea di non rendere gli spicci ai piedipiatti, ma fa pensare a un certo tipo di giudizio. «Ci piace provocare e dar fastidio, però non vogliamo descrivere tutta la polizia così. Come ci piace l'idea d'un Dio indaffarato nei suoi casini. Il nostro padre Pio, non me ne voglia Castellitto, è il migliore. Non temiamo le risposte dei cattolici», spiega Mandelli. E in effetti, l'idea d'intruppare i santi in una specie di Camera, a decidere come procedere per catalogare nuovi peccati terreni, non è male. «Ci piace forzare il pubblico, vedere come rispondono i cattolici», butta lì Biggio. Di sicuro, il duo comico è maturato e cerca un nuovo sbocco. «Ci avevano proposto di fare il terzo film dei Soliti idioti , ma ci siamo messi alla prova con una cosa diversa. Chi fa il nostro mestiere, cerca sempre di uscire dalla zona comfort. Come abbiamo fatto a Sanremo: stare su quel palco, è stata una sfida», puntualizza Mandelli. Colpisce, a ogni modo, che per smarcarsi dall'ennesima commedia all'italiana, i Soliti Idioti abbiano realizzato un'idea semplice e geniale: sciorinare i più brutti vezzi italioti contemporanei, in stile Nanni Loy, dopo aver riferito tic e nevrosi del Bel Paese nei loro lavori precedenti. È andato in questo senso pure Maccio Capatonda con Italiano medio e non a caso il duo pensa a una collaborazione col comico abruzzese. Costato 3 milioni e finanziato pure dalla Film Commission del Lazio (la maggior parte delle scene, tuttavia, si svolge a Milano),il film è prodotto dalla Wildside di Mario Gianani, marito della Madia e di Lorenzo Mieli, figlio di Paolo. E non a caso il Ministero della Bruttezza Biggio&Mandelli lo affiderebbero «a Gasparri, Alfano e Salvini», che non è gente di sinistra.

L’italiano medio è volgare e squallido, ma diverte. La recensione di Marita Toniolo su “Best Movie”. Sbarca al cinema l’opera prima del comico Maccio Capatonda, che vuole farci ridere e vergognare di come siamo diventati. Dopo i successi stratosferici di Zalone al botteghino, si torna a puntare forte su un volto “televisivo” con Maccio Capatonda e il suo Italiano medio, prossimo a sbarcare al cinema con 400 copie al suo esordio (il 29 gennaio). Maccio Capatonda, al secolo Marcello Macchia, è un fenomeno di culto del web amatissimo dai cinefili grazie ai suoi trailer parodia: un centinaio di secondi e poco più in cui Capatonda riesce a comprimere mirabilmente genio e follia, cinefilia e non-sense, giochi di parole e travestimenti, raggiungendo una popolarità che lo ha portato a sbarcare anche su MTV con la serie Mario. Lo attendeva al varco la sfida più tosta: il lungometraggio. Riuscire a essere altrettanto esplosivo in un tempo dilatato. Italiano medio, diretto, scritto e interpretato da Maccio, è infatti lo sviluppo del finto trailer di Limitless con Bradley Cooper: due minuti, in cui era un uomo intelligente e socialmente responsabile, che assumeva una pillola che gli cambiava totalmente la vita. Parodisticamente, rispetto alla Lucy di Besson che si ritrova ad avere a disposizione il 100% del cervello, Maccio deve capire cosa riuscire a fare con solo il 2%… E proprio da questa domanda prende il via il racconto. Giulio Verme è il perfetto emblema dell’uomo socialmente impegnato: allergico alla televisione sin da bambino, avverso a ogni massificazione, vegano convinto, sempre pronto ad aiutare gli emarginati, con la fissa per l’ambiente e le scelte etiche ed ecosostenibili. Addetto allo smistamento dei rifiuti a Milano, cerca di inculcare un po’ di senso civico nei colleghi, che gli rispondono a suon di scoregge. La radicalità delle sue scelte finisce per creare un muro tra lui e le persone che lo circondano: i genitori in primis, gli amici, i vicini e persino la fidanzata Franca, esasperata dal suo atteggiamento da uomo frustrato e ostile, ma fondamentalmente passivo. Giulio si ritrova isolato e disperato, sopraffatto dal “lerciume” che lo circonda, sempre più nevrotico e ansioso. Finché nella sua vita non approda l’amico Alfonzo, un ex compagno antipatico  delle elementari che gli offre una pillola straordinaria, che gli permetterà di usare solo il 2% del cervello, invece che il 20%. La metamorfosi sarà da Dottor Jekyll e Mr Hyde: da attivista rompiscatole e fanatico, Giulio diventerà un tronista beota con il mantra fisso dello “scopare”, della disco e del lusso cafonal, volgare e ignorante, carnivoro e menefreghista, guadagnandosi – impresa becera dopo l’altra – il diritto alla partecipazione al reality show più di culto del momento. L’apoteosi dell’italiano medio. Capatonda ha messo tutto se stesso in questa opera prima e il primo punto a favore gli deriva dall’enorme cura del dettaglio che il film mostra. Nulla è lasciato al caso, a partire dagli esilaranti titoli di testa (Tratto da una storia finta), che fanno partire in quinta il film e che denunciano da subito il pedigree cinefilo dell’autore. Che ha di fatto disseminato tutto il film citazioni filmiche facili da riconoscere via via. Tuttavia, il triplo salto carpiato dai video di 1/2 minuti al lungo di 100 equivalgono a passare dallo sguazzare in una piscina a nuotare nell’oceano. C’è un traccia coerente di fondo, ma i raccordi tra una scena comica e l’altra si stiracchiano troppo, portando con sé come conseguenza negativa la reiterazione di situazioni e tormentoni per allungare il brodo (amechemmenefregame, Sant’Iddio, Scopare…). Raccontare una metamorfosi in un video di 130 secondi risulta efficace, dilatarla con un continuo sdoppiamento di personalità ed esplicitando la lotta interiore sempre più opprimente che Verme si ritrova a combattere tra i suoi istinti primari da bifolco e gli intenti nobili, produce l’effetto di frammenti anche geniali, ma non ben incollati in un mosaico coerente. Se la struttura narrativa è il punto debole più evidente di Italiano medio, va invece segnalata – come altro punto a suo favore – il peso specifico delle riflessioni, per nulla superficiali. Lo sguardo di Maccio sull’Italia e i suoi concittadini è amaro e disilluso, quasi crudele. Con un disgusto e un disprezzo maggiore di quello dello storico Fantozzi verso l’impiegato piccolo piccolo, Maccio non risparmia colpi a colti e ignoranti, ricchi e poveri, impegnati e menefreghisti. Giulio Verme sdoppiato sintetizza le sublimi vette dell’arte del compromesso toccate dell’italiano, capace di essere vegano e mangiare il pollo fritto; andare in chiesa e avere mogli e amanti; difendere il bio e inquinare. Opposti apparentemente inconciliabili, che – come vedremo nel finale – invece, per gli abitanti del Bel Paese sono assolutamente ricomponibili, abituati come siamo ad accettare obbrobri edilizi che radono al suolo parchi bio, scandali sexual-politici, indecenze cultural-mediatiche dei reality (memorabili lo scandalo del bianchino nel privè, che ha portato all’esclusione di Kevin, e la “prova pippotto”), come se fossero parte integrante e inalienabile del sistema. Maccio non ce le manda a dire, ma stigmatizza tutti i nostri vizi, costringendoci a ridere (amaramente) di essi. Come sempre, è circondato dai soliti attori fidati: l’inseparabile Herbert Ballerina, che si trasforma in tre personaggi diversi; Rupert Sciamenna, imprenditore squalo con i capelli rosa; Ivo Avido, anche lui triplice. Molti i colleghi  che si sono prestati per differenti camei: lo Zoo di 105, Raul Cremona, Andrea Scanzi, Pierluigi Pardo e il principe assoluto del non sense Nino Frassica. L’impiego degli stessi attori in più ruoli e con costumi diversi, pur se giustificato dal surrealismo che ìmpera, genera spesso un effetto cabaret innestato nel cinema che non giova alla dimensione estetica del film. Sebbene gli vada anche riconosciuta una fotografia curata (di Massimo Schiavon), che alterna colori diversi quando la personalità di Giulio cambia, non abbiamo sempre la sensazione di trovarci di fronte a un film tout court, limite più forte dei comici italiani importati dalla Tv. Eppure, pensiamo che l’opera prima di Maccio vada premiata (anche per incoraggiamento, affinché continui a perfezionarsi, per giungere a una scrittura più equilibrata), perché regala sane risate, momenti di genio surreale (il folle “piano” finale degli attivisti) ed è una satira feroce che invita alla riflessione, come non accadeva da tempo in un film comico italiano. Da Rodotà-tà-tà a onestà-tà-tà, viaggio pre-Quirinale nella spaesata piazza grillina senza capo né nome, scrive Marianna Rizzini su “Il Foglio”. Da Rodotà-ta-tà a onestà-tà-tà. Dopo quasi due anni di Parlamento e alla vigilia di una nuova elezione presidenziale, la piazza a Cinque Stelle parla d'altro ( la "mafia capitale" da non dimenticare: da cui la pubblica lettura delle intercettazioni tratte dall'omonima inchiesta – per la gentile interpretazione di Claudio Santamaria e Claudio Gioè, attori e volti da romanzi criminali su piccolo e grande schermo). Onestà-tà-tà, dunque, al posto del nome che non si farà, non si vuole fare e non si vuole neanche ascoltare (il deputato e membro del direttorio a Cinque Stelle Alessandro Di Battista a un certo punto legge e fa leggere alla pizza la dichiarazione-gran rifiuto: caro Renzi ecco la risposta del popolo – e pare quasi di sentir parlare un robot, la famosa futuribile app che renderà possibile conversare con amici virtuali come nel film "Her" con Scarlett Johansson nella parte dell'amante fatta di web, solo che qui il tono non è suadente: lei ha già deciso, Renzi, e al Nazareno non veniamo). Onestá-tá-tá, e altre parole di un lessico chiama-applauso in una Piazza del Popolo che all'inizio era mezza vuota e percorsa da interesse per l'altrove del sabato pomeriggio: gente che faceva vedere l'acquisto da saldo e giovani rapper -break dancer con tappeto di plastica per performance estemporanea sul selciato. "La gente è arrivata", esclama una signora quando il suo wishful thinking, finalmente, diventa realtá, e arriva pure Sabina Guzzanti comica non più comica, ché, prevale, nel suo intervento, l'invettiva-imitazione in teoria civile in realtá elitaria contro Maria De Filippi, emblema del paese in cui da vent'anni, dice Guzzanti, si è perduto ogni " stimolo intellettuale", e sembra impossibile fare qualcosa: le persone colte riescono a stare insieme per combinare qualcosa, è il concetto espresso da Sabina, le persone ignoranti no. Colpa della tv, è la sentenza che alla fine dell'invettiva tutti si aspettano, e le ragazze del bar all'angolo della piazza si domandano perché mai "Sabina se la prenda con la De Filippi". Ma gli applausi a quel punto sono già stati tributati alla divinità nascosta che la piazza omaggia a intervalli regolari: l'onestà, rieccola, parola buona per tutto e piena in fondo di niente, se non della generica riprovazione per le altre bestie nere della serata (persino il rapper Fedez le dice e non le canta: corruzione, resistenza, vergogna, marciume, e mafia mafia mafia). Tutto è mafia, dicono i deputati, senatori e consiglieri comunali grillini che sfilano sul palco (Roberta Lombardi, la veterana dei primi streaming a Cinque Stelle, dice che una mattina si è svegliata e ha trovato non l'invasore ma una città che diventa proprio quello che ora, chissà perchè, tutti evitano di ricordare: il teatro della mafia capitale. La senatrice stornellista Paola Taverna, in strana inversione di ruoli con Fedez, pare quasi una rapper quando intona lo slogan degli slogan: fuori la mafia dallo Stato. Fedez invece, sempre senza cantare, dice la frase che qualcuno nel pubblico trova "un po' cosi" nel giorno in cui l'Isis decapita un altro ostaggio, di nazionalità giapponese: abbiamo il nemico in casa ma non è di fede musulmana, dice Fedez, e le grandi stragi sono di matrice italiana. Il più grande nemico  dell'Italia sono gli italiani, continua, e a quel punto l'applauso arriva, forse per riflesso condizionato (sono già due ore che gli astanti sentono dire peste e corna dell'universo mondo nazionale). "Fuori i nomi, Renzi"', grida il tribuno Di Battista, e alla fine Beppe Grillo esce per dire la stessa cosa, ma con il marchio di fabbrica: vaffanculo! (Vaffanculo e fate i nomi). Il resto è uso traslato (e a volte insensato) di termini impossibili a odiarsi: valori, costituzione, libertà, partecipazione (povero Gaber), cultura. Grillo invece parla di sottocultura, insultando qui e lì Giorgio Napolitano per non aver riconosciuto "il miracolo" a cinque stelle, anche se il miracolo Grillo se l'è sfasciato da solo. Resta solo da dire no al "Nazareno", demone antropomorfo. Ed è subito sabato sera mentre gli attivisti sbaraccano, e sulla piazza che si svuota si diffonde, incongrua, la più classica canzone dei Pink Floyd ("another brick in the wall").

Chi non è raccomandato, scagli la prima pietra.

Essere raccomandati in un’azienda privata è una cosa lecita. Esser raccomandati per vincere un concorso pubblico o un esame di Stato è reato. Spesso, però, per indulgenza o per collusione, le cose si confondono.

Se non basta un muro di parole per vincer la resistenza degli scettici, allora è solo mala fede in loro.

La Costituzione all'art. 3 non cita che siamo tutti uguali o tutti discendenti di eccelsi natali, esplica solo che tutti siamo uguali, sì, ma di fronte alla legge!!!

Calcio, politica e soldi. Tutti i luoghi comuni dell'italiano medio. Da "i ricchi evadono" al "solito inciucio": ormai le litanie dilagano. E chi le recita si sente un po' più onesto degli altri, scrive Massimiliano Parente su “Il Giornale”. A cominciare dalla considerazione «Solo in Italia». Solo in Italia ci sono mille parlamentari. Solo in Italia non trovano i colpevoli dei delitti. Solo in Italia la giustizia funziona male, ovviamente se per caso tocca noi, se tocca un altro «dovrebbero metterlo dentro e buttare la chiave», come fanno all'estero. Tanto nessuno conosce l'estero, per questo ogni legge elettorale te la propongono alla francese, alla tedesca, all'americana, per mostrare di conoscere il mondo quando non si sa un cavolo neppure di come si vota in Italia. Coltivando il mito di paesi nordici come la Scandinavia o la Norvegia, dove i servizi funzionano a meraviglia, dove lo tasse sono bassissime, basta che non domandi dove sta la Norvegia perché non saprebbero neppure indicartela sulla carta geografica. Sebbene abbiano sentito Grillo che ti spiega come lì si ricicli anche la pupù. Ma perché non cerchi lavoro? Perché tanto «non c'è lavoro», perché «bisogna andare fuori», e poi tutti sono sempre qui, mai che muovano il sederino, come all'estero appunto. Tanto «è tutto un magna magna», e «tutti rubano», sempre a sottintendere che chi lo dice non appartiene alla categoria, sempre a sottolineare una propria specchiatissima onestà, perché solo in Italia «i ricchi evadono lo tasse», l'hanno visto da Santoro e a Report, te lo dice il barista che intanto non ti rilascia lo scontrino fiscale e il medico o l'idraulico che senza fattura, se vuoi, paghi meno, e tu ci stai perché tanto mica te la scarichi, come in America. Tanto «gli italiani so' tutti ignoranti», sbotta quello che non ha mai aperto un libro e un quotidiano lo sfoglia a scrocco mentre sbocconcella il cornetto, leggendo solo i titoli, non per altro quanto a lettura di giornali veniamo dopo la Turchia, e l'editoria è in crisi qui più che altrove, perché se si legge qualcosa «l'ho letto su internet». Che poi se cerchi lavoro, è noto, «prendono solo raccomandati», e intanto non è che per caso conosci qualcuno? In un paese dove «non c'è meritocrazia», e mica se ne lamenta il laureato a Harvard, se ne lamentano tutti, un popolo di meritevoli, informati, studiosi, sentono che c'è «la fuga dei cervelli» e si identificano subito col cervello in fuga. Mai sentito nessuno che ammetta di non essere all'altezza, di aver studiato poco, di non meritarsi nulla, tutti sanno tutti, in qualsiasi campo, dalla medicina all'economia. Convintissimi che se i parlamentari si tagliassero lo stipendio si abbasserebbe il debito pubblico. O almeno potrebbero «dare l'esempio», quasi che i deputati fossero arrivati in parlamento con un'astronave e non li avessero votati loro. Perché qui «è tutto un inciucio», e nel frattempo pure a me scrittore, nel mio piccolo, arrivano in posta sporte di manoscritti mediocri che vogliono essere letti da gente che non ha mai letto niente, tanto meno me, ma se glielo fai notare rispondono «Mica sarà peggio di tanti che pubblicano?». È il diritto alla mediocrità, solo in Italia.

Eguaglianza «aritmetica» o «proporzionale», secondo la distinzione di Aristotele? Nel punto d'arrivo o di partenza? Verso l'alto o verso il basso, come vorrebbero le teorie della decrescita? Se due mansioni identiche ricevono retribuzioni differenti, dovremmo elevare la peggiore o abbassare la piú alta? Ed è giusto che una contravvenzione per sosta vietata pesi allo stesso modo per il ricco e per il povero? Sono giuste le gabbie salariali, il reddito di cittadinanza, le pari opportunità? E davvero può coltivarsi l'eguaglianza fra rappresentante e rappresentato, l'idea che «uno vale uno», come sostiene il Movimento 5 Stelle? In che modo usare gli strumenti della democrazia diretta, del sorteggio e della rotazione delle cariche per rimuovere i privilegi dei politici? Tra snodi teorici ed esempi concreti Michele Ainis ci consegna una fotografia delle disparità di fatto, illuminando la galassia di questioni legate al principio di eguaglianza. Puntando l'indice sull'antica ostilità della destra, sulla nuova indifferenza della sinistra verso quel principio. E prospettando infine una «piccola eguaglianza» fra categorie e blocchi sociali, a vantaggio dei gruppi piú deboli. Una proposta che può avere effetti dirompenti.

Siamo tutti bravi a sciacquarci la bocca sull'uguaglianza. Ecco il fenomeno dei populisti.

Il largo uso che i politici e i media fanno del termine "populismo" ha contribuito a diffonderne un’accezione fondamentalmente priva di significato: è rilevabile infatti la tendenza a definire "populisti" attori politici dal linguaggio poco ortodosso e aggressivo i quali demonizzano le élite ed esaltano "il popolo"; così come è evidente che la parola viene usata tra avversari per denigrarsi a vicenda – in questo caso si può dire che "populismo" viene talvolta considerato dai politici quasi come un sinonimo di "demagogia".

Ritorsioni se dici la verità: sì, ma come si fa a tacere queste mascalzonate?

Equitalia, milioni di cartelle a rischio: 767 dirigenti nominati senza concorso, scrive Blitz quotidiano.

La Corte Costituzionale abbatte Equitalia. I dirigenti? Tutti falsi, scrive Angelo Greco su “Legge per Tutti”.

"Università, altro che merito. E' tutto truccato. Vi racconto come funziona nei nostri atenei". Fondi sperperati, concorsi pilotati, giovani sfruttati. Un ex dottorato spiega nel dettaglio come si muove il mondo accademico tra raccomandazioni e correnti di potere. E qualcuno non vuole che il libro in cui riporta tutti gli scandali venga pubblicato, scrive Maurizio Di Fazio su “L’Espresso”.

Chi non è raccomandato scagli la prima pietra. Più di quattro milioni di italiani sono ricorsi a una raccomandazione per ottenere un'autorizzazione o accelerare una pratica. E 800mila hanno fatto un "regalino" a dirigenti pubblici per avere in cambio un favore. Sono alcuni dati emersi da una ricerca realizzata dal Censis.

Non solo. Il coro di voci, che hanno chiesto le dimissioni al Ministro Lupi del governo Renzi, è roboante. Tra i vari aspetti della vicenda Incalza che lo vedono coinvolto, al ministro delle Infrastrutture non viene perdonata la presunta raccomandazione per il figlio. Ma è davvero così peccaminoso prodigarsi per il proprio figlio come ogni genitore farebbe, oltretutto, in un Paese dove la raccomandazione è all'ordine del giorno?

E’ inutile negarlo, la pratica della raccomandazione è la sola che funziona perfettamente nel nostro Paese, anche perché coinvolge ognuno di noi in maniera democratica senza distinzione di genere, scrive “Panorama”. Ci sono gli italiani che raccomandano e gli italiani che si fanno raccomandare, una sorta di catena di Sant’Antonio che prosegue all’infinito. Almeno una volta nella vita bisogna provare l’ebbrezza della spintarella, anche quando si è coscienti che questa non servirà a nulla per raggiungere l’ambita destinazione, qualsiasi essa sia (il posto di lavoro, la visita medica, l’esame all’università) e non importa se alla meta arriverà un altro, perché la nostra osservazione sarà “chissà chi lo ha raccomandato…!” E poi ci sentiamo a posto con la coscienza per due motivi, il primo perché, comunque, il tentativo lo abbiamo fatto, il secondo perché la volta successiva non ci faremo trovare impreparati, anzi ci organizzeremo meglio cercando una spinta più potente. Forse un giorno potremo anche inserirla nel curriculum vitae.

Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Questi avvocati esercitano.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”.

Ma guarda un po’, sti settentrionali, a vomitar cattiverie e poi ad agevolarsi del…sole calabro.

Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano.

Quando si dà la caccia ai figli per colpire i padri, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. E poi dicono, i potenti, povero ministro Lupi. Un figlio laureato con 110 e lode al Politecnico di Milano, e tutto quello che gli trova è un lavoretto su un cantiere Eni a partita iva da 1300 euro mese. Un precario aggiunto ai milioni di giovani senza posto fisso. E sì che mica lo poteva infilare in una delle cooperative di Comunione e liberazione, quelle ormai stanno nell’occhio del ciclone, e poi che fai, vai a pulire il culo degli ammalati negli ospedali, dai i pasti alla mensa, ti sbatti coi tossici, ricicli i libri usati, oh, c’ha una laurea al Politecnico. E però, per i figli si farebbe tutto, certo. Anche mettendoti a rischio. I figli sono pezzi di cuore, sono quello per cui ti sbatti, sono quello che rimarrà di te, sono il punto debole. È una costante questa. Sarà che noi italiani c’abbiamo il familismo amorale, c’abbiamo. Prima di tutto la famiglia, i figli.

Chissà se hanno telefonato per i loro figli in carriera. Indignazione per Lupi jr, ma nessuno si chiede se i rampolli dei leader democratici abbiano avuto l'aiutino. Dagli eredi dei presidenti alle ragazze di Veltroni e D'Alema, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Mio figlio è laureato al Politecnico con 110 e lode, gli faccio sempre questa battuta: purtroppo ha fatto Ingegneria civile e si è ritrovato un padre ministro delle Infrastrutture» si difende Maurizio Lupi, accusato di familismo all'italiana. Quella è una sfortuna che capita spesso ai figli di potenti, quasi sempre dotati di grande talento tanto da meritare posti prestigiosi, carriere formidabili, magari in settori affini a quelli di papà o mammà. Così viene il sospetto, malizioso e certamente infondato, che qualche telefonatina per lanciare i rampolli, una sponsorizzazione paterna o materna, sia prassi diffusa. Anche a sinistra, magari a partire da chi si indigna per Lupi jr. Avere parenti potenti non serve, se si è bravi, però aiuta. Sempre che non li intercettino.

Caso Lupi, Giampiero Mughini su Dago critica Giuliano Ferrara: "Tutti siamo stati raccomandati, anche tu", scrive “Libero Quotidiano”. Chi è senza raccomandazione alzi il ditino da moralista. Giampiero Mughini interviene a piedi uniti nel dibattito sul ministro Maurizio Lupi e la sospetta raccomandazione che avrebbe fatto al figlio ingegnere per farlo lavorare. A far saltare la mosca al naso di Mughini è un pezzo di Giuliano Ferrara sul Foglio che in un passaggio scrive: "Non mi hanno ristrutturato case a buon prezzo, assunzioni di parenti no e poi no, non li conosco. Le cricche mi sono lontane". Apri cielo: Mughini in una lettera a Dagospia prima ricostruisce il suo ingresso nel mondo del lavoro, ricordando la lettera di raccomandazione scrittagli da Gian Carlo Pajetta per lavorare a Paese Sera. Poi passa proprio all'Elefantino, sulla cui vita ha anche scritto un libro in passato: "Era stato Alberto Ronchey, negli anni Cinquanta moscoviti collega di papà Maurizio Ferrara, a intercedere presso il Corriere della Sera perché Giuliano potesse iniziarvi una sua collaborazione". Con il ministro di Ncd, Mughini dice di non avere legami, quindi nessuna difesa di ufficio. Se poi venisse confermata la telefonata con la quale Lupi avrebbe chiesto un lavoro per il figlio: "Io - scrive Mughini - altissimamente me ne strafotto. E tutti quelli che si stanno alzando con il ditino puntato - continua - hanno a che vedere con la faziosità politica".

"La credibilità dello Stato oggi è ampiamente compromessa e il primo atto, lo dico non per ragioni giudiziarie, ma per ragioni politiche, dovrebbe essere una bonifica radicale del ministero delle Infrastrutture, e anche le dovute dimissioni del ministro competente". Lo ha detto il leader di Sel e presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, parlando il 17 marzo 2015 oggi a Bari con i giornalisti in merito alla maxi operazione dei Cc del Ros sulla gestione illecita degli appalti delle cosiddette Grandi opere. Certo che non vi è vergogna nei nostri politici. Si parla delle dimissioni di Lupi che non è indagato. Mentre chi le chiede, e gli esponenti del suo partito, nel processo a Taranto "Ambiente Svenduto", per loro la Procura ha chiesto al giudice per l'udienza preliminare Wilma Gilli il rinvio a giudizio. Chiesto dalla Procura il rinvio a giudizio per il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, per il sindaco di Taranto, Ezio Stefàno, per gli attuali assessori regionali all'Ambiente, Lorenzo Nicastro, e alla Sanità, Donato Pentassuglia, quest'ultimo all'epoca dei fatti presidente della commissione regionale Ambiente, nonché per l'allora assessore regionale Nicola Fratoianni, oggi deputato di Sel.

Vittorio Feltri: “Se Santoro è giornalista la colpa è mia che l’ho promosso all’esame. Si dà infatti il caso che Santoro sia diventato giornalista professionista con il mio contributo, giacché facevo parte della commissione all'esame di Stato che lo promosse e gli consentì l'iscrizione all'Ordine nazionale dei giornalisti. Era il 1982. Me lo ricordo perché erano in corso i Mondiali di calcio in Spagna, quelli vinti dall'Italia con Sandro Pertini in tribuna d'onore. La vita del commissario esaminatore aveva qualche risvolto piacevole. Feci comunella con Giuseppe Pistilli, vicedirettore del Corriere dello Sport, il quale sedeva con me nel sinedrio. La sera andavamo a cena insieme. Il ponentino e il Frascati ci aiutavano a dimenticare le miserie cui avevamo assistito durante la giornata nel valutare i candidati. Ancora non avevo maturato la convinzione che l'Ordine dei giornalisti fosse un ente inutile, anzi peggio: dannoso. Pistilli contribuì a instillarmi qualche sospetto, illustrandomi come funzionava la commissione d'esame. Esempio: un aspirante scriba ti era stato raccomandato o ti stava a cuore? Bene, si trattava di farsi dare da lui le prime righe dell'articolo che aveva steso durante la prova scritta. Nessuno comincia un pezzo nella stessa maniera del compagno di banco, chiaro no? Perciò, non appena s'iniziava la lettura ad alta voce e in forma anonima degli elaborati, all'udire l'attacco familiare il commissario dava un calcetto sotto il tavolo a chi gli stava accanto. Costui a sua volta sferrava un calcetto al commissario più vicino, e avanti così. Con sei calcetti, il candidato era promosso. Dopodiché ricevevi a tua volta altri colpi negli stinchi e dovevi restituire il favore ricevuto. In questo modo passavano l'esame (e lo passano tuttora) asini sesquipedali.”

Il tribunale del popolo guidato da Di Pietro, scrive Tiziana Maiolo su "Il Garantista". Maurizio Lupi non è un indagato. È un condannato dal Tribunale del Popolo composto di giornalisti invidiosi, magistrati esibizionisti e una folla di tricoteuses opportunamente istigata dai Paladini della Virtù che passeggiano per i talkshow spargendo il proprio verbo, la propria “moralità”. Il 17 marzo 2015 mattina si è svegliato presto Antonio Di Pietro, si è collegato subito con Radio24, poi è corso in Rai per farsi intervistare ad Agorà sgusciando poi via velocemente per planare su La7. Una fatica per chi ha tante lezioni di moralità da elargire al ministro Maurizio Lupi. Che non è indagato, ma condannato perché “forse” si è lasciato regalare un vestito da un imprenditore suo amico di famiglia, il quale avrebbe anche donato un orologio costoso a suo figlio in occasione di una laurea particolarmente brillante al Politecnico di Milano. Tra le imputazioni di stampo moralistico c’è anche un posto di lavoro temporaneo al neo-ingegnere in un cantiere. Giusto quindi che intervenga subito il Pm più famoso d’Italia. Un plauso a tutti i conduttori che hanno pensato di invitare proprio Di Pietro a commentare i comportamenti di Lupi. È uno che se ne intende.

Da quale pulpito vien la predica?

Si riportano vari articoli di stampa, a scanso di persecuzione personale.

L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

Si riportano vari articoli di stampa, a scanso di persecuzione personale.

Corrado Carnevale: "Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato...", scrive “Libero Quotidiano”. Corrado Carnevale: "Al concorso in magistratura, Di Pietro ha avuto due aiutini". L'ex giudice Corrado Carnevale: "Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio", scrive Rachele Nenzi su “Il Giornale”.

Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato. L’ex giudice Carnevale sull’esame di Tonino a pm: «Era povero, mi commossi. E due 5 diventarono 6», scrive Valeria Di Corrado su “Il Tempo”.

Giancarlo De Cataldo su “L’Espresso”: L'Italia è una repubblica fondata sullo scandalo. Dai tempi di Cavour a Mani Pulite: ogni vent’anni un’indagine-choc. Corsi e ricorsi storici delle tangenti, specchio di un Paese che non cambia. Il commento dello scrittore-magistrato. La fiction “1992” è bella e coraggiosa. Racconta - ed è già questo un merito innegabile - la controversa stagione di Mani Pulite. Lo fa con la disinvolta ferocia narrativa che è il marchio di fabbrica delle grandi serie. “1992” è televisione avanzata. Ma ha anche un altro merito. “1992” declina con linguaggio di oggi una vicenda che affonda radici profonde nella storia d’Italia. Una storia antica: la storia della nostra corruzione. Una storia cominciata tanti anni fa. Conquistato il Sud grazie all’impresa dei Mille, il conte di Cavour si mette all’opera per disegnare il futuro della nuova nazione. Giorgio Asproni, deputato sardo, alta carica massonica, ex-prete, esponente dell’estrema sinistra mazziniana, nei suoi impietosi diari annota disgustato l’incessante processione di faccendieri, ufficiali, imprenditori che assediano l’ufficio di Cavour a Palazzo Carignano. Tutti a vantare inesistenti meriti patriottici, tutti a implorare un incarico, una commessa, un’onorificenza. Ciò che l’incendiario Asproni non può sapere è che in quegli stessi momenti Cavour, il liberale, l’odioso tessitore di trame che i democratici accusano di essersi impossessato per turpi fini della bandiera della Patria, proprio Cavour, prova, nei confronti dei questuanti, sentimenti non molto dissimili. Al punto da bollare i clientes con parole di fuoco. Asproni e Cavour, ciascuno eroico a suo modo, divisi da visioni radicalmente inconciliabili della Storia (e della natura umana) su un punto concordano: il disprezzo per quei molli figuri che non versarono una sola goccia di sangue per la “causa” e ora si avventano sulla greppia dell’Italia unita. Ma se Asproni li metterebbe volentieri al muro, corrotti e corruttori, Cavour, secondo il suo costume, pensa di poterne agevolmente “trarre partito”. Costruire dal nulla un’identità nazionale è compito arduo, ai limiti dell’impossibile. Nella fase d’avvio non si può andare tanto per il sottile. Anche gli affaristi servono, e servono i faccendieri. Cavour opera una scelta di campo destinata a ipotecare pesantemente il nostro futuro. Il destino fa il resto. Cavour, che forse sarebbe riuscito a contenere le smanie predatorie nell’alveo della fisiologia democratica, muore troppo presto. I suoi successori non si riveleranno all’altezza. Quindici anni dopo l’Unità, nel 1875, un popolano trasteverino accoltella a morte Raffaele Sonzogno, coraggioso giornalista calato a Roma dal Nord, animatore di inchieste sul dilagante malaffare post-unitario. Il sicario viene subito arrestato, ma è chiaro che, secondo uno schema destinato a ripetersi drammaticamente negli anni, se il pugnale viene dalla strada, l’ordine è partito dal Palazzo. Giancarlo De Cataldo Dietro l’uccisione di Sonzogno c’è una colossale speculazione edilizia sui terreni espropriati al Vaticano. Sono coinvolti banchieri, palazzinari, preti attenti al portafoglio, pezzi della Destra storica, che uscirà sconfitta dalle elezioni dell’anno dopo, e pezzi della Sinistra che già pregusta la vittoria, e persino un rampollo “agitato” dell’eroe dei Due Mondi. Una pregevole compagnia di giro che ritroveremo spesso nella cronaca del nostro Paese. Troppo, per una nazione appena nata. L’inchiesta, abilmente pilotata, porta alla condanna del deputato Luciani. Movente: una questione di corna. Luciani becca una condanna tombale, e invano, per anni, minaccerà sconvolgenti rivelazioni. Dalla speculazione verranno poste le basi per uno dei tanti, anch’essi ricorrenti, “sacchi” di Roma. Qualche anno dopo, nel 1892, un giornale satirico della capitale, “Il carro di Checco”, svela la vicenda finanziaria che passerà alla storia come “scandalo della Banca Romana”. Incalzato dal battagliero Napoleone Colajanni, il governo è costretto a nominare una commissione d’inchiesta. Emergono notevoli reati: si va dalla fabbricazione e spaccio di monete false al falso in bilancio, dalle false fatturazioni alla corruzione dei funzionari e deputati incaricati dei controlli, passando per la costituzione di “fondi neri” riversati nelle tasche di personaggi pubblici. Coinvolto il gotha politico del tempo, Giolitti in testa, lambita Casa Savoia. Giolitti, anche se non è più ministro, pretende e ottiene una giurisdizione “politica”. Il finale è deprimente, con la morte per suicidio di un onorevole accusato di un reato minore e il proscioglimento generale. Favorito, si disse, da un’attenta “gestione” dei materiali probatori concordata fra Governo e vertici della magistratura. Grande e diffusa fu la frustrazione. Un giurista scrisse che si era consacrata «l’immoralità di chi ha troppo mangiato e che dopo il pasto pare abbia, come la lupa di Dante, più fame di pria». La stampa, come sovente accade, deplorò. E tutto ricominciò come prima. Fra l’altro, proprio mentre si dibatteva della Banca Romana, in Sicilia veniva assassinato Emanuele Notarbartolo di San Giovanni. Un banchiere onesto che si era messo di traverso alle speculazioni ordite da quella che, allora, si chiamava “Alta Mafia”. Fu incriminato per questo omicidio l’onorevole Palizzolo, poi assolto all’esito di un interminabile processo. Il vecchio liberale Gaetano Mosca parlò di «disfatta morale». Gli amici festeggiarono la liberazione di Palizzolo noleggiando una nave con tanto di gran pavese. In tempi più recenti, sembra essersi affermata una paradossale “legge del venti”. Nel senso che ogni vent’anni circa il Paese “scopre” uno o più colossali scandali a base di corruzione. Si deplora, si invocano cambiamenti legislativi, emergono demagoghi più o meno versati nell’arte di arringare le masse promettendo “pulizia”, si adottano misure asseritamente restrittive, si fanno esami di coscienza, si va in Tribunale. Nel 1974 alcuni giovani giudici, definiti con un certo risentimento “pretori d’assalto” (l’anticamera del “giudici ragazzini” di qualche anno dopo), scoprono che i petrolieri pagano i ministri per ottenere leggi favorevoli alla propria lobby. Sandro Pertini, Presidente della Camera, li incoraggia a «non guardare in faccia a nessuno», inclusi i suoi compagni del Partito Socialista. Minaccia, in caso di insabbiamento, le dimissioni. Il governo cade. Gli imputati sono giudicati dalla Commissione Parlamentare per i procedimenti di accusa. Pertini non si dimette. Esito del giudizio: due ministri archiviati, due prescritti, due assolti dopo qualche tempo. Mani Pulite, si è detto, esplode nel 1992, quindi a circa vent’anni dallo scandalo dei petroli. Fra il 1992 e il 1993 si consumano gli ultimi delitti eccellenti e le ultime stragi di mafia. Curiosa coincidenza con quanto era accaduto esattamente un secolo prima. Ieri corruzione a Roma e morte di un banchiere onesto in Sicilia, oggi corruzione a Milano e non solo, piombo e tritolo per politici, giudici e inermi cittadini in Sicilia e non solo. Quasi a voler sottolineare che gli inconfessabili legami e lo spregiudicato uso della violenza e della corruttela, col tempo, invece di attenuarsi, si sono rafforzati. Le stragi mafiose e Mani Pulite suscitarono un’ondata di indignazione. Furono approvate leggi per favorire il fenomeno del pentitismo e confiscare i beni dei mafiosi. Una nuova classe politica spazzò via la precedente: e anche questo era accaduto, cent’anni prima. Poi, col tempo, tutto si è sopito e troncato. I pentiti sono diventati più o meno degli appestati. Mani Pulite è oggetto di revisione storiografica critica. Ritocchi normativi bipartisan hanno reso sempre più disagevole l’operato degli investigatori. A risvegliare i dormienti, guarda caso a vent’anni da Mani Pulite, gli scandali Expo, Mose, e, infine, l’inchiesta “Mafia Capitale”. Che, fra l’altro, come all’epoca del trapasso fra Destra storica e Sinistra, propone uno spaccato di cointeressenze fra gente che dovrebbe, teoricamente, militare su opposte sponde. Oggi la stampa deplora. Sono allo studio inasprimenti di pena. Si nominano authority anticorruzione e assessori alla legalità. Intanto, si vara una legge punitiva sulla responsabilità civile dei magistrati e si tuona contro il loro “protagonismo”: senza mai riempire di contenuto questa parola dal suono, si direbbe, gnostico. Si giura, soprattutto, che è venuto il momento di voltare pagina. Come diceva Nino Manfredi: «Fusse ca fusse...». Dobbiamo dunque ritenerci rassegnati e sfiduciati? Ci mancherebbe! A un ragazzo che si affaccia alla vita non puoi trasmettere il messaggio del “tutto è perduto”. Sarebbe delittuoso. Però un minimo di onestà intellettuale non disturba, anzi. Bisogna spiegare che fra corruzione e legalità si combatte una guerra aspra, senza esclusione di colpi. Che corrotti e corruttori offrono scorciatoie convincenti, indossano maschere seducenti, vantano - e purtroppo sovente a ragione - indiscutibili successi. Sono simpatici, mondani, ricchi di fascino, corrotti e corruttori. “Legalità” è invece una parola astratta che ossessivi, abili messaggi fanno apparire sempre più ostile, odioso patrimonio di arcigni, e dunque antipatici, guardiani. “Moralista” fa oggi sorridere, “incorruttibile” suscita panico. Bisogna spiegare che giudici e poliziotti sono patologi del sistema, intervengono quando il danno è stato fatto. Bisogna insistere sull’istruzione e sulla cultura, e persino sull’estetica: si può combattere, consapevoli della disparità fra le forze in campo, anche per il solo gusto di non darla vinta alla società dei magnaccioni. E dopo, a casa, magari, tutti a vedere “1992”, la serie. Con Asproni che digrigna i denti e Cavour che perde un po’ alla volta il suo ironico sorrisetto.

La caduta (parziale) degli Dei, scrive Piero Sansonetti su "Il Garantista". Il segretario dell’Anm, il dottor Maurizio Carbone, dice che la riforma delle norme sulla responsabilità civile dei magistrati, approvata l’altro ieri dal Parlamento, «è un tentativo di normalizzare la magistratura». Lo ha dichiarato ieri, durante la conferenza stampa dell’ Anm, che è su tutte le furie per questa piccola riforma. Già: «normalizzare». Cioè rendere normale. Oggi la magistratura non è normale: è l’unica istituzione dello Stato ad essere al di sopra dello Stato, della legge, ad essere – nell’esercizio delle sue funzioni – immune dalla legge, e insindacabile, e non dipendente dallo Stato ma sovraordinata allo Stato. «Normalizzare» la magistratura, cioè toglierle la sua caratteristica di ”deità” (che non è la ”terzietà” di cui spesso l’Anm parla) non sarebbe una cosa cattiva. Libererebbe forse l’Italia da un sovrappeso ”feudale” che ancora ne condiziona profondamente la struttura democratica, e che probabilmente è in contrasto con lo spirito della Costituzione, che è una Costituzione Repubblicana e che prevede l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Alcuni magistrati dicono: ma noi siamo magistrati, non cittadini. E su questa base pretendono di non dover sottostare alla legge. Ritengono – temo in buona fede – che la saldezza di una società, e la sua moralità, e il suo essere ”società etica” (successivamente si passa all’idea dello ”Stato Etico”) non possono che essere affidati ad una entità e ad un gruppo di persone migliori degli altri (”aristoi”) i quali siano in grado di ”sapere” la vita degli altri, valutarla, giudicarla, punirla. Non è questa una funzione – pensano – che possa essere affidata alla democrazia, o al libero svolgimento delle relazioni umane e sociali, perché la democrazia è un buon sistema di governo ma è viziato da corruzione. E l’eccesso della libertà, della deregolamentazione, sono pericolose per la collettività. La democrazia deve essere ”corretta”, o comunque controllata, e anche la società, da qualcosa di superiore e di ”certamente morale”: e cioè da i giudici. Contestare questa funzione dei giudici vuol dire contestare la loro indipendenza. E mettere in discussione l’indipendenza dei giudici vuol dire correre il rischio che la magistratura finisca per non essere più autonoma dalla politica. L’autonomia dalla politica non è vista come una condizione di funzionamento della magistratura, o come un elemento necessario nell’equilibrio dei poteri, ma come un valore assoluto al quale una società ”morale” deve sottomettersi, e in assenza del quale la società diventa ”immorale” e la democrazia, e le istituzioni, scendono in una condizione di subalternità alla politica. La politica è ”il male” , la giustizia (lo dice la parola stessa) è il bene, e il bene può governare il male, e può redimerlo, correggerlo, sottometterlo. Il male non solo non può governare il bene, ma non può aspirare ad essere alla pari col bene. Ecco, questo ragionamento è alla base delle molte dichiarazioni rilasciate ieri dal dottor Carbone, e anche dal presidente dell’Anm Sabelli. Il quale ha rimproverato al governo di avere promesso una riforma della Giustizia in 12 punti, e di avere realizzato invece l’unico punto che non va bene, e cioè la riforma della responsabilità dei giudici. I magistrati invece – ha spiegato – vogliono cose diverse: per esempio la riduzione della prescrizione, l’estensione dei poteri speciali ”antimafia” anche ad altri reati, il processo telematico (cioè la cancellazione del diritto dell’imputato ad essere presente al suo processo), la riduzione dei gradi di giudizio, eccetera. In sostanza, la proposta dell’Anm (che più o meno è stata organicamente strutturata nella proposta di riforma del dottor Nicola Gratteri) è quella di escludere norme che riportino alla normalità la magistratura, ristabilendo la legittimità dello Stato liberale e dell’equilibrio dei poteri, ma, viceversa, decidere un forte aumento dei poteri della magistratura, un ridimensionamento drastico dei diritti dell’imputato, e un rafforzamento della condizione di preminenza e di insindacabilità dei pubblici ministeri. Sabelli ha anche annunciato che l’Anm ha chiesto un incontro al Presidente della Repubblica. Per dirgli cosa? Per esprimere le proprie rimostranze contro il Parlamento. Già nella richiesta dell’incontro c’è un elemento di scavalcamento dell’idea (puramente platonica in Italia) dell’indipendenza dei poteri. La magistratura ritiene che il suo compito non sia quello semplicemente di applicare le leggi, ma di condizionarne il progetto e la realizzazione. L’associazione magistrati chiede al Presidente della Repubblica di frenare, o condizionare, o rimproverare il Parlamento. E vuole discutere nel merito delle leggi. La magistratura considera inviolabile la propria indipendenza dagli altri poteri, e inaccettabile la pretesa di indipendenza degli altri poteri dalla magistratura. Devo dire che la passione con la quale i magistrati hanno reagito alla miniriforma della responsabilità civile mi ha colpito soprattutto per una ragione: questa riforma è quasi esclusivamente simbolica. La responsabilità dei giudici resta limitatissima. L’unica vera novità è la rimozione del filtro che in questi vent’anni aveva permesso solo a 4 cittadini di ottenere un risarcimento per la mala-giustizia (nello stesso periodo sono stati processati e condannati 600.000 medici). Tutte le altre barriere restano. I magistrati saranno giudicati solo in caso che sia accertata una colpa grave, o addirittura un dolo nel loro comportamento, saranno giudicati non da una autorità esterna ma dai loro colleghi (visto che oltretutto non esiste una divisione delle carriere) e se alla fine saranno ritenuti colpevoli pagheranno con una sanzione che in nessun caso potrà superare la metà dell’ammontare di un anno di stipendio. Voi conoscete qualche altra categoria professionale protetta fino a questo punto? La probabilità di essere condannati per i magistrati è così bassa, e l’esiguità della pena così forte, che chiunque può mettersi al riparo pagando una assicurazione con poche decine di euro. Cosa che non vale per i medici, o gli ingegneri (non parliamo dei giornalisti) che essendo espostissimi al rischio di condanna (anche senza dolo e senza colpa grave) se vogliono sottoscrivere una assicurazione devono pagare migliaia e migliaia di euro. Diciamo che il privilegio non è affatto toccato da questa riformetta. Appena appena scalfito. E allora? Il fatto è che comunque la riforma ha un valore ideale, è una specie di metafora. Il Parlamento, per una volta, non si è inginocchiato davanti alla magistratura. E’ questa la novità che ha messo in allarme i settori più corporativi della magistratura. Il timore è che davvero possa cambiare il clima politico e possa essere aperta una via alle riforme vere, e al ridimensionamento della ”Divina Giustizia”. No, la riforma non comporterà la caduta degli Dei. Solo che gli Dei non sopportano gli oltraggi. Sono permalosi. E’ sempre stato così, dai tempi di Omero. E questa legge è uno sberleffo inaccettabile, anche se innocuo.

Magistrati: ecco perché non pagheranno mai. La nuova riforma della responsabilità civile dei magistrati? Non cambierà nulla. Perché l’arma è già spuntata in partenza, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Vi hanno detto che adesso cambia tutto? È un bluff. Non hanno pagato un euro negli ultimi 26 anni e non pagheranno nemmeno domani. Il 25 febbraio la Camera ha approvato la nuova legge sulla responsabilità civile, e da allora magistrati e giudici gridano all’indipendenza violata, strepitano all’attentato alla Costituzione. I più vittimisti ne parlano addirittura come di una «punitiva ditata negli occhi». Tutti paventano «uno tsunami di ricorsi». Ma è solo una pantomima. Ne sono convinti molti giuristi e ne sono certi soprattutto gli avvocati, che continueranno a non utilizzare lo strumento. Perché non funziona e non funzionerà. Sergio Calvetti, penalista di Vittorio Emanuele di Savoia, ha appena incassato 39 mila euro dalla Corte d’appello di Roma che ha riconosciuto al suo cliente l’ingiusta detenzione del 2006, più danni accessori e d’immagine. Calvetti, però, non è riuscito nell’impresa invocando la responsabilità civile del magistrato che a Potenza condusse l’indagine, quell’Henry John Woodcock che fu star di cento inchieste tanto roboanti quanto avare di risultati: «Abbiamo ottenuto questo risultato come risarcimento da ingiusta detenzione» spiega il legale «e questo anche se subimmo la pervicace volontà di trattenere in quella sede il processo, pur senza alcuna competenza territoriale». Francesco Murgia, con Calvetti difensore storico di Vittorio Emanuele, aggiunge che in realtà una citazione per responsabilità civile fu presentata nei confronti di Woodcock nel dicembre 2011, quando cadde l’ultima accusa contro il loro cliente. Ma fu dichiarata inammissibile perché il tribunale stabilì fosse «non tempestiva»: avrebbe dovuto partire nel giugno 2006, ai tempi dell’ordine di custodia cautelare. Perché questo, assurdamente, prevede la legge (e oggi viene confermato dalla sua riforma): che per agire il cittadino aveva due anni, ora tre in base alla riforma. Con il trucco, però: perché l’orologio scatta dal momento in cui l’arresto o il primo provvedimento cautelare viene respinto. «Ma come faccio a iniziare un’azione di responsabilità, se sono ancora sotto scacco?» protesta Murgia. È con ostacoli come questo che la Legge Vassalli, varata il 13 aprile 1988 come (inadeguata) risposta al referendum radicale che un anno prima, con l’80 per cento di sì, aveva cancellato tre articoli del codice che proteggevano come un castello medievale magistrati e giudici dalle azioni civili dei cittadini, ha continuato a garantire piena protezione alla categoria. Da allora sono state appena 410 le azioni intentate da vittime di malagiustizia, e sono state più che decimate dalla valutazione di ammissibilità, il cosiddetto «filtro»: un giudizio preventivo svolto nel tribunale competente per territorio. C’è chi, come Piercamillo Davigo, giudice di Cassazione e fondatore della nuova corrente giudiziaria Autonomia e indipendenza, nonché nemico della riforma, analizza il dato con sarcasmo: «La responsabilità civile dei magistrati non è un problema, visto che i cittadini fanno poche domande». Altri numeri in realtà dimostrano che in Italia un problema di malagiustizia esiste, ed è grave. Prima della Legge Vassalli, dal 1945 al 1988, l’Eurispes e l’Osservatorio permanente sulle carceri calcolano 4,5 milioni di errori giudiziari. Possibile che dopo il 1988 il fenomeno sia scomparso? Certo che no. Il punto è che le citazioni per responsabilità civile sono state poche perché la legge non ha mai funzionato. Dal 1988 a oggi la Cassazione ha stabilito sette risarcimenti in tutto, uno ogni 7,5 milioni di processi penali aperti nel periodo. C’è il caso di un’azienda agricola grossetana fallita nel 1998 per l’errato sequestro di una tenuta, deciso in un’inchiesta per reati ambientali (500 mila euro risarciti). C’è il caso di un pm siciliano che nel 2002 non tenne nel debito conto una serie di lettere, acquisite dai Carabinieri, che avrebbero potuto evitare un omicidio-suicidio di coppia: i familiari della donna uccisa, nel 2009, hanno ottenuto 95 mila euro. Ma in nessun caso, mai, lo Stato si è rivalso sui pm o sui giudici ritenuti colpevoli di dolo o colpa grave. Nessuno di loro ha mai pagato nulla. L’ultima pronuncia, per ora ferma al primo grado, riguarda un’inchiesta guidata nel 2004 dall’ex pm calabrese Luigi De Magistris, poi migrato in politica. Lo scorso 3 dicembre il Tribunale di Roma ha condannato lo Stato a pagare meno di 25 mila euro a Paolo Antonio Bruno, un magistrato di Cassazione che nel 2004 fu ingiustamente accusato di associazione mafiosa da De Magistris. Si vedrà come finirà il caso. Non ha mai nemmeno pensato di avvalersi della Legge Vassalli, invece, l’imprenditore calabrese Antonio Saladino, che pure dal 2006 si proclama vittima di un’altra, mitica inchiesta di De Magistris: la «Why not», che nel 2006 piazzò Saladino al centro di una ragnatela di presunte corruttele ma poi si risolse praticamente in nulla: «Citarlo in giudizio? Quell’inchiesta mi ha rovinato economicamente» dice Saladino «però io non ci ho mai nemmeno pensato. Sarebbe stata una povera battaglia contro i mulini a vento, e credo lo sarebbe anche oggi». È così. Avvocati e presunte vittime di giustizia hanno presto capito che la Legge Vassalli era utile come un cucchiaio bucato e hanno scelto altre strade. Dal 1991, per esempio, cioè da quando esistono i risarcimenti per l’ingiusta detenzione, in 23.326 hanno ottenuto un risarcimento: in 23 anni lo Stato ha versato loro 581 milioni di euro. La riforma, purtroppo, rischia di non cambiare nulla. «Oggi i magistrati si lamentano, ma è lo stesso vacuo bla-bla di 26 anni fa, con le medesime parole d’ordine» dice Gian Domenico Caiazza, penalista romano e presidente della Fondazione Piero Calamandrei. Caiazza è un’autorità, in materia. Nell’aprile 1988 era nel collegio che, a nome di un Enzo Tortora morente di cancro, chiese il risarcimento per il disastro giudiziario che cinque anni prima, a Napoli, aveva coinvolto il giornalista in un’inchiesta su camorra e droga. Era stato proprio il caso di Tortora, riconosciuto innocente dopo sette mesi di custodia cautelare e una gogna aberrante, a dare il là al referendum e a garantirne il successo. Nell’aprile 1988 la Legge Vassalli, appena varata, conteneva un articolo che ne impediva l’applicazione retroattiva. Poiché il referendum aveva abrogato le norme antecedenti, i difensori di Tortora si trovarono nella peculiare situazione di agire senza limiti. «Per la prima e forse unica volta nella storia di questo Paese facemmo causa ai magistrati come se fossero normali cittadini» ricorda Caiazza. «Ma poi il Tribunale di Roma passò la palla alla Consulta. Questa stabilì che l’articolo sulla irretroattività della Legge Vassalli era incostituzionale nella sola parte che riguardava il filtro sulla fondatezza delle nostre pretese: quella mancanza violava il principio d’indipendenza e autonomia della magistratura». Insomma: il filtro del giudizio di ammissibilità doveva esserci, per forza. Risultato? «A quel punto per il risarcimento avremmo dovuto partire daccapo» dice Caiazza «ma con quella pagliacciata avevamo perso due anni. Decidemmo di lasciar perdere». Il ricordo dell’avvocato di Tortora è preciso (la sentenza della Consulta è la n. 468 del 22 dicembre 1990) e oggi fa scoppiare come una bolla di sapone la principale, presunta innovazione della riforma appena varata. Caiazza ne è certo: «La questione sull’abolizione del filtro potrà essere sottoposta in ogni momento alla Corte costituzionale, che con tutta probabilità confermerà il suo orientamento di 25 anni fa». Anche Davigo è d’accordo: «La Consulta si è già pronunciata: l’eliminazione del filtro, con tutta evidenza, è costituzionalmente illegittima». Suona quindi troppo ottimista il tweet di Gaia Tortora, che la sera in cui è stata varata la riforma l’ha salutata come una vittoria alla memoria di suo padre (e il premier Matteo Renzi si è subito appropriato di quella generosa certificazione con un re-tweet). Anche perché intanto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si sbraccia per tranquillizzare l’Associazione nazionale magistrati. Il Guardasigilli ha già garantito alla categoria che non c’è nulla di cui preoccuparsi, che il governo «non ha alcun intento punitivo», che «resterà deluso chi si aspetta che i giudici siano condannati ogni due per tre», e addirittura che tra sei mesi sarà fatto «un tagliando» per verificare «eventuali eccessi». Nella storia d’Italia non s’era mai vista una legge con «retromarcia integrata». Beniamino Migliucci, presidente dei penalisti, è critico: «Il tagliando è un’assurdità giuridica e politica. E chi ipotizza una valanga di ricorsi fa disinformazione. Perché un imputato non può citare il suo giudice: il ricorso è improcedibile, impossibile, fino a quando non c’è una sentenza di Cassazione». Anche Giuseppe Di Federico, docente emerito di diritto penale a Bologna e tra i maggiori giuristi italiani, è scettico: «Non credo cambierà nulla. La nostra giustizia è del tutto deresponsabilizzata: la valutazione delle carriere dei magistrati fa passare tutti, al contrario di quanto accade in altri Paesi, e manca un vero sistema sanzionatorio. E poi voglio proprio vederli, gli avvocati, che si espongono a fare causa al loro giudice…». Una causa, oggi, non la farebbe nemmeno Pardo Cellini, il penalista che pure ha scoperchiato il più grave errore giudiziario italiano di tutti i tempi: quello che è costato 39 anni di processi a Giuseppe Gulotta, un muratore trapanese che nel 1976, a 18 anni, fu arrestato per l’omicidio di due carabinieri e solo dopo  22 anni di carcere, nel febbraio 2012, è stato riconosciuto innocente e liberato. Fin dalle prime udienze Gulotta dichiarò che la confessione gli era stata estorta con violenze e torture da parte dei Carabinieri. «E i suoi processi sono stati viziati da errori e lacune» dice Cellini. «Però abbiamo preferito chiedere il risarcimento come danno da errore giudiziario». Perché? Ma perché l’avvocato conosce a perfezione quali siano le tortuosità della responsabilità civile: «È un sistema che non funziona e non funzionerà» sospira. Il problema di Gulotta, che a 57 anni oggi vive della carità di un parroco, è che sono trascorsi già 36 mesi dalla sua riabilitazione ma non ha ancora visto un euro: l’avvocatura dello Stato si oppone, insiste nella tesi paradossale che il processo fu originato dalla sua confessione, per quanto estorta.«La vicenda Gulotta» conclude Cellini «mostra la resistenza dei tribunali e il disinteresse delle istituzioni. E io non vorrei proprio dirlo, ma temo che casi come il suo potrebbero accadere ancora. Per questo la responsabilità civile va rivoluzionata».  Più positivo, a sorpresa, è un penalista che non ha mai simpatizzato con la magistratura: «La nuova legge è equilibrata e migliorerà la situazione» dice Maurizio Paniz, ex deputato del Pdl e avvocato di Elvo Zornitta, l’ingegnere veneto che fu ingiustamente accusato di essere «Unabomber», l’autore di una serie di 30 attentati dinamitardi dal 1994 al 2004, con sei feriti. Scagionato nel 2009, oggi Zornitta sta per chiedere il risarcimento allo Stato: non per responsabilità civile, però, ma ancora una volta come riparazione di un errore giudiziario. Per partire, Paniz aspetta le motivazioni della Cassazione che in dicembre ha condannato Ezio Zernar, il poliziotto che confezionò false prove per incastrare Zornitta. «La nuova responsabilità civile è migliore della vecchia» dice Paniz «perché specifica come cause di punibilità la manifesta violazione della legge e il travisamento delle prove. È un bene: a me sono capitati diversi processi in cui, a volte dolosamente, una prova veniva valutata in modo errato». La morale? La tira Grazia Volo, tra i più noti penalisti italiani: «Questa riforma arriva troppo tardi, 28 anni dopo il referendum. È una riforme sfilacciata, scritta da un legislatore superficiale e giustizialista, che intanto aumenta insensatamente le pene. E non cambierà nulla». Una morale ancora più severa? Dice Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, da sempre controcorrente: «Il magistrato che manda in galera un indagato contro la legge non deve pagare. Dev’essere buttato fuori dalla magistratura». Chissà se il ministro Orlando ne terrà conto, nel suo «tagliando».

Ma ora i magistrati saranno più responsabili? La legge sulla responsabilità civile cambia poco. Con un rischio: l'eliminazione del giudizio preventivo di ammissibilità potrà ingolfare i tribunali, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Uno legge le cronache giudiziarie di oggi, perse come sono tra gli altissimi lamenti sulla fine dell'autonomia della magistratura e le infinite proteste di categoria, e pensa: caspita, che rivoluzione dev'essere questa riforma della responsabilità civile. Poi va a leggersi i 7 articoletti della legge e pensa: caspita, ma qui cambia davvero poco. Perché, in base alla legge varata ieri in via definitiva dalla Camera, da oggi in poi dovrebbe venire punito il magistrato che si macchia di una "violazione manifesta della legge", oppure di un "travisamento del fatto o delle prove". Ma questo cambia obiettivamente molto poco rispetto alla Legge Vassalli dell'aprile 1988. Questa, fino a ieri, prevedeva che ogni cittadino potesse chiedere i danni allo Stato se un magistrato  adottava un atto o  un provvedimento giudiziario "con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni, ovvero per diniego di giustizia"; e dava  facoltà al cittadino "di agire contro lo Stato" anche "per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale". Differenze? Mah... Ecco, sì, la nuova legge specifica meglio che da oggi il cittadino può chiedere anche la punizione del magistrato che ha sbagliato nell'emissione di "un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge, oppure senza motivazione". Quanto al resto, poco cambia. Sì, è vero, si allungano di un anno (da due a tre) i termini per avviare l'azione legale. E oggi il governo è obbligato a esercitare l'azione di rivalsa nei confronti del magistrato ritenuto colpevole. Aumenta anche la quota di stipendio che il magistrato stesso dovrà restituire allo Stato: al massimo metà del suo stipendio di un anno (prima era un terzo), senza però che si possa superare un terzo del suo stipendio mensile nel caso di pagamenti mediante trattenuta. Ma queste non sono certo modifiche sostanziali. E allora? Non cambia davvero nulla? No: una modifica sostanziale riguarda il cosiddetto "filtro". La Legge Vassalli all'art. 5 prevedeva infatti che la domanda di risarcimento presentata dal cittadino dovesse ricevere una valutazione preventiva di ammissibilità: in tre gradi di giudizio (fra tribunale, corte d'appello e Cassazione) i giudici dovevano stabilire se la domanda fosse o no "manifestamente infondata". Così, per stabilire se un magistrato dovesse effettivamente pagare per un suo errore, servivano così nove gradi di giudizio: tre per stabilire l'ammissibilità del giudizio, tre per stabilire il fatto in sé, e altri tre per la rivalsa da parte dello Stato nei confronti del magistrato che aveva agito con dolo o colpa grave. È per questo che pochissimi finora hanno pagato. Per darvi un'idea: tra 1988 e 2014 tale è stata la fiducia degli italiani nella Legge Vassalli che sono state presentate in tutto 410 domande, davvero poche. Quelle ritenute "ammissibili" sono state appena 35, nemmeno una su dieci, e di queste soltanto sette alla fine sono state accolte (per l'esattezza 2 a Perugia e una a testa a Brescia, Caltanissetta, Messina, Roma, Trento). La riforma, però, abolisce il giudizio di ammissibilità e l'art. 5. Questo riduce a sei i gradi di giudizio. Secondo alcuni c'è il rischio che questo possa esporre i tribunali italiani a una valanga di ricorsi. Tant'è vero che i magistrati sono riusciti a strappare al governo l'impegno a fare un "tagliando" della riforma tra sei mesi. Sul punto è abbastanza scettico invece Giuseppe Di Federico, uno dei primi giuristi italiani (è docente emerito di diritto penale a Bologna ed ex membro del Csm), che nel 1987 fu tra i promotori del vittorioso referendum radicale sulla responsabilità civile, poi rintuzzato dalla Legge Vassalli. "Non mi attendo uno tsunami di ricorsi" dice a Panorama.it "perché mi domando quanti avvocati saranno disposti a esporsi in casi di questo genere. E comunque prevedo un estremo rigore da parte dei tribunali".

Berlusconi, vent’anni di rapporti con la magistratura. Dalle «toghe rosse» ai ringraziamenti per i giudici della Cassazione che hanno confermato l’assoluzione nel processo Ruby. Dal 22 novembre 1994 - data in cui Berlusconi, capo del governo, riceve un invito a comparire dalla Procura di Milano che sta indagando sulle tangenti alla Guardia di finanza - fino a oggi, sono stati altalenanti e spesso conflittuali i rapporti del leader di Forza Italia con la magistratura, scrive “Il Corriere della Sera”.

1. Il pool «Mani Pulite» e l’avviso di garanzia del 1994. Il primo interessamento della giustizia nei confronti di Berlusconi risale al 1983 quando la Guardia di finanza segnalò un suo presunto coinvolgimento in un traffico di droga con la Sicilia. L’inchiesta venne archiviata. La prima condanna, invece, è del 1990: la Corte d’appello di Venezia, dichiara Berlusconi colpevole di aver giurato il falso davanti ai giudici, a proposito della sua iscrizione alla lista P2. Nel settembre 1988, infatti, in un processo per diffamazione da lui intentato contro alcuni giornalisti, Berlusconi aveva dichiarato al giudice: «Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo che è di poco anteriore allo scandalo». Nonostante la Corte d’appello di Venezia dichiari Berlusconi colpevole (il giudice era Luigi Lanza), il reato è considerato estinto per l’amnistia del 1989.  Il 22 novembre del 1994 Berlusconi, capo del governo, mentre presiede la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità transnazionale, riceve un invito a comparire dalla Procura di Milano che stava indagando sulle tangenti alla Guardia di finanza. Le tangenti servivano per alleggerire le verifiche alle società Mondadori, Mediolanum, Videotime, Telepiù: in primo grado Berlusconi è stato condannato a 2 anni e 9 mesi; in appello, grazie alle attenuanti generiche, è scattata la prescrizione.

2. All Iberian, dalle accuse alla prescrizione. Il 12 luglio 1996 Silvio Berlusconi, l’ex segretario del Psi Bettino Craxi, l’amministratore delegato di Mediaset Ubaldo Livolsi vengono rinviati a giudizio con altre nove persone per l’ inchiesta sul presunto finanziamento illecito della Fininvest, attraverso la società All Iberian, al Psi nel 1991. Il processo inizia il 21 novembre 1996 davanti ai giudici della seconda sezione penale del tribunale di Milano. Il pm Francesco Greco chiede per Berlusconi 5 anni e 6 mesi di reclusione e 12 miliardi di multa poi, dopo lo stralcio del reato di falso in bilancio, riformula la richiesta in due anni e mezzo di reclusione e 12 miliardi di multa. Nel 1998 Berlusconi viene condannato in primo grado (2 anni e 4 mesi). «I giudici hanno riscritto il codice penale per allineare le norme alle esigenze repressive della procura» dichiara Berlusconi. In appello però, nel 2000, sempre per le attenuanti generiche scatta la prescrizione.

3. Colombo, il caso Lentini e la prescrizione. C’e’ anche un capitolo «sportivo»: versamento in nero di una decina di miliardi dalle casse del Milan a quelle del Torino, per l’acquisto di Gianluigi Lentini. Il dibattimento si conclude con la dichiarazione che il reato è prescritto, grazie alla legge che abolisce il falso in bilancio. È lo stesso pubblico ministero Gherardo Colombo a chiedere l’applicazione della prescrizione, dopo che il tribunale respinge la sua eccezione di incostituzionalità della normativa varata nel marzo 2002 in materia di falso in bilancio.

4. Il tribunale civile e il risarcimento a De Benedetti. Berlusconi è poi coinvolto in una lunga serie di processi per la corruzione dei giudici romani in relazione al Lodo Mondadori e al caso Sme. Sono i processi che hanno protagonista Stefania Ariosto, il teste «Omega» e Cesare Previti. Condanne per Cesare Previti e il giudice Metta. Per quanto riguarda il Lodo Mondadori, dopo una guerra durata vent’anni, si stabilisce che Berlusconi deve risarcire De Benedetti. Luigi de Ruggiero, Walter Saresella e Giovan Battista Rollero sono i tre giudici della seconda sezione civile della Corte d’Appello di Milano che emettono la sentenza nell’ambito della vicenda del Lodo Mondadori che condanna Fininvest al pagamento di circa 560 milioni di euro. La cifra diventa 494 milioni dopo la Cassazione.

5. De Pasquale e l’accusa nel caso Mills, ma è prescrizione. Le procure di Caltanissetta e Firenze che hanno indagato sui mandanti a volto coperto delle stragi del 1992 e del 1993 hanno svolto indagini sull’eventuale ruolo che Berlusconi e Dell’Utri possono avere avuto in quelle vicende. L’inchiesta è stata chiusa con l’archiviazioni nel 1998 (Firenze) e nel 2002 (Caltanissetta). La procura di Palermo, inoltre, ha indagato su Berlusconi per mafia: concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio di denaro sporco. Nel 1998 l’indagine e’ stata archiviata per scadenza dei termini massimi concessi per indagare. Definitiva la prescrizione per il caso Mills, l’avvocato inglese che avrebbe ricevuto 600 mila euro da Berlusconi per testimonianze reticenti ai processi per All Iberian e tangenti alla Gdf.  A sostenere l’accusa contro Berlusconi il pm Fabio De Pasquale.

6. Caso Ruby, Boccassini è pubblica accusa. Il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, insieme al pm Antonio Sangermano, rappresenta la pubblica accusa nel processo di primo grado sul caso Ruby. I rapporti di Berlusconi con Boccassini sono conflittuali. L’ex premier respinge le accuse e condanna l’operato dei pm di Milano.

7. Tre donne per la condanna in primo grado. Il 24 giugno 2013, nel processo Ruby, Silvio Berlusconi viene condannato in primo grado a 7 anni per entrambi i reati contestati: concussione per costrizione e prostituzione minorile. Il collegio della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che giudica Berlusconi è composto da donne: la presidente Giulia Turri, che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per il “fotografo dei vip” Fabrizio Corona; Carmen D’Elia, che già nel 2002 aveva fatto parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi; Orsola De Cristofaro, la terza componente del collegio, con un passato da pm e gip, già giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita.

8. L’assoluzione in appello. Il presidente si dimette. Il processo d’appello per il caso Ruby si tiene davanti alla seconda Corte d’Appello: Enrico Tranfa è il presidente, Concetta Lo Curto e Alberto Puccinelli i giudici a latere. Berlusconi viene assolto dal reato di concussione «perché il fatto non sussiste» e dal reato di prostituzione minorile «perché il fatto non costituisce reato». L’ex Cavaliere commenta che «la maggioranza magistrati è ammirevole». Enrico Tranfa, il presidente, si dimette subito dopo aver firmato le motivazioni della sentenza, in dissenso con la sentenza presa a maggioranza con il sì degli altri due giudici. E così, dopo 39 anni di servizio, a 15 mesi dalla pensione, il magistrato lascia anzitempo la toga. Tranfa ha esercitato la professione in gran parte a Milano. Negli anni 90 è stato all’ufficio Gip. Come giudice delle indagini preliminari, nel periodo di Mani Pulite, si era occupato di uno dei filoni dell’inchiesta sugli appalti Anas e di quella sulla centrale dell’Enel a Turbigo per cui dispose l’arresto, tra gli altri, dell’ex assessore lombardo in quota alla Dc Serafino Generoso. Nel 2002 è stato nominato presidente del Tribunale del Riesame sempre di Milano. Come giudice d’appello ha confermato, tra l’altro, la condanna a tre anni di carcere per Ubaldo Livolsi per la bancarotta di Finpart. Concetta Lo Curto, entrata in magistratura nel 1990, è stata giudice al Tribunale di Milano, prima all’ottava sezione penale e poi alla terza dal 1995 al 2013 quando poi è passata in Corte d’Appello. Nel 2010 assolse l’allora deputato del Pdl Massimo Maria Berruti, imputato per la vicenda Mediaset (la sua posizione era stata stralciata da quella di Berlusconi e degli altri). Puccinelli, entrato in magistratura nell’89, è stato il giudice relatore al processo di appello che si è concluso con la prescrizione per Berlusconi, imputato per la vicenda del «nastro Unipol».

9. Processo Ruby, il pg De Petris contro l’assoluzione. La sesta sezione penale della Corte di Cassazione confermato l’assoluzione, che diventa definitiva, di Silvio Berlusconi nel processo Ruby. Il sostituto procuratore della Corte d’Appello Pietro De Petris aveva fatto ricorso in Cassazione contro l’assoluzione.

10. Processo Mediaset, l’accusa di De Pasquale e Spadaro. Il 18 giugno 2012 i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono una condanna a 3 anni e 8 mesi di reclusione per Silvio Berlusconi, imputato di frode fiscale nel processo sulle presunte irregolarità nella compravendita dei diritti tv da parte di Mediaset.  Il 26 ottobre 2012 l’ex premier viene condannato a 4 anni di reclusione, cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e tre anni di interdizione dagli uffici direttivi delle imprese.

11. Pena più severa di quanto richiesto. Il presidente del collegio che condanna Berlusconi in primo grado è Edoardo D’Avossa con i giudici a latere Teresa Guadagnino e Irene Lupo). La pena è maggiore di quanto chiesto dai pm. Berlusconi commenta: «È una condanna politica, incredibile e intollerabile. È senza dubbio una sentenza politica come sono politici i tanti processi inventati a mio riguardo».

12. Il giudice Galli conferma in appello. L’8 maggio 2013, dopo quasi sei ore di camera di consiglio, i giudici della seconda Corte d’Appello di Milano, presieduti da Alessandra Galli (nella foto Brandi/Fotogramma), confermano la condanna a 4 anni di reclusione, di cui tre coperti da indulto, per Silvio Berlusconi, accusato di frode fiscale nell’ambito del processo sulla compravendita dei diritti tv Mediaset. Berlusconi parla di «persecuzione» da parte della magistratura che vuole eliminarlo dalla scena politica.

13. Esposito, la Cassazione e l’intervista contestata. Il primo agosto 2013 la Cassazione conferma la condanna a quattro anni di carcere. A leggere la sentenza sul processo Mediaset è il presidente della sezione feriale della corte di cassazione Antonio Esposito. Nei giorni successivi, il giudice Esposito finisce nella bufera per un’intervista a «Il Mattino» in cui parla della sentenza sul processo Mediaset-Berlusconi. Lo stesso magistrato farà seguire una smentita riguardo ad alcuni passaggi. In particolare, Esposito smentisce anche «di aver pronunziato, nel colloquio avuto con il cronista - rigorosamente circoscritto a temi generali e mai attinenti alla sentenza, debitamente documentato e trascritto dallo stesso cronista e da me approvato - le espressioni riportate virgolettate: “Berlusconi condannato perché sapeva non perché non poteva non sapere».

10 marzo 2015. La Corte di Cassazione assolve. Questa donna (la Boccassini) ha distrutto il Paese Ma resterà impunita. Anche un magistrato come Emiliano si indigna: "Chieda scusa". E nonostante tutto Ilda Boccassini rimarrà al suo posto come sempre, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Per La Repubblica, Berlusconi non è un innocente perseguitato ma un «colpevole salvato», come si evince dal titolo che racconta con stizza dell'assoluzione definitiva in cassazione sul caso Ruby. Il Corriere della Sera affida invece al suo segugio Luigi Ferrarella la difesa senza se e senza ma dell'operato dei pm milanesi. Un ufficio stampa della procura non avrebbe saputo fare di meglio e, ovviamente, Ferrarella tace sul fatto che lui stesso e autorevoli colleghi del suo giornale nel corso di questi anni avevano già emesso la sentenza di colpevolezza in centinaia di articoli nei quali si spacciavano per prove certe i farneticanti teoremi dell'accusa. Non sappiamo invece il commento di Ilda Boccassini, la pm che ha fatto da redattore capo di quella grande messa in scena truffaldina ed esclusivamente mediatica che è stata l'inchiesta Ruby. Una cosa però conosciamo. E cioè che la Boccassini, grazie a questa inchiesta, è stata inclusa dalla rivista statunitense Foreign Policy al 57esimo posto nella lista delle personalità che nel corso del 2011 hanno influenzato l'andamento del mondo nella politica, nell'economia, negli esteri.Non stiamo parlando di un dettaglio. Anche dall'altra parte dell'Oceano erano giunti alla conclusione che le notizie costruite dalla procura di Milano e spacciate da Corriere e Repubblica non costituivano un mero fatto giudiziario ma avevano contribuito in modo determinante a modificare giudizi sull'Italia con ricadute decisive financo sul piano internazionale. Oggi, grazie alla sentenza di Cassazione, sappiamo che si trattò di una iniziativa scellerata, completamente falsa, paragonabile a un complotto per destabilizzare un Paese sovrano. Complotto ordito da magistrati e sostenuto da complici, o almeno utili idioti, nelle redazioni dei giornali nazionali ed esteri, nelle stanze di governi stranieri e in quelle della politica di casa. A partire da quella più prestigiosa del Quirinale, allora abitata da Giorgio Napolitano. Il quale non solo non mosse un dito per fermare il linciaggio del suo primo ministro, ma, proprio sull'onda di quella destabilizzazione, ricevette in segreto banchieri, editori e imprenditori di sinistra per organizzare un controgoverno (Monti, per intenderci) nonostante quello in carica godesse ancora della piena fiducia del Parlamento. Alla luce di tutto questo, e in attesa che la Corte europea faccia giustizia di un'altra bufala giudiziaria (la condanna di Berlusconi per evasione fiscale, avvenuta grazie al trucco di assegnare la sentenza non al giudice naturale, ma a un collegio costruito ad hoc, guarda caso su sollecitazione del Corriere della Sera ), ora si pongono problemi seri che meritano risposte veloci e all'altezza di un Paese libero e democratico. Riguardano la permanenza nelle loro delicate funzioni dei responsabili e la riabilitazione politica della vittima Berlusconi. Nessuno, su questo, può permettersi di fare il pesce in barile.

Il giallo Tranfa e quei Servizi rimasti muti, scrive Giovanni Maria Jacobazzi su “Il Garantista”. Il processo Ruby non è stato un processo come tanti. Molti aspetti, oscuri, hanno connotato questa vicenda penale che ha portato alla caduta di un governo e allo sfascio di un partito. Tralasciando lo sputtanamento internazionale e il ludibrio planetario che hanno investito Silvio Berlusconi e, di riflesso, il Paese. Due, principalmente, sono gli episodi che fanno riflettere e che ad oggi non hanno avuto risposta. Episodi che riguardano proprio l’inizio e la fine dell’inchiesta. Il primo riguarda le modalità con cui sono state condotte le indagini preliminari da parte della Procura della Repubblica di Milano. Il secondo le dimissioni del giudice Enrico Tranfa, il presidente del collegio che in appello ha assolto Silvio Berlusconi dopo la condanna in primo grado a sette anni. Per scoprire cosa accadesse la sera nella residenza di Arcore, la Procura di Milano non ha lesinato energie. Con un dispiegamento di forze senza pari in relazione ai tipo di reato perseguito, una ipotesi di prostituzione minorile e di concussione, i pubblici ministeri milanesi hanno posto in essere un numero elevatissimo di intercettazioni telefoniche. Tranne Silvio Berlusconi che, essendo parlamentare, non poteva essere intercettato, chiunque entrasse in contatto con Villa San Martino si ritrovava il telefono sotto controllo. Decine di ragazze, ma non solo, furono intercettate per mesi. Ogni loro spostamento accuratamente monitorato. Centinaia i servizi di osservazione, controllo e pedinamento come si usa dire in gergo questurile. All’epoca dei fatti, il 2009, Silvio Berlusconi era il presidente del Consiglio. Il suo uomo più fidato, Gianni Letta, sottosegretario di Stato con delega ai Servizi. Come è stato possibile effettuare una attività investigata di queste proporzioni, migliaia le intercettazioni effettuate, senza che nessuno, in maniera ovviamente riservata,  facesse arrivare il  “messaggio” all’indagato eccellente di prestare attenzione alle persone frequentate ed ai comportamenti da tenere? Nessuna indicazione dai gestori telefonici? Nessun dubbio circa questa anomala concentrazione di utenze sotto controllo proprio nella residenza privata del presidente del Consiglio, sottoposta a misure di massima sicurezza secondo la legge 801 che disciplina il segreto di Stato? Ma il rapporto anomalo con gli apparati di sicurezza è anche alla base dell’accusa più grave caduta sulla testa di Berlusconi. Quella di concussione nei confronti del capo di gabinetto della Questura di Milano. Come mai il presidente del Consiglio, residente a Milano, città dove ha il centro dei suoi interessi e dove vive la sua famiglia, non si rivolge, per motivi di opportunità e riservatezza, direttamente al Questore ma passa attraverso il suo capo di gabinetto, peraltro chiamatogli al telefono dal suo capo scorta? Essendo il Consiglio dei ministri preposto alla nomina dei questori delle città, non si può proprio dire che l’allora premier non conoscesse chi fosse al vertice della pubblica sicurezza del capoluogo lombardo. E infine le dimissioni improvvise e inaspettate del giudice Enrico Tranfa, il presidente del collegio di Appello che ha assolto Silvio Berlusconi, subito dopo il deposito delle 330 pagine delle motivazioni della sentenza. Come si ricorderà, dopo aver depositato la sentenza di assoluzione, Enrico Tranfa fece domanda per essere collocato in pensione. Poteva restare in servizio altri quindici mesi. Decise di anticipare l’uscita dalla magistratura. Campano di Ceppaloni, il paese che ha dato i natali anche a Clemente Mastella, collocabile nella corrente di Unicost, Tranfa era dal 2012 a Milano in Corte d’Appello come presidente della seconda sezione penale. Equilibrato, molto preparato, mai una parola fuori posto. Un persona mite. Nulla che potesse far prevedere una reazione del genere. Le sue dichiarazioni, a chi gli chiedeva il perché di una simile decisione, furono soltanto “è una decisione molto meditata, perché in vita mia non ho fatto niente di impulso. Tutti sono utili, nessuno è indispensabile”. Per poi aggiungere: “Il compito di un giudice non è quello di cavillare con i tecnicismi, ma prendere un fatto, valutarlo alla luce delle norme, e poi fare un atto di volontà, decidendo. Altrimenti è la giustizia di Ponzio Pilato”. Sul caso montò la contrapposta lettura politica: “Solidarietà” dal Pd e dure critiche da Forza Italia. Le dimissioni in polemica con l’assoluzione scatenarono anche le ire del presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio. “Se dettate da un personale dissenso per l’assoluzione di Silvio Berlusconi non appaiono coerenti con le regole ordinamentali e deontologiche che impongono l’assoluto riserbo sulle dinamiche della Camera di consiglio”, disse Canzio, “trattasi di un gesto clamoroso e inedito”. Se per ogni disaccordo in un collegio il magistrato dovesse dimettersi, in magistratura rimarrebbero in pochi. Ma quell’anomalia, come la prima, con ogni probabilità rimarrà senza risposta.

Processo Ruby, pool di Milano: le lettere segrete delle toghe rosse alla giudice che assolse Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. Le toghe rosse di Milano si attendevano l'annullamento dell'assoluzione in secondo grado. Volevano Silvio Berlusconi di nuovo alla sbarra nel processo Ruby. Ma così non è andata. Confermata l'assoluzione. E dopo la conferma, oltre al Cav, ci sono state diverse persone che si sono levate dei sassolini dalle scarpe. Una di queste era la giudice Concetta Locurto, toga stimata e progressista, già coordinatrice milanese di Area, il cartello tra le correnti di sinistra di Magistratura Democratica. Una, insomma, che aveva il "pedegree" giusto per condannare Berlusconi in secondo grado. Già, perché la Locurto la scorsa estate era la relatrice della sentenza di assoluzione del Cav nel processo Ruby. L'assoluzione scatenò un vespaio di polemiche in magistratura, culminate con le dimissioni del suo collega e presidente del collegio, Enrico Tranfa, che con il passo indietro volle dissociarsi da un verdetto che non condivideva. La Locurto, al tempo, non volle commentare. E non ha voluto commentare neppure dopo la conferma dell'assoluzione che, nei fatti, ha confermato la bontà del suo operato. E il silenzio le deve essere costato, perché come spiega il Corriere della Sera la toga che ha assolto Berlusconi ha vissuto mesi da incubo, tra "attacchi e implicite insinuazioni di cosa di oscuro potesse essere accaduto attorno al processo" per spingere Tranfa alle dimissioni. Ha taciuto, la Tranfa. Almeno in pubblico. Già, perché secondo quanto scrive sempre il Corsera, la toga avrebbe scritto una piccola lettera ai colleghi (agli stessi colleghi che nei mesi precedenti tempestavano la sua email parlando di "torsione del diritto"). Il Corsera ha provato a chiederle del contenuto della lettera, ma la Tranfa, fedele alla sua riservatezza, ha scelto di non parlare. Eppure qualcosa è emerso. Nonostante il rifiuto della giudice, è stato ricostruito quanto abbia detto interpellando i destinatari della missiva. La Tranfa non giudicava la bontà della sentenza, ma metteva in guardia dai rischi di "una malevola dietrologia faziosa", del "pregiudizio", dei "pensieri in libertà da chiacchiera da bar" della quale è stata vittima per mesi per aver fatto il suo lavoro, che nella fattispecie prevedeva di assolvere Berlusconi. La Tranfa avrebbe scritto dei "magistrati che giudicano senza conoscere, finendo - proprio loro - per partecipare al tiro al piccione senza alcun rispetto per l'Istituzione e le persone". E il piccione, in quel momento, era proprio lei. E il "piccione", ora, si toglie le sue soddisfazioni. Nella missiva avrebbe aggiunto l'invito ai colleghi ad "andarsi a rileggere i provvedimenti redatti nel corso dell'intera carriera, piccoli o grandi che fossero, per avere certezza dell'identità di metro di valutazione utilizzato indifferentemente per extracomunitari e potenti". Quel metro di giudizio imparziale che però, i colleghi, le rimproverano: se c'è il Cav alla sbarra deve essere condannato.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: logica da pm. Se Silvio Berlusconi conosce Noemi Letizia, è colpevole. La Cassazione doveva confermare o non confermare l’assoluzione di Silvio Berlusconi (caso Ruby) per concussione e prostituzione: dopodiché, lo schema era il solito. La Corte che si riunisce nel primo pomeriggio, i giornalisti italiani e stranieri che ciacolano, la consueta assicurazione che la sentenza arriverà «in serata» e che perciò potranno scriverne, hurrà. Ma forse i giudici non erano aggiornati: non sapevano che i quotidiani hanno le chiusure sempre più anticipate, mannaggia: come possono non tener conto delle sacre esigenze mediatiche? Come possono aver saltato i telegiornali della sera? I giudici (presidente Nicola Milo, consiglieri Giorgio Fidelbo, Stefano Mogini e Gaetano De Amicis) dovevano prendere esempio dal procuratore generale Eduardo Scardaccione, che nel pomeriggio aveva esposto una requisitoria mediaticamente perfetta. Niente di strano che abbia chiesto di annullare - con rinvio in Appello - l’assoluzione di Berlusconi per entrambi i reati: è ciò che ci si attendeva da lui, un’apologia di quel processo che in primo grado aveva condannato il Cav a sette anni. Mentre invece le assoluzioni di luglio scorso - pochi mesi fa: la giustizia italiana sa essere velocissima - secondo Scardaccione andavano polverizzate: altro che «il fatto non sussiste» (concussione) e «il fatto non costituisce reato» (prostituzione minorile). Sin qui tutto normale. Ma sono altri argomenti che ha adottato - poi - a farci pensare ancora una volta che taccuini e telecamere andrebbero tenuti lontani dai palazzi di giustizia. Scardaccione ha detto che le accuse sono «pienamente provate» (vabbeh) e che la Corte d’appello non doveva riaprire il processo bensì rideterminare la pena di primo grado: e ci sta anche questo. Poi lo show: «L’episodio nel quale Berlusconi racconta che Ruby è la nipote di Mubarak è degno di un film di Mel Brooks e tutto il mondo ci ha riso dietro». Uhm. Purtroppo «il mondo» non ha testimoniato a processo. E neppure Mel Brooks. A ogni modo il procuratore Scardaccione ha proseguito spiegando che la concussione c’è stata, anzi «c’è stata una violenza irresistibile» per ottenerla. Lo proverebbe il fatto che dal momento in cui ha ricevuto la telefonata di intervento da Berlusconi il capo di gabinetto della Questura di Milano «non capisce più nulla e fa ben 14 telefonate: c’è spazio per ritenere che la pressione fosse resistibile?... No... L’intervento ha avuto una potenza di fuoco tale da annullare le scelte autonome del funzionario». Par di capire che qualsiasi telefonata di Berlusconi in quel periodo - essendo lui premier ed essendo Berlusconi - avesse una potenziale valenza concussoria: chiunque ne riceveva una andava praticamente in palla e veniva annullato nella volontà, una forma di ipnosi. Il procuratore generale non ha contemplato che i dirigenti della Questura fossero banalmente eccitati all’idea di poter fare un favore al presidente del Consiglio: cosa che avrebbe avuto una valenza più che ambigua se solo avessero fatto qualcosa che non dovevano fare. Ma ciò che fecero (identificazione di Ruby, foto segnalazione e ricerca di una comunità per l’affido) corrispondeva alla prassi in vigore. Ma secondo Scardaccione no, c’è stata «una violenza grave, perdurante e irresistibile anche a margine della consegna di Ruby a Nicole Minetti». Il dettaglio è che l’idea di consegnare Ruby alla Minetti non fu un’idea di Berlusconi bensì una soluzione escogitata in questura. Ma - possiamo dirlo? - ci sta anche questo. È passando al reato di prostituzione minorile che si giunge all’incredibile: perché Scardaccione ha tirato in ballo Noemi Letizia, una ragazza che non c’entra un accidente - mai tirata in ballo in nessun processo, in nessun modo - perché la circostanza che Noemi e Ruby fossero due minorenni «non è una coincidenza» e rende «non credibile» che Berlusconi non sapesse della minore età di Ruby. Scardaccione ha ricordato quanto aveva detto Ruby in un’intercettazione: «Noemi è la sua pupilla e io il suo culo». Cioè: il fatto che due amici di Berlusconi avessero una figlia minorenne non poteva essere un caso. E chissà - aggiungiamo noi - quanti milioni di elettori di Forza Italia, negli ultimi vent’anni, hanno avuto figlie minori. Insomma: se Berlusconi sapeva che la figlia di due suoi amici era minorenne, beh, doveva sapere anche l’età di tutta la carovana di signorine che la sera gli portavano a casa con la carriola. Pagandole, certo: perché Franco Coppi, l’avvocato di Berlusconi, ieri non l’ha negato: «La sentenza d’appello ammetteva che ad Arcore avvenivano fatti di prostituzione, cosa che non contestiamo nemmeno noi difensori: ma manca, in fatto, la prova che Berlusconi prima del 27 maggio sapesse che Ruby era minorenne». Sempre che i processi si facciano ancora con le prove.

Il caso Ruby c’è costato mezzo milione. Per i pm le spese ammontano a 65mila euro, ma facendo altri calcoli si sfiorano i 600mila, scrive Simone Di Meo su “Il Tempo”. Quanto è costata l'inchiesta Ruby alle casse dello Stato? La classica domanda da un milione di dollari ha una doppia risposta. La versione minimalista, accreditata dai conti della Procura della Repubblica di Milano contenuti nel faldone 33 del procedimento, parla di appena 65mila euro così suddivisi: in sei mesi sono stati pagati 26mila euro per le intercettazioni e 39mila euro per trascrizioni di interrogatori, traduzioni dall’arabo, per il noleggio auto, la più costosa delle quali - una Golf - è stata pagata 4mila euro, e per l’acquisto di registratori digitali. Pochi spiccioli anche per le trasferte dei poliziotti in alcuni hotel di Rimini: poco meno di 200 euro per tre diversi viaggi. Insomma, per questa scuola di pensiero il procedimento penale del pm Ilda Boccassini non ha prosciugato le casse del ministero della Giustizia ma si è mantenuto addirittura al di sotto dello standard della Direzione distrettuale antimafia. Questione risolta, allora? Mica tanto perché a questa immagine light dell'inchiesta se ne contrappone una più approfondita che zavorra con almeno uno zero la cifra iniziale portandola a oltre mezzo milione di euro. Ci sono alcuni costi che, nel computo del pubblico ministero, non vengono infatti elaborati. Sarà sicuramente una distrazione, ma bisogna fare chiarezza. Stiamo parlando dei cosiddetti costi fissi che riguardano l'utilizzo della polizia giudiziaria per condurre un'indagine fatta a pezzi dalla Corte d'appello e dalla Cassazione dopo una prima condanna a sette anni nei confronti di Silvio Berlusconi. Un'indagine fondata su due capi di imputazione che tecnicamente non hanno retto al vaglio delle toghe. Perché è vero che un poliziotto o un carabiniere viene ugualmente stipendiato dallo Stato (e ci mancherebbe) ma c'è un particolare di cui non tutti si ricordano: il poliziotto o il carabiniere in questione avrebbe potuto essere impiegato su un altro versante giudiziario, magari più interessante e utile. E questo - dal punto di vista aziendalistico - è un costo che non può essere omesso se si vuole davvero fare una descrizione esatta del valore contabile del fascicolo Ruby. Dare per scontate queste voci di costo è un errore. Così come è un errore non calcolare il noleggio dell'apparecchiatura utilizzata per geolocalizzare i cellulari che hanno agganciato la cella di Arcore alla ricerca delle utenze delle partecipanti alle "cene eleganti". Un'attrezzatura che, secondo quanto risulta a Il Tempo costa in media 1000 euro al giorno: è probabile che fosse già in dotazione agli uomini del Servizio centrale operativo cui sono state delegate le attività investigative, ma il suo utilizzo, in termini economici, dev'essere adeguatamente riportato nello schema della Procura. I "target" di intercettazioni e acquisizioni di traffico telefonico e di tabulati sono stati circa trenta per oltre 115mila conversazioni monitorate. Nell'intera operazione è presumibile che siano stati impegnati oltre cento poliziotti che, per la durata delle indagini, sono stati distolti da altri fascicoli, ovviamente. Non sbirri qualunque, ma uomini dello Sco, l'organo investigativo di punta del Viminale che solitamente dà la caccia a mafiosi, narcotrafficanti e serial killer. Per dire: i due superlatitanti del clan dei Casalesi, Antonio Iovine e Michele Zagaria, sono stati presi anche con la collaborazione del Servizio centrale. Che, nel caso in esame, è stato invece sguinzagliato sulle tracce delle olgettine e del ragionieri Spinelli, lauto pagatore ufficiale del Cav. Anche i loro stipendi, anche i loro straordinari, anche i loro ticket sono dei costi a carico dello Stato (e quindi dei cittadini) che devono essere inseriti nel bilancio Ruby. Alla fine, calcoli alla mano, l'indagine di "Ilda la rossa" tra costi fissi (quelli appena descritti, che riguardano l'intera struttura) e costi variabili (i famosi 65mila euro, che dipendono appunto dalle necessità investigative del momento) ha gravato sulle casse dello Stato per circa 600mila euro. È una stima prudenziale ma che ha un suo fondamento considerato che un poliziotto viene pagato in media 100 euro lordi al giorno. Qualcuno ci aggiungerebbe anche i costi dei processi (stipendi dei giudici, dei cancellieri, del personale amministrativo, fotocopie) ma entriamo nel fantastico mondo delle ipotesi e allora tutte le ricostruzioni sono possibili.

Signori del Csm, quell’inchiesta è senza ombre? Scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista. Sono politici, non morali, i motivi per cui è andato in onda per cinque anni il Pornofilm del Bungabunga che ha messo nel tritacarne un presidente del Consiglio, preso a picconate il suo partito, distrutto la sua reputazione nel mondo, insieme alla sua immagine personale e i suoi affetti. Tutto nasce non tanto dal fermo, in una serata di maggio del 2010, di una giovane marocchina. Né dalla successiva telefonata di Berlusconi alla questura di Milano. Casomai dall’uso che dell’episodio venne fatto dalla Procura della Repubblica più famosa e discussa d’Italia. E’ negli uffici del quarto piano del palazzo di giustizia di Milano, già allenati dalla caccia al cinghialone ai tempi di Craxi e di Tangentopoli, che parte la crociata di stampo talebano che prende di mira il presidente del Consiglio per i suoi costumi sessuali. Ma il Pornofilm è solo l’involucro, un uovo di pasqua con sorpresa. La sorpresa è tutta politica. Se il Consiglio superiore della magistratura volesse occuparsene, potrebbe rilevare parecchie anomalie, dentro quell’uovo. Prima cosa: Ruby viene fermata e rilasciata in una notte di fine maggio. Che cosa è successo tra quella data e quella in cui Silvio Berlusconi viene iscritto nel registro degli indagati (21 dicembre 2010) e in seguito raggiunto da un invito a comparire (14 gennaio 2011)? Succede che Ruby viene ripetutamente interrogata, una serie di persone che frequentavano la casa di Arcore viene monitorata e intercettata e si tende la tela del ragno che deve catturare la preda. Che la preda sia un Arcinemico di certa magistratura e certi Pubblici ministeri non è un segreto. Che dalle parti di Milano si usino metodi disinvolti sulle competenze territoriali (un presidente del Consiglio non dovrebbe essere giudicato dal Tribunale dei ministri?) è cosa altrettanto nota. Ma quel che succede a Milano è qualcosa di ben più mostruoso: per sette-otto mesi vengono fatte indagini su un contesto che ha al centro una persona che non è indagata, vengono disposte intercettazioni a persone che parlano al telefono con un parlamentare senza che sia chiesta, come prescrive la legge, l’autorizzazione alla Camera di appartenenza. Nei fatti si indaga su una persona in violazione delle normali procedure di legge. A nulla valgono le proteste degli avvocati, le interrogazioni parlamentari del deputato di Forza Italia Giorgio Stracquadanio, la curiosità che comincia a serpeggiare nella stampa italiana e anche straniera. La Procura di Milano tira dritto. Apparentemente arrogandosi il diritto di moralizzare i costumi altrui, in realtà con obiettivi ben più ambiziosi. Ma un’altra anomalia esplode clamorosa a un certo punto, la rissa da cortile tra il procuratore capo Bruti Liberati e il suo aggiunto Robledo sulle competenze tematiche e le assegnazioni delle inchieste. Perché le indagini su Berlusconi e il “caso Ruby” vengono assegnate a Ilda Boccassini, titolare delle inchieste sulla mafia e non a Robledo che si occupa di Pubblica Amministrazione? Berlusconi non è forse accusato di aver abusato del suo potere di presidente del Consiglio, con quella famosa telefonata in questura che gli costerà la condanna in primo grado per concussione? Questo aspetto della vicenda giace nelle scartoffie (nei fatti archiviate) del Csm sulla querelle Bruti-Robledo, che nessuno pare avere la curiosità di esaminare più. Sarebbe bene, invece, che l’organo di autogoverno di Pm e  giudici riaprisse gli occhi, su questo punto, e si chiedesse “perché” fosse così importante quella sostituzione di Robledo con Boccassini in un’inchiesta dal sapore squisitamente politico. Questo è il succo della vicenda: forzature e anomalie per il raggiungimento di uno scopo. Addirittura il procuratore generale di Milano, pur di fare il ricorso in Cassazione, si è appellato a questioni di merito, trascurando il fatto che il terzo grado di giudizio può riguardare solo questioni di legittimità. Un’altra delle anomalie “lombarde”, che la Cassazione avrebbe dovuto rilevare subito, rigettando il ricorso in dieci minuti. Nove ore di discussione sono un bel tributo alle tricoteuses di tutta Italia. In ogni caso,tutto il resto è contorno, il Pornofilm, il Bungabunga, sparsi a piene pani tramite un ventilatore in funzione permanente con lo scopo dello Sputtanamento. Oggi, con Berlusconi che porta a casa con una certa velocità (quattro anni per tre gradi di giudizio sono un’altra, piacevole, anomalia) l’assoluzione piena da due reati infamanti, resta il reato di Sputtanamento ancora vivo e vegeto nelle immagini del Pornofilm, tanto che gli avvocati sono stati costretti a dire (un po’ andando di fantasia) che, in fondo si, forse un po’ di prostituzione ad Arcore c’è stata, per rafforzare la realtà dei fatti sulla non conoscenza dell’età di una quasi-diciottenne che dimostrava, a detta di tutti, almeno venticinque anni. E che probabilmente era più una mantenuta che una prostituta. Anche in questo il processo Ruby è stato speciale. Ma non può finire qui. Il Csm ci deve spiegare se tutte queste violazioni sono consentite, se anche il nuovo corso “renziano” ha intenzione di chiudere gli occhi, come già si fece 20 anni fa con Tangentopoli, su questi metodi machiavellici, per cui la finalità politica può fare a pezzi le regole dello Stato di diritto e prevale sempre la filosofia del “tipo d’autore” (individuo la tipologia del colpevole, poi colpisco la persona), per cui la responsabilità penale non è più personale ma esplicitamente politica. Alla faccia dell’obbligatorietà dell’azione penale.

«Cittadini impotenti davanti ai magistrati», scrive Daniel Rustici su “Il Garantista”. «Il Csm cominci a fare sul serio il suo lavoro che fino ad oggi ha svolto, per usare un eufemismo, in modo deficitario. Sono stati puniti solo i magistrati fuori dal coro, mai quelli che hanno sbagliato nell’esercizio della professione. Il caso più emblematico è quello del processo Tortora dove i giudici di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia hanno fatto carriera. Il Csm dovrebbe essere meno indulgente e ”perdonista” nei confronti dei magistrati che commettono gravi errori». Chi parla è uno dei giudici più intransigenti e celebri per le sue feroci polemiche contro pezzi del mondo politico, e a difesa della magistratura: Antonio Ingroia. In un’intervista al nostro giornale ha detto che bisogna difendere i cittadini che talvolta sono troppo deboli di fronte ai magistrati e ai loro eventuali errori. Ha parlato anche di carcerazione preventiva, e ha detto che «in un Paese in cui i tempi per arrivare a una sentenza definitiva sono così lunghi, è facile che si arrivi ad utilizzare la carcerazione preventiva come una sorta di anticipazione della pena prevista in caso di condanna dopo i tre gradi di giudizio».

Ingroia, stanno facendo molto rumore le sue dichiarazioni sulla responsabilità civile dei giudici. Ha parlato di cittadini «impotenti» davanti al potere della magistratura. Detto da un’ex toga…

«Voglio precisare prima di tutto che sono contrario alla responsabilità civile dei magistrati. Penso invece che per garantire i diritti dei cittadini bisognerebbe che il Csm cominci a fare sul serio il suo lavoro che fino ad oggi ha svolto, per usare un eufemismo, in modo deficitario. Sono stati puniti solo i magistrati fuori dal coro, mai quelli che hanno sbagliato nell’esercizio della professione. Il caso più emblematico è quello del processo Tortora dove i giudici di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia hanno fatto carriera. La verità è che all’interno della magistratura troppo spesso si va avanti sulla base dell’appartenenza a questa o a quella corrente piuttosto che grazie al merito».

Cosa non la convince del disegno di legge del governo sulla punibilità dei giudici?

«La responsabilità civile non è uno strumento idoneo per difendere i cittadini. In primo luogo non lo è perché può portare il magistrato ad assumere una posizione di soggezione davanti all’imputato, specie se questo è ricco e potente. E non lo è perché moltiplicherebbe il lavoro nei tribunali e quindi, dilatando ancora di più i mostruosi tempi della nostra giustizia, paradossalmente andrebbe contro gli interessi degli imputati stessi. Lo ripeto, il vero problema è il Csm che dovrebbe essere meno indulgente e ”perdonista” nei confronti di chi commette gravi errori».

Sparare sul Consiglio nazionale della magistratura ora che ha smesso i panni di pm,non è troppo facile?

«Queste cose le ho sempre dette. Qualcuno potrebbe anche dire che parli male del Csm per come sono stato tratto io, per le parole contro le mie partecipazioni a manifestazioni pubbliche. Allora non parliamo di me, ma di un altro magistrato: Di Matteo. Perchè il Csm ostacola la sua nomina alla Procura nazionale antimafia e favorisce invece personaggi obiettivamente con meno competenze in materia?»

Perché?

«La risposta è semplice: ci si muove in base a logiche burocratiche e correntistiche invece che di sostanza».

Faceva prima riferimento alle sue contestate partecipazioni a manifestazioni politiche quando era ancora magistrato. È una scelta che rivendica?

«Sì. Mi è capitato di fare il pm nella stagione sbagliata. Trent’anni fa nessuno si scandalizzava se Terranova partecipava ai convegni del Pci e negli anni 70 nessuno si sognava di mettere in discussione la professionalità di Borsellino perché andava a parlare di giustizia nei consessi del Movimento sociale italiano. Resto convinto che un magistrato vada giudicato per quello che fa nell’orario di lavoro e che abbia tutto il diritto di esprimere le proprie opinioni. Io però sono stato subissato da attacchi, sia da parte del mondo politico sia dalla magistratura stessa…»

Nelle scorse settimane si è molto discusso delle ferie dei giudici. Ha ragione Renzi a volerle tagliare?

«Penso si tratti di un falso problema. Effettivamente 45 giorni sono tanti ma io, ad esempio, non ho mai goduto dell’intero periodo di ferie e come me la maggior parte dei giudici. Sostenere che la lentezza della giustizia italiana dipenda dalle toghe fannullone è solo un modo di trovare un capro espiatorio».

Quali sono invece le ragioni di questa lentezza e come si può intervenire per accelerare i tempi dei processi?

«Credo sia arrivata l’ora di mettere in discussione l’esistenza del processo d’appello. Con un grado secco di giudizio e un unico processo che decreti l’innocenza o la colpevolezza di un imputato si risparmierebbero un sacco di soldi e di energie. Ritengo poi necessario mettere fine alla corsa alla prescrizione, limitando l’abuso di questo strumento».

A proposito di abusi, cosa pensa dell’uso molto disinvolto della carcerazione preventiva che spesso viene fatto dai giudici?

«In un Paese in cui i tempi per arrivare a una sentenza definitiva sono così lunghi, è facile che si arrivi ad utilizzare la carcerazione preventiva come una sorta di anticipazione di quella prevista in caso di condanna dopo i tre gradi di giudizi».

Sì, ma è incostituzionale: esiste la presunzione d’innocenza.

«Certo nessuno vuole mettere in discussione la sacralità della presunzione d’innocenza ma ribadisco, finché i tempi della giustizia saranno questi credo che la carcerazione preventiva verrà ancora usata con questa  frequenza».

Ora che esercita la professione di avvocato, come è cambiata la sua prospettiva sul mondo giudiziario?

«Cambiando osservatorio, sono rimasto delle mie opinioni: viviamo in un Paese profondamente ingiusto perché indulgente con i potenti e forte con i deboli».

Cosa significa per lei la parola ” garantismo”?

«Garantismo significa dare la garanzia a tutti i cittadini di un processo giusto e assicurare il diritto di difesa. Chi vede il garantismo come un modo per disarmare i pm però sbaglia. Essere garantisti significa anche fare in modo che la legge sia davvero uguale per tutti e permettere di punire chi ha sbagliato».

Ha dichiarato di essere pronto a tornare in politica e di guardare con attenzione a Landini. Pensa si aprirà davvero un nuovo spazio politico a sinistra del Pd?

«Credo che il nostro Paese abbia bisogno che emerga una nuova soggettività politica progressista, popolare e di sinistra. Mi sento politicamente vicino a Landini e Rodotà, e sono pronto a dare il mio contributo per la costruzione di una coalizione sociale per l’equità, la lotta alla criminalità organizzata e ai reati dei colletti bianchi».

Ok, basta coi professionisti dell’Antimafia. Ma adesso chi combatterà le mafie? E’ la domanda che si pone Gaetano Savatteri su “Gli Stati Generali”. L’antimafia è morta. L’antimafia dei movimenti, delle associazioni di categoria, dei bollini e dei certificati, ma anche quella dei magistrati e della politica. L’antimafia, quella che abbiamo visto e conosciuta fino ad oggi, è definitivamente sepolta. Perché le ultime vicende – l’arresto di Roberto Helg per una mazzetta conclamata o l’indagine per mafia sul presidente della Confindustria siciliana Antonello Montante, per dichiarazioni di pentiti ancora tutte da chiarire e che potrebbero nascondere una manovra di delegittimazione – sanciscono in ogni caso e definitivamente la fine di un modello che per molto tempo, e fino all’altro ieri, è stato visto con favore e incoraggiato perché segno di una “rivoluzione” che metteva in prima linea la cosiddetta società civile. Attilio Bolzoni su Repubblica, lo stesso giornale che ha sparato per primo la notizia dell’indagine su Montante, ha posto un interrogativo: “Forse è arrivato il momento di una riflessione su cos’è l’Antimafia e dove sta andando”. Ma probabilmente la domanda più corretta è un’altra: potrà esserci ancora un’antimafia? Peppino Di Lello, a lungo magistrato del pool antimafia di Palermo, quello di Falcone e Borsellino, scrive sul Manifesto che “i bollini, le autocertificazioni, gli elenchi incontrollati e incontrollabili degli antimafiosi doc sono ormai ciarpame e bisogna voltare pagina riappropriandosi di una qualche serietà nella scelta di esempi di antimafia vera, scelta fondata sulla prassi, sui comportamenti che incidono realmente in questa opera di contrasto”. Di Lello, giustamente, attacca la retorica dell’antimafia, citando non a caso l’ormai storico articolo del 1987 di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Ma le ultime vicende e un sottile veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia (don Luigi Ciotti ha fornito qualche anticipazione: “Mi pare di cogliere, e poi non sono in grado di dire assolutamente altro, che fra pochi giorni avremo altre belle sorprese, che sono in arrivo, che ci fanno soffrire. Perché riguardano personaggi che hanno sempre riempito la bocca di legalità, di antimafia”) percuotono chi, per entusiasmo o per mestiere o, usiamo pure questa parola, per “professionismo”, si è iscritto negli ultimi anni nel fronte antimafia. Serpeggia il disorientamento tra quanti si chiedono: e adesso, infranti alcuni simboli dell’antimafia, non si rischia di veder naufragare il lavoro fatto in tanti anni, compresi i buoni esempi concreti realizzati? L’indagine della Commissione parlamentare antimafia sull’antimafia, per individuare quando questa sia stata reale o di facciata – paradosso segnalato da Giuseppe Sottile sul Foglio – pone una questione centrale. Se molti movimenti, associazioni, progetti nelle scuole, iniziative si sono riempiti, nella migliore delle ipotesi, di un tot di vuota retorica e, nella peggiore, di piccoli o grandi interessi economici sotto forma di finanziamenti, privilegi, guadagni, chi dovrà stabilire da ora in poi la genuinità della natura antimafia? La struttura dello Stato italiano, per oltre centosessant’anni, ha costruito soggetti e ruoli incaricati di definire e individuare le mafie, arrivando a darne nel 1982 perfino una definizione normativa con l’articolo 416bis del codice penale. Ma l’Italia non ha, e forse non poteva avere, strumenti per individuare con esattezza la natura antimafiosa di soggetti, singoli o plurali, se non in termini di opposizione: in parole semplici, era antimafioso chi combatteva la mafia. Con opere o parole. Così, per lungo tempo, l’antimafia sociale – cioè quella non costituita da magistrati e poliziotti incaricati, per ragioni d’ufficio, dell’azione di contrasto e repressione – finiva per autodefinirsi. E’ bastata, per un lunghissimo periodo, la petizione di principio di dichiararsi antimafia per essere considerati tali. In un Paese che fino a una quarantina d’anni fa ancora sosteneva, spesso anche nelle sedi giudiziarie, che la mafia non esisteva, già il fatto stesso di dichiararne l’esistenza e di porsi in posizione alternativa a essa, era sufficiente per attribuirsi o vedersi attribuita la patente antimafia. Se oggi questo non basta più, quale sarà il criterio futuro per definire la nuova antimafia? I fatti, i comportamenti e la prassi, dice Di Lello. Tutto ciò è facilmente verificabile, ad esempio, nell’attività delle associazioni antiracket che convincono i loro associati a testimoniare nei processi, li sorreggono, si costituiscono accanto a loro parte civile. Ma questo principio può valere per associazioni culturali, singoli di buona volontà, gruppi di opinione, insegnanti la cui unica forza risiede solo nella dichiarazione d’intenti?  E’ ovvio che laddove le parole non coincidano con i fatti (come nel caso della tangente che ha fatto finire in galera Helg), la contraddizione è talmente stridente che non ci sono dubbi. Ma anche in questo caso, è una dimostrazione al contrario: il fatto (cioè la mazzetta) mostra la non appartenenza di qualcuno al fronte autenticamente antimafioso. Ma quale può essere il fatto che, giorno dopo giorno, possa dimostrarne invece l’appartenenza? Per Confindustria Sicilia, ad esempio, sembrava già rivoluzionario e significativo che un’associazione di categoria che per molto tempo aveva ignorato la mafia o ci aveva convissuto, con molti casi di imprenditori contigui o aderenti a Cosa Nostra, avviasse una inversione di rotta pubblica, con l’annuncio di espulsioni dei propri soci che non avessero denunciato le estorsioni. Era certamente un fatto capace di attribuire identità antimafiosa a quell’associazione. Naturalmente, il movimento antimafia nel suo complesso si è nutrito di errori e di eccessi. E questi nascono probabilmente dall’evidenza che ogni movimento antimafioso, per sua natura, tende ad occupare tutti gli spazi morali a sua disposizione. La discriminante etica, ragione fondante, tende ad allargarsi e spostarsi sempre più avanti in nome della purezza antimafia, escludendo altri soggetti e movimenti. Qualsiasi movimento antimafia, poiché si costituisce e si struttura in alternativa e in opposizione a qualcosa, in primo luogo la mafia e i comportamenti che possono favorirla o sostenerla, non può tentare di includere tutto, ma deve per forza di cose escludere. Ecco perché dentro il mondo dell’antimafia non c’è pace, e ciascun gruppo di riferimento tende a vedere negli altri gruppi degli avversari, se non dei nemici insidiosi o subdoli. L’antimafia spontaneistica e aggregativa dal basso si contrappone a quella ufficiale in giacca e cravatta e viceversa, quella sociale si contrappone a quella di Stato e viceversa. La vocazione alla supremazia della leadership del mondo antimafioso, diventa allarmante quando l’antimafia non è più esclusivo appannaggio di gruppi sociali d’opposizione (i preti di frontiera contro la Chiesa ufficiale timorosa, le minoranze politiche contro le maggioranze o i governi prudenti o contigui, gli studenti contro la burocrazia scolastica troppo paludata, tanto per fare alcuni esempi), ma comincia a diventare bandiera dei gruppi dominanti. Al potere economico o politico, finisce così per sommarsi il potere di esclusione di potenziali concorrenti, che può essere esercitato anche facendo baluginare legami oscuri o poco trasparenti. L’antimafia può servire al politico di governo per demonizzare gli avversari. Siamo di fronte a quel meccanismo che viene indicato come “la mafia dell’antimafia”, definizione che non amo perché rischia di far dimenticare che nel recente passato in Sicilia, e non solo, politici,  imprenditori e funzionari contigui o affiliati alla mafia facevano eliminare i loro avversari direttamente a colpi di kalashnikov. In questi giorni, in queste ore, il mondo dell’antimafia, soprattutto quello siciliano, il più antico e radicato, il più organizzato e selezionato negli anni delle stragi e delle mattanze mafiose, si trova davanti a molte domande. Chi dovrà stabilire, nel futuro prossimo, la genuinità dei comportamenti antimafia? I giornali? La tv? Il governo? Il Parlamento? Non esistono organismi o autorità morali in grado di fornire garanzie valide per tutti.  La domanda principale finisce per riguardare l’esistenza stessa di un’antimafia diffusa. Se l’antimafia, per come è stata fino ad oggi, è morta, potrà esserci ancora qualcosa o qualcuno in grado di dichiararsi antimafia? Ma, soprattutto, chi potrà crederci ancora?

Imprenditori e giornalisti cantori dell’antimafia, non ci mancherete per niente. Abbiamo letto su queste colonne l’annuncio della morte dell’antimafia. Un annuncio articolato. Esteso, ragionato, scrive Salvatore Falzone su “Gli Stati Generali”. Forse però vale la pena allungare il necrologio, non foss’altro che per rispetto del de cuius e delle sue gesta. Il decesso, diciamocelo, è stato causato da colpi di toga. Ancora una volta, purtroppo. Perché se non spuntano i primi fascicoli con l’intestazione “Procura della Repubblica”, nel Belpaese tutto è lecito e tutto va bene. Prima di leggere paroline come “arresto”, “tangente”, “indagine”, “pentiti”, nessuno s’interroga, nessuno ha dubbi. Succede così che da qualche anno a questa parte un’antimafia che non è antimafia ha messo le mani sulla città, per dirla con Rosi, per fare affari e costruire carriere. Nel nome della legalità, s’intende, e con l’avallo di una torma di pensatori, magistrati, prefetti, questori e alti ufficiali che non hanno fatto altro che alimentare una colossale bugia (Giovanbattista Tona, consigliere della Corte d’Appello di Caltanissetta: “Come il mafioso di paese otteneva rispetto perché passeggiava col sindaco, col parroco, col maresciallo e col barbiere, l’antimafioso 2.0 può esercitare potere su tutto sol perché in confidenza con ministri, magistrati e autorità”. Giuseppe Pignatone, capo della Procura di Roma: “Bisogna fare l’esame di coscienza: non è che tra magistrati e forze dell’ordine ci sono soltanto santi, eroi e martiri. Ci sono, come in tutte le categorie, persone per bene e persone meno perbene”). C’era bisogno di scoprire Helg con la mazzetta in mano? Dovevamo leggere Bolzoni su Repubblica – che ha dato notizia di un’inchiesta per mafia a carico del presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante – per accorgerci che dalle parti di Caltanissetta l’antimafia ha i pennacchi impastati di gel? E’ mai possibile che quel “cretino” del professor Laurana continua a morire in una zolfara abbandonata, “sotto grave mora di rosticci”, senza sapere ciò che tutti sanno? Già, perché tutti sanno, e tutti sapevano. Ecco perché la meraviglia e il disorientamento del giorno dopo sono espressioni vuote, bianche come quelle di certe statue. La Sicilia è un salone da barba. E anche Roma lo è. E pure Milano. Mentre in questi anni si firmavano protocolli ai tavoli delle prefetture, mentre si stilavano codici etici, mentre procuratori generali inauguravano l’anno giudiziario magnificando le imprese dei nuovi paladini dell’antimafia, dal barbiere si sussurrava e si rideva. Si rideva (con gli occhi) e si facevano smorfie (con la bocca). Ora ci si chiede se, dopo le scosse telluriche delle ultime settimane, possa esserci ancora un’antimafia. E perché no? Un’antimafia ci sarà. Ma non questa. Non questa che ha mandato in solluchero, da nord a sud, cronisti e narratori, i “cuntastorie – come ha scritto Sergio Scandura su Gli Stati Generali – dello storytelling epopea che danno voce ai Pupi: ora con la prodezza, la tenacia e l’enfasi di battaglia, ora con l’incanto-disincanto e la passione della bella Angelica di carolingia memoria”. Sì, ci sarà un’altra antimafia. Anzi, c’è già. C’è sempre stata da quando esiste la mafia. Silenziosa, non remunerativa. E’ l’antimafia del proprio dovere quotidiano, che non fa regali, che non compra e che non paga. Un siciliano illuminato, Cataldo Naro, l’arcivescovo di Monreale scomparso nel 2006, parlava di legalità e santità nelle parrocchie tra Partinico e Corleone. A proposito di Chiesa e mafia, diceva che il cristiano non può non vivere secondo il Vangelo, e che il Vangelo è di per sé incompatibile con la mafia: il discorso vale per tutti, spiegava il presule, per il carabiniere, per il politico, per il professore, per il bidello, per il magistrato, per la guardia municipale… Ma lasciamo stare i santi e torniamo ai diavoli. Adesso che succede, adesso che l’antimafia in ghingheri traballa e che non ci sono ammortizzatori che tengono? Il tema non è “il veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia”, né l’esistenza o meno di una “manovra di delegittimazione” ai danni del leader degli industriali siciliani. E neppure i progetti delle scuole, le navi della legalità che attraccano a Palermo in un’esplosione di cappellini o altre simpatiche pagliacciate. Il tema è molto più – come dire? – terra terra: ed è quello del proverbio “predicare bene e razzolare male”. Il tema è la trasparenza delle azioni di chi afferma di combattere il malaffare. E’ la concretezza – oltre che la qualità – dell’impegno sul fronte della legalità (parola che Michele Costa, il figlio del procuratore di Palermo ucciso nel 1980, propone giustamente di abolire). Da questo punto di vista non c’è bisogno di attendere misure cautelari o sentenze definitive per mettere in discussione l’operato non dei “professionisti” (lasciamolo in pace il maestro di Racalmuto) ma degli “imprenditori dell’antimafia”: etichetta, quest’ultima, che ben si attacca alle giacchette dei nostri eroi. Perché debbono scriverla i giudici la storia di questa ennesima truffa? La scrivano gli artisti, se ce ne sono ancora. O gli intellettuali, ma non quelli “col senno del poi”. La raccontino le inchieste dei giornalisti e degli scrittori che non prendono soldi, i registi di cinema e di teatro… Materiale ce n’è in abbondanza. Certo per raccoglierlo bisogna superare lo Stretto, penetrare nell’entroterra incontaminato, fra colline che d’inverno sono così verdi che sembra di stare in Irlanda, e fare un salto nella “Piccola Atene”, la Caltanissetta dove la leggenda vuole che a metà degli anni duemila sia nata la rivoluzione degli imprenditori (che qualcuno, con parole misurate, ha definito copernicana). Ma va detto che nella Caltanissetta delle mitologie c’è stato pure chi in questi anni ha lavorato sul serio resistendo alle bordate sia dalla mafia che dall’antimafia. Il pm Stefano Luciani, in una requisitoria a conclusione di un processo in cui la Procura riteneva di avere scoperto estorsioni non denunciate dagli imprenditori e accordi tra imprenditori e mafiosi proprio in terra nissena, aveva evidenziato che ancora si aspettava l’effetto dell’impegno di Confindustria sul comportamento della categoria. Era il 23 gennaio 2012. Bè, dopo pochi giorni il giornalista Filippo Astone scriveva un pezzo intitolato “Le incredibili dichiarazioni del pm nisseno Stefano Luciani”: l’accusa era che il magistrato, non riconoscendo i meriti degli imprenditori antimafia, non si rendeva conto di aiutare oggettivamente la mafia. Dunque l’antimafia è morta? Macché. Se l’antimafia è quella di Helg e di Montante possiamo stracciare il necrologio e stappare champagne. Perché non è morta l’antimafia. Ma un sistema di potere che ha occupato tutti gli spazi (non morali), che controlla ogni angolo del territorio, che dai tempi di Raffaele Lombardo gestisce nell’Isola il potente assessorato alle Attività Produttive, che tiene in pugno giornali e giornalisti: l’ordine di Sicilia ha aperto un’inchiesta sui finanziamenti elargiti dalla Camera di Commercio di Caltanissetta, di cui Montante è presidente, a testate e pubblicisti. “Potrà dunque esserci un’antimafia?” Sì. “Chi dovrà stabilire nel futuro prossimo la genuinità dei comportamenti antimafia?”. Non certo questi signori. Gaetano Savatteri, sempre su Gli Stati Generali, si è chiesto chi potrà credere ancora all’antimafia… Ma la domanda va forse ribaltata: chi ci ha mai creduto a questa antimafia? E se qualcuno ci ha creduto, perché?

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

IL PARTITO INVISIBILE. ASTENSIONISMO, VOTO MIGRANTE E VOTO DI PROTESTA: I MOTIVI DI UNA DEMOCRAZIA INESISTENTE.

50% circa di astensione al voto; 5% circa di schede bianche o nulle; 25% di voti di protesta e non di proposta ai 5Stelle. Solo il 20% di voti validi (forse voti di scambio). Chi governa ha solo un elettore su 10 che lo ha scelto e si vanta pure di aver vinto. Che cazzo di democrazia è?

Elezioni 2015. Il partito invisibile, scrive Alberto Puliafito, direttore responsabile di "Blogo.it" e Carlo Gubitosa su “Polis Blog”. Un viaggio nel mondo di tutti coloro che non vengono raccontati dalla comunicazione politica, che non vengono rappresentati, che non votano. Dopo il voto regionale, la comunicazione politica si è concentrata, come al solito, su "chi vince". E hanno vinto tutti, chi per un motivo chi per l'altro. Noi, per un primo commento, ci siamo concentrati su chi ha perso. E fra i motivi della sconfitta annoveravamo l'impressionante tasso di astensionismo. I dati che proponiamo qui, grazie al lavoro di Carlo Gubitosa, dovrebbero, secondo chi scrive, essere pubblicati ovunque. Il giornalismo dovrebbe, una volta per tutte, dedicare i propri titoli alle rappresentazioni numeriche realistiche della situazione della rappresentanza politica in Italia, invece di rincorrere le dichiarazioni di Renzi, Grillo, Salvini o altri. Invece di pubblicare i tweet con il presidente del consiglio che gioca ai videogiochi, sapientemente diffusi da chi si occupa di comunicazione per conto di Palazzo Chigi, le gallery per fare click potrebbero essere, senza alcun problema – lo sappiamo che i click vanno fatti – gallery di grafici come questi. Guardare quelle fette grigie di non rappresentati fa rabbrividire ma è necessario per impostare una narrazione giornalistica corretta. Ecco perché, quando Carlo mi ha proposto questo lavoro, ho accettato con entusiasmo. Per offrire un servizio ai nostri lettori e per imparare io stesso. Questo è vero data journalism. Per i partiti contano i propri voti, per la politica contano solo i voti validi, per il ministero dell'interno contano solo gli elettori. E se invece provassimo a contare le persone? I grafici che nessuna formazione politica vorrà mai mostrarvi rivelano il peso numerico della "maggioranza invisibile", quella che non può, non vuole o non sa indicare una rappresentanza nelle urne. Sono gli astensionisti, i delusi dalla politica, ma anche gli stranieri e i minori, una fetta di popolazione che diventa “invisibile” nei sondaggi, nel dibattito politico e nelle analisi post-voto. Abbiamo provato ad analizzare i dati ufficiali del voto alle regionali incrociandoli con i numeri dell’ISTAT e aggiungendoci una semplice curiosità di partenza: scoprire cosa succede se oltre ai SEGGI ASSEGNATI e ai VOTI VALIDI misurati dalle percentuali iniziamo a contare anche i VOTI TOTALI (includendo anche chi ha votato scheda bianca, nulla o annullata), il NUMERO TOTALE DI ELETTORI (includendo anche chi è stato a casa), e anche il NUMERO TOTALE DI RESIDENTI, stranieri inclusi (per contare anche chi subisce le conseguenze delle decisioni politiche senza esercitare il diritto di voto). Per semplificare l’analisi del voto, operare una indispensabile sintesi sulla varietà di liste e di coalizioni presenti nelle varie regioni, abbiamo individuato sette macroblocchi politici per il conteggio dei voti validi: Renzisti - Berlusconiani - Salviniani - Grillisti - Sinistra - Destra - Altri. Sono state introdotte delle approssimazioni per eccesso che sovrastimano l’affluenza alle urne, ad esempio contando come due elettori anche il “voto doppio” espresso da una stessa persona per una lista e per il candidato presidente. Anche con queste approssimazioni, tuttavia, la consistenza numerica dei “non rappresentati” resta notevole. Trattandosi di nostre elaborazioni su dati ufficiali (con la fatica di dover trasporre numeri strappati a fatica da PDF, pagine web e ogni tipo di dato in formati non aperti che la pubblica amministrazione e’ stata in grado di produrre) non possiamo escludere refusi ed errori, e ringraziamo in anticipo tutti quelli che vorranno segnalarci eventuali imprecisioni.

La Campania e il partito della scheda bianca. Nel disinteresse generale (tanto le poltrone si sono già spartite) a ben quattro giorni dal voto arrivano i dati definitivi della Campania, dove chi conta le persone e non le poltrone registra 170mila tra schede bianche e nulle, un partito che vale il 7% dei voti validi, ben più del valore previsto dal sistema elettorale campano come soglia di sbarramento per le liste. Potremmo chiederci se questo 7% di Campani è composto da quella gente egoista, pigra e disinteressata alla cosa pubblica descritta dai partiti che fomentano l'astensionismo per poi demonizzare chi lo pratica, o più semplicemente si tratta di persone a cui è negata rappresentanza politica e quel minimo di alfabetizzazione necessaria a non farsi annullare la scheda. Un dettaglio interessante per la Campania è quello della lista "SINISTRA AL LAVORO", l'unica lista tra quelle esaminate finora ad avere un numero di preferenze inferiore a quelle ricevute dal candidato governatore, presumibilmente frutto di un voto disgiunto che ha indicato come candidato presidente quello di un grande partito di massa con maggiori probabilità di vittoria, ma ha voluto comunque esprimere un voto "ideologico" con preferenze di lista collocate nettamente a sinistra. A quanto pare, quando si tratta di scegliere un candidato col voto "utile" l'elettorato si sposta verso il centro e verso i partiti acchiappavoti, ma il nostro panorama politico potrebbe essere ben più variegato se si potesse esprimere un "voto di orientamento" per chi ci convince, in abbinamento al "voto utile" per chi ci dà maggiori probabilità di vincere. E' quello che nell'era pre-italicum e pre-porcellum avveniva col voto proporzionale di lista, che nel vecchio sistema elettorale si affiancava al voto maggioritario come "correttivo".

Il Veneto e il suo invisibile "partito migrante". In Veneto il dato di rilievo è il "partito dei senza voto", quel 21,9% di persone che pur vivendo in quella regione non può votare perché non ne ha ancora il diritto o perché essendo straniero quel diritto non ce l'ha mai avuto. Un blocco di elettori pressoché equivalente al 22,9% di astensionisti, a sua volta speculare al 22,9% di Salviniani, dove la componente migrante pesa per il 12,4% della popolazione residente, più del consenso raccolto dal PD che in questa regione si ferma al 12,1%. Il dibattito politico ci mostra a seconda degli schieramenti il ritratto di una regione Leghista, o di una regione dove trionfa il disimpegno e l'astensionismo, ma nessuna delle "fotografie politiche" mostrate dai mezzi di comunicazione di massa si allarga ai dati sull'intero insieme della popolazione, per mostrare la fotografia di una regione dove un veneto su cinque non può esprimere rappresentanza politica, e il 12,4% della popolazione residente con tutta probabilità sarebbe ben contento di prendere le distanze sia dal blocco leghista che da quello astensionista, esprimendo un "voto migrante" che molti temono, qualcuno auspica, ma nessuno si decide a garantire. Nel frattempo un qualunque italiano che si trasferisce in uno dei paesi dell'eurozona può istantaneamente godere di tutti i diritti civili e politici del paese che lo ospita, anche se non vi aveva messo piede fino al giorno prima, diritti che invece sono negati ai "veneti col passaporto sbagliato", anche se vivono e lavorano in Italia da anni.

Elezioni comunali 2015, l’Italia senza quorum: ecco i paesi allergici alle urne, scrive “Il fatto Quotidiano”. A Castelvecchio Calviso, in provincia dell’Aquila, si è registrato uno solo voto valido e quattro schede bianche a fronte di 277 potenziali elettori. A Platì e San Luca, due centri reggini sciolti per mafia vince l'astensione: non si presentano candidati, figurarsi gli elettori. Nel Vibonese, a Spilinga, solo uno su dieci va a votare. E il sindaco non viene eletto. C’è un’Italia senza quorum. Mentre si affastellano analisi e reazioni sul dopo voto un piccolo pezzo di Paese ha preso il largo dalla politica. Sono i cittadini di piccoli e medi comuni che nel dieniego dell’urna hanno ingrossato il dato dell’astensione, fino a produrre risultati emblematici e paradossali. Tra i tanti spicca Castelvecchio Calviso, in provincia dell’Aquila, dove si è registrato uno solo voto valido e quattro schede bianche a fronte di 277 potenziali elettori. Cinque voti in tutto. Quorum, non pervenuto. Accade anche questo alle amministrative in Abruzzo: colui che, peraltro, era l’unico candidato, Roberto Di Pietrantonio della lista civica “Tricolore”, ha incassato un solo voto valido, a fronte di 2 schede bianche e 2 nulle. Il piccolo centro montano dell’Aquilano dovrebbe quindi essere retto da un commissario prefettizio reggente fino a nuove elezioni. Non è l’unico caso. Questa tornata è stata un tripudio di candidati, con quasi mille aspiranti consiglieri solo in Puglia. Ci sono comuni con numerosi candidati a sindaco, ma anche tanti comuni dove i candidati si contano sulle dita di una mano e anche meno. In Sicilia, ad esempio, c’è ne sono addirittura due con un unico candidato per comune. Si tratta dei candidati di due comuni del palermitano: Domenico Giannopolo, a Caltavuturo, e Giuseppe Abbate, a Lascari. Per potere essere eletti andava superato il quorum dei due comuni. E il quorum è stato raggiunto in entrambi i comuni del palermitano. Passando alla Lombardia il caso più strano, forse, è quello dei quattro candidati unici nessuno dei quali ha raggiunto il quorum. Sembrava una vittoria facile invece Daniele Boldrini, l’unico candidato sindaco che si è presentato alle elezioni a Brezzo di Bedero, comune con circa 1.200 abitanti della provincia di Varese, non è stato eletto per mancanza del quorum. E lo stesso è accaduto a Claudio Terzi che era l’unico in lizza a Filago nel Bergamasco, a Mario Locatelli, che correva da solo a Locatello (Bergamo) e a Massimiliano Sacchi a Giussago (Pavia). Vai a sapere il perché. Sono invece note le ragioni che hanno portato in Calabria a un risultato pari a zero: nessun sindaco è stato eletto in due comuni sciolti per mafia. Il turno elettorale del 31 maggio non ha portato all’elezione di un’amministrazione comunale a Platì e San Luca, due dei diversi centri reggini dove si tornava alle urne dopo un periodo di commissariamento a seguito dello scioglimento per infiltrazioni mafiose. A Platì non sono state presentate liste, mentre a San Luca ne era stata presentata una ma non ha raggiunto il quorum. Il 43,09 per cento dei cittadini che si è recato alle urne non è stato sufficiente a decretare sindaco Giuseppe Trimboli, a capo di una lista civica. Nell’unico comune capoluogo al voto, Vibo Valentia, a poche sezioni da scrutinare alla fine, Elio Costa si impone con oltre il 50 per cento sugli altri candidati, distaccando di oltre dodici punti il candidato de Pd Antonio Lo Schiavo. Tra i comuni con oltre quindicimila abitanti, a essere eletto con l’82,04 per cento è Pietro Fuda a Siderno (Reggio Calabria). Politico di lungo corso, era sostenuto dal centrosinistra. Primo partito nella cittadina jonica è il Centro Democratico che supera di poco il Pd. Vince l’Italia senza quorum anche a Spilinga, secondo quanto riporta il sito del Ministero dell’Interno, non si è raggiunto il quorum del votanti e le elezioni comunali non sono valide. L’unico candidato sindaco era Francesco Dotro, con la lista civica Insieme per Spilinga. Gli elettori complessivi sono 1.884 ed i votanti sono stati 576, pari al 30,57%. Dotro ha ottenuto 552 voti. Dieci le schede bianche e 14 le nulle. I cittadini, nonostante i movimenti estemporanei come i 5 Stelle che attraggono i voti di protesta, non vanno a votare e molti di quelli che ai seggi ci vanno presentano scheda bianca o, addirittura, annullano la scheda con segni di disapprovazione e scherno. Il messaggio è chiaro. Perché schifati dagli impresentabili presentati e/o da una democrazia ”virtuale” costruita nei salotti televisivi e dai TG in barba a qualsiasi forma di democraticità della comunicazione elettorale. Senza elettori non c’è democrazia e l’attuale offerta politica che c’è sul campo non riesce ad attrarre e a convincere gli elettori che non vanno più a votare. Altre offerte politiche sul campo sono ignorati, pur avendo una specifica proposta politica utile – se solo fosse possibile conoscerla e discuterla – a far uscire il Paese dalla sua ”flagranza criminale”. Vero è come «media di regime asserviti al governo» (ma io direi al regime della partitocrazia), hanno la gravissima responsabilità di negare – in modo sistematico – agli italiani di conoscere le proposte politiche di riforma e le visioni di nuovi leader. Tutto ciò porta il singolo, non avendo la forza dirompente, ad avere disgusto.

Il disgusto che porta a non andare più a votare. L'astensionismo è il vero vincitore delle elezioni regionali. E colpisce anche le regioni rosse, ma sono sempre di più quelli che ritengono la politica italiana impotente e incapace di risolvere i problemi. Mentre i flussi elettorali spiegano che i travasi di voti tra i partiti sono limitati. Il vero vincitore delle elezioni regionali 2015 è stata l’astensione, scrive Alessandro D’Amato su Next Quotidiano”. Su quasi 19 milioni di elettori chiamati alle urne, appena il 45%, 8 milioni e mezzo, ha espresso un voto valido ad una lista; oltre 9 milioni, il 48%, si sono astenuti. E la tendenza al non voto diventa sempre più impressionante nella crescita dei numeri, e comincia a colpire anche le aree più affezionate al rito elettorale. In queste tabelle pubblicate oggi da Repubblica l’Istituto Cattaneo analizza storicamente la crescita dell’astensione al voto dalle Regionali del 2010 fino a quelle del 2015 nelle regioni chiamate al voto. I ricercatori dell’Istituto Cattaneo Dario Tuorti e Maria Regalia hanno messo insieme le serie storiche del voto regionale confrontandolo con quello per le politiche ed europee. E alla fine cifre e grafici rivelano che l’astensionismo alle Regionali è ormai di lunga durata. Ma soprattutto che domenica si è manifestato in maniera più forte nelle “regioni rosse”. Il primato è della Toscana, dove rispetto alle politiche del 2013 c’è un calo dell’affluenza del 30,9%. Il raffronto con le Europee dell’anno scorso dice meno 18%. Anche nelle Marche manca all’appello il 30% per cento dei votanti delle politiche e il 15,8% delle Europee. E in Umbria le due percentuali dicono meno 24,1% e meno 15,1%. E anche in Liguria la disaffezione si è fatta sentire con un meno 10 per cento rispetto alle due precedenti tornate elettorali. Tuorti spiega che «il fenomeno si spiega con il fatto che in queste regioni c’erano aspettative molto elevate che sono state tradite. Ovviamente incidono anche la crisi che va avanti dal 2008 e gli scandali che hanno colpito i consigli regionali, la delegittimazione complessiva dell’istituto regionale». E in effetti, dicono al Cattaneo, anche se potrebbe sembrare un paradosso, gli elettori oramai percepiscono più importanti le elezioni Europee che quelle regionali. Interessante anche il ragionamento dei ricercatori dell’Istituto a proposito delle regioni del sud: «Nel passato – spiega Tuorti . una certa astensione esprimeva una forma di protesta verso il partito di appartenenza, un messaggio di disapprovazione. C’era insomma una forma di partecipazione attiva anche nell’astensione e si poteva tranquillamente tornare a votare al turno successivo». Oggi, continua il ricercatore del Cattaneo «siamo di fronte ad una massa di elettori che scivolano dall’astensionismo “attivo” verso l’altra forma, quella dell’apatia che tende a tenerli costantemente lontano dai seggi. I cittadini cominciano ad essere sempre di più disillusi davanti alla mancanza di risposte».La cosa grave di questo fenomeno -continua il ricercatore del Cattaneo, «è che l’astensionismo non è distribuito equamente fra le diverse fasce degli elettori,ma rappresenta solo certe fasce sociali che coinvolge disoccupati, marginali non garantiti». Ancora più interessante è l’analisi dell’istituto Demopolis presentata ieri a Otto e Mezzo nel Punto di Paolo Pagliaro. Nella prima tabella si nota che anche nel computo dei votanti c’è chi ha scelto di votare solo per il governatore o ha espresso un voto non valido. Si tratta del 7% del computo totale dei voti, e anche qui si tratta di persone che hanno scientemente deciso di non votare per un partito pur presentandosi alle urne. Ancora più interessante è la tabella delle motivazioni che fa parte dell’analisi dell’istituto. Il 40% ha deciso di non andare a votare perché, a suo parere, la politica in Italia non incide più sulla vita reale dei cittadini. E qui sarebbe interessante chiedere a chi ha risposto in questo modo se invece ritiene che la politica europea sia più incisiva di quella italiana nella vita dei cittadini: la sintesi del ragionamento sarebbe stata più interessante. Il 27% invece dice che non si sente rappresentato dai partiti votati in precedenza, mentre il 25% ha scarsa fiducia nei candidati a livello locale. Rimane un buon 8% che dice che l’esito delle elezioni appariva scontato, e quindi probabilmente si presenterà alle urne in occasioni in cui ci sarà un maggiore equilibrio alle urne o si voterà per le elezioni politiche. Infine, l’istituto Demopolis analizza i flussi elettorali del Partito Democratico, del MoVimento 5 Stelle e della Lega di Salvini: Quasi tutte le liste sono risultate fortemente penalizzate dall’astensione in termini di voti assoluti. Secondo l’analisi dei flussi elettorali e sugli spostamenti del consenso, realizzata dall’Istituto Demopolis, su 100 elettori che avevano scelto il PD alle Europee del maggio scorso, 62 hanno rivotato nelle 7 Regioni il partito di Renzi o le liste dei candidati Presidenti; 8 hanno preferito altre liste, 3 elettori su 10 hanno optato per l’astensione. Quadro non dissimile quello del Movimento 5 Stelle: 6 su 10, tra quanti avevano votato Grillo alle Europee, hanno confermato il voto al Movimento alle Regionali, 11 su 100 hanno scelto altre opzioni; 29 su 100 sono rimasti a casa. L’Istituto diretto da Pietro Vento ha analizzato la composizione del consenso al partito di Salvini in base al voto espresso alle Europee: su 100 elettori odierni alle Regionali (quasi un milione e 300 mila incluse le liste Zaia), poco più di 500 mila avevano già scelto la Lega un anno fa. 8 su 100 avevano votato il M5S, 5 il PD, 14 altre liste o si erano astenuti. Secondo l’analisi post voto di Demopolis, 33 su 100 degli attuali elettori leghisti avevano scelto Forza Italia alle Europee. Un flusso che conferma, anche a livello regionale, i mutati equilibri nell’area di Centro Destra.

Vince l’astensione: siamo noi giovani a non votare più. Il partito dell'astensione cresce a ogni elezione di più. Ma è un problema che va affrontato, perché riguarda soprattutto i più giovani. Troppo lontani dalla politica, scrive Michele Azzu su "Fan Page". “Il vero vincitore è l’astensionismo”, anche a queste elezioni regionali ripeteremo questa solita frase fatta per chissà quanto tempo. Frase che, elezione dopo elezione, sembra sempre più veritiera. Alle elezioni regionali di Veneto, Campania, Marche, Umbria, Toscana, Puglia, Liguria ha votato solo il 51.4 per cento degli aventi diritto. Nel 2010 era il 64 per cento: si sono persi il 10 per cento di voti. Una persona su due non ha votato, e questa volta non è stato certo per colpa del bel tempo e delle gite di primavera: nel fine settimana ha piovuto in quasi tutto il paese. È un dato che fa spavento. Confrontiamolo coi dati delle più recenti votazioni del nostro paese. Lo scorso novembre si votava alle regionali in Emilia Romagna e Calabria. Anche in quel caso l’affluenza al voto fu bassissima: in Emilia Romagna votò il 37.7 per cento contro il 68 delle elezioni precedenti, e contro il 70 per cento delle europee di solo sei mesi prima. Sono 30 punti percentuali in meno. In Calabria a votare furono il 43.8 per cento degli aventi diritto contro il 59 per cento del 2010 (15 per cento in meno). Alle scorse elezioni europee, invece, l’affluenza fu più alta: circa il 60 per cento degli aventi diritto. E alle scorse elezioni politiche? Quelle del giugno 2013, in cui vinse per un soffio il PD guidato da Pierluigi Bersani che poi però non andò mai al governo. In quell’occasione, votò il 55 per cento degli elettori rispetto al 62.6 per cento di cinque anni prima, nel 2008. Le elezioni hanno ormai imparato a convivere con alti tassi di astensionismo. E allora, se va così dappertutto, forse è un segno dei tempi. Chi non vota rinuncia coscientemente a un proprio diritto – dirà qualcuno – e allora perché porsi il problema? L’astensionismo è un problema perché il dato della disaffezione al voto riguarda principalmente i più giovani. Certo, è ancora presto per avere i dati precisi da queste votazioni, ma sappiamo già che è a loro che riguarda questo 48 per cento di astensione. Ce lo dicono i dati delle elezioni più recenti. Alle recenti elezioni europee – quelle del tanto sbandierato 41% di consensi al PD – trionfò proprio l’astensione dei giovani. Mentre, come dicevamo, il dato di affluenza rimase discreto, con circa il 60% di votanti, in tutta Europa solo il 28% dei giovani europei andò a votare. “Le elezioni europee del 2014” hanno mostrato che esiste ancora un alto livello di astensione, con solo il 28% dei giovani fino ai 25 anni che si è recato a votare”, commentava Johanna Nyman, presidente dell’European Youth Forum. In Italia solo il 40% dei giovani è andato a votare alle europee. E alle politiche? Secondo il Centro Italiano di Studi Elettorali, alle ultime politiche del 2013 l’astensione ha riguardato principalmente i giovani. “Con l’eccezione di Torino, emerge che i neoelettori sono stati più propensi all’astensione”, scrive l’ente accademico. “In misura marginale nella capitale, più significativa a Milano e Firenze e ancor più spiccata a Palermo. Nel capoluogo siciliano, quasi la metà dei cittadini fra i 18 e 24 anni ha deciso di astenersi”.  in foto: l'astensione dei giovani alle elezioni europee 2014  Anche il presidente del Senato Pietro Grasso si è rivolto in questi giorni ai più giovani, invitandoli a votare: "Alcuni di voi domenica saranno chiamati per la prima volta ad esprimere il proprio voto alle elezioni amministrative: fatelo, non lasciate che siano altri a decidere per voi". Ma non c’è niente da fare: ai più giovani votare non interessa. È davvero così difficile capire perché? Così come per la elezione del Presidente della Repubblica, il momento del voto non viene ritenuto capace di cambiare qualcosa di significativo nella vita di tutti i giorni, e viene vissuto come una cosa lontana e irrilevante. Una scocciatura. Ma cosa è ritenuto rilevante dai giovani d’oggi? Se è difficile capire perché i giovani si disinteressano della politica, e del voto, forse possiamo chiederci cosa interessa i giovani. Una recente ricerca del programma Erasmus – che da ormai 20 anni permette ai giovani universitari di studiare per un anno in un altro paese dell’Unione Europea – ha di recente pubblicato i risultati di un sondaggio esteso alla popolazione di ex e attuali studenti migranti. Giovani laureati e di respiro europeo, insomma, proprio quelli da cui ci si aspetterebbe un interesse alla politica. Secondo i risultati del sondaggio le priorità dei giovani Erasmus sono crescita e posti di lavoro, col 60 per cento di preferenze. Al secondo posto vengono le preoccupazioni sui cambiamenti climatici. Al terzo posto la lotta alla corruzione. Dati molto simili a quelli raccolti durante le ultime elezioni politiche italiane dalla campagna “Io voto”, realizzata dall’emittente televisiva Mtv. Secondo cui il 74 per cento dei giovani associa la politica alla corruzione, il 67 per cento a una sensazione di disgusto. Per il 60 per cento la classe dirigente italiana è considerata: “anacronistica e incapace di rinnovarsi”. L’astensione al voto cresce ogni elezione di più. E riguarda principalmente i giovani. Laureati, occupati, disoccupati, nelle grandi città come alla provincia del sud. Cambia poco. Perché ai giovani, oggi, interessa porre fine alla corruzione, interessa trovare lavoro, e migliorare le condizioni in cui si lavora. Ai giovani interessa porre riparo al riscaldamento globale che sta modificando la temperatura del pianeta, e quindi la fuoriuscita dai carburanti fossili, la ricerca di stili di vita più sani. Di tutte queste cose nei manifesti elettorali non si è trovata traccia: non alle europee, non alle politiche più recenti, non a queste regionali. Perché la politica non parla ai giovani, non è fatta dai giovani, e ai giovani non pensa proprio. Non a caso il Movimento 5 Stelle rimane il primo partito fra i giovani. Perché è un soggetto nuovo, che ha fatto della lotta alla corruzione la propria bandiera, così come le battaglie per l’ambiente, e per il reddito di cittadinanza – anche se sul lavoro latita. Ma questo dato di astensione, prima ancora dell’esito negativo della Liguria, Campania e Veneto, non è una grande sconfitta per Matteo Renzi, che ha solo 40 anni e che doveva rottamare la politica dei vecchi e dei poteri forti? E riportare i giovani alla politica? Dalle regioni, fino al governo, passando per le europee, insomma, dove diavolo è la politica che dovrebbe interessare i giovani?

Votano pochi anche in Germania. In Italia non si vota per disgusto, in Germania per noia, scrive Roberto Giardina su “Italia Oggi”. Perché preoccuparsi dell'astensione di domenica scorsa in Italia? Avviene così altrove, perfino in Germania. Metà dei votanti è rimasta a casa? Claudio Velardi cita la Baviera, ma, per la verità, qui in Germania, all'ultimo appuntamento elettorale, l'astensione si è fermata al 46%. Comunque è vero, a casa della Merkel gli elettori sono sempre più pigri, nelle elezioni dei Länder, le regioni, si continua a calare, sfiorando il 50%. Soltanto che qui ci si preoccupa della pigrizia elettorale. I nostri politici fanno finta di niente. Ma le cause sono diverse: i tedeschi disertano le urne per noia, gli italiani, temo, per disgusto e rassegnazione. Nel '72, al primo voto anticipato nella storia della Repubblica Federale, che era una sorta di referendum su Willy Brandt e la sua Ostpolitk, andò a votare oltre il 90%. Nel 2013, al terzo round per Frau Angela, fu il 71,5, un 1,3 in meno rispetto a quattro anni prima. Ma l'esito era scontato: una Grosse Koalition, una grossa coalizione. E se i due grandi partiti si alleano dopo il voto, perché devo andare alle urne? Inoltre, il programma della sinistra socialdemocratica e dei conservatori della Cdu-Csu è diverso soltanto per sfumature. Quanti sperano che se nel 2017 ci sarà un cancelliere socialdemocratico cambierà la politica europea di Berlino, avrà un'amara sorpresa. Un'altra considerazione: la Germania è uno stato federale basato sulla storia. In Italia, la riforma delle regioni è stata abborracciata per populismo e per accontentare Bossi. I Länder corrispondono agli antichi stati tedeschi prima che Bismarck riuscisse a creare il Reich. Alcune regioni come la Baviera sono immense, e il Land meridionale ha un pil superiore a quello di Olanda e Belgio messi insieme. Altre sono minuscole come di Amburgo o di Brema, le città dell'Ansa. Da noi, le Repubbliche marinare hanno forse una coscienza, come dire?, nazionale più antica di un Molise. Dovremmo avere una regione delle Due Sicilie, e anche il Granducato di Toscana, mentre la Padania non è mai esistita (quando lo scrisse mio fratello, lo storico, credendo di dire un'ovvietà, fu minacciato di morte). Infine, le preferenze. Io, come ex abitante di Roma, non ero chiamato alle urne domenica. Ma se avessi dovuto votare in Liguria, o nel Veneto, o in Campania, sarei rimasto a godermi il weekend di tarda primavera a Berlino. Non avrei mai potuto votare per la signora Moretti, né per i suoi avversari. Neanche per la signora Paita a Genova, o per De Luca, in Campania. Anch'io sarei entrato nel branco degli astensionisti, ma per costrizione e non per libera scelta, per noia, o pigrizia. In Germania, a livello nazionale, il sistema del doppio voto è geniale. Il primo, va al partito, e con questo si eleggono i candidati presentati dai partiti, con una lista chiusa come tanto piace ai nostri leader che non sopportano i gusti degli elettori. Ma il secondo voto è personale per un candidato di nostro gradimento, anche di un altro partito. Allora la Cdu o l'Spd devono stare molto attenti nel compilare la loro lista, ed evitare di essere punite alle urne. Infine, il nuovo Senato che Renzi sostiene sfacciatamente di aver copiato dal Bundesrat tedesco, la camera delle regioni. Da noi sarà formato da senatori designati dall'alto, scelti nelle regioni. In Germania vi partecipano i rappresentanti dei Länder, che già fanno parte dei parlamenti regionali, in proporzione ai risultati locali. Il Bundesrat ha diritto di veto su tutte le leggi del Bund, la federazione, che hanno importanza locale. Quindi su quasi tutte, dai trattati firmati a Bruxelles alla proroga o chiusura delle centrali atomiche. Votando nelle regioni in momenti diversi, al Bundesrat si forma, di solito, una maggioranza di segno opposto rispetto al Bundestag, il parlamento federale. Per ogni legge, o quasi, il governo è dunque costretto a sentire il parere dell'opposizione. Si crea una sorta di Grande coalizione non ufficiale. Un voto di Land è influenzato ovviamente dalla situazione locale, ma nessun politico a Berlino oserebbe commentare ciò che non riguarda il governo centrale. Quando Schröder avviò la radicale riforma dello Stato sociale, dovette trattare con i cristianodemocratici. E quando la Merkel lo battè e divenne cancelliera, non poté, e neanche volle, riformare le riforme del predecessore, perché realizzate con il consenso del suo partito. Un sistema che favorisce la continuità. In Germania chi ha la maggioranza non fa quel che vuole, come si sostiene a parole in Italia. Ma questo principio non può essere garantito dalla legge. Dipende dalla coscienza democratica.

I GRILLINI CANTANO VITTORIA. MA ANCHE LORO FAREBBERO BENE A CHIEDERSI PER CHI SUONA LA CAMPANA, scrive Antonio de Martini su “Il Corriere della Collera”. Un lettore mi ha scritto ripetutamente invitandomi a commentare la vittoria del movimento cinque stelle alle recenti elezioni. Turani nel suo giornale presenta questi numeri:

1) Alle elezioni politiche del 2013 , nelle stesse sette regioni in cui si è votato, il movimento cinque stelle raccolse 3.274.571 suffragi.

2) Alle elezioni Europee del 2014 , sempre nelle stesse regioni, gli elettori scesero a 2.211.384.

3) Alle regionali appena trascorse i votanti  5 stelle sono stati 1.320.885.

Sempre che la matematica non sia diventata di parte anch’essa, il movimento 5 stelle non ha avuto un successo, ma una perdita di votanti che si sono dimezzati rispetto alla prima apparizione sulla scena politica. Molti cittadini cercano di illudersi e vedere in “ogni villan che parteggiando viene ” il messia salvatore  che rimetta le cose a posto senza che ci si scomodi più di tanto. Un voto, una richiesta di favori e via….Ebbene, non è così. Non è più così. La tendenza chiara ogni giorno di più è che dal 1976 in poi la sola cifra in crescita alle elezioni è quella dei cittadini che si rifiutano di essere presi in giro da questi ladri di Pisa che di giorno litigano e di notte rubano assieme. I cittadini che si astengono dal voto e di cui tutti fingono di non capirne le motivazioni. Il Cardinale Siri ( arcivescovo di Genova, città che si appresta a subire l’ennesima delusione) – mi dicono – ebbe un bon mot: ” esiste personale politico di due tipi: quelli che rubano per fare politica e quelli che fanno politica per rubare. Da un po' vedo in giro solo questi ultimi”. Appunto. Arrestarli? Inutile. Sono più numerosi dei carabinieri e in costante crescita. Per uscire da questo maleolente pantano è necessario che tutti i cittadini – dopo aver fatto il proprio dovere – decidano di esercitare i loro diritti costituzionali partecipando alla vita nazionale in forma attiva, propositiva e continuativa. Ad ogni livello. Fino a che aspetteremo il “deus ex machina”, la “rigenerazione” ed altre minchiate consimili resteremo dove siamo. Tra tutte le soluzioni miracolistiche proposte, quella di far governare l’Italia da un gruppo di giovani somari è la più stravagante. I dirigenti della Nuova Repubblica dovranno essere selezionati uno a uno in base al sapere, all‘esperienza e sopratutto  al carattere. Oggi si scelgono in base alla fedeltà, l’ignoranza e alla disponibilità al compromesso. La politica delle etichette (delle camicie, dei distintivi ecc) si addice ai prodotti commerciali, non alle persone.

L'utopia dell'onestà e la demagogia della proposta politica irrealizzabile, presentata come panacea di tutti i mali, sono le prese per il culo che il cittadino non tollera più.

Una Repubblica fondata sulla trattativa. Gli accordi tra Stato e criminalità vanno avanti da due secoli. Così i padrini si sono visti riconoscere la loro forza. Che ora si è spostata nell’economia, scrive Giancarlo De Cataldo su "L'Espresso". Ci sono in molti paesi delle fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di proteggerlo, ora di conquistarlo, ora d’incolpare un innocente. Il popolo è venuto a convenzione coi rei”. Così scriveva, nel 1838, don Pietro Ulloa, Procuratore borbonico di Trapani. E Leonardo Sciascia poteva annotare, sconsolato, oltre cent’anni dopo: “Leggeremo mai negli archivi della commissione parlamentare antimafia attualmente in funzione, una relazione acuta e spregiudicata come questa?”. Se il popolo sia “venuto a convenzione coi rei”, e per mezzo di alcuni dei suoi più alti rappresentanti, lo stabiliranno i giudici di Palermo, chiamati ad accertare se vi fu, fra il ’92 e il ’93, una “trattativa” fra mafia e Stato, e se furono commessi dei reati. Ma la verità giudiziaria è un conto, quella storica un altro, e non sempre le due verità coincidono. I giudici sono obbligati ad attenersi agli atti, gli storici non conoscono questo limite. La Storia è una grande risorsa, non foss’altro perché quasi sempre, per comprendere il presente, è doveroso guardare al passato. E il passato - a partire da don Pietro Ulloa - ci insegna che, sin dagli albori dello Stato unitario fra settori dei pubblici poteri e organizzazioni criminali si instaurarono accordi occulti e inconfessabili. “Patti scellerati”, li definisce lo storico francese Jacques de Saint Victor. Non ne furono immuni i sovrani assolutisti prima dell’Unità, i governanti che succedettero a Cavour, appartenessero alla Destra o alla Sinistra storiche, e nemmeno qualche rivoluzionario. Si avvalsero della “collaborazione” delle mafie coloro che intendevano mantenere l’ordine e quanti auspicavano il cambiamento. E sempre, costantemente, si potrebbe dire ossessivamente, costoro furono combattuti, troppo spesso senza successo, da leali servitori dello Stato che, oltre a fronteggiare il nemico dichiarato, dovevano guardarsi le spalle da quello interno. Il termine mafia compare per la prima volta in un documento ufficiale nella relazione redatta nel 1865 dal prefetto (orvietano) di Palermo, Filippo Antonio Gualterio. “I liberali del 1848, i Borboni nella restaurazione, i garibaldini nel 1860, ebbero tutti la necessità medesima, si macchiarono tutti della istessa colpa”. Si legarono alla trista associazione malandrinesca, determinando un legame indissolubile fra mafia e potere (o contro-potere) politico. Gualterio lascia intendere che, infine, le cose dovranno cambiare, grazie al nuovo governo: del quale egli, ovviamente, fa parte. Per Gualterio, “mafioso” è chi si oppone al nuovo ordine, sia egli garibaldino, repubblicano, nostalgico dei Borboni o autenticamente criminale. E le sue parole, per un verso nobilmente allarmate, per un altro ambigue, sono l’ennesima rappresentazione di un’altra costante del rapporto fra mafie e poteri in Italia: ciò che potremmo definire “il buon uso della mafia”. È una partita che Gualterio ha giocato in prima persona quand’era patriota, con la stessa spregiudicatezza di tutti gli altri attori. Le bande di bonache e picciotti che scortano Garibaldi nella trionfale impresa dei Mille sono, a un tempo, squadre a protezione dei latifondisti improvvisamente convertiti al nuovo che avanza, aggregazioni para-mafiose ma anche espressione di un sogno sociale di riscatto, quasi rivoluzionario, che presto le fucilazioni sommarie di Nino Bixio e dei piemontesi trasformeranno in incubo. Negli stessi giorni, a Napoli, mentre il regime borbonico si sfarina, il ministro liberale Liborio Romano promuove la camorra a Guardia Civica: per evitare disordini, dirà lui, e c’è da credergli. Ma sta di fatto che Garibaldi, a Napoli, è accolto da una folla festante in cui si mescolano allegramente democratici e tagliagole. La mossa di Romano sancisce, ancora una volta, il ruolo “politico” del crimine organizzato e la necessità, da parte dei pubblici poteri, di trovare un accordo. A proposito dei rapporti fra politica e mafie nell’Italia postunitaria, c’è un paragrafo impressionante nella “Storia della Mafia” di Salvatore Lupo: “Il partito governativo non escludeva il delitto politico e il ricorso ad una sorta di strategia della tensione (...) con la finalità di favorire la divisione della sinistra criminalizzandone l’ala estrema e conquistando a una collaborazione subalterna il gruppo che privilegiava la difesa delle conquiste risorgimentali dai pericoli reazionari”. E per conseguire questo obbiettivo si agita lo spettro di congiure inesistenti, oppure se ne impiantano di autentiche grazie al ricorso a spregiudicati agenti provocatori. Si dà per scontato che, a fini politici, ci si possa avvalere di metodi criminali in accordo con un sistema che di per sé è già criminale. Sembra delinearsi, insomma, un copione che ricorrerà più volte: con i pubblici poteri che cambiano e le mafie che restano sempre se stesse. Viene da pensare alla repressione del movimento dei Fasci a fine Ottocento, alla collaborazione dei mafiosi allo sbarco anglo-americano del ’43, agli ancora oscuri risvolti della Strage di Portella della Ginestra del 1947, all’esecuzione taroccata del bandito Giuliano, alle morti per avvelenamento di Pisciotta e Sindona, all’ascesa cruenta dei Corleonesi, ai delitti eccellenti degli anni Ottanta, giù giù sino alle stragi del ’92-’93. Tutti esempi di “buon uso della mafia” o ci si può spingere oltre, e usarla, questa benedetta parola: trattativa? Nessuno, pure, la pronuncia mai in sede ufficiale. Ma qualcosa di simile, grazie a un evidente sinonimo, “transazione”, pure affiora, a scavare nel passato. È il 1875 quando il deputato (ex-magistrato) calabrese Diego Tajani, durante un infocato dibattito parlamentare, così definisce la situazione dell’ordine pubblico in Sicilia: “Là il reato non è che una transazione continua, si fa il biglietto di ricatto e si dice: potrei bruciare le vostre messi, le vostre vigne, non le brucio ma datemi un tanto che corrisponda alle vostre sostanze. Si sequestra e si fa lo stesso: non vi uccido, ma datemi un tanto e voi resterete incolume. Si vedono dei capoccia della mafia che si mettono al centro di taluna proprietà e vi dicono: vi garantisco che furti non ne avverranno, ma datemi un tanto per cento dei vostri raccolti”. Transazione: come quella fra prefetti e comandanti militari e banditi, ai quali, talora, si concedeva un salvacondotto perché ripulissero il territorio. Da altri banditi. Transazione. Con le mafie si possono fare affari, si può servirsene per l’ordine (o, alternativamente, per il disordine), e la cosa è sotto gli occhi di tutti. Impensabile che i vecchi malandrini non si siano resi conto, col tempo, di essere assurti, essi stessi, da compagnia di raccogliticci accoliti a “forza politica”. E la stessa sensazione di essere “potere”, o comunque di giocare un ruolo determinante negli assetti strategici della nazione, magari a colpi di esplosivo, traspare da più di un verbale degli odierni collaboratori di giustizia. Da qualche anno a questa parte, le mafie sparano di meno, e quindi, verrebbe da dire, sono più forti. L’accumulazione del capitale che garantiscono i proventi delle attività illecite è un fattore di potente condizionamento del gioco economico. Le “transazioni” sembrano essersi spostate dal piano dei rapporti con gli Stati a quello dei mercati finanziari. Il governatore della Banca d’Italia ha denunciato l’enorme danno arrecato dal fattore criminale agli investimenti stranieri in Italia. Ma le mafie sono da tempo un fenomeno transnazionale, globalizzate più rapidamente, e con esiti spesso più soddisfacenti, dell’economia “legale”. Bisognerebbe girare il monito a quei santuari del denaro che periodicamente patteggiano ingenti penali per aver chiuso un occhio (e a volte tutti e due) sui movimenti sospetti di capitali. A quanto pare, non disdegnano di “venire a convenzione coi rei”. Le mafie sono partite dalle campagne o dalle periferie, ma hanno risalito il mondo, scalandolo con estrema facilità. Eppure, restano sempre mafie. Quelle descritte da don Pietro Ulloa nel lontano 1838. È ancora Sciascia a rivendicare l’ultima parola: “Gli elementi che distingueranno la mafia da ogni altro tipo di delinquenza organizzata, l’Ulloa li aveva individuati. Questi elementi si possono riassumere in uno: la corruzione dei pubblici poteri, l’infiltrazione dell’occulto potere di un’associazione, che promuove il bene dei propri associati contro il bene dell’intero organismo sociale, nel potere statale”.

Onestà (e non solo) la risposta politica contro la corruzione. Dopo tante inchieste sulle malefatte degli amministratori, bisogna chiedersi perché nulla sia cambiato: come diceva Croce, non basta invocare le virtù personali, occorrono strategie adeguate, scrive Giovanni Belardelli su “Il Corriere della Sera”. «Di nuovo?». È questa la domanda che, di fronte agli sviluppi giudiziari dell’inchiesta «Mafia capitale», molti cittadini si sono fatti, sempre meno fiduciosi circa la possibilità che si possa ridurre l’intreccio tra politica e malaffare. È uno stato d’animo comprensibile, ma da superare: occorre chiedersi se non c’è stato anche qualcosa di sbagliato nel modo in cui, per tanti anni, abbiamo evocato la questione morale. L’appello all’onestà, tante volte ripetuto, non basta infatti di per sé a risolvere i mali della politica: e il sentimento «anti casta», pur animato da giustificato sdegno, ha diffuso nel Paese l’idea che della politica e dei partiti si possa fare a meno, per affidarsi alla magistratura. Così non è. E anche se la qualità del ceto dirigente, locale e nazionale, è evidentemente scadente (quanti sono coinvolti nelle inchieste sembrano spinti solo da miserabili aspirazioni di arricchimento), l’onestà personale non è, né sarà sufficiente a risolvere un problema di grave inadeguatezza politica. Dopo vent’anni di inchieste giudiziarie sulle malefatte dei politici e di denunce della corruzione formulate anche in sedi autorevolissime (dai più alti scranni della Repubblica al soglio di Pietro), ancora a questo punto siamo? Questo è ciò che mestamente devono essersi domandati tanti italiani, sempre meno fiduciosi circa la possibilità che si possa quanto meno ridurre l’intreccio tra politica e malaffare. È uno stato d’animo comprensibile ma che andrebbe superato, per cominciare a chiedersi se non ci sia stato anche qualcosa di sbagliato nel modo in cui per tanti anni abbiamo evocato la «questione morale». Una parte del mondo politico e dell’informazione, prevalentemente orientata a sinistra, lo ha fatto, ad esempio, accreditando l’idea che ad essere disonesti fossero gli «altri», i politici - e dietro di loro, si lasciava intendere, gli elettori - di centrodestra. Era l’idea di una frattura antropologica tra destra e sinistra che, prima ancora di Mafia Capitale, altri scandali bipartisan si sono incaricati di dimostrare infondata; ma è tuttavia un’idea cui una parte del Paese ha creduto a lungo, evitando anche per questo di riflettere seriamente sulle ragioni per cui in Italia guardiamo spesso con indulgenza e comprensione a certi comportamenti illegali. Osservò una volta Benedetto Croce che la «petulante richiesta» di onestà nella vita politica è l’«ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli». Personalmente onestissimo, Croce non voleva certo fare l’apologia della disonestà in politica ma segnalare come l’appello all’onestà sia di per sé insufficiente a risolvere i mali della politica, che hanno anzitutto bisogno di rimedi - appunto - politici. Invece - ecco un altro errore di questi decenni - il sentimento «anticasta», pur animato da sdegno giustificatissimo per i privilegi e le malefatte del ceto politico, ha diffuso nel Paese l’idea che della politica e dei partiti si possa fare a meno, per affidarsi ai controlli e alle inchieste della magistratura, magari con un inasprimento delle pene cui pochi peraltro riconoscono una vera capacità dissuasiva. Le notizie che si vanno pubblicando sull’inchiesta di Mafia Capitale mostrano, al di là di quelle che saranno poi le risultanze finali dei processi e al di là della congruità (per molti dubbia) del riferimento alla mafia, la qualità scadente del ceto politico locale, romano e non solo. Come lasciano trasparire anche altre inchieste di questi anni, si tratta spesso di un personale politico (quasi esclusivamente maschile: sarà un caso?) privo di ogni aspirazione od obiettivo di natura politica, come non era invece nella Prima Repubblica, che avrà avuto molti difetti ma non questo. Quanti sono coinvolti nelle inchieste di cui si occupano i giornali in questi giorni sembrano infatti spinti in via esclusiva da miserabili aspirazioni di arricchimento personale: se non è (solo) il denaro, sono magari le assunzioni di parenti e amici (chi ne chiede due, chi tre, chi dieci). Il fatto è che un tempo l’accesso alle carriere politiche locali operava dentro un quadro di relazioni e controlli nazionali che ormai non esistono più o si sono indeboliti notevolmente. Tranne evidentemente nel caso delle primarie per il Pd, che però hanno spesso finito con l’esaltare proprio il potere e l’influenza dei «capibastone» (il termine era usato tre mesi fa da Fabrizio Barca in quella sua diagnosi sul Pd romano «pericoloso e dannoso» di cui forse i vertici del Nazareno avevano sottovalutato la drammaticità). Se le cose stanno così, i partiti - e in primo luogo, il principale partito di governo - non possono limitarsi alla (ovvia) esortazione affinché la giustizia faccia il suo corso, ma dovrebbero prendere delle decisioni politiche adeguate. Il Pd, in particolare, dovrebbe rendersi conto di quanto sia poco giustificabile agli occhi dell’opinione pubblica continuare a sostenere il sindaco Marino solo perché non personalmente coinvolto nell’inchiesta giudiziaria. Non c’è bisogno di citare ancora Croce per osservare che l’onestà personale non è sufficiente a risolvere un problema di grave inadeguatezza politica.

Nel paese dove è inutile essere onesti. La politica è da sempre incapace di fare pulizia prima che arrivino le inchieste giudiziarie. Così si arriva alle liste compilate con criteri discutibili, scrive Roberto Saviano su “L’Espresso”. Elezioni all'insegna del “in fondo sapevamo già tutto”, le Regionali di domenica scorsa. Certo, banalizzare l’esito del voto talvolta può essere un’operazione scontata, ma non in questo caso, in cui le premesse dicevano già molto. Ma non le premesse dei sondaggi, non i dibattiti sui giornali, non i comizi da talk show. Bensì gli umori in strada, i discorsi tra le persone, la delusione da bar. Eh sì, perché ormai le “chiacchiere da bar” è in questo che si sono mutate, in “delusione da bar”. Alla politica ormai si applica la stessa “sindrome Trapattoni” che il nostro paese conosce per il calcio: tutti allenatori e tutti delusi dalla classe politica. Abbiamo letto ancora una volta titoli come “Il vero vincitore è l’astensionismo” che mette in luce quel 52% di affluenza al voto che ormai non scandalizza più. E se in Italia la politica, tutta, non cambia rotta - ma evidentemente non lo farà - è un dato destinato a decrescere soprattutto se alle urne si è chiamati in una domenica di sole, la prima dopo freddo e pioggia. Ma cosa significa cambiare rotta? Significa forse non candidare “impresentabili”? Significa forse smetterla di assecondare le pulsioni più ancestrali come la difesa del proprio nido dallo straniero aggressivo ma soprattutto diverso? Significa smetterla di credere che determinate regole valgano per gli altri e non per noi? Significa pesare ogni parola, ogni esternazione pubblica, e farlo sul serio? Significa iniziare a dialogare con la società civile e farlo non mettendosi alla lavagna, gessetto in mano, a dare lezioni? Tutto questo, ma significa anche non dare per morta una forza politica quando non lo è: per 20 anni in Italia abbiamo visto vincere il berlusconismo senza davvero riuscire a spiegare al paese come potesse accadere. Il voto di scambio non può essere un alibi che la parte “buona” della società, dell’informazione e della politica trova ogni volta per giustificare le proprie incapacità. La vittoria di Giovanni Toti in Liguria dimostra quanto abbiamo visto ormai talmente tante volte da poterlo considerare in fondo un copione già scritto: una forza politica data per morta può farcela contro una forza politica data per viva, ma divisa. Ed ecco che Berlusconi è stato ancora una volta in grado di unire, assecondando utili convenienze come ai bei tempi. Tutti quanti a parole sono contro una fantomatica “Sinistra” che dal 1989 esiste solo nei discorsi e nelle fantasie del satrapo di Arcore. Ed ecco il PD, ancora una volta, ha consapevolmente perso in Veneto e la Liguria e ha vinto in Campania chiudendo tutti e due gli occhi sulla candidatura di De Luca. Ed ecco il M5S, che per la prima volta ha fatto campagna elettorale senza gli eccessi verbali di Beppe Grillo, ha recuperato parte del voto moderato e si è attestata come terza forza politica del Paese. A Napoli con un’unica lista ha sfidato due coalizioni ottenendo risultati encomiabili con 20 mila euro di campagna elettorale provenienti da donazioni private. Come accade che un movimento dato per defunto risorga dalle proprie ceneri, o meglio, dalle ceneri con cui lo avevano erroneamente ricoperto? Il M5S è nato come movimento di protesta e di cambiamento. Non essendo ancora mutato nulla, nonostante la rottamazione, resta un catalizzatore di consenso che si nutre di sfiducia verso tutto il resto. È l’unica forza politica ad aver mantenuto fermo un punto essenziale: candidare solo chi non abbia pendenze giudiziarie. Per un garantista come me non è ammissibile pensare che se sono sotto processo perché il mio cane avrebbe morso un passante e ancora non sono stato né assolto né condannato, questo possa rappresentare motivo di incandidabilità. Ma l’umore in Italia è questo: “Se hai problemi con la giustizia, senza entrare nel merito, noi non ti vogliamo a rappresentarci. Punto”. Alla fine si è diventati più realisti del re, a causa dell’incapacità che la politica italiana ha da sempre di fare pulizia prima che arrivino inchieste giudiziarie o Commissioni parlamentari antimafia. Perché alla fine non basta più il buon senso, ma occorre, per catalizzare fiducia, ricorrere a metodi estremi. E ormai anche io, da osservatore, non so davvero se temere di più la retorica dell’onestà o che si realizzi quanto disse Corrado Alvaro: «La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile».

La finanza, gli impresentabili e i parrucconi, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Questo paese di parrucconi è veramente una schifezza. Parrucconi buoni solo a declamare principi favolosi di onestà, correttezza ed eticità ci sono sempre stati per carità. Il problema è che abbiamo sempre pensato che sotto queste profumate parrucche, si celassero solo teste di rapa. Alzi la mano chi è a favore della disonestà? Faccia un passo avanti chi è favore della corruzione? Nessuno è ovvio. Il nostro parruccone moderno fa di più, questiona i quarti di nobiltà. Tipo alla Caccia. Vabbè tutti sapete della genialata democratica della commissione antimafia, guidata da Rosy Bindi. Non è pietanza da Zuppa, ma nel Giornale se ne parla. Eccome. Mentre la Bindi e soci si incipriavano la parrucca, anzi il parruchino, pensando a chi potesse entrare nella lista degli impresentabili, a Roma si teneva l’assemblea dell’Enel. Una delle più importanti società italiane e tra i leader mondiali dell’energia elettrica. Cosa decidevano gli azionisti dell’Enel? I soliti conti e ricchi dividendi. Ma anche (brevina sui giornali) di allentare la cosiddetta clausola di onorabilità dei propri amministratori. In sostanza, fino a ieri, se un membro del cda dell’Enel fosse stato raggiunto da un avviso di garanzia e poi rinviato a giudizio, si sarebbe dovuto dimettere subito dalla società.. Ebbene ieri l’assemblea, quasi al 100 per cento, approvava l’allentamento della norma: non basta il semplice rinvio a giudizio, ma è necessaria almeno una condanna in primo grado. Tutto bene quel che finisce bene dunque. Mica tanto. E così ritorniamo alle parrucche. Questa assurda clausola societaria non è stata introdotta ai tempi del fascismo, ma l’anno scorso dal ministro del Tesoro di Renzi. Gli uomini di Padoan, in rappresentanza appunto delle quote detenute in Enel, Eni, Finmeccanica e Terna, si erano presentati nella primavera del 2014 nelle assemblee delle società partecipate proponendo l’introduzione negli statuti della tagliola. Tutte le più importanti società avevano poi bocciato la proposta del Tesoro in assemblea. All’Enel ciò non avvenne, anche perché in quell’assemblea c’era rappresentato solo il 52% del capitale e il Tesoro da solo ne deteneva più del 30. L’enel fu l’unica dunque a diventare il fenomeno della legalità. La baggianata era talmente grande che i fondi internazionali, quelli che una certa pubblicistica avrebbe voluto a favore di questa norma statutaria, votarono in maggioranza contro alle volonta etiche del Tesoro. Chiunque abbia parlato con questi investitori sa che sono più preoccupati del funzionamento della giustizia italiana (che non nega un rinvio a giudizio a nessuno) che dell’onorabilità dei manager delle grandi società quotate. L’Enel peraltro ha poi applicato questa norma ad un suo consigliere rinviato a giudizio (Salvatore Mancuso) che con il nuovo statuto approvato ieri non avrebbe dovuto fare alcun passo indietro. Ora infatti serve come minimo una condanna. Qual è la morale di questa storia? Da parrucconi. Perché il tesoro del governo Renzi l’anno scorso fa il giustizialista con le sue partecipate (colpo che gli riesce solo all’Enel dove i fondi internazionali non riescono ad opporsi) e dopo solo un anno fa marcia indietro? Non che la norma fosse meno assurda nel 2014: da Scaroni, all’epoca all’Eni, ai grandi gestori dei fondi, tutti avevano spiegato la pericolosità della norma a Renzi&co. Eppure gli uomini di Padoan continuarono per la loro strada, per poi cambiarla, alzando la manina in assemblea, un paio di giorni fa. Ritornando al principio. Viene da pensare che il Tesoro nel 2014 si sia comportato come la Commissione Bindi (quella che si dovrebbe occupare di mafia) si comporta oggi. La stessa commissione che dalla parti di Renzi oggi viene così fortemente criticata. E vai con il cambio di parrucche. Olè.

Il rapporto che fa tremare Angela Merkel: anche i tedeschi imbrogliano l'Europa, scrive Libero Quotidiano”. Non siamo i soli nella lista dei Paesi europei in cui si è registrato e perseguito il maggior numero di frodi a danno dei fondi europei. Con noi ci sono anche Bulgaria, Spagna, Belgio e, sorpresa, la Germania. E' quanto emerge dall'ultimo rapporto dell'Ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf) presentato a Bruxelles, dal direttore, Giovanni Kessler. "Nel 2014 - si legge nel rapporto - si sono raggiunti risultati eccellenti nella lotta contro le frodi nell'Unione: un anno record con il numero di raccomandazioni più alto, ben 1417, dalla sua creazione. L'Olaf avvia, in media, il 60% di indagini in più rispetto al 2012. Solo nel 2014 ha raccomandato alle autorità nazionali della Ue il recupero di ben 901 milioni di euro, fondi che dovrebbero essere progressivamente restituiti al bilancio europeo, contribuendo a finanziare altri progetti". Complimenti da Kessler alla nostra Guardia di Finanza: "La nostra struttura ha con la GdF una cooperazione eccellente, ormai tradizionale, che ha portato ottimi risultati. Un rapporto molto forte e proficuo che spiega anche i tanti casi di indagini. Con loro s'è stabilito un circolo virtuoso di scambi di informazioni che purtroppo non troviamo in altri Paesi". Dall'Italia sono arrivate 42 segnalazioni di frode. Ma l'Oscar delle truffe spetta alla Romania, con 79 casi. In classifica Bulgaria (59), Spagna (56), Belgio e Polonia (52), Germania (35), Slovacchia (12). In Estonia e in Svezia non è stata invece riscontrata alcuna irregolarità è stata riscontrata. 

"Me lo merito un Rolex?". Ancora: “Vado a vedere un po’ di Rolex per Antonia”. E tre: “Vuoi prendere il Daytona?” E quattro: “Ma un orologio, ti prego, prendilo tu”. E cinque: “Un Nautilus mi piace molto di più”. E sei: “Mamma mia che bello, segna le fasi lunari, il quadrante è blu, vero? Sono eccitato”. E sette: “Mi scoccia darle il Royal Oak (un Piguet ndr)”. L’amministratore delegato di Rolex non si affligga, ma il migliore testimonial della portabilità, dell’eccellenza e della qualità dell’investimento da polso si chiama Antonio Lollo, 46 anni, nato e residente a Latina, capelli lunghi, dall’aspetto ambivalente: preso da destra assomiglia al cantante Gianluca Grignani, solo un po’ più pienotto, da sinistra è goccia d’acqua di Marzullo, ma meno crepuscolare. Sportivo e perennemente coperto da una selezione di aromi profumati, scia chimica che avanzava prima di lui e segnava il suo passo. L’apparenza inganna però. Il dottor Lollo fino al 22 marzo scorso è stato giudice della sezione fallimentare del Tribunale di Latina. Uomo di diritto ma, come vedremo, soprattutto di rovescio. “Qua abbiamo mosso un milione di euro, tra un cazzo e un altro”. Tra un orologio e un altro, un braccialetto e un altro, un viaggetto e un altro, un fallimento e un altro, Lollo e il suo complice, il commercialista Marco Viola, hanno raccolto un po’ di quattrini. E hanno bisogno di spenderli: “A me frega solo dei soldi, e mia moglie è della partita. Non mi sento affatto sporco”. Le cronache nazionali si sono occupate con superbia di questo straordinario scandalo dell’agro pontino, concedendogli pochi onori. Invece hanno sbagliato. Nell’agro pontino il caso fatto giustamente registrare colonne umane alle edicole: “Abbiamo fatto un balzo nelle vendite”, comunica entusiasta il direttore di Latina Oggi. E infatti sembrano cronache marziane. Non già per la tipologia del reato commesso, ma per le personalità coinvolte e soprattutto per i dialoghi che registrano come al fondo non ci sia fondo. Mai. Il giudice arrestato, sua moglie arrestata, sua suocera, già capo di gabinetto della Questura e presidente provinciale del comitato Unicef (bambini di tutto il mondo, attenti al lupo!) arrestata. Deve giustificare la presenza di 360 mila euro in contanti nella cassetta di sicurezza. È stupefacente la narrazione che il giudice fa della sua opera di delinquenza. E l’atteggiamento ossessivo verso l’acquisto degli orologi. Lui si difende: “Pensi che se io avessi potuto mi andavo a comprare orologi?”. Parla col complice e spiega che proprio non sa cosa combinare con i soldi che acchiappa, imbosca, inguatta. Ha già la proprietà di case e auto e non può derogare oltre nel codice etico. Quindi: orologi! Bisogna arraffare presto e bene. Lui è il capobanda: “Il leader è il leader, la responsabilità è mia… loro devono fa quel che dico io… con i colleghi me la vedo io”. Il giudice si fa gangster e la legge diviene trappola per topi, il tribunale luogo dove si scuciono soldi e si scuoiano anime. Un trattato perfetto di antropologia criminale, un mix di gangsterismo di provincia, un unico sacro fuoco: li sordi!. “Ho rischiato il culo fino a mò, che faccio me ne vado mò che devo raccoglie? Rischio fino alla fine, no?”. Lollo intuiva di essere pedinato eppure insisteva nell’agire da malfattore. “Ta ta ta. E pagano!”. Commovente il colloquio tra moglie e marito. Lei: “Va bene così, fatti dà dodicimila euro e basta, su! Non insiste, te rifai dopo”. Lui ascolta e decide di accogliere per il caso in esame, piuttosto modesto nella sua entità economica, il consiglio alla prudenza: solo dodicimila euro questa volta. Una tangentuzza piccola così. Cosa avesse in testa questo giudice imbizzarrito sarà materia da psicologi del crimine e anche tema di riflessione del Csm che purtroppo però non si occuperà del caso perchè l’arrestato ha deciso di dimettersi dalla magistratura. Certo lui è un dandy. Ama la bella, anzi bellissima vita. I viaggi. “Volevamo andare a maggio a Londra, a giugno c’ho New York, a settembre Sardegna”. E ama soprattutto gli orologi: i poliziotti lo pedinano fino a Roma, in via Cavour dove abitualmente si approvvigiona. Rastrella ogni brand d’altura, memore che un Rolex vale nel tempo “è moneta contante”. Può stare al polso o in una cassetta di sicurezza. Chiuso e nascosto o lucente ed esibito. Vale soldi, non perde peso. Si distingue tra gli altri. E conserva intatto il suo augusto segno di ricchezza. Certo, all’uomo poi viene di fare “un tetris con orecchini e anello, o coi rubini. Mi piacerebbe l’idea di un anello, di un diamante. E bracciali”. Oro che luccica per la sua amata consorte. Del resto, “mica ci siamo comprati la villa all’Eur?”. Già, si sono tenuti bassi. Questi soldi sono frutto dell’ingegno, raccolti tra i fallimenti delle società che questa crisi ha fatto lievitare. Quindi solo orologi, meravigliosi orologi. Con le fasi lunari e senza, col quadrante blu o bianco, tondi o rettangolari. “Me lo merito un Rolex?”. da: Il Fatto Quotidiano 13 maggio 2015.

Altri giudici sapevano del sistema di tangenti messo in piedi da Antonio Lollo nella sezione fallimentare del Tribunale di Latina. A confermarlo lo stesso ex magistrato durante uno dei tre interrogatori ai quali è stato sottoposto durante la sua detenzione tra il carcere romano di Rebibbia e l’Ospedale Pertini. Lollo avrebbe vuotato il sacco e fatto nomi e cognomi. Ma i verbali sono pieni di omissis e come al solito nient’altro è trapelato né dagli inquirenti né dalla difesa. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi!

Pino Maniaci: “Vi spiego la mafia dell’antimafia….”, scrive Laura Bercioux per "Il sud online" il 28 maggio 2015. Laura Bercioux, conduttrice e giornalista, si occupa di cronaca, di ambiente con un occhio speciale al sociale e allo spettacolo. Ha collaborato con Telenorba, Stream Tele+Inn, Rai Tre, Rai Uno. Ha lavorato a reportage televisivi per Rai Uno in "Ladri di Vento"- Petrolio, inviata per la trasmissione di inchiesta di Telenorba "Patto per Il Sud", ha condotto la trasmissione tv sociale per Telelibera 63 "SoS Campania", ha condotto per Rai Tre con Fernando Balestra e Tosca D'Aquino "Cocktail" e "Strano ma falso" di Fabrizio Mangoni, Francesco Durante. Collabora anche per La Voce di New York. Nella Giornata della Legalità, l’inchiesta di Pino Maniaci, giornalista siciliano di Tele Jato sui patrimoni sequestrati e gli amministratori giudiziari, rimbalza sulle cronache dei giornali. Noi avevamo già intervistato Maniaci sulla “Mafia dell’Antimafia” come lui stesso definisce gli scandali della gestione dei beni sequestrati. Dove indaga Pino? Pino Maniaci porta alla luce il malaffare della gestione dei beni sequestrati (a Palermo sono gestiti quasi il 50% dei beni sequestrati in tutta Italia): società, aziende, terreni, capitali immensi affidati a un pugno di prescelti amministratori giudiziari, in barba ai 4000 iscritti all’albo che puntualmente si vedono esclusi perché i 20 fortunati, e spesso in conflitto di interesse, hanno un’esclusiva fuori legge. Come succede a Seminara Cappellano, amministratore giudiziario di beni sequestrati, che acquista quote azionarie dei beni di Massimo Ciancimino in Romania o, da gestore di albero gestisce alberghi sequestrati. Maniaci descrive la storia nei dettagli, Seminara è sotto processo ma continua a gestire questi beni. L’inchiesta giornalistica parte da un bene sequestrato che è affidato da 7 anni dal Tribunale Sezione di Prevenzione sui patrimoni sequestrati, secondo la legge Pio La Torre. Il sequestro deve stabilire se la provenienza degli affari è illecita o meno, ci vogliono 3 anni di giudizio e troppi per capire se il proprietario dei beni ha a che fare con la mafia. Maniaci è sotto protezione dal 2008 per le sue inchieste e dichiara, qualche giorno fa, a resapublica.it: “Ci sono casi di beni con anche 16 anni di amministrazione giudiziaria. I danni che gli amministratori procurano al bene che amministrano a volte sono devastanti e i loro compensi milionari. L’avvocato Cappellano Seminara, in un solo incarico ha guadagnato 7 Milioni di euro”. La mafia dell’antimafia, dunque, scatena polemiche dopo il sevizio andato in onda alle Iene e,  distanza di tre giorni dal servizio televisivo, i servizi segreti  avvertono che la d.ssa Saguto è “a rischio attentato per la sua attività”. Ci sono troppi dubbi e punti di domanda, sentite cosa dichiara Pino Maniaci a resapubblica.it: “Uno dei casi più eclatanti è quello del patrimonio dei Rappa sottoposto a sequestro. Il patrimonio era stato sequestrato a Ciccio Rappa, ma da allora a adesso sono trascorsi decenni e ancora non si sa se e quale parte dell’immenso patrimonio che si stima in 800 milioni di euro, sia da confiscare. Nel frattempo, scopriamo che la d.ssa Saguto ha nominato amministratore giudiziario un giovane avvocato, Walter Virga, che è figlio di Vincenzo Virga, giudice componente del Csm”. Pino parla di un giro devastante di comportamenti al limite della legalità negli affidamenti o deontologicamente poco corretti. “Finora non è arrivata nessuna querela da parte di nessuno – racconta Maniaci -, nonostante le gravi accuse alla Saguto e al marito che lavora nello studio dell’avvocato Cappellano Seminara, cioè l’amministratore giudiziario che amministra un numero considerevole di beni posti sotto sequestro. Al Csm c’era una richiesta di un provvedimento disciplinare nei confronti della Saguto, riguardo proprio alle procedure di nomina dell’amministratore giudiziario di una discarica in Romania, che appartiene al patrimonio di Massimo Ciancimino, e affidata al solito Cappellano Seminara. Ma il giudice Vincenzo Virga, componente del Csm e responsabile dei provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati, archivia la richiesta e 15 giorni dopo il figlio diventata amministratore giudiziario dell’impero dei Rappa. A me pare un comportamento deontologicamente poco corretto”. La d.ssa Saguto è adesso nel mirino della ritorsione mafiosa e Pino manifesta la sua solidarietà ma anche le sue perplessità per una nota dei servizi pubblicata 3 giorni dopo il servizio delle Iene. “A me – dice Maniaci – l’accostamento tra la Saguto e Falcone sembra deprecabile. Noi puntiamo il dito sulle attività della sezione misure di Prevenzione del Tribunale diretto dalla Saguto da un pò di tempo ma nessuno ci ha mai querelato, mi chiedo perché. Ci sono tantissime associazioni che hanno scoperto l’antimafia per guadagnare e fare soldi, e l’antimafia dovrebbe fare parecchia introspezione dentro se stessa. Io posso dire che l’emittente Telejato rischia sempre di chiudere per mancanza di fondi. La nostra antimafia è gratis. Io vado in giro per l’Italia senza prendere un euro. Anzi, io non faccio antimafia. Io considero un errore avere istituzionalizzato l’antimafia. Con il Capo dello Stato antimafia, il Presidente del Senato antimafia, il politico antimafia. A me da fastidio questa distinzione, perché l’antimafia e il rispetto della legalità dovrebbero essere nel cuore di ogni cittadino onesto. A volte la legalità è usata a proprio uso e consumo. Noi facciamo un lavoro giornalistico. Denunciamo l’illegalità secondo la lezione di Pippo Fava. Una buona informazione incide, corregge diventa determinante per un territorio. Diventa punto di riferimento per chi non ha voce. Senza infingimenti politici e distinzioni tra destra e sinistra. La merda può essere a destra ma a sinistra non si scherza nemmeno e va pestata tutta”. Maniaci non si arrende e continua a battagliare, a raccontare, i magistrati gli sono accanto e dice “C’è una sottoscrizione su change.org, che ha già raggiunto 40.000 firme. Abbiamo chiesto al Csm di essere ascoltati in merito ai comportamenti deontologici della d.ssa Saguto ma nessuno vuole ascoltare e nessuno ci querela. Quello che noi abbiamo detto è soggetto a un grave reato, vilipendio a corpo dello Stato. É previsto anche l’arresto immediato per questo. Ma io sono ancora a piede libero. Io sono stato ascoltato dai magistrati di Caltanissetta, perché c’è una loro inchiesta sulle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che non ha ancora prodotto risultati. Mi chiedo che fine abbia fatto quell’inchiesta”. Nella Giornata di Falcone, se ne parla tra i colleghi, fuori dall’Aula Bunker di questa brutta storia, sembra che una certa “antimafia” si beffi di quei morti, di quelle persone che, per combatterla ci hanno rimesso la vita. Intervista a Fabio Nuccio – Giornalista Mediaset.

Anche se sembra non siamo un popolo di disonesti. Facciamo di tutto per dimostrare di essere i peggiori, ma in altri Paesi la corruzione non è inferiore a quella presente da noi, scrive Piero Ostellino su "Il Giornale". Siamo il popolo più disonesto al mondo? Certamente non lo siamo, anche se – a giudicare dalle cronache quotidiane - facciamo di tutto per dimostrarlo. In altri Paesi la corruzione non è inferiore a quella presente da noi. Ma è, come si suol dire, il contesto quello che, da noi, conta, cioè il ruolo che la politica svolge anche nel campo dell'economia e delle transazioni di mercato. Il fatto è che, da noi, l'intermediazione politica occupa un posto di preminenza rispetto a quello che altrove occupa il mercato. E dove la politica ha a che fare con i soldi è pressoché inevitabile che qualcuno ne approfitti, perché la politica non va tanto per il sottile quando si tratta di conquistare consenso e il consenso è spesso strettamente associato ai quattrini di cui si può disporre. La regola politica è questa. Più quattrini hai da spendere, maggiore è il consenso che puoi ottenere. Se, poi, i quattrini non sono neppure i tuoi, ma di coloro i quali li usano e li spendono in funzione dei loro interessi politici, allora, l'equazione «politica e quattrini uguale corruzione» funzionerà alla perfezione. Le cronache parlano molto degli scandali collegati a tale uso dei quattrini, peraltro senza spiegarne le ragioni, ma non è un problema che preoccupi il mondo della politica perché in gioco non è l'onestà personale dei politici, che non interessa nessuno, ma la natura strutturale del nostro sistema. Non abbiamo la classe politica più corrotta al mondo; abbiamo solo la classe politica più esposta alle tentazioni. E, come è noto, sono le occasioni che fanno l'uomo ladro. Come ho detto, quando l'intermediazione politica prevale sulle logiche del mercato e che qualcuno, sul versante politico, ne approfitti è nella logica delle cose. Questa è anche la ragione per la quale tutti i governi che si sono ripromessi di riformare il Paese e i suo sistema politico non ce l'hanno fatta. Non ce l'ha fatta Berlusconi; non ce la fa Renzi malgrado predichi ogni giorno l'intenzione di cambiare l'Italia. Da mesi andavo scrivendo che l'immigrazione si era trasformata nell'«industria dell'immigrazione» in quanto l'arrivo di migliaia di immigrati era diventata l'occasione, per la politica, di utilizzare i quattrini stanziati per l'accoglienza dei nuovi arrivati a proprio esclusivo beneficio e delle proprie organizzazioni sociali. Sembrava una mia fissazione. Invece, gli scandali scoppiati in successione ai margini del fenomeno hanno confermato che non si è ancora regolamentata l'immigrazione perché non conviene a chi ci fa sopra dei guadagni più o meno leciti. Lasciamo perdere gli scafisti – che sono dei veri e propri criminali – e chiediamoci se la solidarietà di certi ambienti cattolici e di sinistra non sia pelosa: gli immigrati sono manodopera a basso costo che le cooperative che prosperano attorno al mondo cattolico e della sinistra hanno finora utilizzato impedendo qualsiasi tentativo di regolamentarne l'arrivo. È perfettamente inutile approvare marchingegni burocratici che dovrebbero impedire la suddetta speculazione. Prima o poi diventano essi stessi occasione di corruzione perché dove è possibile evitare monitoraggi e controlli è pressoché certo che la politica troverà il modo di eluderli. Finora è quello che è accaduto ed è probabile che l'andazzo non cambi. Potrebbe esserci qualche speranza di cambiamento se i media facessero il loro mestiere di cani da guardia del potere politico e, perché no, anche di quello economico. Se la proprietà, o il controllo, dei media serve da moneta di scambio con la politica per goderne del sostegno, è evidente che la politica prevarrà sempre a dispetto delle migliori intenzioni perché eludere monitoraggi e controlli conviene a troppa gente. Non è col moralismo a basso prezzo che si moralizza il Paese, bensì con riforme che ne mutino radicalmente la struttura, eliminando l'eccesso di intermediazione politica. Ma toglietevi dalla testa che Renzi le faccia. Continuerà a prometterle, senza farle. La furba retorica del presidente del Consiglio ha incominciato a deludere gli italiani, anche quelli che gli credevano, e il consenso di cui ha goduto sta calando. C'è anche un'altra regola che presiede a quest'ultimo fenomeno: non si possono imbrogliare tutti e sempre.

Chi è Giuseppe Pignatone, l'uomo che ha scoperto Mafia Capitale. "Scopritore di nuove mafie", il procuratore capo di Roma è conosciuto come un "mastino gentile". Sue le principali inchieste di lotta a mafia e 'ndrangheta, scrive Claudia Daconto su “Panorama”. Lo chiamano lo "scopritore di nuove mafie". L'ultima è quella "Capitale". Giuseppe Pignatone, siciliano, classe 1949, in meno di 3 anni ha dato una scossa al “porto delle nebbie”, come venivano chiamati gli uffici giudiziari della Procura di Roma fino al momento del suo arrivo, e svelato la presenza di un “mondo di mezzo” in affari con uno “di sopra” per conto di quello “di sotto”. Quando nel 2012 sbarcò a Roma da procuratore capo, sindaco era ancora Gianni Alemanno. L'accoglienza fu calorosa: “con lui – disse l'ex sindaco - la Capitale potrà giovarsi di un magistrato di indiscussa competenza che grazie alla sua lunga esperienza nella lotta contro la criminalità organizzata rappresenta un segnale importante per la sfida che questa città è chiamata a vincere per la sicurezza dei suoi cittadini”. Sentendosi chiamato in causa, Massimo Carminati non riuscì a nascondere la sua preoccupazione: “ha già buttato all'aria la Calabria, butterà all'aria anche Roma”. Magari “Cecato”, come viene soprannominato l'ex Nar della Banda della Magliana e presunto capo di "Mafia Capitale", ma con la vista lunga. Due anni dopo infatti, era il 4 dicembre scorso, i nomi di Alemanno e dello stesso Carminati finiranno nell'elenco degli arrestati e indagati per associazione mafiosa e altri innumerevoli reati insieme a quello del ras della cooperazione sociale capitolina Salvatore Buzzi e di decine di dirigenti pubblici, segretarie, ex amministratori delegati di municipalizzate, assessori, consiglieri, portaborse, faccendieri, intermediari, passacarte, palazzinari, esponenti politici di centrodestra e centrosinistra tutti membri di diritto del grande partito del malaffare che per anni ha governato Roma arricchendosi sulle spalle dei cittadini e sulla pelle dei più deboli tra i deboli: gli immigrati. Entrato in magistratura già nel 1974, Giuseppe Pignatone è tra i più esperti di lotta alla mafia senza aver mai voluto essere anche un professionista dell'antimafia. Schivo, riservato, allergico alla mondanità, la ribalta se l'è conquistata sempre e solo attraverso le sue inchieste. Dopo Caltanissetta e Palermo, dal 2008 al 2012 Pignatone è a Reggio Calabria. Poi Roma. Nel capoluogo siciliano collabora con Pietro Grasso, allora procuratore capo e poi procuratore nazionale antimafia. Qui fa condannare numerosi capi e gregari dei clan; segue l'indagine sulla Strage di Capaci che porterà all'arresto di Totò Riina, coordina quella su Bernardo Provenzano; fa incriminare, negli anni '80, l'ex sindaco Vito Ciancimino, poi condannato per mafia e firma l'inchiesta che porterà alla condanna a 7 anni per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra dell'ex presidente della regione Totò Cuffaro. In Calabria ha dato talmente fastidio che il 3 gennaio del 2010 l'Ndrangheta gli ha fatto esplodere una bombola a gas collegata a un panetto di tritolo proprio davanti all'ingresso della Procura di Reggio Calabria. Anche lì, come poi nella Capitale, aveva trovato una situazione di immobilismo quasi totale. Poi, a costo di minacce, intimidazioni, proiettili, bazooka, è riuscito a fare luce sul nuovo volto e il modo di operare di una delle organizzazioni criminali più potenti, ricche e armate del mondo. Un'holding con sede centrale nel cuore della Calabria alla quale rispondono le numerosissime succursali sparse nel Nord Italia, in Germania, svizzera, Canada e fino in Australia svelata dalla famosa inchiesta “Crimine”, condotta insieme alla Procura di Milano e che ha portato all'arresto di oltre 300 persone. Rigorosissimo nella costruzione del quadro accusatorio, pignolo nella ricerca delle prove, Pignatone è un mastino gentile. Nessuno è più distante di lui dall'immagine dello “sceriffo” solo al comando. Gli piace e ritiene più proficuo lavorare in team. Nella sua squadra romana ci sono magistrati, investigatori, poliziotti, carabinieri e finanzieri che lo hanno affiancato anche in passato: da Michele Prestipino (suo braccio destro a Palermo) a Sara Ombra (sua l'inchiesta calabrese sull'ex governatore Giuseppe Scopelliti), da Renato Cortese (ex capo della mobile di Reggio, poi di quella romana, oggi capo dello Sco e già membro del gruppo che ha acciuffato Provenzano) a Stefano Russo (capo dei Ros di Reggio Calabria e poi del Lazio). Poche ore prima che il mondo intero sapesse che secondo la Procura di Roma a Roma c'è la mafia e che da anni i politici di ogni schieramento ci fanno affari insieme per farsi eleggere nelle amministrazioni e poi ripagare il favore con gli appalti del verde, dei rifiuti, delle strade, degli immigrati, Pignatone lo anticipò, tra le righe, al Pd riunito al Teatro Quirino per una conferenza programmatica alla quale era stato invitato. Non disse, ovviamente, che a breve la città sarebbe stata travolta da uno scandalo che avrebbe avuto risalto planetario e che metà del partito di cui era ospite quel giorno sarebbe stato spazzato via, ma descrisse così la situazione della criminalità in città. E quando la notizia piombò come un macigno, lui preferì frenare l'enfasi: “Mafia Capitale non è la Cupola di Roma”. Piuttosto continuò a lavorare. E infatti, come lui stesso aveva annunciato, “nuove operazioni” sono arrivate e ieri altri 44 sono finiti in carcere. Sbagliato però pensare che Pignatone sia un “manettaro”: piuttosto che sbattere un innocente in galera preferisce lasciare un colpevole fuori. Nemmeno pensa che il compito dei magistrati sia altro che quello di fare le inchieste. “Io faccio processi, non scrivo articoli sui giornali”, ha ripetuto spesso. Il vero marziano a Roma è lui: Giuseppe Pignatone.

Mafia Capitale, i rapporti oscuri di Massimo Carminati con i servizi segreti. Anche nell'ordinanza che ha portato agli ultimi arresti, il giudice sottolinea i rapporti tra l'ex Nar e gli 007. Però poi l'affermazione non viene chiarita. E' un modo per non pregiudicare il ramo più delicato delle indagini? Scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Il lato oscuro di Mafia Capitale, quel capitolo di cui continua a comparire traccia nei documenti investigativi, ma che resta sommerso con il suo carico di mistero: il ruolo degli 007. Anche nell'ordinanza dei 44 arresti il giudice Flavia Costantini scrive: «Massimo Carminati mantiene rapporti con appartenenti e ai servizi segreti». Un'affermazione, non un'ipotesi. Che eppure poi non viene circostanziata nelle centinaia di pagine che compongono l'atto d'accusa sul gruppo che aveva preso il controllo di settori decisivi dell'amministrazione comunale e regionale. Un tema sollevato anche da Matteo Orfini, presidente del Pd e commissario del Partito a Roma: «È curioso che una persona come Carminati abbia potuto costruire un sistema criminale di tale entità. Nei prossimi giorni chiederò al Copasir di occuparsi di questa vicenda per capire come i servizi segreti non si siano accorti di cosa stesse facendo una persona a loro evidentemente nota». Di sicuro, l'attività di prevenzione non ha funzionato. E il provvedimento del giudice ripropone il sospetto che il mancato allarme non sia stato casuale. Già nello scorso ottobre, in occasione della prima retata, i magistrati avevano sottolineato l'esistenza di un legame tra agenti dell'intelligence e l'ex pistolero dei Nar. Ma nelle decine di relazioni investigative e nelle centinaia di conversazioni intercettate depositate dopo quegli arresti, l'affermazione non è mai approfondita. C'erano nomi di poliziotti che fornivano dritte sulle inchieste in corso o offrivano i loro favori a Carminati, senza esplicitare in cosa consistessero le relazioni pericolose con i servizi. Lo stesso procuratore capo Giuseppe Pignatone, interpellato dalla Commissione antimafia e dal Copasir, il comitato parlamentare di controllo sull'intelligence, aveva negato che questi rapporti fossero provati. «Agli atti c’è – ha detto a dicembre il procuratore – c’è una lunga conversazione tra Carminati e una persona non identificata con certezza in cui lui si abbandona ai ricordi, risalenti agli anni ’70 e ’80 e racconta di un viaggio in Libano, dove fu mandato da qualcuno dei Servizi a fare attività di vario tipo e natura. Però questa è una traccia insignificante. Poi, nelle conversazioni di altri, emerge la convinzione diffusa che lui mantenga questo tipo di contatti, ma non vi è nulla di più». Sono elementi sufficienti per indicare senza condizionali in un atto giudiziario «rapporti con i servizi segreti»? Oppure si è trattato di una smentita tattica per non pregiudicare il settore più delicato delle indagini? Tutta la biografia di Carminati è segnata da accuse clamorose sempre seguite da assoluzioni, vicende che spesso si intrecciano con le più oscure trame italiane: dal terrorismo neofascista dei Nar alle esecuzioni per conto della Magliana, dall'omicidio di Mino Pecorelli alla raid del caveau all'interno del palazzo di giustizia, fino alla frequentazione con figure chiave di Finmeccanica, il colosso statale degli armamenti più sofisticati. Eppure era riuscito sempre a uscirne a testa alta, costruendo indisturbato la sua rete di potere nella capitale tra ricatti, corruzioni e minacce. La malavita romana lucra sulla pelle dei più poveri, e gli ultimi arresti dimostrano quanto il sistema fosse capillare. Per fortuna c'è anche chi si ribella all'omertà che dilaga a Roma. Il nostro inviato spiega come si evolve l'inchiesta "Mondo di mezzo". A dicembre due ex poliziotti della Squadra Mobile, Gaetano Pascale e Piero Fierro, hanno dichiarato a SkyTg24 che nel 2003 le loro indagini sulla nuova mafia di Roma erano state insabbiate. E questo – hanno sostenuto – grazie alle coperture dei servizi vantate da Carminati e da un altro boss del litorale laziale. Senza che però emergessero riscontri alle loro parole.

Questa volta ha ragione il Pd. Loro sono diversi: sono peggio. Nonostante Roma sia diventata una "cloaca massima, il Partito democratico insiste nel riaffermare la propria diversità: "Non è vero che siamo tutti uguali". Almeno questa volta ha ragione: il Pd è peggio, scrive Salvatore Tramontano su "Il Giornale". Renzi doveva cambiare l'Italia, non ha cambiato nemmeno il suo partito. Mezzo Pd romano è coinvolto nello scandalo di Mafia capitale, ma per Orfini, presidente del Pd, la colpa è di Alemanno, Maroni e dei servizi segreti. Guerini, vice segretario del Pd, ritiene addirittura strampalate le richieste di dimissioni del sindaco: «Marino è considerato un nemico di chi vuole fare affari». Sarà strampalato, ma due settimane prima degli arresti di Salvatore Buzzi, Massimo Carminati & C., il capo della coop «29 giugno» replicava così ai collaboratori che parlavano delle richieste di dimissioni per il sindaco Marino, impelagato con la grana delle multe alla Panda rossa: «Ti dico una cosa - annotano gli uomini del Ros - lui (Marino) se resta sindaco altri tre anni e mezzo, con il mio amico capogruppo ci mangiamo Roma». Alla faccia di chi lo considera un nemico degli affaristi. Per Renzi, però, paladino a parole della legalità, il problema Marino non esiste. D'altra parte, come dimostra anche il caso Campania, meglio una poltrona in più che un impresentabile in meno. L'ordine, quindi, è blindare Marino, altrimenti addio sogni di gloria: ci penserebbero i romani a rottamare quel che resta dei Democratici. «Falso», urlano quelli del Pd. Dimenticate che a Roma abbiamo Zingaretti, il governatore della Regione Lazio. Forse sarebbe stato meglio dimenticarlo. Per evitare strumentalizzazioni, citiamo cosa ha scritto ieri Fiorenza Sarzanini su Il Corriere : «Un patto tra maggioranza e opposizione per spartirsi l'appalto più remunerativo della Regione Lazio, quello sul Recup, il centro unico di prenotazione. A siglarlo il consigliere del Pdl Luca Gramazio e Maurizio Venafro, il capo di gabinetto del governatore Nicola Zingaretti. Il giudice lo definisce un “accordo corruttivo” che ha consentito “all'organizzazione riconducibile a Salvatore Buzzi e Massimo Carminati di inserirsi, divenendo infine aggiudicataria del terzo lotto” in un affare da oltre 60 milioni». E dire che sei mesi fa Renzi aveva nominato Orfini commissario straordinario per ripulire Roma. Considerati i risultati, ha sbagliato mestiere: invece del commissario, Orfini avrebbe dovuto fare l'avvocato d'ufficio. Anche se la sua linea difensiva non brilla. Come si fa a dichiarare che: «Il Pd è il partito dell'antimafia» quando De Luca, il candidato del Pd appoggiato da Renzi, diventato governatore della Campania in barba alla legge Severino, denuncia il presidente della commissione Antimafia? Eppure, nonostante Roma sia diventata una «cloaca massima» (copywright Il manifesto ), il Partito democratico insiste nel riaffermare la propria diversità: «Non è vero che siamo tutti uguali».

Mafia Capitale: quello che la sinistra non vuole capire, scrive Giampaolo Rossi su “Il Giornale”. Ridurre lo scandalo di Mafia Capitale ad un derby tra destra e sinistra su chi ha rubato di più, è francamente patetico; chi lo fa non si rende conto che la posta in gioco non è un titolo sui giornali o un secchiello d’acqua al proprio mulino arrugginito. In gioco c’è ben altro: la tenuta di una democrazia, la legittimità della politica come funzione sovrana, il ruolo dei partiti come strumento fondante di partecipazione alla res publica. Per questo, di fronte ad alcune dichiarazioni di esponenti del Pd, sorge il dubbio che la sinistra italiana sia attraversata da un timor panico di fronte alla consapevolezza di non poter più rivendicare la sua presunta superiorità morale. Prendete per esempio Matteo Orfini, il commissario straordinario del Pd romano ed esponente di spicco del partito nazionale; lui, baldo giovane renziano, ex figgiciotto del Mamiani (il liceo romano dei fighetti radical-chic) ed ex dalemiano, tra una dichiarazione alla stampa ed una partita alla Playstation con Renzi, ha operato una medioevale reductio ad unum della complessità dello scandalo: Mafia Capitale è “Carminati con un banda di destra”. Sarà come dice lui ma se uno scorre l’elenco degli arrestati scopre che la maggioranza dei politici coinvolti sono del suo partito: il Presidente del consiglio comunale di Roma (del Pd), l’assessore alle Politiche Abitative della giunta Marino (del Pd), il presidente della Commissione Patrimonio di Roma (del Pd), il Presidente di uno dei più importanti Municipi di Roma (del Pd) e il capogruppo di Scelta Democratica partito che appoggia la giunta Marino; senza contare l’ex potentissimo vice-capo di Gabinetto di Veltroni già arrestato nel giro precedente e un coinvolgimento totale di quel sistema delle cooperative rosse da sempre fonte finanziaria, elettorale e spesso clientelare della sinistra italiana. Sono questi i componenti della “banda di destra” di cui parla Orfini? E non abbiamo dubbi che il sindaco di Roma Marino sia sincero quando dice di voler eliminare monopoli che esistono da decenni; ma in questi decenni, chi ha governato Roma? Tranne la breve, incolore ed inquietante esperienza della destra romana, ad occhio e croce diremmo la sinistra; ergo, quella “politica antica gravemente colpevole” che Marino si vanta di allontanare è quella dei suoi compagni? La sinistra vive sotto una costante forma di rimozione della realtà; non so se i suoi esponenti facciano uso di funghi allucinogeni, certò è che sembrano vivere in un universo psichedelico. Forse sarebbe utile abbandonare il tentativo di mostrarsi sempre migliori e provare a riflettere insieme sulla crisi della politica e delle regole democratiche; sull’inadeguatezza di una parte della classe politica, sulla fine dei partiti, sulla scomparsa delle leadership, sull’eccesso di malaffare che nasce sicuramente da anime sporche ma anche da un sistema sballato dove l’oppressione dello Stato (sotto forma di dittatura burocratica) favorisce le pratiche illegali, secondo quell’assioma che dai tempi di Tacito lega la corruzione all’eccesso di leggi (“Corruptissima re publica plurimae leges”). Allora, cari amici e compagni del Pd, aprite gli occhi: la narrazione degli “antropologicamente superiori” con cui vi hanno bevuto il cervello i vostri intellettuali, è una balla, meno vera di una striscia di fumetto. Siete come gli altri: tra voi albergano persone oneste e farabutti, persone capaci e imbecilli, persone responsabili e miseri intrallazzatori. La politica (e con essa la democrazia) non si aiuta alzando il dito medio, come fa Grillo, ma neppure con il solito indice puntato da maestrini, come fate voi. È ora che la classe politica capisca che la crisi di legittimità democratica dei partiti è un punto di non ritorno che uccide la partecipazione consente a poteri illegittimi di sostituirsi alla sovranità popolare; e questo non è un problema di destra o di sinistra.

Onestà non significa neanche mancanza di libertà. "Vietato esprimere opinioni autonome sui social": il regolamento del Partito comunista. Il decalogo del partito di Marco Rizzo per il comportamento (di iscritti e dirigenti) da seguire su Twitter e Facebook è un condensato di divieti e doveri: dalle bandiere ai tag, scrive Matteo Pucciarelli su "La Repubblica". Bastava la promessa per capire l'antifona: "La natura dei social network spinge oggettivamente all'individualismo e alle peggiori performance di protagonismo. Serve quindi regolamentare il loro uso, seguendo le ispirazioni della dottrina leninista dell'organizzazione". Il Partito Comunista di Marco Rizzo (famoso per l'esaltazione dello stalinismo e di esperienze di "socialismo" come la Corea del Nord) ha varato una sorta di decalogo per l'utilizzo di Facebook, Twitter e affini da parte dei propri dirigenti e militanti. Il risultato è una serie di divieti e compiti che ricorda il settarismo comunista dei tempi andati, anche se fuori tempo massimo: "È fatto assoluto divieto a ogni iscritto al partito (tanto più se dirigente) a fare considerazioni e analisi politiche generali autonome", è la prima regola, approvata dal Comitato centrale dell'organizzazione fondata dall'ex europarlamentare di Rifondazione prima e del Pdci poi. Poi: "È vietato taggare altri membri del partito sempre su questioni politiche, storiche, filosofiche e culturali". Dopo: "È fatto assoluto divieto ad usare bandiere o simboli del Partito nell'immagine del proprio account personale. Le bandiere ed i simboli del partito sono esclusivamente rappresentate negli account di partito ad ogni livello (da quello centrale sino a quello di cellula)". Per fortuna non esistono solo divieti, ai quali vanno aggiunti i doveri: "È invece auspicabile che i membri del partito e del comitato centrale promuovano, condividano e tagghino i post degli organi nazionali". Detto questo, "tutti gli account di partito (da quelli regionali a quelli della singola cellula) devono comunicare riservatamente alla direzione centrale (nella persona del coordinatore) la password". Al tutto va aggiunta una considerazione: "La pubblicazione di fotografie e filmati di manifestazioni del partito devono esser improntate alla massima efficacia propagandistica e consapevolezza politica dell'evento". E una minaccia: "Qualunque violazione verrà da ora in poi deferita alla CCCG", con quest'ultima parola che probabilmente significherà commissione di garanzia. Nel preambolo della lettera pubblicata sul sito nazionale del movimento, c'è scritto che "i pareri e le elaborazioni dei singoli compagni andranno ad arricchire la linea elaborata collettivamente". L'importante è non esprimerli, perlomeno via social...

Bufala capitale n. 2, retate, arresti e foto, scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Ecco il sequel: Mafia Capitale 2. In realtà l’inchiesta è la stessa, alcuni dei 44 nuovi provvedimenti cautelari sono notificati a soggetti già colpiti dal primo uragano, ed è il caso di Salvatore Buzzi. Ma questo secondo filone scoperto dalla Procura di Roma aggiunge al vecchio romanzo criminale qualche tratto nuovo. Resta il primo teorema: i consiglieri comunali ma anche regionali sono ordinariamente “in vendita”, pronti a concedere piaceri, a spianare appalti per la Coop regina, la 29 Giugno, e non solo. Secondo, che l’irresistibile e greve humor romanesco pervade ogni parola. Soprattutto quando i responsabili delle società, che gestiscono il business dei migranti come quello delle case popolari, si esprimono sui politici: trattati ora con disprezzo, altre volte con considerazione per la «serietà» e la «discrezione», in certi casi con rabbia. Gli inquirenti,e il gip di Roma Flavia Costantini che firma le ordinanze, ci mettono il carico da novanta, soprattutto per i personaggi più in vista. Il top della classifica spetta in questo senso a Luca Gramazio, consigliere regionale eletto con il Pdl dopo esserne stato capogruppo anche al Comune. Lui è tra i 19 che finiscono materialmente dietro le sbarre (ad altri 25 toccano i domiciliari, mentre la lista dei 48 indagati si completa con 4 nomi che non subiscono in questa tornata ulteriori provvedimenti restrittivi). Gramazio sarebbe l’uomo capace di mettere in comunicazione la rete di Carminati e Buzzi con le istituzioni. Tutte le istituzioni capitoline, evidentemente. Un’opera diplomatica condotta con una competenza non limitata a poche specializzazioni, dicono i pm. Secondo i quali l’esponente del centrodestra sarebbe persona di «straordinaria pericolosità». Gramazio è una delle icone di questa bufera, in effetti la più appariscente. Anche a lui vengono contestate l’associazione a delinquere di stampo mafioso, la corruzione e la turbativa d’asta. Altri reati che ricorrono nelle ordinanze eseguite ieri sono la turbativa d’asta, le false fatturazioni e il trasferimento fraudolento di valori, sempre con l’aggravante delle modalità mafiose. Ma se Gramazio è la star di questa seconda puntata, c’è un esempio ancora più calzante, per comprendere che considerazione avevano i capi delle coop dei loro interlocutori politici. Si tratta dell’ex presidente del Consiglio comunale Mirko Coratti, del Pd. Uno che insieme con il capo segreteria Franco Figurelli avrebbe ricevuto soprattutto una promessa, 150mila euro, in pratica un modesto anticipo, 10mila euro, e che soprattutto, secondo Buzzi, «non fa gioco di squadra». Da qui il soprannome: «Balotelli». Ecco, pare di vederlo, il ghigno irridente tipico della romanità un po’ triviale ma implacabile, geniale nel ritrarre le persone con un nomignolo. In tutto questo la mafia non c’è. Ma nessuno tra il procuratore aggiunto Michele Prestipino e i pm  Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca Tescaroli, si fa venire lo scrupolo di precisare che stavolta c’è sì tanta ”Capitale” ma di mafia davvero poca e collaterale. Peraltro resta ancora da capire quale fosse la tara mafiosa del troncone principale, quello che ripercorreva anche le gesta dell’eminenza grigia Massimo “ er cecato” Carminati. Qui si incrocia appena una conversazione telefonica tra l’instancabile Buzzi e un presunto ambasciatore della famiglia Mancuso, organizzazione ’ndranghetista. In ballo il sostegno alla campagna elettorale di Gianni Alemanno per le Europee di maggio 2014. Il capo della coop 29 Giugno dice a tale Giovanni Campennì: «Basta che non sia voto di scambio… tutto è legale… uno po’ votà gli amici?!». E quell’altro non si sottrae: «Va bene… allora… è qua la famiglia? La famiglia è grande… un voto gli si dà». E poi però, come fa notare lo stesso Alemanno, «nei due comuni controllati dalla famiglia Mancuso ho preso un numero ridicolo di preferenze». Più che mafia calabrese, una classica sòla romana. Però lo spettro del malaffare, della tangentopoli alla vaccinara, quello sì è amplissimo. Ci sono di mezzo pure le coop bianche, in particolare una piuttosto nota, ”La Cascina”, che si è vista arrivare ieri mattina i carabinieri per una perquisizione. Quattro manager dell’azienda sono stati arrestati: si tratta di Domenico Cammissa, Salvatore Menolascina, Carmelo Parabita e Francesco Ferrara. Solo quest’ultimo finisce in carcere, gli altri tre vanno ai domiciliari. Questo particolare segmento dell’inchiesta romana vede tornare in scena un altro nome forte della prima ondata, Luca Odevaine. Che avrebbe ricevuto anche lui una «promessa», così definita: «Una retribuzione di 10.000 euro mensili, aumentata a euro 20.000 mensili dopo l’aggiudicazione del bando di gara del 7 aprile 2014». La Cascina si occupa dell’accoglienza dei migranti. E si sarebbe messa d’accordo con le coop rosse di Salvatore Buzzi su una «gara per l’individuazione dei centri in cui accogliere 1278 migranti già presenti a Roma e altri 800 in arrivo». Odevaine però è tra quelli per i quali il gip non accoglie la nuova richiesta di custodia cautelare, per quanto l’ex vice capo di gabinetto di Walter Veltroni sia comunque, da 6 mesi, in carcere a Torino. La vicenda sciocca i politici e c’è da crederlo. In ore non semplici per il Pd Matteo Renzi reagisce con uno stentoreo «in galera chi ruba». L’altro Matteo, Salvini, chiede la testa di Marino, il quale si fa spalleggiare dall’assessore magistrato Sabella per ricordare che da quando c’è lui è tutto diverso. Matteo Orfini dice che è solo una «banda di destra». Copione prevedibile, e non troppo appassionante. Sempre colorite sono invece le conversazioni tra Buzzi e Carminati, di cui le ordinanze offrono nuovi estratti (in una l’ex Nar adombra vaghe ipotetiche minacce, del tipo che se i politici non rispettano «gli accordi» lui proromperebbe in un «ahò», seguito dall’ovvio «te ricordi da dove vengo?». Ma stavolta la telefonata del giorno è tra Buzzi e Figurelli, quello che stava nella segreteria del Coratti-Balotelli. Si parte sempre con un «ahò», seguito da un haiku: «Ma la sai la metafora? La mucca deve mangiare». Buzzi rafforza: di’ al tuo capo (sempre quello che «non fa squadra» finché Buzzi nun s’o compra) che «qui la mucca l’amo munta tanto». Quell’altro abbozza e media: «Ahò, ma questa metafora io gliela dico sempre al mio amico, mi dice: non mi rompere il cazzo perché se questa è la metafora lui ha già fatto, per cui non mi rompere». Tradotto: Buzzi, che sarebbe grossomodo la mucca, aveva già avuto appalti, favori e così via. Alla fine è una trattativa come tutte, è consisteva nel tentativo di Coratti, per interposto Figurelli, di pagare un prezzo non eccessivo per far assumere alla 29 Giugno una ragazza. In un’altra telefonata Buzzi si sperticherebbe in complimenti non proprio da galantuomo per una «fica da paura» che avrebbe preso in cooperativa. Secondo i pm è la stessa della telefonata precedente. Di sicuro sono gli stessi il linguaggio e le scene della prima volta.

Le immagini dei blitz firmate dai Ros, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Il copia e incolla i giornalisti ormai non lo fanno solo rispetto alle ordinanze dei pm. È nata una nuova moda. Anche le immagini vengono dalle procure e dalle questure. Gli arresti per mafia capitale sono stati fatti a uso e consumo dei media e per evitare che qualche giornalista avesse un guizzo di autonomia e facesse riprese non consentite, hanno filmato tutto loro, i Carabinieri Ros. Le immagini che accompagnano le notizie erano rimaste, fino a qualche mese fa, l’ultimo baluardo in difesa dell’autonomia dei giornalisti. Sì, è vero quando ci sono rinvii a giudizio o ancora meglio arresti, gli articoli sono il copia e incolla delle ordinanze. Da tempo immemorabile ormai il lavoro dei giornalisti è diventato quello di riportare ciò che dicono i magistrati: gli operatori dell’informazione si sono dimenticati che il giornalismo nasce come contropotere non solo della politica e degli affari, ma anche delle procure e dei tribunali. Ma anche se la situazione era tragica, si poteva sperare in una rinascita legata alle immagini che coraggiosi videomaker andavano a fare sul luogo del “delitto”. Adesso anche questa piccola luce, questa flebile speranza si è dissolta. Non so se lo avete notato, ma adesso anche le immagini vengono “passate” direttamente dalla procura. Non sono fatte dai cameraman di Rai, Mediaset o La7 ma direttamente dai carabinieri o dalla polizia che compiono gli arresti per poi distribuirle insieme alle ordinanze. Copia e incolla anche per le immagini. Non vogliamo essere a tutti i costi innocentisti o garantisti. È invece una questione di metodo. Le accuse, non solo non sono una condanna come dice la Costituzione, ma vanno sempre verificate… andrebbero sempre verificate facendo un lavoro di inchiesta autonomo da quello dei pm e delle forze dell’ordine. Invece, anche nel caso di mafia capitale, tutto ciò che esce dalla Procura viene considerato oro colato, a tal punto da essere riportato senza nessuna distinzione o considerazione autonoma. Ora si è aggiunto un nuovo tassello. Gli arresti vengono fatti in diretta tv, filmati da coloro che dovrebbero avere un altro ruolo. Non è un passaggio qualsiasi. E un ulteriore deterioramento del ruolo che dovrebbe svolgere l’informazione. Ma non solo. In primo luogo testimoniano la gestione spettacolare di un’inchiesta, la cui valenza stabiliranno i diversi gradi di giudizio, ma che indubbiamente è stata condotta in modo da fare breccia nei media. In questi anni è stato usato dalle procure ogni mezzo: intercettazioni sbattute in prima pagina, vite private rovinate, avvisi di garanzia che arrivano prima ai giornali che ai diretti interessati. L’aggiunta delle immagini che sfociano direttamente da procure e forze dell’ordine incrina ancora di più la nostra capacità di comprensione. L’immagine gode di uno status di oggettività. Pur essendo un punto di vista sulla realtà ha un’immediatezza che tende a confondersi con la “verità”. Ho visto quindi è. Per questa ragione il lavoro sulle immagini è simile alle intercettazioni: lasciano poco spazio al dubbio, alla verifica, alla possibilitàdi ricostruire il contesto. Ma finché erano immagini che nascevano da un occhio terzo, quello dell’operatore dell’informazione, si creava un’alterità che dava la possibilità di ragionare, di usare il senso critico, di non fermarsi a una sola versione. Questo lavoro, che è non il succo del garantismo ma del giornalismo, sta diventando sempre più difficile, complicato per chi lo fa e per chi legge, sente o vede le notizie. Ieri le immagini degli arresti che avete visto non godevano di questa alterità, non provavano minimamente a essere un occhio terzo tra chi arresta e chi viene arrestato. È vero che negli ultimi anni l’uso delle immagini è diventato sempre più descrittivo rispetto al testo della voce fuori campo. Non un’aggiunta, non uno strumento in più, ma quasi una sorta di sottofondo privo di vita propria. Oggi è peggio. Anche quel poco di autonomia è perduta: ci dobbiamo accontentare delle immagini con sopra il timbro Carabinieri-Ros.

Coltello e tangente, la lingua della suburra. Dalle minacce alle battute sessiste, il romanesco criminale dei signori dell'arraffo. Nella intercettazioni diventano protagonisti tangenti, appalti e volgarità. E il rispetto che si deve a chi manovra denaro, scrive Francesco Merlo su “La Repubblica”. Non bastano le manette. Roma, "'a mucca che amo munto tanto", va espugnata e affidata allo Stato, come Berlino e come Washington. Ci vuole una legge speciale che dia a Palazzo Chigi i pieni poteri sul cuore della capitale, nel territorio dentro le mura aureliane per esempio, come Berlino appunto che è Stato nell'ansa della Sprea, dalla Porta di Brandeburgo alla Siegessäule, e come Washington, tra il Lincoln Memorial e il Congresso. Tocca insomma al governo strappare Roma non solo ai Carminati, ai Buzzi agli Odevaine, alle cooperative rosse come la "29 giugno" e a quelle simoniache di Cl che si chiamano piamente Cascina e Domus Caritatis, ma anche ai Consigli comunali che "devono stare ai nostri ordini perché li pago e vaffanculo ", e alle Giunte che sono "la mucca che se non mangia non può essere munta". Da decenni queste istituzioni di Roma sono corrotte o inadeguate, con i sindaci complici o ignavi: "Se Marino resta sindaco altri tre anni e mezzo, col mio amico capogruppo ce magnamo Roma". Il presidente del Consiglio come il papa re, dunque. Solo un'amministrazione statale, infatti, può ridimensionare, nella città-universo ormai degradata a suburra, i capibastone e i sovrastanti che marcano il territorio come il consigliere comunale Giordano Tredicine, che è stato arrestato ieri: "Se non t'arrestano  -  gli dice Buzzi  -  tu diventi primo ministro". E quello: "Perché? Me possono arresta'? ". E Buzzi ridendo: "Li mortacci tua, se te possono arrestà!". Fumantino e minaccioso Giordano Tredicine ha infatti portato nelle istituzioni la selvaggia illegalità degli ambulanti sparsi per Roma, il pittoresco delle roulotte che vendono cibo, con il loro minestrone di esseri umani: pakistani e armeni, cingalesi e tailandesi e filippini, tutti sotto il controllo di una sola grande famiglia, appunto. Dice di lui Carminati: "Quello viene dalla strada! Lui è serio, e poi è uno che è poco chiacchierato, nonostante faccia un milione di impicci ". Ed è degradato a mafia anche il tradizionale romanesco criminale di "Er più" che era un capo brigante, ma non un padrino. Il linguaggio d'amore e di coltello che Dumas racconta nel Conte di Montecristo diventa infatti linguaggio di appalto e di tangente con "zozzo e zozzone" al posto di "cornuto e sbirro". Mentre "l'elenco della mangiatoia" sostituisce "gli amici degli amici". E "o li cacci o li compri" a proposito dei consiglieri comunali è quel che dice don Mariano Arena a proposito dei carabinieri. La mucca poi è un'ossessione perché è la cresta, il pizzo, la ricotta, è keynesismo mafioso: "la mucca se non mangia non può essere munta", "se la vuoi mungere gli devi dare da magnà", e "quanto l'amo munta", "la mucca in tre mesi deve magnà...". Come si vede, più che una metafora è un'equazione, è il saggio di profitto, non l'arraffo bruto ma un arraffo che è già impresa. Qui è degradato a popolo di mafia anche il popolo dei quartieri. È stato per esempio arrestato Luca Gramazio che, secondo l'accusa, con una mano dà alla mafia quello che con l'altra prende dalla politica istituzionale "perché  -  dice Buzzi  -  una mano lava l'altra e tutte e due lavano il viso". E questa sarebbe una frase perfetta anche in bocca al padrino di Corleone. Buzzi racconta che "Gramazio ha dato un milione di euro al comune di Ostia... per il verde. E ora il verde ce deve tornà tutto a noi". E infatti "il presidente del Municipio, che io c'ero andato a parlà, sta facendo gli atti per darceli tutti a noi". Anche Luca Gramazio appartiene, come Tredicine, ai cani di razza che fiutano gli umori grassi del territorio romano. È figlio di Domenico Gramazio detto "er pinguino" che nel Msi era il popolano un po' goffo e intransigente, una specie di comparsa del Rugantino, un fascista sociale di quelli moralisti e spaccamondo che prendevano tantissimi voti. Partecipò al famoso lancio delle monetine contro Craxi davanti all'hotel Raphael, gridava "ladri ladri" al tempo di Tangentopoli, mostrava le manette in Parlamento. Ecco: la legge del contrappasso ha saltato una generazione. Papà Gramazio non è indagato anche se, si racconta nell'ordinanza, "andava con il figlio a trovate Carminati, er cecato". Chi ha trascritto le intercettazioni nota che il nome Carminati "viene pronunziato, per precauzione, a bassa voce", proprio come accade nella mafia siciliana con i nomi degli uomini d'onore, della gente di rispetto: Totò Contorno persino arrossiva quando, d'un fiato, diceva "don Masino". Ed è "il rispetto" che Carminati pretende dai consiglieri comunali, "quei pezzi di merda" che "non vogliono obbedire" anche se, dice Buzzi, "io li pago e dunque vaffanculo ". Ma cos'è il rispetto secondo Buzzi e Carminati? "Se tu non rispetti gli accordi, tu lo sai chi sò io. Te ricordi da dove vengo". Ed è la fedina penale che qui viene esibita come stemma nobiliare, cicatrici non di guerra ma di malavita che affascinano Gramazio junior a conferma che la destra missina, che pure aveva in testa un progetto di società e nel cuore sentimenti e ideali, a Roma è diventata mafia. Roba da far inorridire la buonanima di Almirante, che diceva: "Se qualcuno ruba va in carcere, ma se ruba uno dei nostri bisogna dargli l'ergastolo". E Teodoro Buontempo, er pecora, cercava un riscatto nell'educazione dei figli: dormiva in una Cinquecento ma li mandava a studiare nelle università inglesi. È un piccolo mondo antico che l'inchiesta Mafia Capitale archivia per sempre. In questo copione, Gianni Alemanno, pugliese sedotto dalla romanità, che posava a ideologo della destra sociale, è il primo responsabile politico del sistema criminale, una sorta di Ciancimino de Roma. Ma non è con le mille assunzioni clientelari che Alemanno ha seppellito il mondo dei camerati missini. No, l'ex sindaco era arrivato a chiedere all'organizzazione mafiosa un aiuto elettorale per le europee. E Buzzi si era rivolto alla 'ndrangheta perché, come abbiamo già sentito, "una mano lava l'altra e tutte e due lavano il viso". Gli chiede Alemanno: "Devo fare delle telefonate? Devo fare qualcosa?". E Buzzi: "No, no, no, tranquillo, tranquillo. Ora manderemo a... Milardi l'elenco di persone, nostri amici del sud, che stanno al sud, che ti possono dare una mano cò parecchi voti". Davvero solo una legge speciale e d'emergenza può riportare la criminalità romana a un livello fisiologico e costringere a rifugiarsi nei loro covi i pregiudicati e gli insospettabili come Luca Odevaine, quello  -  ricordate?  -  che si chiamava Odovaine e cambiò nome per non farsi riconoscere, l'ex capo di gabinetto di Veltroni formatosi in Legambiente. Dalla mafia romana percepiva uno stipendio di 20.000 euro mensili, regolarmente registrato nella contabilità da sottosuolo che la segretaria di Buzzi appuntava sul libro nero. Lo stesso Carminati, notando la copertina nera, disse: "Mamma mia, mi inquieta un po'". E non perché la disonestà gli turbava la coscienza, ma perché il nero lo depistava. I libri neri per il fascista Carminati sono quelli di Céline, di Guénon, di Evola e dei giapponesi che raccontano la morte dei guerrieri e non le pretese di Odevaine che voleva un euro per ogni rifugiato venduto: " Se me dai cento persone facciamo un euro a persona.. . Non lo so, per dire: hai capito? Ti metto 200 persone a Roma, 200 a Messina, 50 là, e le quantifichiamo ". Il traffico è odioso e il pervertimento è di ideali, questa volta, rossi. Ma c'è anche la fine della natura bonaria e cinica di Roma che è la città più grande d'Italia (20 volte Napoli) e con il centro storico più esteso del mondo, la più popolosa (più di tre milioni di abitanti censiti), la più bella ( ça va sans dire ), e ormai purtroppo la più degradata, la più corrotta e la più perduta tra le capitali dell'Occidente: un suk di illegalità, abusivismo, fogne a cielo aperto e sporcizia per le strade, sottosviluppo nei cortili, l'asfalto tutto buche e avvallamenti, il centro storico assediato dai mendicanti, le auto in terza fila, la metropolitana senza decoro, i lavori pubblici eternamente incompiuti, la cultura come enorme baraccone di incompetenze, le esecuzioni per strada ... Insomma la scenografia è perfetta per le ordinanze di Mafia capitale che come ha scritto il New York Times "sollevano nuove domande circa la capacità dell'Italia di riformarsi". Non si può infatti continuare a fingere, come fa il sindaco Marino, che Roma "città per bene" non somigli ogni giorno di più a Buzzi, a Carminati e a Odevaine e sia solo vittima e non anche complice, forse qualche volta persino peggiore di loro. Ecco perché questa seconda ordinanza della Procura non è solo un atto giudiziario, un supplemento di certificazione, l'aggiornamento della mappa dell'aporia e del sistema mafioso che controlla e plasma tutto, strade e uomini, traffico e sporcizia. Questa ordinanza è neorealismo ed è un trattato di linguistica moderna dove il codice più innocente è quello di sporcizia banale sulle "dù zinne" della "fica da paura che abbiamo preso a lavorà alla raccolta differenziata ". Questo in fondo è il Bagaglino, volgarità ordinaria, intermezzo comico da vecchia Roma: "Si chiama Ilenia". "Già si presenta bene" risponde Figurelli a Buzzi. "E se è un cesso la famo scopà da M", e qui l'iniziale del nome di battesimo del presunto bruto sessuale potrebbe aprire una faida da film di Tarantino. Con la M, per dire, comincia Massimo, che è il nome di Carminati. Questa ordinanza è infine un documento storico e le sue 428 pagine ci rimangono dentro come una preghiera. Non sarà infatti il processo, non saranno le condanne il Big Bang di una città che si prepara al Giubileo e aspira ad ospitare le Olimpiadi. Non basteranno i giudici a farla scendere dal taxi del sottosviluppo e della mafia perché, come dice Buzzi "bisogna stare attenti a scenne dal taxi: con noi sali, ma non scenni più".

Il nero e i bianchi, la torta delle coop. L'accordo globale di Mafia Capitale. Concorrenza inesistente. Consiglieri comunali compiacenti. L'unico dirigente "contro" allontanato. La squadra  di Carminati godeva su appoggi trasversali per ottenere milioni di euro nel gestire emergenze abitative e migratorie. Ora sono finiti in carcere anche i rappresentanti delle reti cattoliche, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. «Noi che dovemo sta sul pezzo pe’ magnasse un po' de caciotta». Ha ragione, il Nero. Il suo braccio destro Salvatore Buzzi è un lavoratore instancabile. Non conosce domeniche o festivi: è sempre al telefono per spartirsi affari, o impegnato in riunioni, incontri e strette di mano per assicurare a sé o agli amici milioni di euro dal Campidoglio e dal ministero dell'Interno. Mai una pausa. La frase la dice Massimo Carminati, “er Cecato”, ed è riportata nell'ordinanza che ha scoperchiato la seconda parte dell'inchiesta su Mafia Capitale, con 44 arresti e decine di indagati fra politici, amministratori e imprenditori. Il piatto principale è sempre la gestione delle emergenze abitative e dell'accoglienza dei migranti da parte di un ristretto gruppo d'affari. La novità è che ora sono state arrestate le controparti di Buzzi e Carminati: i rappresentanti di quelle coop “bianche” di cui l'Espresso parla da tempo , e che nella Capitale spadroneggiavano nel settore degli aiuti sociali, spalla spalla alla banda di Carminati. Il nero e i bianchi, il neofascista delle trame e le onlus che facevano riferimento al vescovo e agli ordini religiosi. Agli arresti sono finiti infatti Tiziano Zuccolo, della cattolica Domus Caritatis, e Francesco Ferrara, Domenico Cammisa, Salvatore Menolascina e Carmelo Parabita, rappresentanti del consorzio La Cascina, legata a Comunione e Liberazione. Con Buzzi si intendevano alla perfezione. Il giudice li ritiene infatti «partecipi agli accordi corruttivi con Luca Odevaine» - il funzionario stipendiato per assegnare risorse e immigrati agli amici dal tavolo del ministero dell'Interno – oltre che autori di «plurimi episodi di corruzione e di turbativa d’asta dal 2011 al 2014», dimostrando «una spiccata attitudine a delinquere, al fine di ottenere vantaggi economici nell’esercizio della loro attività imprenditoriale». Negli atti si raccolgono così gli accordi e gli intrecci che hanno intorpidito Roma per anni, chiudendola in una rete indistricabile di cooperative – bianche, rosse, nere, incensurate o indipendenti, non cambia – che si accordavano sui progetti prima ancora venissero pubblicate le gare. Nessuna alternativa aveva spazio. C'era chi si metteva d'accordo per quieto vivere, chi sotto minaccia. E chi semplicemente traeva maggior guadagni grazie all'oligopolio. Come il gruppo dei consorzi bianchi di Zuccolo e Ferrara. Uno degli episodi che meglio spiegano  come sono stati spesi in questi anni i fondi per i più poveri, a Roma, riguarda 580 persone - donne, uomini e bambini finiti per strada a cui bisognava trovare un tetto per l'inverno del 2014. Il bando viene pubblicato il 14 luglio. Buzzi e Zuccolo sono molto preoccupati, perché a gestirlo è tale Aldo Barletta, un dirigente che a detta del socio di Carminati «è entrato da 10 giorni ed ha applicato tutto quello che non avevano applicato fino ad adesso», uno che «non cede nemmeno davanti a Gesù e Maria». Era un «pericolo», questo funzionario, per le sue «resistenze ad assecondare le procedure sfavorevoli agli interessi della pubblica amministrazione». E la procedura aperta da lui per trovare casa a quei 580 disperati era considerata un ostacolo: troppo trasparente e favorevole alla concorrenza. Andava aggirata. Come? Con l'alacre attività di cui Buzzi si fa coordinatore. E che consiste nel «far desistere» tutti i potenziali avversari dal partecipare alla gara. Il funzionario “nemico” aveva invitato infatti 15 società a presentare un'offerta. Alcuni nomi, fra gli invitati, risultavano nuovi a Salvatore Buzzi, ed è allora Angelo Scozzafava (indagato), direttore del dipartimento per le Politiche Sociali di Roma, a dargli i contatti necessari. Altri invece li conosceva bene. E inizia con gli sms e le chiamate. Contatta anche a Gabriella Errico, la responsabile della coop “Un Sorriso” che gestiva il centro per minori di Tor Sapienza diventato noto dopo l'aggressione e il caos con gli abitanti del quartiere. Lei risponde «tranquillo», si dichiara «a disposizione» e non partecipa al bando (ora è indagata). Altri fanno maggiori resistenze. Alcuni chiedono favori in cambio, come Alberto Picarelli che desiste dall'occasione ghiotta ma dice: «Salvato' spero che un giorno pure io ti possa... quando ti chiedo qualcosa me ne venga accolta». Con questi piccoli debiti o scambi Buzzi sistema la concorrenza. I colleghi competitor si dissolvono tutti. Rimane la rete di Zuccolo e Ferrara, La Cascina. Ma tutto è sistemato con una telefonata tra amici e un accordo che gli inquirenti definiscono "globale": «Io su quello dei 580 preferirei che andasse completamente deserto, che partecipassi solo io, capisci? Sugli altri dimme te, io ti ci vengo e tu vieni sui miei», dice il braccio destro di Carminati. E Ferrara conferma: «Secondo me tu vieni ed io vengo e poi hai capito, così almeno più è... e poi sti cazzi, cioè hai capito?». Chi ha capito ha capito: tu mi aiuti qui, io ti aiuto lì, e la spartizione è fatta. La manovra non fa una piega. E il 25 agosto alla “manifestazione d'interesse” dei soggetti sul territorio per accogliere quei 580 sfollati si presenta una sola società. La cooperativa Eriches di Salvatore Buzzi. Che si aggiudica così indisturbata l'affare da un milione e seicentomila euro. Turbativa d'asta in piena regola. Ferrara è coinvolto anche in altre pratiche, fra cui la manomissione di una gara indetta il 30 giugno del 2014 dalla prefettura di Roma per assicurare l'accoglienza a 1.278 migranti, oltre a ulteriori 800 richiedenti asilo in arrivo. Valore: 10 milioni di euro. Per ottenere le assegnazioni dei progetti, e far approvare una delibera che assegnasse i fondi fuori bilancio, Ferrara avrebbe partecipato alla «corruzione di consiglieri comunali mediante la promessa della somma di complessivi 130mila euro». La situazione di Eriches e Domus Caritatis/la Cascina era entrata infatti in crisi dopo un rapporto della Finanza, che giudicava illegittime le assegnazioni dirette del Campidoglio a quella ristretta cerchia di imprese sociali di milioni e milioni di euro. Ma né rapporti né dirigenti specchiati sono riusciti a fermarli.

Cooperative nere e cattoliche: il concordato di Carminati per il business della disperazione. Gli affaristi neofascisti e le santissime arciconfraternite pronte a spartirsi una torta da quasi 30 milioni di euro l'anno solo per rispondere all'emergenza abitativa Un servizio garantito grazie a fondi senza controllo. Nascosti in delibere, proroghe, convenzioni, scrive ancora Francesca Sironi su "L'Espresso". C'è un rapporto del gennaio 2014, firmato dagli ispettori della Ragioneria dello Stato, che dice già tutto. Che porta alla luce le irregolarità degli appalti garantiti dal comune di Roma a una maglia di tre cooperative: il consorzio Eriches di Salvatore Buzzi, braccio destro dell' ex terrorista nero Massimo Carminati, entrambi finiti in carcere per l'indagine che ha colpito la mafia fascista della capitale; il “Consorzio casa della solidarietà” e “Domus Caritatis”. Gli affaristi neofascisti e le santissime arciconfraternite pronte a fare "stecca para" - per usare il lessico di Romanzo Criminale - trasformando la disperazione in un business d'oro. Insieme, queste tre associazioni si spartivano una torta da quasi 30 milioni di euro l'anno solo per rispondere all'emergenza abitativa. Ovvero per dare un letto temporaneo a chi perde la casa. Un servizio importante, garantito però grazie a fondi senza controllo. Nascosti in delibere, proroghe, convenzioni. «Va rilevato come l'affidamento sia avvenuto in via diretta, In assenza di qualsivoglia procedura concorrenziale», scrivono i funzionari dell'Ispettorato: «sebbene l'importo sia largamente superiore al limite previsto dalla legge secondo cui il fornitore dovrebbe essere individuato mediante una gara europea». Ma quali gare: nella capitale i problemi si risolvevano fra amici, hanno rivelato le indagini della procura di Roma. E anche quando c'erano dei bandi, loro riuscivano a pilotarli. Soldi sicuri, che intascavano sempre, nonostante le casse indebitate del Campidoglio. E non solo dal municipio: ma ottenevano finanziamenti pure dalla Prefettura e da Bruxelles. I patti lateranensi di Carminati hanno resistito fino a pochi giorni fa. Perché l'allarme della Ragioneria di Stato è stato ignorato? Nessun esponente della giunta Marino lo ha letto? Nessuno si è insospettito? Grazie alle procedure “straordinarie” dettate dalle “emergenze” (che potevano durare anche anni, come quella “abitativa”, o “migratoria” o “dei Rom”) una cooperativa quale quella di Salvatore Buzzi era riuscita a raggiungere il controllo di 2.965 posti letto: servizi per minori stranieri non accompagnati, adulti richiedenti asilo, nomadi, famiglie italiane travolte dalla crisi, uomini senza tetto e madri sole. È lo stesso “Gruppo 29 giugno” di Buzzi a vantare risultati straordinari, soprattutto in termini economici, nel bilancio del 2013. L'Italia era in crisi. Loro no: le intercettazioni dei magistrati svelano quanto fosse profittevole lucrare sulle disgrazie della gente. Perché queste sofferenze, garantiva Buzzi al telefono, «rendono più della droga». "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C'hai idea? Il traffico di droga rende meno", così al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro imprenditoriale di Massimo Carminati. Il sistema ha funzionato alla perfezione fino all'intervento dei magistrati. Nessuna denuncia ha fermato i nuovi padroni del business del sociale, capaci di arricchirsi anche con gli sbarchi di Mare Nostrum, la marea umana di profughi fuggiti dalle guerre in Siria e in Libia che ha raggiunto le coste italiane negli ultimi mesi. A maggio del 2014 la “Eriches” dell'ex detenuto modello Salvatore Buzzi gestiva solo a Roma 493 posti letto. Considerando una media di 40 euro di rimborso giornaliero a persona, gli stranieri portavano un introito assicurato di 20mila euro al giorno. Anche qui, dalle tabelle pubblicate proprio su Il Tempo, il quotidiano romano il cui direttore è stato intercettato dagli inquirenti a colloquio con “il Nero”, si trovano altre due sigle ricorrenti: Domus Caritatis e Casa della Solidarietà. Insieme controllano 1.436 ospiti. Un giro di denaro fra i 50 e i 57mila euro al giorno. Il fatto è che queste tre cooperative, Eriches, Domus Caritatis e Casa della Solidarietà, non sono esattamente concorrenti. Da una parte c'è Salvatore Buzzi, il braccio aziendale, secondo i pm, del fascista Massimo Carminati. Dall'altra c'è Tiziano Zuccolo (non indagato): presidente della Casa della Solidarietà e rappresentante dell'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone, la rete di Domus Caritatis. Nelle intercettazioni riportate dai Pm, Buzzi e Zuccolo commenterebbero fra loro “un patto” di divisione degli affari “al 50-50", metà e metà. Ma non è solo dalle conversazioni telefoniche che emergono intrecci fra i due. C'è una società, la Maika Immobiliare. Fondata nel 2006 per essere messa in liquidazione nel 2008. Era controllata dalla Sarim immobiliare, srl appartenente all'organizzazione di Buzzi; da Sandro Coltellacci, anche lui arrestato per l'indagine sul “Mondo di mezzo”; da altri due soci. E da Tiziano Zuccolo in persona. Registrato come proprietario del 16 per cento del capitale. Nel 2007, quando Report mandò in onda una puntata in cui i due giornalisti autori del servizio interrogavano Buzzi su degli affidamenti inusuali ricevuti dall'Università di Roma Tre, la Maika esisteva ancora. E aveva sede legale in via Castrense 51. Dove fino al settembre del 2008 ha avuto domicilio anche un'altra cooperativa emersa alle cronache negli ultimi tempi: “Un Sorriso”, l'associazione che gestiva il centro per minori stranieri di viale Giorgio Morandi, Tor Sapienza (che ha spiegato in un' intervista a Repubblica la sua estraneità al consorzio, dal quale anzi avrebbe ricevuto ripetute e gravi minacce per anni). Il luogo degli scontri. Degli scandali. Delle polemiche. Da cui gli adolescenti sono stati portati via. Per finire in un'altra struttura. Di chi? Di Domus Caritatis. «Nell’ambito dell’accoglienza, siamo cresciuti ed abbiamo continuato la gestione delle attività assistenziali in favore di immigrati, senza fissa dimora, mamme con bambini, ex detenuti, nomadi e famiglie in difficoltà», vanta il consorzio Eriches di Salvatore Buzzi nel bilancio: «e abbiamo vinto il bando promosso da Roma Capitale per 491 immigrati facenti parte dello Sprar, (la rete nazionale dei comuni per la gestione dell'emergenza) una commessa significativa che ci consentirà di stabilizzarci nel settore». La “stabilizzazione” era garantita da rapporti stretti con le istituzioni: stando agli atti, per trasferire "un numero imprecisato" di minori stranieri non accompagnati, più di 100, da una comunità considerata inagibile, «Buzzi si interessava a un edificio disabitato, nella disponibilità del Comune di Roma, coinvolgendo un collaboratore nel progetto di occupazione abusiva dell’edificio». Lo stabile, localizzato in via del Frantoio, avrebbe ospitato, una volta "squattato", gli adolescenti. «In una conversazione intercettata, il 2 gennaio 2013, Buzzi riferiva, infatti, che avrebbe interessato “Caradonna”, identificato, poi, nel presidente del V Municipio - Ivano Caradonna - competente su via del Frantoio, affinché, dopo la loro occupazione, le autorità locali non avessero provveduto allo sgombero». Nel segno della legalità. Ci sono anche altri intrecci che aiutano la stabilità. E riguardano questa volta i servizi. Nella primavera del 2013 il catering di una grande struttura per minori stranieri gestita dal consorzio di Buzzi proprio in via del Frantoio 44 viene sostituito da un momento all'altro. Al posto del fornitore precedente arriva la Unibar di Giuseppe Ietto. Come mai questa decisione? «La scelta delle aziende veniva operata da parte di Carminati», scrivono i Pm: «gli imprenditori di volta in volta selezionati venivano messi a conoscenza degli interessi del sodalizio e delle modalità con le quali ci si prefiggeva di raggiungere gli obiettivi, sicché si veniva a generare un rapporto altamente fiduciario». Una gestione interna, insomma. Poi la Unibar assume la figlia di Carminati. Il “Nero” aiuta Giuseppe Ietto in un appalto. E il sodalizio si stringe. Anche grazie alla ricchezza del business. Nel pomeriggio dell'otto gennaio del 2013, parlando con un imprenditore, «Carminati espone le consistenti possibilità di guadagno derivanti dalla fornitura del servizio di catering presso i centri di accoglienza per famiglie», riportano i magistrati: «”Qua se guadagnà qualche soldino ... cioè ...capito?"», dice: «"Siccome che stiamo a parlà di 8/900 pasti. Tre euro ciascuno. E per ogni pasto, visto che pagano in ritardo, ti danno mezzo euro in più”». Continua il Guercio: «Praticamente se ritardano a nove mesi a limite non ti frega un cazzo, ogni giorno prendi una cosa in più, sai li parliamo di un migliaio di pasti al giorno, una cosa, una cosa … calcola che st'amico mio, ogni giorno più che passa si prenderà, credo 600 Euro in più al giorno, caricato sui pasti!» Gli operatori hanno provato a lamentarsi della qualità del cibo: gli è stato detto che andava bene così. Ora sia Buzzi, che Ietto che Carminati sono in carcere. E sì che avevano pronto un progetto solidale proprio per i detenuti: «Un punto cottura per una mensa da allestire all’interno del carcere femminile di Rebibbia», riportano i Pm: «Progetto ideato da Carminati, il quale lo ha indicato a Buzzi e a Carlo Guarany (vicepresidente della cooperativa “29 giugno”), come imprenditore di riferimento per l’attuazione».

Chi specula sui profughi. Un miliardo e 300 milioni: è quello che ha speso finora lo Stato per assistere le persone fuggite da Libia e Tunisia. Un fiume di denaro senza controllo. Che si è trasformato in business per albergatori, coop spregiudicate e truffatori, scrivono Michele Sasso e Francesca Sironi su "Espresso”. Erano affamati e disperati, un'ondata umana in fuga dalla rivoluzione in Tunisia e dalla guerra in Libia: fra marzo e settembre dello scorso anno l'esodo ha portato sulle nostre coste 60 mila persone. Profughi, accolti come tali dall'Italia o emigrati in fretta nel resto d'Europa: solo 21 mila sono rimasti a carico della Protezione civile. Ma l'assistenza a questo popolo senza patria è stata gestita nel caos, dando vita a una serie di raggiri e truffe. Con un costo complessivo impressionante: la spesa totale entro la fine dell'anno sarà di un miliardo e 300 milioni di euro. In pratica: 20 mila euro a testa per ogni uomo, donna o bambino approdato nel nostro Paese. Ma i soldi non sono andati a loro: questa pioggia di milioni ha alimentato un suk, arricchendo affaristi d'ogni risma, albergatori spregiudicati, cooperative senza scrupoli. Per ogni profugo lo Stato sborsa fino a 46 euro al giorno, senza verificare le condizioni in cui viene ospitato: in un appartamento di 35 metri quadrati nell'estrema periferia romana ne sono stati accatastati dieci, garantendo un reddito di oltre 12 mila euro al mese. Ancora una volta emergenza è diventata la parola magica per scavalcare procedure e controlli. Gli enti locali hanno latitato, tutto si è svolto per trattative privata: un mercato a chi si accaparrava più profughi. E il peggio deve ancora arrivare. I fondi finiranno a gennaio: se il governo non troverà una soluzione, i rifugiati si ritroveranno in mezzo alla strada. In Italia sono rimaste famiglie africane e asiatiche che lavoravano in Libia sotto il regime di Gheddafi. La prima ondata, composta soprattutto da giovani tunisini, ha preso la strada della Francia grazie al permesso umanitario voluto dall'allora ministro Roberto Maroni. Ma quando Parigi ha chiuso le frontiere, lo stesso Maroni ha varato una strategia federalista: ogni regione ha dovuto accogliere un numero di profughi proporzionale ai suoi abitanti (vedi grafico a pag. 39). A coordinare tutto è la Protezione civile, che da Roma ha incaricato le prefetture locali o gli assessorati regionali come responsabili del piano di accoglienza. Ma, nella fretta, non ci sono state regole per stabilire chi potesse ospitare i profughi e come dovessero essere trattati. Così l'assistenza si è trasformata in un affare: bastava una sola telefonata per venire accreditati come "struttura d'accoglienza" e accaparrarsi 1.200 euro al mese per ogni persona. Una manna per centinaia di alberghi vuoti, ex agriturismi, case-vacanze disabitate, residence di periferia e colonie fatiscenti. Dalle Alpi a Gioia Tauro, gli imprenditori del turismo hanno puntato sui rifugiati. A spese dello Stato. Le convenzioni non sono mai un problema: vengono firmate direttamente con i privati, nella più assoluta opacità. Grazie a questo piano, ad esempio, 116 profughi sono stati spediti, in pantaloncini e ciabatte, dalla Sicilia alla Val Camonica, a 1.800 metri di altezza. I proprietari del residence Le Baite di Montecampione non sono stati i soli a fiutare l'affare. Anche nella vicina Val Palot un politico locale dell'Idv, Antonio Colosimo, ne ha ospitati 14 nella sua casa-vacanze, immersa in un bosco: completamente isolati per mesi, non potevano far altro che cercare funghi. I più furbi hanno trattato anche sul prezzo. La direttiva ufficiale, che stabilisce un rimborso di 40 euro al giorno per il vitto e l'alloggio (gli altri 6 euro dovrebbero essere destinati all'assistenza), è arrivata solo a maggio. Nel frattempo, la maggior parte dei privati aveva già ottenuto di più. Gli albergatori napoletani sono riusciti a strappare una diaria di 43 euro a testa. Non male, se si considera che in 22 alberghi sono ospitate, ancora oggi, più di mille persone. «La domanda turistica al momento degli sbarchi era piuttosto bassa», ammette Salvatore Naldi, presidente della Federalberghi locale. La Protezione civile prometteva che sarebbero state strutture temporanee. Non è andata così: solo all'Hotel Cavour, in piazza Garibaldi, di fronte alla Stazione centrale, dormono tutt'ora 88 nordafricani. Le stanze, tanto, erano vuote: i viaggiatori si tengono alla larga, a causa dell'enorme cantiere che occupa tutta la piazza. Ma grazie ai rifugiati i proprietari sono riusciti lo stesso a chiudere la stagione: hanno incassato quasi 2 milioni di euro. I richiedenti asilo però non sono turisti, ma persone che hanno bisogno di integrarsi. La legge prevede che ci siano servizi di mediazione culturale, che sono rimasti spesso un miraggio o sono stati appaltati a casaccio:«A Napoli sono spuntate in pochi mesi decine di associazioni mai sentite nominare», denuncia Jamal Qadorrah, responsabile immigrazione della Cgil Campania: «Ogni albergatore poteva affidare i servizi a chi voleva, nonostante ci sia un albo regionale degli enti competenti. Tutti, puntualmente, ignorati». Non solo. «A luglio di quest'anno abbiamo organizzato un incontro fra il Comune e gli albergatori», racconta Mohamed Saady, sindacalista della Cisl: «Diverse strutture non avevano ancora un mediatore». Ed era passato più di un anno dall'inizio dell'emergenza. Il business dei nuovi arrivati non ha lasciato indifferenti nemmeno i professionisti della solidarietà. Cooperative come Domus Caritatis, che gestisce otto comunità solo a Roma. Anche i suoi centri sono finiti nel mirino di Save The Children e del garante dell'infanzia e dell'adolescenza del Lazio. Dopo numerose segnalazioni l'ong è andata a controllare 14 strutture della capitale che si fanno rimborsare 80 euro al giorno per l'accoglienza di minori stranieri non accompagnati. Il risultato è un rapporto inquietante, presentato a maggio alla Protezione civile e al Viminale, che "l'Espresso" ha esaminato. Si parla di sovraffollamento, ma soprattutto di senzatetto quarantenni fatti passare per ragazzini scappati dalla Libia. Durante l'indagine sono stati intervistati 145 profughi. «Più di cento erano palesemente maggiorenni», denuncia l'autrice del rapporto, Viviana Valastro: «Quelli che avevo di fronte a me erano adulti. Altro che diciassettenni. Non posso sbagliarmi». Non solo. «Molti di loro erano in Italia da tempo, non da pochi mesi. Alcuni arrivavano dagli scontri di Rosarno». Doppia truffa insomma: sull'età e sulla provenienza, per avere un rimborso più che maggiorato e intascare milioni di euro. Tutto questo da parte di una cooperativa strettamente legata all'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone e a La Cascina, la grande coop della ristorazione che tre anni fa è stata al centro di un'inchiesta per il tentativo di entrare nella gestione dei cpt. Save The Children non è stata la sola a denunciare la situazione romana. Anche il presidente della commissione capitolina per la sicurezza, Fabrizio Santori, esponente del Pdl, ha dovuto occuparsi di Domus Caritatis. La cooperativa infatti gestiva una comunità che dava grossi problemi al vicinato, da cui arrivavano continue proteste. Santori l'ha visitata e si è trovato davanti ad alloggi di 35 metri quadri abitati da 10 persone. Peggio che in un carcere. Eppure gli appartamentini di via Arzana, a metà strada fra Roma e Fiumicino, più vicini all'aeroporto che alla città, permettevano di incassare più di 12 mila euro al mese. Save The Children ha calcolato che in strutture di questo tipo, nella capitale, vivono quasi 950 persone. Dati incerti, perché solo cinque cooperative hanno accettato di fornirli. Domus Caritatis, dalla sua sede all'abbazia trappista delle Tre Fontane, non ha voluto dare alcuna informazione. Il dossier dell'ong internazionale descrive un caos assoluto: mancanza di responsabili, nessun servizio di orientamento e accompagnamento legale, strutture inadeguate. Al Nord la situazione non cambia. A Milano si registrano casi come quello della ex scuola di via Saponaro, gestito dalla Fondazione Fratelli di San Francesco d'Assisi, che ha accolto 150 rifugiati. Ospitati in una comunità per la cura dei senzatetto, l'accoglienza dei minori e degli ex carcerati: 400 persone, con esigenze diverse, costrette a vivere sotto lo stesso tetto in una vecchia scuola. «Le condizioni sono orribili: 10-12 letti per ogni camerata. E pieni di pidocchi e pulci», racconta un ragazzo ancora ospite. Le stanze sono inadatte perché costruite per ospitare alunni, non profughi, né tantomeno clochard che vivono in strada. «Un contenitore della marginalità sociale dove sono frequenti le risse: nigeriani contro kosovari, ghanesi contro marocchini e la lista dei ricoverati in ospedale si allunga ogni giorno», racconta chi è entrato tra quelle mura. Anche il personale è ridotto al minimo con pochi mediatori culturali (che spesso sono ex ospiti che non disdegnano le maniere forti per mantenere l'ordine), un solo assistente sociale e una psicologa per dieci ore alla settimana. Troppo poche per chi ha conosciuto gli orrori della guerra, le botte della polizia libica e porta sulla propria pelle i segni delle violenze. Anche i disturbi psichici abbondano, insieme all'alcolismo dilagante. A sette chilometri dai frati, 440 profughi hanno trovato alloggio a Pieve Emanuele, estrema periferia Sud di Milano. Qui sono stati ospitati nel residence Ripamonti, di proprietà del gruppo Fondiaria Sai, appena passata sotto il controllo di Unipol ma all'epoca saldamente in mano a Salvatore Ligresti. I clienti abituali dell'albergo sono poliziotti, guardie del vicino carcere di Opera o postini, che non bastano a riempire i 4 mila posti letto dell'albergo. Grazie all'emergenza però nelle settimane di massimo afflusso sono entrati nelle casse di Fonsai oltre 600 mila euro al mese. Vacanze forzate in alloggi confortevoli (le camere sono dotate anche di tivù satellitare) ma dove sono mancati completamente i corsi per imparare l'italiano o l'assistenza legale e psicologica. «Si poteva trovare una sistemazione più modesta e investire in altri sussidi» dice, banalmente, un ragazzo del Ghana. Oggi a Pieve Emanuele sono rimasti in 80. Ma nel frattempo al residence sono andati quasi sette milioni di euro. Lo Stato ha speso per l'emergenza 797 milioni di euro nel 2011 e altri 495 milioni nel 2012. Solo una parte è servita per l'accoglienza: centinaia di milioni di euro sono finiti in tendopoli, spostamenti, trasferte, rimborsi agli uffici di coordinamento. Fondi di cui si è persa la traccia. E sì che proprio per il buon uso dei soldi pubblici era stato istituito un "Gruppo di monitoraggio e assistenza", con il compito di visitare le strutture e segnalare i casi critici. Ma della task force degli ispettori dopo pochi mesi non si è saputo più nulla. «Noi facevamo parte del progetto ma da ottobre 2011 non siamo più stati convocati. Considerando che è partito ad agosto, il gruppo è durato meno di tre mesi», spiega a "l'Espresso" Laura Boldrini, portavoce dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati: «È mancato completamente il controllo da parte delle regioni e delle prefetture». La Corte dei conti della Calabria è andata oltre: ha messo nero su bianco che le convenzioni sottoscritte nella regione sono illegittime, perché non sono state sottoposte al controllo preventivo della Corte, obbligatorio anche nell'emergenza. Non solo. I giudici contabili di Catanzaro definiscono "immotivata" la diaria: 46 euro al giorno sono troppi. E pensare che in provincia di Latina sono riusciti a intascarseli quasi tutti spendendo solo 5 euro al giorno, per garantire a 75 profughi un misero piatto di riso. I cinque avidi gestori della cooperativa Fantasie sono stati arrestati dai carabinieri di Roccagorna. Insospettiti dall'aumento di stranieri in paese, i militari sono arrivati ad un casolare dove hanno trovato 46 persone alloggiate in 70 metri quadri. Nonostante il blitz la cooperativa ha continuato a ricevere i contributi della Regione Lazio per altri sei mesi: una truffa da 400 mila euro. Con le stesse risorse Aurelio Livraghi, volontario della Caritas di Magenta, in provincia di Milano, è riuscito a fare tutt'altro. «Milioni di italiani vivono con 1.200 euro al mese, perché loro no?». Osservazione semplice. Di un pensionato, che ha dedicato ai 35 profughi arrivati in paese le sue giornate. Persone oggi indipendenti: pagano un affitto, fanno la spesa, quattro di loro hanno già un lavoro. Recitano anche in teatro. Una vita normale: altro che emergenza. E quando finiranno i fondi? «Potranno andare avanti almeno un po' perché sono riuscito a fargli mettere da parte dei risparmi». Non era difficile, sarebbe bastato un minimo di organizzazione. E di umanità.

Mafia Capitale atto secondo: "Veltroni bene, ma co' Alemanno se pija de più". Mafia Capitale nella città corrotta. La politica capitolina al servizio de "er Cecato" e del suo braccio destro Buzzi. E le mazzette come chiave per entrare nei business che contano, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Massimo Carminati e Riccardo Brugia Rutelli? «Noi abbiamo cominciato a cresce con lui». E Veltroni? «Diciamo con Veltroni siamo andati bene noi». Alemanno? «co Alemanno sotto certi aspetti se pija molti di più.. specialmente sul sociale». La consolidata infiltrazione di “mafia capitale” nell’amministrazione capitolina spiegata a un emissario della 'ndrangheta. Un'infiltrazione «essenziale ai fini dell’assegnazione dei lucrosi appalti pubblici indetti dal comune di Roma». L'atto secondo di Mafia Capitale è soprattutto la narrazione di un città in cui la corruzione è il concime che fa crescere piccoli o grandi fortune personali. Roma corrotta da capi bastone e da manutengoli del potere locale. Roma corrotta dall'ambizione di un uomo, Massimo Carminati “er Cecato”, che da delinquente della malavita romana con il mito del Duce è diventato modello, risorsa e valore aggiunto per molti imprenditori che grazie a lui hanno piegato pezzi importanti dell'amministrazione pubblica ottenendo così «un sacco di lavori», come ha ammesso, intercettato, il manager delle coop e braccio destro di Carminati, Salvatore Buzzi. Nell'ultima retata sono stati arrestate 44 persone (tra carcere e domiciliari) e altre 21 sono indagate dalla procura antimafia di Roma che coordina i carabinieri del Ros della Capitale in questa seconda tranche dell'indagine Mondo di mezzo. Un sistema governato dal clan di Massimo Carminati. «I fatti corruttivi spiegano e sono spiegati dal contesto in cui si muove l’organizzazione a seguito del mutamento della compagine politica di maggioranza nel consiglio comunale di Roma e la conseguente rimodulazione delle attività corruttive», si legge nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal giudice per le indagini preliminari, che aggiunge: «In effetti, a seguito del mutamento nella maggioranza del Comune di Roma sortito dalle consultazioni elettorali, mafia capitale investe nell’acquisizione di nuovo capitale istituzionale, decisione strategica mimeticamente rappresentata dall’espressione di Carminati, a suo dire rivolta a Buzzi, del seguente tenore: “E allora mettiti la minigonna e vai a batte co' questi amico mio, eh... capisci”». Il lessico dell'organizzazione di Carminati rappresenta l'essenza del clan dall'animo trasformista e dalle pelle camaleontica. «Poi ce pigliamo e misure con Marino», è ancora Buzzi che detta la linea politica da intraprendere una volta chiusa l'era di Alemanno al Comune. Ma sempre «nel solco della linea strategica tracciata da Carminati di una rimodulazione dell’attività corruttiva in relazione ai diversi decisori pubblici». Il primo obiettivo raggiunto dall'imprenditore del clan è il Pd Mirko Coratti, in quel periodo presidente del Consiglio comunale. C'è anche Franco Figurelli, ex capo segreteria dell'assemblea capitolina, a libro paga della cosca. «Figurelli veniva retribuito con 1.000 euro mensili, oltre a 10.000 euro pagati per poter incontrare il Presidente Coratti, mentre a quest’ultimo venivano promessi 150.000 euro qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni sul sociale». Insomma, per usare le parole del re delle coop, «so’ tutti a stipendio...». I politici disposti al compromesso in fondo non sono altro che bovini da foraggiare: «La mucca che se non mangia non può essere munta», una metafora che Buzzi ricorda a Figurelli, il quale promettendo di ricordare il detto a Coratti, ne approffitta per chiedergli un favore: l'assunzione di un amica. Dell'assuzione si sarebbe interessato proprio Coratti, attivato a sua volta dal compagno della madre della ragazza, un consigliere dell'VIII municipio. Per sistemare due nipoti anche un dirigente del Comune, ha accettato di scendere a patti con Buzzi. Ma oltre ai favori e ai piaceri personali, questa vicenda è anche una storia di soldi. Gli investigatori del Ros guidati dal colonnello Stefano Russo rintracciano alcuni versamenti effettuati dalla cooperativa 29 giugno di Buzzi all'associazione che faceva capo a Coratti. Una sorta di fondazione, di quelle che oggi vanno tanto di moda tra gli esponenti dei partiti, per canalizzare le donazioni. D'altronde »il finanziamento pubblico è destinato a finire», osservano due fedelissimi di Buzzi. L'ex presidente dell'assemblea in cambio del denaro ricevuto ha, secondo gli inquirenti, abbracciato la causa del clan. In che modo? Appalti per i rifiuti, fondi pubblici e certezza che il Comune pagherà i debiti verso la coop. Oltre a Coratti e Figurelli, tra gli indagati c'è anche Massimo Caprari consigliere comunale del Centro democratico. Per lui l'organizzazione di Carminati aveva previsto mille euro al mese più benefit: «la promessa di erogazioni continuative di denaro, tra le quali quella costante di una percentuale dei lavori ottenuti dal Comune da parte delle cooperative riconducibili al Buzzi». La corruzione è servita a Buzzi & Co per ingraziarsi oltre che uomini del Pd anche alcuni del centrodestra. Il nome che spicca in questo nuovo capitolo di Mafia Capitale è Giordano Tredicine, 33 anni, consigliere comunale e vice coordinatore di Forza Italia nel Lazio. Rampollo della famiglia di venditori ambulanti che gestisce la massima parte dei camion bar della città. «Buzzi lamenta, in una conversazione con Gammuto, che se avesse vinto la maggioranza di centrodestra la sua scuderia sarebbe stata pronta e in essa indicava un ruolo specifico di Tredicine, oggi consigliere di minoranza all’Assemblea Capitolina». Insomma, il giovane era uno della scuderia, uno dei cavalli pregiati a cui il clan poteva affidare alcuni compiti. Secondo il ras della coop 29 giugno a destra pescavano a piene mani: «se vinceva Alemanno ce l’avevamo tutti comprati, partivamo  a razzo,... c’amo l’assessore ai lavori pubblici, Tredicine doveva sta’ assessore ai servizi sociali, Cochi andava al verde, Cochi non è comprato però è un amico, Alemanno... che cazzo voi di più». Buzzi e il clan avevano istaurato con Tredicine "un rapporto di remunerazione corruttiva". Buzzi a Carmninati: «A Giordà se non te arrestano diventerai primo Ministro» me fa’ dice: ...li mortacci tua...te possono arresta’ (ride). Però come sto sul pezzo a Giordano non c’ho mai visto nessuno ehh.. credimi, mai nessuno». Persino nel feudo dei clan del litorale romano, Fasciani e Spada in primis, Mafia capitale è riuscita a comprare politici. «Le indagini svolte hanno consentito di verificare l’esistenza, nel X dipartimento, di decisori pubblici remunerati dall’organizzazione riconducibile a Buzzi, Carminati e Testa. Le risorse economiche pubbliche erano originariamente stanziate dalla regione, attribuite al comune, che, in parte, li smistava ai municipi», scrive il gip. Nella lista degli inquirenti è così finito il mini sindaco di Ostia, Andrea Tassone del Partito democratico, che nei mesi precedenti agli arresti si era lanciato in campagne per la legalità e contro le cosche. Stando all'inchiesta, un'antimafia di facciata. «Significativa, circa la individuazione in Tassone del capo di Solvi (faccendiere del politico), è la circostanza che egli sia stato delegato dal medesimo al controllo di voti e preferenze per conto della lista civica Marino alle elezioni comunali, secondo quanto si desume da fonti aperte», annotano gli investigatori. E sempre Solvi a «raccordare Buzzi e Tassone in vista dei loro incontri». Ma è proprio Buzzi a confessare il rapporto con Tassone: «Tassone è nostro, eh…è solo nostro..non c’è maggioranza e opposizione, è Mio». E poco dopo aggiunge: «perché noi pagamo tutti come vedi”...noi nell’ambito de ste cose..nell’ambito di questa monnezza pe tenè (fonetico) i voti gia semo arrivati a 43 mila euro, eh...Tassone 30...10 Alemanno 40». Tassone stipendiato? Secondo l'imprenditore legato al boss Carminati sì, e non sembra, a suo dire, accontentarsi: «Remunerazioni che evidentemente non bastavano, posto che Buzzi, qualche giorno dopo, riceve da Tassone una ulteriore richiesta di denaro, pari al 10% del valore di un affidamento. Uno dei motivi della sua visita ad Ostia veniva svelato dallo stesso Buzzi che, si lamentava che il “Presidente” (del X Municipio, Andrea Tassone) gli avesse chiesto il “10% in nero”». Le richieste a Tassone, per il tramite del faccendiere Solvi, sono tutte finalizzate a ottenere favori e agevolazioni dal X municipio. Anche qui le «mucche» hanno bisogno di cibo per poi ottenere più latte. Secondo Buzzi l'accoglienza dei migranti è un business più remunerativo della droga. E anche meno rischioso. Tra gli espisodi di corruzione elencati negli atti della procura antimafia di Roma diversi riguardano proprio l'emergenza abitativa e l'accoglienza dei migranti. Uno degli episodi raccolti dagli inquirenti ruota attorno alla Società Cooperativa Deposito locomotive di Roma San Lorenzo, «oberata di debiti, assillata dalla necessità di dover pagare cambiali, con asset invenduti costituiti da 14 appartamenti in zona Case Rosse – Settecamini». Il politico di riferimento del clan è in questo caso Daniele Ozzimo, ex assessore comunale alla Casa, in quota Pd, mentre il dirigente comunale è Guido Magrini, Direttore del dipartimento delle Politiche Abitative. Il sospetto dei magistrati è che l'assessore abbia chiesto a Buzzi «150. mila euro per risollevare le sorti di una cooperativa, in cambio del mantenimento di una convenzione relativa all’emergenza alloggiativa assai remunerativa per Buzzi». «Tocca vede’, nei limiti del possibile, salva’ sta cooperativa. Stamo a parla’ di centocinquantamila euro entro venerdì», riferisce l'imprenditore a un sodale, che chiede chiarimenti: «Senti, ma in cambio di centocinquanta, qual è il beneficio o l’opzione per noi?». E Buzzi risponde: «che tu opzioni gli appartamenti, no? Loro c’hanno quattordici appartamenti invenduti». Luca Odevaine invece (già arrestato nel primo filone d'inchiesta),  era l'esperto dell'affare immigrazione. «Aveva instaurato rapporti di natura corruttiva con esponenti del gruppo imprenditoriale “La Cascina” mettendo a disposizione di tale gruppo il suo ruolo istituzionale di appartenente al Tavolo di Coordinamento Nazionale sull’accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale, nonché il suo ruolo di componente delle tre commissioni di gara per l’aggiudicazione dei servizi di gestione del C.a.r.a. di Mineo, ricevendo in cambio la promessa di una retribuzione fissa mensile determinata in una prima fase in 10 mila euro ed elevata a 20mila dopo l’aggiudicazione della gara del 7 aprile 2014». La cooperativa vicina a Comunione e Liberazione è una holindg con un fatturato enorme. Partita come mensa per gli studenti ora gestisce ospedali, hotel, pasticcerie, catering. Odevaine era dunque stipendiato da Buzzi e dalla Cascina. Interrogato dopo l'arresto ai pm ha dichiarato: «Quello che facevo io …. era di facilitare il Ministero da una parte nella ricerca degli immobili che potessero essere messi a disposizione per l'emergenza abitativa». E Le somme di denaro (anche nella forma di pagamento dell'affitto di immobili) che ha ammesso aver percepito da Buzzi? Semplice. Li riceveva per l'attività che svolgeva per conto della sua cooperativa, di «facilitatore dei rapporti con la pubblica amministrazione … in ragione delle mie conoscenze maturate nel tempo». Il centro per richiedenti asilo di Mineo è una gallina dalle uova d'oro per gli imprenditori dell'accoglienza. Hanno capito che speculare è possibile sul villaggio della solidarietà inventato dal governo Berlusconi e dall'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni. Odevaine nei dialoghi intercettati spiega ai suoi interlocutori il metodo per mascherare le tangenti. Attraverso i subappalti affidati a ditte amiche che poi avrebbero gonfiato le fatture oppure attraverso la sovrafatturazione sfruttando una società di import export dello stesso Odevaine: «Altra ipotesi può darsi, può essere con la ... con l'impresa questa mia di import export, loro comprano alcune cose all'estero, tipo il caffè per esempio...quei soldi rimangono fuori e lì non ce l'ho le rotture di coglioni che ci sono qua, nel senso che se i soldi stanno lì, stanno nella società e io li prendo personalmente non succede un cazzo». E' sempre l'esperto di immigrazione, poi, a spiegare come versare le mazzette: «fallo... in più tranche però lo puoi fare, dici questi ce l'avevo in cassa». Per avere successo servono le relazioni. Odevaine conosce a fondo gli equilibri politici. Sostiene di essere stato lui a mettere in contatto La Cascina con il sottosegretario Giuseppe Castiglione. «Per cui ho conosciuto loro gliel'ho presentati a Castiglione... Castiglione si è avvicinato molto a Comunione e Liberazione, insieme ad Alfano e adesso loro ... Comunione e Liberazione di fatto sostiene strutturalmente tutta questa roba di Alfano e del Centro Destra ...Castiglione». Il suo interlocutore a questo punto gli chiede: «Comunione e Liberazione appoggia Alfano?». Odevaine ribatte: Sì, stanno proprio finanziando ... sono tra i principali finanziatori di tutta questa...questa roba si ... e Lupi è  infatti è il Ministro  delle Opere Pubbliche e Castiglione fa il sottosegretario ... all'Agricoltura ed è il loro principale referente in Sicilia ... cioè quello che poi gli porta i voti ... perché poi i voti loro ce li hanno tutti in Sicilia». Per vincere le gare sull'accoglienza il gruppo di Carminati non badava a spese. E pagava chiunque potesse agevolare i propri interessi. Secondo gli inquirenti anche il sindaco Fabio Stefoni di Castelnuovo di Porto avrebbe ottenuto una lauta ricompensa. Il patto, secondo gli investigatori, consisteva nel pagamento di una somma « a titolo di contributo elettorale e dalla promessa di dazione di 0,50 Euro per immigrato al giorno, da parte di Buzzi per indurre Stefoni a consentire o, comunque, a non opporsi all’apertura di un centro di accoglienza a Borgo del Grillo, nel comune di Catelnuovo di Porto».

Capitale corrotta, nazione infetta. Il celebre titolo de “l'Espresso” ha compiuto 60 anni ma continua a essere di un'attualità sconcertante.

Per il Pd a rubare sono sempre gli altri. Renzi si erge a paladino della legalità: "Chi viola le regole, deve pagare tutto". Ma il Pd non fa mea culpa. Marino: "Vado avanti, ho fatto pulizia". E Orfini chiama in causa i servizi segreti, scrive Sergio Rame su  “Il Giornale”. Mafia Capitale, si sa, è cosa di tutti. Gli arresti riguardato l'intero spettro politico. Ci mangiavano tutti. Pochi erano gli esclusi dal banchetto. Ma alla mangiatoia, per usare la metafora di Salvatore Buzzi, un posto privilegiato ce l'aveva proprio il Partito democratico con i suoi esponenti locali, i suoi amministratori e le sue cooperative. Diciannove persone in carcere, 25 ai domiciliari, altre 21 indagate a piede libero e altrettante perquisizioni. Provoca l’ennesimo terremoto la seconda tranche dell’inchiesta denominata "Mafia Capitale" che già lo scorso dicembre aveva fatto scattare le manette ai polsi di 37 indagati, con il coinvolgimento di altri 40. Ancora una volta, l’ex terrorista dei Nar Massimo Carminati e il presidente della cooperativa "29 giugno" Salvatore Buzzi risultano i pezzi da novanta dell’ordinanza di custodia cautelare del gip Flavia Costantini, eseguita all’alba dai carabinieri del Ros. La novità è che sono stati chiamati in causa esponenti delle istituzioni, di destra e di sinistra, del Campidoglio a della Regione Lazio: risultano tutti a libro paga dell’organizzazione di stampo mafioso che a Roma faceva affari di ogni tipo e si aggiudicava i migliori appalti. "Un Paese solido è quello che combatte la corruzione come sta avvenendo in Italia con decisione e forza - commenta il premier Matteo Renzi - mandando chi ruba in galera, perchè è giusto che chi ha violato le regole paghi tutto e fino all’ultimo giorno". Ma sono solo dichiarazioni di circostanza. Perché, come dice anche il commissario del Pd romano Matteo Orfini, al Nazareno sono convinti che a rubare siano sempre glia altri. "Le amministrazioni di Marino e Zingaretti - commenta Orfini in conferenza stampa - sono state un baluardo della legalità". Eppure, aldilà di Luca Gramazio, ex consigliere capogruppo Pdl in consiglio comunale e poi in Regione, la seconda "retata" di Mafia Capitale ha fatto scattare le manette ai polsi di numerosi esponenti dem. Tra questi spiccano Mirko Coratti, ex presidente del consiglio comunale in quota Pd, dimessosi a dicembre dopo la prima ondata di arresti, e il suo capo segreteria, Franco Figurelli. Per i pm, avrebbero ricevuto la promessa di 150mila euro, la somma di 10mila e l’assunzione di una persona segnalata da Coratti in cambio di una serie di favori da fare alle cooperative di Buzzi. In cella anche Daniele Ozzimo, ex assessore piddì alla Casa, Angelo Scozzafava, ex capo del quinto dipartimento Promozione dei Servizi Sociali e della salute di Roma, e Pierpaolo Pedetti, anche lui eletto consigliere comunale nel 2013 con il Pd, presidente della Commissione Patrimonio. Insomma, al pari di altre forze politiche, il Pd continua a comparire nelle carte dell'inchiesta. Eppure Orfini resta ancora convinto che non ci siano le condizioni per sciogliere il Comune di Roma, "perché questo significherebbe andare incontro alle richieste della criminalità". Dal canto suo, il sindaco di Roma Ignazio Marino rivendica il "cambiamento epocale" della sua giunta e si dice soddisfatto "della legalità contabile che abbiamo portato nella nostra città". "Continuiamo in questo modo - commenta il primo cittadino di Roma - la linea amministrativa che abbiamo assunto in questi due anni di governo sta dimostrando che veramente stiamo cambiando tutto". Per difenderlo, Orfini chiama addirittura in causa i servizi segreti: "Chiederò al Copasir di occuparsi della vicenda per capire come i servizi segreti non si siano accorti di cosa stesse facendo una persona a loro evidentemente nota come Carminati» e di come «abbia potuto costruire un sistema criminale di tale entità". Ma il teorema non regge proprio. "Che cos’altro deve accadere perché Marino se ne vada e si torni alle urne?", replica il leader della Lega Nord Matteo Salvini che vede proprio nel sindaco piddì il primo responsabile. Anche il Movimento 5 Stelle chiede le dimissioni di Marino: "Questa è l’ennesima prova che il sistema dei partiti è totalmente marcio, ivi incluso il Pd romano".

Fuoriluogo, scrive Franco Corleone su “L’Espresso”. L'onestà politica secondo Benedetto Croce. L’invocazione ossessiva dell’onestà è ben giustificata da mille episodi della cronaca del malaffare e però un bagno di razionalità può essere utile. Leggere il saggio di Benedetto Croce presente nel volume Etica e politica appare dissacrante di tanti luoghi comuni. “Un’altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa dell’onestà nella vita politica”, così esordisce il filosofo e prosegue contestando la deriva per un Paese di affidare la cosa pubblica a onesti uomini tecnici. Croce definisce strana la pretesa che nelle cose della politica si chiedano non uomini politici ma onest’uomini. “Ma che cosa è, dunque, l’onestà politica?- si domanderà. L’onestà politica non è altro che la capacità politica: come l’onestà del medico e del chirurgo, è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze”. Vale la pena di leggere gli esempi della storia che presenta Croce per giustificare la sua posizione, ma soprattutto è istruttiva la sua conclusione: la disonestà coincide con la cattiva politica, con l’incapacità politica. Una tesi paradossale  che esalta la politica e in tempi di crisi, di vero abisso della politica, rappresenta una lezione aristocratica.

Mafia Capitale, la Procura: "Rubano tutti". Gli arresti posticipati per non influenzare il voto delle regionali, scrive Claudia Fusani su L'Huffington Post. "Rubano tutti, ecco il filo rosso di questa seconda parte dell'inchiesta....". A piazzale Clodio, sede della procura capitolina, il procuratore Pignatone non riceve i giornalisti e tutti i pm coinvolti, l'aggiunto Prestipino, i pm Luca Tescaroli, Giuseppe Cascini e Paolo Ielo, declinano gentilmente dichiarazioni e commenti. "Rubano tutti" resta l'amara constatazione dopo mesi di indagine e dopo aver riscontrato le dichiarazioni a verbale di numerosi manager e imprenditori che hanno spiegato "il sistema di potere trasversale ad ogni partito e maggioranza" che ha gestito ogni affare nella Capitale almeno negli ultimi dieci anni. Proprio per questa trasversalità, è stato chiaro a tutti che la seconda parte di Mafia capitale avrebbe avuto ricadute pesanti nelle settimane prima del voto già infuocate da una campagna elettorale durissima. "Abbiamo ritenuto necessario, per non influire sul voto, attendere la chiusura delle urne prima di procedere agli arresti" afferma una fonte in procura. Lo dimostrano le date: la richiesta della procura risale a marzo, l'ordinanza è stata firmata il 29 maggio, venerdì, quando già imperversava sul voto la lista dell'Antimafia. Attendere qualche giorno non avrebbe cambiato nulla. E così è stato deciso. Se in Mafia capitale parte Prima è stato protagonista Il sistema delle cooperative rosse che faceva capo a Salvatore Buzzi, nella parte Seconda la parte del leone la fanno le cooperative bianche. Al centro di molti passaggi dell'ordinanza lunga 500 pagine c'è infatti La Cascina, cooperativa bianca che fa riferimento a Comunione e Liberazione. Tra i 44 arresti di questa mattina per corruzione e concussione aggravati dalla modalità mafiosa, anche Menolascina, manager della cooperativa. Secondo l'accusa, la cooperativa garantiva un premio mensile di 10 mila a Lica Odevaine in quanto il tecnico che garantiva, dal tavolo nazionale per l'emergenza immigrazione, la gestione degli appalti per i centri profughi e immigrati. Una volta che La Cascina ha ottenuto l'appalto del Cara di Mineo (7 aprile 2014), il premio per Odevaine è stato raddoppiato (20 mila euro mensili). La cooperativa è emersa anche in un'altra delicata inchiesta del Ros dei Carabinieri: quella che ha portato in carcere Ettore Incalza, il super direttore generale del ministero delle Infrastrutture, e ha costretto alle dimissioni l'ex ministro Lupi (che non è mai stato indagato).

Il tariffario delle tangenti: “Un euro a migrante”, scrive “La Stampa”. Le intercettazioni del Ros svelano le mazzette. Il ras delle coop sociali Buzzi al telefono: «La mucca deve mangiare per essere munta». Mucche da mungere solo se ben foraggiate. Salvatore Buzzi, presidente della Cooperativa 29 giugno e in carcere per l’inchiesta di Mafia Capitale dello scorso anno, così si esprimeva al telefono con altri indagati. A pagina 21 dell’ordinanza del gip Flavia Costantini, che conta 500 pagine, si legge che «ha ricevuto l’eloquente risposta che la mucca era stata ben foraggiata dall’attività di Coratti (ex presidente del consiglio comunale ndr) considerazione alla quale altrettanto eloquentemente Buzzi ribadiva che «la mucca era stata munta tanto». Nell’ordinanza, che riporta appunto le intercettazioni telefoniche, viene evidenziato che ciò «è un’eloquente dimostrazione di un rapporto corruttivo continuativo nel tempo». «Le erogazioni di utilità di Buzzi, esecuzione della linea strategica delineata di concerto con Massimo Carminati - si legge nel provvedimento - avevano l’evidente funzione di asservire agli interessi del gruppo politici che gravitavano nei segmenti delle istituzioni maggiormente interessati ai rapporti con il gruppo medesimo». Ma la 29 giugno non è l’unica cooperativa interessata dalla «mungitura della mucca», il giudice scrive, infatti, ancora: «Gli esponenti del gruppo La Cascina (coop attiva, dal 2012, anche nel settore dei servizi per l’immigrazione, e oggetto questa mattina di perquisizione da parte dei carabinieri del Ros, ndr) avevano promesso a Luca Odevaine una retribuzione fissa mensile, concordata prima in 10mila euro al mese e poi aumentata a 20mila euro e commisurata al numero di immigrati ospitati dai centri gestiti dal gruppo». La cifra - spiega il Gip - è il «prezzo per lo stabile asservimento della sua funzione di pubblico ufficiale componente del Tavolo di Coordinamento sull’immigrazione istituito presso il ministero degli Interni» e «per il compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio come componente delle commissioni di aggiudicazione delle gare indette per la gestione dei servizi presso il Cara di Mineo». L’effettiva, periodica consegna delle somme pattuite, sarebbe confermata dalle intercettazioni ambientali e, «con certezza», in «almeno cinque episodi», dalle indagini tecniche. La conferma arriva dalle stesse parole di Odevaine, intercettato nell’ambito dell’inchiesta: «...altre cose in giro per l’Italia... possiamo pure quantificare, guarda ... se me dai ... cento persone facciamo un euro a persona ... non lo so, per dire, hai capito? E ...e basta, uno ragiona così dice va be’ ... ti metto 200 persone a Roma, 200 a Messina ... 50 là ... e ... le quantifichiamo, poi...». Questo è lo stralcio di una conversazione con alcuni suoi collaboratori intercettata nella sua stanza negli uffici della Fondazione IntegraAzione, grazie al quale il gip Flavia Costantini prospetta l’esistenza di «un vero e proprio tariffario per migrante ospitato». A titolo esplicativo Odevaine parla dell’accordo stretto, tra gli altri, con Salvatore Buzzi, presidente della Cooperativa 29 giugno e spiega: «Gli ho fatto avere altri centri, in Sicilia... in provincia di Roma e quant’altro, quindi su tutto quella... quella parte là ci mettiamo d’accordo dovremo..., più o meno, stiamo concordando una cifra tipo come 1 euro a persona, ci danno, calcolando che so’ almeno un migliaio di persone, dovrebbero essere grosso modo un migliaio di persone, insomma so’ 1000 euro al giorno quindi 30.000 euro al mese che entrano...». Costantini sottolinea come Le indagini dei carabinieri del Ros abbiano evidenziato «la straordinaria pericolosità di Luca Gramazio». L’amministratore di centrodestra «potrebbe sfruttare la rete ampia dei collegamenti per fornire nuova linfa alle attività delittuose e agli interessi dell’associazione» capeggiata da Massimo Carminati, «nonostante lo stato detentivo di numerosi sodali». In un altro passaggio viene evidenziato come per le elezioni al parlamento europeo del maggio 2014, Gianni Alemanno, chiese l’appoggio a Salvatore Buzzi. Quest’ultimo si sarebbe mosso per ottenere il sostegno alla candidatura anche con gli uomini della cosca `ndranghetista dei Mancuso di Limbadi. «Un ulteriore tassello idoneo a corroborare il rapporto di reciproco riconoscimento tra le due organizzazioni - scrive il giudice - è costituito dai riscontri intercettivi effettuati in occasione delle elezioni del Parlamento Europeo 2014, che hanno visto il politico Giovanni Alemanno, candidato nella lista «Fratelli d’Italia - Alleanza Nazionale», nella circoscrizione Sud». Buzzi, in una conversazione con Massimo Carminati, intercettata il 21 marzo del 2014, riferiva l’esito di un incontro avuto poco prima con Alemanno negli uffici della «Commissione Commercio» a Roma. «Buzzi - scrive il gip - riferiva del sostegno richiesto in quell’occasione dall’ex primo cittadino («no, no era pe’ la campagna elettorale ... una sottoscrizione e poi se candida al sud») e rappresentava al sodale come avesse individuato Campennì, indicato con il solo nome di battesimo, quale strumento idoneo per assecondare tale richiesta (».. da Giovanni ... gli famo fa ..«). Buzzi, il giorno seguente contattava «Giovanni Campennì, al fine di interessarlo per «da ’na mano a Alemanno ... in campagna elettorale ...«. Il tentativo «di Buzzi di mascherare, in maniera evidentemente strumentale con l’interlocutore («sto numero è intercettato ... però so telefonate legali ..»), l’illecita richiesta pervenutagli, facendola passare come innocua e legittima istanza volta ad ampliare il consenso elettorale (»? basta che non sia voto di scambio .... tutto è legale ... uno po’ vota’ gli amici???!!!»), nell’ambito di una circoscrizione elettorale particolarmente ampia («? mica può venire li!!! Scusa ... no perché la circoscrizione è grandissima .... è Abruzzo .... Campania .... la Calabria .... Puglia .... Basilicata ..... come cazzo fa? ... èèè ....»), veniva perfettamente compreso da Campennì, il quale, avendo evidentemente ben inteso il vero senso della richiesta («ah ste chiamate so legali??? ...»), aderiva prontamente alla richiesta, non potendo evitare, tuttavia, di sottolineare la propria capacità di poter attingere a un ampio bacino di consensi pilotabili, facendo ricorso a una metafora particolarmente espressiva («va bene .... allora .... è qua la famiglia è grande ... un voto gli si dà»).

Mafia Capitale, 44 arresti tra politica e affari. In manette anche big di Pd e Forza Italia. Seconda ondata di provvedimenti cautelari nell'inchiesta sulla malavita romana. Tra i reati contestati associazione mafiosa, corruzione, turbativa d’asta e false fatturazioni. Tanti i nomi della politica locale coinvolti, scrive Lirio Abbate su L’Espresso”. Il clan mafioso di Massimo Carminati aveva in pugno politici regionali e comunali attraverso i quali riusciva a gestire appalti e incassare milioni di euro di soldi pubblici. Su Roma si abbatte così il secondo atto giudiziario di mafia Capitale, con 44 arresti eseguiti stamani dai carabinieri del Ros che hanno condotto le indagini, coordinate dalla procura antimafia di Roma. E così, accanto al cecato, compaiono nel provvedimento cautelare il capogruppo prima del Pdl e poi Forza Italia alla Regione, Luca Gramazio, ma anche l'ex presidente del consiglio comunale Mirko Coratti e l'ex minisindaco di Ostia Andrea Tassone, entrambi del Pd. Ma c'è anche l'ex consigliere comunale del Pdl Gerardo Tredicine. E poi soci e amministratori di cooperative bianche che si erano aggiudicati incarichi per l'emergenza immigrati. Mafia Capitale secondo atto: i carabinieri del Ros hanno eseguito 44 nuovi arresti tra Lazio, Abruzzo e Sicilia. I reati contestati sono associazione di tipo mafioso, corruzione, turbativa d'asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori ed altro. Il blitz è scatato all'alba nelle province di Rieti, Frosinone, l'Aquila, Catania ed Enna. Altre 21 persone risultano indagate. Su di loro sono in corso perquisizioni. uesta seconda tornata di arresti, secondo gli inquirenti, "conferma l'esistenza di una struttura mafiosa, operante nella capitale, cerniera tra ambiti criminali ed esponenti degli ambienti politici, amministratori ed imprenditori locali". Tra gli arrestati ci sono anche il consigliere regionale di Fi, Luca Gramazio, l'ex presidente del consiglio comunale di Roma, Mirko Coratti, l'ex assessore Daniele Ozzimo, Giordano Tredicine e l'ex presidente del municipio di Ostia, Andrea Tassone. Sono dunque 44 le persone arrestate (fra detenzione in carcere e quella domiciliare) con le accuse a vario titolo di associazione mafiosa, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, con l’aggravante delle modalità mafiose. E poi ci sono altre 21 persone indagate per le quali sono scattate stamani le perquisizione. Gli interventi dei carabinieri sono stati effettuati nelle province di Roma, Rieti, Frosinone, L’Aquila, Catania e Enna.Salvatore Buzzi parla con Massimo Carminati e gli dice che i consiglieri comunali dovevano stare ai loro ordini poiché vengono pagati e, pertanto, devono rispettare gli accordi perché "se non rispetti gli accordi, lo sai da dove vengo". Le indagini coordinate dal procuratore aggiunto Michele Prestipino, in questa nuova fase, hanno permesso di acquisire ulteriori elementi sul metodo mafioso attuato dal clan Carminati, confermato anche dalle testimonianze rese da diversi imprenditori vittime. È questa un'altra grande sorpresa: la collaborazione di molte delle vittime del clan. Gli imprenditori chiamati nei mesi scorsi dagli investigatori non hanno negato di aver subito pressioni o violenza ed hanno parlato, facendo cadere lo strano di omertà che aveva avvolto molti altri. E grazie alle indagini è stata confermata la centralità nel clan Carminati di Salvatore Buzzi, che era a capo di una rete di cooperative sociali che si sono assicurate, nel tempo, mediante pratiche corruttive e rapporti collusivi, numerosi appalti e finanziamenti della Regione Lazio, del Comune di Roma e delle aziende municipalizzate. Un giro di affari per 150 milioni di euro solo con il Campidoglio. Il consigliere Luca Gramazio è accusato di associazione mafiosa «in qualità di esponente della parte politica che interagiva, secondo uno schema tripartito, con la componente imprenditoriale e quella propriamente criminale».La malavita romana lucra sulla pelle dei più poveri, e gli ultimi arresti dimostrano quanto il sistema fosse capillare. Per fortuna c'è anche chi si ribella all'omertà che dilaga a Roma. Il nostro inviato spiega come si evolve l'inchiesta "Mondo di mezzo". Gramazio prima nella carica di capogruppo Pdl al Consiglio comunale di Roma ed in seguito come capogruppo Pdl (poi Forza Italia) presso il Consiglio Regionale del Lazio, sfruttando la propria appartenenza alle due assemblee amministrative e la conseguente capacità di influenza nell’ambiente istituzionale «poneva in essere condotte strumentali al conseguimento degli scopi del sodalizio».

Mafia Capitale, le nuove telefonate. «La mucca tu la devi mungere, però gli devi dà da mangià». La metafora di Buzzi per spiegare il sistema delle tangenti, scrive Giovanni Bianconi su  “Il Corriere della Sera”. Sono ancora una volta le intercettazioni telefoniche e ambientali nelle quali Salvatore Buzzi racconta il suo ruolo di corruttore a comporre il secondo capitolo di Mafia Capitale, che arriva dritto nel governo di Roma (cinque consiglieri comunali arrestati e altri indagati, insieme a funzionari di vari livelli finiti anch’essi in carcere), della Regione dove pure sarebbero stati siglati “accordi spartitori”, e del sistema di gestione dell’emergenza immigrati. Secondo i pubblici ministeri della Procura di Roma e il giudice dell’indagine preliminare che ha concesso i nuovi arresti – basati su ulteriori accertamenti e verifiche svolte dai carabinieri del Ros – l’organizzazione guidata dal “signore delle cooperative” Buzzi e dall’ex estremista nero Massimo Carminati ha esteso la propria rete corruttiva in maniera sempre più trasversale, passando senza problemi dall’amministrazione capitolina di centro-destra, quando era sindaco Gianni Alemanno, a quella di centro-sinistra, guidata da Ignazio Marino. Continuando a comprare, attraverso consistenti somme di denaro e “altre utilità”, gli amministratori e i funzionari che servivano a pilotare le gare e ottenere l’assegnazione degli appalti. E così, per un buon numero dei nuovi inquisiti è scattata l’aggravante di aver favorito, grazie alla “vendita” delle proprie funzioni, “l’associazione mafiosa diretta da Carminati”, già riconosciuta come tale da una pronuncia della corte di cassazione. Secondo il giudice Flavia Costantini che ha firmato la nuova ordinanza d’arresto, le frasi pronunciate da Buzzi nei dialoghi con Carminati e altri personaggi coinvolti nei “di mezzo”, “di sopra” e “di sotto” scoperchiati dall’inchiesta, rivelano “circostanze veritiere”, che peraltro hanno trovato riscontro nelle indagini degli investigatori del Ros. In una telefonata del 15 ottobre 2014 – un mese e mezzo prima degli arresti del 2 dicembre – il manager delle cooperative parlava con Franco Figurelli, all’epoca appartenente alla segreteria del presidente del consiglio comunale Mirko Coratti, e prendendo spunto dalla richiesta di assunzione per una ragazza avanzata da Figurelli, rendeva chiara la sua filosofia.

Buzzi: “Ahò ma, scusa ma lo sai... la sai la metafora?

Figurelli: “Eh…”.

Buzzi: “La mucca deve mangiare”.

Figurelli: “Ahò, questa metafora io glielo dico sempre al mio amico, mi dice: ‘non mi rompere, perché se questa è la metafora lui ha già, già fatto, quindi non mi rompere’...”.

Buzzi: “Ma... fai fa... fagli un elenco...

Figurelli: “Salvatò…”

Buzzi: “Fagli un elenco della mangiatoia, digli, oh” (ridono)

Figurelli: “Salvatò, te voglio be... già me rompe… dice: ‘E’ possibile che Salvatore a noi ce risponde così?’, ho detto: ‘Ahò, che te devo di’, gli ho detto, ‘questa è la metafora che me dà il cammello e della cosa… quindi che te devo fà?’” (…)

Buzzi: “Sì, ma io investo su di te, lo sai che investo su di te”.

Figurelli “Eh, meno male” (…)

Buzzi: “Ahò, però diglielo: ‘guarda che ha detto Buzzi che qui la mucca l’avemo munta tanto… (sovrapposizione di voci)”.

In altre occasioni, e parlando con altri personaggi, Buzzi tornava spesso sulla stessa metafora, per spiegare – nell’interpretazione dell’accusa – che politici e funzionari dovevano foraggiare le sue cooperative (attraverso gli appalti) per poi ricavarne qualcosa anche per loro (le tangenti): “Se la mucca non mangia non può essere munta”; “La mucca tu la devi mungere, però gli devi dà da mangià”; “La mucca può essere munta solo se mangia”. Secondo l’accusa che ora li ha portati in carcere, Figurelli e Coratti (i quali hanno cambiato incarico dopo la retata di dicembre) ricevevano un vero e proprio “stipendio” per mettere le proprie funzioni al servizio del gruppo guidato da Buzzi e Carminati. I quali, con il cambio di maggioranza in Campidoglio, hanno dovuto “investire nell’acquisizione di nuovo capitale istituzionale”. In un’altra conversazione intercettata, dopo un lungo elenco di nomi e di cifre lo stesso Buzzi, afferma: “Perché noi pagamo tutti, come vedi”. E il 17 novembre scorso, appena 15 giorni prima di essere arrestato nell’operazione del 2 dicembre, faceva proclami agguerriti, che nel linguaggio evocano espressioni da Romanzo criminale: “Noi comunque … ti dico una cosa… lui (Marino ndr) se resta sindaco altri tre anni e mezzo, con il mio amico capogruppo ci mangiamo Roma”.

Secondo capitolo dell'inchiesta Mondo di Mezzo della procura di Roma e dei carabinieri del Ros: 44 gli arresti in corso di esecuzione in Sicilia, Lazio e Abruzzo per associazione per delinquere ed altri reati. Ventuno gli indagati a piede libero. Sullo sfondo il business legato ai flussi migratori e alla gestione dei campi di accoglienza per migranti, scrive Panorama. Il blitz dei carabinieri è scattato all'alba nelle province di Roma, Rieti, Frosinone, L'Aquila, Catania ed Enna. Nell'ordinanza di custodia cautelare, emessa su richiesta della procura distrettuale antimafia di Roma, e del gip Claudia Costantini, vengono ipotizzati a vario titolo i reati di associazione di tipo mafioso, corruzione, turbativa d'asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori ed altro. Contestualmente agli arresti altre 21 persone sono state perquisite in quanto indagate per gli stessi reati. I provvedimenti riguardano gli sviluppi delle indagini condotte dal Ros nei confronti di Mafia Capitale, il gruppo mafioso riconducibile a Massimo Carminati, ora in carcere. Secondo gli investigatori, gli accertamenti successivi a quella tornata di arresti hanno confermato "l'esistenza di una struttura mafiosa operante nella Capitale, cerniera tra ambiti criminali ed esponenti degli ambienti politici, amministrativi ed imprenditoriali locali". In particolare le indagini hanno documentato quello che gli inquirenti definiscono un "ramificato sistema corruttivo finalizzato a favorire un cartello d'imprese, non solo riconducibili al sodalizio, interessato alla gestione dei centri di accoglienza e ai consistenti finanziamenti pubblici connessi ai flussi migratori. Secondo il magistrato, Luca Gramazio "svolge un ruolo di collegamento tra l'organizzazione da un lato e la politica e le istituzioni dall'altro, ponendo al servizio della stessa il suo 'munus publicum' e il suo ruolo politico". Un collegamento che, sul piano politico, si traduce nella costruzione del consenso necessario ad assecondare gli affari del sodalizio; sul piano istituzionale, si materia di iniziative formali e informali intese per un verso a collocare nei plessi - sensibili per l'organizzazione - dell'amministrazione pubblica soggetti graditi, per altro verso nell'orientare risorse pubbliche in settori nei quali il sodalizio, in ragione del capitale istituzionale di cui dispone, ha maggiori possibilità di illecito arricchimento. Egli, inoltre, "elabora insieme ai vertici dell'organizzazione le strategie di penetrazione della pubblica amministrazione". Infine, sostiene ancora il gip, il consigliere regionale, "riceve dall'organizzazione per un verso una costante erogazione di utilità, per altro verso protezione e sicurezza in tutti quei casi in cui si rende necessario". Secondo gli inquirenti della Procura di Roma sarebbero state versate a Luca Gramazio mazzette per oltre 100mila euro dal gruppo guidato da Massimo Carminati. In particolare nella contestazione presente nell'ordinanza del gip Costantini si spiega che il consigliere regionale avrebbe avuto "98mila euro in contanti in tre tranches (50.000-28.000-20.000)"; ma anche "15mila euro con bonifico per finanziamento al comitato Gramazio". Inoltre, anche per "l'assunzione di 10 persone, cui veniva garantito nell'interesse di Gramazio uno stipendio; la promessa di pagamento di un debito per spese di tipografia". A carico di Gramazio jr è ipotizzata "l'aggravante di aver agito al fine di agevolare l'associazione di tipo mafioso indicata al capo 23". "Il ruolo di Luca Gramazio, quale personaggio vicino all'associazione in esame, era già emerso, ma è stato possibile solo successivamente, con un ulteriore e più approfondito vaglio del materiale investigativo, delineare il ruolo dello stesso all'interno dell'associazione, che può ricondursi al capitale istituzionale di Mafia Capitale" ha affermato Costantini, nell'ordinanza di custodia cautelare che riguarda anche il consigliere regionale. Delle perquisizioni in corso nell'ambito di Mafia Capitale, una riguarda la cooperativa "La Cascina", vicina al mondo cattolico. Gestisce tra l'altro il Cara di Mineo, in Sicilia. La perquisizione rientra nel quadro degli accertamenti sulla gestione degli appalti per i rifugiati. I Ros hanno poi perquisito anche gli uffici della Manutencoop a Zola Predosa (Bologna). Secondo quanto si apprende i militari del comando emiliano-romagnolo agiscono su delega della Procura di Roma e oggetto del loro interesse è il sequestro della documentazione in un ufficio, un faldone relativo ad una singola gara che si è tenuta a Roma e che coinvolge il colosso cooperativo. "Credo che la politica nel passato abbia dato un cattivo esempio ma oggi sia in Campidoglio che in alcune aree come Ostia abbiamo persone perbene che vogliono ridare la qualità di vita e tutti i diritti e la dignità che la Capitale merita". Così il sindaco di Roma Ignazio Marino sulla nuova ondata di arresti per l'inchiesta su Mafia Capitale. E a chi gli chiede notizie riguardo sue possibili dimissioni, taglia corto: "Dimissioni? Continuiamo in questo modo. Stiamo cambiando tutto. Una politica antica non solo nei metodi ma anche nei contenuti, e in alcuni casi gravemente colpevole è stata allontanata da me".

Mafia capitale 2: ecco chi sono i politici arrestati. Nell'operazione Mondo di Mezzo bis dei Carabinieri del Ros finiscono in carcere 44 persone, la maggior parte esponenti della politica romana, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". L'operazione Mondo di Mezzo Bis. Mondo di Mezzo, secondo atto. Non è stata certo una novità. Le indagini condotte dai Carabinieri del Ros e gli arresti effettuati a dicembre scorso facevano intuire che all'inchiesta di Mafia capitale ci sarebbe stato un seguito. E ,a distanza di meno di sei mesi, altre decine di arresti spaccano il mondo politico e imprenditoriale romano, abruzzese e siciliano. Il blitz dei carabinieri è scattato all'alba nelle province di Roma, Rieti, Frosinone, L'Aquila, Catania ed Enna. Nell'ordinanza di custodia cautelare, emessa su richiesta della procura distrettuale antimafia di Roma, vengono ipotizzati a vario titolo i reati di associazione di tipo mafioso, corruzione, turbativa d'asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori ed altro. Contestualmente agli arresti, in tutto 44 e che per la maggior parte riguardano politici, ci sono state perquisizioni a carico di altre 21 persone indagate per gli stessi reati. Gli sviluppi delle indagini condotte dal Ros sono legati al gruppo mafioso riconducibile a Massimo Carminati, ora in carcere. In particolare, le ultime indagini, hanno documentato quello che gli inquirenti definiscono un ramificato sistema corruttivo finalizzato a favorire un cartello d'imprese, non solo riconducibili al sodalizio, interessato alla gestione dei centri di accoglienza e ai consistenti finanziamenti pubblici connessi ai flussi migratori.

Manette per Luca Gramazio. Tra i 44 arresti del Ros nel nuovo filone di Mafia Capitale c'è anche Luca Gramazio. Questi è accusato di partecipazione all'associazione mafiosa capeggiata da Carminati, che avrebbe favorito sfruttando la sua carica politica: prima di capogruppo Pdl al Consiglio di Roma Capitale ed in seguito quale capogruppo Pdl (poi FI) presso il Consiglio Regionale del Lazio. Luca Gramazio è figlio dello storico senatore di An Domenico. E' stato consigliere comunale Pdl a Roma nella maggioranza di Gianni Alemanno.

Carcere per l'ex presidente Coratti. In carcere c'è anche l'ex presidente del Consiglio comunale di Roma, Mirko Coratti, candidato come Consigliere del Municipio III a soli 24 anni e nel 2001 entrato a far parte del Consiglio. Successivamente ha assunto la carica di Presidente del Consiglio comunale mentre era sindaco Veltroni.

In cella anche Daniele Ozzimo. In manette anche l'ex assessore alla Casa del Campidoglio, Daniele Ozzimo. Viene eletto nel 2008 al Consiglio del Comune di Roma nelle liste del Partito Democratico ricoprendo la carica di vice Presidente della Commissione Politiche Sociali e diventando membro della Commissione Lavori Pubblici, Scuola e Sanità.

Arrestato anche il consigliere comunale Giordano Tredicine. I Ros hanno posto in arresto anche il consigliere comunale Giordano Tredicine. Nel 2006, Tredicine diventa consigliere al IX Municipio con 1.576 preferenze ed è nominato Presidente Gruppo Consiliare Forza Italia. Nel 2008 è eletto in Consiglio Comunale con 5.284 preferenze, risultando il consigliere più giovane del Gruppo Consiliare del Comune di Roma. Viene nominato Presidente della Commissione Politiche Sociali e Famiglia e Vicecapogruppo del Pdl in Consiglio Comunale.

In manette anche Massimo Caprari. Gli arresti sono scattati anche per il consigliere comunale Massimo Caprari, dal giugno 2013 Consigliere dell’Assemblea Capitolina di Roma Capitale e membro nelle seguenti Commissioni: Lavori Pubblici, di cui è Vice Presidente Vicario, Patrimonio - Politiche Abitative e Progetti Speciali, Urbanistica, Roma Capitale e Riforme Istituzionali, Commissione Speciale Politiche Comunitarie e Commissione di Indagine Amministrativa sull’ATAC, di cui è Presidente.

In carcere anche Andrea Tassone. Le porte del carcere si sono aperte anche per l'ex presidente del X Municipio (Ostia), Andrea Tassone. 

In carcere anche il responsabile anti-corruzione degli ospedali laziali, Angelo Scozzafava. Tra gli arrestati di questa mattina anche Angelo Scozzafava, ex assessore comunale a Roma alle Politiche Sociali. Dirigente azienda ospedaliera S. Andrea, Scozzafava era il responsabile anti-corruzione e trasparenza della S.Andrea, una delle principali aziende ospedaliere del Lazio.

Colpita anche la Regione Lazio. I provvedimenti hanno riguardato anche alti dirigenti della Regione Lazio come Daniele Magrini nella veste di responsabile del dipartimento Politiche Sociali... Ancora manette al Campidoglio. In manette anche Mario Cola, dipendente del dipartimento Patrimonio del Campidoglio e Franco Figurelli che lavorava presso la segreteria di Mirko Coratti. In manette anche un costruttore. Arresti domiciliari anche per il costruttore Daniele Pulcini. L'imprenditore era già finito sotto la lente d'ingrandimento della procura di Roma per una maxi-inchiesta sulle tangenti Enpam. Secondo gli investigatori avrebbe pagato una "bustarella" da un milione e 800 mila euro al parlamentare del Pd Marco Di Stefano quando era assessore al Demanio della giunta regionale guidata da Piero Marrazzo. Nuove accuse anche per la Chiaravalle. Nuove accuse per l'indagata marsicana Pierina Chiaravalle, 31 anni, nell'ambito del secondo filone dell'inchiesta. Originaria di Avezzano e agli arresti domiciliari da dicembre 2014. 

Migranti, il business dell'emergenza. Dalla primavera del 2014 le prefetture stanno affidando i servizi d'accoglienza per stranieri con procedure "straordinarie". Che permettono di lucrare. E aumentano il rischio di bombe sociali, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Il centro d'accoglienza di Corcolle da cui erano partite proteste violente Dopo gli scandali, forse per pudore, non è più definita “emergenza”. Il risultato però è lo stesso: fiumi di soldi, controlli inesistenti, sprechi accertati. Dalla primavera del 2014 le prefetture di tutta Italia stanno affidando per vie “straordinarie” i servizi d’accoglienza per migranti. L’impegno economico per lo scorso anno supera i 480 milioni di euro, considerando vitto, alloggio e una minima assistenza. Le altre spese (organizzazione, trasporti) non è dato saperle: il ministero dell’Interno non ha risposto a “l‘Espresso”. Intanto, grazie alle procedure direttissime del Viminale una pletora di hotel, agriturismi, bed and breakfast e persino officine si sono riempite di richiedenti asilo, con rimborsi giornalieri dai 30 ai 35 euro pro capite. Una ricca occasione: le strutture temporanee non devono rendicontare le spese; se riescono a risparmiare, tagliando magari sulle attività per i rifugiati, è tutto guadagno. I prefetti, dicono, pagano pure puntualmente. In questa rete rabberciata sono raccolte oggi 33mila persone. E se la fretta di trovare alloggi è giustificata dall’aumento choc degli sbarchi, meno comprensibile è la nebbia che circonda i contratti, a partire dal gran numero di prefetture (Calabria in testa) che dimenticano di pubblicare online  affidatari e importi, come impone la legge. «L’emergenzialità favorisce chi lucra e rischia di provocare bombe sociali», sintetizza Berardino Guarino, dirigente del Centro Astalli di Roma, il ricovero per migranti fondato dai gesuiti. Il suo più che un teorema è una constatazione: nella Capitale il fiume di soldi dell’emergenza (quella sì chiamata così anche nei documenti ufficiali), dichiarata nel 2011 per le rivolte del Nord Africa , ha rimpinguato le casse del consorzio Eriches di Salvatore Buzzi , il braccio destro di Massimo Carminati. Il business ha significato anche altro. I maxi-condomini affittati di corsa nelle periferie hanno trasformato spesso l’accoglienza in disperazione, quindi in disagio, infine in scontri, come è successo a Corcolle o a Tor Sapienza . «La lezione non è servita», scuote la testa Guarino: «A Roma ci sono ancora 3500 posti “straordinari”. E manca un piano per l’integrazione». Ad approfittare dell’Emergenza Nord Africa – un miliardo e 300 milioni fra il 2011 e  febbraio 2013 - e poi di Mare Nostrum non è stata solo la società di Buzzi, aderente alla rossa Lega Coop. La cattolica Domus Caritatis , che gestisce decine di centri a Roma e ha una partecipazione al Cara di Mineo, ha raddoppiato il fatturato: da 18 a 36 milioni. Come lei si sono ingranditi i gruppi di cui fa parte: il Consorzio Casa della Solidarietà, rappresentato da Tiziano Zuccolo (intercettato al telefono con Buzzi: «L’accordo è al 50 per cento, dividiamo da buoni fratelli», dicevano degli appalti) e La Cascina, vicina a Cl. Rispetto agli sprechi dell’Emergenza Nord Africa, denunciati da “l’Espresso”, qualcosa è cambiato. I costi sono più contenuti: si è passati da 45 a circa 30 euro al giorno. E il governo ha aumentato i posti “ordinari” prima di aprire il suk di quelli extra. I vantaggi sono quattro: i soldi per i servizi (denominati Sprar) arrivano in gran parte dall’Europa, non dallo Stato. Le coop sono costrette a rendicontare le spese. I controlli sono (in teoria) maggiori. E soprattutto sono coinvolti gli enti locali. L’ampliamento d’urgenza però - i Comuni sono passati in un anno da 3mila a 20mila posti – ha intaccato la qualità generale di un sistema considerato d’eccellenza, come nota Gianfranco Schiavone di Asgi (associazione studi giuridici per l’immigrazione). «Metà dei progetti finanziati per i prossimi tre anni ha ricevuto una valutazione molto bassa, lontanissima dal punteggio riconosciuto al primo, che è del comune di Parma». Su 446 progetti, poi, 226 sono in Sicilia, Puglia, Calabria e Basilicata. «Per questo insistiamo sulla necessità di un piano nazionale», conclude il giurista. Ma con i piani si fanno meno soldi. Mentre l’emergenza è un affare d’oro. Tanto paga il prefetto.

Chi specula sui profughi. Un miliardo e 300 milioni: è quello che ha speso finora lo Stato per assistere le persone fuggite da Libia e Tunisia. Un fiume di denaro senza controllo. Che si è trasformato in business per albergatori, coop spregiudicate e truffatori, scrivono Michele Sasso e Francesca Sironi su “L’Espresso”. Erano affamati e disperati, un'ondata umana in fuga dalla rivoluzione in Tunisia e dalla guerra in Libia: fra marzo e settembre dello scorso anno l'esodo ha portato sulle nostre coste 60 mila persone. Profughi, accolti come tali dall'Italia o emigrati in fretta nel resto d'Europa: solo 21 mila sono rimasti a carico della Protezione civile. Ma l'assistenza a questo popolo senza patria è stata gestita nel caos, dando vita a una serie di raggiri e truffe. Con un costo complessivo impressionante: la spesa totale entro la fine dell'anno sarà di un miliardo e 300 milioni di euro. In pratica: 20 mila euro a testa per ogni uomo, donna o bambino approdato nel nostro Paese. Ma i soldi non sono andati a loro: questa pioggia di milioni ha alimentato un suk, arricchendo affaristi d'ogni risma, albergatori spregiudicati, cooperative senza scrupoli. Per ogni profugo lo Stato sborsa fino a 46 euro al giorno, senza verificare le condizioni in cui viene ospitato: in un appartamento di 35 metri quadrati nell'estrema periferia romana ne sono stati accatastati dieci, garantendo un reddito di oltre 12 mila euro al mese. Ancora una volta emergenza è diventata la parola magica per scavalcare procedure e controlli. Gli enti locali hanno latitato, tutto si è svolto per trattative privata: un mercato a chi si accaparrava più profughi. E il peggio deve ancora arrivare. I fondi finiranno a gennaio: se il governo non troverà una soluzione, i rifugiati si ritroveranno in mezzo alla strada. In Italia sono rimaste famiglie africane e asiatiche che lavoravano in Libia sotto il regime di Gheddafi. La prima ondata, composta soprattutto da giovani tunisini, ha preso la strada della Francia grazie al permesso umanitario voluto dall'allora ministro Roberto Maroni. Ma quando Parigi ha chiuso le frontiere, lo stesso Maroni ha varato una strategia federalista: ogni regione ha dovuto accogliere un numero di profughi proporzionale ai suoi abitanti (vedi grafico a pag. 39). A coordinare tutto è la Protezione civile, che da Roma ha incaricato le prefetture locali o gli assessorati regionali come responsabili del piano di accoglienza. Ma, nella fretta, non ci sono state regole per stabilire chi potesse ospitare i profughi e come dovessero essere trattati. Così l'assistenza si è trasformata in un affare: bastava una sola telefonata per venire accreditati come "struttura d'accoglienza" e accaparrarsi 1.200 euro al mese per ogni persona. Una manna per centinaia di alberghi vuoti, ex agriturismi, case-vacanze disabitate, residence di periferia e colonie fatiscenti. Dalle Alpi a Gioia Tauro, gli imprenditori del turismo hanno puntato sui rifugiati. A spese dello Stato. Le convenzioni non sono mai un problema: vengono firmate direttamente con i privati, nella più assoluta opacità. Grazie a questo piano, ad esempio, 116 profughi sono stati spediti, in pantaloncini e ciabatte, dalla Sicilia alla Val Camonica, a 1.800 metri di altezza. I proprietari del residence Le Baite di Montecampione non sono stati i soli a fiutare l'affare. Anche nella vicina Val Palot un politico locale dell'Idv, Antonio Colosimo, ne ha ospitati 14 nella sua casa-vacanze, immersa in un bosco: completamente isolati per mesi, non potevano far altro che cercare funghi. I più furbi hanno trattato anche sul prezzo. La direttiva ufficiale, che stabilisce un rimborso di 40 euro al giorno per il vitto e l'alloggio (gli altri 6 euro dovrebbero essere destinati all'assistenza), è arrivata solo a maggio. Nel frattempo, la maggior parte dei privati aveva già ottenuto di più. Gli albergatori napoletani sono riusciti a strappare una diaria di 43 euro a testa. Non male, se si considera che in 22 alberghi sono ospitate, ancora oggi, più di mille persone. «La domanda turistica al momento degli sbarchi era piuttosto bassa», ammette Salvatore Naldi, presidente della Federalberghi locale. La Protezione civile prometteva che sarebbero state strutture temporanee. Non è andata così: solo all'Hotel Cavour, in piazza Garibaldi, di fronte alla Stazione centrale, dormono tutt'ora 88 nordafricani. Le stanze, tanto, erano vuote: i viaggiatori si tengono alla larga, a causa dell'enorme cantiere che occupa tutta la piazza. Ma grazie ai rifugiati i proprietari sono riusciti lo stesso a chiudere la stagione: hanno incassato quasi 2 milioni di euro. I richiedenti asilo però non sono turisti, ma persone che hanno bisogno di integrarsi. La legge prevede che ci siano servizi di mediazione culturale, che sono rimasti spesso un miraggio o sono stati appaltati a casaccio:«A Napoli sono spuntate in pochi mesi decine di associazioni mai sentite nominare», denuncia Jamal Qadorrah, responsabile immigrazione della Cgil Campania: «Ogni albergatore poteva affidare i servizi a chi voleva, nonostante ci sia un albo regionale degli enti competenti. Tutti, puntualmente, ignorati». Non solo. «A luglio di quest'anno abbiamo organizzato un incontro fra il Comune e gli albergatori», racconta Mohamed Saady, sindacalista della Cisl: «Diverse strutture non avevano ancora un mediatore». Ed era passato più di un anno dall'inizio dell'emergenza. Il business dei nuovi arrivati non ha lasciato indifferenti nemmeno i professionisti della solidarietà. Cooperative come Domus Caritatis, che gestisce otto comunità solo a Roma. Anche i suoi centri sono finiti nel mirino di Save The Children e del garante dell'infanzia e dell'adolescenza del Lazio. Dopo numerose segnalazioni l'ong è andata a controllare 14 strutture della capitale che si fanno rimborsare 80 euro al giorno per l'accoglienza di minori stranieri non accompagnati. Il risultato è un rapporto inquietante, presentato a maggio alla Protezione civile e al Viminale, che "l'Espresso" ha esaminato. Si parla di sovraffollamento, ma soprattutto di senzatetto quarantenni fatti passare per ragazzini scappati dalla Libia. Durante l'indagine sono stati intervistati 145 profughi. «Più di cento erano palesemente maggiorenni», denuncia l'autrice del rapporto, Viviana Valastro: «Quelli che avevo di fronte a me erano adulti. Altro che diciassettenni. Non posso sbagliarmi». Non solo. «Molti di loro erano in Italia da tempo, non da pochi mesi. Alcuni arrivavano dagli scontri di Rosarno». Doppia truffa insomma: sull'età e sulla provenienza, per avere un rimborso più che maggiorato e intascare milioni di euro. Tutto questo da parte di una cooperativa strettamente legata all'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone e a La Cascina, la grande coop della ristorazione che tre anni fa è stata al centro di un'inchiesta per il tentativo di entrare nella gestione dei cpt. Save The Children non è stata la sola a denunciare la situazione romana. Anche il presidente della commissione capitolina per la sicurezza, Fabrizio Santori, esponente del Pdl, ha dovuto occuparsi di Domus Caritatis. La cooperativa infatti gestiva una comunità che dava grossi problemi al vicinato, da cui arrivavano continue proteste. Santori l'ha visitata e si è trovato davanti ad alloggi di 35 metri quadri abitati da 10 persone. Peggio che in un carcere. Eppure gli appartamentini di via Arzana, a metà strada fra Roma e Fiumicino, più vicini all'aeroporto che alla città, permettevano di incassare più di 12 mila euro al mese. Save The Children ha calcolato che in strutture di questo tipo, nella capitale, vivono quasi 950 persone. Dati incerti, perché solo cinque cooperative hanno accettato di fornirli. Domus Caritatis, dalla sua sede all'abbazia trappista delle Tre Fontane, non ha voluto dare alcuna informazione. Il dossier dell'ong internazionale descrive un caos assoluto: mancanza di responsabili, nessun servizio di orientamento e accompagnamento legale, strutture inadeguate. Al Nord la situazione non cambia. A Milano si registrano casi come quello della ex scuola di via Saponaro, gestito dalla Fondazione Fratelli di San Francesco d'Assisi, che ha accolto 150 rifugiati. Ospitati in una comunità per la cura dei senzatetto, l'accoglienza dei minori e degli ex carcerati: 400 persone, con esigenze diverse, costrette a vivere sotto lo stesso tetto in una vecchia scuola. «Le condizioni sono orribili: 10-12 letti per ogni camerata. E pieni di pidocchi e pulci», racconta un ragazzo ancora ospite. Le stanze sono inadatte perché costruite per ospitare alunni, non profughi, né tantomeno clochard che vivono in strada. «Un contenitore della marginalità sociale dove sono frequenti le risse: nigeriani contro kosovari, ghanesi contro marocchini e la lista dei ricoverati in ospedale si allunga ogni giorno», racconta chi è entrato tra quelle mura. Anche il personale è ridotto al minimo con pochi mediatori culturali (che spesso sono ex ospiti che non disdegnano le maniere forti per mantenere l'ordine), un solo assistente sociale e una psicologa per dieci ore alla settimana. Troppo poche per chi ha conosciuto gli orrori della guerra, le botte della polizia libica e porta sulla propria pelle i segni delle violenze. Anche i disturbi psichici abbondano, insieme all'alcolismo dilagante. A sette chilometri dai frati, 440 profughi hanno trovato alloggio a Pieve Emanuele, estrema periferia Sud di Milano. Qui sono stati ospitati nel residence Ripamonti, di proprietà del gruppo Fondiaria Sai, appena passata sotto il controllo di Unipol ma all'epoca saldamente in mano a Salvatore Ligresti. I clienti abituali dell'albergo sono poliziotti, guardie del vicino carcere di Opera o postini, che non bastano a riempire i 4 mila posti letto dell'albergo. Grazie all'emergenza però nelle settimane di massimo afflusso sono entrati nelle casse di Fonsai oltre 600 mila euro al mese. Vacanze forzate in alloggi confortevoli (le camere sono dotate anche di tivù satellitare) ma dove sono mancati completamente i corsi per imparare l'italiano o l'assistenza legale e psicologica. «Si poteva trovare una sistemazione più modesta e investire in altri sussidi» dice, banalmente, un ragazzo del Ghana. Oggi a Pieve Emanuele sono rimasti in 80. Ma nel frattempo al residence sono andati quasi sette milioni di euro. Lo Stato ha speso per l'emergenza 797 milioni di euro nel 2011 e altri 495 milioni nel 2012. Solo una parte è servita per l'accoglienza: centinaia di milioni di euro sono finiti in tendopoli, spostamenti, trasferte, rimborsi agli uffici di coordinamento. Fondi di cui si è persa la traccia. E sì che proprio per il buon uso dei soldi pubblici era stato istituito un "Gruppo di monitoraggio e assistenza", con il compito di visitare le strutture e segnalare i casi critici. Ma della task force degli ispettori dopo pochi mesi non si è saputo più nulla. «Noi facevamo parte del progetto ma da ottobre 2011 non siamo più stati convocati. Considerando che è partito ad agosto, il gruppo è durato meno di tre mesi», spiega a "l'Espresso" Laura Boldrini, portavoce dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati: «È mancato completamente il controllo da parte delle regioni e delle prefetture». La Corte dei conti della Calabria è andata oltre: ha messo nero su bianco che le convenzioni sottoscritte nella regione sono illegittime, perché non sono state sottoposte al controllo preventivo della Corte, obbligatorio anche nell'emergenza. Non solo. I giudici contabili di Catanzaro definiscono "immotivata" la diaria: 46 euro al giorno sono troppi. E pensare che in provincia di Latina sono riusciti a intascarseli quasi tutti spendendo solo 5 euro al giorno, per garantire a 75 profughi un misero piatto di riso. I cinque avidi gestori della cooperativa Fantasie sono stati arrestati dai carabinieri di Roccagorna. Insospettiti dall'aumento di stranieri in paese, i militari sono arrivati ad un casolare dove hanno trovato 46 persone alloggiate in 70 metri quadri. Nonostante il blitz la cooperativa ha continuato a ricevere i contributi della Regione Lazio per altri sei mesi: una truffa da 400 mila euro. Con le stesse risorse Aurelio Livraghi, volontario della Caritas di Magenta, in provincia di Milano, è riuscito a fare tutt'altro. «Milioni di italiani vivono con 1.200 euro al mese, perché loro no?». Osservazione semplice. Di un pensionato, che ha dedicato ai 35 profughi arrivati in paese le sue giornate. Persone oggi indipendenti: pagano un affitto, fanno la spesa, quattro di loro hanno già un lavoro. Recitano anche in teatro. Una vita normale: altro che emergenza. E quando finiranno i fondi? «Potranno andare avanti almeno un po' perché sono riuscito a fargli mettere da parte dei risparmi». Non era difficile, sarebbe bastato un minimo di organizzazione. E di umanità.

Mineo, la mangiatoia da duecento milioni. "Creiamo un gruppo e lo facciamo vincere". La procedura avviata a Ferragosto invitando pochissime aziende. Per aggiudicarsela c'era bisogno di una cucina da duemila pasti che aveva solo il consorzio vicino a Odevaine. La gara venne bandita dall'attuale sottosegretario Ncd Castiglione, allora presidente della provincia di Catania col Pdl, scrive Alessandra Ziniti su “La Repubblica”. "A 30 chilometri deve sta da Mineo... e noi quello l'abbiamo messo praticamente per fargli vincere la gara", dice Luca Odevaine vantandosi di quella trovata che gli aveva consentito di pretendere dai vincitori un raddoppio del suo stipendio-tangente: da 10 a 20 mila euro al mese. Una cucina da duemila pasti entro 30 chilometri dal Cara, una cucina in più, d'emergenza, perché all'interno del residence degli Aranci dove ha sede il più grande centro richiedenti asilo d'Europa, una cucina capace di sfornare 4000 pasti caldi due volte al giorno c'è già. Eccola la "condizione di gara idonea a condizionare la scelta del contraente", come i pm della Procura di Catania definiscono, nell'avviso di garanzia inviato al sottosegretario Giuseppe Castiglione e ad altre cinque persone tra cui Luca Odevaine, consulente del Cara, il "trucco" con il quale il mega-appalto da cento milioni di euro è stato sempre assegnato all'unico concorrente in grado di rispondere a tutti i requisiti richiesti. Un bando che il presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone definisce un "abito su misura". Al raggruppamento temporaneo d'imprese "Casa della Solidarietà" (composto dal consorzio Sisifo di Legacoop, Senis Hospes e La Cascina vicine a Comunione e Liberazione, dal consorzio Sol Calatino e dalla Pizzarotti di Parma proprietaria del residence) è bastato presentare l'offerta con un ribasso dell'uno per cento per assicurarsi la continuità in quella gestione che, a forza di proroghe, ha in mano da settembre 2011 e che, forte dell'appoggio del prefetto Mario Morcone, ha resistito ostinatamente alla "censura" di Cantone che ora annuncia l'avvio delle procedure di commissariamento.

Milioni sulla pelle dei rifugiati. Un dossier segreto commissionato dal Viminale svela il meccanismo attraverso il quale i soldi del pocket money, destinati agli ospiti dei centri d'accoglienza, non vengono distribuiti e spariscono nel nulla. La mancata erogazione dei 2,50 euro quotidiani cui ha diritto ogni migrante, nel solo Cara calabrese di Isola Capo Rizzuto, vale 3.750 euro al giorno che, moltiplicati per i 21 mesi di permanenza media dei richiedenti asilo, arrivano a superare i due milioni. Se si considera poi che la distribuzione della quota non avviene in modo regolare anche in altri centri italiani, le cifre lievitano ulteriormente. Si tratta di denaro che lo Stato versa agli enti gestori. RE Inchieste è entrata in possesso del documento che il ministero dell'Interno tiene in un cassetto da mesi, scrivono Raffaele Cosentino ed Alessandro Mezzaroma su “La Repubblica”. Illeciti e irregolarità nell'erogazione del "pocket money", la paga giornaliera ai richiedenti asilo, nell'impiego di mediatori culturali, interpreti e psicologi. E poi mancato rispetto delle procedure legali da parte di molte questure, come nel caso di quelle di Roma, Caltanissetta e Crotone che non rilasciano il permesso di soggiorno per richiesta d'asilo allo scadere dei 35 giorni di permanenza nel centro. E ancora, un quadro impietoso e desolante degli alloggi in cui i migranti, in particolare i richiedenti asilo, sono costretti a vivere, da Gorizia a Trapani. È quanto emerge da un rapporto riservato rimasto nei cassetti, o meglio, nei computer perché si tratta di file Excel, del ministero dell'Interno, mai reso pubblico, di cui Repubblica.it è entrata in possesso. Presenza di armi bianche, di scarafaggi nei container, mancanza di docce e di acqua calda, servizi igienici in comune per uomini e donne, lavandini otturati, rubinetti e vetri rotti, pulizia scarsa, bambini senza assistenza pediatrica. Sono alcuni degli esiti di un doppio monitoraggio che le organizzazioni del progetto Praesidium, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni, l'Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati), Save The Children e la Croce Rossa hanno realizzato nel corso del 2013 su 18 centri italiani, nove Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) e nove Centri di identificazione e di espulsione (Cie), su mandato ispettivo del Viminale. Migliaia di persone costrette a vivere anche per due anni dentro un Centro di accoglienza - il tempo effettivo per l'esame della richiesta d'asilo contro i 35 giorni previsti dalla legge - senza poter avere neanche una bacinella e il sapone per fare il bucato. Perché il capitolato d'appalto del ministero prevede una serie di servizi come la lavanderia e la barberia, che spesso sono disattesi dagli enti gestori. Profughi segregati a chilometri di distanza dalle città, senza mezzi di trasporto, e dunque costretti a fare anche cinque chilometri a piedi su strade pericolose per raggiungere il primo centro abitato. Giovani rifugiati che alla fine del lungo periodo passato nei Cara, ne escono senza possibilità di inclusione sociale perché non hanno neanche imparato l'italiano. I corsi di lingua, quando ci sono, sono scarsi o mal strutturati. Sotto il profilo della gestione, merita attenzione quanto è scritto sul centro di accoglienza di Sant'Anna di Isola Capo Rizzuto, vicino a Crotone, dove gli operatori del progetto Praesidium presenti all'interno del Cara hanno rilevato lo scorso settembre che "l'erogazione del pocket money avviene tramite la distribuzione di due pacchetti di 10 sigarette a settimana. Il migrante non ha la possibilità di acquistare nessun altro bene né gli viene fornita una chiavetta elettronica o una carta moneta per poter spendere l'importo rimanente. Da settembre 2011 a maggio 2013, gli ospiti riferiscono che il buono economico non è stato erogato". La denuncia dei migranti è stata presa sul serio da chi ha scritto il rapporto che, nella parte riservata alle raccomandazioni, chiede in caratteri maiuscoli di "riattivare immediatamente l'erogazione del pocket money" e di "costituire un sistema informatizzato che permetta di rilevare l'effettiva tracciabilità dell'erogazione del buono economico". Il pocket money è la quota di due euro e cinquanta centesimi che spetta al migrante sull'importo giornaliero pagato per ogni ospite dallo Stato ai gestori del centro. Nel caso di Isola Capo Rizzuto, la cifra complessiva erogata è pari a circa 21 euro, con i quali devono essere garantiti tutti i servizi. Il centro ha una capienza ufficiale di 729 posti, ma come gli altri Cara è solitamente sovraffollato. Al momento del monitoraggio erano presenti 1497 persone, oltre il doppio dei posti disponibili. Gli ospiti erano 1600 quando Repubblica ha visitato il Cara lo scorso 3 settembre (il rapporto porta la data del 25 settembre 2013 ma non è mai stato reso pubblico). Facendo un calcolo approssimativo di 2,50 euro per una media di 1500 persone, si arriva alla somma di 3.750 euro al giorno che moltiplicato per 21 mesi, cioè 630 giorni, fa oltre due milioni di euro. Anche con un numero di ospiti pari alla capienza, si raggiunge una cifra a sei zeri che, leggendo questo documento, sembra non sia stata erogata ai suoi legittimi destinatari, cioè i profughi fuggiti da guerre e persecuzioni ospitati nel Cara calabrese. Nel rapporto c'è scritto che andrebbe predisposto un paniere di beni da poter acquistare all'interno del centro o previste soluzioni alternative, come la possibilità di accumulare l'importo mensile del buono per pagare le marche da bollo necessarie al rilascio del primo permesso di soggiorno e del documento di viaggio. Nel file si sottolinea che quando il pocket money è stato erogato, ai migranti sarebbero stati consegnati solo due pacchetti di sigarette da 10 a settimana come equivalente di tutto l'importo settimanale pari a 17 euro e cinquanta centesimi.  Il centro è gestito da dieci anni dalla confraternita della Misericordia fondata dal parroco di Isola Capo Rizzuto, il rosminiano don Edoardo Scordio, e dal suo uomo di fiducia Leonardo Sacco, attuale vicepresidente delle Misericordie d'Italia. L'ultima gara d'appalto triennale vinta dalle Misericordie (nel 2012 contratto valido fino al  2015) è stata di 28.021.050 euro iva esclusa. Nello stesso periodo in cui le organizzazioni di Praesidium realizzavano il rapporto, Repubblica aveva chiesto al direttore del Cara, Francesco Tipaldi, come venisse distribuito il pocket money. "Diamo l'equivalente dei 2 euro e cinquanta centesimi giornalieri in beni", è stata la risposta. "Dividiamo i 1600 ospiti in diversi giorni per poter accedere al pocket money, non lo diamo con cadenza quotidiana perché questa attività durerebbe 24 ore, ma lo suddividiamo in maniera settimanale". I disservizi riscontrati nel centro crotonese sono anche altri. "La distribuzione dei beni consumabili avviene ogni 20-30 giorni circa, fatto salvo per i nuclei familiari", si  legge nel rapporto. "Il personale del servizio socio-psicologico non sembra essere proporzionale al numero degli ospiti presenti nel centro: ci sono tre psicologhe per circa 1400 ospiti. Il servizio di mediazione culturale non garantisce la copertura delle principali lingue parlate dagli ospiti presenti nel centro. Ad esempio non vi sono mediatori per gli ospiti provenienti dalla Somalia e dal Bangladesh. L'ente gestore ha fornito un organigramma assolutamente inadeguato perché troppo generico". Ma sono state riscontrate anche carenze sanitarie: "Non è garantita l'assistenza pediatrica ed è difficile eseguire vaccinazioni; le condizioni dei servizi igienici del centro d'accoglienza sono assolutamente inadeguate a causa della mancanza di pulizia e del danneggiamento dei sanitari". Infine, gli alloggi nei container sovraffollati e l'impianto di condizionamento non funziona. Il rapporto evidenzia problemi nella gestione del pocket money anche nel Cara di Restinco, a Brindisi, gestito dal consorzio Connecting People di Castelvetrano. I vertici del Consorzio sono stati coinvolti in un'inchiesta della magistratura su fatture gonfiate in un altro Cara, quello di Gradisca d'Isonzo. Tredici i rinviati a giudizio dal tribunale di Gorizia, di cui 11 del consorzio trapanese, fra cui Giuseppe Scozzari, ex presidente del consiglio di amministrazione, per associazione per delinquere, truffa e frode in pubbliche forniture, e due funzionari della prefettura tra cui un vice prefetto, per falso in atti pubblici. Il consorzio si è difeso affermando che esiste una relazione della prefettura di Gorizia che attesta la correttezza delle fatturazioni. L'inizio del processo è previsto per giugno. A Restinco, rileva il dossier, "l'ammontare giornaliero di 2,50 euro del pocket money può essere speso dagli ospiti nell'acquisto di beni presenti al corner shop o nell'acquisto di bibite/snack/bevande calde nei distributori automatici presenti nel centro. Gli ospiti non possono accumulare l'importo giornaliero del pocket money e devono consumarlo nel giro di due giorni, pena la cancellazione dell'importo residuo non speso". Non è specificato però che fine fanno le somme cancellate. Nel Cara brindisino: "Non sono presenti mediatori che coprano tutte le lingue parlate dagli ospiti. L'ente gestore non organizza nessuna attività ludico-ricreativa ad eccezione di partite di calcio. L'ambulatorio medico del centro presenta gravi condizioni di precarietà igienica". A Bari, in un centro che ospita 1400 richiedenti asilo, pari al doppio della capienza, gestito dalla cooperativa Auxilium "è stata riscontrata la presenza di scarafaggi in tutti i moduli visitati" e anche qui "l'ente gestore non organizza nessuna attività ludico-ricreativa ad eccezione di partite di calcio. L'attesa per l'inserimento dei migranti nei corsi è molto lunga e la durata degli stessi è scarsa". Nel cara di Borgo Mezzanone (Fg) gestito in quel momento dalla Croce Rossa, è stata rilevata "insicurezza per la presenza di ospiti senza titolo e il possesso di armi rudimentali quali coltelli da cucina e barre in legno o ferro". I migranti hanno riferito che gli alloggi non vengono mai puliti e l'igiene è insufficiente. Non c'è il servizio di lavanderia e non vengono distribuite bacinelle né stenditoi. Anche a Gradisca d'Isonzo, nel centro ancora gestito da Connecting People, "le condizioni igieniche dei servizi igienico sanitari sono piuttosto scarse. La qualità dei vestiti forniti è molto bassa e il cambio di vestiario avviene ogni 3 mesi. L'ente gestore ha attivato un corso di lingua italiana solo qualche settimana prima della visita di monitoraggio. Il corso risulta, però, inadeguato poiché i posti disponibili sono pochi e i tempi di attesa per l'acceso troppo lunghi (anche fino a due mesi)".  A Caltanissetta, un Cara da 500 persone è fatto di container vecchi "in cattivo stato, e in condizione di evidente sovraffollamento", con i bagni in condizioni igieniche "estremamente carenti, soprattutto a causa della ruggine e dell'allagamento continuo del pavimento provocato dalle frequenti otturazioni dei lavandini che vengono condivisi da un elevato numero di persone". A questo contribuisce la mancanza di un servizio di lavanderia, per cui "gli ospiti lavano i vestiti nei lavabi dei bagni, con lo stesso sapone che usano per l'igiene personale". L'ente gestore era in quel momento la cooperativa Albatros (a cui è poi subentrata Auxilium dal primo ottobre) che "si è rifiutata di fornire l'organigramma dettagliato del personale". Ma, secondo il documento, "i servizi di supporto socio-psicologico e legale sono apparsi insufficienti per il numero complessivo di stranieri presenti. I corsi di lingua italiana vengono erogati dai mediatori culturali e non da personale qualificato. Nessuno degli ospiti intervistati era in grado di parlare la lingua italiana nonostante fossero ospiti del centro già da diversi mesi". Inoltre, "i migranti intervistati hanno riferito di non aver ricevuto tutti i beni che spettavano loro e che gli asciugamani non sono mai stati sostituiti durante tutta la loro permanenza al Cara". Il monitoraggio evidenzia anche alcuni elementi positivi che sono un po' ovunque la buona disponibilità degli operatori, l'adeguatezza dei pasti e l'iscrizione a scuola dei bambini.

Quelle regole non applicate su cui adesso il Viminale deve fare luce. Secondo il capitolato d'appalto dei Centri dell'immigrazione, pubblicato sul sito del ministero dell'Interno, dovrebbero essere le prefetture a controllare che i contratti stipulati con gli enti gestori vengano rispettati. Dai file, però, emergono irregolarità gestionali e procedurali, oltre che strutture fatiscenti. Ne sono responsabili, nell'ordine: le cooperative che sono gli enti gestori, le questure e il Viminale. Le organizzazioni che hanno monitorato i centri non hanno diffuso pubblicamente queste informazioni. Si tratta comunque di realtà che operano con il ministero dell'Interno. Nel caso della Croce Rossa che ha ispezionato l'ambito sanitario, c'è anche un conflitto di interessi, essendo la Cri a sua volta gestore di diversi centri nel momento in cui è stato realizzato il dossier, come i Cie di Torino e di Milano e il Cara di Foggia. Alla luce di tutto questo restano alcune domande. Sono passati sette mesi da quando il Viminale ha avuto i risultati del monitoraggio realizzato con l'uso di soldi pubblici: perché i risultati non sono stati pubblicati? Quali misure intende utilizzare per migliorare l'accoglienza? Sempre secondo il capitolato d'appalto, gli enti gestori devono garantire i servizi di barberia e lavanderia, una dotazione minima di personale per l'assistenza 24 ore su 24 e figure professionali adeguate al relativo compito. I kit igienici forniti agli ospiti (sapone, shampoo, dentifricio) devono essere costantemente sostituiti sulla base di una dose monouso giornaliera. I disservizi per "mancata o inesatta esecuzione dei servizi presenti nel contratto", rilevati in sede ispettiva, di controllo e di monitoraggio o lamentati dagli utenti con riscontri fondati, devono portare a una penale di almeno il 3% del corrispettivo mensile ma è prevista anche la possibilità di un risarcimento dei danni più alto. È stata mai applicata questa norma del contratto d'appalto? E se non lo è stata, quale è il motivo? Infine, i soldi del pocket money, che nel solo Cara di Isola Capo Rizzuto ammontano a due milioni di euro, stanziati dallo Stato e non erogati a chi ne aveva diritto, dove sono finiti?

Sulla pelle dei rifugiati bambini. Garantire un alloggio ai minori che sbarcano in Italia senza genitori, così come a quelli che vengono sottratti alle famiglie, costa alle casse pubbliche oltre 30 milioni di euro l'anno. Una massa di denaro che ha messo in moto vasti appetiti criminali: dal giro delle solite coop legate ai boss di Mafia Capitale agli intermediari senza scrupoli che spacciano per ragazzini giovani di oltre 30 anni. E destano dubbi anche alcune sentenze di affidamento al centro di una guerra legale con il governo dell'Ecuador. L'Inchiesta di “La Repubblica”.

Decine di milioni che fanno gola a molti, scrivono Daniele Autieri e Roberta Rei. Al mercato delle anime battezzato da Mafia Capitale con i centri di accoglienza, c'è una merce che vale più delle altre: gli immigrati minorenni. Nel 2014 i comuni italiani hanno dato alloggio a 10.536 stranieri under 18, un esercito di solitudini accolto da poche centinaia di associazioni e cooperative e trasformato, in molti casi, in una cambiale da riscuotere. L'articolo 403 del codice civile prevede infatti che i Msna (minori stranieri non accompagnati) debbano essere accolti ed economicamente sostenuti dal sindaco del Comune in cui vengono identificati. Ed è nelle pieghe della legge che si addensano le vischiosità di un sistema che drena denari pubblici senza un reale controllo. Ad esclusivo vantaggio dei protagonisti delle inchieste giudiziarie degli ultimi mesi, dalle cooperative di Mafia Capitale alle associazioni vicine a Comunione&Liberazione. Tutti pronti a reclamare una fetta del ricco business dei minori. Fare affari con i rifugiati bambini. Il sistema, prima di tutto. A spiegare come funziona è una qualificata fonte delle forze di polizia. "Quando i minori stranieri arrivano, i dirigenti del dipartimento politiche sociali di un qualsiasi comune italiano contattano le cooperative con cui collaborano. L'affare è grosso e queste si organizzano. Se non hanno alloggi li trovano in una notte: acquistano villette, affittano, chiedono palazzetti in prestito a costruttori amici. Pochi giorni dopo la macchina è pronta ad accogliere i ragazzi". Un banchetto ricco, distribuito lungo un tavolo dove c'è spazio per tutti. Nell'inchiesta Mafia Capitale le cimici del Ros dei carabinieri intercettano una conversazione tra Tiziano Zuccolo, consigliere e vice presidente della cooperativa Domus Caritatis, e Salvatore Buzzi, l'uomo della "29 Giugno" sodale di Massimo Carminati. "Eh bravo - dice Zuccolo - l'accordo è al cinquanta per cento, dividiamo da bravi fratelli". Lo spirito ecumenico è condensato in poche parole che spiegano come i protagonisti del sistema si preparino a spartirsi i rifugiati siriani in arrivo a Roma. Intervenendo sulle generalità anagrafiche dei soggetti coinvolti, il palcoscenico cambia, ma gli attori restano gli stessi e il copione scritto per i rifugiati viene replicato tale e quale con i minorenni. La cooperativa Osa Mayor è sconosciuta ai più, eppure analizzando i suoi bilanci si scopre che la sede è nello stesso stabile della Domus Caritatis e che a dirigerla c'è ancora una volta lui, Tiziano Zuccolo. La Domus Caritatis non è roba da poco. Fattura 36 milioni di euro, ha 15 milioni di debiti accumulati verso i fornitori e al 31 dicembre del 2013 vantava partecipazioni nel Cara di Mineo e nella Cascina, il colosso della ristorazione vicino a Comunione&Liberazione. Dalle carte dell'inchiesta di Firenze sulle grandi opere che ha portato in cella Ercole Incalza, emergono alcuni pagamenti per prestazioni poco chiare fatti dalla Domus Caritatis alla Capa srl di Francesco Cavallo, il faccendiere legatissimo all'ex-ministro Maurizio Lupi. Del resto, gli interessi del gruppo spaziano un po' dappertutto, e arrivano fino alla Osa Mayor, la piccola cooperativa che ottiene dal dipartimento Politiche Sociali del Comune di Roma il compito di accogliere circa 60 stranieri, tutte famiglie con minori al seguito. Gli ospiti vengono alloggiati in un villino alle porte di Roma, in via Casal Morena. Per loro il Campidoglio paga la retta completa, ma cosa offre in cambio la Osa Mayor? Una cucina di fortuna allestita nel garage con un forno a microonde, impianti non a norma, letti accatastati, mancato rispetto delle normative antincendio e soprattutto continua a dichiarare la presenza di tutti gli ospiti anche quando parte di loro ha lasciato la casa. Nessuno controlla. Il Comune paga. E la cooperativa si arricchisce. La vicenda è un puntino rispetto al grande mare dei 10.536 minori stranieri che nel corso del 2014 sono arrivati in Italia. Il loro peso economico grava soprattutto sulle casse degli enti locali. Lo scorso anno il ministero del Lavoro ha stanziato appena 14,8 milioni di euro per sostenere i comuni, mentre la fetta più grossa esce direttamente dalle casse degli enti locali. I trasferimenti statali sono stati effettuati sui conti di Tesoreria comunale, ma solo 4 amministrazioni hanno presentato i certificati di corretto utilizzo del contributo pubblico, per un valore irrisorio di 21.240 euro. Al 31 dicembre del 2014 non vi era ancora traccia di come i restanti 313 comuni abbiano usato gli altri 14,7 milioni. E in questa confusione, non sempre casuale, i mercanti di bambini si sono organizzati e hanno messo in piedi il business più redditizio. Non solo rifugiati. L'altra faccia del dramma minorile non riguarda ragazzi soli, ma famiglie comuni. Il tema è molto delicato ed è stato più volte denunciato perché tocca il sistema tradizionale degli affidamenti: un assistente sociale dichiara che il nucleo familiare non è sicuro per il bambino e questo viene immediatamente assegnato alle cure di una casa famiglia. A quel punto interviene il tribunale minorile che conferma l'affido e ne stabilisce la durata. Statistiche ufficiali non esistono, ma gli organi impegnati nel settore parlano di 30.000 minori in Italia. La macchina è complessa e, a fronte di tantissimi casi virtuosi, permangono alcuni elementi di criticità che arrivano a coinvolgere anche alcuni giudici onorari dei tribunali minorili. Secondo "Finalmente Liberi", l'associazione legata a Federcontribuenti che monitora il fenomeno, circa 200 sui 1.082 giudici onorari italiani avrebbero maturato conflitti d'interesse rispetto alla circolare del Csm che ne individua le incompatibilità, ottenendo incarichi personali dalle case famiglia mentre svolgono la loro attività all'interno dei tribunali minorili. Le inefficienze del sistema sono tali che alcuni Stati stranieri hanno avviato contenziosi legali per tutelare legalmente i cittadini stranieri residenti nel nostro Paese. È quanto ha fatto la Repubblica dell'Ecuador. "L'indicazione di avviare cause contro il sistema italiano degli affidi - spiega l'ambasciatore dell'Ecuador a Roma, Juan F. Holguìn  -  arriva direttamente dal Presidente della Repubblica, che segue questa vicenda in prima persona. Sono moltissimi i bambini della nostra comunità presente in Italia che vengono tolti alle loro famiglie. E a nostro parere questo avviene ingiustamente. Abbiamo quindi costituito un'equipe legale e avviato una serie di cause. Ad oggi, grazie alla nostra assistenza legale, già 10 bambini sono tornati dalle loro madri".

Il muro del pianto dei ragazzi di Termini, continuano Autieri e Rei. Stazione Termini: una ragnatela ferroviaria attraversata da 480.000 persone al giorno, 150 milioni l'anno. Molte di esse costeggiano via Giolitti, il bordo multietnico che confina con l'Esquilino. Passano e non si fermano. Sul muro di marmo che fa da argine alla scalinata del sottopassaggio un gruppo di ragazzi egiziani attende. Sono tutti minorenni. Passa qualche minuto, e un uomo di mezza età si avvicina. Ne abborda uno. Poche parole, una veloce trattativa e spariscono insieme sotto le scale. A volte il cliente arriva in macchina, carica il prescelto e lo riconsegna al "muro del pianto" solo di sera, dopo averlo portato a casa e avergli offerto un pasto caldo. Lui, come tutti gli altri, non è un clandestino. Anzi. Si prostituisce per mandare i soldi alla famiglia d'origine e quando arriva la sera torna alle cooperative dove il Comune di Roma lo ha alloggiato. Chi ha potuto parlare e passare del tempo con questi ragazzi racconta chi li ospita: "Sono sempre i soliti - confessa - Istituto Sacra Famiglia, Eriches (controllata dalla "29 Giugno" di Buzzi), Domus Caritatis, Riserva Nuova di Morena, Best House, Eta Beta. Alveari che in passato sono stati capaci di ammassare anche 100 ragazzi. E per ognuno di loro il Comune di Roma può arrivare a sborsare fino a 100 euro al giorno". Molti dei giovani di Termini vengono dal Car, il Centro agrolimentare di Guidonia dove hanno lavorato per mesi con paghe da fame. In quell'occasione il giro d'affari venne svelato da un'indagine del Corpo di Polizia di Roma Capitale guidato dal vice comandante Antonio Di Maggio (e rivelata da "REInchieste"). Anche allora, quando gli agenti della Polizia Municipale si imbatterono nel fenomeno, scoprirono che molti giovani egiziani impegnati nel lavoro nero erano affidati a case famiglia. All'interno di un'informativa riservata depositata in Procura si legge che le associazioni dove i ragazzi del Car alloggiavano erano l'Istituto Sacra Famiglia, la Eriches, la Domus Caritatis e la Virtus Italia.

Barba e capelli per sembrare più giovani, continuano Autieri e Rei. La storia di Ullah è molto simile a quella delle centinaia dei falsi minorenni alloggiati in case famiglia che, nel corso del 2013, sono stati smascherati dagli uomini della Polizia di Roma Capitale. Una volta arrivati in città i ragazzi finivano in una rete criminale che prima interveniva sul look (barbe tagliate, capelli tinti, ecc.), poi li indirizzava ad alcuni uffici comunali o ai commissariati del centro storico spiegandogli come denunciare la minore età e assicurarsi così l'alloggio nelle comunità pagate dal Campidoglio. Ullah, a differenza di molti altri, ha deciso di collaborare con la giustizia e testimoniare contro i criminali che lo avevano inserito nel giro. "Mi hanno abbordato sulla linea A della metropolitana - ricorda - e mi hanno portato a casa loro. Ho dormito lì per 8 giorni, poi mi hanno spiegato come avrei potuto ottenere il permesso di soggiorno". I trafficanti gli tolgono il passaporto e in cambio gli danno un falso certificato, rilasciato da un ospedale romano, che indica la minore età. "Mi hanno accompagnato fino alla questura - prosegue Ullah - dicendomi come avrei dovuto fare. Lì sono stato riconosciuto minorenne e spedito in una casa famiglia a Morena". Un mese dopo, quando i Vigili fanno irruzione nella casa del trafficante, scoprono decine di documenti falsi che dimostrano l'esistenza di un vero e proprio business dei falsi minorenni. Da quel momento Ullah collabora con la giustizia, ma due anni dopo attende ancora che la procura di Civitavecchia e l'ufficio immigrazione del ministero gli rinnovino il permesso di soggiorno. Come lui, tanti altri immigrati sono finiti nel giro. E oggi sono diverse le inchieste aperte su un fenomeno tutt'altro che superato. La novità è che, per la prima volta, al centro di alcune indagini è finito il presunto scambio affaristico tra le organizzazioni che garantiscono la "materia prima" e alcune cooperative conniventi. Un patto criminale, siglato in nome del denaro.

E per chi fa qualcosa arriva il taglio dei soldi, scrivono Monica D'Ambrosio ed Anna Di Russo. Il Sacrai è uno di quei posti dove ogni giorno neuropsichiatri e psicologi infantili seguono minori abusatori e abusati per sottrarli al carcere o alle case famiglia. Eppure le attività del centro, che opera all’interno dell’Università la Sapienza di Roma, hanno rischiato di concludersi insieme ai fondi governativi stanziati a favore di progetti pilota per minori svantaggiati. Con la grave conseguenza che l’interruzione della terapia vanificasse il lavoro fatto fin lì e aggravasse le condizioni dei minori presi in cura. Ora, dopo mesi d’incertezza, proprio il Sacrai è l’unico centro ad  aver ottenuto un rifinanziamento (100mila euro) grazie ad un emendamento all’articolo 7 del Milleproproghe firmato dall’ex ministro per le Pari Opportunità  Mara Carfagna. Ma il principio al momento sembra valere solo per il centro universitario. Non per le altre 26 strutture, anch’esse finanziate dalle Pari Opportunità, che a ottobre 2014 hanno esaurito la copertura economica. Eppure tutti i 27 destinatari dei fondi hanno fornito con il loro lavoro la risposta italiana alla convenzione di Lanzarote e al richiamo dell’Europa che sollecitava gli Stati membri a fare di più per l’infanzia e l’adolescenza. “L’Europa - precisa Vincenzo Spadafora, Garante per l’infanzia - ha fissato degli obiettivi economici che dobbiamo perseguire: l’Italia ha precisi obblighi anche riguardo ai piani per l’infanzia e l’adolescenza”. “Sottovalutare i traumi subiti dai minori – aggiunge – è un grave errore anche in termini di spesa pubblica. In Italia il costo sociale complessivo del maltrattamento è di circa 13 miliardi di euro, con un’incidenza annuale in incremento di nuovi casi pari a 910 milioni”. Eppure quanto un servizio psicologico integrato e multidisciplinare può fare per enti locali e aziende sanitarie lo ha dimostrato il centro Vatma in Molise, che non solo ha limitato l’ingresso di alcuni minori in case famiglie o in altre strutture ad hoc, con un risparmio di oltre 30mila euro all’anno a bambino (circa 85 euro al giorno), ma ha anche tagliato tutti quei costi diretti che gli enti locali devono sostenere. Pochi, confusi e spesi male. I finanziamenti per l’infanzia e l’adolescenza esistono, ma per capirci qualcosa bisogna districarsi tra una serie di fondi statali, regionali ed europei che non sempre vengono destinati davvero ai minori. Perché oltre a non esserci un monitoraggio a livello istituzionale, non esiste neanche una programmazione chiara e una visione di lungo periodo sull’utilizzo di queste risorse. Così, oltre ai tagli – il Fondo nazionale per l’Infanzia e l’adolescenza dal 2001 al 2015 ha perso oltre il 43% dei finanziamenti, mentre non si riesce a quantificare quanto del Fondo per le politiche sociali sia stato dedicato ai minori – molte regioni, in particolare al sud, hanno difficoltà a programmare e spendere i soldi disponibili. La Campania, ad esempio, non ha ancora programmato, richiesto e utilizzato le risorse statali del 2009, 2010 e 2011, per un totale di oltre 34 milioni di euro. Eppure oggi la copertura dei suoi servizi regionali non raggiunge il 3%. Va meglio invece con i fondi europei con 227 milioni di euro (Fondo di aiuti agli indigenti 2014-2020) che nei prossimi anni saranno utilizzati per assicurare materiale scolastico e accesso gratuito alla mensa a bambini e adolescenti in condizioni di povertà e all’apertura pomeridiana delle scuole in contesti deprivati.

Dal ministero delle Pari Opportunità riceviamo e pubblichiamo .Sostegno ai minori, la precisazione del governo: Gentile Direttore, nell'articolo pubblicato sul vostro sito dal titolo "E per chi fa qualcosa arrivo il taglio dei soldi", a firma Monica D'Ambrosio e Anna Di Russo, nell'ambito di una inchiesta sui bambini rifugiati, appaiono alcune inesattezza circa il ruolo del Dipartimento delle Pari Opportunità  e delle decisioni che è chiamato ad adottare, colgo dunque l'occasione per fare chiarezza sull'intera questione. Gli autori dell'articolo sostengono che dei 27 progetti pilota - finanziati con  Avviso pubblico n.1/2011 per la concessione di contributi per il sostegno a progetto pilota per il trattamento di minori vittime di abuso e sfruttamento sessuale - soltanto uno ha avuto la proroga dei fondi scaduti a fine 2014, il Sacrai, che opera all'interno dell'Università la Sapienza di Roma. E' vero, ma questo non per decisione del Dipartimento, quanto piuttosto, come riportato nell'articolo, grazie ad un emendamento  all'articolo 7 del Milleproroghe, firmato dall'ex ministra Mara Carfagna. Senza mettere in dubbio il  lavoro svolto da Sacrai, va sottolineato che con quell'emendamento, presentato per un'unica struttura,  di fatto non si è provveduto ad un intervento sistemico nei confronti di tutte le strutture coinvolte nei progetti pilota i cui finanziamenti erano relativi a 18 mesi di attività. Ecco perché il Dipartimento, che a questo fine dispone di propri fondi,  ha avviato un monitoraggio per individuare quanti sono i minori attualmente in carico alla varie strutture e di conseguenza  formulare un piano di finanziamento ad hoc per i progetti sperimentali ancora attivi.  Occorre, però,  precisare che la presa in carico di minori non è tra le competenze di questo Dipartimento, a cui spetta la prevenzione del fenomeno  e quindi a tal fine, per gli interventi strutturali e i relativi fondi, sono altri soggetti istituzionali a doversene fare carico, come prevede la legge. Ancora qualche precisazione:  l'avviso pubblico da cui nascono i progetti pilota ha avuto come obiettivo strategico quello di promuovere interventi sperimentali e innovativi a favore dei minori vittime di abuso e sfruttamento sessuale caratterizzati dalla capacità di raccordare tutte le risorse operative e istituzionali del sistema locale. Ma il nostro impegno è mirato anche all'individuazione di livelli minimi di assistenza che siano applicabili e applicati su tutto il territorio nazionale sopperendo a quella disomogeneità che ancora purtroppo persiste. L'esperienza delle strutture impegnate nel progetto pilota,  è dunque diventata una base conoscitiva anche per la redazione di apposite linee guida, come previsto dal III Piano biennale nazionale di azioni e di interventi per la tutela dei diritti e lo  sviluppo dei soggetti in età evolutiva per l'individuazione delle quali è stata attivata  un'azione di monitoraggio, in collaborazione con l'Istituto degli  Innocenti di Firenze,   al fine  di rendere omogeneo su tutto il territorio il servizio delle attività a tale scopo finalizzate. Ma il Dipartimento sull'intera materia ha inteso superare la logica emergenziale, mettendo a punto politiche in grado di contrastare su più fronti il fenomeno. Due gli strumenti a cui si sta lavorando:  il Piano nazionale di contrasto alla tratta e al grave sfruttamento (dove si dedica grande attenzione al fenomeno dei minori non accompagnati che molto spesso finiscono nelle mani di organizzazioni criminali per essere poi destinati al mercato del sesso a pagamento e alla segregazione) e il Piano nazionale di prevenzione e contrasto dell'abuso e dello sfruttamento sessuale dei minori. Entro il prossimo 9 giugno, a tal riguardo, si concluderà il giro di consultazioni che il Dipartimento ha avviato non solo con i soggetti istituzionali coinvolti nella materia ma anche e soprattutto con le associazioni del settore  in vista della stesura finale del Piano antipedofilia nel quale è previsto un rafforzamento del ruolo di coordinamento unico in capo al Dipartimento stesso  al fine di evitare sovrapposizioni e spacchettamenti di deleghe. Il nostro obiettivo finale è quello di mettere a sistema misure e interventi multi-livello e multi-agenzia in grado di rendere efficaci  le azioni programmate e di raccordare l'operato di tutti i soggetti e gli enti  coinvolti nel contrasto di tali fenomeni  garantendo un servizio omogeneo sull'intero territorio nazionale.   Uno degli strumenti individuati nel Piano antipedofilia è quello di centri pilota regionali per la cura e la presa in carico di minori autori e vittime di abusi valorizzando il ruolo e il lavoro delle ong e delle associazioni di settore.  Altro strumento fondamentale sarà un monitoraggio costante di tutta la fase di attuazione degli interventi perché qualunque legge o progetto deve poi poter essere valutato alla luce dei risultati che effettivamente produce in ogni suo aspetto. Lo sfruttamento e l'abuso dei minori sono gravi violazione dei diritti dell'infanzia, una vera e propria forma di schiavitù che va combattuta su più fronti, un fenomeno che si alimenta sia dentro circoscritti ambiti sociali (rapporti famigliari, scolastici, amicali) sia in ambito sovranazionale (pedopornografia, pedofilia, turismo sessuale, tratta di esseri umani).  Come risulta dai dati della Campagna del Consiglio d'Europa contro la violenza sessuale nei confronti dei bambini, in Europa il fenomeno riguarda quasi un minore su cinque  che almeno una volta nell'infanzia  subisce abusi sessuali:  vittime sono i minori di entrambi i sessi anche se la maggioranza sono bambine, di ogni età con percentuali più alte a partire dalla pre-adolescenza e non ci sono particolari differenze tra etnie. L'articolazione e la dimensione stessa del fenomeno indicano la complessità degli interventi necessari, il Dipartimento sta facendo la sua parte e lo sta facendo nel rispetto della normativa nazionale ed europea, ma soprattutto garantendo in ogni passaggio la trasparenza e il rigore a cui è chiamata ogni azione della Pubblica amministrazione. Distinti saluti. Giovanna Martelli, consigliera del Presidente del Consiglio per le Pari Opportunità.

"Gli immigrati rendono più della droga". La mafia nera nel business accoglienza. Così i fascio-mafiosi di Massimo Carminati si sarebbero spartiti secondo i Pm i soldi per i richiedenti asilo. Milioni di euro. Senza controlli, grazie alla logica dell'emergenza. E a rapporti privilegiati con le autorità. La parte delle indagini che riguarda il consorzio Eriches e Salvatore Buzzi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Uno sbarco a Brindisi«Rendono più della droga». Per la mafia nera che comandava su Roma gli immigrati erano un business favoloso. Messi da parte gli ideali politici, la banda fascista che rispondeva agli ordini di Massimo Carminati, arrestato questa mattina insieme ad altre 36 persone, aveva trovato nell'accoglienza dei profughi l'occasione per intascare milioni. Il regista dell'operazione è Salvatore Buzzi, anche lui finito in carcere. L'idea di trasformare il sociale in un business gli è venuta negli anni '80 proprio in prigione, mentre scontava una pena per omicidio doloso. Oggi come presidente del consorzio di cooperative Eriches guidava un gruppo capace di chiudere il bilancio 2013 con 53 milioni di euro di fatturato. Gli incassi arrivano da servizi per rifugiati e senza fissa dimora, oltre che da lavori di portineria, manutenzione del verde e gestione dei rifiuti per la Capitale. Un colosso nel terzo settore. Che secondo gli atti delle indagini rispondeva agli interessi strategici del “Nero” di Romanzo Criminale. Buzzi infatti, secondo i pm, sarebbe «un organo apicale della mafia capitale», rappresentante dello «strumento imprenditoriale attraverso cui viene realizzata l'attività economica del sodalizio in rapporto con la pubblica amministrazione». I documenti dell'operazione che ha portato in carcere referenti politici e operativi della mafia fascista svelata da Lirio Abbate su “ l'Espresso ” in numerose inchieste, mostrano nuovi dettagli sull'attività della ramificazione nera di Roma. A partire appunto dall'attività per gli stranieri in fuga da guerra e povertà. «Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati?», dice Buzzi al telefono in un'intercettazione: «Non c'ho idea», risponde l'interlocutrice. «Il traffico di droga rende di meno», spiega lui. E in un'altra conversazione aggiunge: «Noi quest’anno abbiamo chiuso con quaranta milioni di fatturato ma tutti i soldi, gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero». "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C'hai idea? Il traffico di droga rende meno", così al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro imprenditoriale di Massimo Carminati. Più chiaro di così. Il suo consorzio, Eriches, dentro cui si trova anche la "Cooperativa sociale 29 giugno", nel 2011 riesce  ad entrare a pieno titolo nella gestione dell'Emergenza Nord Africa: un fiume di soldi (1 miliardo e 300 milioni) gestiti a livello nazionale dalla Protezione Civile e dalle prefetture per l'accoglienza straordinaria delle persone in fuga dalla guerra in Libia e dalle rivolte della Primavera Araba. È in quel periodo che le cooperative di Buzzi, nate come progetto durante la sua permanenza in carcere negli anni '80, arrivano a fatturare oltre 16 milioni di euro solo con l'accoglienza degli stranieri. Business che continueranno a seguire. Anche che sono proseguiti fino ad oggi con la marea umana di Mare Nostrum. Per ottenere immigrati da ospitare, intascando rimborsi che vanno dai 30 ai 45 euro al giorno a persona, Buzzi s'impone nelle trattative. E può contare, stando alle indagini, su referenti di primo piano. Come Luca Odevaine, presidente di Fondazione IntegrAzione ed ex vice capo di Gabinetto di Walter Veltroni al comune di Roma. In qualità di rappresentanza dell'Upi, l'unione delle province italiane, Odevaine seide al “Tavolo di coordinamento nazionale sull'accoglienza”, da cui, spiega in diversi incontri con Buzzi e i suoi colleghi, può «orientare i flussi che arrivano», favorendo le cooperative amiche, perché ricevano più immigrati e quindi più soldi dallo Stato. In un'altra intercettazione sostiene di poter controllare le decisioni del prefetto Rosetta Scotto Lavina «che è in difficoltà, ha troppi sbarchi, non sa dove mettere le persone», e per questo lui può aiutarla indicandole a chi affidare i fondi. Per questa attenzione, spiega Buzzi in una serie di intercettazioni riportate negli atti, Odevaine avrebbe ricevuto dal clan di Carminati uno stipendio da 5mila euro al mese. Ma non era l'unico riferimento politico del consorzio. Anche l'assessore alle politiche sociali Angelo Scozzafava in una telefonata assicura: «su Roma quanti posti c'hai? Perché me sa che sta per arrivà l'ondata...». Per controllare l'accoglienza degli stranieri, Buzzi avrebbe avuto un accordo «al 50/50», ovvero per dividersi a metà tutti gli appalti, con la rete dell'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone, network di coop cattoliche in cui rientra anche Domus Caritatis, la cooperativa di cui “ l'Espresso ” aveva raccontato le politiche spregiudicate durante l'Emergenza Nord Africa del 2012, quando barboni e adulti furono fatti passare per minorenni pur di ottenere rimborsi duplicati dal ministero (malagestione denunciata da Save The Children e dal Garante per l'Infanzia). Stando agli atti dei Pm, l'accordo per la spartizione del business dei profughi sarebbe stato sancito con Tiziano Zuccolo, rappresentante della rete dell'Arciconfraternita, con cui ancora nel maggio del 2013 Buzzi parlava del “Patto” in riferimento all'arrivo  dei siriani scappati dalla guerra. «Va be’, a Salvato’, noi l’accordo, l’accordo è quello al cinquanta, no?», chiedeva Zuccolo, e Buzzi confermava: «Ok, io sto premendo per riceverne altri 140» e Zuccolo ribadiva: «Eh, bravo, l’accordo è al cinquanta per cento, dividiamo da buoni fratelli, ok?» Grazie a queste poltiche la holding dominata da Buzzi, che condivideva tutte le scelte, secondo le indagini, con il boss Carminati, è riuscito a ricevere anche fondi europei. Nel 2011 ad esempio ha  avuto dal Fondo Europeo per i Rifugiati ben 234mila e 400 euro, di cui 130 direttamente da Bruxelles e gli altri dallo Stato. Nel 2012 le cooperative che rispondevano alla “mafia capitale” hanno assistito 1320 famiglie per conto del Comune di Roma nell'ambito di un'altra emergenza, quella abitativa. Ma è stato il 2013 l'anno migliore per il consorzio Eriches, come si legge nel bilancio, chiuso con un margine netto di quasi tre milioni di euro. «Nell’ambito dell’accoglienza, siamo cresciuti ed abbiamo continuato la gestione delle attività assistenziali in favore di immigrati, senza fissa dimora, mamme con bambini, ex detenuti, nomadi e famiglie in difficoltà», spiega il presidente, Salvatore Buzzi: «e abbiamo vinto il bando promosso da Roma Capitale per 491 immigrati facenti parte dello SPRAR, una commessa significativa che ci consentirà di stabilizzarci nel settore», con rimborsi garantiti da 35 euro al giorno. E pochi controlli sulla qualità degli aiuti. Nel 2013 Eriches ha vinto anche il bando della prefettura di Roma per il Cara di Castelnuovo di Porto, ovvero il centro per richiedenti asilo di Roma: centinaia di posti, continue proteste per le condizioni indegne di vita. L'appalto da 21 milioni di euro è stato però bloccato dal Tar. E nel bilancio Buzzi si lamenta, evocando il conflitto d'interessi: «nonostante le nostre giustificazioni siano state accettate dalla Prefettura, non siamo riusciti ad iniziare il servizio peralcuni “dubbi” provvedimenti adottati della Terza Sezione Ter del TAR Lazio», scrive: «presieduta da Linda Sandulli, la quale, per inciso, è proprietaria insieme al marito di una ditta edile (PROETI Srl) che effettua manutenzioni proprio all’interno del CARA; un enorme conflitto di interessi». «Siamo fiduciosi che il Consiglio di Stato possa a breve ripristinare legalità e diritto», conclude. Forse con un senso, implicito, dell'ironia.

Il nero e i bianchi, la torta delle coop. L'accordo globale di Mafia Capitale. Concorrenza inesistente. Consiglieri comunali compiacenti. L'unico dirigente "contro" allontanato. La squadra  di Carminati godeva su appoggi trasversali per ottenere milioni di euro nel gestire emergenze abitative e migratorie. Ora sono finiti in carcere anche i rappresentanti delle reti cattoliche, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. «Noi che dovemo sta sul pezzo pe’ magnasse un po' de caciotta». Ha ragione, il Nero. Il suo braccio destro Salvatore Buzzi è un lavoratore instancabile. Non conosce domeniche o festivi: è sempre al telefono per spartirsi affari, o impegnato in riunioni, incontri e strette di mano per assicurare a sé o agli amici milioni di euro dal Campidoglio e dal ministero dell'Interno. Mai una pausa. La frase la dice Massimo Carminati, “er Cecato”, ed è riportata nell'ordinanza che ha scoperchiato la seconda parte dell'inchiesta su Mafia Capitale, con 44 arresti e decine di indagati fra politici, amministratori e imprenditori. Il piatto principale è sempre la gestione delle emergenze abitative e dell'accoglienza dei migranti da parte di un ristretto gruppo d'affari. La novità è che ora sono state arrestate le controparti di Buzzi e Carminati: i rappresentanti di quelle coop “bianche” di cui l'Espresso parla da tempo , e che nella Capitale spadroneggiavano nel settore degli aiuti sociali, spalla spalla alla banda di Carminati. Il nero e i bianchi, il neofascista delle trame e le onlus che facevano riferimento al vescovo e agli ordini religiosi. Agli arresti sono finiti infatti Tiziano Zuccolo, della cattolica Domus Caritatis, e Francesco Ferrara, Domenico Cammisa, Salvatore Menolascina e Carmelo Parabita, rappresentanti del consorzio La Cascina, legata a Comunione e Liberazione. Con Buzzi si intendevano alla perfezione. Il giudice li ritiene infatti «partecipi agli accordi corruttivi con Luca Odevaine» - il funzionario stipendiato per assegnare risorse e immigrati agli amici dal tavolo del ministero dell'Interno – oltre che autori di «plurimi episodi di corruzione e di turbativa d’asta dal 2011 al 2014», dimostrando «una spiccata attitudine a delinquere, al fine di ottenere vantaggi economici nell’esercizio della loro attività imprenditoriale». Negli atti si raccolgono così gli accordi e gli intrecci che hanno intorpidito Roma per anni, chiudendola in una rete indistricabile di cooperative – bianche, rosse, nere, incensurate o indipendenti, non cambia – che si accordavano sui progetti prima ancora venissero pubblicate le gare. Nessuna alternativa aveva spazio. C'era chi si metteva d'accordo per quieto vivere, chi sotto minaccia. E chi semplicemente traeva maggior guadagni grazie all'oligopolio. Come il gruppo dei consorzi bianchi di Zuccolo e Ferrara. Uno degli episodi che meglio spiegano  come sono stati spesi in questi anni i fondi per i più poveri, a Roma, riguarda 580 persone - donne, uomini e bambini finiti per strada a cui bisognava trovare un tetto per l'inverno del 2014. Il bando viene pubblicato il 14 luglio. Buzzi e Zuccolo sono molto preoccupati, perché a gestirlo è tale Aldo Barletta, un dirigente che a detta del socio di Carminati «è entrato da 10 giorni ed ha applicato tutto quello che non avevano applicato fino ad adesso», uno che «non cede nemmeno davanti a Gesù e Maria». Era un «pericolo», questo funzionario, per le sue «resistenze ad assecondare le procedure sfavorevoli agli interessi della pubblica amministrazione». E la procedura aperta da lui per trovare casa a quei 580 disperati era considerata un ostacolo: troppo trasparente e favorevole alla concorrenza. Andava aggirata. Come? Con l'alacre attività di cui Buzzi si fa coordinatore. E che consiste nel «far desistere» tutti i potenziali avversari dal partecipare alla gara. Il funzionario “nemico” aveva invitato infatti 15 società a presentare un'offerta. Alcuni nomi, fra gli invitati, risultavano nuovi a Salvatore Buzzi, ed è allora Angelo Scozzafava (indagato), direttore del dipartimento per le Politiche Sociali di Roma, a dargli i contatti necessari. Altri invece li conosceva bene. E inizia con gli sms e le chiamate. Contatta anche a Gabriella Errico, la responsabile della coop “Un Sorriso” che gestiva il centro per minori di Tor Sapienza diventato noto dopo l'aggressione e il caos con gli abitanti del quartiere. Lei risponde «tranquillo», si dichiara «a disposizione» e non partecipa al bando (ora è indagata). Altri fanno maggiori resistenze. Alcuni chiedono favori in cambio, come Alberto Picarelli che desiste dall'occasione ghiotta ma dice: «Salvato' spero che un giorno pure io ti possa... quando ti chiedo qualcosa me ne venga accolta». Con questi piccoli debiti o scambi Buzzi sistema la concorrenza. I colleghi competitor si dissolvono tutti. Rimane la rete di Zuccolo e Ferrara, La Cascina. Ma tutto è sistemato con una telefonata tra amici e un accordo che gli inquirenti definiscono "globale": «Io su quello dei 580 preferirei che andasse completamente deserto, che partecipassi solo io, capisci? Sugli altri dimme te, io ti ci vengo e tu vieni sui miei», dice il braccio destro di Carminati. E Ferrara conferma: «Secondo me tu vieni ed io vengo e poi hai capito, così almeno più è... e poi sti cazzi, cioè hai capito?». Chi ha capito ha capito: tu mi aiuti qui, io ti aiuto lì, e la spartizione è fatta. La manovra non fa una piega. E il 25 agosto alla “manifestazione d'interesse” dei soggetti sul territorio per accogliere quei 580 sfollati si presenta una sola società. La cooperativa Eriches di Salvatore Buzzi. Che si aggiudica così indisturbata l'affare da un milione e seicentomila euro. Turbativa d'asta in piena regola. Ferrara è coinvolto anche in altre pratiche, fra cui la manomissione di una gara indetta il 30 giugno del 2014 dalla prefettura di Roma per assicurare l'accoglienza a 1.278 migranti, oltre a ulteriori 800 richiedenti asilo in arrivo. Valore: 10 milioni di euro. Per ottenere le assegnazioni dei progetti, e far approvare una delibera che assegnasse i fondi fuori bilancio, Ferrara avrebbe partecipato alla «corruzione di consiglieri comunali mediante la promessa della somma di complessivi 130mila euro». La situazione di Eriches e Domus Caritatis/la Cascina era entrata infatti in crisi dopo un rapporto della Finanza, che giudicava illegittime le assegnazioni dirette del Campidoglio a quella ristretta cerchia di imprese sociali di milioni e milioni di euro. Ma né rapporti né dirigenti specchiati sono riusciti a fermarli.

Denuncia la "miseria ladra" col vitalizio da consigliere. Il coordinatore di Libera e braccio destro di don Ciotti invoca il reddito minimo, poi intasca 2.600 euro al mese, scrive Giuseppe Alberto Falci su “Il Giornale”. Da animatore delle campagne contro la povertà al vitalizio da 2.619 euro netti al mese il passo è breve. Addirittura brevissimo se il soggetto interessato si chiama Enrico Fontana ed è anche il coordinatore nazionale di Libera, l'associazione fondata da Don Luigi Ciotti. Associazione nata nel marzo del 1995 «con l'intento - si legge nel sito internet di Libera - di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere la legalità e la giustizia». Nessun imbarazzo insomma per i venerabili maestri della sinistra benpensante quando si tratta di arricchire la cassaforte di famiglia. A Fontana, classe '58, giornalista professionista, ideatore del termine «ecomafie», che fa il maestrino a destra e a sinistra pubblicando libri per Einaudi e inchieste per l'Espresso , è bastato farsi eleggere alla Regione Lazio nel 2006. Anzi, subentra ad Angelo Bonelli che nel frattempo diventa capogruppo a Montecitorio del Sole che ride, gruppo a sostegno dell'ex premier Romano Prodi. Sono gli anni di Piero Marrazzo a governatore della Pisana. Anni in cui Fontana pungola l'esecutivo sui temi più disparati, dai rifiuti passando ai beni confiscati, continuando a presenziare in convegni dal titolo «Il sole sul tetto, energie rinnovabili e risparmio energetico». Ovviamente, non perdendo mai di vista il tema della povertà, cruccio della carriera dell'attuale braccio destro di Don Luigi Ciotti. Ma la legislatura finisce con qualche mese di anticipo per le dimissioni del governatore Marrazzo, coinvolto in uno scandalo a base di festini e trans. Ciò ovviamente consente al nostro Fontana di ottenere un lauto vitalizio. Dopo cinque anni scarsi in Regione e dopo aver versato circa 90mila euro di contributi, dal 2011 Fontana ricevo un assegno mensile di 3.187 euro che, a causa delle recenti sforbiciata apportate dalla modifica della normativa sui vitalizi, si è ridotto a 2.616,32 netto (dato che è possibile reperire all'interno del sito del M5s Lazio che monitora giornalmente le evoluzioni dei vitalizi). In sostanza, facendo un calcolo di massima, Fontana ha già incassato più di 150mila euro recuperando i 90mila euro versati di contributi. Ma non finisce certo qui. Perché dal settembre del 2013 Fontana è il coordinatore nazionale di Libera. E dalla casa di Don Ciotti, non è uno scherzo, Fontana lancia e anima la campagna «Miseria ladra». Gira ogni angolo del Belpaese per diffondere il verbo del padre nobile di Libera. Ma il vero paradosso è il seguente: il 15 aprile di quest'anno - insieme a Giuseppe De Marzo, coordinatore di «Miseria Ladra» - invia una lettera a tutti i parlamentari «per calendarizzare in aula entro cento giorni una legge per il reddito minimo o di cittadinanza, per contrastare povertà e disuguaglianza, così come da tempo ci chiede l'Europa». Il virtuoso della «legalità e della giustizia» incalza Montecitorio e Palazzo Madama ma intanto incassa, senza batter ciglio, il vitalizio. D'altronde è nello stile dei vertici di Libera. Nando Dalla Chiesa, presidente onorario dell'associazione, riceve mensilmente un assegno di 4.581,48 euro. Insomma, «miseria ladra» per gli altri, non per i venerabili maestri.

Il prete delle coop fustiga tutti ma salva gli amici che lo finanziano. Questa volta don Ciotti, di fronte a scandali e corruzione, non ha lanciato scomuniche come nel suo stile. Nessuna sorpresa: sono le cooperative rosse che danno soldi alla sua associazione, scrive Stefano Filippi su "Il Giornale". Cacciate i ladri: è un vasto programma quello che don Luigi Ciotti, il sacerdote dell'antimafia, ha assegnato alla Lega delle cooperative. Era lo scorso dicembre, i giorni dello scandalo romano di «Mafia capitale». Degli arresti tra i «buoni». Dei cooperatori che sfruttano i disperati. Dei volontari (o pseudo tali) che intascano soldi da Stato e Regioni pontificando che invece li avevano usati per accogliere gli extracomunitari. Dei portaborse Pd che facevano da intermediari tra enti pubblici e malaffare. Del ministro Poletti fotografato a tavola con i capi di Legacoop poi indagati. Dell'ipocrisia di una certa parte della sinistra pronta a denunciare le pagliuzze negli occhi altrui senza accorgersi delle proprie travi. Ma don Ciotti, il custode della legalità, il campione della lotta contro le mafie, il prete che marcia in testa a qualsiasi corteo anti-corruzione e pro-Costituzione, ha trattato con i guanti le coop rosse. «Bisogna sempre vigilare - ha detto - non c'è realtà che si possa dire esente». E ancora: «Non possiamo spaventarci di alcune fragilità. Ve lo dico con stima, gratitudine e affetto: dobbiamo imparare sempre di più a fare scelte scomode». E poi: «Siate sereni, cacciate le cose che non vanno. Le notizie sulle tangenti non possono lasciarci tranquilli - ha proseguito -. Molti con la bocca hanno scelto la legalità ma dobbiamo evitare che ci rubino le parole. Non si sconfiggono le mafie se non si combatte la corruzione». Un appello generico, parole di circostanza davanti a un sistema smascherato dalla magistratura. Nulla a confronto delle scomuniche lanciate contro i mafiosi, i sì-Tav, i «nemici della Costituzione», i «guerrafondai», e naturalmente Silvio Berlusconi. D'altra parte, difficile per lui usare un tono diverso. Perché il prete veneto cresciuto a Torino è anche il cappellano di Legacoop. Il rapporto è organico. Le coop rosse (con la Torino-bene, la grande finanza laica e le istituzioni pubbliche) sono tra i maggiori finanziatori del Gruppo Abele e di Libera. L'associazione antimafia ha tre partner ufficiali: le coop della grande distribuzione, il gruppo Unipol e la loro fondazione, Unipolis. Nei bilanci annuali c'è una voce fissa: un contributo di 70mila euro da Unipolis. Legacoop collabora con il progetto «Libera terra», che si occupa di mettere a reddito i terreni confiscati ai mafiosi. «Un incubatore per la legalità», lo definiscono i cooperatori rossi che grazie a questa partnership aprono sempre nuove coop al Centro-Sud che sfornano prodotti «solidali». Don Ciotti si scomoda perfino per le aperture di qualche punto vendita, com'è successo quando le coop inaugurarono la loro libreria davanti all'Università Statale di Milano. L'agenda del prete è fittissima. Firma appelli, presenta libri di Laura Boldrini, promuove manifestazioni, guida cortei, interviene a tavole rotonde (a patto che non odorino di centrodestra), appare in tv, commemora le vittime della mafia, incontra studenti, ritira premi: l'ultimo è il Leone del Veneto 2015, ma nel 2010 fu insignito, tra gli altri, del premio Artusi «per l'originale contributo dato alla riflessione sui rapporti fra uomo e cibo». E poi inaugura mostre fotografiche e fa addirittura da padrino a rassegne di pattinaggio (è successo a Modena lo scorso 7 febbraio per il 19° trofeo intitolato a Mariele Ventre). In questo turbine di impegni, don Luigi non ha trovato il tempo di condannare apertamente le infiltrazioni della malavita organizzata nella galassia della cooperazione rossa. E non esistono soltanto «Mafia capitale» a Roma o le mazzette per il gas a Ischia; ci sono le indagini per la Tav, i lavori al porto di Molfetta, gli appalti di Manutencoop, le aziende legate al «Sistema Sesto» che coinvolgeva Filippo Penati, i cantieri Unieco in Emilia Romagna dove lavoravano famiglie della 'ndrangheta. Nei bilanci delle associazioni di don Ciotti i finanziamenti di Unipolis sono tra i pochi di cui è chiara la provenienza. Libera e Gruppo Abele rappresentano realtà consolidate. L'organizzazione antimafia ha chiuso il 2013 con entrate per 4 milioni 770mila euro raccolti in gran parte da enti pubblici: mezzo milione per la gestione dei beni confiscati, altrettanti per progetti e convenzioni internazionali, ulteriori 766mila per attività di formazione; 645mila euro arrivano grazie all'8 per mille, 200mila dalle tessere, 700mila dai campi estivi e 900mila da campagne di raccolta fondi. Maggiori problemi ha il Gruppo Abele, che ha chiuso il 2013 (ultimo bilancio disponibile) con una perdita di 273mila euro, e il 2012 era andato pure peggio: un buco di quasi due milioni su uno stato patrimoniale di circa 10. La situazione finanziaria è disastrosa, con debiti verso le banche per 5 milioni e altri 800mila verso fornitori garantiti da un cospicuo patrimonio immobiliare valutato in circa 6 milioni 300mila euro: la sede di Corso Trapani è un ex immobile industriale donato a don Ciotti dall'avvocato Agnelli. Affrontare il disagio sociale costa e molte attività assistenziali non possono essere soggette a «spending review». Indebitarsi è oneroso: 261mila euro (quasi tutta la perdita di esercizio) se ne vanno in anticipi e interessi su prestiti principalmente verso Banca Etica, Unicredit e Unipol banca. I ricavi non seguono l'andamento dei costi. Le rette delle persone ospitate in comunità e i proventi per corsi di formazione o vendita di libri e riviste fruttano 2.838.000 euro. Più consistenti sono le entrate da contributi: quasi 3.700.000 euro. Oltre tre milioni piovono da Commissione europea, ministeri, regioni ed enti locali, fondazioni imprecisate; altri generici «terzi» hanno donato 731mila euro mentre istituti bancari senza nome hanno erogato quasi 350mila euro. Don Ciotti è un campione nel fare incetta di finanziamenti pubblici. Ma non bastano. Ecco perché deve girare l'Italia e sollecitare la grande finanza progressista a essere generosa con i professionisti dell'antimafia e dell'antidroga. È uno dei preti di frontiera più famosi, con don Virginio Colmegna e don Gino Rigoldi. Dai convegni coop alle telecamere Mediaset (è andato da Maria De Filippi, ma nessuno si è indignato come per Renzi e adesso Saviano), dagli appelli per la Costituzione (con Rodotà, Zagrebelsky, Ingroia, Landini) perché «l'Italia è prigioniera del berlusconismo» fino alle manifestazioni no-Tav, don Ciotti è in perenne movimento. Non lo frenano gli incidenti di percorso: il settimanale Vita ha segnalato («legalità parolaia») che Libera e Gruppo Abele figurano tra i firmatari di un accordo con i gestori del business delle sale gioco mentre il loro leader si è sempre scagliato contro l'azzardo. Dopo che Papa Francesco l'anno scorso l'ha abbracciato e tenuto per mano alla commemorazione delle vittime di mafia, don Ciotti vive anche una sorta di rivincita verso la Chiesa «ufficiale» che a lungo l'aveva tenuto ai margini. Lo scorso Natale ha promosso un appello per «fermare gli attacchi a Papa Francesco»: è l'ultimo manifesto, per ora, proposto da don Ciotti. Ma non passerà troppo tempo per il prossimo.

LA PATRIA DELLA CORRUZIONE.

La vittoria di Pirro dei nostri politicanti. Con la metà dell'elettorato che va a votare, che è poi lo zoccolo duro della sinistra che voterebbe pecore e porci, chi vince governa con solo con il 30% dei consensi, tanto basta per non cambiare le cose...e poi la chiamano democrazia. La gente non vota perché non si sente rappresentata da quei personaggi che la notorietà mediatica, per essere eletti, l’hanno conquistata per mezzo dei loro gaglioffi che hanno occupato le redazioni di Tv e Carta stampata. Il web può solo produrre un’accozzaglia di personaggi in cerca di autore. Coacervo di idee sinistroidi che si fa movimento e che guarda solo all’aspetto finanziario-economico della debacle della società italiana.

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: "Elezioni? No, inutile delirio. io a votare non ci vado più". Ma si tengono ancora le elezioni in Italia? Se devo stare a quel che leggo sui giornali, sembra di no. Tra due domeniche si dovrebbe votare in sette regioni, ma la battaglia tra i partiti assomiglia sempre di più a un inutile delirio. Sento parlare di futuri presidenti in teoria eccellenti, ma circondati da un corteo di impresentabili. Le cronache politiche diventano bollettini di cronaca nera. Emergono scandali a ripetizione. Dopo il voto, scommetto che in tanti urleranno ai brogli commessi dagli avversari. Se fossi un reduce delle Brigate rosse, mi fregherei le mani: quello che non siamo riusciti a fare noi, l’hanno realizzato i partiti. E senza neppure lasciarsi alle spalle qualche morto ammazzato e un po’ di gambizzati. Ma sono sempre state così le elezioni? Un signore che si chiamava Benito Mussolini le definiva «ludi cartacei». Però lui non aveva bisogno delle urne. Una volta varata la legge Acerbo, la nonna dell’Italicum di Matteo Renzi, inchiodò gli italiani al suo regime. E tirò diritto lungo una strada che avrebbe portato l’Italia verso la catastrofe della seconda guerra mondiale. Dove ci porterà il premier oggi in carica non lo sa nessuno, tanto meno il suo imponente staff di Palazzo Chigi. Dunque voglio rimanere con i piedi per terra. E rievocare le prime elezioni del dopoguerra. Quelle che videro una novità rivoluzionaria: l’irrompere sulla scena politica di una forza strapotente che avrebbe cambiato il volto dell’Italia e deciso a chi sarebbe andato il governo del paese. Questa forza erano le donne. In casa nostra, per secoli non avevano mai votato. Andare alle urne era prerogativa dei maschi, «come il pisciare in piedi», rognava la più giovane delle mie zie. Poi un decreto firmato da Umberto di Savoia il 1° febbraio 1945, tre mesi prima della Liberazione, stabilì che anche le signore potevano presentarsi ai seggi. Il primo effetto fu il raddoppio del corpo elettorale, da 11 a 23 milioni di iscritti alle liste. Un notorio dongiovanni della mia città bofonchiò a una delle sue amanti: «Non immaginavo che foste così tante. Adesso vi monterete la testa, comincerete a fare le preziose e ce la mostrerete con il lanternino!». La più spavalda delle sue morose, gli replicò: «Adesso dovrai votare il partito che ti dirò io. Altrimenti scordati il mio indirizzo». Un altro effetto fu di consentire a mia madre di andare al seggio come non aveva mai fatto. Erano le prime elezioni dell’Italia liberata. Accadde il 31 marzo 1946 e lo scopo era di decidere chi avrebbe amministrato le città. Le urne si aprirono in cinque domeniche diverse e per grandi raggruppamenti. Il motivo era semplice: occorreva presidiare i seggi, ma siccome la forza pubblica era molto scarsa, bisognava lasciarle il tempo di spostarsi da una zona all’altra. Fu una corsa a tappe e si svolse nella più assoluta normalità. Con un’affluenza alle urne assai alta per l’epoca: il 71,6 per cento, un’utopia nell’Italia del 2015. Nella mia città, un comune di 35 mila abitanti in Monferrato, si presentò al voto addirittura l’88 per cento del corpo elettorale. Contribuirono a quel record anche mio padre Ernesto e mia madre Giovanna. Lei era una femminista inconsapevole perché guadagnava più di papà. Lui un uomo dolce, operaio guardafili del telegrafo. L’arrivo di Giovanna al seggio, aperto nelle scuole elementari di via Cavour, fu memorabile. Si era messa in ghingheri come per andare a un matrimonio. In più si fece accompagnare da due giovani clienti che erano uno schianto. Disse alle ragazze: «Tiratevi su le calze, donne, perché dobbiamo mandare al tappeto gli scrutatori, soltanto maschi e di quelli stagionati!». L’ingresso in sezione del Trio Lescano lasciò tutti a bocca aperta. E non avevano ancora visto il cartello che Giovanna aveva appeso alla saracinesca abbassata del suo negozio. Diceva: «La proprietaria di questa modisteria finalmente va a votare per la prima volta. Alla bella età di 42 anni!». Mio padre Ernesto osservò: «Non ti sembra di agitarti un po’ troppo?». Giovanna gli replicò: «Mio caro Netu, oggi il troppo o il poco lo decido io!». Di quelle prime elezioni del dopoguerra ricordo un’armonia sociale che nel 1948 sarebbe svanita a causa dello scontro all’ultimo voto tra la Dc e il Fronte democratico popolare. Pur essendo una tifosa di De Gasperi, mia madre stravedeva per una nipote, figlia dell’ultimo fratello di mio padre, Francesco. Dopo essere andato a lavorare in Argentina, era tornato in Italia e aveva sposato la tredicesima figlia di un pescatore del Po, Giuseppina, detta Pinota. Piccola, mora, occhi vivaci, carattere da comandante, portava in dote soltanto una cosa di valore: la licenza per aprire una trattoria. Nacque così l’Osteria del Ponte, di fronte al Po. Francesco era comunista e quando si trattò di inaugurare la bandiera della sezione di Porta Po, lo fece in pompa magna. E chi era la madrina? Mia cugina Luigina, sedici anni, un viso incantevole, capelli neri lunghi sulle spalle, labbra perfette, sguardo da stendere tre giovanotti. Indossava un vestito intero, con la gonna plissettata che lasciava intuire una silhouette da sballo. Giovanna le aveva suggerito di tenere in mano un bouquet di fiori. Insieme all’armonia, c’era anche molto pragmatismo. Alle comunali del 1946 vinsero i socialisti con sette mila voti. I democristiani ne ebbero appena trecento in meno. Terzi i comunisti. Sindaco della città divenne il socialista Paolo Angelino, professore di inglese, con una data di nascita impossibile da scordare: 1° gennaio 1900. Giovanna confessò a mio padre: «Anch’io ho votato per Angelino». Sorpreso, lui osservò: «Ma non sei una tifosa di De Gasperi?». Lei alzò le spalle: «Che c’entra? Adesso si tratta di rimettere in ordine la città, dopo tanti anni di guerra. Il professor Angelino è l’uomo giusto per riuscire a farlo. Sai come lo chiamano? Pietrischetto Bitumato. E sai perché?». Ernesto sbuffò: «Sei tu quella che sa sempre tutto». Allora mia madre gli spiegò: «Il sindaco controlla di nascosto che i cantonieri lavorino a dovere sulle strade. Arriva a nascondersi dietro le piante o nei portoni e si accerta della consistenza dell’asfalto con la punta della scarpa. Ho fatto bene a votarlo. Quando sceglieremo il Parlamento mi comporterò in un modo diverso». Pietrischetto Bitumato era di un’onestà a tutta prova. Voleva il bilancio sempre in pareggio. Ci teneva al buon nome del municipio di fronte agli elettori che continuarono a votarlo, anche quando si presentò alla Camera dei deputati. Era un socialista colto, ottimo parlatore, lettore infaticabile di buoni libri. Com’era fatale, teneva molto alle sue tre cariche: sindaco, deputato, capo dei socialisti cittadini. Per noi ragazzacci era il Califfo. Quando gli chiedemmo la tessera del Psi, ci cacciò dal suo studio strillando: «Non sono mica matto! In un mese voi mi distruggete il partito!». Che cosa è rimasto di quel tempo? Nulla. Tanto che mi domando se devo ritornare a votare. La mia risposta è che non ci andrò più. Non ho niente da spartire con i partiti di oggi, se non i torti che potrebbero farmi. E adesso il compagno Renzi mi iscriva pure nella lista nera dei gufi e dei rosiconi. Non me ne potrebbe fregare di meno. Giampaolo Pansa.

E' possibile avere un po' meno corruzione? Si Chiede Bruno Manfellotto su "L'Espresso". Non bastano leggi più severe o l’Autorità di Cantone. Questo rimane il paese dell’impunità. Tocca alla politica fare pulizia al suo interno. È luogo comune o verità che l'Italia sia il paese più corrotto d'Europa? Insomma, ciò che continuiamo a vedere, da Roma mafiosa a Ischia mazzettara, passando per il Mose, l'Expo, e un Pd percorso da bande, è ordinario tasso di corruttela - che ci vuoi fa', è la politica - o straordinaria quotidianità criminale? E qualora record fosse, perché? Prima di tutto, però, un paio di osservazioni. A dispetto delle statistiche, in Italia c'è ancora tanta stampa libera che pubblica ogni notizia che trova senza guardare in faccia a nessuno. Voi che leggete "l'Espresso" lo sapete bene. E così, se si smazzetta a Procida o a Venezia, si scrive, magari talvolta rinunciando a quella prudenza necessaria quando si fa informazione: ma davanti a certe notizie forse è meglio rischiare che tacere, no? Anche i magistrati fanno il loro mestiere e dispongono di uno strumento formidabile, le intercettazioni, capaci di svelare mondi inimmaginabili. Pure qui ci sono abusi, si sa, e grande è la responsabilità di pm e giornalisti nel distinguere il grano dal loglio senza calpestare i diritti di nessuno. E certo si può sbagliare, ma non è un caso che a ogni governo - e quello di Matteo Renzi non fa eccezione - corrisponda una riforma della giustizia che, immancabilmente, mette in discussione poteri dei magistrati e intercettazioni. Il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, le vorrebbe addirittura abolire. Come se nascondere i reati significasse cancellarli, un po' come fanno i bambini quando si tappano gli occhi convinti che così nessuno li veda. Già, ma perché la corruzione è così diffusa? Perché la politica ha perso le motivazioni che la muovono, ha risposto Marcello Veneziani in una lettera al "Corriere della Sera", quelle motivazioni politiche, civili e religiose che formano il sostrato di ogni civiltà. E con queste, ha aggiunto, si sono esaurite anche le spinte più personali, cioè l’ambizione di distinguersi e la voglia di veder riconosciuti i propri meriti. Infatti la corruzione dilaga lì dove non c'è meritocrazia. Osservazione condivisibile, ma allora bisogna chiedersi come si è arrivati a questa generale demotivazione politica e personale. Intendiamoci, che la corruzione possa essere sconfitta è impensabile, essa è insita nella natura umana e da che mondo è mondo appartiene alla politica, perfino come strumento necessario a conseguire i propri obiettivi. Ma da noi non è più questo. Già trent'anni fa Rino Formica, socialista, lamentava che «il convento è povero, ma i frati sono ricchi»; oggi, addirittura, si comincia a fare politica solo per affermare il proprio personale potere e, appunto, arricchirsi. Tra le tante cause del decadimento c'è, prima fra tutte, la mancata selezione della classe politica, viziata da liste elettorali bloccate - che riservano il potere di scelta a pochi ras - e da partiti squagliati, più che liquidi. E l'idea che la politica appartenga dunque a ristrette oligarchie autoreferenziali demotiva e allontana gli uomini di buona volontà. Devastante è stato poi il cattivo esempio di leader e dirigenti, anche di antica militanza, soliti camminare sul filo del rasoio, bravi a muoversi con arroganza in un'area grigia dove favoritismi e trattamenti di riguardo si mescolano a finanziamenti occulti, appalti pilotati, tangenti in natura. L'idea generalizzata che così fan tutti e che non ci sia altro modo per emergere, trovare un lavoro, avere successo ha prodotto incredibili fenomeni imitativi a tutti i livelli e cancellato quelle forme di controllo sociale con le quali ogni comunità pone un argine al degrado morale e civile. E non basta. Se qualche passo avanti è stato fatto con l'approvazione della legge Severino, con l'istituzione di un'autorità anticorruzione (Raffaele Cantone) e il ripristino del falso in bilancio, questo ahimè è ancora il paese non della certezza della pena, ma dell'impunità: come riassume Piercamillo Davigo, una volta si minacciava «ti faccio causa», oggi la sfida è «fammi causa». Non c'è un giudice a Berlino. Facile che, con tali premesse, prevalgano cinismo e rassegnazione. E però non c'è altro modo per ridare credibilità alla politica e alle istituzioni che impegnarsi a fondo per arginare il fenomeno. Prima che siano i corrotti a rottamare gli innovatori.

Ecco la mappa della corruzione disegnata dagli studenti. Il progetto coinvolge mille ragazzi: per mesi hanno raccolto dati e testimonianze sulla corruzione in Lazio, Campania e Lombardia. Produrranno un "Atlante" che la fotografa nei loro quartieri, scrive Manuel Massimo su “La Repubblica”. Da discenti a docenti: gli studenti del progetto per la legalità "Piccolo Atlante della corruzione", dopo aver indagato il fenomeno sul campo e raccolto in forma anonima le testimonianze dei soggetti a rischio, si stanno preparando alla lezione conclusiva di fine maggio che li vedrà protagonisti. Saranno proprio loro a salire in cattedra per "insegnare" quello che hanno imparato dai tutor e agli esperti che li hanno seguiti nel corso del laboratorio - ideato e promosso da Beatrice Ravaglioli del circolo "Libertà e Giustizia" di Roma, finanziato dal Miur, sostenuto attivamente dall'Autorità nazionale anticorruzione, dall'Associazione nazionale magistrati e in collaborazione con l'Università di Pisa e con Repubblica.it. I materiali prodotti dalle 15 scuole aderenti al progetto confluiranno nel "Piccolo Atlante della corruzione": una pubblicazione scaricabile gratuitamente online che potrà essere utilizzata anche dagli addetti ai lavori che ogni giorno combattono per la legalità. Questa seconda edizione del progetto (2015) - partito lo scorso anno in via sperimentale solo a Roma e nel Lazio e allargato quest'anno anche alla Campania e alla Lombardia - ha visto la partecipazione di oltre mille ragazzi, studenti delle scuole superiori, che hanno mappato la percezione del fenomeno "corruzione" nei territori accanto ai loro istituti grazie a questionari (somministrati anonimamente a una varietà di soggetti potenzialmente interessati dal problema, ndr) messi a punto seguendo le indicazioni del professor Alberto Vannucci, politologo e direttore del Master anticorruzione presso l'Università di Pisa. Non si è trattato di un modello di didattica calata dall'alto, ma piuttosto di un processo attivo di raccolta ed elaborazione dei dati, come spiega Vannucci: "Nelle fasi iniziali noi docenti ed esperti abbiamo fornito ai ragazzi gli strumenti d'indagine: poi sono stati loro a elaborare da soli il questionario mappando i settori più a rischio e diventando protagonisti". Dopo aver ascoltato dal vivo le testimonianze di giornalisti sotto scorta come Federica Angeli, cronista di nera e giudiziaria per Repubblica, gli studenti hanno intrapreso un percorso di studio sul campo, indagando nei meandri del sommerso e diventando giovani "sentinelle della legalità" anche in contesti difficili dove la presenza della criminalità organizzata è forte e si fa sentire. Ogni scuola ha elaborato autonomamente un questionario specifico, partendo da una base comune ma modellandolo sulle peculiarità del proprio territorio. Un'operazione che fornirà una mappa diversificata e territoriale della corruzione, partendo anche da casi concreti. L'elemento della comparazione è fondamentale in questo tipo di studi, ne è convinto il professor Vannucci che auspica un ulteriore allargamento del progetto: "Dopo l'esperienza-pilota dello scorso anno e questa seconda edizione che ha coinvolto anche altre due Regioni, da studioso del fenomeno spero che il progetto possa crescere ancora. I ragazzi coinvolti hanno sviluppato gli anticorpi per la legalità e maturato una fiducia critica nelle Istituzioni, perché troppo spesso la sfiducia radicale nasce dall'ignoranza ed è lì che bisogna andare a stimolare la presa di coscienza su determinati temi". Il "Piccolo Atlante della corruzione" sarà composto da 15 parti - una per ciascuna delle scuole coinvolte nel progetto itinerante per la legalità - e scatterà un'istantanea del fenomeno che potrà essere utilizzata come base di ulteriori indagini e approfondimenti della magistratura. Uno strumento utile, soprattutto oggi che la corruzione si è "smolecolarizzata" e troppo spesso riesce a passare inosservata, come sottolinea Vannucci con tre aggettivi: "Sotterranea, invisibile, impercettibile". Portare a galla il sommerso rappresenta dunque il primo passo per guardare dritto negli occhi il problema, prenderne coscienza e impegnarsi in prima persona per cercare di risolverlo. I tre incontri finali - uno in Lombardia, uno nel Lazio e uno in Campania - si stanno avvicinando e gli studenti sono pronti a salire in cattedra: l'appuntamento di Napoli è fissato per mercoledì 20 maggio a partire dalle ore 10 presso l'Istituto di Istruzione Superiore "Sannino-Petriccione"; già calendarizzato anche l'incontro di Roma, che si terrà la mattina di venerdì 29 maggio nell'aula magna dell'Università Sapienza, alla presenza tra gli altri del presidente dell'Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone e con la partecipazione dell'attore Elio Germano. I ragazzi, sentinelle di legalità, hanno studiato la corruzione nelle strade che percorrono tutti i giorni per andare a scuola e ora sono pronti a salire in cattedra per parlarne in pubblico: un piccolo passo individuale per ciascuno, ma un grande esempio collettivo per tutti nella lotta alla corruzione.

Corruzione? Tutto il mondo è paese, scrive Alessandro Bertirotti su “Il Giornale”. È tutta questione di… disonestà. Abbiamo letto in molte classifiche che la nostra meravigliosa nazione è fra gli ultimi posti rispetto alla capacità di combattere la corruzione, e dunque ai primi per il numero di casi in cui tale reato è presente. E questo, ovviamente, assieme a molte altre cose non positive rappresenta per noi tutti un disonore, specialmente quando i rappresentanti di questo reato sono persone che vengono definite “onorevoli”. Scritto questo, è interessante sapere che anche nel mondo islamico esiste un divieto a procurare corruzione, come ad accettare di essere corrotti, e lo si legge nella seconda Sura. I corrotti sono coloro che non rispettano le leggi che Allah ha fornito agli uomini per vivere in pace fra loro; sono coloro che al posto di conciliare spargono divisioni e male per il prossimo; coloro che rubano, non sono leali e sfruttano la fiducia degli altri per il proprio personale tornaconto. Insomma, anche per il Corano questo comportamento viene profondamente sanzionato ed è considerato un vero e proprio oltraggio ad Allah, il quale giungerà a vendicarsi con questi suoi figli fedifraghi. Ebbene, qualche giorno fa, ho incontrato una persona che mi raccontava di essersi recato a Roma in una ambasciata di un Paese arabo, imbattendosi in un funzionario che per un documento ha rilasciato una ricevuta di Euro 25,00, chiedendone però 50,00. La motivazione è stata che, avendo la richiesta le caratteristiche dell’urgenza, vi era il costo aggiuntivo di 25,00 euro, fuori ricevuta, ovviamente. Bere oppure affogare, proprio come accade da noi quando andiamo da un professionista che non ci rilascia la ricevuta con il giusto prezzo pagato. Ho l’impressione che le classifiche che vengono stilate su questo tipo di comportamento umano, non tengano conto di quanto il concetto di corruzione sia diventato pervasivo, anche all’interno di quei paesi che ci sembrano tanto diversi da noi. E sono anche convinto che tale situazione sia rinvenibile in altri paesi, ad esempio in quelli del Nord Europa, perché la questione non è legata solo alla morale religiosa, ma anche a quello che ogni individuo pensa di se stesso. In sostanza, non lamentiamoci dei nostri ladri perché i ladri abitano l’intero mondo e non dipende dalla religione professata se una persona si comporta male con il mondo intero, quanto dall’asservimento che la mente umana, di qualsiasi cultura essa appartenga, accorda al dio denaro. È il dio denaro che governa come un Principe questo mondo, e servirlo significa dedicare molti atti della propria vita a comportamenti come questi, dimenticando che il libero arbitrio lo possiamo esercitare in tutte le cose della vita quotidiana, anche nelle più piccole.

LE BUGIE DEI POLITICANTI CHE SCHIAVIZZANO I NOSTRI GIOVANI.

Ecco come i politici manipolano i numeri. Da Berlusconi a Renzi, 20 anni di bugie. Dal milione di posti di lavoro al bonus di 80 euro, passando per tesoretti che appaiono e scompaiono e stime (come quelle Istat) su contratti e disoccupazione: sondaggi, tabelle e statistiche hanno invaso media e tv, e sono usate dai politici come strumento di propaganda. Così anche la matematica è diventata un'opinione, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Quando dà i numeri, Matteo Renzi sembra ispirarsi alla leggendaria lezione di economia di “The Wolf of Wall Street”. «Regola numero uno: nessuno (ok, se sei Warren Buffett allora forse sì), nessuno sa se la Borsa va su, va giù, di lato o in circolo», ragiona il broker Matthew McConaughey mentre spiega strafatto di coca a Leonardo DiCaprio come fare soldi e fregare i clienti. I dati e le cifre? «Sono tutto un “fughesi”, un “fugasi”, cioè falso, volante... polvere di stelle, non esiste, non tocca terra, non ha importanza, non è sulla tavola degli elementi, non è reale cazzo!». Ecco. A vedere le statistiche snocciolate dal premier e dai suoi ministri nelle ultime settimane, sembra che in Italia, come nel film di Martin Scorsese, la matematica sia diventata un’opinione, un luogo dove 2 più 2 può fare anche 5, 7 o 39, a secondo delle esigenze e degli esegeti del numero. Così, se un tesoretto da «1,6 miliardi» può apparire improvvisamente in un bel giorno di primavera e scomparire 48 ore dopo, per rinascere ancora (accresciuto o sgonfiato, a seconda dell’economista che ne scrive) in qualche dichiarazione al tg, e se le previsioni di crescita del Pil piazzate nel Documento di programmazione economica sembrano scientifiche quanto una partita a dadi, i dati sugli effetti del nuovo Jobs Act sono metafora perfetta dell’affidabilità delle tabelle che dominano il dibattito pubblico. Già: sia a fine marzo che a fine aprile il ministro Giuliano Poletti ha annunciato il miracolo, spiegando che la nuova legge aveva creato 79 e 92 mila contratti in più. Dopo una settimana l’Istat ha però certificato che il tasso di disoccupazione, proprio a marzo, ha raggiunto il suo massimo storico, toccando il 13 per cento. «I numeri non sono confrontabili», hanno spiegato fuori di sé da Palazzo Chigi. Oggi l'Istituto ha rilasciato un'altra sfilza di dati, stavolta trimestrali, che evidenzierebbero un boom (grazie al taglio delle tasse per chi assume) di contratti a tempo indeterminato. Insomma, ce più o meno lavoro di prima? Nemmeno i chiromanti e gli economisti più quotati finora ci hanno ancora capito nulla. Dal milione di posti di lavoro promessi da Silvio Berlusconi nel 1994 fino agli 80 euro del bonus Renzi, passando per l’ossessione europea del 3 per cento nel rapporto tra deficit e Pil, sono più di vent’anni che la dittatura dei numeri condiziona le elezioni, il confronto politico e, conseguentemente, l’evoluzione della società. La passione per le tabelle è diventata una moda e poi una malattia, un diluvio di cifre ci piove in testa tutti i santi giorni. «È vero. Il boom delle cifre è un fenomeno evidente, tangibile, ed è contestuale alla fine delle ideologie», spiega Ilvo Diamanti, ordinario all’università di Urbino che con dati e sondaggi ci lavora da sempre. «Durante la Prima Repubblica politica e partiti erano fondati su certezze granitiche, ma la fine della contrapposizione tra democristiani e comunisti, sommata al declino della fede religiosa, ha cambiato tutto. Le statistiche rappresentano una risposta alla crisi dei valori tradizionali, hanno riempito un vuoto, e sono diventate un totem». Scomparsi i fondamenti culturali e le visioni etico-morali su cui si disegnavano gran parte delle misure politiche e delle strategie sociali, dunque, la matematica e la statistica sono diventate il filtro più usato per rappresentare e analizzare la realtà. I politici, ovviamente, ci sguazzano dappertutto, ma sotto le Alpi lo fanno con accanimento e modalità che altrove non hanno attecchito: non è un caso che nel “Grande dizionario della lingua italiana” la locuzione «dare i numeri» vuol dire anche «apparire insincero, suscitare il sospetto di tramare un inganno, di agire con doppiezza, con fini reconditi». Di sicuro i numeri sono diventati un corredo indispensabile a ogni strategia comunicativa. Ma, oltre a dare sostegno alle chiacchiere e una parvenza di concretezza alle parole, in Italia vengono usati soprattutto per impressionare, suggestionare, muovere passioni, speranze e paure. Se nel contratto con gli italiani Berlusconi prometteva «l’innalzamento delle pensioni minime ad almeno un milione di lire al mese» e «la riduzione delle imposte al 23 per cento per i redditi fino a 200 milioni di lire annui», nel 2013 Bersani spiegò di voler restituire alle imprese «50 miliardi in 5 anni» in modo da diminuire i debiti della pubblica amministrazione. Il cavallo di battaglia di Beppe Grillo è, da sempre, il reddito minimo di cittadinanza «da mille euro al mese», mentre Matteo Salvini afferma, da giorni, che «un milione di immigrati è pronto a salpare dalla Libia per le nostre coste». Secondo il linguista Michele Porcaro, dell’università di Zurigo, c’è anche una strategia precisa nel dare i numeri, a seconda di cosa si vuole comunicare: la cifra tonda (un milione, un miliardo) «è in funzione di aggressione verbale», scrive l’esperto, «serve non a essere credibili, ma a suggestionare. Se si vuole suonare affidabili, invece, si usa la cifra esatta». In quest’ultimo caso, però, l’eccesso di pignoleria può causare effetti comici, come quando Berlusconi annunciò che durante il suo mandato a Palazzo Chigi «gli sbarchi di clandestini si sono ridotti del 247 per cento». Fosse stato vero, sarebbe addirittura un saldo negativo, sotto zero. Già nel 1954 Darrell Huff nel best seller “Mentire con le statistiche” spiegava che i politici hanno una tendenza innata alla manipolazione della matematica. Che in sé è oggettiva e non opinabile, ma la sua interpretazione è assai discutibile. Prendiamo il tasso di disoccupazione: un dato che dovrebbe essere obiettivo e invece dipende da decine di parametri: hai risultati diversi se consideri o meno gli scolarizzati, l’ampiezza della popolazione che misuri, puoi decidere se dare il tasso annuale, mensile, tendenziale. «Alla fine il politico sceglie quello che gli conviene maggiormente. L’ambizione primaria dei partiti non è quella di riformare il Paese, ma costruire consenso», spiega ancora Diamanti. «E i numeri sono invece facili da strumentalizzare. Io per primo, quando faccio sondaggi elettorali, so che il mio lavoro può essere usato come mezzo di condizionamento delle masse. Bisogna, proprio per questo, che gli studi siano autorevoli, e che i media sappiano discernere tra fatti e fattoidi». La propaganda non è l’unico modo in cui i politici e gli opinionisti stuprano le cifre. Altra caratteristica nazionale è quella di commentare fenomeni che non si conoscono a fondo, e imbastire analisi con numeri orecchiati al volo. «Nessuno studia, nessuno sa nulla, e così gli errori non si contano più. Anche perché ministri e deputati hanno mutuato dalla Borsa, sempre affamata di previsioni, una tendenza a pubblicare dati provvisori, che dopo poco tempo possono subire enormi revisioni», ragiona Giacomo Vaciago, economista all’Università Cattolica di Milano. «Questo avviene soprattutto in Italia, dove i politici hanno ormai una veduta non corta, come diceva Tommaso Padoa-Schioppa, ma cortissima: se esce un dato sull’occupazione o sul Pil, un sondaggio o uno studio dell’ultima associazione dei consumatori, il politico vuole subito commentarlo, in modo da comparire sui telegiornali delle 20, sui siti, sulla stampa e nei talk show. Pazienza se il dato è solo una stima che può cambiare dopo qualche giorno: mal che vada si fa sempre in tempo a tornare in tv e ricommentarlo, dicendo il contrario di quanto affermato prima. È tutta fuffa, una bolla, numerologia irrazionale. La cosa incredibile è che tutti noi ci viviamo in mezzo, a questa panna montata, come fossero sabbie mobili». Così non deve stupire che esperti vari, economisti, e persino i cervelloni di Bankitalia abbiano prodotto decine di interventi per spiegare come spendere al meglio il tesoretto da 1,6 miliardi di euro che dopo un po’ si è ridotto della metà, e che oggi rischia di scomparire mangiato da un nuovo buco miliardario causato dalla sentenza della Consulta che ha bocciato come incostituzionale quella parte della riforma Fornero sul blocco delle pensioni (anche qui si è passati da 5 a 13 miliardi di euro in due giorni appena). Un provvedimento che angosciò anche i cosiddetti esodati, lavoratori finiti in un limbo tra lavoro e pensione. Per mesi non si capì quanti fossero davvero: se il governo Monti li quantificò in 65 mila persone, l’Inps parlò inizialmente di 130 mila casi, lievitati in una seconda relazione tecnica a 390 mila, mentre il sindacato ne contò 300 mila. Nemmeno fossimo alla tombola di Natale. Se fin dalle scuole elementari i numeri danno ai futuri contribuenti un’illusoria garanzia di precisione, oggi gli italiani non riescono a sapere con certezza nemmeno quante tasse pagano: se il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha annunciato che il 2014 s’è chiuso con una riduzione della pressione fiscale, l’Istat - classificando il bonus da 80 euro come spesa sociale e non come riduzione del peso fiscale - ha fotografato invece un nuovo picco, arrivato al 43,5 per cento del Pil. Anche i numeri ballerini sulla spending review hanno intasato per mesi tv e giornali: se l’ex commissario Carlo Cottarelli parlò di tagli «per 8-14 miliardi», il governo Renzi ha recentemente ipotizzato «tagli per 10 miliardi». Alla fine, visto che gran parte degli impegni è rimasta solo su carta, la spesa pubblica ha continuato a crescere. Almeno così sostiene la Ragioneria dello Stato. Se le cifre hanno sostituito le ideologie, coloro che le maneggiano sono diventati i nuovi guru, i sacerdoti della modernità. «E i numeri», aggiunge Diamanti, «sono il nuovo dio: peccato che, per definizione, siano molto meno obiettivi e infallibili di quanto si creda». La voglia incontenibile di tabelle e grafici ha fatto esplodere la domanda di cifre e sondaggi già da qualche lustro, ma oggi, nell’era dei Big Data, la tendenza è ancora più evidente. La società chiede ai numeri le risposte alle domande che pone: decisioni aziendali, personali, politiche vengono prese innanzitutto su dati statistici. I numeri fanno ascolto, piacciono alla gente, e non è un caso che economisti ed esperti, veri o presunti, siano diventati star assolute della tv e del web: sondaggisti come Renato Mannheimer, Nicola Piepoli e Nando Pagnoncelli sono ospiti fissi nei talk, ascoltati e riveriti da politici e giornalisti come fossero la Sibilla Cumana (e pazienza se a ogni elezione le loro previsioni si dimostrano distanti dalla realtà); economisti come Tito Boeri hanno fondato siti di successo come lavoce.info e hanno fatto carriere importanti (Renzi l’ha nominato presidente dell’Inps, mentre cinque suoi redattori sono in aspettativa dopo aver ottenuto incarichi politici); piccole associazioni di artigiani, come la Cgia di Mestre, hanno pure creato un inedito business delle tabelle, grazie a un ufficio studi che macina centinaia di analisi e classifiche l’anno, riprese quotidianamente da agenzie di stampa e giornali. «Per fortuna non ho beccato neppure una smentita», disse il segretario Giuseppe Bortolussi in un’intervista a “Panorama”, dimenticando però le critiche arrivate da Asl, assessori comunali, Regioni ed economisti assortiti. «Questa associazione ha una buona notorietà, ma a volte dà i numeri», notò pure Marco Ponti, ordinario di Economia a Milano. «Non che i numeri che dà siano tecnicamente sbagliati, ma confonde tra di loro dati che non c’entrano affatto». Bortolussi, per la cronaca, ha ottenuto un ritorno d’immagine straordinario, e nel 2010 è stato anche candidato del Pd in Veneto alle regionali contro Luca Zaia. Il doping informativo ha travolto tutto, e non c’è fenomeno che non venga misurato e quantificato. Dal presunto boom dei suicidi degli imprenditori (bufala di cui i media si sono occupati per mesi) all’«inflazione percepita» in voga dopo il passaggio dalla lira all’euro, non c’è organismo o consorteria che non abbia un suo centro studi che macina dati e fornisce tabelle facendo concorrenza a Istat, Ocse e Eurostat: dai sindacati alla Confcommercio, da Confindustria al Codacons di Carlo Rienzi, dalle banche al Censis, il delirio di cifre su Pil, fatturati industriali, tasse, stime per la ripresa e crisi dei consumi non lascia tregua a nessuno, ventiquattro ore su ventiquattro. Vittima predestinata dell’overdose è ovviamente l’opinione pubblica, intontita da dati che alla lunga perdono di senso e di valore, in uno tsunami di matematica che, se da un lato allontana dalla verità, dall’altro distanzia le masse dalla politica, dalla televisione e dai giornali. Perché in tanti, ormai, cominciano a comprendere l’aforisma dell’ex primo ministro inglese Benjamin Disraeli: «Esistono tre tipi di bugie: le bugie, le bugie sfacciate e le statistiche».

Così sono aumentate le tasse sul lavoro. Ecco chi paga di più. E dove conviene emigrare. La pressione fiscale nel nostro Paese non vuole saperne di ridursi e ha raggiunto ormai una cifra record. Ma non tutte le categorie dei lavoratori sono vessate allo stesso modo. E il confronto con alcuni paesi europei è impietoso, scrive Davide Mancino su “L’Espresso”. La teoria è semplice - quasi banale: lo stato esiste per servire i propri cittadini. A volte invece succede il contrario, soprattutto nei momenti di difficoltà. Dall'inizio della crisi economica il conto è diventato sempre più salato, e a pagarlo sono state le tasse dei cittadini: anche quelle sul lavoro. I dati Ocse mostrano che rispetto al 2007, ultimo anno prima della crisi economica, tasse sul lavoro e contributi sono aumentate per quasi tutti i tipi di famiglie - per alcune molto più di altre. Prendiamo una famiglia con un solo coniuge che lavora e guadagna uno stipendio nella media - intorno ai 30mila euro lordi l'anno. Per loro, due figli e spina dorsale della classe media italiana, in sette anni il cuneo fiscale è passato dal 35,7 percento al 39 percento. Non ci vuole molto neppure per essere considerati ricchi: il secondo incremento più consistente è per i single senza figli con un reddito lordo sui 50mila euro - per un guadagno di circa 2.500 euro netti al mese -, che fra tasse e contributi passano al 53,8 percento contro il 51,4 percento del 2007. Aumentano le pretese dello stato anche verso i lavoratori single senza figli, nonché per le coppie in cui un coniuge ha reddito medio e l'altro invece molto basso, sui 10mila euro. Unica eccezione, i single con un reddito medio-basso, per i quali invece il cuneo fiscale è diminuito - anche se di poco. Eppure tassare il lavoro ha due effetti collaterali. Il primo - più evidente - è che sottrae reddito alle persone, così che ogni mese hanno meno da spendere o risparmiare. Il secondo è più sottile ma non meno importante: tanto più un datore di lavoro si trova costretto a pagare contributi elevati, tanto più sarà difficile mantenere i dipendenti che ci sono già - per non parlare di assumerne nuovi. È una cosa che può succedere a chiunque. Poniamo di aver bisogno di una persona che si occupi delle pulizie, qualcuno che badi a un anziano in famiglia. Se aumentano le tasse sul lavoro non ci sono molte alternative: o troviamo qualcuno che si accontenta di guadagnare poco - magari meno bravo -, oppure è necessario dargli uno stipendio più alto per compensare. E se salgono i contributi il risultato non cambia. Ma noi non siamo ricchi, né possiamo spendere troppo, soprattutto in tempi incerti come questi. Forse abbiamo soltanto qualcuno che dia una mano ogni tanto, senza troppe pretese. Così, invece di prendere qualcuno, lasciamo perdere e facciamo noi uno sforzo in più. Risultato: meno lavoro. L'esatto contrario di quanto sarebbe necessario mentre la disoccupazione cresce. Se invece confrontiamo l'Italia con altre nazioni europee la troviamo nel gruppo di quelle che il lavoro lo tassano di più. Allora forse non è un caso che tanti italiani decidano di trasferirsi a Londra, visto proprio in Gran Bretagna per un single senza figli e con un reddito medio-basso - una situazione comune per tanti giovani espatriati - tasse e contributi incidono per il 26 percento. Nella stessa identica situazione, per una persona nel nostro paese ammontano invece al 42 percento: un differenza che vale diverse migliaia di euro - ogni anno. Non sono l'unico gruppo: in generale nel Regno Unito il cuneo fiscale è più ridotto per tutti i tipi di famiglie e risulta generoso soprattutto verso i single con due figli a basso reddito, per i quali non arriva neppure al 6 percento. Anche in Spagna le famiglie sono meno pressate dalle tasse. Qui però la differenza maggiore con il nostro paese riguarda le coppie con figli e reddito medio basso, che sono più tutelate. Ma poiché in Europa il paese iberico è il più simile all'Italia - sotto tutti i punti di vista - sorprende trovare un sistema fiscale tanto diverso dal nostro. Francia e Germania, d'altra parte, hanno livelli di tassazione sul lavoro pressappoco equivalenti all'Italia. Non identici, però: se Londra sembra essere un rifugio per i giovani lavoratori, Parigi va in senso opposto - lì il cuneo fiscale per quel tipo di persone è persino più elevato che in Italia. La Germania è un caso a parte, e riesce ad avere allo stesso tempo tasse elevate e un livello di disoccupazione molto basso, anche per i giovani. Certo tasse e contributi sul lavoro sono una parte importante dei balzelli che cittadini e datori di lavoro devono versare allo stato, ma certo non gli unici. In realtà il loro aumento, negli ultimi anni, è andato di pari passo con una crescita generalizzata della pressione fiscale. Mentre la crisi imperversava già da tempo, Berlusconi rassicurava il paese. “I ristoranti sono pieni”, diceva ancora nel 2011, evitando di prendere misure - anche minime - per attenuare la gravità degli eventi. Così la situazione è diventata ancora più grave. Dopo di lui il governo tecnico di Monti, la cui manovra economica ha pesato di più proprio dal lato delle imposte: in questo modo l'Italia arriva ad avere una pressione fiscale pari al 43,5 percento del prodotto interno lordo. Ogni dieci euro prodotti dai 60 milioni di abitanti della penisola, quattro e 35 centesimi si trasformano in tasse dovute allo stato. È un livello mai raggiunto prima durante la Seconda Repubblica. Il governo guidato da Enrico Letta, più avanti, non modifica questo rapporto in maniera sostanziale. Né le cose cambiano con Renzi e il suo bonus di 80 euro, che secondo le convenzioni statistiche internazionali vale come ulteriore spesa pubblica - anch'essa a livelli record. Così si torna al punto di partenza mentre l'economia resta ferma, e con lei il reddito degli italiani - soprattutto di chi ha meno.

Cervelli in fuga, un problema non solo italiano. Ecco chi sono e dove vanno i nostri emigranti. Il nostro paese continua a "esportare" laureati, ma ha difficoltà ad attrarne. Scopri con le nostre infografiche interattive quali sono le mete principali e dove preferiscono andare quelli con la tua età e titolo di studio, scrive Davide Mancino su “L’Espresso”. Di italiani in giro per il mondo ce ne sono sempre di più, e su questo non c'è dubbio. Ma chi sono, e dove vanno esattamente? Secondo le stime prodotte dall'Ocse e aggiornate al 2010, con 450mila migranti gli Stati Uniti sono risultati come prima meta degli espatriati italiani. Seguono Francia (350mila), Germania (340mila), Canada (260mila), Svizzera e Australia (entrambe 185mila). Il flusso verso il Regno Unito si ferma a 140mila persone, mentre quello diretto in Spagna a 80mila. Altri gruppi più piccoli sono andati a cercare fortuna in Polonia, Irlanda o persino in Grecia, meno ancora nell'esotico Giappone. Anche i dati Istat, aggiornati fino al 2013, mostrano che negli ultimi anni i flussi di italiani che vanno via sono in aumento. Dal 2010 le cose non sembrano essere cambiate troppo e le destinazioni preferite restano, nell'ordine, Regno Unito, Germania, Svizzera e Francia e Stati Uniti. Se però andiamo a guardare più in dettaglio, emergono preferenze molto specifiche a seconda dell'età, del sesso e del proprio titolo di studio. Per esempio paesi come Stati Uniti o Gran Bretagna sono le mete preferiti dei giovani laureati, soprattutto maschi. Chi ha un'istruzione inferiore tende invece a dirigersi spesso verso Germania, Spagna e Svizzera. Discorso diverso per la Francia, più in alto fra le destinazioni delle giovani donne laureate. Anche Australia e (soprattutto) Canada risaltano per ospitare un nutrito gruppo di italiani. Di questi buona parte è composta da anziani a bassa scolarizzazione: due mete molto diffuse per le migrazioni del dopoguerra, e che però ora sembrano attrarre meno chi decide di andare via. Quando si parla di emigrazione proprio i laureati sono una delle categorie cui prestare più attenzione. Una maggiore cultura è in sé un valore aggiunto, impossibile negarlo, e poi c'è un elemento in più. Tracciarne le migrazioni è un utile indizio per capire quali sono i paesi più dinamici, aperti al cambiamento e alle nuove idee: da dovunque esse vengano. Il discorso vale anche al contrario, per stabilire i luoghi più ambiti da parte di chi lascia il proprio paese natale. Qual è allora la situazione in Italia? Sono pochi, pochissimi gli arrivi di laureati. E in effetti proprio l'Ocse, in uno studio preliminare , conferma che in quanto a capacità di attirare talenti l'Italia fa peggio di tutti gli altri paesi con cui, in teoria, vorrebbe confrontarsi. Senza neppure voler citare Regno Unito e Stati Uniti, dove rispettivamente il 46 e il 30 per cento dei migranti sono laureati, anche il 24 per cento della Spagna sembra un miraggio e all'Italia tocca invece fermarsi appena sopra il 10 per cento. Da notare anche Francia (24 per cento) e Germania (20 per cento), che in questo gioco riescono meno bene di quanto ci si potrebbe aspettare. Un altro modo di guardarla è contare quanti sono i laureati che arrivano rispetto a quelli che vanno via – il loro “ricambio”, se così lo vogliamo chiamare. Qui gli Stati Uniti restano la calamita globale: nessuno vuole andare via, mentre molti altri arrivano. Anche l'Australia, seconda in classifica e che pure non se la cava male, resta comunque molto più indietro, mentre altre mete attraenti per i laureati sono Israele, il Canada e la Spagna. E l'Italia? Il bilancio è appena positivo, e comunque molto inferiore a Francia, Germania e Regno Unito. Altrove però va peggio e si verifica una perdita complessiva di laureati: in Irlanda e Giappone, per esempio, oppure in Finlandia o Islanda dove per ogni due titolati che hanno lasciato il paese ne è arrivato solo uno a sostituirli. Attirare cervelli è come cercare di riempire una piscina: conta l'acqua nuova che arriva dall'esterno, attraverso i rubinetti, ma anche quella che scappa via dalle crepe. Per l'Italia il problema non sembra essere tanto il liquido che sfugge: le analisi Ocse mostrano che il tasso di emigrazione dei laureati nel 2010 era dell'8,4 per cento, più elevato di quello spagnolo (2,5 per cento) o francese (5,7 per cento), ma molto inferiore a quello inglese (10,5 per cento) e in linea con la Germania (8,8 per cento). Pare piuttosto che qualcuno ci abbia tagliato le forniture perché venire a nuotare, alla fine, non interessava a nessuno.

Nota: i dati sono stime che fanno riferimento all'immigrazione nei paesi Ocse fino al 2010. In alcuni casi le statistiche escludono coloro di cui non è stato possibile rilevare età, paese di provenienza o titolo di studio. È del tutto probabile, dunque, che i valori reali siano leggermente più elevati.

"Schiavi" italiani in Australia? Sì, ma legali. E invece di indignarci dovremmo imitarli. Un'inchiesta tv ha denunciato casi di schiavismo nelle campagne dell'isola oceanica. Gli sfruttati sono però solo una piccola parte del totale e il sistema di Canberra offre ai migranti molte più garanzie del nostro, scrive Stefano Vergine su “L’Espresso”. «L'odissea dei giovani schiavi italiani. Undici ore a notte, a raccogliere cipolle». L'articolo pubblicato dal “Corriere della Sera”  racconta il risultato di un'inchiesta giornalistica condotta dalla popolare trasmissione televisiva australiana “Four Corners”. Un programma che ha squarciato il velo, nella terra dei canguri, sulle migliaia di giovani europei che finiscono a lavorare gratis nelle fattorie. Tutto vero. Per gli australiani meno informati è stato sicuramente uno shock scoprire che nel loro Paese ci sono persone praticamente schiavizzate, raccoglitori di quei prodotti che finiscono poi nei supermercati di Sydney, Melbourne, Brisbane, Darwin e delle altre cittadine sparse per l'immensa isola dell'Oceania. Ma le cose sono un po' più complicate di come appaiono. Ovvero: per tanti che hanno denunciato condizioni di sfruttamento, ce ne sono almeno altrettanti contenti dei loro tre mesi di vita agreste. Perché, a differenza di quanto succede in Italia con gli extracomunitari, di fatto costretti all'illegalità oltre che talvolta schiavizzati, in Australia i tre mesi di lavoro in campagna danno diritto a un regolare permesso di soggiorno. L'inchiesta in questione si è concentrata sul visto vacanza-lavoro, il “working holiday visa” . Rilasciato solo a cittadini di alcune nazioni industrializzate, con età compresa tra i 18 e i 31 anni, costa poche centinaia di euro e permette di stare in Australia per un anno lavorando a tempo pieno, estendendo la permanenza di un altro anno se il migrante è disposto a svolgere per tre mesi alcune mansioni come l'agricoltore o l'allevatore. Si può decidere di farlo percependo uno stipendio (le paghe variano dai 10 ai 25 dollari australiani all'ora), oppure prestare la propria opera gratuitamente, in cambio di vitto e alloggio. Nel 2014, scrive il “Corriere” della Sera citando i dati del dipartimento per l'Immigrazione australiana, nel Paese c'erano più di 145 mila giovani con questo tipo di visto, oltre 11 mila dei quali italiani. I casi di sfruttamento sono stati ben documentati dalla tv australiana. E pure il "Corriere" ha dato conto di alcuni esempi, come quello di due ragazze che, impiegate in un'azienda agricola, raccoglievano cipolle rosse «dalle sette di sera alle sei di mattina, anche quando pioveva o faceva freddo». Il fatto è che quelli evidenziati da “Four Corners” sono solo i casi sfortunati. Chi scrive ha potuto sperimentare in prima persona il working holiday visa australiano. E può assicurare che molti europei, fra cui parecchi italiani, non hanno subìto alcun tipo di sfruttamento. Certo, con questo sistema le aziende locali beneficiano della manodopera straniera a basso costo, ma c'è un altro lato della medaglia da considerare. Grazie a questa politica migratoria, gli italiani e i tanti altri cittadini stranieri che vogliono emigrare in Australia possono farlo legalmente. Fanno la richiesta di visto online, vanno a lavorare per tre mesi in campagna, pagati oppure solo compensati con il vitto e l'alloggio, e in questo modo si guadagnano la possibilità di restare nel Paese per un secondo anno (in realtà, come ricorda il “Corriere”, il governo di Canberra ha recentemente deciso di concedere l'estensione del visto solo a chi viene pagato per lavorare). La sostanza però non cambia. Invece di costringerli ad entrare illegalmente, come avviene oggi per i tanti extracomunitari che continuano ad arrivare sulle nostre coste, adottando una politica migratoria simile a quella del "working holiday visa" si permetterebbe ai migranti di avere due anni di visto per stare nel Paese, tempo utile per imparare la lingua e trovarsi un lavoro. Al contempo, le aziende italiane beneficerebbero di manodopera a basso costo, come peraltro già avviene. Ma tutto questo avverrebbe in modo legale, mentre oggi da noi le campagne sono ancora teatro di uno sfruttamento ben più pesante rispetto a quello visto nei casi raccontati dalla tv australiana.

Australia, ecco i giovani «schiavi» italiani: undici ore a notte, a raccogliere cipolle nei campi. 15 mila giovani italiani si trovano nel Paese con un visto di «Vacanza Lavoro» rinnovabile dopo un anno. Molti subiscono ricatti, abusi e perfino violenze sessuali, scrive di Roberta Giaconi su “Il Corriere della Sera”. Oltre 15.000 giovani italiani si trovano attualmente in Australia con un visto temporaneo di «Vacanza Lavoro». Hanno meno di 31 anni e, spesso, una laurea in tasca. Alla partenza, molti di loro neppure immaginano di rischiare condizioni di aperto sfruttamento, con orari di lavoro estenuanti, paghe misere, ricatti, vere e proprie truffe. Perlopiù finiscono nelle «farm», le aziende agricole dell’entroterra, a raccogliere per tre lunghi mesi patate, manghi, pomodori, uva. L’ultima denuncia arriva da un programma televisivo australiano, «Four Corners», durante il quale diversi ragazzi inglesi e asiatici hanno raccontato storie degradanti di molestie, abusi verbali e persino violenze sessuali. Gli italiani non sono esclusi da questa moderna «tratta». Ne sa qualcosa Mariangela Stagnitti, presidente del Comitato italiani all’estero di Brisbane. «In un solo anno ho raccolto 250 segnalazioni fatte da giovani italiani sulle condizioni che avevano trovato nelle “farm” australiane. Alcune erano terribili», spiega. Due ragazze le hanno raccontato la loro odissea in un’azienda agricola che produceva cipolle rosse. Lavoravano dalle sette di sera alle sei di mattina, anche quando pioveva o faceva freddo. «Non potevano neanche andare in bagno, dovevano arrangiarsi sul posto», dice Stagnitti. Un ragazzo, invece, era stato mandato sul tetto a pulire una grondaia piena di foglie. «È scivolato ed è caduto giù, ferendosi gravemente. L’ospedale mi ha chiamata perché il datore di lavoro sosteneva che aveva fatto tutto di sua iniziativa». Secondo i dati del dipartimento per l’Immigrazione, nel giugno dell’anno scorso in Australia c’erano più di 145.000 ragazzi con il visto «Vacanza Lavoro», oltre 11.000 dei quali italiani. E il nostro è uno dei Paesi da cui arriva anche il maggior numero di richieste per il rinnovo del visto per un secondo anno. Per ottenerlo, questi «immigrati temporanei» hanno bisogno di un documento che attesti che hanno lavorato per tre mesi nelle zone rurali dell’Australia. E questo li rende vulnerabili ai ricatti. «Ho sentito di tutto», dice Stagnitti. «Alcuni datori di lavoro pagano meno di quanto era stato pattuito e, se qualcuno protesta, minacciano di non firmare il documento per il rinnovo del visto. Altri invece fanno bonifici regolari per sembrare in regola, ma poi obbligano i ragazzi a restituire i soldi in contanti. E poi ci sono i giovani che accettano, semplicemente, di pagare in cambio di una firma sul documento». Non sono in molti a denunciare la situazione. «Quando mi chiedono cosa fare, io consiglio loro di non accettare quelle condizioni e di chiamare subito il dipartimento per l’Immigrazione, ma i ragazzi non lo fanno perché hanno paura di rimetterci. Tanti mi dicono che ormai sono abituati: anche in Italia, quando riuscivano a lavorare, lo facevano spesso in nero e sottopagati». Stagnitti alza le spalle. «La verità è che spesso questi giovani in Italia sono disoccupati, senza molte opzioni, per questo vengono a fare lavori che gli australiani non vogliono più fare». Sulla scia della denuncia di «Four Corners», il governo dello stato di Victoria ha annunciato che darà il via a un’inchiesta sulle condizioni di lavoro nelle «farm», con l’obiettivo di stroncare gli abusi e trovare nuove forme di regolamentazione che mettano fine allo sfruttamento. Intanto, proprio nei giorni scorsi, il Dipartimento per l’Immigrazione ha deciso che il cosiddetto «WWOOFing», una forma di volontariato nelle azienda agricole in cambio di vitto e alloggio, non darà più la possibilità di fare domanda per il secondo anno di visto «Vacanza Lavoro». «Nonostante la maggior parte degli operatori si sia comportata correttamente - si legge in un comunicato stampa - è inaccettabile che alcuni abbiano sfruttato lavoratori stranieri giovani e vulnerabili».

MINISTRI. UNA IMPUNITA' TUTTA PER LORO.

Indagare i ministri è diventato impossibile. Così una legge vergogna difende la Casta. Tremonti e Matteoli sono sotto accusa per corruzione, ma una norma soccorre i politici di governo. E le uniche condanne risalgono a Tangentopoli, scrive Paolo Biondani su "L'Espresso". Altero Matteoli e Giulio Tremonti Vietato indagare sulla casta di governo. Nell’Italia saccheggiata da una corruzione enorme, c'è uno scudo legale che protegge proprio i politici con più poteri: i ministri che controllano le casse centrali della spesa pubblica. In questi mesi di crisi e lotta agli sprechi, i magistrati di Venezia e di Milano hanno rimesso in moto la speciale procedura per i reati commessi dai ministri nell'esercizio delle loro funzioni. Giulio Tremonti e Altero Matteoli, esponenti di spicco dei governi di Silvio Berlusconi, sono accusati di corruzione. Come tutti gli indagati, fino a prova contraria vanno considerati innocenti. Anche perché la legge in vigore non impone più rigore e più controlli per chi conta di più, ma il contrario: come parlamentari, non possono essere intercettati, perquisiti e tantomeno arrestati; e come ministri, godono di privilegi speciali, tutti per loro. Che nella storia italiana hanno quasi sempre salvato i governanti. I condannati per reati ministeriali sono pochissimi. E gli ultimi casi risalgono ai tempi di Mani Pulite. Prima e dopo quel periodo eccezionale, decine di accuse sono state azzerate da un veto politico: stop alle indagini, con tanti saluti alla giustizia. Le inchieste sui ministri sono regolate da una disciplina che alcuni giuristi paragonano a un «fossile legale» dei tempi del vecchio codice: la legge costituzionale numero 1 del 16 gennaio 1989. «È una normativa tecnicamente incredibile: sembra fatta apposta per garantire l'impunità», sintetizza uno dei magistrati che hanno condotto le nuove inchieste. Il privilegio più vistoso è l'autorizzazione a procedere: il ministro può essere processato solo con il permesso della Camera, se è un onorevole, o del Senato. Dietro questo muro legale, trovano riparo anche i coimputati di ogni sorta: imprenditori, burocrati, faccendieri, eventuali complici mafiosi. Se il Parlamento nega l'autorizzazione, si salvano tutti. «Una vera assurdità tecnica», secondo diversi magistrati, è il comma di legge che regola l'avvio dell'inchiesta. Quando una Procura scopre un ipotetico reato ministeriale, non può fare niente: «omessa ogni indagine», come prescrive l'articolo 6, i pm devono liberarsi del fascicolo «dandone immediata comunicazione» a tutti i sospettati. Per i normali cittadini le Procure possono, anzi devono tenere segreta l'inchiesta almeno nei primi sei mesi, per evitare che l'indagato possa far sparire i soldi o inquinare le prove. Per i ministri e i loro complici, la regola è rovesciata: preavviso immediato a tutti gli indagabili, fosse anche un caso di omicidio, mafia o droga. Messi così in allarme i sospettati, l'inchiesta va affidata a tre giudici estratti a sorte tra tutti i magistrati del distretto, anche se non hanno mai fatto indagini, riuniti nel cosiddetto tribunale dei ministri: un collegio che ricorda i vecchi giudici istruttori, aboliti da un quarto di secolo. Il collegio ha solo 90 giorni per concludere tutta l'inchiesta, prorogabili di altri 60 al massimo. In tempi così brevi è praticamente impossibile fare rogatorie, ad esempio, per trovare l'eventuale bottino nascosto all'estero. Alla fine, se il tribunale archivia, il verdetto è «inoppugnabile». Se invece chiede l'autorizzazione al processo, il Parlamento può negarla anche se il reato è provato, «qualora reputi che l'inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato»: un alibi politico «insindacabile», per cui regge anche se è falso. Con regole del genere, non meraviglia che i ministri condannati si riducano a pochi sfortunati. Il primo e per anni unico fu Mario Tanassi, socialdemocratico, condannato a due anni e quattro mesi, il primo marzo 1979, dalla Corte Costituzionale con il vecchio rito: una sola sentenza autorevolissima e inappellabile. Era il fronte italiano dello scandalo Lockheed, innescato da un'inchiesta degli Stati Uniti che il nostro Paese non poteva ignorare: come ministro della Difesa, Tanassi fu corrotto con 560 milioni di lire per sbloccare l'acquisto di 14 aerei militari costosissimi. La legge del 1989 è nata proprio per garantire a ministri come lui i soliti tre gradi di giudizio. E così è toccato al tribunale dei ministri, appena creato, indagare sulle "carceri d'oro": le tangenti confessate a Milano, dopo l'arresto, dall'imprenditore Bruno De Mico. Il suo processo si è chiuso nel 1994 con la condanna definitiva a cinque anni, per concussione, dell'ex ministro Franco Nicolazzi, anche lui del Psdi, che aveva intascato 2,5 miliardi di lire. In quel periodo era diventato normale concedere l'autorizzazione a procedere, che nel 1993, al culmine di Tangentopoli, è stata abolita per i semplici parlamentari. Tra i ministri, il condannato più illustre è Francesco De Lorenzo, liberale, titolare della sanità dal 1989 al 1992, condannato a cinque anni e quattro mesi per decine di tangenti, per un totale accertato di 4,5 milioni di euro, sborsate dalle industrie farmaceutiche da lui favorite. Dopo Mani Pulite, invece, le indagini sui governi sembrano fermarsi. Per tutto il ventennio dominato da Berlusconi, la procedura per i reati ministeriali diventa un muro di gomma. Alcune procure archiviano sul nascere decine di fascicoli. E quando il tribunale dei ministri conferma qualche accusa, interviene il Parlamento. Tra i casi più clamorosi spicca il salvataggio politico di Pietro Lunardi, l'ex ministro delle grandi opere, accusato di corruzione con il cardinale Crescenzio Sepe. Nel 2010 il tribunale dei ministri conclude che Lunardi ha acquistato a prezzo bassissimo un palazzo di lusso dall’ente religioso Propaganda Fide, che intanto otteneva cinque milioni di euro dal governo«in assoluta carenza dei presupposti». I magistrati invocano per quattro volte l'autorizzazione a procedere, ma il parlamento le blocca una dopo l'altra chiedendo sempre «approfondimenti». Nello stesso periodo beneficia dello stop politico al processo anche il ministro Matteoli, accusato di favoreggiamento per aver rivelato a un amico prefetto che era sotto intercettazione per tangenti su speculazioni edilizie all'Isola d'Elba. Dopo la bocciatura del lodo Alfano, (che avrebbe sospeso i processi al premier) l'immunità ministeriale è stata invocata pure nel caso Ruby: Berlusconi, secondo la sua maggioranza, telefonò in questura per far rilasciare la minorenne marocchina agendo da premier, perché credeva veramente che fosse la nipote di Mubarak. Quindi la Camera ha votato un conflitto di attribuzioni, ma la Corte Costituzionale, il 12 aprile 2012, ha dato ragione alla Procura di Milano, scrivendo che «era obbligata a indagare». Pochi ricordano che anche Giulio Andreotti, dopo una carriera costellata di mancate autorizzazioni a procedere, tentò di sottrarsi allo storico processo di Palermo per complicità con la mafia (poi chiuso con la prescrizione fino al 1980 e l'assoluzione per gli anni successivi) accampando la competenza del tribunale dei ministri di Roma. Ma i giudici hanno replicato che Andreotti era sotto accusa solo come capo-corrente della Dc. Ora si ricomincia da due. La nuova Camera ha già autorizzato il processo a Matteoli: i padroni del Mose di Venezia hanno confessato di avergli versato 550 mila euro, oltre a dover inserire una sua società, intestata secondo l'accusa a un prestanome, nei maxi-finanziamenti per disinquinare Porto Marghera. E al Senato pende la richiesta di procedere contro Tremonti per una presunta corruzione targata Finmeccanica: 2,6 milioni di euro mascherati da parcella per il suo studio professionale. Il tribunale dei ministri ha firmato un atto d’accusa che sembra quasi una sentenza di condanna. Ma l’affare è del 2008/2009, per cui Tremonti potrà comunque approfittare della vecchia, cara legge sulla prescrizione.

PER GLI ONOREVOLI...NON C'E' FRETTA.

Onorevole inquisito? Non c'è fretta. La melina delle Camere che rallenta i giudici. Due anni di attesa per le intercettazioni di Verdini. Quasi uno per quelle dell'Ncd Azzollini. Sei mesi (finora) per l'autorizzazione nei confronti dell'ex ministro Matteoli e tempi ancora vaghi per le offese di Calderoli alla Kyenge. Quando è indagato un suo componente, il Parlamento se la prende comoda, scrive Paolo Fantauzzi su "L'Espresso". Paragonare un ministro di origini congolesi a un orango è un'opinione insindacabile espressa nell'esercizio delle funzioni parlamentari? Comunque la pensiate, sappiate ci vuole molto tempo prima di stabilirlo. Pure se, dopo un'istruttoria durata settimane e settimane, per decidere ci vorrebbe assai poco. E per autorizzare la magistratura a procedere nei confronti di un ex ministro accusato di aver intascato mezzo milione di euro? Possono volerci anche sei mesi. Troppo? Sciocchezze, perché come niente si può arrivare anche a un anno o due di attesa. Parafrasando Bogart, sono i tempi dell'immunità parlamentare, bellezza. Un istituto pensato per proteggere deputati e senatori dal rischio di intenti persecutori della magistratura, trasformatosi col tempo in un tribunale preventivo preoccupato più che altro di salvarli dai processi. Ma a regalare anzitempo generose assoluzioni non c'è solo questo scudo giudiziario, che ha trasformato l'immunità in impunità e portato a respingere nella Seconda repubblica il 90 per cento delle richieste di arresto avanzate dai giudici . Prima ancora di arrivare a un verdetto, qualunque sia, si assiste infatti puntualmente a una sorta di "melina" calcistica che dilata a dismisura i tempi. Il caso di Denis Verdini è emblematico: il Parlamento ci ha messo due anni prima di concedere l'uso delle sue intercettazioni nell'inchiesta sulla P4, in cui è accusato di corruzione. Era maggio 2012 quando il gup Cinzia Parasporo ha trasmesso alla Camera la richiesta di usare una trentina di telefonate captate indirettamente tra l'allora deputato, che in quanto tale non poteva essere intercettato, e la "cricca" delle Grandi opere (Angelo Balducci, Fabio De Santis e Riccardo Fusi). La Giunta delle autorizzazioni di Montecitorio aveva anche espresso parere positivo e nel giro di un mese era tutto pronto. Bastava solo trovare uno spazio nel calendario dei lavori d'Aula. Invece, nonostante ci fossero mesi e mesi a disposizione, niente da fare. Risultato: la legislatura è finita, Verdini è stato eletto senatore e ad aprile 2013 il gup ha dovuto di nuovo trasmettere gli atti, stavolta a Palazzo Madama. Dove, come al gioco dell'oca, si è ripartiti da zero. E prima del via libera è trascorso un altro anno. Grosso modo lo stesso lasso di tempo necessario a rispondere "no" al gip di Trani che chiedeva di usare una decina di intercettazioni indirette del senatore Ncd Antonio Azzollini, inquisito per la presunta truffa dell'ampliamento del porto di Molfetta . Una vicenda che mostra la mera ragion politica che si cela a volte dietro alcune scelte: per salvare il potente parlamentare alfaniano e in questo modo la stabilità del governo, con una decisione senza precedenti il Pd - come ha rivelato l'Espresso - ha addirittura convocato una riunione d'emergenza. E dire che in Giunta si era già visto di tutto: 11 sedute in 7 mesi, due richieste di integrazioni istruttorie chieste al giudice e altrettante audizioni del senatore, perfino una disputa sulle date in cui erano iniziati gli ascolti. Alla fine, dopo dieci mesi di passione, il Senato ha negato l’autorizzazione: era chiaro che mettendo sotto controllo i telefoni degli altri indagati i pm avrebbero intercettato anche il parlamentare, ha motivato nella sua relazione il senatore Pd Claudio Moscardelli. Ma se quelli di Verdini e Azzollini sono i più eclatanti, i casi sono numerosissimi. Sono passati sei mesi, ad esempio, da quando è arrivata in Senato la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dell'ex ministro dell'Ambiente Altero Matteoli, che secondo i pm dell’inchiesta sul Mose avrebbe ricevuto tangenti per 550 mila euro fra il 2001 e il 2012. Sarebbe bastata qualche ora per votare, visto che la relazione istruttoria sulla vicenda è pronta dal 10 febbraio. Solo che per settimane nessuno si è preoccupato di farla mettere all'ordine del giorno dell’Aula. Che si è occupata di tutt’altro, fra decreti in scadenza da convertire, emergenze, mozioni varie e perfino la richiesta di dimissioni di fuoriusciti del Movimento cinque stelle. Adesso, dopo qualche pressing informale, il presidente Piero Grasso ha finalmente fissato la data: il 2 aprile. Intanto, nel corso di un'audizione sugli appalti, si è assistito al paradosso di un presidente di commissione accusato di corruzione (Matteoli) seduto accanto al presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone. Ancora tempi lunghi si prevedono invece per gli epiteti di Roberto Calderoli rivolti nel luglio 2013 all’allora ministro dell’Integrazione: «Ogni tanto, smanettando con internet, apro il sito del governo e quando vedo venire fuori la Kyenge io resto secco. Io sono anche un amante degli animali per l’amore del cielo. Ho avuto le tigri, gli orsi, le scimmie e tutto il resto. Però quando vedo uscire delle sembianze di un orango, io resto ancora sconvolto». Diffamazione aggravata da finalità di discriminazione razziale, secondo i pm bergamaschi Maria Cristina Rota e Gianluigi Dettori. Ma non per la Giunta di Palazzo Madama, che col voto determinante di alcuni senatori Pd si è espressa per lo stop al processo. Adesso resta da vedere se, dopo le polemiche, l'Aula ( e soprattutto il Pd ) confermerà o ribalterà il parere espresso. Intanto le cose vanno per le lunghe: la relazione, affidata al forzista Lucio Malan, è pronta dal 25 febbraio ma la questione non ha ancora trovato posto nel calendario dei lavori.. «Calderoli - vi si legge - ha utilizzato, all'interno di un articolato intervento sull'immigrazione fortemente critico, un'espressione forte, ma fatta esclusivamente come battuta ad effetto, visto che il contesto, oltre che politico, era anche ludico e cioè quello di una festa estiva organizzata». Insomma, uno scherzo. Quindi niente processo. Non sono state poste all'ordine del giorno nemmeno le 13 telefonate e 68 sms dell’ex senatore Pd Antonio Papania che secondo la Procura di Trapani proverebbero la corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio: tra il 2010 e il 2012 l’allora parlamentare avrebbe ricevuto “in più occasioni utilità consistite nell’assunzione di numerose persone a lui gradite e da lui segnalate”. Ma la vicenda è oggetto di un ping pong che si trascina da mesi. Le carte sono arrivate a Palazzo Madama a giugno ma se ne è iniziato a discutere solo a ottobre. A dicembre il caso è approdato in Aula ma per una questione formale il fascicolo è stato rimandato in Giunta. Sono trascorsi altri tre mesi e da qualche settimana è tutto pronto per il voto dell’Assemblea. Ma tutto è ancora fermo. Va riconosciuto che quando si tratta di arrestare un parlamentare le Camere riescono a essere più celeri: per acconsentire a mandare dietro le sbarre i deputati Giancarlo Galan (Forza Italia) e Francantonio Genovese (Pd), come chiesto dai giudici, ci sono voluti “solo” due mesi. In ogni caso moltissimo se si considerano le motivazioni che richiedono la carcerazione: pericolo di fuga, inquinamento delle prove e reiterazione del reato. Insomma, se i rischi sono tali, a ben vedere neppure otto settimane sono così poche. Tanto più che, a giudicare dalle date, nemmeno in queste circostanza di estrema urgenza il Parlamento pare essere stato particolarmente solerte nella rispondere alla magistratura. La relazione che concedeva l'arresto di Galan per corruzione, ad esempio, è rimasta ferma una dozzina di giorni prima di arrivare in Aula: dal 10 al 22 luglio 2014. Nel caso di Genovese - accusato di peculato, truffa aggravata, riciclaggio, emissione di fatture false e associazione a delinquere - le carte sono arrivate da Messina il 18 marzo 2014 ma la Giunta delle autorizzazioni di Montecitorio ha iniziato l’esame solo il 26 e la seconda seduta si è tenuta il 10 aprile, dopo altre due settimane. Poi, siccome c'è stata Pasqua di mezzo, altre due settimane di stop. Casi eccezionali? Non proprio. Nella scorsa legislatura, quando fu raggiunto il record di 11 richieste di arresto nei confronti di parlamentari, i tempi sono stati grosso modo gli stessi. Nel 2008 ci vollero tre mesi e mezzo prima di votare (contro) la richiesta di domiciliari per il pidiellino Nicola Di Girolamo. E oltre due mesi prima di respingere l'arresto dell'imprenditore Antonio Angelucci, di Vincenzo Nespoli, del consigliere del ministro Tremonti, Marco Milanese, e consentire quello di Alfonso Papa (tutti del Pdl). Due mesi per arrestare Alberto Tedesco (Pd) e un mese e mezzo per mandare ai domiciliari Sergio De Gregorio (Pdl) e in carcere Luigi Lusi (Pd). Unica eccezione, quella del deputato Pd Salvatore Margiotta: nel 2008 la Camera impiegò appena due giorni per respingere la richiesta di arresti domiciliari, avanzata dal pm Henry John Woodcock nell'ambito dell'inchiesta per la realizzazione del Centro oli della Total in Basilicata. Per quelle accuse (turbativa d’asta e corruzione) lo scorso dicembre il parlamentare dem, adesso senatore, è stato condannato in Appello a un anno e sei mesi.

Casta, così l'immunità parlamentare è diventata lo scudo contro arresti e processi. Dal 1994 Montecitorio e Palazzo Madama hanno respinto il 90 per cento delle richieste di carcerazione o di domiciliari avanzate dai giudici. E negato spesso l’uso di intercettazioni e tabulati, sempre per un presunto fumus persecutionis nelle indagini. Una “protezione” che con il nuovo Senato sarà estesa a sindaci e consiglieri regionali, scrive Paolo Fantauzzi su "L'Espresso". Immunità anche per i “nuovi” senatori. Dopo critiche, proteste, smentite e pressioni varie, alla fine lo scudo giudiziario sarà esteso anche ai sindaci e ai consiglieri regionali che approderanno a Palazzo Madama. E come avviene per i deputati, servirà un’autorizzazione per arrestarli, intercettarli ed effettuare perquisizioni nei loro riguardi. Eppure, se vorrà evitare che finisca col lancio di monetine come durante Tangentopoli, il governo farebbe bene ad approfittare della riforma costituzionale per congegnare un sistema che eviti gli abusi degli ultimi due decenni. Senza contare il caso Galan , in merito al quale Montecitorio non si è ancora espresso, su 31 richieste di arresto avanzate dai giudici nell’arco di questo ventennio - ha ricostruito l’Espresso - 28 sono state respinte. Nove volte su dieci, in pratica, Camera e Senato hanno ritenuto viziate da fumus persecutionis le istanze della magistratura di mandare in carcere o ai domiciliari un parlamentare. Un dato che mostra come la riforma dell’articolo 68 della Costituzione varata nel 1993 sull’onda di Mani pulite non sia servita a granché. Così se nella Prima Repubblica, senza il via libera della Camera di appartenenza, un onorevole non poteva essere inquisito e nemmeno arrestato dopo una condanna definitiva, dal ’94 in poi l’immunità ha continuato a rappresentare un formidabile scudo dalle vicende giudiziarie. Peraltro con una significativa recrudescenza negli ultimi anni, visto che oltre un terzo delle richieste di arresto sono state inoltrate nella scorsa legislatura (2008-2013). Il berlusconiano Alfonso Papa e i democratici Luigi Lusi e Francantonio Genovese , arrestati negli ultimi tre anni, sono gli unici a essere finiti dietro le sbarre. Ma fino al 2011 ogni richiesta è stata puntualmente respinta. Spesso grazie anche al voto segreto. Come nel caso del deputato Pdl Nicola Cosentino, accusato di concorso esterno in associazione camorristica: secondo l’istruttoria svolta dai deputati della Giunta delle autorizzazioni di Montecitorio, l’onorevole andava spedito in carcere come chiedeva il gip di Napoli. Ma nel segreto dell’urna, nel 2009 l’Aula lo ha graziato , impedendo anche l’utilizzo di alcune sue intercettazioni telefoniche. Idem nel 2011 per Alberto Tedesco (Pd) e nel 2012 per il senatore Sergio De Gregorio (Pdl), accusato di truffa e false fatturazioni nell’inchiesta sui fondi pubblici all’editoria e per il quale erano stati chiesti i domiciliari. In altri casi, invece, il Parlamento si è trasformato in una sorta di Corte di Cassazione. E anziché limitarsi ad appurare un eventuale intento persecutorio dei pm (come previsto dalla legge), si è spinto a dare giudizi di merito sulle inchieste. Nel 1997, ad esempio, il deputato Carmelo Carrara (Ccd-Cdu), relatore della richiesta d’arresto di Cesare Previti - salvato dal carcere nell’inchiesta Imi-Sir, in cui l’avvocato fu poi condannato per corruzione in atti giudiziari - ravvisava «un’esasperazione accusatoria del gip di Milano». Due anni dopo anche il relatore Filippo Berselli (An) motivò il suo “no” alla richiesta di carcerazione nei confronti di Marcello Dell’Utri per la «evidente sproporzione tra la misura cautelare adottata e i reati contestati», ovvero tentata estorsione e calunnia. Quando il gip di Bari nel 2006 chiese i domiciliari per Raffaele Fitto nell’ambito di un’inchiesta sulla sanità, la Giunta della Camera stabilì all’unanimità che il pericolo di reiterazione del reato “non appare motivato”. E quindi l’ex governatore pugliese - poi condannato a 4 anni in primo grado -  doveva restare libero. La richiesta di carcerazione nei confronti del deputato Udc Remo Di Giandomenico, anche lui accusato di corruzione nel 2006, era invece “connotata da fumus persecutionis, specie in rapporto all’attualità delle esigenze cautelari”. E siccome l’onorevole in una sua memoria difensiva alla Giunta aveva “offerto concreti elementi di contestazione nei confronti delle accuse”, “si affievolisce la esigenza custodiale”. Tradotto: niente arresto. Il fumo della persecuzione Montecitorio l’aveva ravvisato anche nel 1998, nelle due diverse richieste di carcerazione dell’ex sindaco di Taranto Giancarlo Cito (poi condannato sia per l’una che l’ altra vicenda): entrambe furono infatti respinte. Si dirà: se l’inchiesta è debole, è comprensibile una levata di scudi. Eppure nemmeno un’indagine riconosciuta come fondata dagli stessi onorevoli ha portato a un esito diverso. Quando nel 2006 il gip di Roma chiese il carcere per il deputato Giorgio Simeoni (Forza Italia) per il pericolo d'inquinamento delle prove in un’inchiesta sulla sanità, la maggioranza dei suoi colleghi in Giunta osservarono che “il pericolo mancherebbe perché il quadro indiziario è tutto sommato abbastanza solido”. Risultato: l’autorizzazione a procedere non fu concessa nemmeno in questo caso. Il diniego agli arresti non è l’unico aspetto significativo. Grosso modo una volta su due (in totale 26 su 58), il Parlamento ha negato anche l’uso di uno strumento fondamentale d’indagine come le intercettazioni. Ma le Camere non hanno solo impedito l’utilizzo delle conversazioni captate indirettamente. In qualche caso hanno negato perfino la semplice acquisizione dei tabulati, che consentono di ricostruire le chiamate ricevute ed effettuate, per “tutelare la sfera di riservatezza del parlamentare”. Pure l’insindacabilità, vero cuore dell’immunità, si è prestata a qualche interpretazione di manica assai larga. Si tratta dello “scudo” nei confronti delle opinioni espresse dagli eletti, una prerogativa fondamentale per assicurare la loro indipendenza e autonomia senza il timore di essere trascinati in tribunale. Su oltre 700 casi, il 92 per cento delle volte Montecitorio e Palazzo Madama hanno ritenuto che i giudizi di deputati e senatori sfociati in una causa per diffamazione erano stati espressi nell’esercizio delle funzioni parlamentari, come prevede la legge. Pertanto gli onorevoli non erano processabili. Un “ombrello” sotto il quale - solo per citare alcuni degli episodi più celebri - sono finite le critiche di Francesco Storace a Giorgio Napolitano (dalla «disdicevole storia personale», la «evidente faziosità istituzionale» e «indegno di una carica usurpata a maggioranza»), le accuse di Maurizio Gasparri a John Woodcock («un bizzarro pm, che spara a vanvera accuse ridicole») oppure le intemerate di Vittorio Sgarbi contro i pm del pool di Milano («vanno processati ed arrestati: sono un’associazione a delinquere con libertà di uccidere che mira al sovvertimento dell'ordine democratico»). Proprio Sgarbi, peraltro, in questi anni si è dimostrato una sorta di record-man: oltre 150 delibere di insindacabilità (un quinto del totale) hanno riguardato proprio lui. Un dilagare generalizzato contestato dalla Corte costituzionale, che in questi 20 anni - a seguito di conflitti di attribuzione sollevati dai giudici - ha annullato 84 concessioni di immunità: per la Consulta si trattava di affermazioni che nulla avevano a vedere con l’attività parlamentare. E quindi deputati e senatori andavano processati come normali cittadini.

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA.

Mafia: pm Teresi, nell'antimafia ci sono persone senza scrupoli. L'antimafia è rappresentata anche "da persone senza scrupoli che vogliono sfruttare questo palcoscenico per potere ricevere vantaggi che sono tipici di persona senza scrupoli". Lo denuncia il 30/04/2015 all'Adnkronos il Procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi. "Probabilmente esiste davvero la mafia dell'antimafia - dice il magistrato a margine della commemorazione di Pio La Torre e di Rosario Di Salvo - Ormai esistono non solo rischi ma anche concreti esempi di infiltrazioni nella cultura e nella pratica giornaliera dell'antimafia che è fatto da persone che vogliono sfruttare questo palcoscenico per potere emergere e potere ricevere dei vantaggi che sono tipici di persone senza scrupoli". "Non parlerei di mafia dell'antimafia, ma di mancanza di scrupoli di una certa antimafia che esiste certa", aggiunge. Poi, parlando dell'ex segretario del Pci La Torre ucciso il 30 aprile di 33 anni fa, l'aggiunto dice: "Pio La Torre è stato un pioniere non solo della lotta alla mafia, ma anche della lotta alla miseria e alla vera lotta di classe in Sicilia - dice - La questione meridionale scissa dalla questione mafiosa era un esercizio culturale inutile. Lui ha intuito che erano la stessa cosa e l'ha pagata con la vita, perché ha individuato la mafia come la vera responsabile del distacco della Sicilia dal resto della crescita della nazione. Quindi, un esempio di capacità di vedere avanti veramente straordinario". "Ora si parla più di lotta alla mafia come esercizio di abitudine che andrebbe rivisto e si parla meno di questione meridionale, cioè abbiamo di nuovo scisso le due cose - aggiunge Teresi - Continuiamo a fare finta che la storia non esista e che le due vicende siano separate. Dobbiamo capire che la questione economica siciliana è questione di mafia".

Giustizia: il pm di Palermo Vittorio Teresi "nell'antimafia ci sono persone senza scrupoli", scrive Vincenzo Vitale su "Il Garantista". In occasione della commemorazione di Pio La Torre, l'affondo di Vittorio Teresi, Procuratore Aggiunto di Palermo. Dopo tanti anni, si da ragione a Sciascia. Nella mitologia greca, Cronos - il Tempo - divora i figli che esso stesso ha fatto nascere: e ne rimane un celebre e perfino impressionante olio di Goya, dove appunto si mostra un essere mostruoso che letteralmente prende a morsi poveri omiciattoli in sua totale balia. Ne facciamo esperienza ogni giorno: tutto ciò che ci affatichiamo a fare e a disfare, non appena entra nell'ambito della vita, delle cose, è già candidato a scomparire, a dissolversi. Appena nato, il piccolo già principia ad invecchiare. Tuttavia, in un'altra prospettiva - che è quella che qui davvero interessa - il Tempo si fa cogliere come un potente coefficiente di chiarificazione delle realtà più complesse: esso serve a far capire ciò che prima non si capiva, a semplificare ciò che sembrava complicato, perfino a dissolvere la nebbia dell'ideologia. Si pensi per esempio a come Emile Zola abbia affidato al tempo la marcia inesorabile di quella verità che condusse poi, dopo anni, alla definitiva riabilitazione del capitano Dreyfus, ingiustamente accusato di spionaggio a favore dei tedeschi. È questo il caso che oggi si registra in virtù delle dichiarazioni di Vittorio Teresi, Procuratore Aggiunto di Palermo, il quale ha affermato all'Adnkronos che l'antimafia è rappresentata anche "da persone senza scrupoli che vogliono sfruttare questo palcoscenico per poter ricevere vantaggi che sono tipici di persone senza scrupoli", e che aggiunto: "...non parlerei di mafia dell'antimafia, ma di mancanza di scrupoli di una certa antimafia che esiste". Ebbene, ricordate un celebre articolo pubblicato a firma di Leonardo Sciascia, nel gennaio del 1987, sul Corriere della Sera, dal titolo (che, peraltro, non era a lui dovuto) "I professionisti dell'antimafia", e che tante polemiche suscitò? Ricordate che il coordinamento antimafia di Palermo, in quel tempo, inveì contro lo scrittore siciliano, affermando che egli si era posto "ai margini della società civile"? Ricordate che gli intellettuali di casa nostra s'indignarono profondamente alla pubblicazione di quel pezzo e che nel nome della lotta alla mafia criticarono aspramente Sciascia, ergendosi a difesa di Orlando e Borsellino? Basti pensare a Eugenio Scalari. Ne nacquero poi polemiche annose ed astiose che travagliarono dalle pagine dei giornali e di riviste di politica e di costume l'intera società italiana, insomma una vera tempesta mediatica e ideale. E perché? Semplicemente perché lo scrittore siciliano aveva individuato come esistesse il concreto pericolo che, per come veniva organizzata l'antimafia, per le strategie che usava, per il tipo di consenso a volte cieco e privo di capacità critica che essa riusciva a capitalizzare, dietro di essa si muovesse un interesse di altro tipo, assai meno nobile e socialmente utile, un interesse inconfessabile destinato a costruire un vantaggio proprio o dei propri sodali, fosse esso politico, sociale, morale, perfino economico e che perciò si trattava di demistificarlo, portandolo a conoscenza di tutti. E ciò non certo per indebolire la lotta alla mafia, effetto che, tradotto quale accusa mossa allo scrittore, suonava già semplicemente insulso, ma, al contrario, per depurarla da indebite contaminazioni che sarebbero state in grado di degradarla, di renderla dominio di pochi invece che patrimonio di tutti. Già. Ma ciò Sciascia scriveva e denunciava - "spirito critico mancando e retorica aiutando" - ventotto anni e quattro mesi or sono. Ci son voluti tutti, per capire che le cose stavano proprio così, che davvero nell'antimafia son presenti anche persone che, prive di scrupoli, ne sfruttano il palcoscenico per lucrare vantaggi personali, come ha efficacemente dichiarato il dott. Teresi. E, a pensarci bene, perché dovrebbe o come potrebbe essere diversamente? Perché mai l'antimafia dovrebbe far eccezione a tutte le altre organizzazioni umane - dal circolo degli Ufficiali alla bocciofila - nessuna delle quali è - né pretende di esserlo - perfetta, senza macchia, tutta ed interamente composta da persone probe, incontaminate, incorruttibili. Del resto, come è noto, "l'incorruttibile" finì col perdere la testa sotto la medesima lama alla quale egli stesso aveva destinato migliaia di teste. L'antimafia, perciò, non fa al riguardo eccezione. Solo che - ed è qui la vera differenza che, come un crinale, distingue il profetismo letterario dello scrittore dalla pigrizia coscienziale - Sciascia ebbe la preveggenza di vederlo ed il coraggio civile di denunciarlo quasi trent'anni or sono: e ne ebbe rampogne e contumelie. Oggi, anche altri non solo lo comprendono, ma lo dichiarano pubblicamente e si spera si tratti ormai di un dato definitivamente acquisito dalla coscienza sociale. E dunque, meglio tardi che mai: il Tempo in questo caso è stato galantuomo.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Concorso truccato per aspiranti avvocati, gli indagati sono 5. Scatta l'accertamento sui telefonini della dirigente dell'ateneo e del cancelliere della Corte d'appello. Al momento si esclude ci sia stato passaggio di denaro, forse si tratta di uno scambio di favori, scrive Gabriella De Matteis su “La Repubblica”. Un accertamento sulle chiamate in entrata e in uscita e ancora sugli sms ricevuti ed inviati sui telefonini del cancelliere della Corte di Appello Giacomo Santamaria e della dirigente dell'università di Bari Tina Laquale. E' il nuovo passo dell'inchiesta sul tentativo di truccare le prove per il conseguimento dell'abilitazione alla professione di avvocato, scoperto dai carabinieri il 19 dicembre scorso. L'attività istruttoria, quindi, va avanti. Il fascicolo si allarga e ora conta nuovi indagati. Sono tre candidati al concorso al quale Giacomo Santamaria, segretario di una delle commissioni d'esame, avrebbe dovuto passare gli elaborati, passatigli da Tina Laquale. Gli aspiranti avvocati (Nicola Colasuonno, Rosa Chiapparino e Giuseppina Rosa Laccone, di 32, 30 e 31 anni) hanno ricevuto l'avviso di conferimento dell'incarico per l'accertamento irripetibile sui due telefonini. Anche loro tre sono indagati e per questo hanno diritto a nominare un proprio consulente. In questi giorni la procura ha analizzato le informative dei carabinieri del reparto operativo. Ai cinque vengono contestati due reati: il primo riguarda la violazione dell'articolo uno della legge 475 del 1925. Il secondo invece è un concorso in abuso d'ufficio, accusa che è possibile muovere perché Santamaria aveva le funzioni di pubblico ufficiale. L'accertamento sui due telefonini, sequestrati dai carabinieri nel terzo ed ultimo giorno di prove dell'esame, è fondamentale per capire per conto di chi Tina Laquale abbia ideato questo tentativo di truccare il concorso o se sia stata pagata per passare gli elaborati. Al momento si esclude ci sia stato un passaggio di denaro, più semplicemente pensano che la truffa sia stata organizzata in un più ampio scambio di favori. Il numero degli indagati, quindi, è destinato a crescere. I carabinieri stanno anche cercando di capire in che misura siano coinvolti nella vicenda tre avvocati che avrebbero redatto i tre elaborati e soprattutto Angelo L., un altro dipendente dell'università. Agli atti dell'inchiesta c'è, infatti, il verbale reso da Santamaria poche ore dopo il blitz. Il cancelliere ha raccontato di essere stato contattato da Tina Laquale che dopo un incontro nel suo ufficio gli avrebbe chiesto di aiutarla nel tentativo di passare gli elaborati delle tre prove ad alcuni candidati. E così è stato. E se nel primo e nel secondo giorno di prove, non ci sono stati intoppi, Santamaria è uscito dalle aule per prendere due buste bianche consegnate dalla Laquale, giovedì 18 dicembre sono intervenuti i carabinieri. Il cancelliere ha aggiunto un altro particolare: il secondo giorno la dirigente dell'ateneo era con un uomo che ha presentato come "Angelo, autista del rettore". L'autista, assegnato formalmente al rettore dell'ateneo di Bari, si chiama Nicola, ma all'interno dell'università c'è un altro dipendente che talvolta può ricoprire le stesse mansioni. Ed il suo nome è Angelo. Autista e factotum all'università è venuto a contatto con i plichi contenenti i test di Medicina, uno dei quali, nell'aprile scorso, manomesso in circostanze che non sono mai state chiarite. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene.  C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”.  Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.

"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie  quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude  quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».

Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione. 

Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte.  Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita.  Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».

Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».

Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.

Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.

Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte? 

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);

L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);

La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);

L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);

La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);

L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);

L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).

Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.

Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti.  Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.

I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.

Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.

In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.

In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.

“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?

Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.

La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.

Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.

La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.

Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.

La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.

Parlare di legge, bene o male, ogni  leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.

Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.

La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.

Essa vien da lontano.

E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.

La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.

Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.

Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.

Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.

Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.

Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.

- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?

- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…

- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.

- Le giuro…

- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.

- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.

Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?

Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. 

Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.

Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%  dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.

Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

Ma chi e quando le cose cambieranno?

Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".

Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.

Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.

"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere.  «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.

"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".

Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».

Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.

«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps.  «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.

Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.

Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase  processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.

Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.

La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. 

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”,  dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si  può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» 

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.

Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil. 

Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.

Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode. 

Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.

Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.

Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.

Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.

E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.

Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.

Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista. 

Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.

Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.

Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).

Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.

''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.

D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.

Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.

Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.

"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta,  Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario".  Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".

Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".

Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.

LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.

Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».

Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".

La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento  (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier  di partecipare all’udienza  del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri.  Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".

Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it,  è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali.  Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.

“VADA A BORDO, CAZZO!!”.

E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia.  Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio  il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.

De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?

Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»

De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»

Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»

De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».

Schettino: «Comandante le dico una cosa...»

De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».

Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».

De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.

Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:

« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».

« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».

Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).

Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.  Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.

Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.

E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.

Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.

Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.  Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.  

Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono:  “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.

Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".

I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».

«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.

L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.

Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.

C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.

Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.

Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.

Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è  di nove anni e quattro mesi di reclusione per  aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici.  Spaccarotella  era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.

Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino  è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.

Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.

Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.

Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.

Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle,  accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.

Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene  sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.

Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.

Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori  nei confronti della comunità romena di San Gregorio.

All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.

Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.

«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Taranto, Milano, l’Italia.

“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.

Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.

«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri. 

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.

Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).

Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.

Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.

VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.

C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.

Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.

E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.

E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.

Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.

Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.

Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.

La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.

La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.

Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.

L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.

La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.

La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.

Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.  

Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.  

Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.

Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.

In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media  di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.

113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.

E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».

Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La  sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio». 

A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!! 

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.

Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con  la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.

Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi.  La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».

La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.

TOGHE ROSA

Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".

È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.

Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».

Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".

Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.

Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.

Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.

Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.

Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?

Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?

Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.

Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.

Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.

Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.

A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.

A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula. 

La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti. 

Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.

Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.

Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre  a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali". 

Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».

Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».

Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.

Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.

Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.

E poi giudice donna è per il processo………

E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».

Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?

Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.

L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi  anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche  - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente  intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno  maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile  attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,  tracciando  un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.

Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?

Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.

Bene.  L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri)  e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.

Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.

Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.

Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.

Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».  Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso.  Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.

Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.

Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.

Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.

Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.

Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.

Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).

Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.

Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.

Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.

Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).

Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.

Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.

Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.

Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.

Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.

Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.

Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.

Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.

Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).

Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.

Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.

Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.

Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.

Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.

Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.

Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».

Ieri come oggi la farsa continua.

Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.

«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in  questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».

Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».

Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.

Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.

MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?

Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali? 

Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".

Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.

Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.

Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.

Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.

Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione  apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa,  ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente,  non può guardare in faccia i giudici di quella che  si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene  a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.

Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.

Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!

E la stampa censura pure…..

Pensavo di averle viste tutte.

La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.

La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di  cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.

Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.

Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.

I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre. 

«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».

«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».

«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio». 

Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".

Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».

Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.

Cosa????

Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.

Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Quando la tv criminalizza un territorio.

7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”

In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».

Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.

In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.

Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.

Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:

L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;

L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.  

Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.

Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?

Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.

La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.

Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.

Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.

Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".

Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?

Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -  senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del  giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza  entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato  anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”

Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.

La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.

Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.

Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).

Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.

 “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.

Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.

Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.

Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.

Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.

MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.

C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.

Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.

Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare.  Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".

«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.

Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.

Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».

Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?

«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».

Con le sue parole?

«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».

Strategia dei contenuti.

«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».

Il potere ha proprio l'oro in bocca.

«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».

Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?

«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».

Abbiamo perso anche questa occasione.

«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».

Ma era anche un invito a sognare.

«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».

In che senso?

«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».

E di cosa?

«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».

Ci faccia un esempio.

«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».

Cosa otterrà?

«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».

Sono passati un bel po' di anni.

«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».

La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.

STATO DI DIRITTO?

Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.  Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.  Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.  Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.  Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.  È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.  Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.  Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.  Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.» 

Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.

«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.

Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei. 

Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.

Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.

 “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?

Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.

Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?

Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che  - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.

Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.  

E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.

Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga  a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».

Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note.  I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.

Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

CHI E’ IL POLITICO?

Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.

L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.

L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.

Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.

CHI E’ L’AVVOCATO?

Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.

O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.

“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.

La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.

Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.

Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.

La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.

L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.

I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.

Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).

“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.

L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.

Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.

Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.

Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.

Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.

Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.

La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).

Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.

Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.

Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.

Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.

Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.

Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.

Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.

L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“ 

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

CHI E’ IL MAGISTRATO?

"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)».  Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso. 

Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta. Descrizione: http://imageceu1.247realmedia.com/0/default/empty.gif

Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.

L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e  Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.

Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.

 “La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.  Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori. 

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo? 

E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».

Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.

A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.

COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.

IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.

LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.

LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.

IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.

IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.

IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.

IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.

Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.

Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".

Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".

Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.

E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".

Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.

Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".

Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria". 

Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".

"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.

Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".

FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.

Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».

La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.

2,30 del mattino,  Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".

9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.

Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista  di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice  Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.

Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.

11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00. 

Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.

13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene  per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri.  “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”.  Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.

La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.

Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.

Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza. 

Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".

ITALIA DA VERGOGNA.

Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.

È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.

ITALIA BARONALE.

I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.

Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.

L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.

È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.

Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.

CASA ITALIA.

Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».

Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.

Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.

L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?

Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.

Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

E gli alloggi di proprietà?

Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.

23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.

23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.

L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.

In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.

Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.

La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!

"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.

Cosa ha veramente la Cassazione?

L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.

Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.

La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condotta e dolo specifico.

L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).

Flagranza e procedibilità d'ufficio.

Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).

L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).

Come agire?

Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.

Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.

L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.

L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.

L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.

L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.

A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.

L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

Ma come sono cari  (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.

Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci  un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un  “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?

«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»

ITALIA: PAESE ZOPPO.

Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro  racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.

Che cosa c’è di nuovo in questo libro?

«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»

Filo conduttore?

«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»

Si parte dalla Conferenza di Versailles...

«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»

E l’Italia?

«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»

Che si affacciò al balcone...

«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»

Partiti dilanianti e latitanti?

«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»

Sarebbe a dire?

«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»

E gli italiani non se ne accorgono?

«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»

Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?

«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»

Come si chiama questa malattia?

«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»

La cura?

«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»

E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?

«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»

Beppe Grillo?

«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»

Enrico Letta?

«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»

Matteo Renzi?

«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»

Veltroni?

«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»

Pier Luigi Bersani?

«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»

Massimo D’Alema?

«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»

Silvio Berlusconi?

«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»

Giorgio Napolitano?

«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»

Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè,  quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007.  Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio.  Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.

«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.

E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.

Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.

Ed Ancora. Tre agenti di polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione falsificata.

Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.

Ecc. Ecc. Ecc.

G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.

La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.

Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.

Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”.  Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di  alcuni agenti.  Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.

Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico.  Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”

E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.

Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.

Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?

Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?

Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:

1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti.  Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?

2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.

Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».

Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».

3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.

Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»

La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.

E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.

Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.

Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.

Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?

Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.

Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.

Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.

C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.

Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.

E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».

Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.

Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti  alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.

Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.

Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista.  Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.

La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?

«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.

E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.

Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.

Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.

A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).

E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.

E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».

Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.

Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?

Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.

Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.

Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari.  Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente,  che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.

Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere».  E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».

Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho  con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento  di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la  mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.

Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).

«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.» 

La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive  Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti  confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....".  Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico  sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva  cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle   primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni.  Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso  annuncia con tono routinario, quasi  fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise".  Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da  Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E'  l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di  numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci  a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".

Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine  titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times  che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post  preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro  (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".

Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini  su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...

Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam  su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.

In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».

Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle  successive  torture  dell’imam  Abu  Omar,  non  si  è  presentato  mai    al  processo,  non  ha  mai  confessato  alcunché,  non  si  è  mai  pentito  del  gesto,  non  ha  chiesto  scusa  a  nessuno,  non  ha  mai  scontato  un giorno  di  carcere  e  per  la  giustizia  italiana  era  un  latitante  al  pari del  superboss  Matteo  Messina  Denaro.  La  grazia  giunse  dal  Colle dopo  appena  7  mesi  dalla  pronuncia  definitiva  della  Cassazione e  con  il  parere  contrario  dei  magistrati. C’è  ancora  qualche  anima  bella  o  dannata  disposta  a  sostenere  la  tesi  che  il  presidente  della  Repubblica  non  poteva  adottare  lo stesso  metodo  nei  confronti  di  Silvio  Berlusconi?  Chiamiamo  le cose  con  il  loro  nome:  è  mancato  il  coraggio  per  concedere  la grazia.  Il  provvedimento  avrebbe  aperto  una  fase  nuova  nella storia  di  questo  Paese,  sarebbe  stato  l’atto  di  non  ritorno  verso la  pacificazione  dopo  vent’anni  di  guerra  combattuta  nel  nome dell’eliminazione  per  via  giudiziaria  del  Cavaliere  il  quale,  statene certi,  avrebbe  abbandonato  la  politica  attiva.  Il  capo  dello  Stato ha  avuto  l’opportunità  di  consegnarsi  alla  storia  e  non  l’ha  fatto.  E solo  quando  giungerà  quel  famoso  giorno  in  cui  gli  avvenimenti  di oggi  potranno  essere  riletti  senza  veli  e  senza  partigianerie  capiremo se  al  suo  mancato  gesto  dovremo  aggiungere  i  caratteri  poco commendevoli  del  cinismo,  della  pavidità  o  del  calcolo  politico. Nel  quadro  tenebroso  dell’oggi  trova  un  posto  nitido  Enrico Letta,  il  presidente  del  Consiglio  che  ha  conferito  a  questo  Paese una  stabilità  degna  di  un  cimitero,  come  ha  giustamente  notato il  Wall  Street  Journal.  Incapace  di  avviare  le  riforme  oramai  improcrastinabili per  l’Italia,  Letta  non  è  stato  neppure  capace  di imporre  il  più  impercettibile  distinguo  sulla  giustizia  (settima anomalia)  ed  è  rimasto  avvinghiato  al  doroteismo  stucchevole di  una  linea  che  voleva  tenere  distinte  la  vicenda  di  Berlusconi e  le  sorti  dell’esecutivo  quando  anche  un  bambino  ne  coglieva l’intimo  intreccio.  Ma  i  bambini,  si  sa,  hanno  la  vista  lunga.  E  ora tutti  sanno,  anche  quelli  dell’asilo,  che  l’unico  orizzonte  di  Letta non  è  quello  di  varare  le  riforme,  giustizia  compresa,  ma  quello di  mantenere  il  potere. E  infatti  eccoci  all’ottava  anomalia,  Angelino  Alfano:  ha mollato  il  Pdl  per  fondare  il  Nuovo  centrodestra,  che  al  momento si  distingue  solo  per  la  fedeltà  interessata  al  governo.  Sarebbe toccato  proprio  ad  Angelino  costringere  Napolitano  e  Letta  a guardare  la  realtà,  a  spalancare  gli  occhi  sullo  scempio  del  diritto che  si  stava  consumando,  a  denunciare  con  argomenti  solidi  e  di verità  l’inganno  di  una  procedura  interpretata  in  maniera  torbida e  manigolda.  Come  quella  della  retroattività  della  legge  Severino sulla  decadenza  (nona  anomalia),  che  una  pletora  di  giuristi  e politici  di  buon  senso  non  affini  ma  certamente  lontani  dal  mondo berlusconiano  voleva  affidare  al  vaglio  della  Corte  costituzionale per  un’interpretazione  autentica. Anche  per  questo  motivo  il luogotenente  del  Cav  avrebbe  dovuto  elevare  il  caso  B  a  caso internazionale,  avrebbe  dovuto  sfidare  in  campo  aperto  i  satrapi dell’informazione  truccata.  E  invece  ha  preferito  chinarsi  sulla propria  poltroncina,  talmente  affascinato,  e  impaurito  di  perderla, da  consumare  lo  strappo  di  ogni  linea  politica  e  di  ogni  rapporto umano  con  il  proprio  leader. Napolitano,  Letta,  Alfano:  in  questo  triangolo  delle  Bermude, che  si  autoalimenta  nel  nome  dello  status  quo  e  di  un  governo fatto  solo  di  tasse  e  bugie,  c’è  finito  Silvio  Berlusconi.  E  la  conclusione della  storia  è  stata  ovvia:  l’hanno  inghiottito,  macinato  ed espulso  senza  tanti  complimenti.  Neppure  il  colpo  di  reni  finale hanno  sfruttato  i  tre  del  triangolo  mortale,  quello  offerto  dalle nuove  prove  squadernate  dall’ex  premier  per  chiedere  la  revisione del  processo.  Un  percorso  perfettamente  legalitario,  quello del  Cav,  condotto  all’interno  del  perimetro  disegnato  dal  Codice di  procedura  penale  e  che  avrebbe  dovuto  fermare  la  mannaia dell’espulsione  dal  Senato.  Per  mille  motivi,  ma  soprattutto  per una  possibile  e  atroce  beffa:  se  la  Corte  d’appello  darà  ragione al  Cavaliere  e  lo  proscioglierà,  lui  si  troverà  già  fuori  da  Palazzo Madama.  E  nessuno  potrà  dirgli:  «Prego,  ci  scusi,  si  accomodi  e riprenda  il  suo  posto».  Con  il  corollario  non  secondario  che,  senza lo  scudo  da  senatore,  i  picadores  in  toga  potranno  infilzare  il  Cav e  compiere  l’ultimo  sfregio:  l’arresto  (decima  anomalia). In  questa  cornice  assai  triste  tocca  togliersi  il  cappello  di  fronte al  coraggio  di  Francesco  Boccia,  deputato  del  Pd  di  prima  fila (almeno  fino  al  9  dicembre,  quando  Matteo  «Kermit»  si  presenterà sul  palco  della  segreteria  del  partito)  che  martedì  26  novembre, dopo  aver  visto  gli  elementi  esposti  da  Berlusconi,  ha  dichiarato: «Se  fosse  così  mi  aspetto  una  revisione  del  processo  come  per qualsiasi  altro  cittadino».  E  ancora:  «In  un  Paese  normale  si  sarebbe aspettata  la  delibera  della  Corte  costituzionale  sull’interpretazione della  legge  Severino».  Un  Paese  normale  questo?  È  una  battutona, ditelo  a  Matteo  «Kermit»,  che  magari  se  la  rivende.  Dovrà  fare  in  fretta, però.  Perché  adesso  inizia  un’altra  faida,  che  lo  metterà  contro Letta  e  Napolitano.  I  tre  non  possono  convivere:  i  loro  interessi  non sono  convergenti,  i  loro  orizzonti  non  corrispondono.  Per  questo, già  prima  dell’8  dicembre,  ne  vedremo  delle  belle.  Sarà  il  seguito della  politica  da  avanspettacolo  che  ci  hanno  rifilato  negli  ultimi mesi.  Successe  più  o  meno  la  stessa  cosa  ai  tempi  di  monsieur  de Robespierre  e  dei  giacobini.  Fatto  fuori  il  re,  si  illusero  di  avere  la Francia  in  pugno.  Manco  per  niente.  Iniziarono  a  scannarsi  l’un l’altro.  Fin  quando  un  giorno  accompagnarono  Robespierre,  l’Incorruttibile, al  patibolo.  Gli  gridavano  dietro:  «Morte  al  tiranno». Avete  capito  la  storia?

Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.

Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.

L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.

A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».

"Beato chi cerca giustizia perché sarà giustiziato...". Ex giornalista del "Manifesto" lancia un sito per tenere sotto tiro i magistrati. "Fui il primo al mondo a venir querelato da Di Pietro e dal pool Mani pulite", Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. Nonostante le generalità da boss mafioso italoamericano, peraltro conformi al luogo di nascita (New Haven, Connecticut), Frank Cimini è riuscito a vivere per 36 anni a piede libero all'interno del Palazzo di giustizia di Milano, esercitandovi l'arte di cronista giudiziario. Il prolungato contatto con i magistrati lo ha indotto a coniare una massima su calco del Discorso della Montagna, il che è sorprendente, trattandosi di un ateo: «Beato chi ha fiducia nella giustizia perché sarà giustiziato». Forte di questo convincimento, ha fondato su Internet un seguitissimo blog dal titolo coerente, Giustiziami.it, in cui la sigla automobilistica del capoluogo lombardo trasforma il potere del diritto in un imperativo robespierriano. Nell'avventura ha coinvolto Manuela D'Alessandro, che da otto anni batte il tribunale per conto dell'agenzia Italia: «Bravissima. Insieme con Jari Pilati, collega della Rai, la mia più degna erede. Eppure è ancora precaria, l'Agi non si decide ad assumerla con regolare contratto». Giustiziami.it è cliccatissimo da quando ha narrato la guerra fra il procuratore generale Edmondo Bruti Liberati e il pm Alfredo Robledo, meritandosi una menzione speciale del premio Guido Vergani. Lo scoop più sapido servito di recente riguarda il processo iniziato il 19 giugno a carico di Selvaggia Lucarelli, la blogger transitata dalle pagine di Libero a quelle del Fatto Quotidiano, ribattezzato Manette Daily da Cimini. Una brutta storia che vede alla sbarra anche la giornalista Guia Soncini e Gianluca Neri, alias Macchianera, curatore dell'omonimo blog, e che sulla stampa sarebbe passata sotto silenzio se Giustiziami.it non avesse pubblicato sul Web capi d'imputazione e retroscena. Secondo l'accusa, ci sarebbero in ballo password violate e accessi abusivi alle caselle di posta elettronica di Mara Venier, Sandra Bullock, Scarlett Johansson, Federica Fontana e altre star, per conseguire «un profitto consistente nella vendita di fotografie e di informazioni o conversazioni personali» o «comunque al fine di arrecare danno a Elisabetta Canalis». Irrimediabilmente in preda alla sindrome di Stoccolma, invece di godersi la pensione agguantata dopo un tormentato percorso professionale, Cimini continua a frequentare il fascistissimo tempio razionalista in corso di Porta Romana, eretto negli anni Trenta da Marcello Piacentini, l'architetto prediletto dal Duce. Del primo giorno in cui vi mise piede, ricorda la parola d'ordine (ancor oggi richiesta in sala stampa a tutti, uomini e donne indistintamente) coniata da Annibale Carenzo, il decano dei cronisti di giudiziaria, che ha lavorato una vita per l'Ansa e che a 82 anni ancora bazzica il tribunale dal lunedì al venerdì: «Come ce l'hai?». La risposta di rito fu purtroppo usurpata da Umberto Bossi in un comizio pronunciato nel febbraio 1991 a Pieve Emanuele: «La Lega ce l'ha duro». Ciò consentì allo sfrontato Cimini di chiedere allo stesso Bossi, reduce da un interrogatorio sulle tangenti Enimont: «Ma fra lei e Antonio Di Pietro, chi ce l'ha più duro?». La risposta del segretario leghista, madido di sudore, fu: «Ce l'abbiamo duro uguale». Ecco, se c'è una benemerenza di cui Frank Cimini va orgoglioso è quella di essere stato il primo giornalista al mondo a venir querelato dal pubblico ministero molisano e dall'intero pool di Mani pulite, nelle persone di Francesco Saverio Borrelli, Gerardo D'Ambrosio, Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo. «Era il 28 aprile 1993. Avevo scritto che Cesare Romiti non era stato arrestato perché i manager della Fiat si erano accordati con i magistrati per non finire in galera. Il pool reagì con causa civile e richiesta di danni: 400 milioni di lire. Vinse in primo grado. L'astuto Di Pietro preferì incassare un adeguato indennizzo dal mio editore. I suoi colleghi persero in appello. Come sia finita in Cassazione, non lo so».

Come finì dal Connecticut a Milano?

«Mio nonno Francesco andò negli Stati Uniti a estrarre carbone. Nel 1930 mio padre Luigi emigrò a sua volta da Minori, costiera amalfitana, a New Haven, per fare il parrucchiere. Nel 1952 tornò al paesello e conobbe Trofimena. Si sposarono e partirono per gli Usa, dove l'anno dopo nacqui io. Rimanemmo là fino al 1959, quando papà rientrò per sempre in patria. Nel 1975, con 70.000 lire in tasca, salii a Milano perché avevo vinto un concorso nelle Ferrovie».

Qualifica?

«Manovale. Ma, più che per i treni, stravedevo per i giornali. Ero sempre nella redazione del Manifesto, in via Valtellina. Alla fine il povero Walter Tobagi, che era mio amico, mi suggerì di fare causa. Vinsi e fui liquidato con 400.000 lire al mese per due anni».

Stipendiato per non lavorare.

«Militando nella sinistra extraparlamentare, cominciai a occuparmi di carceri. Entrai in Soccorso rosso. Dirigevo Controinformazione. Dopo l'arresto del responsabile Emilio Vesce, prestai anche la firma ad Autonomia, la testata del gruppo padovano di Toni Negri».

Ma nei giornali veri come ci arrivò?

«Con una sostituzione estiva di due mesi al Gazzettino di Venezia, diretto dal democristiano Gianni Crovato. E poi con un contratto come corrispondente da Milano per l'Aga, l'agenzia di stampa legata a Confindustria».

Bella serpe in seno, si sono allevati.

«Scopro la giudiziaria grazie a Marco Borsa, che mi assume nel neonato Italia Oggi. Primo scoop: un paginone dedicato a ex militanti di Lotta continua che aprivano locali sui Navigli, tipo Le Scimmie, pagando in nero i dipendenti. Pasquale Nonno nel 1987 mi assume al Mattino di Napoli, dove rimango, con base a Milano, fino al 2012».

Il suo barbone è anarchico o cheguevariano?

«Tutt'e due. Non lo taglio dal 1986».

Come manovale prestato al giornalismo che studi ha avuto?

«Ho abbandonato il liceo scientifico in quarta. Per iscrivermi all'albo ho dovuto sostenere l'esame di cultura generale. E dire che Di Pietro è meno intelligente di me. Stiamo parlando di un arrampicatore sociale che s'è trovato al posto giusto nel momento giusto. Ambiva a far carriera ed è stato usato dalla sua corporazione per accontentare le masse, vogliose di vedere in prigione i politici ladri. La magistratura ne ha approfittato per prendersi il potere. Dopodiché, Di Pietro si è candidato guardacaso nell'unico partito uscito indenne dalle sue indagini. I magistrati non sono meglio dei politici. Anzi, la mia personale opinione, dopo averli visti all'opera, è che siano molto peggio».

Se ho ben capito, secondo lei certa magistratura non sarebbe faziosa per pregiudizio politico bensì per avidità di potere.

«Esatto. Non c'entrano né le toghe rosse né l'ideologia. I magistrati puntano solo ad avere un potere superiore a quello dei parlamentari. Per conquistarlo, hanno ottenuto lo stravolgimento dello stato di diritto con la legge sui pentiti, una vergogna che ha esteso i suoi effetti perversi dai processi di mafia a quelli politici. Persino Alfredo Rocco, guardasigilli del governo Mussolini e autore del codice penale tuttora vigente, era contrario alle leggi premiali perché sosteneva che non bisogna favorire la delazione nemmeno fra scellerati. Che poi 'sti pentiti sono furbissimi. Leggono i giornali, guardano la tv, capiscono al volo ciò di cui i magistrati hanno bisogno e gli scodellano su un piatto d'argento che dietro le stragi c'erano Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri».

Ha seguito tutte le traversie giudiziarie del Cavaliere?

«Fin dai tempi della contesa con Carlo De Benedetti per la Mondadori. Avevo chiesto che fosse affidato in prova ai servizi sociali presso il nostro sito. Almeno in sala stampa ci saremmo divertiti a parlare di figa. Ma lui ha preferito andare dai vecchietti».

Dovrebbe moderare il linguaggio.

«È lo stesso invito che mi rivolse Bruti Liberati, sorridendo, in giorno in cui gli dissi che stava processando Berlusconi per un pelo di quella cosa lì».

Ha un buon rapporto con il procuratore capo di Milano?

«Lo conosco da quando simpatizzava per Il Manifesto. Però non mi ha invitato alla festa di compleanno nel giardino di casa sua, dove c'era solo la metà dei Pm, e senza coniugi, perché tutti non ci stavano. Si è bevuto benissimo, mi dicono».

Giustiziami.it descrive il Palazzo di giustizia come un lupanare.

«Racconto ciò che ho visto. Come in tutti i luoghi di sofferenza, in tribunale si tromba. Anche negli ospedali, sa?».

So, so.

«C'era un collega che tutti i pomeriggi fornicava nella cabina di regia della postazione Rai in sala stampa. E quante chiavate in camera di consiglio, dove il giudice presidente, il giudice a latere e i sei giurati popolari hanno a disposizione le brande per quei processi in cui la sentenza va per le lunghe».

Non starà romanzando?

«Potrei farle i nomi di un presidente che copulò in camera di consiglio con la sua giudice a latere, ma a che servirebbe? Mica li può pubblicare. È accaduto anche fra due giudici, uomo e donna, in un processo di primo grado a Berlusconi. Non lo dica all'interessato».

E lei?

«Ho sempre resistito alle tentazioni, a cominciare da quella per una Pm dai capelli ramati che anni fa, in Sardegna, ebbi la fortuna di vedere in bikini. Proprio una bella topa».

Qui finisce con una querela.

«Se usa l'imperfetto, scrivendo che “era” una bella topa, può giurarci».

Una pagina del sito s'intitola Camera di coniglio anziché di consiglio.

«Ci piace lo sberleffo. Ma i contenuti sono seri. Siamo stati gli unici a scrivere che la Procura ha applicato una moratoria sull'Expo, con tanti saluti all'esercizio obbligatorio dell'azione penale. Eppure si tratta di un'inchiesta ben più rilevante di Mafia capitale. È evidente che, a Expo in corso, i magistrati hanno preferito astenersi per carità di patria in base a una valutazione di tipo politico».

Che cosa glielo fa dire?

«Non lo dico io. Se lo dicono fra di loro. Di recente la Procura di Brescia ha prosciolto Bruti Liberati per aver archiviato l'esposto di un esponente della Lista Bonino-Pannella, scrivendo che “alcune remore del procuratore appaiono caratterizzate da valutazioni di natura squisitamente politica”. Più chiaro di così».

Esiste una categoria che abbia più potere dei magistrati?

«No, neppure l'alta finanza, perché loro sono gli unici che possono sbatterti in galera e tenertici a vita. Usano i codici come se fossero carta igienica. Colpa della sinistra, la quale da decenni pensa che il mondo debba cambiarlo la magistratura. Ma quando mai il diritto ha modellato la società? Tocca alla politica farlo. Invece la politica è assente. È un gravissimo deficit di democrazia».

Mi sembra puerile ritenere che le toghe spadroneggino solo in Italia.

«Infatti la giustizia ha i suoi problemi ovunque. Ma la politicizzazione che esiste da noi non ha paragoni in Occidente. Con l'aggravante che viene negata. Negli Stati Uniti i magistrati sono eletti, quindi rispondono al popolo. Ma qui a chi rendono conto, visto che sono assunti per concorso?».

Rimedi?

«Abolire l'obbligatorietà dell'azione penale e separare le carriere di pubblici ministeri e giudici. Campa cavallo».

L'avrà pure incontrato un magistrato simpatico, in tanti anni di lavoro.

«Antonio Bevere. Adesso è in Cassazione. A Milano invitava i cronisti a casa sua e ci cucinava pizza e pasta».

Che doti deve avere un cronista giudiziario?

«Deve pensare con la propria testa, essere autonomo dai magistrati. Oltre a separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, bisognerebbe separare quelle di magistrati e giornalisti, che spesso procedono di pari passo. Tant'è che i processi si celebrano prima sulla stampa che in tribunale».

Comoda la vita del cronista che può attingere ai faldoni della Procura.

«Basterebbe una riformina semplice semplice: se da una Procura escono carte che sono a disposizione della sola accusa, il magistrato titolare dell'indagine subisce un procedimento disciplinare davanti al Csm. E poi si dovrebbe proibire la pubblicazione dei nomi dei Pm sui giornali. Così cesserebbero le smanie di protagonismo di certe toghe».

Che cosa consiglia a un giovane agli esordi in questa professione?

«Di avercelo duro».

Per 62 magistrati di Milano il "caso Bruti" non esiste. Un folto gruppo di pm smentisce le frizioni in Procura denunciate da Robledo al Csm. "Il nostro ufficio dilaniato? Solo sui giornali, basta con chi vuole delegittimarci", scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Adesso la colpa è dei giornali. Pare di leggere la nota redatta da qualche segreterie di partito e invece siamo dentro il palazzo di giustizia più blasonato d'Italia. Anche i pm di Milano non trovano di meglio che buttare la croce addosso alla stampa che da giorni racconta la violentissima contesa in atto fra il capo dell'ufficio Edmondo Bruti Liberati e il suo aggiunto Alfredo Robledo. Una guerra senza esclusione di colpi, con documenti, controdocumenti e audizioni al Csm, in un carosello senza fine di reciproche smentite che lasciano basiti. Non importa. Una sessantina di pm pensano bene di stilare un documento che sarebbe andato bene ai tempi della vecchia Dc. Senza prendere posizione per un partito o per l'altro, i magistrati mettono in fila due concetti: dicono no ad ogni tentativo di delegittimazione, affermano poi che tutte queste divisioni sono in realtà il frutto esasperato di una campagna di stampa che distorce la realtà e strumentalizza anche i dettagli più minuti. Proprio così. «Respingiamo ogni tentativo di delegittimazione complessiva dell'operato della nostra procura - affermano i 62 pm che poi proseguono rimandando la palla alla stampa - e non possiamo non intervenire in ordine alla rappresentazione mediatica non corrispondente al vero che viene offerta alla pubblica opinione con l'immagine di una procura dilaniata da contrapposizioni interne». Insomma, se i giornali non si sono inventati tutta questa storia, poco ci manca. E non importa se lo scontro abbia raggiunto punte inimmaginabili e si sia scoperto, nell'imbarazzo generale, che i vertici della procura più titolata d'Italia in questi anni hanno litigato furiosamente su tutto. Sull'iscrivere o meno Roberto Formigoni nel registro degli indagati; sui reati da contestare per gli appalti dell'Expo, con addirittura la surreale vicenda di un doppio pedinamento condotto o forse no, non si capisce bene, dai due spezzoni antagonisti della procura; e ancora sulla conduzione dell'indagine relativa a Ruby, ambita da Robledo ma poi assegnata all'antimafia di Ilda Boccassini. Uno scenario di macerie che solo un anno fa sarebbe stato liquidato come fantascienza. Ma questa mischia, che mette in crisi anche i fragili equilibri fra la correnti al Csm, rischia di far pagare alla magistratura un prezzo altissimo. E così qualcuno corre ai ripari. Ecco dunque il documento partorito da una delle toghe più autorevoli, Armando Spataro, magistrato dal curriculum chilometri che proprio ieri ha ricevuto la nomina a procuratore della repubblica di Torino, al posto di Giancarlo Caselli, ornai in pensione da alcuni mesi. Spataro ha ottenuto 16 voti, 8 sono andati all'altro candidato, il procuratore di Novara Francesco Enrico Saluzzo, sostenuto dai togati di Magistratura indipendente e dai laici del centrodestra. Insomma, ancora una volta il Csm si è spaccato secondo una frattura in qualche modo riconducibile alle logiche della politica. E oggi lo scontro Bruti-Robledo vive al Csm un'altra puntata: la Settima commissione ascolterà il procuratore aggiunto Alberto Nobili. Oggetto della sua convocazione: chiarire il presunto «peccato originale», insomma le mosse dei diversi pm che si sono contesi il fascicolo Ruby, dunque un'indagine esplosiva sul Cavaliere. Ancora una volta, gli ingranaggi di quella macchina perfetta che era la procura di Milano mostrano un'altra realtà: dietro il velo dell'obbligatorietà dell'azione penale e di regole ferree esistevano ed esistono ampi margini di discrezionalità. Una terra di nessuno in cui si scontrano vecchie ideologie e ambizioni personali.

Da «pool» a pollaio, il triste tramonto della Procura. I pm di Mani pulite per la gente erano eroi. Oggi, con la guerra tra ilc apo e il suo vice, il timore è che le toghe si arrestino tra loro, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. I ricordi quando invecchiano si affastellano e confondono. Ma non tutti. Molti di essi rimangono impressi nella memoria, magari non con ogni dettaglio, ma nella sostanza sì. Ci fu un lungo momento, 20 e rotti anni orsono, in cui la Procura di Milano era considerata come una cattedrale, piena di santi e di madonne. La madonna era Antonio Di Pietro. I santi erano Borrelli (il capo carismatico), Davigo, Colombo eccetera. I magistrati, in particolare i rappresentanti della pubblica accusa, furono protagonisti di una svolta assai apprezzata dal popolo, stanco della Balena bianca, dei socialisti (ladri per definizione, allora) e di qualsiasi partito che non fosse tinto di rosso vermiglio. Le toghe avevano buona fama. Chi le indossava con orgoglio e supponenza era guardato con ammirazione, facendo parte attivissima di una sorta di esercito di liberazione. I giudici (pensavano in molti, tra cui io stesso) ci libereranno dai tangentari, dai gaglioffi, dai mariuoli che hanno trasformato la democrazia italiana in una palestra di disonesti, pronti ad arricchirsi alle nostre spalle senza badare all'interesse dei cittadini, sfruttando e mortificando la povera gente oppressa dalle tasse. Un Di Pietro che, infischiandosene della consueta prudenza attribuita agli amministratori della giustizia, procedeva lancia in resta contro i magliari della politica, veniva portato in trionfo. Il suo nome si leggeva sui cavalcavia delle autostrade: «Tonino salvaci tu». Il contadino togato piaceva da matti. In lui identificavamo il vendicatore, colui che avrebbe ripulito anche gli angoli della stalla politica, ormai mefitica, infetta. Le sue prime mosse non erano gradite ai colleghi della Procura, i quali si dichiaravano stupiti e infastiditi dal fatto che costui, da anonimo magistrato, fosse diventato in poche settimane molto popolare, un divo acclamato. Borrelli mi scrisse una lettera all' Indipendente, che allora dirigevo con spirito garibaldino, un po' folle, nella quale raccomandava di non esagerare col giustizialismo. Poi successe una cosa strana ma non troppo. I Pm si resero conto che il dipietrismo era più forte della tradizionale ponderazione cui erano avvezzi i magistrati e mutarono registro. Cavalcarono quasi subito il dipietrismo che in precedenza avevano criticato, consapevoli che esso era foriero di grandi successi e incontrava il consenso delle masse. Se dapprincipio era il solo Di Pietro ad essere applaudito, nel giro di poco tempo il cosiddetto pool di Mani pulite salì in blocco sul palcoscenico, salutato con entusiasmo, e incoraggiato a castigare i mariuoli. I giornali, inizialmente titubanti e restii ad appoggiare la Procura, abbandonarono in fretta ogni timidezza e si prestarono a fare da cassa di risonanza alle inchieste che avevano scoperchiato il malaffare e la corruzione diffusa. Il pentapartito - maggioranza di governo - fu presto sgominato, ogni sua componente ridotta al lumicino. In pratica restarono in piedi soltanto l'ex Pci (cioè il Pds), il Movimento sociale di Gianfranco Fini e la Lega di Umberto Bossi. Ma queste sono cose note, anche se gli italiani più giovani, o meno anziani, le ignorano. Quello che è accaduto nel nostro Paese negli ultimi 20 anni ha dell'incredibile. Poiché la famosa discesa in campo di Silvio Berlusconi, sorprendendo gli addetti ai lavori politici, coincise con la vittoria di Forza Italia, frenando la corsa al potere della sinistra (sconfitta alle elezioni del marzo 1994), l'attenzione del pool milanese si concentrò sul ricco Cavaliere, sospettato di aver brigato - e commesso dei reati - allo scopo di agguantare il potere. Per un paio di decenni la Procura si è così distinta nella caccia grossa con questo obbiettivo: se incastriamo l'erede del Cinghialone torniamo alla regolarità democratica. Come è andata a finire lo sappiamo e non è il caso di ricostruire le fasi che hanno portato alla condanna di Berlusconi, base di lancio di Matteo Renzi, succeduto alle meteore Mario Monti e Enrico Letta. Ciò indispensabilmente premesso, dobbiamo ora registrare che la parziale caduta del fondatore di Forza Italia ha provocato un altro crollo: quello della Procura di Milano, che sta vivendo un periodo orrendo, contrastante con gli anni d'oro inaugurati da Di Pietro e che permisero a Borrelli di candidarsi - regnante Oscar Luigi Scalfaro - alla guida dell'esecutivo (senza fortuna). Oggi il pool sembra un pollaio. Nel senso che le liti interne alla casta dei signori magistrati prevalgono sull'attività dei medesimi. I media non si occupano più delle mirabili (si fa per dire) indagini condotte dai Vip togati, saliti alla ribalta negli anni Novanta e successivi, bensì dei contrasti violenti tra Bruti Liberati - procuratore capo - e Robledo, suo vice. I due da mesi sono in combattimento e non si è ancora capito perché cerchino vicendevolmente di farsi fuori. Lo spettacolo che essi mostrano ai cittadini è desolante. Non sappiamo chi abbia ragione e chi torto, probabilmente sbagliano entrambi a scannarsi senza requie, suscitando nei cittadini un sentimento negativo ai confini dello scandalo. Addirittura qualcuno, con perfida ironia, ha commentato in questo modo la disputa fra gli alti magistrati: avanti di questo passo, in Procura si arresteranno fra loro, in una gara a chi ne fa secchi di più. È solo una battuta, ma esprime una preoccupazione non campata in aria. Il settore giustizia è sotto attacco da alcuni lustri. Per un po' si è pensato che le polemiche con al centro i giudici fossero strumentali, tese a delegittimarli per motivi di bassa bottega politica. Poi però si è constatato che anche negli ambienti tribunalizi (che dovrebbero essere austeri e riservati) ci si mena come disperati per una poltrona, e allora la reputazione di lorsignori ne ha sofferto. I sondaggi sulla credibilità dei magistrati sono crollati rispetto ad altre epoche e dimostrano che la stima di cui essi godevano quando imperversava Mani pulite si è assottigliata paurosamente ed è prossima ad esaurirsi. Qui più che una riforma del sistema giudiziario nel suo complesso, che il legislatore non è stato capace neanche di cominciare ad abbozzare, urge un drastico richiamo alle toghe di non rendersi ridicole. Già. La giustizia può far piangere, ma non deve farsi compatire se desidera conservare un minimo di dignità.

Un altro contro lo strapotere dei magistrati è Sallusti.

Sallusti: “Ho scoperto il pied a terre di Indro”. Scrive Davide Brullo su “Il Giornale”. Alla fine, sono riusciti a farlo ridere. Ospite nel giardino della Villa Mussolini in Riccione, venerdì sera, davanti a un popolo piuttosto folto (500 persone circa) Alessandro Sallusti ha inaugurato il ciclo “Riccione Incontra”. Stimolato dalle domande di Edoardo Sylos Labini, il direttore de il Giornale si è “sbottonato”, svelando i lati più intimi della sua vita. L’ostinato difensore di un pensiero “altro”, controcorrente e contro le mode imperanti, notoriamente impassibile, ha domato la folla con inedita abilità retorica. Ridendo. Sallusti che ride. In pubblico. Un evento mitologico. Ecco alcuni brani, montati come un film iridescente, del dialogo. 

Gli esordi, ovvero: un direttore già da bambino. «Il primo giornale penso di averlo disegnato per le vie di Como, a 9 o 10 anni. Faccio il mestiere che ho sempre sognato di fare, più per fortuna che per merito, questo è davvero un dono di Dio. Ero un bambino inquieto e insoddisfatto. Per questo ho preso tante di quelle botte da mio padre…».

Il passato ingombrante. «Mio nonno è stato un ufficiale dell’esercito, passato alla Repubblica Sociale, poi fucilato. Questa storia ha sempre gravato sulla mia famiglia, come un peso insormontabile».

Il Battaglione San Marco: il militare necessario. «Non sono mai stato uno studente modello. Ho fatto l’Istituto tecnico e in anni in cui tutti erano ammessi agli Esami di Stato, mi fermarono. Una vergogna. Immediatamente mi diressi allo sportello del distretto militare. Mi dissero che se firmavo come volontario per il Battaglione San Marco avrei potuto partire dopo due settimane. Firmai. Il militare ha cambiato la mia vita in modo determinante, per questo penso che sia necessario ripristinare la leva obbligatoria. E quando penso ai nostri marò, beh, penso che questo Paese ha ormai perso il senso dell’onore».

Con Don Giussani sulla spider rossa. Considerazioni sulla fede. «Ho cominciato all’Ordine, che era il giornale più scalcagnato di Como, legato alla Curia, che dopo poco, in effetti, chiuse. Fui dirottato a Il Sabato, dove ero noto più che altro perché andavo in redazione con la spider rossa. Così un giorno Don Giussani viene a far visita alla nostra redazione e mi pretende. “Mi porti a fare un giro sulla tua spider rossa?”. Certo, dico io. In macchina, però, per vincere il mio imbarazzo, dico a Giussani che non sono di Comunione e Liberazione. Lui scoppia a ridere, “ma cosa vuoi che mi importi, io non so neanche se credo in Dio!”. Giussani era davvero un uomo straordinario. Mi ritengo un cattolico. Ma non sono un uomo baciato dalla vera fede».

Ersilio Tonini e l’esistenza di Dio. «Quando diventai caporedattore di Avvenire fui convocato a Ravenna dall’allora presidente del giornale, il Cardinale Ersilio Tonini. Di fronte a una minestrina – è sempre stato secco, magrissimo – mi disse, “il suo è un compito difficile perché dovrà mediare tra centinaia di Vescovi che la pensano diversamente su tutto. Anche sull’esistenza di Dio”».

1987: gli anni con Indro Montanelli. «Il Giornale non era un quotidiano, era un salotto. Assistere alle riunioni di redazione, con Montanelli a fare da regista sornione, era come andare al cinema gratis. Ricordo che un giorno il direttore, verso mezzanotte, passò da noi giovani, che parlavamo di donne. Scoccò la battuta folgorante: “non è che a me non mi tira più, è che non so più quando mi tira!”».

1994: il grande scoop. «Quando ero al Corriere della Sera pubblicai la notizia del premier Berlusconi indagato. Era la prima volta che veniva indagato un Presidente del Consiglio, giornalisticamente era uno scoop. All’epoca il direttore era Paolo Mieli. Il giorno dopo successe il finimondo, con perquisizioni della polizia e interrogatori. Nascosi le carte e i nastri che denunciavano l’indagine nella borsa di mia moglie. Poco dopo si aprì il caso di Primo Greganti, tesoriere della sinistra, e Mieli fu costretto a scusarsi in diretta Rai. La differenza di trattamento tra il caso Berlusconi e il caso Greganti mi fece capire che per me era ora di lasciare il Corriere: non sopportavo più il clima opprimente, il fiancheggiamento delle procure. Volevo la mia libertà».

“Libero” nasce davanti alla salamella. «Conobbi Vittorio Feltri quando ero direttore de La Provincia. Dopo un incontro pubblico, ci offrirono delle salamelle. Lì mi disse, su due piedi, “vieni con me a fondare un giornale?”. Accettai. Cominciò allora una avventura editoriale entusiasmante. Il concetto giornalistico di Feltri? Eccolo: quando scrivi di una persona dì che è uno stronzo, quando parli di un Paese dì che è un Paese di merda».

100mila copie per una Maserati. «All’inizio non avevamo un soldo. Ci fu anche un imprenditore riminese, Stefano Patacconi, che mise un po’ di soldi dentro Libero, ma poi si suicidò. Ci aiutarono gli Angelucci, ma il giornale viaggiava intorno alle 20mila copie. Un giorno, un po’ abbattuto, Feltri mi getta un depliant che presentava la nuova Maserati. Nacque una sfida. Se fossimo arrivati a 100mila copie mi avrebbe regalato una Maserati. Le superammo. Ma la Maserati durò poco: l’ho venduta perché consumava troppo e perché era ridicolo girare in Maserati».

Berlusconi e Renzi: differenze al telefono. «Ho girato per 12 giornali e svariati editori, beh, nessuno è più liberale di Silvio Berlusconi e di suo fratello Paolo. Il difetto di Berlusconi è che è troppo buono e rispettoso degli avversari, altrimenti sarebbe ancora Presidente del Consiglio. Telefona quando hai un problema, è di una solidarietà infinita. Al contrario, Matteo Renzi telefona quando è arrabbiato. Un giorno mi ha telefonato incazzato nero, insultandomi. Diciamo che sono modi diversi di fare politica».

1 dicembre 2012: l’arresto e la vergogna. «Una vicenda pazzesca, che la dice lunga su questo Paese. La Digos fece irruzione durante una riunione del Giornale, interrompendola, per procedere all’arresto per diffamazione e omesso soccorso. In realtà, mi aspettavano all’uscita del Giornale, perciò dormii tre giorni in redazione, scoprendo, tra l’altro, il pied a terre di Montanelli… Così, furono costretti a irrompere. Mi scortarono per portarmi a casa. Pretesi il carcere. Uscii con i poliziotti, che mi portarono in Questura con l’accusa di evasione. Intervenne perfino il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per commutare la pena da detentiva in pecuniaria. Mentre mi riportarono a casa mi telefonò Berlusconi: “senti Alessandro, abbiamo capito la tua posizione, ma se evadi ancora ti faccio fare il giro del quartiere a calci nel sedere”». 

Juventino represso. «Sono della Juventus, lo ammetto. Un giorno, un po’ per sfida, andai a San Siro con Berlusconi. Milan-Juventus. Dopo cinque minuti segna il Milan. Tutti esultano, io mi esprimo con un tiepido applauso. Le televisioni Sky mi riprendono. Poco dopo sono beccato da un sms di mio figlio, “Infame”».

Amo Daniela (mica la Santanché). «Amo Daniela e stimo la Santanché, che non amo. Stare con Daniela è semplice, stare con Santanché è molto complicato».

Un po’ di cronaca: Grecia. «Sono tra quelli che hanno sperato per il “No” al referendum. Giusto per vedere la Merkel in difficoltà. Ma adesso mi pare che Tsipras abbia già calato le braghe».

Caso Berlusconi. «Berlusconi è un uomo di genio. Non è mica caduto per le “Olgettine”, come vogliono farci credere, ma perché non voleva allinearsi a Francia e Germania».

Isis. «A forza di non essere noi stessi, siamo noi che abbiamo issato le bandiere dell’Isis. Sono per le radici cristiane nella Costituzione europea e per i Crocefissi nelle scuole».

Gay. «Uno Stato non deve tutelare l’amore: altrimenti perché non posso sposarmi con due donne o con il mio cane? Compito di uno Stato è tutelare l’unione che produce nuovi cittadini, i figli. Per il resto, è giusto che ogni persona si ami come desidera. Quando mia nipote mi confessò di essere lesbica le risposi: “abbiamo qualcosa in comune, ci piace la stessa cosa!”».

"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non  candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".

Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 -  che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.

E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.

E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.

Parcheggi abusivi, applausi abusivi,

Villette abusive, abusi sessuali abusivi;

Tanta voglia di ricominciare abusiva.

Appalti truccati, trapianti truccati,

Motorini truccati che scippano donne truccate;

Il visagista delle dive è truccatissimo.

Papaveri e papi, la donna cannolo,

Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.

Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.

Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:

C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.

Commando sì, commando no, commando omicida.

Commando pam, commando prapapapam,

Ma se c'è la partita

Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,

Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.

Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.

Primario sì, primario dai, primario fantasma.

Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;

Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:

"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.

Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".

Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh

Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.

Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.

Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.

Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.

Squerellerellesh, cataraparupai,

Italia perfetta, perepepè nainananai.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.

Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.

Italia sì: uè.

Italia no, spereffere fellecche.

Uè, uè, uè, uè,uè.

Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.

«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».

Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.

La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.

"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.

Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché  nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".

L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.

È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto». 

"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".

Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".

La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.

Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.

Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.

Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.

L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.

La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.

La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.

La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.

Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.

Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".

Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”

Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».

La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.

«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso.  Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica.  La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».

Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».

Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».

Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.

L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.

“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.

Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.

E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.

La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.

Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.

E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...

I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.

Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.

Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.

Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.

''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.

In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.

Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.

Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.

Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.

Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.

Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.

Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.

Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.

Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.

Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".

Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".

Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".

Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.

I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).

Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.

"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa classifica. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).

Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??

Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.

Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.

Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….

Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.

Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.

E che dire delle leggi?

Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.

La redazione degli atti deve essere:

chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;

semplice, concisa, esente da elementi superflui;

precisa, priva di indeterminatezze.

Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:

l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;

la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.

Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...

Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.

Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.

GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.

L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".

Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."

Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."

Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.

L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".

Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?

Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:

- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.

- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.

- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.

Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:

- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;

- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);

- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;

- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);

- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.

- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.

Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è imprescrittibile.

Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.

1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:

a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;

b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;

c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;

d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;

e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.

2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.

a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:

- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;

- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;

- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.

b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.

c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.

La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).

E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.

Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono  un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta  agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che,  in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal  fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.

Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a  formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento  illegittimo,  quindi  fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel  fatto che  si suole  farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti  avvertono come un’applicazione  così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che  la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la  problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.

Ve ne riporto alcune:

“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.

“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.

“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”

“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”

“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”

“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).

Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve  la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero,  l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento  risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni,  dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste  conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.

Il Parlamento abusivo rischia l'arresto. Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio Signorini  su “Il Giornale”.  Illegittimo il sistema elettorale che ha portato quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che, più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e, più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica, la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta. I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese, ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi - regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro. Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare), ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi. Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa. Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la Consulta - eletto con una legge illegittima.

Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.

Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali.  Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?

Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.

Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.

Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.

Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.

Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica.  A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.

«Abusivi».  Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre,  amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.

Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».

Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?

«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».

Quali, avvocato?

«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».

E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?

«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».

E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?

«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».

Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?

«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».

Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?

«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».

Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?

«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».

Al loro posto chi dovrebbe subentrare?

«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».

Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.

«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».

Che pericoli vede all’orizzonte?

«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».

Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?

«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?

Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?

Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma  nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato;  si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia  di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».

Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.

In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.

Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.

LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.

Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:

a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);

b) situazioni di povertà:

c) situazioni di reddito medio – basso.

Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?

Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!

Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?

«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»

Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.

«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?”  La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».

Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.

Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.

Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.

All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».

“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.

Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.

Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.

«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.

FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.  Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.

«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».

Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».

Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».

Alberto Stasi: «Io sono innocente».

Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.

Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?

Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".

Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.

Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.

I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...

Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.

Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?

Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»

C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)

Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

Vengo anch'io? No tu no

Per vedere come stanno le bestie feroci

e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera

Vengo anch'io? No tu no

Con la bella sottobraccio a parlare d'amore

e scoprire che va sempre a finire che piove

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

Vengo anch'io? No tu no

Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale

Vengo anch'io? No tu no

per vedere se la gente poi piange davvero

e scoprire che è per tutti una cosa normale

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed  i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:

- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.

- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.

- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.

- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.

- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.

- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.

- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.

- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.

E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.

Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.

Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»

Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI

PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO

“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.

E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.

L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo. 

Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.

Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”

NON VI REGGO PIU’.

Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.

"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.

A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:

" E allora amore mio ti amo

Che bella sei

Vali per sei

Ci giurerei. "

È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni d'amore..".  Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio dopo quarantaquattro anni.

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè con le canzoni

senza patria o soluzioni

La castità (Nun te reggae più)

La verginità (Nun te reggae più)

La sposa in bianco, il maschio forte,

i ministri puliti, i buffoni di corte

..Ladri di polli

Super-pensioni (Nun te reggae più)

Ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori,

diete politicizzate,

Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)

Auto blu, sangue blu,

cieli blu, amori blu,

Rock & blues (Nun te reggae più!)

Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)

DC-PSI (Nun te reggae più)

DC-PCI (Nun te reggae più)

PCI-PSI, PLI-PRI

DC-PCI, DC DC DC DC

Cazzaniga, (nun te reggae più)

avvocato Agnelli,

Umberto Agnelli,

Susanna Agnelli, Monti Pirelli,

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)

..Gianni Brera,

Bearzot, (nun te reggae più)

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,

Villaggio, Raffà e Guccini..

Onorevole eccellenza

Cavaliere senatore

nobildonna, eminenza

monsignore, vossia

cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)

Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)

abbasso e alè!

Il numero cinque sta in panchina

si e' alzato male stamattina

– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)

Il nostro è un partito serio.. (certo!)

disponibile al confronto (..d'accordo)

nella misura in cui

alternativo
alieno a ogni compromess..

Ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

si sarà la ress

Se quest'estate andremo al mare

soli soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore

che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia...

Dove sei tu? Non m'ami più?

Dove sei tu? Io voglio, tu

Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)

Uè paisà (..Nun te reggae più)

il bricolage,

il '15-18, il prosciutto cotto,

il '48, il '68, le P38

sulla spiaggia di Capo Cotta

(Cardin Cartier Gucci)

Portobello, illusioni,

lotteria, trecento milioni,

mentre il popolo si gratta,

a dama c'è chi fa la patta

a sette e mezzo c'ho la matta..

mentre vedo tanta gente

che non ha l'acqua corrente

e nun c'ha niente

ma chi me sente? ma chi me sente?

E allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

vale per sei

ci giurerei

sei meglio tu

nun te reg più

che bella si

che bella no

nun te reg più!

NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...

LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura

e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,

sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,

incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia

e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,

che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare

e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche avere un’opinione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza

e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,

con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo

e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche un gesto o un’invenzione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e  via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):

Noi fummo da secoli

calpesti, derisi,

perché non siam popolo,

perché siam divisi.

Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:

di fonderci insieme

già l’ora suonò.”

e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci

Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!

IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980

Io se fossi Dio

E io potrei anche esserlo

Se no non vedo chi.

Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente

Non sarei mica un dilettante

Sarei sempre presente

Sarei davvero in ogni luogo a spiare

O meglio ancora a criticare, appunto

Cosa fa la gente.

Per esempio il cosiddetto uomo comune

Com'è noioso

Non commette mai peccati grossi

Non è mai intensamente peccaminoso.

Del resto poverino è troppo misero e meschino

E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto

Lui pensa che l'errore piccolino

Non lo veda o non lo conti affatto.

Per questo io se fossi Dio

Preferirei il secolo passato

Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico

Dove si amava, e poi si odiava

E si ammazzava il nemico.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Non sarei mica stato a risparmiare

Avrei fatto un uomo migliore.

Si, vabbè, lo ammetto

non mi è venuto tanto bene

ed è per questo, per predicare il giusto

che io ogni tanto mando giù qualcuno

ma poi alla gente piace interpretare

e fa ancora più casino.

Io se fossi Dio

Non avrei fatto gli errori di mio figlio

E specialmente sull'amore

Mi sarei spiegato un po' meglio.

Infatti voi uomini mortali per le cose banali

Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti

Ci avete proprio una bontà

Da vecchi un po' rincoglioniti.

Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate

E tutti che ostentate la vostra carità.

Per le foreste, per i delfini e i cani

Per le piantine e per i canarini

Un uomo oggi ha tanto amore di riserva

Che neanche se lo sogna

Che vien da dire

Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.

Io se fossi Dio

Direi che la mia rabbia più bestiale

Che mi fa male e che mi porta alla pazzia

È il vostro finto impegno

È la vostra ipocrisia.

Ce l'ho che per salvare la faccia

Per darsi un tono da cittadini giusti e umani

Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani

E tante altre attenzioni

Per handicappati sordomuti e nani.

E in queste grandi città

Che scoppiano nel caos e nella merda

Fa molto effetto un pezzettino d'erba

E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.

Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti

Che usate gli infelici con gran prosopopea

Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare

Dalla rupe Tarpea.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti

Che certamente non sono brave persone

E dove cogli, cogli sempre bene.

Signori giornalisti, avete troppa sete

E non sapete approfittare della libertà che avete

Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate

E in cambio pretendete

La libertà di scrivere

E di fotografare.

Immagini geniali e interessanti

Di presidenti solidali e di mamme piangenti

E in questo mondo pieno di sgomento

Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:

Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti

E si direbbe proprio compiaciuti

Voi vi buttate sul disastro umano

Col gusto della lacrima

In primo piano.

Si, vabbè, lo ammetto

La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia

Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza

Non avrei certo la superstizione

Della democrazia.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.

Nel regno dei cieli non vorrei ministri

Né gente di partito tra le palle

Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.

E tutti quelli che fanno questo gioco

Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso

Come la febbre e il tifo

E tutti quelli che fanno questo gioco

C' hanno certe facce

Che a vederle fanno schifo.

Io se fossi Dio dall'alto del mio trono

Direi che la politica è un mestiere osceno

E vorrei dire, mi pare a Platone

Che il politico è sempre meno filosofo

E sempre più coglione.

È un uomo a tutto tondo

Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo

Che scivola sulle parole

E poi se le rigira come lui vuole.

Signori dei partiti

O altri gregari imparentati

Non ho nessuna voglia di parlarvi

Con toni risentiti.

Ormai le indignazioni son cose da tromboni

Da guitti un po' stonati.

Quello che dite e fate

Quello che veramente siete

Non merita commenti, non se ne può parlare

Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.

Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli

Sarebbe come scendere ai vostri livelli

Un gioco così basso, così atroce

Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.

Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto

E mi dispiace ma non son proprio capace

Di tacere del tutto.

Ci son delle cose

Così tremende, luride e schifose

Che non è affatto strano

Che anche un Dio

Si lasci prendere la mano.

Io se fossi Dio preferirei essere truffato

E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato

Preferirei la più tragica disgrazia

Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.

Signori magistrati

Un tempo così schivi e riservati

Ed ora con la smania di essere popolari

Come cantanti come calciatori.

Vi vedo così audaci che siete anche capaci

Di metter persino la mamma in galera

Per la vostra carriera.

Io se fossi Dio

Direi che è anche abbastanza normale

Che la giustizia si amministri male

Ma non si tratta solo

Di corruzioni vecchie e nuove

È proprio un elefante che non si muove

Che giustamente nasce

Sotto un segno zodiacale un po' pesante

E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.

Io se fossi Dio

Direi che la giustizia è una macchina infernale

È la follia, la perversione più totale

A meno che non si tratti di poveri ma brutti

Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.

Io se fossi Dio

Io direi come si fa a non essere incazzati

Che in ospedale si fa morir la gente

Accatastata tra gli sputi.

E intanto nel palazzo comunale

C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti

In modo tale che in questa messa in scena

Tutto si addolcisca, tutto si confonda

In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale

È una schifosa facciata immonda.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Vedrei dall'alto come una macchia nera

Una specie di paura che forse è peggio della guerra

Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti

È la camorra.

È l'impero degli invisibili avvoltoi

Dei pescecani che non si sazian mai

Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi

È l'impero dei mafiosi.

Io se fossi Dio

Io griderei che in questo momento

Son proprio loro il nostro sgomento.

Uomini seri e rispettati

Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati

Così sicuri dentro i loro imperi

Una carezza ai figli, una carezza al cane

Che se non guardi bene ti sembrano persone

Persone buone che quotidianamente

Ammazzano la gente con una tal freddezza

Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.

Io se fossi Dio

Urlerei che questi terribili bubboni

Ormai son dentro le nostre istituzioni

E anzi, il marciume che ho citato

È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri

Alla Camera e allo Senato.

Io se fossi Dio

Direi che siamo complici oppure deficienti

Che questi delinquenti, queste ignobili carogne

Non nascondono neanche le loro vergogne

E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi

E mostrano sorridenti le maschere di cera

E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.

Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato

Perché la macchia nera

È lo Stato.

E allora io se fossi Dio

Direi che ci son tutte le premesse

Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.

Con una deliziosa indifferenza

E la mia solita distanza

Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente

Sprofondare lentamente nel niente.

Forse io come Dio, come Creatore

Queste cose non le dovrei nemmeno dire

Io come Padreterno non mi dovrei occupare

Né di violenza né di orrori né di guerra

Né di tutta l'idiozia di questa Terra

E cose simili.

Peccato che anche Dio

Ha il proprio inferno

Che è questo amore eterno

Per gli uomini.

IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista

sono sensibile e altruista

orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista

da un po’ di tempo ambientalista

qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo

per carità lo dico in senso letterale

sono progressista  al tempo stesso liberista

antirazzista e sono molto buono

sono animalista

non sono più assistenzialista

ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

forse da buon opportunista si adegua senza farci caso

e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,

il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza

è un animale assai comune che vive di parole da conversazione

di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori

il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo

e farsi largo galleggiando

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario

sono femminista

son disponibile e ottimista

europeista

non alzo mai la voce

sono pacifista

ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone

il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione

è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie

poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato

vive e questo già gli basta e devo dire che oramai

somiglia molto a tutti noi

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che si vede a prima vista

sono il nuovo conformista.

Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.

Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.

Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:

“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

 il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

 forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”

La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.

LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997

Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.

DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001

Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.

La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

tutti i films che fanno oggi son di destra

se annoiano son di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po' di destra

ma portarle tutte sporche e un po' slacciate

è da scemi più che di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po' di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze è più che mai di destra

la pisciata in compagnia è di sinistra

il cesso è sempre in fondo a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po' di destra

mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione, l'ossessione

della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa, dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera è di destra

la Nutella è ancora di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il pensiero liberale è di destra

ora è buono anche per la sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po' degli anni '20, un po' romano

è da stronzi oltre che di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare

un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c'è

se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra

la mancanza di morale è a destra

anche il Papa ultimamente

è un po' a sinistra

è il demonio che ora è andato a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po' più di destra

ma un figone resta sempre un'attrazione

che va bene per sinistra e destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Basta!

IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003

La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.

TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:

Io G. G. sono nato e vivo a Milano.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell'inno nazionale

di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

se arrivo all'impudenza

di dire che non sento

alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

e altri eroi gloriosi

non vedo alcun motivo

per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

ma ho in mente il fanatismo

delle camicie nere

al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

questa democrazia

che a farle i complimenti

ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

pieno di poesia

ha tante pretese

ma nel nostro mondo occidentale

è la periferia.

Mi scusi Presidente

ma questo nostro Stato

che voi rappresentate

mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

agli occhi della gente

che tutto è calcolato

e non funziona niente.

Sarà che gli italiani

per lunga tradizione

son troppo appassionati

di ogni discussione.

Persino in parlamento

c'è un'aria incandescente

si scannano su tutto

e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

dovete convenire

che i limiti che abbiamo

ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

noi siamo quel che siamo

e abbiamo anche un passato

che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

ma forse noi italiani

per gli altri siamo solo

spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

son fiero e me ne vanto

gli sbatto sulla faccia

cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

forse è poco saggio

ha le idee confuse

ma se fossi nato in altri luoghi

poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

ormai ne ho dette tante

c'è un'altra osservazione

che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

noi ci crediamo meno

ma forse abbiam capito

che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

lo so che non gioite

se il grido "Italia, Italia"

c'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

o forse un po' per celia

abbiam fatto l'Europa

facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo

per fortuna o purtroppo

per fortuna

per fortuna lo sono.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.

E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio.  Ecco uno stralcio delle intercettazioni:

LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».

GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».

LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».

GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».

LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».

GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.

Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.

PRINCIPI COSTITUZIONALI

L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.

I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.

LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.

E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO  ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.

LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.

IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.

LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.

E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.

L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.

IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.

I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.

GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.

LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.

IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.

I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.

I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.

IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.

LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.

Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.

L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.

« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)

Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.

Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".

Non solo legisti.....

Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.

ADDIO AL SUD.

"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il  pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura  e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione  selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano'  del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.

Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:

«Finita la guerra prenderò congedo

e solo allora dirò a mia figlia

e solo allora dirò a mio figlio:

tu questo sei.

Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.

Adesso anche tu vieni da Sud».

Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.

Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».

Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.

Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.

Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”.  Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.

Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.

Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera”  — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.

Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.

“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.

L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.

"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.

Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista  raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.

Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.

Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.

Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.

La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.

Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.

Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non  previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.

Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.

A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.

Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.

Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.

A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.

La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.

Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.

Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………

Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.

Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…

Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.

Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.

Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!

Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino,  (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.

In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….

Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.

Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.

Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.

Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.

«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.

Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.

Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?

Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.

Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.

Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)

La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.

Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta,  “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi  hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.

Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.

Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).

Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.

Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.

Di che ci stupiamo?

Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che  sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore  della provincia di Bergamo, sposato e  padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio  2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno  ancora stato messo sotto processo come  inequivocabilmente colpevole. 

Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su  “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.

Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.

Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…

Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni  ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...

Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.

Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?

«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».

Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?

«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».

I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?

«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».

L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?

«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».

Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?

«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».

Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?

«Spero di scoprirlo presto».

In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.

«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».

Di fronte a tale affermazione come ha reagito?

«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».

In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…

«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».

Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?

«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».

Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…

«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».

Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?

«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».

Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?

«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».

Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?

«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».

Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di  appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.

Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.

Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruoscrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….

La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.

Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.

Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.

"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.

Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?

«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».

Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?

«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».

Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?

«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».

Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.

«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».

Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?

«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».

Ma all'inaudito non c'è mai fine....

Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

IGNORANTI IN PARLAMENTO.

"Troppi ignoranti siedono in Parlamento". La denuncia della scienziata Elena Cattaneo. Vaccini, Ogm, Stamina. Non è l'Italia ad essere oscurantista, ma la politica a dar retta alle spinte meno serie della gente. E i media non aiutano, scrive Daniela Minerva su “L’Espresso”. Elena Cattaneo La rivista "Nature" l'ha salutata con un “Brava Elena”, attribuendole, giustamente, la vittoria nell'affaire Stamina. Ma Elena Cattaneo è molto di più. Scienziata dell'Università di Milano, seduta su una pila di riconoscimenti internazionali, è stata nominata da Giorgio Napolitano senatore a vita. Ed è convinta che educare la politica alla scienza sia la mossa vincente. Ma non solo.

Caso Stamina, sperimentazione animale. Ma non solo. Spesso gli orientamenti degli italiani vanno contro i risultati della scienza. Perché secondo lei?

«Benchè gli italiani, come tutti, siano immersi ed indissolubilmente legati a quanto conseguito dalla scienza, succede che venga vissuta, paradossalmente, come poco accessibile e poco vicina al sentire dei cittadini. Per un verso gli scienziati dovrebbero fare di più per spiegare non tanto i risultati ma la fatica, il coraggio, i fallimenti e raccontare come le conquiste scientifiche sono di tutti e per tutti. Anche i media hanno la responsabilità di fare da cinghia di trasmissione dei fatti. Spesso, invece, tra semplificazione del messaggio e ricerca del clamore si tradisce il significato ed il portato della "nuova conoscenza". Spesso scienziati e media comunicano il “risultato”, il “prodotto” trascurando il processo, il percorso che ha condotto a quel risultato. Così i cittadini sono privati della consapevolezza necessaria per comprendere che una cura, ad esempio, non è “un coniglio che esce dal cilindro”. Nello stesso tempo li si priva anche della grande opportunità formativa e costruttiva che il metodo scientifico porta con sé per chiunque vi si accosti. Così gli italiani non percepiscono “veramente” cosa significhi fare scienza e quale straordinario strumento sia per appurare la realtà, ogni giorno, al meglio della nostra possibilità. Se ne parla poco sui media. Pochissimo in TV. Si predilige una comunicazione fatta di "narrazioni umorali" anche quando si trattano temi che obbligherebbero ad ancorarsi ai fatti, a ciò che è stato verificato. Quindi, se è ovvio che la scienza non possa che dire come stanno le cose, anche quando è doloroso, i ciarlatani, al contrario, promettono miracoli (che ogni volta si dissolvono nel nulla). Questo rende la scienza debole, a prima vista, agli occhi di un pubblico che ha una dieta mediatica composta essenzialmente di grandi miracoli o grandi catastrofi. Invece, i Paesi in cui i cittadini sanno cosa sia la scienza hanno grandi vantaggi, prima di tutto il prezioso strumento di comprendere che il metodo scientifico, nelle condizione date, è l’unico strumento che consente di appurare al meglio i fatti dell'oggi, coltivando fiducia nel domani».

I dati dell'Annuario Scienza Tecnologia e Società indicano che, in maggioranza variabile a seconda dei temi, gli italiani sono sempre meno ignoranti scientificamente. Che hanno in grande considerazione il lavoro degli scienziati. Che accettano in maniera strumentale i benefici delle scienze, soprattutto biomediche. E che sono favorevoli a molte delle innovazioni scientifiche osteggiate invece dalla politica. (ricerca biotech, fecondazione assistita ad esempio). E i sociologi della scienza affermano che spesso la percezione che i politici hanno dei desideri dei cittadini in materie scientifiche non corrisponda affatto alla realtà di questi desideri. Non è che i politici sono più antiscientifici degli italiani? Cosa ne pensa? 

«La categoria del politico in astratto rispetto al cittadino è una pericolosa semplificazione. Il tema sotteso alla domanda è quanto il personale politico del Paese sia in grado di rappresentare il sentire e il volere dei cittadini in generale. Restando alla scienza, sulla base dei dati a cui si riferisce, si può osservare come, forse, i cittadini che si confrontano quotidianamente con le difficoltà e la speranza della vita abbiano sempre di più il polso di quanto un’innovazione scientifica possa incidere sul loro benessere e sulla libertà più di quanto, i loro politici, riescano a immaginare che siano in grado di fare. Politici che, inoltre, rispondono spesso a logiche di appartenenza che - paradossalmente - potrebbero allontanarli dal sentire comune e dal comprenderlo e guidarlo in modo più razionale, basato sulla conoscenza dei fatti. Sulla "antiscientificità dei politici", da quando frequento le aule parlamentari, posso però testimoniare come la situazione sia molto eterogenea. Così come vi sono alcuni con profonde competenze in ambito umanistico e aperti ed interessati anche a capire altre discipline, vi sono pure parlamentari che su temi scientifici sarebbero pronti a approvare qualunque legge sulla scorta del sentito dire e senza alcun indispensabile approfondimento tecnico. Ci sono un bel po’ di esempi: non hanno alcuna idea di cosa sia in concreto la sperimentazione animale, ma chiedono che sia abolita; non hanno idea di come si arrivi a identificare un trattamento per una malattia umana e ti dicono che puoi arrivarci comunque con un computer o un piattino di cellule. Magari sono anche gli stessi che non capiscono la differenza tra i ciarlatani e la medicina. Ci sono persino parlamentari che, ribaltando la realtà delle cose, cercano di far passare lo scienziato come “persona con pregiudizi”, ad esempio semplicemente perché si avvale delle prove della scienza per argomentare a sostegno dell’innocuità di specifici Ogm. Alcuni politici, sempre restando a questo esempio, li definiscono “pericolosi per la salute umana” e poi accettano che vengano importati a tonnellate per nutrire le nostre filiere alimentari. Sono posizioni incoerenti oltre che non documentate. Sta al cittadino, in definitiva, non solo percepire quanto gli sia utile la scienza, ma orientarsi verso rappresentanti, diciamo così, in grado di comprendere e includere le conquiste fatte per tutti nelle scelte per il Paese».

Sempre, di fronte a fatti come quello di Stamina o a questioni come Ogm o vaccini le posizioni si polarizzano: da una parte la comunità scientifica che afferma le sue conclusioni in maniera apodittica, senza esplicitare quelli che sono i limiti della conoscenza scientifica. Dall'altra una parte dell'opinione pubblica che nel formarsi il giudizio fa prevalere un atteggiamento politico o etico. Sembrano entrambe posizioni fideistiche. Insomma, l'impressione è che nessuna delle parti abbia un atteggiamento “laico” che metta in campo i pro e i contro. Cosa ne pensa?

«Non so se la comunità scientifica non espliciti i limiti della conoscenza scientifica, mi pare piuttosto che, a volte, rinunci ad adeguare il suo linguaggio alle modalità della divulgazione. Talvolta in Italia, a differenza dei paesi di cultura anglosassone, c’è una ritrosia di una parte della comunità scientifica circa l’opportunità di impegnarsi, al pari dell’attività accademica, nel portare la scienza al pubblico. Parallelamente c’è un apparato mediatico che, non di rado per incapacità o disinteresse o tornaconto, trova ben più comodo dello studio e della preparazione che servirebbe per proporre un ragionamento degno di questo nome, rifugiarsi in schemi di narrazione ideologici che in questo paese sembrano buoni per ogni occasione. Molto spesso il giudizio distorto del pubblico, il prevalere di atteggiamenti incomprensibilmente irrazionali, dipende dalla sciatteria di ciò che si comunica o dalla sua parzialità, che è anche peggio».

È indubbio che la comunità scientifica in Italia sia meno capace di influenzare il dibattito pubblico di quanto non lo sia in altri paesi. Perché?

«Quel che forse fa più male è quando lo scienziato addirittura si autolimita perché teme che la sua esposizione pubblica possa nuocere alla carriera, ai finanziamenti o semplicemente alienare simpatie politiche. Talvolta qualcuno nella comunità scientifica è troppo silente, poco coraggioso. Oppure si chiude in se stesso forse perché da sempre non considerato, e questo ha peggiorato le cose. Bisogna anche dire che nel paese manca un’educazione, anche politica, che ritenga necessario, come avviene in tante democrazie avanzate, l’ascoltare con serietà massima i dati empirici dei fenomeni, prima di adottare le scelte di politiche pubbliche decisive per la società. Questo punto richiama le responsabilità della classe politica, che troppo spesso ha mostrato di seguire furbescamente il richiamo “della pancia delle piazze” piuttosto che onorare con senso di responsabilità il proprio compito, primo fra tutto quello di volere (e far) conoscere prima di deliberare. Invece, spesso, si sono trattate le raccomandazioni della scienza, legate ai fatti, come opinioni alla stregua di tutte le altre opinioni. Questo è un atto di colpevole irresponsabilità, le cui conseguenze gravano poi sugli stessi cittadini e sui più deboli tra loro, oltre che sulla credibilità delle istituzioni del nostro paese. La comunità scientifica dal canto suo ha gli argomenti per essere utile al paese: tirarsi indietro per poi lamentarsi non è un atteggiamento che condivido. Così come da parte delle Istituzioni, non è giustificabile che la scienza la si invochi a tratti, spesso come spauracchio, senza riconoscerne gli indubbi meriti e competenze».

La fiducia nelle istituzioni nel nostro paese è debole. E le istituzioni scientifiche sono vittima di questo handicap di contesto. Cosa ne pensa?

«In realtà le competenze in Italia le abbiamo. Molteplici sono le eccellenze mondiali, proprio in campo scientifico, di cui possiamo andare orgogliosi. Nell'immediato è necessario che ciascuno svolga il proprio lavoro al massimo della propria professionalità, cercando le evidenze e stando lontani dalle convenienze. Così si recupera fiducia. Ciascuna Istituzione Scientifica rifletta su quali siano gli aspetti su cui può migliorare nell'aprirsi alla comunità e senza timori si mostri per quel che quotidianamente fa per la collettività. Per altro, verso lo Stato, dati empirici alla mano, serve che vi sia un rinnovato impegno -anche di risorse- nel rilanciare la formazione e le attività del Paese in materie ad alto tasso di scientificità, perché ogni ritardo arreca un grave danno alla nostra competitività. Bisogna preservare almeno la ricerca pubblica di base da politiche squisitamente depressive, rilanciare un patrimonio di conoscenza che ancora sopravvive, ma che se non difeso (e in questo campo la stasi è equiparabile alla regressione) potrebbe definitivamente depauperarsi in pochi anni, "bruciando" molta più speranza per il futuro di quanto si possa immaginare».

Una legge che vieta le sperimentazioni. Pregiudizi su vaccini e Ogm. Poi i santoni che tengono banco. Nel paese trionfano ignoranti e retrogradi. Anche per colpa della politica, scrive Daniela Minerva su “L’Espresso”. Una mostra con ritratti di donatori di cervello La perfezione del cervello da cui nasce il pensiero umano? Un reticolo di molecole assemblate a caso dall’evoluzione. La bellezza di uno sguardo capace di rapire il nostro cuore per sempre? Anche. La gioia di un recupero repentino che illumina mesi di malattia nostra o di un nostro caro? Episodico, inessenziale al vero decorso del male. Giorni di pioggia che ci obbligano a un agosto col maglioncino? Irrilevanti per capire se la Terra si scalda o no. Potremmo continuare per pagine, a elencare tutte le volte che la scienza ci sbatte la porta delle nostre emozioni in faccia, in una corsa senza fine a ridurre le nostre esperienze a “episodi”, e a contraddire quel che ci sembra ovvio. Eppure non possiamo che fidarci. Dobbiamo far tacere la personalissima percezione del mondo che nasce dalla realtà della nostra vita. La scienza è la scienza, un’impresa quasi perfetta capace di generare conoscenze condivise; autocorreggersi e restituirci la cosa più vicina possibile alla verità. Sappiamo che i risultati di quest’impresa ci sono utili (farmaci, energia, iPhone e aeroplani), e fin qui ci possiamo dire tutti scientisti. Ma se si tratta di accettarne le conclusioni anche quando contraddicono le nostre credenze e le nostre esperienze, allora cominciano i mal di pancia. E nascono i movimenti: contro gli Ogm, contro i vaccini, contro la sperimentazione animale; a favore di Stamina... Attorno a questo bisticcio si gioca la capacità del nostro paese di entrare nella modernità, di seppellire una volta per tutte Don Benedetto Croce e la sua sciagurata convinzione che le conoscenze scientifiche altro non siano che robe astratte capaci solo di «mutilare la vivente realtà del mondo». Basti pensare a quanto «vivente» sia stata la speranza dei genitori della piccola Celeste che hanno affidato la loro bambina agli intrugli di quel Vannoni arrivando persino a illudersi che le facessero bene. Noi lo chiamiamo “ caso Stamina ”, ma per decine di persone è stata una viventissima illusione. Che, come sempre accade quando un santone buca il video, ha contagiato per mesi l’opinione pubbica, comprensibilmente eccitata all’idea che si potesse fare qualcosa per quei bambini, ma del tutto indifferente alla notizia, arrivata nei giorni scorsi della prima terapia a base di cellule staminali scientificamente dimostrata e registrata dalle autorità europee, scoperta dagli scienziati dell’università di Modena. Fiumi di inchiostro e ore di talk show per la baggianata di Stamina, qualche trafiletto per la scoperta dei modenesi. Colpevoli, forse, di avere messo sotto i nostri occhi dati solidi e dimostrazioni inoppugnabili della capacità di cura della loro terapia, e non malati disperati, la «vivente realtà» cara a Don Benedetto. L’affaire Stamina è una faccenda recente. L’ultima a ricordarci l’opposizione apparentemente insanabile tra la comunità scientifica con le sue verità e noi con le nostre esperienze. Che si saldano con sistemi di valori collettivi fino a creare dei veri e propri movimenti. E così l’Oms aveva un bel puntare a sconfiggere il morbillo entro il 2015, e noi avevamo un bel pensare alla malattia come a una piaga dei paesi poveri; il 7 marzo proprio a Roma una bambina di 4 anni, Giulia, è morta per le complicanze di questa malattia. Non era stata vaccinata. Perché? Perché, insomma, molte delle conoscenze scientifiche diventano oggetto di opposizione sociale, anche violenta? Cominciamo col dire che non accade solo in Italia. Ma in tutte le democrazie occidentali. Se persino una buona fetta degli americani - coi loro quasi 200 premi Nobel, i più potenti centri di ricerca del mondo, i milioni di dollari investiti e i migliori scienziati del pianeta - è convinta che a metterci su questa Terra è stato un signore con la barba bianca qualche migliaio di anni fa e non un processo durato milioni di anni di evoluzione della vita. Centinaia di genitori inglesi si oppongono ai vaccini ben più violentemente dei nostri, forti di un antico principio che lo Stato non può interferire con le decisioni di una famiglia britannica. I tedeschi sono i maggiori consumatori di medicine “oliatiche” nel mondo. E i casi di terapie anticancro miracolose che infiammano l’opinione pubblica sono ovunque all’ordine del giorno. Quindi, sbagliano quelli che tacciano gli italiani di oscurantismo, e ignoranza scientifica. Siamo oscurantisti e ignoranti tanto quanto gli altri. Quel che fa la differenza è che altrove l’opposizione sociale alle conoscenze scientifiche non trova una sponda politica così forte come quella che trova a Roma, che non detta le leggi e i provvedimenti come invece fa nel nostro Parlamento. Lo dimostrano i dati raccolti dall’“Annuario Scienza Tecnologia Società” (edito da Il Mulino). Stando a quanto riportato nell’edizione 2015 appena pubblicata, ad esempio: «il livello di alfabetismo scientifico dei cittadini ha raggiunto un picco mai toccato». E, aggiunge Massimiliano Bucchi, professore di Sociologia della scienza all’Università di Trento: «Lo stereotipo dell’italiano ottuso è largamente infondato. Ce lo dimostrano i dati raccolti in questi anni. Che, anzi, esplicitano quanto interesse ci sia per le questioni scientifiche nel nostro paese. Pensiamo solo al fatto che in nessun’altra parte del mondo i Festival della scienza sono così frequentati come i nostri; e che nessuna trasmissione televisiva, del settore, al mondo fa gli ascolti di Superquark». Già, però, poi abbiamo la peggiore legge sulla sperimentazione animale possibile, un’opposizione agli Ogm che manipola tutti i ministri dell’Agricoltura da dieci anni, e una regione come il Veneto che, nel 2007, scrive un’apposita legge per dire che non è obbligatorio vaccinare i bambini. Salvo poi scoprire, come ha fatto una ricerca della Asl di Verona, che cinque anni dopo i tassi di vaccinazione sono rimasti gli stessi. E scoprire che lo zoccolo duro dei nemici dell’immunizzazione salvavita è composto essenzialmente da laureati, informati e impegnati politicamente. Proprio come i genitori della piccola Giulia morta a Roma per le complicanze del morbillo, due medici. Fatti questi che diventano regola nel panorama italiano narrati dall’Annuario. E che Bucchi riassume: «L’opposizione ai vaccini, come agli Ogm, come la predilezione per l’omeopatia sono più diffuse tra le persone scolarizzate. Che si sentono istruite e quindi competenti a scegliere». Le ricerche dei sociologi indicano che siamo nel pieno di quella che Bucchi chiama «crisi dei mediatori». La gente non si informa più sui giornali, dall’amico scienziato, dal medico di famiglia. Va su Internet. Ma, attenzione, non a cercare vaghezze sui social network, i più vanno direttamente alla fonte: leggono i lavori scientifici, surfano i siti delle grandi università, seguono i blog dei ricercatori. Così entrano in contatto con una marea indistinta di informazioni (tutte attendibilissime), ma troppe perché un cittadino comune possa orientarsi, e men che meno fare una sintesi. E allora, di fronte a questo oceano, per farsi un’idea usano il loro personalissimo sentimento. Il professore della Yale University Dan Kahan si è chiesto in che modo i cittadini decidano di avere o meno paura degli Ogm, del riscaldamento globale, delle biotecnologie, o, magari, di fidarsi di Vannoni. E ha scoperto che lo fanno sulla base di «valori profondi», selezionando con cura sia le informazioni che sono conformi a questi valori sia riconoscendo autorevolezza agli esperti che li confermano tenendo, invece, in poco conto quelli che sostengono posizioni contrarie. E così persone con culture diverse si formano opinioni diverse sul medesimo fatto, senza tener conto della verità scientifica. Questo accade, aggiunge Bucchi, perché «i temi su cui l’opinione pubblica si trova in conflitto con le acquisizioni scientifiche hanno una natura ibrida. Sono questioni tecniche, ma il pubblico le percepisce come politiche». E così a formare il giudizio concorrono atteggiamenti che non hanno niente a che fare con la verità fattuale: la critica alle multinazionali dei semi o dei farmaci, percepite come invasive e luciferine; il rapporto col cibo; la sfiducia nelle istituzioni che si allarga a quelle scientifiche; l’adesione a dogmi religiosi. Atteggiamenti che coagulano gruppi molto coesi, attorno a una credenza che sembra quasi una fede. E un gruppo molto coeso attorno a una fede sono anche gli scienziati che oppongono apoditticamente la loro verità mentre sarebbe di gran lunga meglio, aggiunge Bucchi: «far crescere un atteggiamento critico, aperto ed equilibrato. Laico». Ovvero spingere l’acceleratore più sulla validità del metodo scientifico, sul valore del dubbio che muove ogni ricerca scientifica, sui suoi limiti e le sue potenzialità. Mentre, suggerisce Bucchi: «I paladini della scienza fanno troppo spesso dichiarazioni di principio». Altezzosi, spesso odiosi perché chiusi nelle loro torri d’avorio. Ma nello scontro tra fedi, c’è un convitato di pietra. Che finisce il più delle volte col prendere le decisioni sbagliate. È la politica che asseconda gli umori dei movimenti. Sono gli uomini e le donne del Parlamento che si dimostrano i veri oscurantisti e, chiosa Bucchi: «si comportano pensando di assecondare i desideri del pubblico. Ma spesso non hanno una rappresentazione corretta di quello che vogliono davvero i cittadini».  I quali, ad esempio, sono nella stragrande maggioranza (il 67 per cento) favorevoli alla procreazione medicalmente assistita, regolamentata dal Parlamento con la legge più oscurantista che si potesse mai scrivere. Legge peraltro confermata da un referendum che chiamava in causa gli stessi cittadini. Un bel pasticcio. «Non tanto», chiosa Bucchi: «Al momento di andare a votare il merito passa in secondo piano e prevale l’affiliazione con la propria parte». Quello che di certo non ha avuto peso sono state le decine di prese di posizioni degli scienziati che spiegavano come e perché quella legge non ha senso. Perché, nelle mille sfumature del complesso rapporto tra gli italiani e la scienza, vi è di certo che la comunità scientifica è del tutto incapace di influenzare le scelte dei governi. Quando non ne è completamente subalterna. E l’opinione pubblica lo sa. L’84,4 per cento degli italiani, secondo l’Annuario 2015, ritiene che la scienza sia «troppo condizionata dalla politica». Basta vedere la pantomina andata in scena a L’Aquila. Con i tecnici condannati in primo grado (e poi assolti) perché nei giorni precedenti il sisma - sostennero i giudici - avevano rassicurato la popolazione, trasmettendo informazioni «inesatte, incomplete e contraddittorie». I membri della Commissione tecnico scientifica hanno avallato le dichiarazioni del vice della Protezione Civile, Bernardo De Bernardinis, il quale ha rassicurato la popolazione, a suo dire, proprio sulla base delle rassicurazioni a sua volta ricevute dagli scienziati. Certo non colpevoli perché nessuno può prevedere un terremoto, ma di certo anche ambigui nell’avallare implicitamente le rassicurazioni di De Bernardinis. Senza nemmeno suggerire l’ombra del dubbio. A L’Aquila è andata in scena la subalternità dei tecnici nei confronti della politica. E la vicenda è una triste parabola dei rapporti tra la scienza e il potere nel nostro paese. Dove vince sempre la ragion politica.

IGNORANTI NELLA SOCIETA’ CIVILE.

Calcio, politica e soldi. Tutti i luoghi comuni dell'italiano medio. Da "i ricchi evadono" al "solito inciucio": ormai le litanie dilagano. E chi le recita si sente un po' più onesto degli altri, scrive Massimiliano Parente su “Il Giornale”. Mica c'è bisogno dell'Istat e dei sondaggi, per capire gli italiani basta vedere di cosa si lamentano in continuazione, lagne entrate nel linguaggio popolare come tic, frasi fatte che si sentono ovunque, una volta solo al bar o in famiglia o se prendevi un tassì a Roma, ormai perfino in televisione. A cominciare dalla considerazione «Solo in Italia». Solo in Italia ci sono mille parlamentari. Solo in Italia non trovano i colpevoli dei delitti. Solo in Italia la giustizia funziona male, ovviamente se per caso tocca noi, se tocca un altro «dovrebbero metterlo dentro e buttare la chiave», come fanno all'estero. Tanto nessuno conosce l'estero, per questo ogni legge elettorale te la propongono alla francese, alla tedesca, all'americana, per mostrare di conoscere il mondo quando non si sa un cavolo neppure di come si vota in Italia. Coltivando il mito di paesi nordici come la Scandinavia o la Norvegia, dove i servizi funzionano a meraviglia, dove lo tasse sono bassissime, basta che non domandi dove sta la Norvegia perché non saprebbero neppure indicartela sulla carta geografica. Sebbene abbiano sentito Grillo che ti spiega come lì si ricicli anche la pupù. Ma perché non cerchi lavoro? Perché tanto «non c'è lavoro», perché «bisogna andare fuori», e poi tutti sono sempre qui, mai che muovano il sederino, come all'estero appunto. Tanto «è tutto un magna magna», e «tutti rubano», sempre a sottintendere che chi lo dice non appartiene alla categoria, sempre a sottolineare una propria specchiatissima onestà, perché solo in Italia «i ricchi evadono lo tasse», l'hanno visto da Santoro e a Report, te lo dice il barista che intanto non ti rilascia lo scontrino fiscale e il medico o l'idraulico che senza fattura, se vuoi, paghi meno, e tu ci stai perché tanto mica te la scarichi, come in America. E comunque ve lo immaginate un inglese o in americano che si lamenta del magna magna e dice « it's all an eat eat »? Tanto «gli italiani so' tutti ignoranti», sbotta quello che non ha mai aperto un libro e un quotidiano lo sfoglia a scrocco mentre sbocconcella il cornetto, leggendo solo i titoli, non per altro quanto a lettura di giornali veniamo dopo la Turchia, e l'editoria è in crisi qui più che altrove, perché se si legge qualcosa «l'ho letto su internet». Che poi se cerchi lavoro, è noto, «prendono solo raccomandati», e intanto non è che per caso conosci qualcuno? Troppi immigrati, «arrivano solo da noi, perché non li mandiamo in Francia e in Germania?», che però ne hanno più di noi, e al contempo gli italiani sono pure tutti cattolici (non praticanti, per carità), con un papa che gli immigrati, cristianamente, li farebbe entrare tutti, per dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati. Noi al massimo porgiamo l'altra guancia, ma degli altri, insomma «se ne dovrebbe occupare l'Europa!», la quale Europa quando elargisce i finanziamenti a noi spariscono non si sa dove, e però «è tutta colpa della Merkel!». Se non altro stiamo rivalutando Andreotti, Craxi, «loro sì che erano politici», e quando c'erano loro i nostalgici pensavano a Mussolini, «con lui non si rubava». In un paese dove «non c'è meritocrazia», e mica se ne lamenta il laureato a Harvard, se ne lamentano tutti, un popolo di meritevoli, informati, studiosi, sentono che c'è «la fuga dei cervelli» e si identificano subito col cervello in fuga. Mai sentito nessuno che ammetta di non essere all'altezza, di aver studiato poco, di non meritarsi nulla, tutti sanno tutti, in qualsiasi campo, dalla medicina all'economia. Convintissimi che se i parlamentari si tagliassero lo stipendio si abbasserebbe il debito pubblico. O almeno potrebbero «dare l'esempio», quasi che i deputati fossero arrivati in parlamento con un'astronave e non li avessero votati loro. Perché qui «è tutto un inciucio», e nel frattempo pure a me scrittore, nel mio piccolo, arrivano in posta sporte di manoscritti mediocri che vogliono essere letti da gente che non ha mai letto niente, tanto meno me, ma se glielo fai notare rispondono «Mica sarà peggio di tanti che pubblicano?». È il diritto alla mediocrità, solo in Italia.

LADRI IN PARLAMENTO. TANGENTOPOLI ED IL POOL MANI PULITE: LA GENESI.

Giancarlo De Cataldo su “L’Espresso”: L'Italia è una repubblica fondata sullo scandalo. Dai tempi di Cavour a Mani Pulite: ogni vent’anni un’indagine-choc. Corsi e ricorsi storici delle tangenti, specchio di un Paese che non cambia. Il commento dello scrittore-magistrato. La fiction “1992” è bella e coraggiosa. Racconta - ed è già questo un merito innegabile - la controversa stagione di Mani Pulite. Lo fa con la disinvolta ferocia narrativa che è il marchio di fabbrica delle grandi serie. “1992” è televisione avanzata. Ma ha anche un altro merito. “1992” declina con linguaggio di oggi una vicenda che affonda radici profonde nella storia d’Italia. Una storia antica: la storia della nostra corruzione. Una storia cominciata tanti anni fa. Conquistato il Sud grazie all’impresa dei Mille, il conte di Cavour si mette all’opera per disegnare il futuro della nuova nazione. Giorgio Asproni, deputato sardo, alta carica massonica, ex-prete, esponente dell’estrema sinistra mazziniana, nei suoi impietosi diari annota disgustato l’incessante processione di faccendieri, ufficiali, imprenditori che assediano l’ufficio di Cavour a Palazzo Carignano. Tutti a vantare inesistenti meriti patriottici, tutti a implorare un incarico, una commessa, un’onorificenza. Ciò che l’incendiario Asproni non può sapere è che in quegli stessi momenti Cavour, il liberale, l’odioso tessitore di trame che i democratici accusano di essersi impossessato per turpi fini della bandiera della Patria, proprio Cavour, prova, nei confronti dei questuanti, sentimenti non molto dissimili. Al punto da bollare i clientes con parole di fuoco. Asproni e Cavour, ciascuno eroico a suo modo, divisi da visioni radicalmente inconciliabili della Storia (e della natura umana) su un punto concordano: il disprezzo per quei molli figuri che non versarono una sola goccia di sangue per la “causa” e ora si avventano sulla greppia dell’Italia unita. Ma se Asproni li metterebbe volentieri al muro, corrotti e corruttori, Cavour, secondo il suo costume, pensa di poterne agevolmente “trarre partito”. Costruire dal nulla un’identità nazionale è compito arduo, ai limiti dell’impossibile. Nella fase d’avvio non si può andare tanto per il sottile. Anche gli affaristi servono, e servono i faccendieri. Cavour opera una scelta di campo destinata a ipotecare pesantemente il nostro futuro. Il destino fa il resto. Cavour, che forse sarebbe riuscito a contenere le smanie predatorie nell’alveo della fisiologia democratica, muore troppo presto. I suoi successori non si riveleranno all’altezza. Quindici anni dopo l’Unità, nel 1875, un popolano trasteverino accoltella a morte Raffaele Sonzogno, coraggioso giornalista calato a Roma dal Nord, animatore di inchieste sul dilagante malaffare post-unitario. Il sicario viene subito arrestato, ma è chiaro che, secondo uno schema destinato a ripetersi drammaticamente negli anni, se il pugnale viene dalla strada, l’ordine è partito dal Palazzo. Dietro l’uccisione di Sonzogno c’è una colossale speculazione edilizia sui terreni espropriati al Vaticano. Sono coinvolti banchieri, palazzinari, preti attenti al portafoglio, pezzi della Destra storica, che uscirà sconfitta dalle elezioni dell’anno dopo, e pezzi della Sinistra che già pregusta la vittoria, e persino un rampollo “agitato” dell’eroe dei Due Mondi. Una pregevole compagnia di giro che ritroveremo spesso nella cronaca del nostro Paese. Troppo, per una nazione appena nata. L’inchiesta, abilmente pilotata, porta alla condanna del deputato Luciani. Movente: una questione di corna. Luciani becca una condanna tombale, e invano, per anni, minaccerà sconvolgenti rivelazioni. Dalla speculazione verranno poste le basi per uno dei tanti, anch’essi ricorrenti, “sacchi” di Roma. Qualche anno dopo, nel 1892, un giornale satirico della capitale, “Il carro di Checco”, svela la vicenda finanziaria che passerà alla storia come “scandalo della Banca Romana”. Incalzato dal battagliero Napoleone Colajanni, il governo è costretto a nominare una commissione d’inchiesta. Emergono notevoli reati: si va dalla fabbricazione e spaccio di monete false al falso in bilancio, dalle false fatturazioni alla corruzione dei funzionari e deputati incaricati dei controlli, passando per la costituzione di “fondi neri” riversati nelle tasche di personaggi pubblici. Coinvolto il gotha politico del tempo, Giolitti in testa, lambita Casa Savoia. Giolitti, anche se non è più ministro, pretende e ottiene una giurisdizione “politica”. Il finale è deprimente, con la morte per suicidio di un onorevole accusato di un reato minore e il proscioglimento generale. Favorito, si disse, da un’attenta “gestione” dei materiali probatori concordata fra Governo e vertici della magistratura. Grande e diffusa fu la frustrazione. Un giurista scrisse che si era consacrata «l’immoralità di chi ha troppo mangiato e che dopo il pasto pare abbia, come la lupa di Dante, più fame di pria». La stampa, come sovente accade, deplorò. E tutto ricominciò come prima. Fra l’altro, proprio mentre si dibatteva della Banca Romana, in Sicilia veniva assassinato Emanuele Notarbartolo di San Giovanni. Un banchiere onesto che si era messo di traverso alle speculazioni ordite da quella che, allora, si chiamava “Alta Mafia”. Fu incriminato per questo omicidio l’onorevole Palizzolo, poi assolto all’esito di un interminabile processo. Il vecchio liberale Gaetano Mosca parlò di «disfatta morale». Gli amici festeggiarono la liberazione di Palizzolo noleggiando una nave con tanto di gran pavese. In tempi più recenti, sembra essersi affermata una paradossale “legge del venti”. Nel senso che ogni vent’anni circa il Paese “scopre” uno o più colossali scandali a base di corruzione. Si deplora, si invocano cambiamenti legislativi, emergono demagoghi più o meno versati nell’arte di arringare le masse promettendo “pulizia”, si adottano misure asseritamente restrittive, si fanno esami di coscienza, si va in Tribunale. Nel 1974 alcuni giovani giudici, definiti con un certo risentimento “pretori d’assalto” (l’anticamera del “giudici ragazzini” di qualche anno dopo), scoprono che i petrolieri pagano i ministri per ottenere leggi favorevoli alla propria lobby. Sandro Pertini, Presidente della Camera, li incoraggia a «non guardare in faccia a nessuno», inclusi i suoi compagni del Partito Socialista. Minaccia, in caso di insabbiamento, le dimissioni. Il governo cade. Gli imputati sono giudicati dalla Commissione Parlamentare per i procedimenti di accusa. Pertini non si dimette. Esito del giudizio: due ministri archiviati, due prescritti, due assolti dopo qualche tempo. Mani Pulite, si è detto, esplode nel 1992, quindi a circa vent’anni dallo scandalo dei petroli. Fra il 1992 e il 1993 si consumano gli ultimi delitti eccellenti e le ultime stragi di mafia. Curiosa coincidenza con quanto era accaduto esattamente un secolo prima. Ieri corruzione a Roma e morte di un banchiere onesto in Sicilia, oggi corruzione a Milano e non solo, piombo e tritolo per politici, giudici e inermi cittadini in Sicilia e non solo. Quasi a voler sottolineare che gli inconfessabili legami e lo spregiudicato uso della violenza e della corruttela, col tempo, invece di attenuarsi, si sono rafforzati. Le stragi mafiose e Mani Pulite suscitarono un’ondata di indignazione. Furono approvate leggi per favorire il fenomeno del pentitismo e confiscare i beni dei mafiosi. Una nuova classe politica spazzò via la precedente: e anche questo era accaduto, cent’anni prima. Poi, col tempo, tutto si è sopito e troncato. I pentiti sono diventati più o meno degli appestati. Mani Pulite è oggetto di revisione storiografica critica. Ritocchi normativi bipartisan hanno reso sempre più disagevole l’operato degli investigatori. A risvegliare i dormienti, guarda caso a vent’anni da Mani Pulite, gli scandali Expo, Mose, e, infine, l’inchiesta “Mafia Capitale”. Che, fra l’altro, come all’epoca del trapasso fra Destra storica e Sinistra, propone uno spaccato di cointeressenze fra gente che dovrebbe, teoricamente, militare su opposte sponde. Oggi la stampa deplora. Sono allo studio inasprimenti di pena. Si nominano authority anticorruzione e assessori alla legalità. Intanto, si vara una legge punitiva sulla responsabilità civile dei magistrati e si tuona contro il loro “protagonismo”: senza mai riempire di contenuto questa parola dal suono, si direbbe, gnostico. Si giura, soprattutto, che è venuto il momento di voltare pagina. Come diceva Nino Manfredi: «Fusse ca fusse...». Dobbiamo dunque ritenerci rassegnati e sfiduciati? Ci mancherebbe! A un ragazzo che si affaccia alla vita non puoi trasmettere il messaggio del “tutto è perduto”. Sarebbe delittuoso. Però un minimo di onestà intellettuale non disturba, anzi. Bisogna spiegare che fra corruzione e legalità si combatte una guerra aspra, senza esclusione di colpi. Che corrotti e corruttori offrono scorciatoie convincenti, indossano maschere seducenti, vantano - e purtroppo sovente a ragione - indiscutibili successi. Sono simpatici, mondani, ricchi di fascino, corrotti e corruttori. “Legalità” è invece una parola astratta che ossessivi, abili messaggi fanno apparire sempre più ostile, odioso patrimonio di arcigni, e dunque antipatici, guardiani. “Moralista” fa oggi sorridere, “incorruttibile” suscita panico. Bisogna spiegare che giudici e poliziotti sono patologi del sistema, intervengono quando il danno è stato fatto. Bisogna insistere sull’istruzione e sulla cultura, e persino sull’estetica: si può combattere, consapevoli della disparità fra le forze in campo, anche per il solo gusto di non darla vinta alla società dei magnaccioni. E dopo, a casa, magari, tutti a vedere “1992”, la serie. Con Asproni che digrigna i denti e Cavour che perde un po’ alla volta il suo ironico sorrisetto.

Così è nata l'inchiesta Mani Pulite. Il verbale dimenticato di Mario Chiesa. Il primo arrestato di Tangentopoli cerca di bloccare la serie tv "1992". Ma scorda che fu proprio una sua querela per diffamazione a incastrarlo: ecco l'interrogatorio integrale che ha fatto esplodere lo scandalo che ha segnato la fine della Prima Repubblica, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. L'Italia, dicono molti storici, è un Paese senza memoria, che proprio per questo è condannato a ripetere gli errori del passato. Infatti la storia di Tangentopoli sembra averla dimenticata perfino chi l’ha scritta. Mario Chiesa è stato il primo arrestato di Mani Pulite, l’inchiesta che vent’anni fa ha travolto il vecchio sistema dei partiti. L’ingegnere socialista era presidente di un grande ospizio milanese quando fu ammanettato dai carabinieri, il 17 febbraio 1992, con una tangente di 7 milioni di lire (3500 euro). Quella bustarella segnò l’inizio del terremoto legale che nel successivo biennio ha portato i pm milanesi a ottenere ben 1.233 condanne per corruzione e reati collegati. Nel febbraio scorso Chiesa ha proposto un ricorso civile d'urgenza diretto a bloccare la serie televisiva “1992” in programma su Sky: la trama ispirata a Tangentopoli lo avrebbe «gravemente diffamato», protestava il suo avvocato, definendo «falsa» la scena dell’arrestato che si disfa di una mazzetta gettandola nel water. Ora l’Espresso ha recuperato gli storici verbali di Chiesa , scoprendo che proprio lui, nella prima confessione fiume del 23 marzo 1992, rivelò quell’episodio all’allora pm Antonio Di Pietro: «Due ore prima dell’arresto, il geometra M. mi diede altri 37 milioni di lire. Tale somma non fu rinvenuta nella perquisizione in quanto si trovava in una busta che nascosi nella giacca e poi gettai nel bagno». Mani Pulite, l'inchiesta che ha cambiato il sistema politico in Italia, si è consumata in meno di tre anni, tra quel 17 febbraio 1992 e il dicembre 1994. Anni di crisi economica, sfiducia generale nei partiti, arresti a catena, stragi di mafia. Ma anche di grandi speranze in un cambiamento profondo, di aspettative che potesse nascere un'Italia migliore, finalmente libera dal giogo della corruzione. Speranze poi rivelatesi illusioni, e non per colpa dei magistrati. L'intera maxi-inchiesta Mani Pulite è nata da quella storia locale di malaffare politico. Milano, 17 febbraio 1992: Mario Chiesa, presidente socialista dello storico ospizio Pio Albergo Trivulzio, viene arrestato in flagrante, nel suo ufficio, mentre nasconde nel cassetto della scrivania una busta con sette milioni di lire in contanti. È una tangente che gli ha appena consegnato un piccolo imprenditore taglieggiato di Monza, Luca Magni, il primo che ha avuto il coraggio di denunciare le continue richieste di soldi in cambio degli appalti. Quella bustarella è una trappola. La Procura di Milano indaga per concussione (un reato simile all'estorsione) e ha convinto la vittima a collaborare. Le banconote sono state fotocopiate in Procura, una ogni dieci è firmata dall'allora pubblico ministero Antonio Di Pietro e dal capitano dei carabinieri Roberto Zuliani. La tangente è la metà della somma totale pretesa da Chiesa: 14 milioni di lire, pari al 10 per cento del valore dell’appalto (140 milioni) per le pulizie del Trivulzio. L’arresto “con le mani nel sacco”, come titolano i giornali, crea scandalo attorno a un sistema di potere che a Milano è dominato dal Psi di Bettino Craxi. Come rivelerà solo un successivo atto di «proroga indagini», l’inchiesta su Mario Chiesa era in realtà in corso dall’ottobre 1991. A scoperchiare lo scandalo era stato un anziano cronista del “Giorno”, Nino Leoni: quando pubblica le prime denunce sul Trivulzio, per sospetti favoritismi a imprese di pompe funebri, Chiesa lo querela. Invece di scaricare sul giornalista l’onere di provare che ha scritto sempre e soltanto la verità, per una volta il pm di turno, che è appunto Di Pietro, decide di indagare seriamente su quell'articolo e apre un “fascicolo alternativo”: si procederà per diffamazione solo se risulterà infondata la notizia della corruzione. Quando viene arrestato, quindi, Mario Chiesa è da mesi sotto intercettazione. E dalle sue telefonate in codice Di Pietro ha già scoperto che quel politico diventato manager pubblico nasconde miliardi di lire in Svizzera, su conti battezzati con nomi di acque minerali come Fiuggi e Levissima. Craxi si sente per la prima volta sotto assedio a Milano e il 3 marzo 1992 tenta di circoscrivere il caso Chiesa. Intervistato dal Tg3 , il segretario del Psi dichiara: «Una delle vittime di questa storia sono proprio io... Mi trovo davanti a un mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito che a Milano, in 50 anni, non ha mai avuto un amministratore condannato per reati gravi contro la pubblica amministrazione». La frase viene riferita in carcere all'arrestato, che si sente ormai scaricato e isolato. Il 23 marzo 1992 Mario Chiesa rompe il muro dell'omertà e firma la sua prima confessione-fiume. Parla di appalti truccati da decenni. Chiama in causa decine di piccole, medie e grandi aziende. Rivela di aver diviso i soldi con politici di rango nazionale. È il primo di una serie di interrogatori che svelano ai magistrati il sistema della corruzione. Prima c'era solo il «caso Chiesa». Da quel verbale nasce Tangentopoli. Le confessioni di Chiesa hanno l'effetto della scintilla che scatena un incendio. I primi imprenditori chiamati in causa per gli appalti della “Baggina” (come i milanesi chiamano il Trivulzio, perché ha sede sulla strada per Baggio) cominciano ad ammettere di aver pagato tangenti. E confessano altre corruzioni, allargando le indagini. Tra i politici, il primo a collaborare con i magistrati è il socialista Alfredo Mosini: subito dopo l'avviso di garanzia, si dimette dalla carica di assessore comunale e confessa anni di spartizioni delle tangenti sugli appalti dell’ospedale Fatebenefratelli, di cui era stato amministratore. Oltre a Dc, Psi e agli alleati centristi Pri, Psdi e Pli, a Milano l’inchiesta coinvolge dall’inizio anche il Pci-Pds. Le elezioni politiche del 5 aprile 1992 segnano il crollo dei due partiti di massa: la Dc perde 5 punti e scende sotto il 30 per cento; il Pds con Rifondazione comunista si ferma al 26,6 (meno 4,9 rispetto al 1987). Il Psi di Craxi invece limita il calo dal 14,3 al 13,6 per cento. La Lega Nord, che in Lombardia aveva già raggiunto il 18,6 per cento alle amministrative del 1990,  sfonda in tutto il Nord, conquistando 8,7 punti a livello nazionale, e manda in parlamento 55 deputati e 25 senatori, che promettono battaglia contro «Roma ladrona». Il film della strage di Capaci in cui morirono Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo e con loro gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Collo e Vito Schifani, è stato ricostruito dopo cinque mesi in un bosco della Toscana dagli esperti artificieri dell'esercito e dalla Polizia Scientifica della Polizia di Stato. Un tratto di autostrada, che ricalcava le stesse dimensioni e caratteristiche del punto in cui è stato sistemato l'esplosivo vicino allo svincolo di Capaci è stato realizzato nella campagna toscana. E poi gli artificieri hanno piazzato 600 chili di esplosivo. Seguendo tutte le procedure per attivare la grande quantità di tritolo. Poi il grande botto. Le telecamere della polizia scientifica hanno filmato l'esplosione. Un modo per ricostruire la strage. Un filmato che è agli atti del processo. Gli esperti artificieri hanno anche ricostruito l'esplosione di via D'Amelio, in cui è stato ucciso Paolo Borsellino e i poliziotti Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina, ripreso dalla telecamere della scientifica. Si vede una Fiat 126 imbottita di esplosivo che poi viene atta brillare. Il 24 aprile 1992 cade il settimo governo di Giulio Andreotti. Dopo la strage di Capaci, con i boss di Cosa Nostra che fanno saltare un’autostrada per uccidere Giovanni Falcone, il giudice anti-mafia che solo da morto diventa un eroe per tutti, il nuovo clima politico fa salire al Quirinale un notabile democristiano con fama di galantuomo, Oscar Luigi Scalfaro. A fine giugno diventa presidente del consiglio Giuliano Amato, alla testa di un quadripartito d’emergenza Dc-Psi-Psdi-Pli. A Milano, l’inchiesta continua, con un effetto-valanga che caratterizzerà i primi tre anni di Mani Pulite: ai nuovi arresti seguono ampie confessioni, che portano ad aprire altre indagini. Sempre in tempi strettissimi. La prima svolta è del 22 aprile 1992, quando vengono arrestati con un unico blitz otto imprenditori milanesi. Sono nomi di livello locale: il più noto è Clemente Rovati, che con la sua Edilmediolanum guida, tra l'altro, la cordata dei costruttori del terzo anello dello stadio di San Siro (costato 180 miliardi di lire, contro i 64 preventivati nel 1987). Per il mondo degli affari quella retata è uno choc. Gli arrestati escono da San Vittore dopo aver confessato uno dopo l'altro. E da allora decine di imprenditori addirittura anticipano gli sviluppi dell'inchiesta presentandosi “spontaneamente” in procura. Questo fenomeno delle “code per confessare” prosegue per tutto il 1993 e si interrompe definitivamente nel 1994. Una simile massa di ammissioni non si è mai ripetuta nella storia d'Italia, né prima né dopo. Nel 1992, quando guadagnò l’uscita dal carcere di San Vittore, uno dei primi inquisiti, il manager dell’Iri-Italstat Mario Alberto Zamorani, azzardò una previsione che allora sembrava catastrofica: «Ne arresteranno mille». Col senno di poi, era stato ottimista. La Procura di Milano ha aggiornato le statistiche dei processi di Mani Pulite per dieci anni, fino al 15 gennaio 2002, perché poi è caduto tutto in prescrizione. Il bilancio finale è di 1.233 condanne per corruzione, concussione, finanziamento illecito dei partiti e relativi falsi in bilancio aziendali. Al conto vanno aggiunte altre 448 sentenze di “estinzione del reato”, che non sono condanne ma nemmeno assoluzioni: i giudici spiegano che l'imputato è colpevole, ma non può essere punito per amnistia, morte dell'accusato e soprattutto per prescrizione (ben 423 casi), cioè per scadenza dei termini massimi di punibilità, che in Italia sono straordinariamente brevi. Correva l'anno 1992. Il 17 febbraio il pubblico ministero Antonio Di Pietro chiede e ottiene dal Gip Italo Ghitti un ordine di cattura per l'ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e membro di primo piano del PSI milanese. È l'avvio di Tangentopoli. Oggi, 23 anni dopo l'arresto di Mario Chiesa, il giudizio positivo o negativo su Mani Pulite continua a dividere gli italiani, come una faglia trasversale. Di fronte a un'inchiesta che in soli trenta mesi è sfociata in più di 1600 verdetti di colpevolezza a carico di politici, funzionari e imprenditori di alto o altissimo livello, una cosa è certa: Tangentopoli non è stata un'invenzione dei magistrati. E tante nuove indagini, dal Mose di Venezia all' Expo di Milano, confermano che la corruzione in Italia resta un problema enorme.

L’inchiesta «Mani Pulite» a cura di Massimo Parrini su "Il Corriere della Sera".

Lunedì 17 febbraio 1992. Tangenti, arrestato presidente Pio Albergo Trivulzio. Mario Chiesa, 47 anni, presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio, è arrestato in flagrante a Milano mentre riceve una tangente di sette milioni di lire.

Mercoledì 22 aprile 1992. Milano, otto arresti per tangenti. A Milano otto imprenditori sono arrestati per corruzione, concussione e abuso d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta Mani pulite. Gli ordini di cattura nei confronti di Gabriele Mazzalveri, Franco Uboldi, Clemente Rovati, Giovanni Zaro, Claudio Maldifassi, Giovanni Pozzi, Bruno Greco e Fabio Lasagni sono stati richiesti dal pubblico ministero Antonio Di Pietro, titolare dell’inchiesta nata con l’arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa (17 febbraio). Gli arrestati devono rispondere di affari conclusi dal 1979 non con il Pio Albergo Trivulzio ma con altri enti: l’Ipab, l’ente comunale di assistenza, gli ospedali Fatebenefratelli, Gaetano Pini, Paolo Pini e Bassini.

Sabato 2 maggio 1992. Milano, avvisi di garanzia a Tognoli e Pillitteri. Avvisi di garanzia per due ex sindaci di Milano adesso deputati del Psi: Carlo Tognoli (ricettazione) e Paolo Pillitteri (ricettazione e corruzione). A tirarli in ballo è stato Mario Chiesa, l’ex presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio dal cui arresto (17 febbraio) è nato il caso che si sta trasformando in uno scandalo nazionale. 

Mercoledì 6 maggio 1992. Tangenti, arrestato Lodigiani. Mario Lodigiani, vicepresidente e legale rappresentante della Lodigiani Spa, la quarta impresa edile d’Italia, è arrestato con l’accusa di aver pagato una tangente di tre miliardi per conto di un consorzio di imprese che si sono assicurate l’appalto per il quadruplicamento del tratto Milano-Saronno delle Ferrovie Nord. Finisce in carcere anche Roberto Schellino, ex direttore tecnico della Cogefar-Impresit (impresa leader del settore, passata dal gruppo Romagnoli alla Fiat), accusato di aver pagato tangenti per la costruzione di un padiglione dell’ospedale di Bergamo. Finora sono 20 le persone finite in carcere nell’ambito dell’indagine Mani pulite: 14 imprenditori, 4 politici, 2 funzionari pubblici.

Venerdì 8 maggio 1992. Tangenti, confessa Rezzonico (Dc). Augusto Rezzonico, ex senatore democristiano ed ex presidente delle Ferrovie Nord, confessa di avere intascato una tangente miliardaria e di averla poi girata a Gianstefano Frigerio, segretario regionale della Dc: «Erano soldi per il partito». 

Martedì 12 maggio 1992. Avviso di garanzia per Citaristi, tesoriere Dc. Il senatore Severino Citaristi, tesoriere nazionale della Dc, è raggiunto da un avviso di garanzia per illecito finanziamento del partito: accusato di aver incassato 700 milioni da un imprenditore, è il terzo parlamentare a finire sotto inchiesta dopo i socialisti Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri.

Mercoledì 13 maggio 1992. Avviso di garanzia per Del Pennino (Pri). Antonio Del Pennino, capogruppo del Pri alla Camera e leader indiscusso dei repubblicani milanesi, è raggiunto da un avviso di garanzia (si parla di una tangente di un miliardo).

Sabato 23 maggio 1992. Suicida funzionario Usl: tangenti o falsa laurea? A Milano muore suicida (gas di scarico dell’auto) Franco Franchi, 54 anni, funzionario Usl e braccio destro di Antonio Sportelli, amministratore straordinario della USL 75/1 arrestato per aver intascato una bustarella sugli appalti all’ospedale San Paolo. Oltre al timore di essere coinvolto nell’indagine Mani pulite, sembra fosse turbato dalla scoperta (denuncia con lettera anonima) che non aveva mai preso la laurea in Giurisprudenza inserita nel curriculum. «Sono schiacciato dall’infamia, non posso resistere» ha scritto nel messaggio lasciato alla moglie.

Mercoledì 27 maggio 1992. Avviso di garanzia per Cervetti (Pds). Gianni Cervetti, deputato del Pds, riceve un avviso di garanzia nel quadro dell’inchiesta sui lavori della metropolitana; Renato Massari, deputato del Psi, riceve un avviso per le tangenti delle Ferrovie Nord e dell’Atm. A metterli nei guai sono stati il pidiessino Luigi Carnevale e il socialista Sergio Radaelli: il primo, ex vicepresidente della Metropolitana Milanese, accusa Cervetti di aver incassato a nome del partito 700 milioni di mazzette; il secondo dice di aver gestito in Svizzera svariati miliardi del Psi e attacca Massari, leader dei transfughi socialdemocratici passati al Garofano. Lo sviluppo delle indagini ha intanto portato alla formazione di un “pool Mani Pulite” diretto dal procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli, coordinato da Gerardo D’Ambrosio e composto, tra gli altri, da Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo.

Mercoledì 17 giugno 1992. Suicida il socialista Amorese. Renato Amorese, 49 anni, segretario del Psi di Lodi interrogato come testimone nelle indagini sullo scandalo delle tangenti, si toglie la vita sparandosi alla testa con una Beretta calibro 9 nell’auto parcheggiata in una stradina di campagna a Lodi Vecchio. Ascoltato il 15 giugno, i magistrati non avevano preso nei suoi confronti alcun provvedimento. Nell’ultima telefonata a un amico si è sfogato, «mi sputtanano, mi sputtanano», alla moglie lascia un biglietto con scritto «Sono un fallito, è per quello che già sai. Ti chiedo perdono». Su un altro foglio, indirizzato al magistrato Antonio Di Pietro, ha scritto: «Sono un uomo d’onore. Le ho detto la verità. Le farò avere il materiale che mi ha chiesto».

Venerdì 3 luglio 1992. Tangentopoli, Craxi alla Camera: «Tutti colpevoli». Intervenendo nel dibattito della Camera sulla fiducia al governo Amato, Bettino Craxi, segretario del Psi, sostiene che tutti i partiti che hanno un apparato, anche piccolo, «hanno fatto ricorso all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare o illegale» e che se questa materia deve essere considerata come un crimine «allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale». Conclusione: «Nessun partito è in grado di scagliare la prima pietra».

Giovedì 9 luglio 1992. Autorizzazione a procedere per Pillitteri & C. La Camera concede l’autorizzazione a procedere nei confronti di Carlo Tognoli, Paolo Pillitteri e Renato Massari (Psi), Antonio Del Pennino (Pri) e Gianni Cervetti (Pds), inquisiti per la vicenda delle tangenti a Milano. Non è accolta la richiesta di concedere l’autorizzazione per fatti nuovi che possono emergere nel corso del procedimento. Analoga decisione è presa sulla possibilità di sottoporre gli inquisiti ad arresti e perquisizioni. A favore delle autorizzazioni si esprimono tutti i gruppi parlamentari. Votate a scrutinio segreto, le domande di autorizzazione sono accolte con un grande margine di voti (più di quattrocento sì per tutti e cinque i deputati). La richiesta di arresto è respinta a scrutinio palese, 424 contro 113, sconfitti Lega, Msi-Dn, Rete e parte di Rifondazione Comunista; l’estensione dell’autorizzazione a procedere a fatti nuovi è respinta (395 contro 144) con gli stessi schieramenti.

Martedì 14 luglio 1992. Avviso di garanzia per De Michelis. Tirato in ballo nella vicenda della “bretella d’oro” dell’aeroporto di Venezia - Tessera, Gianni De Michelis, leader del Psi veneto, riceve dalla procura un avviso di garanzia per concorso in corruzione. L’ex ministro si dichiara «colpito e amareggiato per l’utilizzazione in sede giudiziaria di costruzioni sociopolitiche fantasiose». A Milano nuovi sviluppi nell’inchiesta di Antonio Di Pietro: arrestato Paolo Scaroni, amministratore delegato della Techint, avviso di garanzia a Luca Beltrami Gadola, imprenditore dissidente del Psi. Parte la richiesta di autorizzazione a procedere contro il senatore Severino Citaristi, segretario amministrativo della Dc.

Giovedì 16 luglio 1992. Arrestato Ligresti. Il costruttore Salvatore Ligresti è arrestato con l’accusa di concorso in corruzione aggravata su richiesta dei giudici milanesi: avrebbe pagato tangenti per la metropolitana e per le Ferrovie Nord. È l’arresto più clamoroso dall’inizio dell’inchiesta.

Martedì 21 luglio 1992. Tangenti, suicida messo comunale. Giuseppe Rosato, 39 anni, dipendente comunale sospettato di aver fatto il cassiere a nome di due ex amministratori del Psi inquisiti, si impicca all’ospedale di Novara, dove era ricoverato per una crisi depressiva.

Domenica 26 luglio 1992. Tangenti, suicida l’imprenditore Majocchi. Mario Majocchi, 56 anni, vicepresidente dell’Ance, l’associazione nazionale dei costruttori edili, e amministratore delegato della Nessi e Majocchi di Como, una delle maggiori imprese del Comasco, si uccide nella sua villa in Brianza con un colpo di pistola alla tempia. Il 24 luglio era stato interrogato dal pm Piercamillo Davigo in merito a una tangente pagata per i lavori sull’autostrada Milano-Serravalle. Non ha lasciato biglietti.

Mercoledì 2 settembre 1992. Suicida l’onorevole Moroni. Sergio Moroni, 45 anni, deputato socialista, si suicida a Brescia sparandosi in bocca con un fucile nella cantina del condominio dove abitava con la moglie e la figlia: aveva ricevuto due avvisi di garanzia nell’ambito dell’inchiesta per le tangenti, uno per il troncone che riguarda le discariche in Lombardia e sulle attività delle Ferrovie Nord, l’altro per i lavori all’ospedale di Lecco. Dal 1980 al 1987 era stato consigliere regionale ricoprendo gli incarichi di assessore al Lavoro, alla Sanità, ai Trasporti. Alle politiche del giugno 1987 era stato eletto alla Camera, poi era entrato a far parte della direzione nazionale del Psi (responsabile Sanità). Già segretario regionale del Psi in Lombardia, nel 1991 aveva assunto la responsabilità nazionale dell’ufficio Regioni. Ammalato da qualche mese (tumore al rene), era stato ricoverato per tutto luglio all’ospedale San Raffaele di Milano. Ultimamente era stato in Svizzera: doveva sottoporsi a un intervento chirurgico, non ancora eseguito perché secondo i medici era troppo debilitato fisicamente. Non ha lasciato alcun biglietto.

Giovedì 15 ottobre 1992. Avviso di garanzia per Balzamo (Psi). Vincenzo Balzamo, deputato e segretario amministrativo del Psi, riceve un avviso di garanzia per corruzione e violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti.

Lunedì 26 ottobre 1992. Balzamo colpito da infarto. Vincenzo Balzamo, deputato e segretario amministrativo del Psi che il 15 ottobre ha ricevuto un avviso di garanzia per illecito finanziamento del partito e concorso in corruzione, è colpito da infarto.

Lunedì 2 novembre 1992. Muore Balzamo, tesoriere del Psi. Vincenzo Balzamo, deputato e segretario amministrativo del Psi che il 15 ottobre ha ricevuto un avviso di garanzia per illecito finanziamento del partito e concorso in corruzione, muore per le conseguenze di un infarto (26 ottobre). Nato nel 1929, da giovane era stato “frontista”, accanito sostenitore dell’alleanza col Pci, dopo il ’63 era diventato un riformista, quindi si era legato a Bettino Craxi diventando tra l’altro ministro dei Trasporti e della Ricerca scientifica. Morente ha mormorato: «La mia coscienza è a posto».

Martedì 15 dicembre 1992. Avviso di garanzia per Craxi. All’hotel Raphael di Roma Bettino Craxi, segretario del Psi ed ex presidente del Consiglio, riceve dai giudici di Milano un avviso di garanzia con l’accusa di concorso in corruzione, ricettazione e violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti: in 18 pagine Antonio Di Pietro e i suoi colleghi gli contestano 41 episodi di malaffare calcolando bustarelle per 36 miliardi di lire.

Venerdì 8 gennaio 1993. Secondo avviso di garanzia per Craxi. Bettino Craxi, segretario del partito socialista ed ex presidente del Consiglio, riceve dai giudici milanesi un secondo avviso di garanzia. Accusato di corruzione e violazione del finanziamento ai partiti, deve rispondere di altre due tangenti: trecento milioni di lire per i lavori di riconversione della centrale nucleare di Montalto di Castro pagati a nome di una cordata di imprese da Enzo Papi, ex amministratore delegato della Cogefar Impresit; duecentottanta milioni sborsati da un altro gruppo di aziende per gli interventi in Valtellina dopo la frana dell’87.

Domenica 24 gennaio 1993. Arrestato il latitante Manzi. Giovanni Manzi, dirigente socialista ed ex presidente della società aeroportuale di Milano, latitante dal 10 giugno 1992, è arrestato dopo essere stato espulso da Santo Domingo.

Venerdì 29 gennaio 1993. Terzo avviso di garanzia per Craxi. In quella che secondo i magistrati è «la giornata più importante dell’inchiesta Mani pulite dall’arresto di Mario Chiesa», Bettino Craxi riceve il suo terzo avviso di garanzia, in cui gli vengono contestati otto capi d’accusa: quattro concorsi in concussione, una corruzione, tre violazioni della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Avviso di garanzia anche per Gianni De Michelis, per la prima volta accusato da Milano: concussione e finanziamento illecito insieme al deputato socialista Paris Dell’Unto e al senatore dc Giorgio Moschetti; concussione per Severino Citaristi (dc, sesto avviso), finanziamenti illeciti per Bruno Tabacci (Dc). Vengono inoltre eseguiti sette arresti: il più illustre fra gli ammanettati è Ugo Finetti, socialista, ex vicepresidente della Regione Lombardia, accusato di concussione e corruzione. A Roma viene perquisita la sede del Psi. 

Mercoledì 3 febbraio 1993. Craxi, avviso di garanzia n° 4. Bettino Craxi, segretario del Psi ed ex presidente del Consiglio, riceve il quarto avviso di garanzia: stavolta l’atto di accusa si basa sulle dichiarazioni di Valerio Bitetto, ex consigliere d’amministrazione dell’Enel in quota socialista che ha raccontato i meccanismi dei pagamenti delle tangenti spiegando che alcune mazzette (7 miliardi) destinate al Psi venivano versate su un conto a Singapore. Replica di Craxi: «Bitetto è un cretino». Nuovi avvisi di garanzia anche per i socialisti Paolo Pillitteri e Giorgio Gangi (ex segretario amministrativo) e per il cassiere dc Severino Citaristi. Antonio Savoia, 51 anni, capogruppo del Pri alla Regione Lombardia, tenta di togliersi la vita con una miscela di alcol e barbiturici: lo trovano in coma nella sua macchina in una stradina nell’hinterland milanese, non è in pericolo di vita.

Giovedì 4 febbraio 1993. Polemiche per blitz Gdf a Montecitorio. La richiesta della Guardia di finanza (del sostituto procuratore della Repubblica di Milano Gherardo Colombo) alla Camera di acquisire copie dei bilanci del Psi suscita polemiche: il fallito blitz aveva per obiettivo il reperimento di carte ufficiali sui bilanci socialisti dal 1985 al ’91, materiale che, almeno fino al ’90, chiunque può ottenere consultando gli archivi di Montecitorio.

Domenica 7 febbraio 1993. Si costituisce Larini. Silvano Larini, 57 anni, latitante dal 18 maggio 1992 (“Il latitante d’oro di Tangentopoli”), titolare del “conto Protezione” appartenente al Psi sul quale la magistratura svizzera ha accolto il 22 gennaio la richiesta di rogatoria dei giudici milanesi, si costituisce. È praticamente certo che il suo arrivo nasce da una “trattativa” fra giudici e avvocato, tutto lascia supporre che sia pronto a parlare: nel primo avviso di garanzia spedito a Bettino Craxi, la metà dei reati contestati al segretario Psi erano considerati “in concorso” con Larini e le due posizioni sono intimamente legate.

Mercoledì 10 febbraio 1993. Avviso di garanzia al ministro Martelli. Tirato in ballo da Silvano Larini, titolare del “conto Protezione” su cui Roberto Calvi versò sette milioni di dollari, il socialista Claudio Martelli riceve un avviso di garanzia per concorso in bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano (reato di cui si parla anche nella sesta informazione giudiziaria a Craxi) e si dimette da ministro di Grazia e giustizia (era il più forte candidato alla successione dello stesso Craxi come segretario del Psi).

Giovedì 11 febbraio 1993. Craxi si dimette dalla guida del Psi. Bettino Craxi si dimette da segretario del Psi, partito che guidava dal 15 luglio 1976. Giovanni Conso è nominato ministro di Grazia e giustizia (al posto del dimissionario Claudio Martelli).

Sabato 13 febbraio 1993. Avviso di garanzia per Cagliari (Eni). Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni, riceve un avviso di garanzia per lo scandalo dell’Enimont. L’accusa è “peculato”, i 2.805 miliardi di lire versati per riacquistare le azioni della Montedison paiono ai magistrati una cifra eccessiva (1.000 miliardi di troppo). Avviso di garanzia anche per Sergio Castellari, ex direttore generale del ministero delle Partecipazioni Statali.

Mercoledì 17 febbraio 1993. Arrestata la segretaria di Craxi. Enza Tomaselli, segretaria di Bettino Craxi, è arrestata per concorso in corruzione aggravata: l’ha inguaiata Silvano Larini, ex latitante adesso collaboratore dei giudici che ha raccontato di aver portato «nella stanza accanto a quella di Craxi, in piazza Duomo 19, tangenti per sette-otto miliardi». Interrogata dai giudici, la Tomaselli sostiene che a ritirare quei soldi fu il segretario amministrativo del Psi, Vincenzo Balzamo, morto d’infarto il 2 novembre 1992. L’ex ministro Gianni De Michelis riceve due avvisi di garanzia, uno da Milano e uno da Roma. Craxi dice di aver appreso dai giornali l’invio dell’avviso n° 7.

Venerdì 19 febbraio 1993. Dimissioni per De Lorenzo e Goria, arresto per Carra. Francesco De Lorenzo (Pli) si dimette da ministro della Sanità in seguito all’arresto del padre Ferruccio, 89 anni, presidente dell’Enpam, ai domiciliari con l’accusa di aver intascato una tangente di un miliardo e settecento milioni; Giovanni Goria (Dc) si dimette da ministro delle Finanze per le voci sul suo coinvolgimento nello scandalo della Cassa di risparmio di Asti («accuse ingiuste, non fondate e neppure argomentate»); Enzo Carra, già portavoce dell’ex segretario della Dc Arnaldo Forlani, è arrestato dai giudici del pool Mani pulite con l’accusa di «aver reso false dichiarazioni durante l’interrogatorio del pubblico ministero»: convocato come testimone dai giudici Di Pietro e Davigo, si è trasformato in detenuto al termine di un interrogatorio durato oltre cinque ore durante le quali i due inquirenti hanno cercato invano di sapere da lui i nomi dei destinatari delle tangenti Enimont.

Lunedì 22 febbraio 1993. Arrestati Mattioli e Mosconi (Fiat). Francesco Paolo Mattioli, responsabile finanziario della Fiat, e Antonio Mosconi, amministratore delegato della Toro Assicurazioni, sono arrestati su richiesta dei giudici di Milano: l’accusa è di concorso in corruzione e violazione della legge sul finanziamento ai partiti. A tirarli in ballo è stato Maurizio Prada, cassiere milanese delle mazzette dc, il filone è quello delle tangenti sul sistema dei trasporti. In un comunicato la Fiat parla di «vivo stupore» per gli arresti ed esprime a Mosconi e Mattioli «piena solidarietà» ribadendo «l’assoluta convinzione che i due dirigenti dimostreranno al più presto la completa estraneità a ogni circostanza venga loro addebitata».

Giovedì 25 febbraio 1993. Trovato il cadavere di Castellari. Il cadavere di Sergio Castellari, ex direttore generale del ministero delle Partecipazioni statali coinvolto nelle indagini sulla maxitangente Enimont, è trovato da due agenti a cavallo su una radura verde in località Corvino, nella campagna tra Sacrofano e Formello. Scomparso il 17 febbraio, Castellari è morto per un colpo di pistola, la testa morsa dagli animali rende difficile l’individuazione del foro del proiettile. Resta da stabilire se si sia trattato di suicidio o omicidio. Orazio Savia, il giudice che lo accusava, dichiara sconvolto: «Non farò più il pubblico ministero. La giustizia è così: se si imbatte in un soggetto debole, lo stritola. Lo riduce e ti riduce, in qualche occasione, in condizioni drammatiche...». Avviso per La Malfa, arresto per Pesenti. Giorgio La Malfa riceve un avviso di garanzia per violazione della legge sul finanziamento dei partiti (un contributo di 50 milioni per i manifesti elettorali versato dal finanziere Gianni Varasi) e si dimette in lacrime da segretario del Pri. L’ingegner Giampiero Pesenti, uno dei big della finanza italiana, è arrestato per le mazzette promesse nel 1983 dalla Franco Tosi a Dc e Psi (7 miliardi a testa, respinge le accuse).

Lunedì 1 marzo 1993. Tangentopoli, arrestato Greganti (Pds). Primo Greganti, 49 anni, ex amministratore del Pci di Torino adesso iscritto al Pds, è arrestato in base alle dichiarazioni del manager socialista della Ferruzzi Lorenzo Panzavolta, che lo accusa di avere intascato una tangente di 621 milioni per conto del Pci. I giudici di Bologna fanno arrestare Michele De Mita, fratello di Ciriaco, per le vicende legate alla ricostruzione in Irpinia.

Martedì 2 marzo 1993. De Mita si dimette. Dopo che il fratello Michele è stato arrestato per le vicende legate alla ricostruzione in Irpinia, Ciriaco De Mita (Dc) si dimette dalla presidenza della commissione bicamerale per le riforme istituzionali (al suo posto Nilde Jotti, Pds).

Venerdì 5 marzo 1993. Tangentopoli, cdm approva decreto Conso. Il consiglio dei ministri approva un decreto che depenalizza le violazioni della legge sul finanziamento pubblico dei partiti, sottrae ai magistrati le inchieste in materia e istituisce un’autorità di vigilanza. Contro il decreto elaborato dal ministro Giovanni Conso, che appare all’opinione pubblica un colpo di spugna, si svolgono manifestazioni spontanee e si pronunciano i giudici di Milano. Scandalo per le manette al Dc Carra. A Milano Enzo Carra, già portavoce dell’ex segretario della Dc Arnaldo Forlani, sotto processo con l’accusa di «aver reso false dichiarazioni durante l’interrogatorio del pubblico ministero», è condotto nell’aula del tribunale in ferri e catene suscitando l’indignazione di gran parte del mondo politico. Forlani: «Se la carcerazione preventiva non è applicata correttamente, può essere come la tortura: i giudici dicono che con questo metodo hanno ottenuto dei risultati, ma anche la Gestapo li otteneva in questo modo...». Achille Occhetto, segretario del Pds: «La scena vista in tv mi ha profondamente turbato».

Lunedì 8 marzo 1993. Tangentopoli, Scalfaro non firma il decreto Conso. Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro rifiuta di controfirmare il decreto Conso: approvato il 5 marzo dal Consiglio dei ministri, prevedeva la depenalizzazione delle violazioni della legge sul finanziamento pubblico dei partiti, la sottrazione ai magistrati delle inchieste in materia, l’istituzione di un’autorità di vigilanza.

Martedì 9 marzo 1993. Arrestato Cagliari (Eni). Viene arrestato Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni: l’accusa del pool Mani pulite è corruzione aggravata, 4 miliardi di tangenti pagate dal Nuovo Pignone (Eni) su richiesta dei socialisti Valerio Bitetto e Bartolomeo De Toma per la fornitura di turbine a gas destinate alle centrali Enel. Con Cagliari, che si dimette dall’incarico, è arrestato il presidente del Nuovo Pignone Franco Ciatti. Craxi, autorizzazione a procedere. A Roma la Giunta della Camera concede l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi per tutti i reati contestati: corruzione, violazione della legge sul finanziamento dei partiti, ricettazione. Saranno possibili anche perquisizioni personali e domiciliari. Per il definitivo via libera ai giudici servirà però un altro voto (scrutinio segreto) in aula.

Lunedì 15 marzo 1993. Avviso di garanzia per Altissimo (Pli). Renato Altissimo riceve un avviso di garanzia e si dimette da segretario del Pli: l’“informazione” si riferisce a una mazzetta da 50 milioni di lire che l’armatore Giovanni Barbaro gli avrebbe versato come illecito contributo al partito.

Martedì 30 marzo 1993. Avviso e dimissioni per il ministro Reviglio. Il ministro delle Finanze Franco Reviglio si dimette dopo aver ricevuto dal giudice Antonio Di Pietro, al quale si è presentato spontaneamente, un avviso di garanzia per ricettazione: secondo la procura milanese, durante il periodo in cui era presidente dell’Eni avrebbe accettato sei miliardi destinati al Psi di cui conosceva l’illecita provenienza.

Lunedì 5 aprile 1993

Tangentopoli, avvisi per Forlani e Andreotti. I democristiani Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani sono raggiunti da avvisi di garanzia per violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti: secondo la Procura di Milano il primo avrebbe chiesto all’imprenditore Giuseppe Ciarrapico 250 milioni con destinazione Roberto Buzio, ex segretario di Giuseppe Saragat e tesoriere occulto del Psdi; il provvedimento contro Forlani è stato provocato dalle dichiarazioni dell’ex direttore generale dell’Anas Antonio Crespo, che avrebbe confessato una tangente da un miliardo e 200 milioni “girata” a un uomo di fiducia dell’ex segretario Dc.

Lunedì 12 aprile 1993. Tangentopoli, suicidio a Pescara. Valerio Cirillo, 43 anni, consigliere comunale democristiano di Pescara, si suicida gettandosi dal sesto piano. Indagato e poi prosciolto per un appalto che ha mandato in carcere quasi tutto il comitato di gestione della Usl di Pescara di cui faceva parte, lascia un biglietto con scritto: «Sono innocente, non sono un corrotto».

Venerdì 23 aprile 1993. Romiti si schiera con il pool di Mani pulite. Dopo che l’Espresso ha rivelato i colloqui di Cesare Romiti con i magistrati del pool Mani pulite (aperta un’indagine sulla fuga di notizie), l’amministratore delegato della Fiat scrive una lettera al Corriere della Sera per chiarire che da qualche settimana «si sono cominciate a imboccare le vie d’uscita» sulla crisi che sta attraversando il Paese, aggiungendo che dopo un periodo di inerzia di tutte le istituzioni «sono apparse di grande rilevanza le iniziative sviluppate dalla magistratura negli ultimi mesi», «strumento di accelerazione del processo di cambiamento largamente desiderato». Conclusione: «È apparso evidente che il reale interesse di tutti quegli imprenditori che fanno veramente industria sia quello di agevolare il più possibile la piena ricostruzione di quanto avvenuto».

Sabato 24 aprile 1993. Tangentopoli veneta, suicida ex cassiere Dc. Gino Mazzolaio, 68 anni, ex segretario amministrativo della Dc di Rovigo, si suicida gettandosi nell’Adige poco lontano dalla chiesa di Boara Pisani (Padova). Coinvolto in un’inchiesta su alcuni episodi di corruzione, concussione, turbativa d’asta e violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti (appalti per la costruzione di ospedali in varie località del Veneto), il 16 marzo era stato raggiunto da un ordine di custodia cautelare firmato dal giudice istruttore del tribunale di Venezia Carlo Mastelloni su richiesta del sostituto procuratore Carlo Nordio. Lascia moglie e due figli, cui dedica un biglietto: «Carissimi, non so più resistere a quanto sta succedendo pur essendo completamente innocente. Vi chiedo scusa per il gesto che sto per compiere, pregherò per voi da lassù».

Giovedì 29 aprile 1993. La Camera salva Craxi. La Camera (scrutinio segreto) vota quattro “no” alle richieste di autorizzazione a procedere avanzate dalla procura di Milano nei confronti dell’ex segretario del Psi Bettino Craxi: il primo “no” implica per i magistrati l’impossibilità di ordinare perquisizioni a Roma anche domiciliari e cioè di mettere le mani su registri, estratti conto, bilanci, contratti e così via (316 no, 245 sì); il secondo “no” riguarda i reati di corruzione continuata e aggravata commessi a Milano (291-273); il terzo “no” si riferisce alla ricettazione – consumata a Roma e a Milano – milioni e milioni che sarebbero finiti nelle tasche dell’ex segretario del Psi e dei quali era nota la provenienza illecita (307-253); il quarto “no” riguarda un episodio di corruzione avvenuto in un luogo imprecisato e a una data incerta (304-257). Via libera alle indagini per un episodio di presunta corruzione avvenuto a Roma (282-278) e per la ripetuta violazione della legge sul finanziamento dei partiti, ampiamente ammessa da Craxi (314-244). Di fatto, Craxi viene sottratto alle richieste inquisitorie del pool di Mani pulite per la stragrande maggioranza degli episodi criminosi considerati e contestati. In diverse città si svolgono spontanee manifestazioni di protesta. I ministri del Pds (Augusto Barbera, Vincenzo Visco, Luigi Berlinguer) e il verde Francesco Rutelli si dimettono dal governo varato il giorno prima da Carlo Azeglio Ciampi.

Venerdì 30 aprile 1993. Hotel Raphael, monetine su Craxi. A 24 ore dal “no” della Camera all’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi, l’ex segretario del Psi è fatto bersaglio di una piogga di monetine lanciate dai manifestanti che lo aspettano fuori dall’hotel Raphael (Roma).

Mercoledì 5 maggio 1993. Autorizzazione a procedere, il voto diventa palese. Dopo le polemiche per i quattro “no” a scrutinio segreto che il 29 aprile hanno sottratto Bettino Craxi alle inchieste del pool Mani pulite, la giunta per il regolamento della Camera introduce il voto palese nell’esame delle autorizzazioni a procedere.

Martedì 11 maggio 1993. Arrestato Pollini, ex tesoriere del Pci. I carabinieri arrestano Renato Pollini, ex senatore e fino al 1989 segretario amministrativo del Pci, e Fausto Bartolini, ex direttore del Conaco (il consorzio delle cooperative rosse di costruzioni), accusati di corruzione con l’aggravante di aver violato la legge sul finanziamento dei partiti. I provvedimenti riguardano le tangenti sulle forniture alle Ferrovie tra l’86 e l’88, un sistema descritto da Giulio Caporali, ex consigliere pci delle Fs condannato per le “lenzuola d’oro”, che ha parlato di contributi pagati dalle Coop e imprese private come Sasib, Ansaldo e Socimi (che avrebbe versato centinaia di milioni su conti esteri del Pci). La segreteria del Pds respinge ogni coinvolgimento.

Mercoledì 12 maggio 1993. Arrestato Nobili, presidente dell’Iri. Franco Nobili, presidente dell’Iri, è arrestato a Roma per corruzione e violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti: contro il numero uno della più grande holding pubblica i giudici di Mani pulite hanno emesso un mandato con nove pagine di contestazioni per il periodo 1978-1990: tangenti pagate ai partiti per appalti delle centrali Enel di Brindisi e Montalto.

Mercoledì 19 maggio 1993. Arrestato Burlando, sindaco di Genova (Pds). Il sindaco di Genova Claudio Burlando è arrestato con l’accusa di truffa e abuso di atti d’ufficio: giovane e promettente leader del Pds, è indagato nell’ambito dell’inchiesta per l’opera colombiana del sottopasso di Caricamento, nella zona dell’Expo. Finiscono in carcere anche altre sette persone, tra queste il costruttore edile Emanuele Romanengo, presidente della Sci e del consorzio Irg2, che ha realizzato l’opera. Burlando è raggiunto anche da un secondo ordine di custodia cautelare in relazione a un’altra inchiesta sulla mancata realizzazione di un megaparcheggio in centro.

Domenica 4 luglio 1993. Prodi interrogato da Di Pietro. Il presidente dell’Iri Romano Prodi viene interrogato a Milano da Antonio Di Pietro sui rapporti tra l’azienda e i partiti. Ai giornalisti spiega: «Mi sembra ovvio che chi è stato presidente dell’Iri per sette anni venga sentito in qualità di persona informata sui fatti». Prodi, già in carica dal 1982 al 1989, è tornato in carica dopo l’arresto del suo successore Franco Nobili (12 maggio). Dalla porta chiusa i giornalisti sentono Di Pietro che urla «...soldi alla Dc....».

Martedì 13 luglio 1993. Arrestato Garofano (Montedison). Giuseppe Garofano, il “Cardinale” della finanza, ex presidente della Montedison ricercato da sette mesi per lo scandalo delle tangenti, è arrestato a Ginevra. Accusato di aver dato 250 milioni alla Dc, gli avvocati dicono che è pronto a parlare «di tutto e di tutti».

Martedì 20 luglio 1993. Cagliari suicida a San Vittore. Gabriele Cagliari, 67 anni, ex presidente dell’Eni in carcere dal 9 marzo (133 giorni), si suicida a San Vittore, soffocato da un sacchetto di plastica. Il 3 luglio aveva spedito alla moglie Bruna una lettera arrivata il 5 con l’avvertenza «Da aprire dopo il mio ritorno a casa»: vi annunciava l’«atto di ribellione» che si apprestava a compiere nel caso in cui i giudici avessero scelto di tenerlo in galera, un meccanismo studiato a suo dire «per annichilire e distruggere la persona, non per fare giustizia». Antonio Di Pietro commenta: «È una sconfitta». Saverio Borrelli: «Purtroppo la Giustizia nel suo cammino si imbatte in lutti e lascia lutti alle sue spalle... È un dolore soprattutto per chi guida il carro della giustizia». Il ministro Giovanni Conso: «Il governo mediterà attentamente sulla questione della custodia cautelare, per adottare iniziative anche alla luce di quanto risulterà nelle prossime ore dalle indagini avviate». Alla sede della Dc di piazza del Gesù (Roma) arriva un fax: «Democristiani, anche solo uno alla volta, ma suicidatevi tutti. Abbiamo tempo e pazienza. E voglia di godere».

Giovedì 22 luglio 1993. Garofano coinvolge Gardini. Giuseppe Garofano, ex presidente della Montedison arrestato a Ginevra il 13 luglio, dichiara che i fondi neri della società erano stati istituiti da Raul Gardini per pagare le tangenti dell’Enimont.

Venerdì 23 luglio 1993. Suicida Gardini, in carcere i vertici della Ferruzzi. Raul Gardini, 60 anni, ex leader del gruppo Ferruzzi, si suicida nella sua abitazione di Milano sparandosi un colpo alla tempia sul suo letto. Sul comodino lascia un biglietto di sette parole, l’ultimo messaggio alla moglie, ai figli e alla suocera: «Idina, Eleonora, Ivan, Maria Speranza, Isa. Grazie». Nessuno ha sentito la detonazione nell’appartamento del settecentesco Palazzo Belgioioso, in casa c’erano il figlio Ivan, 24 anni, e il maggiordomo, Franco Brunetti, che alle 8.45 ha aperto la porta della camera da letto scoprendo il cadavere. Nelle ore successive scattano gli arresti preannunciati dalle confessioni di Giuseppe Garofano, ex presidente della Montedison: finiscono in manette Carlo Sama, uomo forte del gruppo Ferruzzi dopo l’uscita di scena di Gardini; Vittorio Giuliani Ricci, amministratore della Fermar; Sergio Cusani, finanziere di area socialista; un quarto ordine di cattura riguarda Giuseppe Berlini, uomo della Ferruzzi in Svizzera, che si trova a Losanna; il quinto sarebbe stato proprio per Gardini. Accuse: falso in bilancio, corruzione, violazione del finanziamento ai partiti. In serata Sama e Cusani vengono portati nel carcere di Opera, Giuliani Ricci viene rimesso in libertà.

Martedì 24 agosto 1993. Avviso di garanzia per Stefanini, tesoriere Pds. Marcello Stefanini, tesoriere del Pds, riceve un avviso di garanzia dal magistrato Tiziana Parenti: riguarda la tangente pagata da un manager del gruppo Ferruzzi, Lorenzo Panzavolta, a Primo Greganti, ex funzionario comunista titolare del conto Gabbietta. Per i lavori alle centrali dell’Enel, Panzavolta versò a Greganti 621 milioni sul conto svizzero: secondo le confessioni del manager erano per il Pci, secondo quello che è ormai noto come “il compagno G” erano quattrini elargiti «per libera scelta» e il Pci non c’entrava nulla. Il senatore Stefanini si dichiara innocente, il Pds protesta per la violazione del segreto istruttorio.

Venerdì 3 settembre 1993. Enimont, arrestato il giudice Curtò. Diego Curtò, 68 anni, presidente del Tribunale di Milano, è il primo magistrato arrestato nell’ambito dell’inchiesta Mani pulite: è accusato di corruzione aggravata e abuso d’ufficio a fini patrimoniali, 400 mila franchi svizzeri che Vincenzo Palladino, ex custode delle azioni Enimont, ha raccontato di avergli pagato.

Domenica 19 settembre 1993. Greganti torna a San Vittore, perquisita sede Pds. Dopo ore di ricerche, Primo Greganti, l’ex funzionario comunista titolare del conto Gabbietta, si costituisce ai carabinieri di Castiglione Torinese («ho saputo che i giudici di Milano mi cercano») e viene ricondotto a San Vittore, dove era già stato recluso dall’1 marzo al 31 maggio, prima di essere scarcerato per decorrenza dei termini (la detenzione più discussa di tutta l’inchiesta). Stavolta lo accusano di avere intascato una tangente di 400 milioni, episodio confermato dall’imprenditore Domenico Gavio, costituitosi nelle stesse ore dopo una latitanza di oltre tredici mesi. A 24 ore dall’arresto di Marco Fredda, responsabile del patrimonio del Pds, per la prima volta i carabinieri perquisiscono la sede dell’ex Pci di via delle Botteghe Oscure.

Lunedì 20 settembre 1993. Tangenti Sanità, arrestato Poggiolini. Duilio Poggiolini, ex componente del Cip farmaci ed ex direttore generale del servizio farmaceutico del ministero della Sanità, ricercato dal 3 luglio nell’ambito dell’inchiesta sulle tangenti per il prezzo dei medicinali, è arrestato a Losanna in un’azione congiunta della polizia svizzera, italiana e dell’Interpol: era nascosto in una clinica privata, ricoverato sotto falso nome, su di lui pendono ben cinque ordinanze di custodia cautelare per vari episodi di corruzione. Nello scandalo è coinvolta anche la moglie Pierre De Maria.

Giovedì 30 settembre 1993. Trovato il “tesoro” di Poggiolini. Aperta la cassaforte di Duilio Poggiolini, ex componente del Cip farmaci ed ex direttore generale del servizio farmaceutico del ministero della Sanità arrestato in Svizzera il 20 settembre, il sostituto procuratore di Napoli Alfonso D’Avino scopre un tesoro stimato in 200-300 miliardi di lire fra conti bancari, monete, diamanti e altri preziosi: 6.000 sterline d’oro (alcune risalgono alla prima metà del XIX secolo, le più recenti valgono 130 mila lire l’una), centinaia e centinaia di Krugerrand sudafricani (560 mila lire l’una), 50 monete dell’antica Roma, alcune delle quali d’oro, recanti le insegne della gens Antonina e di quella Flavia; 20 diamanti da 1,2 carati ecc.

Giovedì 28 ottobre 1993. Via all’immunità parlamentare. Dopo un ping pong tra le due Camere andato avanti per un anno e mezzo con otto votazioni parlamentari, il Senato approva in via definitiva la riforma dell’immunità parlamentare: mediante la definitiva modifica dell’art. 68 della Costituzione, l’autorizzazione a procedere a carico dei parlamentari viene abolita per le indagini e prevista solo per le perquisizioni, le intercettazioni telefoniche e l’arresto.

Venerdì 29 ottobre 1993. Fondi neri Sisde, arrestato Malpica. Riccardo Malpica, il prefetto che fino al 1991 ha diretto il Sisde, è arrestato con l’accusa di concorso in peculato continuato e aggravato. Il gip Terranova firma anche altri cinque ordini di arresto destinati a funzionari del Sisde, fra questi Maurizio Broccoletti, ex direttore amministrativo che 24 ore prima si è presentato in procura con un carico di documenti (si parla di 49 miliardi finiti in società immobiliari e depositi all’estero).

Sabato 30 ottobre 1993. Ordine di custodia per De Benedetti. Carlo De Benedetti, presidente dell’Olivetti, riceve un ordine di custodia cautelare dai giudici di Roma che indagano sulle forniture al ministero delle Poste. Ai militari che lo cercano nelle abitazioni di Milano e Torino viene risposto che è all’estero per il week-end dei Santi e rientrerà il 2 novembre. Tramite i suoi legali, fa sapere che è pronto a collaborare con i magistrati.

Martedì 2 novembre 1993. Arresti domiciliari per De Benedetti. Carlo De Benedetti, presidente dell’Olivetti colpito da un ordine di custodia cautelare dei giudici di Roma che indagano sulle forniture al ministero delle Poste, si costituisce all’alba ai carabinieri di Milano. Condotto nel carcere romano di Regina Coeli, viene interrogato dal gip Augusta Iannini e dal pm Maria Cordova. A fine giornata gli vengono concessi gli arresti domiciliari.

Mercoledì 3 novembre 1993. Fondi neri Sisde, messaggio tv di Scalfaro. Alle 22.30 il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro respinge con un messaggio televisivo a reti unificate il tentativo di coinvolgerlo nello scandalo del Sisde: «A questo gioco al massacro io non ci sto». Secondo Antonio Galati, ex responsabile dei fondi riservati, dal 1982 al 1992 tutti i ministri dell’Interno hanno ricevuto 100 milioni al mese (unica eccezione Amintore Fanfani).

Martedì 7 dicembre 1993. Arrestato Patelli, cassiere della Lega. Alessandro Patelli, segretario organizzativo ed ex cassiere della Lega, viene arrestato per violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti, causa un contributo di 200 milioni ricevuto dal gruppo Ferruzzi alla vigilia delle elezioni 1992. Il mandato di cattura è stato firmato dal gip Italo Ghitti su richiesta di Antonio Di Pietro. Contro Patelli ci sono le dichiarazioni di Carlo Sama, ex amministratore del gruppo, e di Sergio Portesi, responsabile delle relazioni istituzionali della Ferruzzi.

Venerdì 17 dicembre 1993. Processo Cusani, in aula Craxi e Forlani. Al Palazzo di giustizia di Milano, durante il processo per le tangenti Ferruzzi Enimont (imputato Sergio Cusani), Antonio Di Pietro interroga Bettino Craxi, ex segretario del Psi che mostra lo smalto dei giorni migliori: «I 75 miliardi? Ho letto, ho letto. Ho letto quello che Sama dice, che ero molto carismatico. E a questo titolo, cioè come omaggio al mio carisma politico, mi avrebbero messo a disposizione 75 miliardi. Beh, mi si consenta l’ironia di dire che allora il mio carisma vale 150 volte quello di Martelli e 200 quello di La Malfa... E una maxipalla questa maxitangente». In breve: «Tutti sono colpevoli, tutti sapevano». L’ex segretario della Dc Arnaldo Forlani appare invece pallido e impacciato: la saliva condensata agli angoli della bocca, tenta di evitare risposte dirette dicendo che non sapeva, negando anche l’evidenza e scaricando tutto sull’ex tesoriere Severino Citaristi. I telegiornali mandano in onda la versione pressoché integrale degli interrogatori.

Mercoledì 13 luglio 1994. Varato il decreto Biondi. Il governo Berlusconi emana un decreto del ministro della Giustizia Alfredo Biondi che favorisce gli arresti domiciliari nella fase cautelare per la maggior parte dei crimini di corruzione. I critici lo chiamano spregiativamente “decreto salva-ladri”.

Martedì 19 luglio 1994. Ritirato il decreto Biondi, “Caporetto” del governo. Dopo una settimana di proteste (l’opposizione, i magistrati, la gente scesa in piazza), il governo lascia cadere il “decreto Biondi” (“salvaladri”, per i critici) sulla custodia cautelare, facendolo bocciare dalla commissione Affari Costituzionali. Il provvedimento pare adesso figlio di nessuno: il ministro della Giustizia Alfredo Biondi dice che avrebbe preferito un disegno di legge, il ministro dell’Interno Roberto Maroni avrebbe firmato senza leggere fidandosi della firma del presidente Scalfaro, che a sua volta si giustifica parlando di “atto dovuto”. Giuliano Ferrara, ministro per i Rapporti con il Parlamento, ammette: «Sì, forse abbiamo peccato di dilettantismo. Ed è vero che la vicenda si è risolta in una Caporetto».

Venerdì 29 luglio 1994. Arresti domiciliari per Paolo Berlusconi. Dopo un giorno di latitanza, Paolo Berlusconi si costituisce. Interrogato per sette ore dai giudici milanesi, parla dei tre episodi che gli vengono contestati: pagamenti ai finanzieri che ispezionavano tre società Fininvest (Videotime, Mediolanum, Mondadori) per un totale di 330 milioni di lire. In serata gli vengono concessi gli arresti domiciliari.

Martedì 22 novembre 1994. Scoop del Corriere: invito a comparire per Berlusconi. Il Corriere della Sera rivela che Silvio Berlusconi, a Napoli per presiedere il vertice internazionale del G7 sulla criminalità organizzata, ha ricevuto dalla Procura di Milano un invito a comparire: l’ipotesi di reato è concorso in corruzione per le mazzette alla Guardia di Finanza pagate da Mondadori, Mediolanum e Videotime. Il presidente del Consiglio accusa i magistrati di aver violato il segreto istruttorio.

Martedì 6 dicembre 1994. Antonio Di Pietro lascia la magistratura. Finita la requisitoria al processo Enimont, Antonio Di Pietro, il pm più famoso dell’indagine Mani pulite, annuncia con una lettera al procuratore capo Francesco Saverio Borrelli l’addio alla magistratura.

Sabato 3 giugno 1995. Di Pietro nel registro degli indagati. Antonio Di Pietro sarebbe finito sul registro degli indagati: nessuno conferma (il registro è teoricamente segreto) ma neppure smentisce. Il pm di Brescia Fabio Salamone, a capo dell’inchiesta, si limita a dire: «È una storia delicata di cui non voglio e non posso parlare». L’ex magistrato di Mani pulite spiega: «Sono stato io stesso a denunciarmi. E a denunciare. Questa storia dei dossier costruiti nei mie confronti deve finire». Reato ipotizzato concussione, l’indagine riguarda i soldi che Di Pietro avrebbe chiesto e ottenuto per ripianare i debiti di gioco di Eleuterio Rea, ex poliziotto e grande amico del magistrato adesso capo dei vigili urbani milanesi, 600 milioni di lire pagate, secondo le voci, da Giancarlo Gorrini, ex proprietario della Maa assicurazioni per il cui fallimento è stato condannato a tre anni e sei mesi. Secondo l’accusa, Di Pietro, all’epoca dei fatti sostituto procuratore di provincia, sarebbe colpevole anche di appropriazione indebita causa una Mercedes avuta gratis dalla Maa.

Venerdì 21 luglio 1995. È ufficiale: Craxi è un latitante. Durante un’udienza nel processo della tangenti pagate per l’appalto della metropolitana milanese, viene ufficializzata la latitanza di Bettino Craxi: secondo i magistrati si deve ritenere che l’ex presidente del Consiglio ed ex segretario del Psi si sia sottratto all’ordinanza di custodia cautelare, visto che ne è stato abbondantemente informato dai giornali.

Lunedì 20 novembre 1995. La procura chiede il rinvio a giudizio di Di Pietro. Con le accuse di abuso d’ufficio e concussione (relative a sette diversi episodi) i pm bresciani Fabio Salamone e Silvio Bonfigli chiedono il rinvio a giudizio di Antonio Di Pietro. Lo stesso provvedimento è sollecitato per altri nove indagati, tra cui Paolo Berlusconi e Cesare Previti, accusati di concorso in concussione. 

Giovedì 22 febbraio 1996. Di Pietro: non luogo a procedere. L’ex magistrato Antonio Di Pietro è prosciolto dalle accuse di concussione e di abuso d’ufficio (le più gravi): il gip di Brescia Roberto Spanò decreta il non luogo a procedere perché i fatti non sussistono. L’accusa più pesante, quella di concussione, riguardava la vicenda del decreto Gaspari: i pm sostenevano, in sostanza, che Di Pietro nell’89 aveva sfruttato lo stato di soggezione psicologica di un suo inquisito (il ministro Gaspari) al fine di ottenere la nomina a direttore del progetto di informatizzazione degli uffici giudiziari di Milano (decreto che venne approvato dal Consiglio dei ministri ma che poi – a seguito di vivaci proteste – fu modificato prima della registrazione alla Corte dei Conti: il nome di Di Pietro fu sostituito con quello del presidente della Corte d’appello).

Mercoledì 6 marzo 1996. Seconda vittoria per Di Pietro. Come già il 22 febbraio, il gip di Brescia Roberto Spanò proscioglie l’ex magistrato di Mani pulite Antonio Di Pietro da due accuse di concussione e tentata concussione, chiudendo così definitivamente il capitolo legato all’informatizzazione: i pubblici ministeri accusavano Di Pietro di aver fatto pressioni, nel ’91, sull’ex vicesegretario regionale della Democrazia cristiana Francesco Rivolta (da lui inquisito) al fine di diventare capo dell’ufficio automazione del ministero.

Venerdì 29 marzo 1996. Terza vittoria per Di Pietro, rinvio a giudizio per i complottatori. Terza vittoria per l’ex magistrato di Mani pulite Antonio Di Pietro: il gup di Brescia Anna Di Martino lo scagiona dalle accuse dell’assicuratore Giancarlo Gorrini (vedi 3 giugno 1995): «Non luogo a procedere perché i fatti non sussistono». Vengono invece rinviati a giudizio i quattro imputati accusati di aver costretto Di Pietro a lasciare la magistratura (concussione): Paolo Berlusconi, Cesare Previti, Ugo Dinacci, Domenico De Biase (prosciolti Eleuterio Rea e Paolo Pillitteri). Secondo i pm Fabio Salamone e Silvio Bonfigli, di fronte alle iniziative di Di Pietro che aveva alzato il tiro sul presidente del consiglio Silvio Berlusconi inviandogli un mandato di comparizione (22 novembre 1994), sarebbe scattato un ricatto: attraverso Paolo Berlusconi e il ministro della Difesa Cesare Previti, l’assicuratore Giancarlo Gorrini sarebbe stato mandato da Ugo Dinacci, capo degli ispettori del ministero di Grazia e Giustizia, per raccontare la storia dei cento milioni e della Mercedes dati a Di Pietro (23 novembre 1994). Subito dopo – sempre secondo la tesi di Salamone e Bonfigli – ci sarebbero stati una serie di contatti con Di Pietro e, ottenuto dal magistrato l’impegno a dimettersi dopo la requisitoria al processo Enimont, l’inchiesta sarebbe stata rapidamente chiusa chiamando a deporre all’ispettorato Osvaldo Rocca, braccio destro di Gorrini e amico di Di Pietro, che avrebbe scagionato pienamente il pm di Mani pulite. Il 6 dicembre l’addio alla toga di Di Pietro avrebbe fatto rallentare – secondo l’accusa – le indagini su Berlusconi e sulla Fininvest.

Mercoledì 24 aprile 1996. Di Pietro ha denunciato Salamone e Bonfigli. Si viene a sapere che Antonio Di Pietro ha denunciato Fabio Salamone e Silvio Bonfigli, promotori delle inchieste su di lui concluse con tre distinte archiviazioni. In due esposti presentati il 2 e il 22 aprile alla Procura generale di Brescia (e già trasmessi per competenza alla Procura di Milano, al Csm, alla Procura generale della Cassazione e al ministero di Grazia e giustizia), oltre a segnalare irregolarità tecniche nelle indagini, l’ex pm di Mani pulite ha elencato una serie di motivi per i quali Salamone avrebbe dovuto astenersi dalle inchieste su di lui, sottolineando in particolare la circostanza – sempre smentita da Salamone – secondo la quale fu proprio Di Pietro ad avviare le indagini su Filippo Salamone, fratello del magistrato coinvolto nella Tangentopoli siciliana.

Domenica 15 settembre 1996. Riesplode Tangentopoli, arrestato Necci (FS). Lorenzo Necci, amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, è arrestato su richiesta dei magistrati di La Spezia. Accuse: truffa, associazione per delinquere, falso in bilancio, peculato, corruzione, abuso in atti d’ufficio. Finiscono in cella anche l’ex deputato dc Emo Danesi, il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia e la sua segretaria. L’inchiesta riguarda l’acquisto da parte delle Ferrovie di quote della società che gestisce i terminal per container: secondo l’accusa sarebbe stato pagato un prezzo gonfiato, con fondi girati poi a Necci.

Giovedì 19 settembre 1996. Pacini Battaglia: «Si è pagato per uscire da Tangentopoli». Uno dei tanti colloqui captati dalle Fiamme gialle nell’ambito dell’inchiesta che ha portato tra l’altro all’arresto di Pierfrancesco Pacini Battaglia scatena una polemica che potrebbe riguardare l’intera portata dell’istruttoria milanese su Tangentopoli: «Io sono uscito da Mani pulite – dice il banchiere in un nastro dell’11 gennaio – soltanto perché si è pagato, non cominciamo a rompere i coglioni: quelli più bravi di noi non ci sono nemmeno entrati, forse se io avessi studiato la strada prima non sarei nemmeno entrato in Mani pulite». A quel «si è pagato» vengono date due chiavi di lettura opposte: una, legittimista, l’interpreta come sinonimo di coinvolgimento penale, Pacini Battaglia a Milano è plurindagato, ha dovuto chiamare in causa amici, consegnare conti miliardari e subire un gravissimo danno di immagine. Questo sarebbe il “prezzo pagato”. Il banchiere, però, è sempre sfuggito all’arresto, viene considerato un maestro del pentimento a rate, in diversi esposti più o meno anonimi è indicato come «un miracolato». «Non so esattamente che cosa intendesse con quella frase – replica il procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli – ma se Pacini Battaglia intende che sono stati pagati dei soldi, si assume tutte le responsabilità. E sono responsabilità molto gravi, ve lo assicuro». Il pm di Brescia Fabio Salamone include Pacini Battaglia e il suo avvocato Rosario Lucibello fra i testimoni chiesti dall’accusa nel processo che si aprirà a Brescia il 23 settembre.

Lunedì 23 settembre 1996. Inizia il processo sul complotto contro Di Pietro. Alla II sezione del Tribunale di Brescia inizia il processo contro Paolo Berlusconi, l’ex ministro della Difesa Cesare Previti, il capo degli 007 del ministero Ugo Dinacci e l’ispettore Domenico De Biase, accusati di aver ordito un complotto per costringere Antonio Di Pietro a lasciare la magistratura. Attraverso il suo avvocato Massimo Dinoia, Di Pietro decide di costituirsi parte civile: in apparenza è una contraddizione, ma la mossa, spiega il legale riaccendendo vecchie polemiche con i pm, è dettata dal timore che l’accusa, chiamando a testimoniare persone che nulla hanno a che vedere con la vicenda, trasformi il dibattimento in un processo a Di Pietro per fatti dai quali è già stato scagionato. I pm Fabio Salamone e Silvio Bonfigli si oppongono alla richiesta, ma il tribunale, presieduto da Francesco Maddalo, accoglie la costituzione di parte civile. Di Pietro al Tg1: nessun favore a Pacini Battaglia. A poche ore dall’inizio del processo bresciano contro i presunti autori del complotto che lo avrebbe costretto a lasciare la magistratura, l’ex pm di Mani pulite Antonio Di Pietro concede una lunga intervista (un monologo) al Tg1 con la quale respinge le accuse del banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia, che in una telefonata intercettata dalla Guardia di Finanza ha detto di aver pagato per evitare la galera (vedi 19 settembre 1996). Intervista di Antonio Di Pietro al Tg1, lunedì 23 settembre 1996. «Preferisco mantenere il riserbo anch’io, perché voglio capire che succede. Ma una cosa è certa: non c’è mai stato alcun interesse privato, personale, tra noi e Pacini Battaglia e quindi lui se ha delle cose da dire le dica per dissolvere tutti i dubbi. Altra cosa certa: se qualcuno dice che con Pacini Battaglia abbiamo usato i guanti di velluto, si sbaglia di grosso. Esistono quintali di documenti, lo abbiamo ascoltato per decine di ore, lo abbiamo interrogato almeno venti volte. All’epoca svelò fatti di eccezionale rilevanza sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Ora tutti sanno che cosa è Tangentopoli, ma all’epoca bisognava scavare, scavare. Certo Pacini Battaglia, come quasi tutti gli inquisiti di Tangentopoli, ha detto solo una parte di quello che sapeva, ma non potevamo mica torturarlo. Ho letto che si vanta di aver avuto un’archiviazione a Milano. Non è vero. Io ho lasciato la procura il 7 dicembre e non il 6 perché come ultimo atto ho chiesto il rinvio a giudizio di Pacini Battaglia. A Milano è stato inquisito diverse volte, io ho chiesto decine e decine di rogatorie in Svizzera proseguite dai miei colleghi... Dice una mostruosità chi afferma che Pacini ha avuto un trattamento di favore, e se si dice che lo abbiamo fatto per motivi diversi si dice una calunnia. Ho l’animo esacerbato. Ho i pubblici ministeri di Brescia che si oppongono a che io mi costituisca parte civile, ho una campagna diffamatoria che vuol fare passare l’inchiesta di Mani pulite per un’inchiesta a metà. Chi come me ha vissuto quell’inchiesta e l’ha fatto con tutta la dedizione possibile si sente offeso e credo che offesi si sentano anche i miei colleghi quando si sentono attaccati. A loro va la mia solidarietà. Ho sentito dire che sarei stato io, quel giorno di marzo del ’93, a mandare via sbrigativamente Pacini. Quell’interrogatorio non l’ho fatto io e non sono stato io a rimettere in libertà Pacini Battaglia. Chi ha preso la decisione l’ha presa perché aveva il parere positivo di tutti i colleghi dopo l’apporto collaborativo di Pacini Battaglia».

Giovedì 10 ottobre 1996. Scalpore per nuove intercettazioni Pacini Battaglia. Vengono diffuse le trascrizioni di nuove intercettazioni telefoniche che hanno per protagonista il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia, arrestato il 15 settembre nell’ambito dell’“Operazione container” (l’inchiesta dei magistrati di La Spezia che ha fatto finire in carcere pure Lorenzo Necci, amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato). Si tratta di virgolettati nei quali Pacini Battaglia parla di amicizie utili fra i magistrati di Milano, di Roma e di Brescia, pronuncia una frase che nella trascrizione suona inquietante («A me Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato»), accenna a un misterioso conto estero intestato a Mazzoleni, cognome della moglie e del suocero del magistrato simbolo di Mani pulite. Parlando di Di Pietro e dell’avvocato Rosario Lucibello (suo difensore), Pacini Battaglia dice all’avvocato Marcello Petrelli: «Se li arrestano per me è solo un piacere». Di Pietro, ministro dei Lavori pubblici del governo Prodi, replica con una denuncia depositata nella caserma dei carabinieri di La Spezia: «Escludo che io o i miei familiari abbiamo una lira all’estero». Lucibello denuncia lo «stillicidio sospetto» e l’«inaccettabile metodo della estrapolazione di frasi» che porta a uno «stravolgimento» del significato complessivo delle intercettazioni.

Giovedì 17 ottobre 1996. Salamone rimosso dall’inchiesta su Di Pietro. Dopo sei mesi di battaglia a colpi di esposti, istanze e memorie, Antonio Di Pietro riesce a bloccare il sostituto procuratore Fabio Salamone, il magistrato autore delle indagini su di lui che dopo tre proscioglimenti voleva “rifargli il processo”: il procuratore generale di Brescia Marcello Torregrossa rimuove Salamone (e con lui Silvio Bonfigli) dalla funzione di pubblico ministero nel processo sul presunto complotto per costringere l’ex pm di Mani pulite a lasciare la magistratura, la motivazione è ravvisata in una «grave inimicizia» fra Di Pietro e Filippo Salamone, fratello del pm. Al posto di Salamone e Bonfigli, Torregrossa designa Raimondo Giustozzi, che tra lo sconcerto generale si presenta in aula consegnando al presidente Francesco Maddalo copia del provvedimento della procura generale che – a quanto si dice – non ha precedenti nella storia giudiziaria.

Giovedì 14 novembre 1996. Di Pietro si dimette da ministro. Con una lettera a Palazzo Chigi, Antonio Di Pietro si dimette da ministro dei Lavori pubblici del governo Prodi. Lettera di dimissioni di Antonio Di Pietro, giovedì 14 novembre 1996. «Sig. Presidente, ho da poco saputo dal Tg5 che sarei stato sottoposto ad indagini dalla Procura della Repubblica di Brescia, per un insieme di fatti a me non noti sia perché non li ho commessi sia perché nessuno me ne ha dato notizia. Sono anni ormai che vengo sottoposto ad indagini ed accertamenti di ogni tipo – legali ed illegali – sempre ingiustamente come dimostrano le numerose sentenze di proscioglimento che mi riguardano. Eppure il tiro al piccione continua perché mi si deve far pagare ad ogni costo l’unica mia vera colpa (di cui peraltro sono orgoglioso): aver voluto fare ad ogni costo e fino in fondo il mio dovere. A questo punto dico: “Basta!”. Basta, con certi magistrati invidiosi e teorizzatori! Basta, con organi investigativi iperzelanti e fantasiosi! Basta, con la stampa che crea le notizie prima ancora che accadano! Basta, con i calunniatori prezzolati che mettono tutti sulla stessa barca solo per salvare i loro mandanti! Basta, con quegli avvocati che non hanno saputo accettare i verdetti dei giudici ed oggi cercano scuse per giustificare le loro sconfitte processuali! Basta, dar spazio e credito a imputati rancorosi e vendicativi! Basta, soprattutto, con chi vuole usare la mia persona per delegittimare per un verso l’inchiesta Mani pulite e per l’altro il Governo e le Istituzioni! Tolgo il disturbo e non risponderò più ad alcuna provocazione. Buon Futuro. Antonio Di Pietro. P.S.: Ti prego vivamente di non propormi alcun invito al ripensamento, perché le mie dimissioni sono irrevocabili, come testimonia questa mia doppia firma».

Lunedì 25 novembre 1996. Borrelli: «Di Pietro disse: “Berlusconi lo sfascio io”». Nonostante siano passati ormai quasi due anni (6 dicembre 1994), il clamoroso addio di Antonio Di Pietro al pool Mani pulite fa ancora discutere: al processo di Brescia sul presunto complotto per farlo dimettere, Francesco Saverio Borrelli, procuratore capo di Milano, racconta che Di Pietro sostenne fino all’ultimo l’invio dell’avviso di comparizione all’allora premier Silvio Berlusconi (22 novembre 1994), al punto da promettere «poi in aula ci vado io e a quello lo sfascio».

Mercoledì 29 gennaio 1997. Di Pietro, il complotto non ci fu. La Procura di Brescia sentenzia che non ci fu complotto contro l’ex pm di Mani pulite Antonio Di Pietro per indurlo a lasciare la magistratura: dopo due giorni di camera di consiglio, Cesare Previti, Paolo Berlusconi, Ugo Dinacci e Domenico De Biase sono assolti perché «il fatto non sussiste».

Giovedì 18 febbraio 1999. Nuova assoluzione per Di Pietro. Sotto processo per corruzione, l’ex pm di Mani pulite Antonio Di Pietro è assolto dal Gip di Brescia Anna De Martino «perché il fatto non sussiste». Vengono assolti anche il banchiere tosco-svizzero Pierfrancesco Pacini Battaglia (secondo l’accusa ne aveva comprato i favori), l’avvocato Giuseppe Lucibello (secondo l’accusa aveva asseritamente beneficiato dei favori) e il costruttore Antonio D’Adamo, l’imprenditore sulle cui confessioni la Procura di Brescia aveva riposto buona parte del destino dell’inchiesta. In lacrime alla proclamazione del verdetto, poco dopo Di Pietro è colto da un lieve malore che lo costringe a un passaggio dal pronto soccorso.

Mercoledì 19 gennaio 2000. Muore Bettino Craxi. Ad Hammamet (Tunisia) muore Bettino Craxi: nato a Milano il 24 febbraio 1934, dal 15 luglio 1976 all’11 febbraio 1993 era stato segretario del Psi, dal 4 agosto 1983 al 17 aprile 1987 presidente del Consiglio. Carriera politica terminata causa l’indagine Mani pulite, nel 1994 aveva lasciato l’Italia (prima che, il 12 maggio, gli venisse ritirato il passaporto). Era stato condannato con sentenza passata in giudicato a 5 anni e 6 mesi per corruzione nel processo Eni-Sai (12 novembre 1996), a 4 anni e 6 mesi per finanziamento illecito per le mazzette della metropolitana milanese (20 aprile 1999); in primo grado era stato condannato a 4 anni e una multa di 20 miliardi di lire per il caso All Iberian (13 luglio 1998, pena poi prescritta in appello il 26 ottobre 1999), a 5 anni e 5 mesi per le tangenti Enel (22 gennaio 1999); in appello era stato condannato a 5 anni e 9 mesi per il conto protezione (sentenza poi annullata dalla Cassazione con rinvio il 15 giugno 1999), in appello bis a 3 anni per il caso Enimont (1 ottobre 1999). Era stato inoltre rinviato a giudizio per i fondi neri Montedison (25 marzo 1998) e per i fondi neri Eni (30 novembre 1998).

Nota di lettura: per problemi di spazio, non sono stati inseriti nella cronologia tutti gli esiti processuali dei personaggi coinvolti nell’inchiesta Mani pulite, bisogna però tenere presente che alcuni degli arrestati sono stati poi assolti nelle aule di tribunale.

Mani pulite. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. L'espressione Mani pulite designa una controversa stagione degli anni novanta in Italia, caratterizzata da una serie di indagini giudiziarie condotte a livello nazionale nei confronti di esponenti della politica, dell'economia e delle istituzioni italiane. Le indagini portarono alla luce un sistema di corruzione, concussione e finanziamento illecito ai partiti ai livelli più alti del mondo politico e finanziario italiano detto Tangentopoli. Furono coinvolti ministri, deputati, senatori, imprenditori, perfino ex presidenti del Consiglio. Le inchieste furono inizialmente condotte da un pool della Procura della Repubblica di Milano (formato dai magistrati Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Gherardo Colombo, Tiziana Parenti, Ilda Boccassini e guidato dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli e dal suo vice Gerardo D'Ambrosio) e allargate a tutto il territorio nazionale, diedero vita ad una grande indignazione dell'opinione pubblica e di fatto rivoluzionarono la scena politica italiana. Partiti storici come la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista Italiano, il PSDI, il PLI sparirono o furono fortemente ridimensionati, tanto da far parlare di un passaggio ad una Seconda Repubblica.

Origine dell'espressione. Il primo ad usare l'espressione Mani pulite fu il politico italiano Giorgio Amendola, deputato per il Partito Comunista Italiano, in un'intervista a Manlio Cancogni pubblicata da Il Mondo, il 10 luglio 1975, in risposta alle critiche che venivano mosse all'onestà nella gestione delle amministrazioni pubbliche allo stesso PCI: «Ci hanno detto che le nostre mani sono pulite perché non l'abbiamo mai messe in pasta. Come se non si potessero avere dei grandi affari amministrando l'opposizione in una certa maniera». L'espressione Mani pulite fu ripresa e usata, poi dal giornalista e scrittore italiano Claudio Castellacci in un libro dal titolo omonimo pubblicato nel 1977. Tre anni più tardi il presidente della Repubblica Sandro Pertini, in un discorso ai giovani, tenuto nel 1980, disse: «Chi entra in politica, deve avere le mani pulite». In un'accezione ristretta, l'indagine "Mani pulite" è quella gemmata dal "fascicolo virtuale" (n. 9520) aperto alla Procura della Repubblica presso il tribunale di Milano nel 1991 dal pool omonimo. In un'accezione allargata, di "Mani pulite" si parla anche per le altre indagini per reati contro la pubblica amministrazione condotte nello stesso periodo dalla procura di Milano (es. ENI-Sai) e, più in generale ancora, in tutte le altre procure italiane che diedero corso nel medesimo periodo ad indagini contro il malaffare in politica (si parlò di "Mani pulite" napoletana per le indagini contro Francesco De Lorenzo, Antonio Gava e Cirino Pomicino, di "Mani pulite" romana per le indagini su Moschetti, di "Mani pulite" genovese, piemontese, ecc.).

17 febbraio 1992: la scoperta di Tangentopoli. Mario Chiesa, il "mariuolo isolato". «Tutto era cominciato un mattino d'inverno, il 17 febbraio 1992, quando, con un mandato d'arresto, una vettura dal lampeggiante azzurro si era fermata al Pio Albergo Trivulzio e prelevava il presidente, l'ingegner Mario Chiesa, esponente del Partito Socialista Italiano con l'ambizione di diventare sindaco di Milano. Lo pescano mentre ha appena intascato una bustarella di sette milioni, la metà del pattuito, dal proprietario di una piccola azienda di pulizie che, come altri fornitori, deve versare il suo obolo, il 10 per cento dell'appalto che in quel caso ammontava a 140 milioni.» Tangentopoli cominciò il 17 febbraio 1992. Il pubblico ministero Antonio Di Pietro chiese ed ottenne dal GIP Italo Ghitti un ordine di cattura per l'ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e membro di primo piano del PSI milanese. Chiesa era stato colto in flagrante mentre intascava una tangente dall'imprenditore monzese Luca Magni che, stanco di pagare, aveva chiesto aiuto alle forze dell'ordine. Magni, d'accordo coi carabinieri e con Di Pietro, fece ingresso alle 17:30 nell'ufficio di Mario Chiesa, portando con sé 7 milioni di lire, corrispondenti alla metà di una tangente richiestagli da quest'ultimo; l'appalto ottenuto dall'azienda di Magni era infatti di 140 milioni e Chiesa aveva preteso per sé il 10%, quindi una tangente da 14 milioni. Magni aveva un microfono e una telecamera nascosti e, appena Chiesa ripose i soldi in un cassetto della scrivania, dicendosi disponibile a "rateizzare" la transazione, nella stanza irruppero i militari, che notificarono l'arresto. Chiesa, a quel punto, afferrò il frutto di un'altra tangente, stavolta di 37 milioni, e si rifugiò nel bagno attiguo, dove tentò di liberarsi del maltolto buttando le banconote nel water; ma invano. La notizia fece scalpore e finì sulle prime pagine dei quotidiani e dei telegiornali. Bettino Craxi, leader dello stesso PSI, con l'obiettivo di ritornare alla presidenza del Consiglio, dopo le elezioni politiche di primavera, negò, intervistato dal Tg3, l'esistenza della corruzione a livello nazionale, definendo Mario Chiesa un mariuolo isolato, una "scheggia impazzita" dell'altrimenti integro Partito Socialista che "in cinquant'anni di amministrazione a Milano, non aveva mai avuto un solo politico inquisito per quei reati".

L'allargamento delle indagini anticorruzione e le elezioni del 1992. Rinchiuso nel carcere di San Vittore, Chiesa in un primo momento non confessò. Il PM Di Pietro che, nelle indagini sull'ingegnere aveva scoperto e messo sotto sequestro due conti svizzeri, "Levissima" e "Fiuggi", chiamò al telefono l'avvocato di Chiesa, Nerio Diodà, e gli disse: « Avvocato, riferisca al suo cliente che l'acqua minerale è finita.» Così, sotto interrogatorio, Chiesa rivelò che il sistema delle tangenti era molto più esteso rispetto a quanto affermato da Craxi. Secondo le sue dichiarazioni, la tangente era diventata una sorta di "tassa", richiesta nella stragrande maggioranza degli appalti. A beneficiare del sistema erano stati politici e partiti di ogni colore, specialmente quelli al governo come appunto la DC e il PSI. Chiesa fece anche i nomi delle persone coinvolte. Vista la delicata situazione politica, in piena campagna elettorale, Antonio Di Pietro mantenne sulle indagini il più assoluto riserbo, mentre alcune formazioni come la Lega Nord iniziarono a cogliere la sempre più crescente indignazione popolare per raccogliere voti (con lo slogan "Roma ladrona!"). Altre, come la Dc, sottovalutarono il "peso politico" di Mani Pulite e altri ancora come Bettino Craxi accusarono la Procura di Milano di muoversi dietro un «...preciso disegno politico». Le elezioni di aprile furono segnate dal crescere dell'astensione e dell'indifferenza della popolazione nei confronti di una politica chiusa e ingabbiata negli stessi schemi dai tempi del dopoguerra, incapace di rinnovarsi malgrado gli epocali cambiamenti storici di quegli anni. Il calo di consensi investì quasi tutti i maggiori partiti: la DC calò dal 34,3 % al 29,6; il PSI, che nelle precedenti consultazioni aveva toccato i suoi massimi storici, scese di un punto percentuale; PRI, PLI e PSDI conservarono le loro posizioni. Il PDS e PRC, eredi del disciolto PCI, persero complessivamente un quarto dei voti. I veri vincitori delle elezioni furono la Lega Nord e La Rete, due formazioni di recente fondazione, sviluppatesi una nell'Italia settentrionale, l'altra nel Meridione, che registrarono un vero e proprio boom, facendo della moralizzazione e del rinnovamento politico dei veri e propri cavalli di battaglia. Subito dopo le elezioni, molti industriali e politici furono arrestati con l'accusa di corruzione. Le indagini iniziarono a Milano, ma si propagarono velocemente ad altre città, man mano che procedevano le confessioni. Una situazione grottesca accadde quando un politico socialista confessò immediatamente tutti i propri crimini a due carabinieri che erano arrivati a casa sua, per poi scoprire che i militari erano venuti semplicemente per notificargli una multa. Fondamentale, per questa espansione esponenziale delle indagini, fu la diffusa tendenza dei leader politici a privare del proprio appoggio i politici meno importanti che venivano arrestati; questo fece sì che molti di questi si sentissero traditi e spesso accusassero altri politici, che a loro volta ne accusavano altri ancora. Nel Parlamento che si formò, il quadripartito (DC, PSI, PSDI e PLI) conservava comunque la maggioranza assoluta dei seggi ma l'ondata di arresti e di avvisi di garanzia lo indebolirono fortemente. Quando, a maggio, le Camere appena riunite furono chiamate a eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, le votazioni si tennero in un clima di caos totale (in quegli stessi giorni veniva ucciso il giudice Giovanni Falcone) e fu affossata dapprima la candidatura di Arnaldo Forlani, poi quella di Giulio Andreotti. Alla fine, fu eletto il democristiano Oscar Luigi Scalfaro, candidato dei "moralizzatori". Scalfaro si rifiutò di concedere incarichi ai politici vicini agli inquisiti: Bettino Craxi, che aspirava a tornare alla presidenza del Consiglio, dovette rinunciare in favore di Giuliano Amato. Ad agosto, Craxi attaccò Di Pietro sull'Avanti!, organo del suo partito: «Non è tutto oro quello che luccica. Presto scopriremo che Di Pietro è tutt'altro che l'eroe di cui si sente parlare. Ci sono molti, troppi aspetti poco chiari su Mani Pulite». Il 2 settembre 1992 il politico socialista Sergio Moroni si uccise. Lasciò una lettera in cui si dichiarava colpevole, affermando che i crimini commessi non erano per il proprio tornaconto ma a beneficio del partito, e accusò il sistema di finanziamento di tutti i partiti. Bettino Craxi, segretario del PSI molto legato a Moroni, si scagliò contro stampa e magistratura sostenendo che si fosse creato un "clima infame". La figlia Chiara, politicamente impegnata nel centrodestra negli anni a seguire, sarebbe divenuta una delle voci più critiche nei confronti di Mani Pulite. A settembre viene resa nota un'indagine della Procura di Brescia su un ex ufficiale dei carabinieri che avrebbe girato l'Italia per raccogliere notizie compromettenti sulla vita privata di Di Pietro. Due suoi amici avrebbero ricevuto offerte in denaro per rivelare che il magistrato avrebbe fatto uso di droga. L'indagine venne archiviata. Secondo alcune dichiarazioni dello stesso Craxi, il capo della polizia, Vincenzo Parisi, lo avrebbe incontrato e gli avrebbe riferito che era in possesso di tabulati telefonici su contatti fra Di Pietro e l'avvocato Giuseppe Lucibello su un loro "misterioso" viaggio in Svizzera.

La reazione dell'opinione pubblica. L'opinione pubblica, dopo l'iniziale smarrimento, si schierò in massa dalla parte dei PM: la giustificazione stessa della legge sul finanziamento pubblico ai partiti veniva percepita come priva di senso, visto che per anni era stata spiegata con le necessità di sostentamento della politica ed ora si scopriva che ciò non aveva fatto venir meno la corruzione. Nacquero comitati e movimenti spontanei, furono organizzate fiaccolate di solidarietà con il pool, sui muri comparvero scritte come "W Di Pietro", "Di Pietro non mollare", "Di Pietro facci sognare" e "Di Pietro tieni duro!". Si diffusero persino slogan come "Tangente, tangente. E i diritti della gente?" o "Milano ladrona, Di Pietro non perdona!", o anche "Colombo, Di Pietro: non tornate indietro!"; vennero distribuiti orologi rappresentanti "l'ora legale". Nei sondaggi dell'epoca, la popolarità di Di Pietro e del pool raggiunse la percentuale record dell'80%, la cosiddetta "soglia dell'eroe".

1993: tentativi di resistenza. La pioggia di avvisi di garanzia. Nelle elezioni locali di dicembre si confermò la crisi dei partiti tradizionali: la DC e il PSI persero ciascuno circa la metà dei voti. Le inchieste proseguirono e si estesero in tutta Italia, offrendo un panorama di corruzione diffusa dal quale nessun settore della politica nazionale o locale appariva immune. Politici e imprenditori di primissimo piano furono inquisiti e travolti da una pioggia di avvisi di garanzia. Tra questi anche Bettino Craxi, che a febbraio dovette dimettersi da segretario del Partito Socialista. Una mole ingentissima di procedimenti (72) furono intentati anche contro il tesoriere DC Severino Citaristi. Sulla spinta delle crescenti proteste popolari, il governo Amato s'impegnò a sollecitare le dimissioni di ogni suo componente raggiunto da un avviso di garanzia. Le inchieste toccarono inevitabilmente anche molti ministri, tanto che l'esecutivo raggiunse una percentuale di dimissioni senza precedenti. Dopo alcune affermazioni di Umberto Bossi, circa il coinvolgimento di un personaggio di altissimo livello, gli stessi ambienti della Procura milanese divulgarono una "velina" alla stampa in cui si precisava che nessuna delle supreme cariche dello Stato (Presidente della Repubblica, Presidenti di camera e Senato, Presidente del consiglio) era nel mirino delle inchieste in corso. Le indagini fecero emergere anche l'esistenza di conti personali, dove venivano dirottati i soldi delle tangenti, che venivano sfruttate quindi non soltanto per sostenere le spese dei partiti. Ad esempio, come avrebbe sancito la sentenza della Corte d'Appello di Milano del 26 ottobre 1999, Bettino Craxi utilizzò i fondi provenienti dalle mazzette oltre che per pagare «gli stipendi dei redattori dell'Avanti!», anche per una serie di impieghi inequivocabilmente personali:« Non ha alcun fondamento la linea difensiva incentrata sul preteso addebito a Craxi di responsabilità ‘di posizione’ per fatti da altri commessi, risultando dalle dichiarazioni di Tradati che egli si informava sempre dettagliatamente dello stato dei conti esteri e dei movimenti che sugli stessi venivano compiuti, e dispose prelievi sia a fine di investimento immobiliare (l’acquisto di un appartamento a New York), sia per pagare gli stipendi dei redattori dell’Avanti!, sia ancora per versare alla stazione televisiva Roma Cine Tivù (la denominazione legale di GBR di cui era direttrice generale Anja Pieroni, legata a Craxi da rapporti sentimentali) un contributo mensile di cento milioni di lire. Lo stesso Craxi dispose poi l’acquisto di una casa e di un albergo in Roma, intestati alla Pieroni». A febbraio, il socialista Silvano Larini si costituì e confessò la verità sul "conto protezione", che aveva come reale destinatario il Partito Socialista nelle persone di Martelli (percettore materiale) e Craxi; Martelli si dimise da Ministro della giustizia e si sospese dal partito, pregiudicandosi ogni possibilità di succedere a Craxi, che in quelle ore era dimissionario da segretario nazionale. Martelli sarà poi condannato in appello nel 2001. Nelle nuove elezioni amministrative del 6 giugno 1993 il Pentapartito conobbe un pesante tracollo: la DC perse nuovamente metà dei voti e il Partito Socialista praticamente sparì. La Lega Nord divenne la maggior forza politica dell'Italia settentrionale, conquistando anche la città di Milano, dove fu eletto sindaco Marco Formentini. L'opposizione di sinistra si avvicinava alla maggioranza, ma mancava ancora di unità e di comando. La Falange Armata, formazione eversiva di destra sospettata di legami con i servizi segreti deviati, mandò il primo messaggio di morte al pool. Secondo le dichiarazioni di alcuni pentiti, la mafia progettava di eliminare Di Pietro, per un favore da ricambiare verso un politico del Nord.

Il decreto Conso: il "colpo di spugna". Il 5 marzo 1993, il governo varò un decreto legge (il decreto Conso, da Giovanni Conso, il Ministro della Giustizia che lo propose), che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti e definito per questo il "colpo di spugna". Il decreto, che recepiva un testo già discusso e approvato dalla Commissione Affari Costituzionali del Senato, conteneva un controverso articolo che dava alla legge un valore retroattivo, e che quindi avrebbe compreso anche gli inquisiti di Mani Pulite. L'allarme che le inchieste di Tangentopoli rischiavano di insabbiarsi fu lanciato dal pool milanese in televisione: l'opinione pubblica e i giornali gridarono allo scandalo e il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro per la prima volta nella storia repubblicana rifiutò di firmare un decreto-legge, ritenendolo incostituzionale. Conso diede le dimissioni; pochi giorni dopo il referendum del 18 aprile 1993 (promosso dal democristiano dissidente Mario Segni), gli elettori votarono in massa a favore dell'introduzione del sistema maggioritario. Fu un segnale politico molto forte della sempre più crescente sfiducia nei confronti della politica tradizionale; il governo Amato, intravedendo nel risultato del referendum un segnale di sfiducia nei suoi confronti, rassegnò le dimissioni il 21 aprile. Il Parlamento non riuscì a formare un nuovo governo politico: Scalfaro decise perciò di affidare ad aprile la presidenza del Consiglio al governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi, il quale costituì un governo tecnico, il primo nella storia d'Italia. Ciampi si pose due obiettivi fondamentali: una nuova legge elettorale che doveva essere scritta "sotto dettatura" del referendum (approvata alla fine dell'anno, introduceva un sistema per tre quarti maggioritario) e il rilancio dell'economia (che stava vivendo una difficilissima stagnazione, con la lira precipitata ai minimi storici).

La contestazione a Craxi. Il 30 aprile la Camera dei deputati negò l'autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi, uno degli inquisiti più celebri di Tangentopoli. Il giorno prima Craxi si era presentato nell'aula e in un discorso ammise di aver ricevuto finanziamenti illeciti ma si giustificò sostenendo che i partiti non potevano sorreggersi con le entrate legali e attaccò l'ipocrisia di coloro che, all'interno del Parlamento, sostenevano le tesi dei magistrati, ma in realtà anche loro avevano beneficiato del sistema delle tangenti. Mentre il presidente della Camera, Giorgio Napolitano, leggeva i risultati delle votazioni, contrari all'autorizzazione, i deputati della Lega Nord e del MSI insultarono i colleghi dando loro dei "ladri" e degli "imbroglioni". La mancata autorizzazione scatenò una reazione violentissima: diversi ministri del neonato governo diedero le dimissioni per protesta (tra di loro Francesco Rutelli e Vincenzo Visco). Studenti dei licei romani manifestarono per le strade della Capitale, alcune Università furono occupate, in molte città le sedi del PSI furono assalite dai manifestanti; la stessa sezione nazionale in Via del Corso fu oggetto di una sassaiola, scongiurata da alcune cariche della polizia. Nel pomeriggio i partiti di sinistra (PDS, Verdi, Partito della Rifondazione Comunista e altri) indissero una manifestazione a Piazza Navona, mentre il MSI ne allestì una parallela davanti a Montecitorio: entrambe chiedevano lo scioglimento delle Camere. Al termine delle manifestazioni, un gruppo di persone si avvicinò all'Hotel Raphael, nel centro di Roma, che era la residenza capitolina di Craxi. Quando il leader socialista uscì dall'albergo, i manifestanti gli lanciarono oggetti di ogni tipo, soprattutto monetine; altri sventolavano banconote (gridando: «Bettino, vuoi pure queste?»), e nel frattempo venivano scanditi slogan contro il politico socialista che auspicavano il carcere («Bettino, Bettino il carcere è vicino») o addirittura il suicidio.

Il caso degli emoderivati infetti. Nel 1993 Duilio Poggiolini e altri importanti personaggi della sanità di allora vennero indagati per un giro di corruzione a vari livelli, incluse bustarelle delle case farmaceutiche Bayer e Baxter per il commercio di flaconi di sangue intero ed emoderivati infetti con AIDS ed epatiti presi da tossicodipendenti, galeotti e persone con rischiose attività sessuali. Le persone, che in conseguenza di questo sono state infettate durante le trasfusioni, si sono costituite parte lesa durante i processi.

La "stagione dei suicidi" e gli attacchi a Di Pietro. A metà marzo fu reso pubblico uno scandalo per 250 milioni di dollari, riguardante l'Ente Nazionale Idrocarburi (ENI). Il flusso di accuse, arresti e confessioni non si arrestò. Nel frattempo, Di Pietro chiese una rogatoria sui conti di Craxi a Hong Kong. La Falange Armata inviò una nuova minaccia: «...gli uccideremo il figlio». A giugno venne arrestato il primo manager Fininvest, Aldo Brancher. Secondo Marco Travaglio, il 12 luglio Silvio Berlusconi inviava un fax a Il Giornale, di cui era proprietario, intimando di «sparare a zero sul pool». Ma i condirettori Indro Montanelli e Federico Orlando si rifiutarono. Il 17 luglio 1993 Il Sabato, settimanale di Comunione e Liberazione, pubblicò un dossier sulla corruzione nella politica della prima Repubblica, sul fatto che la magistratura ne sarebbe stata al corrente e sulle presunte malefatte di Di Pietro, il quale sarebbe stato in combutta con diversi imprenditori, che in cambio di denaro avrebbe protetto dalle indagini. Il dossier, che indagava sulle proprietà immobiliari e patrimoniali di Di Pietro accresciute in modo esponenziale, era attinto da un manoscritto del giornalista Filippo Facci circolato in forma anonima all'inizio del 1993 dopo essere stato acquistato da un fantomatico editore irlandese; i suoi contenuti si sarebbero riversati nelle campagne giornalistiche contro il pool condotte negli anni successivi, come il dossier Achille e gli altri addebiti che in sede giudiziaria furono confutati, quando a partire dal 1995 varie sentenze giudicarono infondate quelle campagne scandalistiche. Il GICO di Firenze concluse le indagini sull'Autoparco di Milano e sulle protezioni accordate dalla mafia: con questi addebiti nell'autunno 1993 la Procura di Firenze ordinò tre mesi di arresti tra gli ufficiali di polizia che collaboravano con il pool di Milano. Il rapporto del Gico cita, a sostegno della richiesta di arresti, anche un «collaboratore», Salvatore Maimone, autore di accuse anche a tre sostituti procuratori milanesi. Maimone poi dichiarò che le accuse ai pm gli erano state sollecitate ed in ogni caso il processo agli ufficiali di polizia si concluse con le loro assoluzioni. Il 20 luglio 1993, l'ex-presidente dell'ENI, Gabriele Cagliari, da oltre 4 mesi di carcere preventivo, si uccise, dopo aver scritto una lettera in cui accusava i PM di Milano di tenerlo in carcere con l'intento di farlo confessare; in seguito, sua moglie restituì oltre 6 miliardi di lire di fondi illegali. Tre giorni dopo si uccise con un colpo di pistola anche Raul Gardini, presidente del gruppo Ferruzzi-Montedison. Gardini aveva saputo dal suo avvocato che stava per essere coinvolto nelle indagini di Mani pulite sulla tangente Enimont. Alcuni ipotizzarono che il suicidio di Gardini abbia avuto tra le cause scatenanti, oltre al tentativo di eludere il proprio coinvolgimento nel caso Enimont, anche l'intento di non esporsi a collegamenti con Cosa Nostra che stavano emergendo dalle indagini; altri ancora ipotizzarono addirittura che il suicidio fosse in realtà un omicidio premeditato negli ambienti politici e che si inscrivesse in un disegno di copertura della corruzione cui appartenne anche il presunto suicidio di Sergio Castellari.

Le tangenti rosse. Il sostituto procuratore Tiziana Parenti, da poco nel pool milanese, nel marzo 1993 divenne il PM delle "tangenti rosse" al PCI-PDS con le accuse al parlamentare Marcello Stefanini, tesoriere del Pds, per le tangenti versate dal gruppo Ferruzzi a Primo Greganti, il cosiddetto "compagno G".

Il processo Cusani. Nel frattempo iniziò il processo a Sergio Cusani. Cusani era accusato di reati collegati ad una joint venture tra ENI e Montedison, chiamata Enimont, nella quale aveva fatto da agente di collegamento tra Raul Gardini e il mondo politico nazionale: la sua fedeltà alla memoria del suo vecchio patron, tragicamente defunto, fu probabilmente l'unico argine ad un'ennesima chiamata di correità dei politici, comunque inquisiti per le dichiarazioni convergenti degli altri manager del gruppo Ferruzzi (Garofalo e Sama). Ecco perché il giudizio abbreviato, chiesto a sorpresa dall'imputato e celermente concesso dalla Procura, si trasformò in un'insperata occasione di confrontare il silenzio di Cusani con le prove a suo carico, mostrando come esse fossero sufficienti ad un impianto accusatorio che avrebbe poi retto alla prova anche del successivo troncone del processo ENIMONT. Il processo fu trasmesso in diretta dalla Rai, registrando ascolti record: celebri furono gli accesi scontri verbali fra Di Pietro e l'avvocato di Cusani, Giuliano Spazzali, durante i quali il magistrato impiegava il suo colorito linguaggio popolare (il cosiddetto "dipietrese"), che ne aumentarono la popolarità e l'affetto del popolo e sarebbe diventato una delle sue caratteristiche più famose. Cusani non era una figura di primo piano, ma nell'affare Enimont erano coinvolti molti politici di primo piano e molti di loro furono chiamati a deporre come testimoni. Tra questi, l'ex Presidente del Consiglio, Arnaldo Forlani, che, rispondendo ad una domanda, disse semplicemente «Non ricordo». Nelle fotocolor e nelle riprese video fatte dai giornalisti, Forlani appariva molto nervoso e sembrava non rendersi conto della goccia di saliva che si accumulava sulle sue labbra; questa immagine assurse a simbolo dell'assenza di self control di chi era per la prima volta chiamato a rendere conto delle proprie azioni. Bettino Craxi, invece, ammise che il suo partito aveva ricevuto i fondi illegali, anche se negò che ammontassero a 93 milioni di dollari. La sua difesa fu, ancora una volta, che «lo facevano tutti» ma la sua deposizione, al contrario delle precedenti, non venne interrotta dal pubblico ministero d'udienza, Antonio Di Pietro, il quale reagì alle critiche per questa sua inusuale condotta processuale, dichiarando alla stampa che per la prima volta vi era stata una piena confessione. Anche la Lega Nord e il disciolto PCI, che sostenevano pubblicamente i magistrati e le loro inchieste, furono coinvolti nelle chiamate in correità: sulla base di queste, nel successivo processo ENIMONT Umberto Bossi e l'ex tesoriere Alessandro Patelli furono condannati per aver ricevuto 200 milioni di finanziamenti illegali, mentre le condanne di Primo Greganti e di alcuni esponenti milanesi toccarono il partito comunista solo marginalmente. Nel processo emerse anche, che una valigia contenente denaro era pervenuta in Via delle Botteghe Oscure, nella sede nazionale del PCI, ma le indagini si erano arenate ,dato che non si erano trovati elementi penalmente rilevanti nei confronti di persone fisiche. In proposito il Pubblico Ministero Antonio Di Pietro disse: «La responsabilità penale è personale, non posso portare in giudizio una persona che si chiami Partito di nome e Comunista di cognome». Alcuni detrattori di Di Pietro ritengono tuttavia che il PM non abbia fatto il possibile per individuare i componenti del PCI responsabili di corruzione: ipotesi che Di Pietro liquida come «un'autentica falsità».

1994: La guerra tra Berlusconi e Di Pietro. Le Fiamme sporche. Nel frattempo, le indagini si allargarono oltre i confini della politica: il 2 settembre 1993, fu arrestato il giudice milanese Diego Curtò. Il 13 marzo 1994, Il Giornale - che dopo le dimissioni polemiche di Montanelli era passato in mano a Vittorio Feltri - associò il nome di Curtò e dell'imprenditore Salvatore Ligresti ai magistrati del pool, Davigo, Di Pietro e Francesco Di Maggio. Sarebbero stati tutti soci di una cooperativa edilizia. Feltri fu poi condannato per diffamazione, in quanto quella cooperativa non era mai esistita. Il 15 la Falange Armata minaccia di nuovo Di Pietro: «Gli metteremo il tritolo sotto la macchina». Il 21 aprile, 80 uomini della Guardia di Finanza (fu per questo coniato il termine "fiamme sporche") e 300 personalità dell'industria furono accusate di corruzione. A giugno si scoprì che nell'inchiesta delle "Fiamme sporche" era coinvolta anche la Fininvest. Alcuni giorni dopo, un manager della Fiat ammise la corruzione con una lettera a un giornale. Lo stesso giorno, Berlusconi denunciò al PG di Milano, Giulio Catelani, presunti abusi del pool nelle perquisizioni negli uffici di Publitalia.

Il decreto Biondi. Nel 1994, Silvio Berlusconi entrava in politica (con le sue parole, "scende in campo") e a fine marzo il suo partito vinse le elezioni. Poco dopo la vittoria, Berlusconi propose pubblicamente a Di Pietro di entrare a far parte del suo governo come Ministro dell'Interno e a Davigo come Ministro della Giustizia, ma entrambi rifiutarono. Nel 2006, Berlusconi negò di aver mai chiesto ai due magistrati di entrare nel suo governo. Nel corso del 1993 ed a seguito della sua testimonianza al processo Cusani, emersero sempre più prove contro Bettino Craxi: con la fine della legislatura e l'abolizione dell'autorizzazione a procedere, si fece sempre più vicina la prospettiva di un suo arresto. Il 15 aprile 1994, con l'inizio della nuova legislatura in cui non era stato ricandidato, cessò il mandato parlamentare elettivo e, di conseguenza, venne meno l'immunità dall'arresto. Il 12 maggio 1994 gli venne ritirato il passaporto per pericolo di fuga, ma era già troppo tardi perché Craxi, come si seppe solo il 18 maggio, era già ad Hammamet, in Tunisia; il 5 maggio era stato avvistato a Parigi. Il 21 luglio 1995 Craxi fu dichiarato ufficialmente latitante. Il 13 luglio 1994 il governo emanò un decreto legge (cosiddetto "decreto Biondi" - dall'allora Ministro della Giustizia Alfredo Biondi - spregiativamente soprannominato dai critici "salva-ladri") che favoriva gli arresti domiciliari nella fase cautelare per la maggior parte dei crimini di corruzione. Il decreto fu votato lo stesso giorno in cui alle semifinali della Coppa del Mondo, l'Italia sconfiggeva la Bulgaria. Questa coincidenza alimentò il sospetto che si volesse sfruttare un momento in cui l'opinione pubblica era distratta dai Mondiali. Qualche giorno dopo furono diffuse le prime immagini dei politici accusati di corruzione, che uscivano dal carcere per effetto del decreto Biondi. Fra le scarcerazioni più clamorose vi fu quella dell'ex Ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, che venne persino contestato da un gruppo di giovani mentre raggiungeva la sua abitazione nel centro di Roma. L'uscita di De Lorenzo dal carcere provocò numerose polemiche in quanto la gente trovava particolarmente odiosi i furti ai danni del Servizio Sanitario Nazionale.  che avrebbero rispettato le leggi dello Stato, incluso il così detto "decreto Biondi", ma che non potevano lavorare in una situazione di conflitto tra il dovere e la loro coscienza, chiedendo, con un comunicato letto da Di Pietro in diretta televisiva, di venire "assegnati ad altri incarichi". L'opinione pubblica insorse indignata: il cosiddetto "popolo dei fax" comunicò il proprio dissenso alle redazioni dei giornali e delle televisioni. Alleanza Nazionale e la Lega Nord, alleati di Berlusconi, minacciarono di togliere la fiducia all'esecutivo. Il decreto viene frettolosamente ritirato: si parlò in effetti di un "malinteso" e il Ministro dell'Interno, Roberto Maroni, sostenne che non aveva nemmeno avuto la possibilità di leggerlo. Secondo una dichiarazione di Roberto Maroni, il decreto sarebbe stato ispirato dal ministro della Difesa Cesare Previti, avvocato di Berlusconi. Il 28 luglio venne arrestato Paolo Berlusconi, fratello del premier, con l'accusa di corruzione.

La denuncia contro il pool. A settembre, il Ministro per i Rapporti col Parlamento Giuliano Ferrara annuncia la sua intenzione di denunciare il pool per attentato alla Costituzione. Verrà denunciato solo Borrelli e in seguito assolto. Il 29 settembre, Sergio Cusani denunciò i giudici del pool per diffamazione e d'omissione d'atti d'ufficio. Il generale Giuseppe Cerciello, imputato nello scandalo delle "fiamme sporche", denunciò Borrelli, Colombo e Di Pietro al CSM per presunte manovre intorno al Gip Andrea Padalino. I processi dimostreranno che queste accuse erano tutte invenzioni. Di Pietro prosegui le sue indagini nei confronti di Berlusconi: il 3 ottobre venne arrestato Giulio Tradati, altro manager Fininvest, il fratello Paolo fu rinviato a giudizio. Vennero scoperte nuove prove sui "fondi segreti" di Craxi, tra cui una super-tangente di 10 miliardi di lire di Berlusconi al leader socialista, tramite la società offshore All Iberian. Il 14 ottobre il ministro Biondi fece partire la prima ispezione contro i magistrati. Per gli ispettori, le inchieste del pool erano tutte corrette. La Falange inviò nuove minacce: «Di Pietro ha i giorni contati. La sua vita è destinata a finire presto». Il 18 novembre i magistrati trovarono, perquisendo l'abitazione del dirigente di Canale 5, Massimo Berruti, la prova che Berlusconi avrebbe ordinato di inquinare le prove sulla corruzione Fininvest. Il 21 novembre, su ordine di Borrelli, i carabinieri notificavano per telefono a Berlusconi l'invito a comparire e gli comunicarono due dei tre capi d'imputazione a lui attribuiti. La notizia venne rivelata in esclusiva l'indomani dal Corriere della Sera e il Cavaliere accusò i magistrati di aver violato il segreto istruttorio, passando la notizia al giornale. Si scoprirà poi che erano state fonti vicine al premier a passare la notizia al Corriere. Le indagini della procura di Brescia videro i magistrati prosciolti dall'accusa di violazione del segreto (perché il segreto cade nel momento in cui l'interessato viene a conoscenza dell'invito a comparire) e le accuse di Berlusconi archiviate. Il 23 novembre l'assicuratore Giancarlo Gorrini, si recò al Ministero della Giustizia e denunciò Di Pietro: lo avrebbe ricattato e avrebbe preteso da lui un prestito di 100 milioni senza interessi, una Mercedes, l'affidamento alla moglie, l'avvocato Susanna Mazzoleni, di tutte le cause della sua compagnia, l'accollo tutti i debiti contratti alle corse ippiche da un certo Eleuterio Rea. Il 24, Biondi avviò un'inchiesta parallela e segreta sul magistrato. Ma il capo degli ispettori, Dinacci, confidò al giudice De Biasi (incaricato di condurre l'inchiesta) che «Previti ha detto di distruggere Di Pietro e che Gorrini era stato pagato». Il 26 novembre, Di Pietro venne avvertito dallo stesso Previti che al Ministero gli stavano preparando una "polpetta avvelenata". Dopo essersi consultato con i colleghi del pool, Di Pietro decise di redigere una memoria da inviare al Csm. Poi cambiò idea e il 6 dicembre, dopo l'ultima requisitoria per il processo Enimont, si dimise dalla magistratura. Fu la fine di Mani pulite. Qualche giorno dopo cade il governo Berlusconi. L'inchiesta sulle "fiamme sporche" venne trasferita dalla Corte di Cassazione a Brescia. De Biasi archiviò l'inchiesta su Di Pietro, scagionandolo completamente: «I fatti non hanno nessuna rilevanza disciplinare».

1995: i complotti contro Di Pietro e i magistrati. A febbraio la denuncia di Cusani contro Di Pietro fu archiviata dal Giudice per le indagini preliminari di Brescia. Viene sventato un attentato contro Gerardo D'Ambrosio. Il Gico di Firenze riaprì l'inchiesta Autoparco. Alla Procura venne consegnato un dossier di 263 pagine, con accuse precise contro i magistrati Di Maggio, Nobili, Armando Spataro e Ilda Boccassini. La Procura archiviò poi, definitivamente, l'inchiesta. In primavera viene riportato da alcuni giornali che Di Pietro si candiderà alla Camera dei deputati nelle liste del Polo delle Libertà. Di Pietro, dopo alcuni incontri con Berlusconi e Previti, negò un suo prossimo ingresso in politica, chiarendo che non avrebbe appoggiato alcun partito. Il 7 aprile Di Pietro venne denunciato dall'avvocato Carlo Taormina e dal generale Cerciello per presunte pressioni su un maresciallo dei carabinieri affinché denunciasse Berlusconi e Cerciello. Il maresciallo smentisce tutto e l'accusa viene archiviata dal GIP di Brescia. Il 13 aprile Berlusconi sostiene in un'intervista che Di Pietro gli avrebbe confidato che non condivideva affatto l'invito a comparire stilato contro di lui, ma l'ormai ex pm smentisce.

Nuove ispezioni contro il pool. Il 5 maggio, il Ministro della Giustizia Filippo Mancuso annunciò una nuova ispezione a Milano. I giudici avrebbero fatto pressioni sugli ispettori, già inviati da Biondi, affinché scagionassero il pool. Venne aperta un'inchiesta anche sui suicidi di Gabriele Cagliari e di Sergio Moroni. Le ispezioni scagionarono totalmente il pool e nella relazione, Mani Pulite viene difesa per «l'estrema correttezza dell'azione dei magistrati». Il procuratore generale Catelani avviò un'indagine informale contro Borrelli. Un settimanale aveva pubblicato le foto del magistrato impegnato a cavalcare un cavallo con la siglia G.G., la quale corrisponderebbe a Giancarlo Gorrini. In realtà il cavallo apparteneva a Giovanni Gennari, figlio del noto finanziere Giuseppe Gennari, colui che nel 1992 fu protagonista della scalata alla Banca Nazionale dell'Agricoltura (BNA); Borrelli denunciò Catelani al Csm. Il 20 maggio Berlusconi e altri dirigenti Fininvest sono rinviati a giudizio con l'accusa di aver corrotto la Guardia di Finanza.

Le accuse di Salamone. È a giugno del 1995 che le accuse contro Di Pietro toccarono il culmine. Il PM bresciano Fabio Salamone interrogò Gorrini e Paolo Pillitteri, quindi iscrisse Di Pietro nel registro degli indagati per concussione: avrebbe premuto sugli imprenditori Gorrini e D'Adamo affinché si accollassero i debiti di Rea. L'11 giugno Di Pietro venne inquisito per un'altra concussione ai danni di Gorrini (un prestito di 100 milioni, una Mercedes e un pacchetto sinistri dell'assicurazione di Gorrini a favore dello studio della moglie dell'ex pm, Susanna Mazzoleni). Il 19 sempre Salamone indagava Di Pietro per abuso d'ufficio e per pressioni sui politici milanesi per far diventare Rea il comandante dei vigili urbani milanesi. Il quotidiano Il Giornale pubblicò un nuovo scoop contro Davigo: il magistrato sarebbe stato membro di una cooperativa diretta dal generale Cerciello, accusato di corruzione. In realtà Davigo aveva lasciato la cooperativa subito dopo l'ingresso di Cerciello. Berlusconi presentò un esposto alla Cassazione per presunte fughe di notizie ai suoi danni e per l'accanimento persecutorio del pool nei confronti delle sue aziende. Il 20 giugno si diffuse la falsa notizia che Di Pietro sarebbe stato arrestato. Poco dopo, il 30 giugno, Bettino Craxi dalla Tunisia inviava un lungo fax a tutte le redazioni dei giornali in cui riportava i tabulati telefonici che gli aveva consegnato Parisi e si dichiarava disponibile a farsi interrogare da Salamone. In una lettera al Giornale, Craxi spiegò che «...le recenti inchieste stanno dimostrando che Mani Pulite era tutta un bluff. Avevo ragione io quando sostenevo che Di Pietro era manovrato». In una successiva missiva, Craxi denunciò un viaggio di Di Pietro in Costarica, durante il quale egli avrebbe concordato con "alti esponenti della finanza internazionale" le indagini di Mani Pulite. Si scoprirà poi che Di Pietro fu mandato colà per ragioni di sicurezza, in quanto un pentito aveva rivelato che la mafia voleva ucciderlo.

Il dossier Achille e il caso Dinacci. Nel settembre 1995 Di Pietro denunciò due agenti della sua scorta: anziché proteggerlo, riferivano ad altri i suoi spostamenti. Denunciò anche l'agente del Sismi, Roberto Napoli, che confessò di averlo spiato su ordine dei servizi segreti (il cosiddetto "dossier Achille" ordinato da un mandante sconosciuto per infangare il pool) dalla fine del 1992. Nel frattempo però Di Pietro ricevette nuove accuse: avrebbe pagato un affitto a prezzi stracciati per un appartamento nel centro di Milano e per abuso d'ufficio nel piano d'informatizzazione della procura di Milano, da lui diretto alla fine degli anni ottanta. Accuse di ogni tipo (tra cui il falso ideologico e l'abuso d'ufficio) arrivarono anche contro Davigo, Borrelli, Colombo e altri magistrati milanesi. A novembre la Procura della Repubblica di Roma indagò contro Borrelli, Davigo, Colombo e il GIP Italo Ghitti, perché avrebbero ricattato il capo degli ispettori ministeriali, Ugo Dinacci, tramite un'inchiesta su suo figlio Filippo.

1996: il pool viene scagionato. Fra la fine e l'inizio del nuovo anno, Di Pietro e il pool vennero via via scagionati da tutte le accuse. Già a dicembre 1995, il GIP di Brescia archiviò tutte le inchieste di Salamone. Quest'ultimo venne anzi censurato e denunciato al Csm: era il fratello di un uomo fatto condannare da Di Pietro a 18 mesi di carcere. Il 16 gennaio 1998 Salamone venne condannato definitivamente dal Csm. Il 29 marzo, il Gip di Brescia assolse Di Pietro per tutti i reati a lui ascritti (in particolare per le accuse di Gorrini) con la formule: "i fatti non sussistono". La Corte d'Appello confermò successivamente questa sentenza il 9 luglio 1997. La sentenza, inoltre, accusava Gorrini di aver concordato le varie accuse contro Di Pietro insieme a Paolo Berlusconi e a Sergio Cusani. I sottufficiali dei carabinieri Giovanni Strazzeri e Felice Corticchia vennero condannati per calunnia nei confronti di Di Pietro. Salamone ha successivamente denunciato Di Pietro per diffamazione, ma la sua citazione fu successivamente rigettata dal tribunale civile di Roma il 13 ottobre 2003. In quello stesso anno (il 1996) si tennero le nuove elezioni politiche anticipate: vince la coalizione di centrosinistra de L'Ulivo. Romano Prodi era il nuovo presidente del Consiglio e Di Pietro entrò nel suo governo come Ministro dei Lavori Pubblici. Si dimise pochi mesi dopo perché raggiunto da nuove accuse. Definitivamente prosciolto, nel 1997, si candidò al Senato per il centro-sinistra, nel collegio del Mugello rimasto vacante. Venne eletto con oltre il 66% dei consensi battendo l'avversario del Polo, Giuliano Ferrara.

Il dopo-Mani pulite. L'apparente trionfo della "rivoluzione dei giudici" (che si disse aver prodotto una "Seconda Repubblica" in Italia) si dimostrò di breve durata. Fra la metà degli anni '90 ed i primi anni del nuovo secolo la questione della corruzione politica calò nell'ordine delle priorità dell'azione pubblica. Simbolo drammatico di questo ritorno al passato fu il suicidio dell'imprenditore brianzolo Ambrogio Mauri, regolarmente escluso dagli appalti per la fornitura di automezzi perché si rifiutava di pagare tangenti, il 21 aprile 1997.

La strategia della prescrizione. Dopo il 1994 il rischio che i processi venissero cancellati a causa della prescrizione divenne molto concreto e la cosa era chiara sia ai giudici che ai politici. Durante questo periodo alcuni scrittori e commentatori politici ritennero d'individuare una comune volontà di opporsi alla magistratura da parte di entrambe le coalizioni politiche. Secondo questi opinionisti - che all'epoca denunciarono un'asserita alleanza politica di fatto contro la magistratura - sia il Polo sia l'Ulivo (specialmente sotto la leadership di Massimo D'Alema) avrebbero ignorato le richieste del sistema giudiziario di finanziamenti per acquistare equipaggiamenti. Secondo gli stessi autori, inoltre, le riforme giudiziarie promosse dal centrosinistra avrebbero reso i già penosamente lenti processi italiani ancora più lenti e avrebbero reso più facile e frequente la caduta in prescrizione di numerosi reati. Al contrario, la totalità della dottrina ha salutato positivamente l'intento del legislatore di introdurre nell'ordinamento italiano i principi del primato del contraddittorio e della parità delle armi tra accusa e difesa - entrambi tipici dei sistemi giuridici delle democrazie liberali europee - pur manifestando talvolta qualche riserva in merito alla sua implementazione in concreto.

Craxi e Previti. I destinatari più illustri delle inchieste condotte dalla magistratura milanese ebbero sorti diverse. Craxi accumulò diversi anni di condanne definitive e scelse la latitanza - secondo i suoi sostenitori, l'esilio volontario - ad Hammamet in Tunisia, dove risiedette dal 1994 fino alla sua morte, avvenuta il 19 gennaio 2000. Nel 1998 invece Cesare Previti, ex manager Fininvest e parlamentare nelle fila del partito fondato da Berlusconi, evitò il carcere grazie all'intervento del Parlamento, anche se Berlusconi e i suoi alleati erano all'opposizione. Il procedimento proseguì e produsse una condanna per corruzione in atti giudiziari, confermata dalla Cassazione, con la conseguenza della decadenza dalla carica di deputato nel 2007, a seguito della perdita dei requisiti di elettorato passivo.

Le elezioni successive al 2001: le vittorie di Berlusconi e l'affermazione elettorale di Di Pietro. Le elezioni politiche del 2001 segnarono una nuova vittoria di Silvio Berlusconi e della Casa delle Libertà, la coalizione che lo sosteneva, i quali ebbero la meglio sull'Ulivo e sul suo candidato Francesco Rutelli. L'esito elettorale fu considerato un segnale importante della nuova considerazione che Mani pulite aveva, a distanza di dieci anni, nell'opinione pubblica: un atteggiamento indifferente se non ostile per quella che venne considerata una stagione chiusa. Persino i politici, che all'inizio degli anni novanta avevano sostenuto apertamente il pool cambiarono idea: la Lega Nord denunciò un uso abusivo e prevaricatore della giustizia da parte di certa magistratura, Gianfranco Fini riconobbe i meriti dei giudici nel saper eliminare un sistema corrotto, ma sostenne che essi non avevano saputo fermarsi entro i propri confini. Antonio Di Pietro è oggi presidente dell'Italia dei Valori e ha posto al centro della sua battaglia politica i valori della legalità e della moralizzazione delle istituzioni. L'ex pubblico ministero (dopo che nel 2000 aveva rotto con la coalizione di centrosinistra per non dare il suo voto di fiducia al governo di Giuliano Amato, che per Di Pietro aveva ostacolato come premier le sue indagini), corse da solo con il movimento "L'Italia dei Valori", ma nonostante avesse conseguito il 3,9% dei suffragi, in base alla legge elettorale, non riuscì ad entrare in Parlamento. L'ingresso avvenne poi, nel 2006, a seguito della vittoria elettorale di Prodi, che lo nominò di nuovo Ministro, e fu confermato nel 2008 dalla scelta di Veltroni di consentire solo all'IDV l'apparentamento con il suo Partito Democratico.

Statistiche su Mani pulite. L'inchiesta Mani pulite, durata due anni e condotta da cinque magistrati, ha portato a 1300 fra condanne e patteggiamenti definitivi. Gli autori del libro Mani pulite, la vera storia (2002) affermano che dei 430 assolti nel merito (il 19%), non tutti sono stati riconosciuti estranei ai fatti. Alcuni imputati (gli autori citano come esempio 250 imputati per le tangenti riguardanti la Cariplo) pur avendo commesso il fatto, non sono stati ritenuti punibili: i giudici hanno ritenuto il fatto commesso, ma li hanno assolti con la formula «il fatto non costituisce reato» in quanto non vennero considerati pubblici ufficiali. In quest'ottica gli assolti perché riconosciuti estranei ai fatti contestati scenderebbero a circa 150 (il 6%). Gli autori aggiungono inoltre che di quei 150 molti sono stati assolti grazie alle riforme giudiziarie dell'Ulivo, che tramite l'art. 513 c.p.p. (giudicato poi incostituzionale) e la riforma denominata «giusto processo», hanno invalidato le prove di vari procedimenti. Vi è tuttavia da dire che nel momento in cui vi è una promessa corresponsione in denaro o altra utilità ad una persona perché questa ponga in essere un determinato atto, non vi è alcun reato, a meno che quest'ultima non sia appunto un pubblico ufficiale, nel qual caso possono profilarsi i reati di corruzione o concussione. Viceversa, come sembra essere avvenuto nella maggioranza dei processi di Mani Pulite conclusisi con l'assoluzione, la questione attiene ai rapporti tra privati cittadini che non integrano in alcun modo il fatto-reato. È stato infine sottolineato da autorevole dottrina come l'orientamento della magistratura nel suo complesso sia stato, in quel periodo, particolarmente rigorista in ambito di reati contro la pubblica amministrazione: ciò che sarebbe stato permesso, tra l'altro, dalla peculiare indeterminatezza di fondo della fattispecie di concussione (art. 317 c.p.), ritenuta suscettibile di rilievi di incostituzionalità. È stata infatti ricondotta a "concussione" anche la condotta del pubblico ufficiale che aveva ricevuto danaro da privati senza aver esercitato su di loro alcun tipo di pressione, limitandosi a beneficiare degli effetti dell'operato di chi l'aveva preceduto nella carica (cosiddetta concussione ambientale). Un tale rigorismo è stato difeso dall'ex procuratore Gerardo D'Ambrosio, ancora tre lustri dopo: «Se avessimo ragionato così negli anni 90 non ci sarebbe stata Mani Pulite. Tutti coloro che indagavamo dicevano che facevano le cose per migliorare la situazione, ma noi abbiamo scoperto che invece la peggioravano con appalti inutili e vuoti. Il principio di legalità va difeso sempre e comunque.»

Il costo delle tangenti. Nel 1992 l'economista Mario Deaglio calcolò la ricaduta economica del giro di tangenti sui conti dello Stato, e quindi, in definitiva, sulle tasche dei cittadini. Infatti, la lievitazione dei costi degli appalti, finalizzata all'ottenimento dei margini fraudolenti, nonché i lavori inventati ex novo per generare il giro di tangenti, ha una ripercussione rilevante sui costi che lo Stato si accolla nei lavori pubblici, tale che, in alcuni casi, l'esborso per le opere pubbliche viene ad essere due, tre, quattro e più volte il corrispettivo per analoghe opere pubbliche realizzate in altri paesi europei. Deaglio ha stimato che il giro delle tangenti generasse orientativamente:

10 000 miliardi di lire annui di costi per i cittadini;

un indebitamento pubblico fra 150 000 e 250 000 miliardi di lire;

tra 15 000 e 25 000 miliardi di interessi annui sul debito.

Di fatto, il 1992 fu un anno drammatico per i conti dello Stato. Il rapporto debito/PIL superò il 105%[41]. Il 13 agosto 1992 l'agenzia Moody's declassò il rating italiano ad Aa2 per via dell'insicurezza degli investimenti realizzabile in Italia in quel momento.[42] Per porre un argine alla bancarotta, il governo Amato fu costretto a varare, nell'autunno di quell'anno, una finanziaria pesantissima per l'epoca: 92 000 miliardi di tasse, con in aggiunta il prelievo forzato del 6 per mille su tutti i conti correnti bancari italiani, considerato il vero e proprio "scontrino finale" di Tangentopoli.

La critica storiografica. La rivalutazione di Mani pulite. Mani pulite è tuttora al centro di un ampio dibattito storiografico e politico. Le inchieste sono state difese e rivalutate da molti sostenitori della politica pulita come Beppe Grillo, Marco Travaglio e Peter Gomez, che hanno scritto libri e articoli in difesa dei magistrati. Molti hanno visto in Mani pulite una "rivoluzione pacifica della società civile", riprendendo una definizione di Indro Montanelli.

La proposta di Commissione parlamentare di inchiesta. Fin dal 1992 venne proposta l'istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta su Tangentopoli, per accertare gli illeciti arricchimenti conseguiti da titolari di cariche elettive e direttive, nonché per formulare idonee proposte per la devoluzione allo Stato dei patrimoni di non giustificata provenienza e per la repressione delle associazioni a delinquere di tipo politico. Nella XI Legislatura la Camera dei deputati giunse ad approvare all'unanimità, il 7 luglio 1993, un testo unificato che recepiva l'esigenza della Commissione d'inchiesta, ma il relativo disegno di legge si arenò in Commissione al Senato. Nella successiva legislatura la proposta ottenne un parere favorevole da parte della Commissione Giustizia del Senato. Ma perse di spinta propulsiva dopo che fu approvato un emendamento della maggioranza che puntava ad orientarne i lavori di ricerca "storiografica": esso intendeva accertare se la conduzione delle inchieste avesse riscontrato omissioni o "zone bianche"; si trattava di un indirizzo che - non escludendo una conduzione selettiva o "mirata" di quelle inchieste - andava oggettivamente in consonanza con la richiesta, avanzata dalla Tunisia, da Bettino Craxi. La proposta - con il discusso emendamento, che ne stravolgeva il senso originario - fu votata dalla Camera, nella nuova legislatura, il 3 novembre 1998, durante la quale venne rigettata, insieme alle varie discordanti proposte avanzate da gli altri gruppi parlamentari. L'idea di una Commissione d'inchiesta riprese velocità dopo che il gruppo di Forza Italia depositò il 28 settembre 1999 una proposta di Commissione bicamerale di inchiesta sui comportamenti dei responsabili pubblici, politici e amministrativi, delle imprese pubbliche e private e sui loro reciproci rapporti (A.C. 6386); e una proposta identica di Commissione monocamerale, da istituire presso la Camera dei deputati, sempre ai sensi dell'articolo 82 della Costituzione. Lo stesso giorno proposte simili furono avanzate dallo Sdi e dai Ds. Il 21 gennaio 2000, l'allora Presidente del Consiglio Massimo D'Alema rilanciò l'idea in un intervento alla Camera. Ma anche stavolta le divisioni e le divergenze fra i vari partiti fecero naufragare il progetto. Lo "scivolamento" dello strumento dell'inchiesta nell'intento di riscrittura della storia del decennio passato divenne esplicito nella XIV legislatura. Paradossalmente, dagli eredi (anche familiari) di Bettino Craxi non giunse che una riedizione del testo licenziato dalla Camera il 26 gennaio 2000 (vedasi l'Atto Camera 1427, mentre l'Atto Camera 1867 riproduce il testo del Senato): la pacatezza della proposta deriva probabilmente dal diverso strumento prescelto per ottenere la "riabilitazione" del defunto, e cioè i due ricorsi dichiarati ammissibili dinanzi alla Corte dei diritti umani di Strasburgo. Fu invece proprio del progetto di legge n. 2019 (d'iniziativa Cicchitto e Saponara) l'aver proposto l'istituzione di una "Commissione parlamentare di inchiesta sull'uso politico della giustizia", che oltre a "disfunzioni" accertasse "l'eventuale presenza all'interno dell'ordine giudiziario di orientamenti politico-ideologici e rapporti di interdipendenza con forze politiche parlamentari o extra parlamentari; l'eventuale influenza di motivazioni politiche sui comportamenti delle autorità giudiziarie; le conseguenti deviazioni della giustizia determinate dalla gestione politicamente mirata dell'esercizio dell'azione penale; l'effettività del principio costituzionale dell'obbligatorietà dell'azione penale, e l'eventuale esistenza di un esercizio discrezionale e selettivo della funzione giudiziaria; gli eventuali tentativi di interferenza di magistrati, singoli o associati, con l'attività parlamentare e di Governo, in contrasto con il principio costituzionale della separazione dei poteri". L'introduzione di questo ulteriore, e diverso oggetto dell'inchiesta determinò l'insuccesso della proposta, che non ebbe più seguito dopo la fine della XIII legislatura. Da un lato chi riteneva che la propria parte politica fosse vittima di un uso politico delle indagini, trovatosi al potere con la XIV legislatura, impegnò il Parlamento non più con proposte di commissioni d'inchiesta ma direttamente con leggi volte a prevenire il fenomeno denunciato. Chi invece riteneva che si dovesse indagare se le indagini della magistratura avevano colpito più qualcuno che qualcun altro (e se ciò sia dipeso solo "dalla facilità di reperire prove in un caso o di riscontrare un maggior grado di corruzione in un altro") - ed a tal fine auspicava l'istituzione di una "Commissione che (...) non dovrebbe occuparsi né di corrotti, né di corruttori, ma della corruzione" - già all'epoca invitava a diffidare dall'utilizzo dell'inchiesta per riportare al suo interno la polemica contro determinate inchieste ed in prosieguo giunse a stigmatizzare le "antiche provenienze" (in tema di schieramenti politici sul tema giustizia) come un classico caso in cui "i morti hanno afferrato i vivi".

Critiche. Il pool di Mani pulite e le loro indagini sono stati oggetto di forti critiche. Ad esempio Silvio Berlusconi ha dichiarato: «I magistrati milanesi abusavano della carcerazione preventiva per estorcere confessioni agli indagati» (Silvio Berlusconi, 30 settembre 2002). Mentre taluno sostiene che nessun esempio sarebbe mai stato trovato per dimostrare tale accusa, altri citano i casi di alcuni suicidi giudicati eloquenti. Il manager pubblico Gabriele Cagliari, ex presidente dell'Eni, si soffocò con una busta di plastica nel carcere di San Vittore il 20 luglio 1993: nella versione poi diffusasi nell'ambiente politico sarebbe stato vittima della Procura di Milano perché, prima di compiere l'estremo gesto, avrebbe più volte chiesto ai magistrati di essere interrogato per chiarire la sua posizione. Risulta però che al momento del suicidio, per il pool di Di Pietro fosse già uomo libero, visto che ne aveva già richiesto la sua scarcerazione: Cagliari era tenuto ancora in carcere per un altro processo milanese, quello sul caso Eni-Sai (uno dei processi che portò alle condanne definitive di Craxi). Stando a quanto ricostruito successivamente a Cagliari, sentito dal pubblico ministero Fabio De Pasquale, erano stati promessi gli arresti domiciliari, probabilmente anche in virtù delle sue dichiarazioni sulla tangente che Salvatore Ligresti avrebbe pagato a DC e PSI, ma l'arresto di Ligresti il 19 luglio, che diede una ricostruzione differente dei fatti, portò la procura a ritenere che un'eventuale scarcerazione di Cagliari gli avrebbe consentito di inquinare eventuali prove. Pochi giorni dopo, il 23 luglio, anche l'imprenditore Raul Gardini si tolse la vita in casa a Milano, poco prima di ricevere l'avviso di garanzia per le indagini nei suoi confronti. I detrattori di "Mani pulite" sottolineano come la misura cautelare della custodia in carcere, la massima prevista dall'ordinamento, fosse stata utilizzata nei confronti di persone per lo più incensurate, socialmente, lavorativamente e familiarmente inserite, così che qualsiasi pericolo di fuga, inquinamento probatorio o reiterazione del reato non fosse ragionevolmente ipotizzabile, o tutt'al più scongiurabile, mediante semplici arresti domiciliari: tutte misure che avrebbero dovuto essere assunte per limitare l'impatto delle indagini sulla vita personale dei rei, e che non sarebbero state assunte per le predominanti esigenze di visibilità dei magistrati inquirenti. Un'altra critica riguarda il presunto uso politico della giustizia per denigrare e portare allo scioglimento partiti o movimenti politici. Si ritiene che dalle inchieste di Mani Pulite siano stati colpiti esclusivamente esponenti politici della DC o del PSI, e nessun esponente politico di rilievo del PCI. Giulio Maceratini osserva che questa miratezza delle indagini non poteva essere una casualità ed è stata consapevolmente voluta per affondare il PSI e la DC e favorire l'elezione del PCI, che fino ad allora non era mai riuscito a governare l'Italia tramite le libere elezioni. Maceratini afferma inoltre che sembra strano che, in un ambiente così corrotto come era l'Italia di quei tempi descritta dai magistrati di Mani Pulite, il PCI non avesse tratto nessun beneficio dal sistema politico economico vigente; a queste dichiarazioni Gianfranco Fini, leader dello stesso partito di Maceratini, risponde che «Qui e fuori di qui la stragrande maggioranza degli italiani ha un sentimento di gratitudine per quei magistrati che hanno smascherato il volto perverso del sistema tangentocrate. Detto questo è evidente che da parte nostra non ci deve essere alcun timore per ogni indagine che viene fatta». Peraltro alcuni eredi della tradizione comunista sono apparsi più travagliati in ordine alla questione della deriva consociativa sottostante alla Prima repubblica, che coinvolgeva anche il loro partito. In merito a queste critiche è stato fatto notare dal giornalista Marco Travaglio che «...i primi due politici arrestati in Mani Pulite erano dell'ex Pci: Soave e Li Calzi. Il pool di Milano inquisì quasi l'intero vertice del Pci-Pds milanese. E poi le prime elezioni dopo Tangentopoli non le vinsero le sinistre: le vinse Berlusconi». Inoltre furono indagati anche Marcello Stefanini, segretario amministrativo nazionale del Pds, successivamente prosciolto, e Primo Greganti, uomo legato al partito comunista che subì "uno dei più lunghi periodi di custodia cautelare". Altro addebito - di tipo eminentemente processuale - fu quello fondato sullo squilibrio conoscitivo tra magistratura requirente e giudicante, che rendeva necessitate molte delle decisioni di competenza di quest'ultima (specie quelle cautelari, assunte necessariamente in assenza di contraddittorio con la difesa): già nel processo a Cusani la difesa lamentava che alcune decisioni del GIP riproducevano note a margine e post-it apposti sul fascicolo con la grafia di Antonio Di Pietro. Ma solo dopo molti anni - terminato il suo lavoro a Milano e quello di membro elettivo del CSM - il GIP milanese Italo Ghitti ammise che le decisioni da lui assunte nel 1992-1993 erano spesso pedissequi accoglimenti delle richieste della Procura della Repubblica, non essendogli possibile o pratico revisionare tutti gli elementi di prova (che venivano ritenuti fondati spesso senza neppure aver avuto il tempo di esaminarli): a sua volta, sostenne Ghitti, lo stesso PM spesso prende per buone le attività di indagine effettuate dalla polizia giudiziaria, senza un reale riscontro. Nel 1994, il Governo Berlusconi I inviò degli ispettori per indagare su eventuali scorrettezze commesse dai magistrati della Procura di Milano, tra cui quelli del pool di Mani pulite. Nella loro relazione finale, presentata il 15 maggio 1995, gli ispettori riferirono al nuovo Governo affermando che: ««Nessun rilievo può essere mosso ai magistrati milanesi, i quali non paiono aver esorbitato dai limiti imposti dalla legge nell'esercizio dei loro poteri» (relazione finale degli ispettori inviati dal Governo Berlusconi I, 15 maggio 1995). Un altro acerrimo critico dei magistrati di Mani pulite è il critico d'arte e politico Vittorio Sgarbi: i suoi attacchi televisivi ai giudici ed al giustizialismo raggiunsero livelli tali che la Corte costituzionale, con le sentenze nn. 10 e 11 del 2000, li sottrasse all'area dell'insindacabilità delle opinioni espresse da un parlamentare (di cui all'articolo 68, primo comma della Costituzione).

Tangentopoli nella cultura di massa. Il termine "Tangentopoli" negli anni successivi all'inchiesta Mani Pulite venne ripreso per essere adattato ad altri tipi di scandali giudiziari ("affittopoli", "vallettopoli", ecc..). Il termine, nel periodo delle inchieste, venne utilizzato anche per un gioco da tavolo, chiamato Tangentopoli, la lunga corsa della corruzione, realizzato dai giornalisti campani Maurizio Landi e Mimmo Cordopatri. Nel 1993 usciva poi un videogioco, edito dalla Xenia edizioni ed ideato da Guglielmo Duccoli e Roberto Piazzolla, dal titolo Il grande gioco di Tangentopoli, dove si interpretava il "giudice De Petris", che combatteva a colpi di avvisi di garanzia gli onorevoli di PLI, PSDI e DC, doveva impedire la crescita della bandiera del PDS e dell'edera del PRI, evitare da essere colpito dalle inchieste ministeriali sulla magistratura e contemporaneamente evitare che versioni Pac-matizzate di Bettino Craxi, Paolo Cirino Pomicino e Pietro Longo si impossessassero del denaro degli appalti pubblici.

IL POOL DI MANI PULITE.

Un pool, nell'ambito della magistratura italiana è un termine che individua un gruppo di magistrati che si occupa di una stessa indagine. Esso costituisce un efficace strumento di indagine, ed uno degli elementi fondamentali che hanno portato all'istaurazione di diversi processi, ad esempio contro le Brigate Rosse e Prima Linea, durante gli anni di piombo, al maxiprocesso di Palermo in Italia contro Cosa Nostra e all'inchiesta di Mani Pulite.

FRANCESCO SAVERIO BORELLI.

Francesco Saverio Borrelli. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Francesco Saverio Borrelli (Napoli, 12 aprile 1930) è un ex magistrato italiano.

Biografia. Figlio di Manlio, magistrato. Laureato in giurisprudenza con una tesi intitolata Sentimento e sentenza. È agnostico Pubblico ministero, entrò in magistratura nel luglio del 1955. Nel dicembre del 1983 divenne Procuratore aggiunto presso il Tribunale di Milano, e tenne tale incarico fino al maggio del 1988, data in cui divenne capo dello stesso ufficio. Dal marzo 1999 alla pensione nell'aprile 2002 è stato procuratore generale della Corte d’appello milanese. La quasi totalità della sua carriera giudiziaria - circa 40 anni - ha avuto come epicentro il capoluogo lombardo, dove è stato giudice presso il Tribunale, consigliere della Corte d'appello, Presidente di sezione del Tribunale, per poi passare all'ufficio del PM. Nel febbraio 1992, con l'inizio dell'inchiesta sul Pio Albergo Trivulzio cominciò l'era di tangentopoli e diresse il pool di magistrati che indagò sullo scandalo politico cd. di Mani Pulite insieme ad Antonio Di Pietro, Ilda Boccassini, Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo e si segnalò come uno dei magistrati più determinati: fu lui, ad esempio, a spedire al leader socialista Bettino Craxi il primo avviso di garanzia. Dal 1999 al 2002, per sua stessa richiesta, fu nominato Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Milano; finì così la stagione di Mani Pulite. Il 12 gennaio 2002 in questa veste concluse nella sua relazione, all’inaugurazione dell’anno giudiziario in Corte d’appello, coniò lo slogan «resistere, resistere, resistere» contro le riforme del governo Berlusconi. Il 23 maggio del 2006, dopo un grave scandalo che coinvolse pesantemente il mondo del calcio italiano, fu nominato capo dell'ufficio indagini FIGC dal commissario straordinario di tale organismo, Guido Rossi. In seguito alle dimissioni di quest'ultimo nel settembre 2006, durante un'audizione parlamentare a Montecitorio, Borrelli lasciò a sua volta l'incarico, per poi ritornare dopo aver parlato con il nuovo commissario straordinario, Luca Pancalli. Abbandonò definitivamente l'incarico nel giugno 2007. Nel marzo dello stesso anno fu nominato, su proposta del Consiglio Accademico, Presidente del Conservatorio di Milano. Insieme all'ex collega e amico Gerardo D'Ambrosio, fu tra i firmatari dell'appello per la candidatura di Walter Veltroni alla guida del Partito Democratico, in vista delle elezioni del 14 ottobre 2007.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ILDA BOCCASSINI.

Ilda Boccassini. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Ilda Boccassini (Napoli, 7 dicembre 1949) è un magistrato italiano, procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di Milano.

Biografia.  Dopo la laurea in giurisprudenza entra in magistratura, con funzioni effettive, nel 1979 prestando servizio dapprima alla Procura della Repubblica di Brescia, e ottenendo poco dopo il trasferimento alla Procura della Repubblica di Milano. Si occupa, quasi subito dopo il suo arrivo a Milano, di criminalità organizzata. La sua prima inchiesta di rilevanza nazionale viene denominata Duomo Connection e ha come oggetto l'infiltrazione mafiosa nell'Italia settentrionale. L'inchiesta è portata avanti con la collaborazione di un gruppo di investigatori guidati dall'allora tenente Ultimo, il capitano divenuto poi famoso per l'arresto di Totò Riina. Sono gli anni delle prime collaborazioni anche con il giudice Giovanni Falcone, che sfoceranno in un legame di profonda amicizia. All'inizio degli anni novanta entra in rotta di collisione con altri colleghi del pool antimafia milanese e ne viene estromessa dall'allora Procuratore Capo Francesco Saverio Borrelli, ma porta comunque a termine il processo sulla Duomo Connection. Dopo le stragi di Capaci e Via D'Amelio, nel 1992, chiede di essere trasferita a Caltanissetta dove rimane fino al '94 sulle tracce degli assassini di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Collabora nuovamente con Ultimo alla cattura di Riina e scopre, in collaborazione con altri magistrati applicati a quelle indagini, mandanti ed esecutori delle stragi Falcone e Borsellino. Dopo una breve parentesi alla Procura di Palermo torna a Milano e, su richiesta del Procuratore Borrelli, si occupa dell'inchiesta denominata Mani pulite subentrando ad Antonio Di Pietro dimessosi dalla magistratura il 6 dicembre del 1994. Collabora, quindi, con i colleghi Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Armando Spataro e Francesco Greco, seguendo in particolare gli sviluppi delle inchieste riguardanti Silvio Berlusconi e Cesare Previti. Continua ad operare presso la Procura di Milano dove si occupa di indagini sulla criminalità mafiosa e sul terrorismo. Ha diretto a partire dal 2004 le indagini della DIGOS che il 12 febbraio 2007 hanno portato all'arresto di 15 sospetti appartenenti all'ala movimentista delle Nuove Brigate Rosse, denominata anche Seconda Posizione. Secondo l'accusa, la presunta organizzazione terroristica, operante nel Nord Italia, stava preparando attentati contro persone e aziende. Il 28 maggio 2009 il Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) l'ha promossa alla funzione di Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Milano. In seguito indaga sul caso riguardante l'affidamento di una giovane donna marocchina, definito giornalisticamente caso Ruby, nota negli ambienti della politica e della moda, che avrebbe compiuto alcuni furti. L'inchiesta interessa, tra gli altri, l'ex presidente del Consiglio dei Ministri italiano Silvio Berlusconi che, secondo l'accusa, avrebbe esercitato indebite pressioni sulla questura di Milano per ottenere suo rilascio e che l'avrebbe pagata in cambio di prestazioni sessuali quando era ancora minorenne. A causa di quest'incarico e di altre attività che hanno impegnato le procure della Repubblica nelle indagini su Silvio Berlusconi per reati quali concorso esterno in associazione mafiosa, prostituzione minorile, concussione, corruzione, strage, appropriazione indebita, traffico di droga, riciclaggio di denaro sporco, abuso d'ufficio, frode fiscale e falso in bilancio, Berlusconi l'ha indicata fra gli appartenenti ad una frangia della magistratura, da lui definita "sovietica" e "comunista". Si ricorda l'attacco da parte de Il Giornale che, su indicazione di Matteo Brigandì, componente del CSM, citato poi in giudizio per la diffusione dell'informazione stessa, all'inizio del 2011, ricorda che nel 1982 il magistrato era stato sottoposto a provvedimenti disciplinari a causa di atteggiamenti personali concludendo quindi che la Boccassini non avesse l'autorità morale per condurre le indagini su Berlusconi. Nel dicembre 2011 viene inclusa dalla rivista statunitense Foreign policy al 57º posto nella lista delle personalità nel mondo che nel corso del 2011 hanno influenzato l'andamento del mondo nella politica, nell'economia, negli esteri.

In tempi in cui la magistratura si può accanire contro un Premier e questo, anziché intervenire sulle anomalie del sistema, personalizzando li accusa di essere sovversivi e comunisti, ci si chiede cosa accadrà al povero cristo. Intanto su “Il Giornale” del 27 gennaio 2011 esce quest’articolo “ La doppia morale della Boccassini”, di Anna Maria Greco su "Il Giornale". Nel 1982 la Boccassini venne sorpresa in "atteggiamenti amorosi" con un giornalista di Lotta Continua. Davanti al Csm si difese come paladina della privacy. E fu assolta. Ora fruga nelle feste di Arcore, ma allora parlò di "tutela della sfera personale". “Ve la immaginate l’agguerrita pm dello scandaloso «caso-Ruby», che ha frugato nelle feste di Arcore e ascoltato le conversazioni pruriginose delle ragazze dell’Olgettina, nelle vesti della paladina della privacy? Eppure, per difendere se stessa al Csm da accuse boccaccesche, che definisce «un’inammissibile interferenza», Ilda Boccassini dichiara: «Sono questioni che attengono esclusivamente alla sfera della mia vita privata, coperta, come tale, da un diritto di assoluta riservatezza». Succede molti anni fa, nel 1982, quando l’allora giovane sostituto alla Procura di Milano viene sottoposta a procedimento disciplinare. L’accusa, si legge negli atti del Csm, è di «aver mancato ai propri doveri, per aver tenuto fuori dell’ufficio una condotta tale da renderla immeritevole della considerazione di cui il magistrato deve godere, così pure compromettendo il prestigio dell’ordine giudiziario». Diciamo subito che, l’anno dopo, la Boccassini viene assolta a palazzo de’ Marescialli. E proprio in nome della tutela alla riservatezza della vita personale. La sezione disciplinare del Csm, infatti, «nel ribadire il proprio orientamento in materia di diritto alla privacy del magistrato, ritiene che il comportamento della dottoressa Boccassini non abbia determinato alcuna eco negativa né all’interno degli uffici giudiziari, come provano le attestazioni dei colleghi della Procura, né all’esterno». Il fatto di cui si parla appare banale, perché riguarda abbracci e baci con un uomo per strada, a due passi dal Palazzo di Giustizia. «Atteggiamento amoroso», lo definiscono con scandalo nel rapporto di servizio due guardie di scorta ad un pm aggiunto della Procura. Il «lui» in questione non è uno sconosciuto, ma un giornalista di «Lotta continua», accreditato presso l’ufficio stampa del tribunale. Salteranno fuori altri episodi e si parlerà anche di rapporti con un cronista dell’Unità. Il tutto va collocato in un contesto preciso: quello degli Anni di piombo, di scontro, tensioni, sangue e forte militanza politica anche da parte di magistrati e giornalisti sulla linea che lo Stato doveva tenere verso i terroristi. Poco prima di questi fatti, nel 1979, uno dei pm di Milano e cioè Emilio Alessandrini, era stato ucciso da esponenti di Prima linea mentre andava a Palazzo di Giustizia. Lo ricorda il Procuratore capo Mauro Gresti, quando si decide a segnalare la questione e a chiedere il trasferimento d’ufficio della Boccassini, parlando di altri episodi «disdicevoli» dentro la Procura, legati a «presunti comportamenti illeciti», tra l’autunno 1979 e l’inverno 1980, che prima non aveva denunciato. A segnalare incontri molto ravvicinati, violente liti, riunioni serali in ufficio erano stati un ex-carabiniere addetto alle pulizie e un tenente colonnello dell’Arma. Gresti sottolinea che a farlo muovere non fu tanto «lo sconcerto procuratomi dall’esibizione di affettuosità più consone all’intimità di quattro mura che alla pubblicità di una via, ma piuttosto lo sconcerto per la constatazione che l’oggetto delle affettuosità della Boccassini era una persona solita a frequentare gli ambienti della Procura di Milano per ragioni della sua professione giornalistica». Una persona che più volte aveva «manifestato il proprio acido dissenso verso la linea della fermezza adottata dai magistrati della Procura nella lotta al terrorismo e alle sue aree di supporto», con un «atteggiamento di critica preconcetta all’operato delle istituzioni». Sembra che il Procuratore si preoccupi di legami personali che possano favorire fughe di notizie o, addirittura, l’ispirazione di articoli e campagne di stampa contro il suo ufficio. In particolare, critica la politicizzazione di magistrati come la Boccassini (già allora aderente alla corrente di sinistra Magistratura democratica), che avevano anche sottoscritto un documento di solidarietà per un imputato di terrorismo che, con lo sciopero della fame, chiedeva di essere trasferito in un carcere normale. E contro le carceri speciali, sottolinea il Procuratore allegando alcuni articoli, contemporaneamente scriveva anche il giornalista amico di Ilda. Per Gresti, quell’iniziativa dei pm era stata «un proditorio attacco all’atteggiamento di intransigente e ferma lotta all’eversione proprio dei magistrati dell’ufficio stesso che trattavano di terrorismo, nonché una chiara manifestazione di dissenso dalla loro linea, del tutto inopportuna e tale da poter sottoporre a pericoli la loro incolumità personale». In sostanza, dice con durezza il Procuratore, va bene la libertà d’opinione, ma così si poteva anche involontariamente «additare come obiettivi da colpire i magistrati impegnati nella difesa intransigente delle istituzioni». E qui Gresti ricorda proprio Alessandrini, «barbaramente trucidato dai terroristi in un vile attacco». Questa lettera al Procuratore generale della Cassazione e al Pg della Corte d’appello è del giugno 1982, mentre si celebra il processo disciplinare iniziato a dicembre, che si concluderà con l’assoluzione. È provocata dall’iniziativa di 27 pm (c’è anche Alfonso Marra, quello dimessosi per la P3), che a marzo insorgono in difesa della Boccassini, «ingiustamente offesa anche nella sua dignità di donna» anche da una «pubblicità di per sè umiliante». Parlano di «pettegolezzo» che incide nella «sfera della riservatezza personale» e di rischio per tutti di «inammissibile interferenza nella vita privata». Il primo a firmarla è Armando Spataro, collega della Boccassini alla Procura e suo difensore a Palazzo de’ Marescialli. È lui a redigere la memoria difensiva dell’aprile ’82, in cui spiega che la pm non è voluta entrare nel merito delle accuse rivoltele in nome della privacy, ritenendo «umiliante» dover spiegare e giustificare rapporti personali con un giornalista, di cui Spataro difende la correttezza. E aggiunge: «Il concreto esplicarsi della vita privata del magistrato, come quella di ogni cittadino, non può essere soggetto a limiti o divieti precostituiti per legge». Dunque, non può essere sanzionato alcun rapporto personale con persone che lavorano nello stesso ambito. Sempre che non si arrivi a comportamenti scorretti, come «la rivelazione ad un giornalista di notizie coperte da segreto istruttorio». La difesa non convince e c’è il rinvio a giudizio della Boccassini. Ma il Pg della Cassazione, Sofo Borghese, chiede la «perentoria censura» con il trasferimento, non per questioni di sesso, moralità o decoro. Per lui i comportamenti del pm sono gravi «non certo per il compiaciuto scambio di vistose affettuosità» vicino al Palazzo di Giustizia, ma perché l’altro è un giornalista accreditato al tribunale. «Intuibili perciò - afferma il Pg - le facili battute, il pettegolezzo spicciolo, le maliziose insinuazioni e, soprattutto, il sospetto - fondato o meno non importa - nell’ambiente giornalistico, forense o in altri a questi vicini, che la pubblicazione di talune notizie possa ricollegarsi a privilegiate confidenze». Per Borghese «urge» intervenire, per «evitare prevedibili intollerabili malintesi o capziose strumentalizzazioni tali da non consentire di amministrare giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell’ordine giudiziario». Il sostituto pg Antonio Leo sostiene l’accusa, si svolge l’istruttoria, si ascoltano i testi, si ricostruiscono altre vicende. Tutto per appurare se il pm ha tenuto «in ufficio o fuori una condotta tale che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario». Per smontare il capo d’accusa, Spataro fa stralciare gli altri episodi e sostiene che si tratta solo di un fatto privato che non si è svolto «secondo modalità illecite o anche solo sconvenienti». È «non soltanto perfettamente lecito, ma anche assolutamente normale». La sentenza di assoluzione della sezione disciplinare del Csm, guidata dal vicepresidente Giancarlo de Carolis, arriva ad aprile ’83.”

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

PIERCAMILLO DAVIGO.

Piercamillo Davigo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Piercamillo Davigo (Candia Lomellina, 20 ottobre 1950) è un magistrato italiano, Consigliere della II Sezione Penale presso la Corte di Cassazione.

Biografia. Dopo essersi laureato in giurisprudenza all'Università di Genova è entrato in Magistratura nel 1978. Ha iniziato la sua carriera come giudice presso il Tribunale di Vigevano; poi dal 1981 è divenuto Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, dove si è occupato prevalentemente di reati finanziari, societari e contro la Pubblica Amministrazione. In questo contesto ha fatto parte, nei primi anni Novanta, del pool Mani Pulite, insieme ai colleghi Antonio Di Pietro, Francesco Saverio Borrelli, Gerardo D'Ambrosio, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo, Francesco Greco, Tiziana Parenti e Armando Spataro. È stato eletto nel parlamentino dell'Associazione Nazionale Magistrati (ANM), nella corrente di "Magistratura Indipendente". Successivamente è divenuto Consigliere della Corte d'Appello di Milano. Ricopre il ruolo di Consigliere alla Corte Suprema di Cassazione, II Sezione Penale, dal 28 giugno 2005. Ha scritto vari libri, di taglio prevalentemente scientifico. Fra i testi di divulgazione, si ricordano in particolare La Giubba del Re - Intervista sulla corruzione, scritto in collaborazione con Davide Pinardi, La corruzione in Italia - Percezione sociale e controllo penale, scritto a quattro mani con Grazia Mannozzi e Processo all'italiana con Leo Sisti. Nel 2012 è stato insignito del Premio Giovenale.

ARMANDO SPATARO.

Armando Spataro. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Armando Spataro (Taranto, 16 dicembre 1948) è un magistrato italiano, procuratore della Repubblica presso il tribunale di Torino, ex procuratore della Repubblica aggiunto presso il tribunale di Milano, coordinatore del Gruppo specializzato nel settore dell'antiterrorismo, ex segretario nazionale del Movimento per la giustizia (una delle correnti di sinistra dell'Associazione nazionale magistrati). Dirigente nazionale della ANM, di cui è anche segretario distrettuale a Milano.

Biografia. Entra in magistratura il 27 marzo 1975 e l'anno successivo è destinato come Sostituto Procuratore della Repubblica alla Procura della Repubblica di Milano dove ha svolto tutta la sua carriera occupandosi prima di sequestri di persona e poi di terrorismo di sinistra coordinando tutte le inchieste milanesi fino al 1989. Spataro divenne noto al grande pubblico quando fu incaricato dell'inchiesta sull'incidente automobilistico che causò la morte di Ronnie Peterson, durante il Gran Premio d'Italia del 1978. Al termine delle indagini, avanzò la richiesta della condanna a 8 mesi di reclusione per Riccardo Patrese, invece assolto con formula piena, per non aver commesso il fatto. Successivamente si è occupato di criminalità organizzata, traffico internazionale di stupefacenti ed è chiamato a partecipare alla Direzione distrettuale antimafia dal 1991 (anno della costituzione) al 1998, occupandosi soprattutto di indagini su 'ndrangheta e mafia siciliana. Dopo le dimissioni di Antonio Di Pietro, avvenute nel 1994, era stato chiamato dal procuratore generale di Milano Francesco Saverio Borrelli a fare parte del pool di "Mani pulite". Nel luglio del 1998 è stato eletto componente del Consiglio superiore della magistratura. Per questo si trasferisce a Roma fino alla scadenza del mandato (luglio 2002) quando ritorna alla procura di Milano con funzioni di procuratore della Repubblica aggiunto coordinando dal giugno 2003 il Dipartimento terrorismo ed eversione responsabile di indagini su terrorismo interno ed internazionale (in particolare di quello di matrice islamica, tra cui quelli sull'imam egiziano Abu Omar e su Mohammed Daki, noto per la sentenza di assoluzione pronunciata dal giudice Clementina Forleo, confermata in appello e rigettata dalla Cassazione). È autore di numerosi saggi (anche di diritto processuale comparato), commenti a testi di legge e pubblicazioni varie di carattere scientifico (riguardante materia di criminalità organizzata e terroristica e di tecniche investigative) pubblicati su testi vari e su riviste specializzate. Ha pubblicato anche un'autobiografia professionale, Ne valeva la pena. Storie di terrorismi e mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa (Laterza, Roma-Bari 2010): nucleo centrale è la vicenda dell'extraordinary rendition che ha avuto come vittima Abu Omar (2003) e che ha visto agenti della CIA agire con la collaborazione del Sismi. L'opposizione del segreto di Stato da parte dei governi Prodi e Berlusconi è per Spataro l'occasione per riflettere sui rapporti tra politica e magistratura e sulla violazione dei diritti umani con il pretesto della sicurezza. Il libro è valso a Spataro il premio Capalbio 2010 per la sezione Politica e istituzioni. Dal 30 giugno 2014 è procuratore della Repubblica di Torino, nominato dal plenum del CSM con 16 voti a favore su 24.

GERARDO D'AMBROSIO.

Gerardo D'Ambrosio Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. (Santa Maria a Vico, 29 novembre 1930 – Milano, 30 marzo 2014) è stato un politico e magistrato italiano, fra i protagonisti di Mani pulite.

Biografia. Diplomato al liceo classico e laureato a pieni voti in Giurisprudenza a Napoli nel 1952 con tesi in diritto amministrativo. Nel 1953 diventa procuratore legale, entra in Magistratura nel 1957. Dopo una breve permanenza alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Nola, viene destinato al Tribunale di Voghera. In seguito viene trasferito al Tribunale di Milano, dapprima come Pretore Civile (per cinque anni), poi come Giudice Istruttore Penale. Da rilevare che con quest'ultimo incarico ha, tra l'altro, condotto l'istruttoria relativa alla strage di Piazza Fontana. Il 27 ottobre 1975 pronuncia la controversa sentenza sulla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, assolvendo il commissario Calabresi e gli altri uomini della questura milanese. Nel 1981 è assegnato alla Procura Generale di Milano con funzione di Sostituto Procuratore Generale, per otto anni. In questo periodo ha sostenuto l'accusa nei primi processi per terrorismo e nel processo conseguente allo scandalo dei petroli. Ha condotto inoltre le istruttorie relative agli illeciti del Banco Ambrosiano, che vedeva tra gli altri imputati Roberto Calvi. Nel 1989 è stato nominato Procuratore aggiunto di Milano ed ha diretto dapprima il Dipartimento criminalità organizzata e, dal 1991, quello dei reati contro la pubblica amministrazione. Nel 1991 è stato sottoposto con successo ad un trapianto di cuore. Dal 1992 è tra i protagonisti (insieme a Francesco Saverio Borrelli, Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo) del Pool che si occupa dell'inchiesta Mani pulite: sono gli anni di Tangentopoli, che gli dà grande notorietà. Nel 1999 è stato nominato Procuratore Capo della Procura della Repubblica di Milano, contribuendo alla riorganizzazione degli Uffici, necessitata dalla introduzione del Giudice unico. Nel 2002 è stato collocato a riposo per limiti di età. Il 21 maggio 2012 il consiglio comunale di Santa Maria a Vico, sua città natale, gli ha negato - con decisione presa a maggioranza - la cittadinanza onoraria, proposta nei mesi precedenti dall'associazione culturale locale Ethos Odv. In fase di discussione il sindaco sammariano Alfonso Piscitelli (Il Popolo della Libertà) ha dichiarato: «Anche se D'Ambrosio è un nostro illustre cittadino riteniamo non abbia volato troppo in alto, non sia stato al di sopra delle parti». È deceduto il 30 marzo 2014 all'età di 83 anni.

Collaborazione con giornali. Dal 2003 collaborò col quotidiano L'Unità; cominciò poi a scrivere anche per il settimanale Oggi. Nel 2005, inoltre, pubblicò presso la Casa editrice RCS il saggio La giustizia ingiusta.

Politica. In occasione delle Elezioni politiche 2006, accetta la candidatura proposta dai Democratici di Sinistra, di un seggio al Senato, risultando eletto nella Regione Lombardia. È stato componente della II Commissione permanente ("Giustizia") del Senato. Tra gli altri interventi in Aula, vanno menzionati quelli contro un provvedimento (poi approvato nell'estate 2006) d'indulto che prevedeva sconti di pena di tre anni. D'Ambrosio sosteneva che la quantificazione della riduzione di pena era eccessiva, in quanto sarebbero stati scarcerati molti più detenuti (secondo la stima di D'Ambrosio, circa 24.000) del previsto (la stima era di 10.000 scarcerazioni). Alle elezioni del 2008 è stato confermato senatore del PD.

GHERARDO COLOMBO.

Gherardo Colombo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Gherardo Colombo (Briosco, 23 giugno 1946) è un ex magistrato italiano, attualmente ritiratosi dal servizio, divenuto famoso per aver condotto o contribuito a inchieste celebri quali la scoperta della Loggia P2, il delitto Giorgio Ambrosoli, Mani pulite, i processi Imi-Sir/Lodo Mondadori/Sme. Dopo aver conseguito la maturità classica, si iscrive all'Università Cattolica di Milano, presso la quale si laurea in giurisprudenza nel 1969. Nel 1979 - dopo aver lavorato per la RAS come supervisore - entra in magistratura e, dal 1972 al 1979, pera in qualità di giudice nelle udienze della VII sezione penale della Corte di Milano. Dal 1978 al 1989 è giudice istruttore e, dal 1987 al 1989, fa parte della commissione che esamina i materiali riguardanti importanti processi contro il crimine organizzato; l'analisi di tali procedimenti è situata all'interno della riforma del Codice di Procedura Penale da parte del Ministero di Grazia e Giustizia. Dal 1987 al 1990 partecipa in qualità di osservatore - per conto della Società Internazionale di Difesa Sociale - alla commissione di esperti per la cooperazione internazionale nella ricerca e nella confisca dei profitti illeciti. Dal 1989 al 1992 è consulente per la Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia, e nel 1993 è consulente per la Commissione parlamentare d'inchiesta sulla mafia. Dal 1989 è pubblico ministero presso la Procura della Repubblica di Milano. Fondamentale il suo contributo alle indagini e ai processi nell'ambito dell'operazione Mani pulite. Nel marzo del 2005 è stato nominato Consigliere presso la Corte di Cassazione A metà febbraio del 2007, in casuale coincidenza dello scadere del 15º anno dall'inizio dell'inchiesta Mani pulite, comunica le sue dimissioni da magistrato con lettera al Consiglio Superiore della Magistratura e al Ministero della Giustizia. Da allora si impegna nell'educazione alla legalità nelle scuole, attraverso incontri con studenti di tutta Italia, e proprio per tale attività ha ricevuto il Premio Nazionale Cultura della Pace 2008. Nel settembre 2009 viene nominato presidente della casa editrice Garzanti Libri. È membro Onorario del Comitato Scientifico d'Onore della Fondazione Rachelina Ambrosini. Il 5 luglio 2012 viene eletto nel cda della Rai su indicazione del Partito Democratico, l'elezione è avvenuta da parte della commissione di vigilanza Rai.

FRANCESCO GRECO.

Francesco Greco. Da Giorgio Dell’Arti, Catalogo dei viventi 2015. scheda aggiornata al 22 settembre 2014. Nato a Napoli nel 1951. Magistrato. Procuratore aggiunto a Milano, è il coordinatore del pool sui reati finanziari, titolare tra l’altro delle inchieste del crac Parmalat e sulle scalate bancarie. Faceva parte del pool di Mani pulite. Figlio di un ammiraglio, entrò in magistratura nel 1977, arrivò a Milano dopo aver fatto l’uditore a Roma, «il suo nome acquista una piccola notorietà all’inizio degli anni Ottanta, quando fa incarcerare Pietro Longo, segretario del Psdi, responsabile di aver intascato una bustarella» (Il Foglio). «Da un punto di vista politico, Greco può essere definito così: un cane sciolto molto di sinistra. Che soprattutto aborre schieramenti e scuderie. Forse è anche per questo che in 15 anni ha ottenuto tanti successi professionali ma ha fatto poca (anzi nessuna) carriera. Raccogliendo molto rispetto (non c’è grande avvocato milanese che non ne parli, anche in privato, più che bene), ma stringendo poche amicizie» (Angelo Pergolini). Così lo descrive Luigi Bisignani ne L’uomo che sussurra ai potenti (Chiarelettere, 2013): «Greco non è solo uno preparato, è anche corretto, garbato e con una caratteristica precisa. Quando ti fa una domanda sa già qual è la risposta, perché è uno dei pochi che studia davvero carte e bilanci». Nel maggio 2014 fu fatto il suo nome come presidente di Equitalia al posto di Attilio Befera, candidatura poi sfumata. «Mentre i magistrati si azzuffano sull’attribuzione delle grandi inchieste, litigano davanti al Csm e si dividono in fazioni, lui svetta su tutti per metafisico potere e per superiorità professionale: è quasi un’algida statua di Fidia piazzata lassù, in alto, sulle rovine del Partenone. In realtà Francesco Greco, procuratore aggiunto e capo del pool reati economici e finanziari, è parte molto attiva nella guerra che ha trasformato in trincea i corridoi al quarto piano del tribunale: con la sua audizione al Csm si è rivelato come uno degli avversari più tignosi di Alfredo Robledo, l’altro procuratore aggiunto che va accusando di parzialità e abusi vari il capo, Edmondo Bruti Liberati. Il dio Greco però non si espone come un’Ilda Boccassini: non si fa notare, non alza la voce. Sì, è vero, ispira e firma il “manifesto” dei 62 sostituti favorevoli a Bruti e spinge per la sua riconferma alla guida della procura. Ma intanto ostenta il lavoro come strumento purificatore. (…) Una gioventù da extraparlamentare di sinistra, una maturità spesa dietro a tutte le più importanti inchieste finanziarie d’Italia, oggi Greco potrebbe essere davvero effigiato come copia moderna e solo lievemente appesantita di Ermes, l’alato e astuto dio degli scambi: perché anche lui nella corsa e nel dialogo si è rivelato un dio. Malgrado il fiato corto per le troppe sigarette, Greco è sempre in corsa per qualche nomina e pronto a dialogare con la politica. (…) Greco da febbraio (2014 – ndr) è il primo consulente fiscale del governo di Matteo Renzi sul “dossier Svizzera” per il rimpatrio dei capitali. Ma è dal lontano 1998 che la politica lo insegue, lo corteggia, lo considera il terminale più adatto per interloquire con la Procura di Milano. All’inizio di quell’anno, mentre in Parlamento la commissione bicamerale pareva in dirittura d’arrivo sulla riforma della giustizia, il suo presidente Massimo D’Alema spedì Giuliano Amato, ministro delle Riforme, da Greco: voleva capire proprio da lui se i pm milanesi potessero condividere una “soluzione politica” alla stagione di Mani pulite. Si incontrarono più volte. Alla fine Greco, astutamente, disse che quella decisione “spettava al Parlamento”. E cinque mesi dopo, in giugno, la bicamerale fallì. Poi il magistrato si ributtò nei fascicoli giudiziari. In primo grado ottenne la prima seria condanna a 4 anni per Silvio Berlusconi nel processo sulla frode fiscale Mediaset, che il 1° agosto 2013 si è concluso con la sentenza definitiva che ha affossato giudiziariamente il Cavaliere. Intanto di Greco e con Greco la politica si era rimessa a parlare, e molto, già nel 2005: in estate per le sue inchieste sulle parallele scalate all’Antonveneta e alla Bnl, e per quella dell’immobiliarista Stefano Ricucci alla Rcs; in dicembre per la voce che lo voleva successore di Antonio Fazio al vertice della Banca d’Italia. In quel periodo il pm si occupava del processo per il crac Parmalat, scriveva per il Sole 24 Ore e sosteneva che “il mercato finanziario italiano è il Far West dell’Occidente”. Da allora Greco è stato candidato ai più prestigiosi incarichi istituzionali in campo finanziario e tutti gli ultimi 5 governi, di destra come di sinistra, gli hanno affidato l’incarico di sovrintendere a qualche fondamentale riforma. (…) Perché Greco piace a sinistra? Perché di quella parte è sempre stato. Trascorsi giovanili nell’estrema più dura & arrabbiata (ai tempi di Tangentopoli esponeva sulla scrivania un ritratto di sé molto barbuto, molto capelluto, infagottato in un eskimo da battaglia), Greco è stato redattore di Mob, una rivista che alla fine degli anni Settanta era in prima linea nel contestare la legislazione antiterrorismo. Dal suo primo ingresso in tribunale, nel 1977, è stato vicino a Magistratura democratica, corrente di cui certo sottoscriveva “il rifiuto di un percorso gradualista che abbia come obiettivo la riforma del sistema capitalista”. Poi, con la vita e i processi, l’uomo si è moderato. Signorile nei modi come può esserlo il figlio di un ammiraglio napoletano, appassionato di vela e sci, Greco è stato un grande amico di Guido Rossi, il re degli avvocati d’affari con il quale per anni ha condiviso le vacanze alla Maddalena. In quell’isola, nell’estate 2008, Greco è stato fotografato seduto al bar in amichevole colloquio con Beppe Grillo. Nessuno ha mai svelato il mistero di quell’incontro, che però resta negli archivi come segno di un dialogo aperto anche con i 5 stelle. Meno facile è capire perché Greco piaccia anche a destra. Da quelle parti, è evidente, lo si teme ma lo si stima. Forse per l’equilibrio da sempre esibito nel ricorso alla custodia cautelare: dicono che il 23 luglio 1993, alla notizia che Raul Gardini si era sparato in vista dell’arresto chiesto da Antonio Di Pietro, Greco abbia pianto. “Non sono mai stato un appassionato di galere e manette” avverte. Tremonti l’ha introdotto nell’Aspen institute, l’esclusivo circolo bipartisan nel cui esecutivo siedono Prodi e Gianni Letta, Fedele Confalonieri e Francesco Micheli. (…) Anche nelle aule di tribunale, va detto, la lunga corsa di Greco ha incontrato rari ostacoli. (…)» (Maurizio Tortorella) [Pan 29/5/2014]. Sposato prima con un medico, poi con una collega.

ANTONIO DI PIETRO.

Antonio Di Pietro. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Antonio Di Pietro (Montenero di Bisaccia, 2 ottobre 1950) è un politico, avvocato ed ex magistrato italiano.

Ha fatto parte del pool di Mani pulite come sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Milano; nel 1996 è entrato in politica, e nel 1998 ha fondato il partito Italia dei Valori dal quale, nell'ottobre 2014, si allontana lasciando tutti gli incarichi. Dal punto di vista ideologico Di Pietro dichiara di essere di estrazione cattolica e di non essere né di destra né di sinistra, in un rifuggire dagli estremi che lo porta a considerarsi un liberale e un uomo di centro. Dopo aver conseguito un diploma di perito elettronico, nel 1971 a 21 anni emigra a Böhmenkirch, in Baden-Württemberg (Germania); la sua giornata si suddivide fra un lavoro da operaio lucidatore di metalli in una fabbrica metalmeccanica e un altro, il pomeriggio, in una segheria. Tornato in Italia, nel 1973, inizia gli studi all'Università degli Studi di Milano presso la facoltà di giurisprudenza, mentre lavora come impiegato civile dell'Aeronautica Militare. Nel 1978 termina gli studi universitari conseguendo la laurea; l'anno successivo, attraverso un pubblico concorso, assume le funzioni di segretario comunale in alcuni comuni del comasco. Nel 1980 vince un concorso della Polizia di Stato per Commissario e frequenta la Scuola Superiore di Polizia. Successivamente viene inviato al IV distretto come responsabile della Polizia Giudiziaria. Nel 1981, sempre alternando lavoro e studio, vince il concorso di uditore giudiziario: è assegnato, con funzione di Sostituto Procuratore, alla Procura della Repubblica di Bergamo. Nel 1985 passa alla Procura della Repubblica di Milano, dove si occupa soprattutto di reati contro la pubblica amministrazione. Si fa notare per la sua padronanza degli strumenti informatici, che gli consente una notevole velocizzazione delle indagini e un efficiente collegamento dei dati processuali. In questo modo, all'epoca di Tangentopoli, può svolgere una notevolissima mole di lavoro. Nel 1989 il Ministero di Grazia e Giustizia lo nomina consulente per l'informazione e membro di alcune commissioni ministeriali per la riorganizzazione informatizzata dei servizi della pubblica amministrazione. Nel 1991, in un articolo pubblicato sul mensile milanese Società civile, Di Pietro sostenne che la tangente data al politico dall'imprenditore in cambio dell'appalto costituiva un sistema così pervasivo da rappresentare la norma, nella Milano degli anni novanta; la tangente, che egli chiamava «dazione ambientale», a suo parere veniva oramai data talmente per scontata che praticamente non era necessario né chiederla né proporla: era automatica, «ambientale», appunto. « Più che di corruzione o di concussione, si deve parlare di dazione ambientale, ovvero di una situazione oggettiva in cui chi deve dare il denaro non aspetta più nemmeno che gli venga richiesto; egli, ormai, sa che in quel determinato ambiente si usa dare la mazzetta o il pizzo e quindi si adegua.» Le prove di quanto affermato in quell'articolo arriveranno con l'arresto di Mario Chiesa, il primo tassello di un gigantesco "effetto domino" che dette l'avvio alla fine della I Repubblica. Quale pubblico ministero di punta del cosiddetto Pool di Mani pulite, composto anche da altri magistrati come Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Ilda Boccassini e Armando Spataro, coordinati da Francesco Saverio Borrelli, ha messo sotto inchiesta per corruzione centinaia di politici locali e nazionali, tra cui alcune figure politiche di primo piano, come il segretario del Partito Socialista Italiano, Bettino Craxi. In riferimento ai fatti di quegli anni, Di Pietro ha rivelato, durante la puntata dell'8 ottobre 2009 della trasmissione televisiva Annozero, che, pochi giorni prima della strage di via d'Amelio (19 luglio 1992), in seguito ad una nota riservata dei ROS che lo indicava come probabile obiettivo di un imminente attentato, fu messo sotto protezione ed espatriato in Costa Rica, sotto il falso nome di Marco Canale. « C'era una riservata del ROS che diceva: "guardate che Borsellino e Di Pietro devono essere fatti fuori". Io vengo avvertito, tant'è che (...) a me viene dato un passaporto (...) di copertura a nome Marco Canale.» Il 6 dicembre del 1994, poco prima che si riuscisse a tenere alla Procura di Milano l'interrogatorio, che era previsto per il 26 novembre, dell'allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, indagato per corruzione, si dimetterà dalla magistratura. La spiegazione resa all'epoca fu quella di voler evitare "di essere tirato per la giacca", ma su questo dettaglio si ebbero nel tempo, da parte dello stesso Di Pietro, varie versioni: Di Pietro prima addusse l'esigenza che i veleni sul suo conto - dal "poker d'assi" di Rino Formica al dossier de "Il Sabato", dall'inchiesta del GICO sull'autosalone di via Salomone alle indagini bresciane attivate dalle denunce degli inquisiti - non danneggiassero l'immagine della Procura di Milano. Successivamente lamentò come ragione scatenante la fuga di notizie sull' avviso di garanzia a Berlusconi, reso noto durante la conferenza di Napoli sul crimine transnazionale mentre Di Pietro si trovava a Parigi per rogatorie internazionali. Una sentenza assolutoria nei confronti di diversi imputati, tra cui Paolo Berlusconi e Cesare Previti, accusati di aver fatto indebite pressioni affinché Di Pietro abbandonasse la magistratura, ha sostenuto che Di Pietro si fosse già determinato a lasciare la toga, presumibilmente per darsi alla politica, quando venne avanzata la richiesta di interrogare Silvio Berlusconi. La sentenza afferma anche che alcuni fatti ascrivibili al magistrato potevano presentare rilevanza disciplinare. Subito dopo le elezioni del 27 marzo 1994, Silvio Berlusconi gli chiede di abbandonare la magistratura e di entrare a far parte del suo governo come Ministro dell'Interno. Quando il Governo Berlusconi I era in formazione, ci furono una serie di incontri tra Silvio Berlusconi e Di Pietro, falliti definitivamente il 7 maggio 1994, con l'ultimo no di Di Pietro a Berlusconi a qualunque incarico di governo. Di Pietro di fronte a numerosi giornalisti ha sostenuto che, pur dichiarandosi lusingato, non accettò perché preferiva continuare il suo lavoro di magistrato, seguendo il consiglio di Francesco Saverio Borrelli (che avrebbe rivolto, con analogo successo, lo stesso consiglio a Piercamillo Davigo, cui Ignazio La Russa avrebbe offerto il ministero della giustizia). Secondo quanto affermato da Cesare Previti nel 1995, a Di Pietro era stato offerto il ministero degli Interni e quest'ultimo aveva manifestato la sua disponibilità. Le affermazioni di Previti contrastano con quelle fatte da Berlusconi durante l'ultima campagna elettorale e nel 1996, quando sostenne di non aver avuto il tempo di formulare l'offerta in questione, poiché Di Pietro lo aveva già messo al corrente del fatto che gli era stato sconsigliato di accettare l'offerta. Nel luglio del 1995 in un interrogatorio presso la procura di Brescia circa i suoi rapporti con Di Pietro, Silvio Berlusconi riferì di aver proposto al magistrato la direzione dei servizi segreti. Anni dopo, nella campagna elettorale del 2008, Berlusconi ha negato di aver offerto un Ministero a Di Pietro. Nel 1996 chiamato da Romano Prodi accetta di divenire ministro nel suo Governo sostenuto dalla coalizione dell'Ulivo, appena insediatosi dopo la vittoria nelle elezioni politiche di aprile. L'incarico affidatogli è il Ministero dei Lavori pubblici, ma decide di presentare le sue dimissioni dopo sei mesi, il giorno dopo in cui gli viene notificata da Brescia una nuova indagine nei suoi confronti (avviso di garanzia). Prodi respinge le dimissioni, ma Di Pietro non vuole tornare sui suoi passi. Verrà poi prosciolto dai 27 capi di accusa in tutti e dieci i processi perché il fatto non sussiste. Il 20 giugno 1997 il senatore del PDS Pino Arlacchi è nominato vicesegretario generale delle Nazioni Unite. Nelle settimane successive Massimo D'Alema d'intesa con Romano Prodi offrono a Di Pietro la possibilità di sostituire Arlacchi candidandosi per l'Ulivo nel collegio senatoriale del Mugello, in Toscana. Di Pietro accetta inaugurando così la sua attività politica. Il 9 novembre 1997 si tengono dunque le elezioni suppletive che Di Pietro vince contro Giuliano Ferrara per la coalizione di Silvio Berlusconi, Sandro Curzi per il PRC, e Franco Checcacci per la Lega Nord, con il 67,8% dei voti. Diventa così senatore e, come indipendente, aderisce al gruppo misto. Il neosenatore però lavora subito per la creazione di un gruppo parlamentare proprio, ma nel febbraio 1998 è costretto a rinunciarci preferendo lavorare alla creazione di un proprio movimento politico. Nasce così, il 21 marzo seguente a Sansepolcro, Italia dei Valori. A fondare il movimento ci sono anche Elio Veltri, la cui moglie è l'amica di famiglia Silvana Mura (oggi parlamentare e capogruppo IDV) che vede l'adesione anche di altri parlamentari, e insieme a loro forma un sottogruppo. Dopo la caduta del Governo Prodi I dell'ottobre del 1998, si verificano dei cambiamenti nell'assetto dei partiti alleati. Di Pietro è un sostenitore di Romano Prodi, lo considera come unico punto di riferimento, aderisce al progetto dei Democratici, che intende portare avanti l'idea unitaria formale dei partiti che sono a fondamento dell'Ulivo. Così nel febbraio 1999 viene deciso lo scioglimento del giovane movimento, per farlo confluire, insieme ad altre formazioni politiche, in quello di Prodi. Di Pietro viene scelto per svolgere l'importante ruolo di responsabile organizzativo. I Democratici debuttano alle elezioni europee dello stesso anno, ottenendo il 7,7% dei voti e sette seggi, e Di Pietro viene eletto eurodeputato con funzioni di Presidente di Delegazione del Parlamento europeo dapprima per le relazioni con il Sud America, poi per l'Asia centrale ed infine per il Sudafrica. In seguito a ripetuti dissidi con la linea portata avanti da Arturo Parisi, leader del partito, con il culmine nello strappo avvenuto quando Di Pietro sceglie di non votare la fiducia al nuovo governo Amato, il 27 aprile 2000 si separa dai Democratici. Rifonda quindi Italia dei Valori come partito autonomo nel settembre dello stesso anno, sempre con l'obiettivo di portare avanti le proprie battaglie politiche, mettendo sempre in primo piano temi come la valorizzazione e l'affermazione della legalità e la necessità di trasparenza amministrativa e a livello politico. Pur d'accordo nel contrastare la coalizione guidata da Silvio Berlusconi, per le elezioni politiche del 2001 Di Pietro non riesce a trovare un accordo e si presenta quindi da solo alla competizione elettorale. Tuttavia non risulterà eletto, non riuscendo a spuntarla nel collegio uninominale in Molise e non superando, con la sua lista al proporzionale, la soglia del 4%, seppur di poco (3,9%). Alla vigilia delle elezioni europee del 2004, Di Pietro aderisce all'appello di Prodi di presentarsi sotto un unico simbolo nel nome dell'Ulivo. Ma non tutti sono d'accordo con l'ingresso di Di Pietro (il fronte dell'opposizione è guidato dai socialisti dello SDI). E così nasce una nuova intesa elettorale con Achille Occhetto: insieme presentano la Lista Società Civile, Di Pietro-Occhetto, Italia dei Valori. Nel suo simbolo, la lista inserisce la dicitura "Per il Nuovo Ulivo", con un piccolo ramoscello d'ulivo, per sottolineare la chiara intenzione di partecipare alla rinascita e al rafforzamento della coalizione. Prodi, in un primo momento, plaude all'idea, ma poi Di Pietro e Occhetto (a campagna elettorale già avviata) sono costretti ad eliminare quel frammento del loro simbolo perché - dicono dalla coalizione - si potrebbe generare confusione fra gli elettori che potrebbero confonderlo con il "vero" Ulivo. La lista, comunque, corre regolarmente alle elezioni, ma il progetto è un fallimento: raccoglie soltanto il 2,1%. Occhetto abbandona immediatamente l'alleanza, cedendo il seggio di parlamentare europeo in favore del giornalista Giulietto Chiesa (come aveva anticipato prima delle elezioni) e conservando quindi il suo seggio al Senato. Di Pietro viene rieletto al Parlamento europeo nella circoscrizione sud, dopo aver ricevuto in tutta Italia quasi 200 000 preferenze. Iscritto al gruppo parlamentare dell'Alleanza dei Democratici e Liberali per l'Europa; membro della Conferenza dei presidenti di delegazione; della Commissione giuridica; della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni; della Delegazione per le relazioni con il Sudafrica. Intanto, nasce la nuova coalizione di centrosinistra, chiamata L'Unione, che si apre ai contributi di Italia dei Valori e di Rifondazione Comunista. Il nuovo schieramento debutta alle elezioni regionali dell'aprile 2005: IdV ne è parte integrante in tutte le 14 regioni chiamate al voto, ma il partito conferma il suo trend negativo, raggranellando soltanto l'1,8% dei voti. Prodi, in vista delle elezioni politiche del 2006, lancia l'idea delle consultazioni primarie per la scelta del candidato premier. Il progetto va in porto, le primarie si organizzano e Di Pietro presenta subito la sua candidatura. Le primarie si svolgono il 16 ottobre 2005 con sette candidati: Di Pietro è arrivato quarto, raccogliendo 142.143 voti (il 3,3% dei consensi), alle spalle di Romano Prodi, che ha ricevuto l'investitura di candidato premier della coalizione, di Fausto Bertinotti e Clemente Mastella. Le elezioni politiche del 9 e 10 aprile 2006 fanno registrare un avanzamento dell'Italia dei Valori (che si attesta al 2,3% alla Camera e al 2,9% al Senato) grazie anche al buonissimo risultato conseguito in una circoscrizione tradizionalmente ostica per Di Pietro ed il centrosinistra, la Sicilia, in cui decisiva fu la presenza nelle liste dell'IdV di Leoluca Orlando, da un anno segretario regionale del movimento in terra sicula e che successivamente verrà nominato presidente del partito. Il successo nelle consultazioni arride all'Unione ed il 17 maggio 2006 Di Pietro viene nominato Ministro delle Infrastrutture nel secondo Governo Prodi. Lascia l'incarico di europarlamentare per accettare quello di deputato nazionale. In qualità di ministro delle infrastrutture, sospende la procedura di fusione tra la società autostrade e l'omologa spagnola Abertis, eccependo il danno economico che lo Stato avrebbe avuto dall'esecuzione di tale piano. Nel luglio del 2006 scoppia una polemica interna alla coalizione di governo, in particolare nei confronti del Ministro della Giustizia Clemente Mastella, a causa della forte contrarietà del partito di Di Pietro ad inserire i reati finanziari, societari e di corruzione all'interno del provvedimento di indulto. Il provvedimento è sostenuto, invece, in maniera trasversale da esponenti e partiti di entrambi gli schieramenti, esclusa la Lega Nord, il Partito dei Comunisti Italiani e gran parte di Alleanza Nazionale. Di Pietro manifesta davanti a Palazzo Madama prima dell'approvazione del provvedimento al Senato, insieme alla Lega Nord. Tuttavia, al contrario di tale partito, Di Pietro si è dichiarato a malincuore favorevole all'indulto come mezzo per svuotare le carceri solo dopo un cambiamento della riforma Castelli, come previsto dal programma dell'Ulivo. Tali richieste non vengono accolte e Di Pietro pubblica polemicamente sul suo sito web personale i nomi dei deputati che hanno votato a favore dell'indulto, tra i quali anche Federica Rossi Gasparrini dell'Italia dei Valori, poi passata all'Udeur. Afferma Di Pietro: « È sconcertante, davvero sconcertante, vedere l'Unione rinnegare nei fatti, con questo indulto, il programma che ha presentato ai cittadini e per cui è stata eletta. Il cittadino conta meno di zero, non può scegliere i suoi rappresentanti (con riferimento alla legge elettorale senza preferenze, ndr) e neppure vedere rispettato il programma di governo. A cosa serve l'istituzione parlamentare oggi? Quanto è lontana dagli elettori? È una domanda che noi politici dobbiamo farci e alla quale è necessario dare presto delle risposte.» In occasione delle elezioni politiche del 2008, Di Pietro entra in coalizione con il Partito Democratico. Il suo partito ottiene il 4,4% alla Camera dei Deputati e il 4,3% al Senato raddoppiando i suoi voti; l'ex magistrato sceglie di essere eletto nel natìo Molise, dove aveva raggiunto il miglior risultato in Italia, superando in entrambe le camere il Partito Democratico.

Nel 2013, in occasione delle elezioni politiche del 2013, decide di rinunciare a presentarsi con il suo partito per appoggiare la lista Rivoluzione Civile, guidata dal candidato premier ed ex magistrato Antonio Ingroia. Tuttavia i risultati delle elezioni non consentono a questa lista di superare le rispettive soglie di sbarramento per Camera e Senato, così Di Pietro resta fuori dal Parlamento. Il 26 febbraio si dimette da presidente dell'Italia dei Valori e il 2 maggio Rivoluzione Civile viene disciolta all'unanimità dai suoi costituenti. Il 28 giugno al Congresso dell'Italia dei Valori ufficializza le sue dimissioni da presidente del partito dichiarando di rimanere però militante dello stesso. Il nuovo leader del movimento è Ignazio Messina. Nel febbraio 2014, nel corso del programma L'aria che tira, annuncia la sua candidatura alle Elezioni europee di maggio non venendo poi candidato. Il 3 ottobre 2014, poco prima del raduno nazionale di Sansepolcro, Di Pietro decide di lasciare definitivamente l'Idv. Un voto che lo vede nettamente in minoranza (il 95% dei delegati approva infatti la linea politica del segretario Messina) sancisce l'addio al partito che, nel 1998, aveva fondato proprio nella località toscana. Di Pietro, in particolare, volendo portare avanti un'opposizione dura al Governo Renzi, già dopo le elezioni europee aveva criticato la scelta di riallacciare un rapporto di dialogo con il Pd. Di Pietro si schiera insieme a Casini ed a tutta la Casa delle Libertà contro la rimozione del capo della polizia De Gennaro, responsabile della polizia in carica durante le violenze del G8, adducendo come motivazione "non tanto il gesto ma le modalità di esecuzione", ritenendo preferibile che non venisse prontamente allontanato, troppo veementemente, un capo della polizia indagato per istigazione alla falsa testimonianza, allontanamento che Di Pietro definisce "una vendetta della sinistra massimalista". Altri membri del suo partito in tale occasione si sono augurati che a De Gennaro venissero affidati altri prestigiosi incarichi, cosa puntualmente accaduta, con la nomina a capo del gabinetto da parte di Amato. Di Pietro dichiara di opporsi alla riforma sulle intercettazioni che, a suo dire, avrebbe come obiettivo l'imbavagliamento dei giornalisti e la limitazione dei poteri della magistratura. L'ex magistrato sostiene le ragioni di Europa 7, che da tempo cerca di ottenere le frequenze per trasmettere, situazione per la quale lo Stato Italiano ha subito procedura di infrazione da parte della Comunità europea in data 19 luglio 2006 [2005/5086 C(2006) 3321]. In seguito alla condanna in primo grado di Salvatore Cuffaro per favoreggiamento semplice, ha scritto al Presidente del Consiglio, Romano Prodi, chiedendo la sospensione di diritto di Cuffaro, ai sensi della legge 19 marzo 1990, n. 55. Nel 2008, dopo le dimissioni di Mastella da Ministro della Giustizia, ha scritto a Romano Prodi, che aveva preso l'interim. In questa lettera, ha denunciato le nomine del Comitato direttivo della Scuola della Magistratura di Benevento, a cui, fra gli ultimi atti che aveva compiuto come ministro, Mastella aveva nominato persone del suo collegio elettorale, fra cui l'avvocato difensore della moglie dello stesso Mastella. Annuncia l'adesione di IdV all'iniziativa della rivista MicroMega per la manifestazione nazionale dell'8 luglio 2008 in Piazza Navona, contro le cosiddette "Leggi canaglia", denominata No Cav Day. La sua posizione riguardo al reato di immigrazione è cambiata diverse volte. Egli è passato dal considerarlo giusto (arrivando ad affermare che alcuni immigrati "meriterebbero il taglio degli attributi" e a sostenere pene detentive fino a tre anni nei confronti degli immigrati irregolari) al contrastarlo (considerandolo la causa del sovraffollamento carcerario e dichiarando che gli immigrati "non possono essere considerati di serie B, ma devono avere gli stessi diritti e doveri, a cominciare da quelli elettorali, dei cittadini"). Nel marzo 2010, in seguito alla firma del Presidente della Repubblica Napolitano sul decreto legge che avrebbe permesso la riammissione delle liste PdL nel Lazio e in Lombardia, Di Pietro affermò che bisognava valutare se ci fossero gli estremi per mettere sotto impeachment il Presidente della Repubblica in quanto, a suo dire, il Presidente della Repubblica aveva violato la Costituzione contribuendo alla stesura del testo. L'attacco suscitò la reazione sdegnata sia del governo, sia del resto dell'opposizione. Dopo le proteste del Movimiento 15-M che il 15 ottobre 2011 sono degenerate in duri scontri a Roma, il 17 ottobre 2011 alcuni organi di informazione hanno attribuito ad Antonio Di Pietro la volontà di introdurre una nuova "Legge Reale" per gestire situazioni di violenza durante le manifestazioni, mentre lo stesso Di Pietro ha subito respinto e smentito tali affermazioni.

Indagini giudiziarie e aspetti controversi.

L'inchiesta di Brescia. Dopo questi anni da protagonista della magistratura italiana, sono partite contro di lui diverse indagini giudiziarie, tutte risolte in assoluzioni piene o archiviazioni. Nel 1995 viene indagato dal sostituto procuratore di Brescia Fabio Salamone, ipotizzando reati di concussione e abuso d'ufficio in seguito a dichiarazioni rese dal generale Cerciello (sotto accusa in un processo sulla corruzione della guardia di finanza) ma il giudice per le indagini preliminari archivia il procedimento. Una seconda indagine viene aperta sempre a Brescia sulla base di affermazioni dall'avvocato Carlo Taormina (allora difensore del generale Cerciello), la testimonianza di Giancarlo Gorrini e dossier anonimi su presunti traffici illeciti tra l'ex pm e una società di assicurazioni. L'inchiesta successivamente prende una strada completamente diversa e il pm Salamone arriva ad ipotizzare un complotto finalizzato a far dimettere Di Pietro per mezzo di ricatti e dossier anonimi. Per fare luce sulla vicenda il pm interroga gli ispettori ministeriali Dinacci e De Biase, i ministri Alfredo Biondi, Cesare Previti e il presidente del consiglio Silvio Berlusconi, mentre suo fratello Paolo viene indagato per estorsione. Secondo le ricostruzioni dei pm tutto sarebbe iniziato dopo che fu recapitato a Silvio Berlusconi un invito a comparire dalla procura di Milano il 21 novembre 1994: Previti avrebbe telefonato all'ispettore ministeriale Dinacci e l'avrebbe messo in contatto con Gorrini il quale si sarebbe presentato lo stesso giorno all'ispettorato per presentare le sue documentazioni contro Di Pietro. Questo avveniva il 23 novembre 1994. Il 29 il ministro Alfredo Biondi ha ordinato di aprire l'inchiesta su Di Pietro. Il 6 dicembre Di Pietro annuncia le dimissioni ed il 10 l'inchiesta viene archiviata. È allora che Salamone mette sotto controllo diversi telefoni e dalle telefonate di Gorrini sulla vicenda emerge il nome di Paolo Berlusconi, suo conoscente e l'incriminazione per lo stesso. Successivamente vengono incriminati anche Cesare Previti, Sergio Cusani per estorsione e lo stesso Silvio Berlusconi per estorsione ed attentato ai diritti politici del cittadino. In questa inchiesta emerge l'esistenza di un dossier del SISDE su Di Pietro chiamato "Achille". Dopo le indagini si arriva ad un processo con imputati Previti, Paolo Berlusconi e gli ispettori ministeriali che indagarono sul Di Pietro. Il 18 ottobre 1996, mentre è ancora in corso il processo sul presunto complotto contro Di Pietro, la procura generale di Brescia rimuove dall'incarico i pm Salamone e Bonfigli per una presunta "grave inimicizia" con Di Pietro (che comunque non era imputato) che "giunge al livello di pervicace odio privato". Il successivo ricorso in cassazione di Salamone contro la decisione della procura viene respinto. Il 21 gennaio 1997 il procuratore che sostiene la pubblica accusa in sostituzione di Salamone (Raimondo Giustozzi) rinuncia ad interrogare i testimoni convocati dall'accusa e chiede subito l'assoluzione per tutti gli imputati. Istanza che viene accolta dal giudice.

Accusa di offesa e attacchi verso Napolitano. Il 3 febbraio 2009 Di Pietro è stato iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Roma con l'accusa di Offesa all'Onore o al Prestigio del Presidente della Repubblica (articolo 278 del codice penale). L'atto è conseguente alla denuncia presentata il 31 gennaio dall'Unione delle Camere Penali Italiane, secondo la cui lettura dei fatti Di Pietro, nel corso del suo intervento durante la manifestazione organizzata dall'Associazione Nazionale Familiari Vittime di Mafia il 28 gennaio 2008 a Piazza Farnese, non si sarebbe limitato a criticare il comportamento del Presidente Napolitano, ma avrebbe attribuito un atteggiamento mafioso ai suoi silenzi. Dal canto suo, Di Pietro ha risposto dal suo blog definendo l'iniziativa "Una mossa puramente politica [...] da parte del professore Oreste Dominioni, che sostiene di "non essere amico di questo o di quel governo", ma che è anche avvocato di famiglia Berlusconi oltre che Presidente dell'Unione delle Camere Penali", invitando anche a rivedere il video del suo intervento al fine di verificare come l'affermazione "il silenzio è mafioso" fosse inserita nella frase "Non siamo d'accordo sull'oblio che le istituzioni hanno nei confronti di questi familiari delle vittime. Vediamo le vittime del terrorismo, della mafia, della criminalità che vengono dimenticate ed abbandonate a sé stesse. Lo possiamo dire, o no? Rispettosamente! Ma il rispetto è una cosa, il silenzio un'altra: il silenzio uccide, il silenzio è mafioso, il silenzio è un comportamento mafioso.". Proprio in virtù di ciò il 13 febbraio 2009 la Procura della Repubblica di Roma, per mezzo del Procuratore Giovanni Ferrara e del PM Giancarlo Amato, ha richiesto l'archiviazione, ritenendo che: « "Una lettura attenta del complessivo intervento dell'onorevole Di Pietro consente di escludere che i riferimenti al 'silenzio mafioso' abbiano avuto quale destinatario il presidente della Repubblica. [...] Dovendosi esse [le affermazioni riferite al Capo dello Stato, NdR] invece inquadrarsi nell'esercizio di un legittimo diritto di critica che è consentito anche nei confronti delle più alte cariche dello Stato se espresso in forme continenti (qui senz'altro ravvisabili), nessuna offesa all'onore ovvero al prestigio del capo dello Stato possono essere ipotizzate. Da qui la ritenuta impossibilità di configurare la fattispecie prevista dall'articolo 278 c.p. e la conseguente decisione di non richiedere l'apposita autorizzazione prevista dall'art.313 primo comma c.p. nei confronti dell'indagato"». Di Pietro è tornato ad attaccare il Presidente della Repubblica sostenendo che la bocciatura dei referendum sulla legge elettorale avvenuta il 12 gennaio 2012 da parte della Corte Costituzionale sarebbe stata una scelta non giuridica ma di favore per compiacere il Capo dello Stato e la sua «maggioranza inciucista». Giorgio Napolitano ha replicato immediatamente che si tratta di «un'insinuazione volgare e del tutto gratuita che denota solo scorrettezza istituzionale».

Immunità parlamentare per diffamazione. Nell'aprile 2009 il Parlamento Europeo ha confermato (654 voti favorevoli, 11 contrari e 13 astenuti) l'immunità parlamentare a vantaggio di Di Pietro, bloccando la causa civile per diffamazione intentatagli dal giudice Filippo Verde a seguito di un articolo pubblicato sul sito dell'Italia dei Valori. Nel commentare il processo pendente dinanzi al Tribunale di Milano per la vicenda IMI-SIR/Lodo Mondadori, Di Pietro affermava che Verde era stato accusato di corruzione per aver accettato una tangente al fine di "aggiustare" una sentenza. In effetti, Filippo Verde non è mai stato coinvolto nella vicenda processuale del Lodo Mondadori, mentre lo è stato nel processo IMI-SIR, nell'ambito del quale era stato assolto da tutte le imputazioni contestategli. L'unico italiano che si è espresso con voto contrario è stato Roberto Fiore, europarlamentare di Forza Nuova. Ha invocato l'immunità parlamentare anche nel procedimento civile intentato da Salvatore Cuffaro presso il Tribunale di Palermo. In questo caso, il Tribunale non ha riconosciuto la sussistenza dei presupposti per l'insindacabilità delle proprie affermazioni ed ha condannato l'ex pm di mani pulite a risarcire Salvatore Cuffaro. La causa civile era stata avviata perché Di Pietro aveva linkato sul proprio sito internet, www.antoniodipietro.it , il video "Costanzo Show Cuffaro aggredisce Falcone" ed aveva affermato che Cuffaro avesse screditato Falcone. Il Tribunale di Palermo, con sentenza n. 1742/2013, ha riconosciuto che Cuffaro non aveva detto nulla contro Giovanni Falcone ed ha considerato diffamatorie le affermazioni di Antonio Di Pietro.

Sospensione dal Foro. L'Ordine degli Avvocati di Bergamo, Foro presso il quale l'ex magistrato attualmente esercita la professione di avvocato, in data 7 luglio 2009, ha inflitto ad Antonio Di Pietro la sanzione della sospensione disciplinare per la violazione del divieto di assumere incarichi contro ex clienti di cui all'articolo 51 del codice deontologico della professione forense. Il riferimento è al processo, svoltosi in Corte d'Assise a Campobasso, nel quale Di Pietro era il legale di parte civile per l'omicidio di Giuliana D'Ascenzo, compaesana di Montenero di Bisaccia, e nel quale imputato era Pasqualino Cianci, precedentemente assistito proprio da Di Pietro.

A cena con SISDE e CIA. Nel 2010 vengono rese pubbliche alcune foto risalenti al 1992 che ritraggono Di Pietro a cena in una caserma dei carabinieri con alcuni esponenti dei servizi segreti, tra i quali Bruno Contrada che solo nove giorni dopo sarà arrestato e poi condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Alla cena erano presenti anche alcuni agenti statunitensi della CIA.

CEPU. Fondato nel 1995, il CEPU ha inizialmente goduto dell'amicizia tra il suo fondatore Francesco Polidori e Di Pietro, che prese parte alle prime campagne pubblicitarie e tenne seminari in qualità di docente di Tecnica processuale. Inoltre, nel 1998 Di Pietro fondò l'Italia dei Valori in un hotel di Sansepolcro di proprietà del gruppo di Polidori. Successivamente, i legami tra Di Pietro e Polidori si sono indeboliti, e quest'ultimo si è candidato nella lista "Federalismo Democratico Umbro" senza stringere alleanze con partiti già presenti in Parlamento.

L'inchiesta di Report. Una puntata di Report dell'ottobre 2012 dedicata al patrimonio personale di Di Pietro ha suscitato notevoli polemiche che hanno avuto influenza anche sul partito Italia dei Valori, contribuendo alla fuoriuscita di alcuni esponenti, tra cui Massimo Donadi. Nella trasmissione si è affermato che Di Pietro sarebbe intestatario di 56 immobili ( compresi garage, cantine e terreni), del valore stimato intorno ai 15 milioni di euro, e che parte di essi sarebbe stato acquistato utilizzando fondi ricavati dai rimborsi elettorali e da un lascito. Peraltro diverse accuse presentate verso Di Pietro erano già state valutate dalla magistratura, con sentenze a lui favorevoli. Di Pietro, tramite il suo blog, si è subito difeso portando come prova le visure catastali. Da questi documenti emergerebbe secondo Di Pietro che "un modesto appartamento diviso in due e da me regalato nel 2008 ai miei figli Anna e Totò, a Milano, è diventato nella campagna di calunnia 15 case"; ha aggiunto inoltre di aver "messo a disposizione di chiunque i documenti che dimostrano come in quell’agguato travestito da inchiesta siano state fatte passare per mie proprietà marciapiedi, svincoli, strade di accesso e persino giardinetti pubblici". Sempre dagli incartamenti del catasto si dedurrebbe che i due appartamenti di Bergamo costituiscono in realtà un solo appartamento, acquistato dalla moglie Susanna Mazzoleni. Ha infine dichiarato che sporgerà querela contro la giornalista di Report che ha condotto l'inchiesta. Tuttavia, nonostante gli annunci, decorso il termine di novanta giorni, Di Pietro non ha sporto querela, ma ha annunciato una causa civile.

Parte civile al processo per compravendita di senatori. Nel febbraio 2014 si costituisce parte civile per l'IdV al processo sulla presunta compravendita di senatori da parte di Silvio Berlusconi.

La famiglia. Antonio Di Pietro si è sposato nel 1973 con Isabella Ferrara, da cui lo stesso anno ha avuto il figlio Cristiano il quale siede nel consiglio regionale del Molise con l'IDV. Dopo il divorzio, si è sposato in seconde nozze nel 1994 con Susanna Mazzoleni, avvocato di famiglia benestante bergamasca (padre anch’egli avvocato e nonno notaio). Con lei ha avuto due figli: Anna e Antonio Giuseppe, detto Totò. Nel 2002 diventa nonno di tre gemelli.

Il tumore benigno alla prostata. Il 1º ottobre 2009 Di Pietro ha confidato al Corriere della Sera di essere stato operato, due mesi prima, per un tumore benigno alla prostata e di essersi già discretamente ristabilito. Di Pietro ha inoltre dichiarato, nella stessa intervista, di sentirsi solidale nei confronti di Silvio Berlusconi, il quale aveva subito anni prima un intervento simile.

Il "dipietrese". Alcuni aspetti del linguaggio utilizzato da Antonio di Pietro, dapprima come magistrato, e, in seguito, dopo l'abbandono dell'ordine giudiziario, nella sua azione politica, sono stati oggetto dell'attenzione dei media, che hanno coniato il neologismo "dipietrese", entrato nel gergo giornalistico e usato dallo stesso Di Pietro. Il fenomeno ha attratto l'attenzione dei linguisti, con articoli e commenti, per le sue caratteristiche innovative nel tradizionale modo di esprimersi della comunicazione pubblica in Italia, riconosciutegli in gradi diversi dai vari studiosi. Questo modo d'esprimersi è salito alla ribalta nelle aule giudiziarie, in occasione delle udienze pubbliche di processi della stagione di Mani Pulite, in cui Di Pietro, in qualità di pubblico ministero, sosteneva il ruolo della pubblica accusa. In particolare, è venuto all'attenzione di un vasto pubblico a seguito della messa in onda delle registrazioni delle udienze di quei processi. Il dipietrese si caratterizza per un lessico e un registro linguistico coloriti e popolari, con uno stile comunicativo spesso scevro da tecnicismi e formalismi, condito da espressioni tipiche, esclamazioni, detti proverbiali, neologismi funzionali, come «dazione» e «dazione ambientale», «fuggitore di notizie» (autore delle fughe di notizie), «mosca cavallina», «zanzata», «benedettiddio!» o «Santa Madonna!», «che c'azzecca?» («cosa c'entra?»), «Non ho capito!», «Scusi, non ho capito!» (frasi ed esclamazioni rivolte a testimoni o imputati per sottolineare la contraddittorietà di quanto dichiarato), «O è zuppa, o è pan bagnato», e l'affermarsi di numerose altre polirematiche e neologismi divenute patrimonio del linguaggio comune, come "Mani pulite" e "Tangentopoli". L'eloquio tende a uno stile nominale, pur senza eccedere, come altri, in nominalismi. Un'altra cifra distintiva è l'ampio uso di sigle in funzione di «parole piene»: «il PG» (Procuratore generale), «il GIP» (Giudice per le indagini preliminari), «il PM» (pubblico ministero). Quando il linguaggio di Di Pietro si manifestò per le prime volte, offrendosi a una vasta platea giornalistica e televisiva, in esso fu immediatamente riconosciuto un carattere di novità, rispetto a formulazioni linguistiche retoriche, pompose, scenografiche, tecnicistiche, stereotipate, o paludate, di quel linguaggio settoriale che la mente normalmente associa all'ambiente giudiziario. La novità del linguaggio si accompagnava alla novità della condotta dibattimentale, anch'essa fuori dagli schemi per quanto riguarda il modo di porgere le prove agli interlocutori del pubblico ministero, anche con l'utilizzo, veramente innovativo per l'epoca, di risorse informatiche e multimediali. Il giudizio sull'innovatività linguistica del dipietrese, assume toni diversi nelle opinioni dei linguisti: Michele Cortelazzo, ad esempio, senza negarne gli aspetti di novità, considera il linguaggio di Antonio Di Pietro ancora troppo vincolato ai paludamenti del tecnicismo giudiziario. Più severo è il giudizio di Raffaele Simone, che invece riconosce nel dipietrese i vizi perduranti del linguaggio della comunicazione pubblica italiana, «enigmaticità ed equivocità», accostate, nel suo caso, a una dose di «scombinatezza».

Di Pietro e Internet. A partire dal mese di gennaio del 2006 Di Pietro tiene un blog personale. Tra le iniziative di spicco, oltre alla pubblicazione di riflessioni personali, alla pubblicizzazione delle iniziative e degli incontri nazionali del partito e alla spiegazione della linea politica che egli segue, ha riproposto la spiegazione di tutte le decisioni prese all'interno del Consiglio dei ministri sotto forma di videoclip ospitate su YouTube, partire col CdM del 19 gennaio 2007 (e pubblicato poi sul blog il 22 gennaio). Il 28 febbraio seguente ha annunciato sul suo blog di aver aperto uno spazio per l'Italia dei Valori nella comunità virtuale Second Life, avendo acquistato un'isola su cui ha piantato la bandiera del partito. In seguito l'area è stata allestita con nuove costruzioni e, a partire dal 26 marzo, è sede per le riunioni di IDV AGORÀ, gruppo di avatar di Second Life che si riconosce negli ideali di Italia dei Valori. Il 12 luglio Antonio Di Pietro tiene la prima conferenza stampa ufficiale del partito su Second Life, davanti all'avatar di numerosi giornalisti e simpatizzanti che hanno interagito, ponendo domande anche per verificare che non fosse una registrazione. A causa di un articolo pubblicato sul proprio sito internet dal titolo "Vi difendiamo tutti da Cuffaro", Antonio di Pietro è stato condannato dal Tribunale Civile di Palermo, con sentenza n. 1742/2013, a risarcire Salvatore Cuffaro con la somma di € 6.000,00, oltre € 4.980,00 di spese legali ed alla pubblicazione della sentenza su "Il Corriere della Sera" e "La Repubblica", per aver detto erroneamente che lo stesso avrebbe screditato il giudice Giovanni Falcone nel corso di una trasmissione televisiva andata in onda nel 1991.

COME SI DIVENTA MAGISTRATI: CHIEDETELO AD ANTONIO DI PIETRO.

“Ho letto i requisiti per poter diventare magistrato:li ritengo ingiusti. In special modo quello relativo alle condanne penali riportate dai parenti. Io ho dei parenti che sono stati in carcere ma non capisco come possa la mia vita essere collegata alla loro. Ognuno fa della propria vita ciò che vuole. La mia scelta di vita è totalmente differente dalla loro. Perchè punire me per fatti commessi da altri? Si potrebbe pensare: siccome sono parenti, una volta diventato magistrato potrei aiutarli. Allora la cosa diventa paradossale: per chi ha parenti incensurati ma dei migliori amici mafiosi...come la mettiamo? Secondo me è una violazione palese dell'art. 3 della Cost.. In questo modo il sogno della mia vita, svanisce prima d'iniziare...ergo...le colpe dei padri (in senso lato) ricadono sui figli. Spero vivamente che qualcosa cambi in questo senso.” Maria.

Vediamo un po'!. E' proprio vero che i magistrati sono di cristallina moralità, di immacolato lignaggio e di indiscutibile frequentazione amicale?

Magistrati, il concorso delle polemiche. Le nuove regole per l'accesso in magistratura prevedono un percorso agevolato per i praticanti dell'avvocatura di Stato. Eccezione che ha fatto infuriare chi arriva dagli studi privati o dalle altre amministrazioni pubbliche, scrive A. M. su “L’Espresso”. Rivolta contro le nuove regole per il concorso in magistratura. Le norme stringenti e meritocratiche decise dal governo, dopo che lo scorso anno per 365 posti erano state presentate 20 mila domande, prevedono un’eccezione: i praticanti dell’Avvocatura dello Stato. Il bando per 340 posti nel 2015 stabilisce infatti che possa essere ammesso direttamente, senza passare per la costosa Scuola di specializzazione, insieme a chi ha fatto uno stage formativo in un ufficio giudiziario, pure chi abbia svolto il tirocinio presso l’Avvocatura statale (a patto che abbia meno di trent’anni, un voto di laurea superiore a 105/110 o una media di 27/30 in alcuni esami). Esclusi in toto, invece, i praticanti degli studi privati e delle altre amministrazioni pubbliche (come le avvocature della Banca d’Italia e quelle dell’Inps). Le nuove disposizioni hanno scatenato una bufera tra le migliaia di precari degli studi privati che, attraverso il portale LeggiOggi.it, stanno preparando ricorso collettivo contro «l’inaccettabile discriminazione».

Il magistrato nipote del boss mafioso, scrive “Art. tre”. Il matrimonio tra due rampolli di Cosa Nostra, la nipote di Messina Denaro e il figlio di un boss mafioso, celebrate  nella Cappella Palatina a Palazzo dei Normanni, hanno suscitato indubbio scalpore. I due ragazzi, peraltro incensurati, sono gli eredi di famiglie importanti, quei Guttadauro e Sansone che hanno scritto la storia recente di Cosa Nostra. Comunque nulla di illecito, gli sposi hanno sancito la loro unione in un luogo concesso dalle istituzioni a chiunque ne faccia richiesta. Mentre è emersa un’altra vicenda relativa al boss di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro, un suo nipote diretto, cugino della neo sposina,  è entrato in magistratura. Certamente si tratta di un magistrato perbene e corretto, lontano dalle cosche. Ha scelto di svolgere la funzione di giudice lontano dalla Sicilia e certamente espleta la sua funzione in maniera ineccepibile. Ma un’anomalia, e non da poco, esiste: è parente stretto di un appartenente a Cosa Nostra e quando il neo laureato in giurisprudenza presentò la domanda per accedere al concorso in magistratura, gli organismi investigativi avrebbero dovuto segnalare la cosa al ministero della Giustizia. Infatti l’articolo 124 dell’ordinamento giudiziario recita “Il Csm non ammette al concorso i candidati che, per le informazioni raccolte, non risultano di condotta incensurabile ed i cui parenti, in linea retta entro il primo grado ed in linea collaterale entro il secondo grado, hanno riportato condanne”. Per il caso Cuffaro, Giuseppe Guttadauro, zio del magistrato,  è stato condannato a 13 anni e quattro mesi di carcere. La prassi per entrare in magistratura è rigida, la parentela di questo giudice, sarebbero stata ostacolo anche solo per ottenere un appalto pubblico, invece nessuno ha eccepito alcunché sulla sua nomina.

Sulla condotta censurabile si è espresso il Consiglio di Stato.

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, sentenza 04 luglio 2012, n. 3929 (Pres. Trotta, Est. Forlenza)

Il fratello del pm antimafia al ricevimento del boss. A essere immortalato mentre partecipa al ricevimento della nipote paterna del boss Antonio Pelle, alias Gambazza, e del nipote del boss Antonio Nirta, è Vincenzo Mollace, scrive “Il Tempo”. Nozze, clan e parenti stretti dei pm antimafia. Ad essere immortalato mentre partecipa al ricevimento della nipote paterna del boss Antonio Pelle, alias Gambazza, e del nipote del boss Antonio Nirta, detto «il terribile», è Vincenzo Mollace, fratello «scomodo» del magistrato antimafia Francesco Mollace, di recente trasferito dalla procura di Reggio Calabria a Roma. Lo scenario è un ristorante di Gerace, nella locride. Il dvd che ritrae il fratello del pm mentre s’intrattiene, fra un pasto e l’altro, coi più potenti boss calabresi, è contenuto in un’informativa dei carabinieri di Locri, nelle cui mani è finito praticamente per caso. Siamo nel gennaio 2010 e il reparto speciale «Cacciatori» dell’Arma è sulle tracce di un pericoloso latitante: Stefano Mammoliti. Irrompono nella casa di un secondo latitante di San Luca convinti di scovare la loro preda, ma non trovano nessuno. Si imbattono, però, nel dvd e nel visionarlo restano basiti: a tavola coi mammasantissima c’è infatti Vincenzo Mollace, docente universitario, fratello del pm antimafia e all’epoca dei fatti direttore generale dell’Arpacal, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente in Calabria. Nell’informativa gli uomini dell’Arma scrivono: «Si nota di spalle con cappotto e cappello di colore scuro Mollace Vincenzo nella zona antistante il buffet, vicino a un soggetto anziano con la coppola, successivamente di fianco vicino a due soggetti di spalle e a Nirta Antonio, alias “terribile”, padre dello sposo, mentre parlano». Intorno a loro, che bevono vino, chiacchierano e mangiano, anche Rocco Morabito, «successore» del boss Giuseppe Morabito «u tiradrittu», e Bruno Gioffrè, che nella «cupola calabrese» occupa il secondo posto più importante. Fra i commensali, come riportato nell’informativa, anche due politici locali: Tommaso Mittiga, sindaco di Bovalino di area Pd, e Domenico Savica, suo «oppositore» in consiglio comunale. Il filmato rinvenuto dai carabinieri fa da riscontro a molti elementi contenuti nelle carte dell’operazione «Inganno» che un mese fa ha portato agli arresti dell’ex sindaco di San Luca, Sebastiano Giorgi, e della «paladina antimafia» Rosy Canale, coordinatrice del «Movimento delle donne di San Luca». Ed è nel corso di questa operazione che gli investigatori hanno intercettato l’ex sindaco Giorgi mentre affermava che gli incontri tra Vincenzo Mollace e i boss si sarebbero intensificati a ridosso delle ultime elezioni regionali. Gli inquirenti si soffermano anche sui rapporti tra Savica e Vincenzo Mollace e dello stesso Savica con Antonio Stefano Caridi, oggi senatore del Nuovo Centrodestra.

Portici, in lista la nipote del boss imbarazzo del giudice candidato sindaco. Nascita e tramonto in poche ore della corsa elettorale della giovane imparentata a Luigi Vollaro, detto o' Califfo. E il magistrato: forse una leggerezza, scrive Concita Sannino su “La Repubblica”. Psicodramma preelettorale a Portici. Una farsa, grave, a più voci. Basta bussare a una porta del centro storico per scoprire che la nipote ventenne del boss di camorra Luigi Vollaro, ergastolano noto come 'o Califfo, ovvero Jessica Provisiero, è inserita in lista con l'Udc, all'insaputa  -  ovvio  -  di tutti.  "Sì, ce la voglio fare, io sono pulita, magari comincia una bella carriera", dice Jessica.  Un'ora più tardi: il terremoto. Si fa viva la mamma della candidata: "Perché non parlate con me?". Due ore dopo: il candidato sindaco della stessa compagine, Nicola Marrone, per inciso giudice a Torre Annunziata, confessa di aver appreso "la grave circostanza" solo ieri, appena dopo la visita di "Repubblica" alla signorina gravata  -  senza colpa  -  dal legame di sangue con il nonno ras (detenuto da 30 anni). E alla fine, dopo febbrili contatti, è lo stesso Marrone a pretendere "il ritiro immediato" di Jessica. Ma questo si vedrà dopo. Benvenuti nella città dove esplodono i veleni nel centrosinistra. "La colpa è tutta dell'ex sindaco e attuale senatore Pd, Cuomo", tuonano adesso dall'Udc. La cittadina che fino a ieri piangeva i morti e i feriti del balcone crollato, domenica scorsa, alla processione del patrono San Ciro, relega ormai il cordoglio ai parenti e alle parrocchie, archivia i funerali e si rituffa nel clima preelettorale. Compresi sgambetti, imboscate e gravi sorprese. Quella della candidatura di Jessica Provisiero  -  classe 1991, ragazza incensurata, senza alcun peso se non la parentela col nonno che fu il sanguinario Califfo di camorra  -  è una storia in linea con lo scollamento tra etica e politica, perfino tra evidenza e logica. Lei, la ragazza, ha una faccia pulita e racconta: "Non mi chiedete se mi piace destra o sinistra, non saprei, ma ci provo". Invece lo psicodramma di Portici, di cui è stata testimone ieri "Repubblica", racconta nell'ordine: una precipitosa fuga a minimizzare prima di capire che cosa fosse successo e chi avesse operato, anche illudendo una ragazza; un'alta concentrazione di veleni nel campo lasciato libero dal sindaco uscente Pd; e una grave defaillance di (mezzo) centrosinistra, visto che a sostenere Marrone ci sono anche Sel e Verdi. Nessuno si era accorto di chi c'era in lista? Uno psicodramma lungo un pomeriggio. In tre tempi.

Ore 15, Jessica spera. "Con la politica va via il marchio". I vicoli che si allungano nell'antico mercato di Portici, alle spalle del santuario di San Ciro, evocano immagini che hanno attraversato le faide dei tremendi anni Settanta. Guerre di scafi blu, di ricchezze, di omicidi. A Portici imperava un boss che si faceva chiamare 'o Califfo, aveva troppi figli e molti vizi. Luigi Vollaro è rinchiuso da tre decenni. Da anni al regime 41 bis, carcere duro per i mafiosi, al Nord. In questi vicoli, ora più silenziosi e sereni, vive Jessica, diplomata in Ragioneria, con le sorelle, la madre che lavora in una ditta di pulizie e il padre che si occupa di sfilate di ragazzi e bambini. Lei è candidata Udc, la lista sostiene il giudice Nicola Marrone. Jessica apre il portone. "Qui siamo onesti lavoratori  -  comincia  -  mio nonno è mio nonno ma noi siamo noi". La ragazza si lascia fotografare, ribadisce di volersi impegnare al Comune: "Magari comincio una carriera, ci voglio provare". Ma da quando la appassiona la politica: quale leader, quale schieramento? Jessica indugia. Poi recupera due bigliettini elettorali: "Non saprei. Me lo hanno proposto e ho detto sì. Leggete qui, questo signore mi ha spinta per coinvolgere i giovani". È il candidato Felice Calise dell'Udc, ha fatto stampare i cartoncini che ora le inondano casa con la doppia preferenza: "Vota con Marrone sindaco: Calise e Provisiero". Jessica sorride. "Lo so, qualcuno farà polemiche, che devo fare? Magari mi libero del marchio. Ora scusate, sto raggiungendo mamma sul lavoro. Non ho esperienza, ma vorrei fare qualcosa per il paese". Accanto a lei c'è la sorella maggiore, Loredana: "Guardi che i miei genitori sono onesti lavoratori e siamo felici per mia sorella, ce la farà. Perché non ci possiamo togliere di dosso questa schiavitù? Nostro nonno ce lo dice quando lo andiamo a trovare: "Fate altre scelte nella vita". Ecco tutto". Saluto cordiale. Sono fiduciose.

Ore 16.30, lo stop di una madre. "Lo ha deciso chi di dovere". Una voce gentile ma preoccupata, al telefono. È Teresa Vollaro, la madre di Jessica. "Scusi, che servizio volete fare? Invece di chiamare Jessica dovevate chiamare me". Ma la candidata è adulta e sa che cosa vuole. Replica della signora Teresa: "Ma quando mai. Cancellate tutto. Sono tanto delusa dalla giustizia divina e umana...". Si riferisce all'ergastolo per suo padre? "Che c'entra? Perché lo nomina? Non lo nomini". La nipote del boss in lista apre polemiche. "Ma Jessica si ritira, basta!". Jessica sembrava molto contenta di farlo. "No. Abbiamo parlato con chi di dovere. Meglio di no. Arrivederci".

Ore 19. L'anatema di Marrone. "Jessica si ritira, basta". Il candidato sindaco Marrone è in bilico tra amarezza e imbarazzo. E ira. "Certamente quello che è accaduto è grave, e provvederemo a fare ritirare la ragazza, che non ha alcuna colpa. Ma lei e la sua famiglia sono già d'accordo a non entrare in Comune, si ritira". Resta il dubbio: si è trattato di un'imboscata, di una clamorosa "leggerezza" o di un'operazione fallita per un'intervista? "Sono un pragmatico e voglio ritenere che ci sia stata una leggerezza, nel mettere in lista una giovane che peraltro porta un cognome diverso da quello del nonno, ben noto. Ma io non ne sapevo nulla". Non si chiede chi abbia condotto questa operazione nell'Udc? "Invece penso a chi possa aver usato strumentalmente questa leggerezza di altri... Penso ci sia lo zampino dell'ex sindaco e senatore Pd Cuomo: guarda le parentele degli altri, spiffera. Proprio lui che si dispiacque quando qualcuno parlò di parentele per lui". Veleni. Mentre Marrone si divide tra il ruolo di aspirante sindaco e quello di giudice. Si scopre, infatti, che Marrone è in piena campagna elettorale a una manciata di chilometri dal suo collegio giudicante, ma non è in aspettativa. Così come la legge (poco etica) gli consente. Era accaduto ad altri magistrati, accadrà ancora. "Mi adeguo alla legge", spiega cortese l'aspirante sindaco. Mentre Jessica scompare sullo sfondo.

«Ma voi del Giornale non sapete una cosa pazzesca su Antonio Di Pietro e il giudice Corrado Carnevale, sì proprio quello a cui gli amici di Tonino danno addosso dicendo che aggiustava i processi per conto di Cosa nostra...». L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare uscente dell’Mpa di Raffaele Lombardo, ci rimanda a quando nel 1980-81 il cosiddetto giudice «ammazzasentenze», da presidente della commissione d’esami del concorso in magistratura, fece di tutto per promuovere l’allora vice commissario di polizia molisano che ai test aveva fatto una figura a dir poco penosa.

(«Avevo letto il curriculum di Antonio Di Pietro - ha raccontato Carnevale -: era stato emigrante, si era arrabattato molto, questo mi indusse a essere clemente. Se devo pentirmi di tutto, come pretendono molti, mi pento anche di aver fatto promuovere Di Pietro. Nei concorsi per magistrati non bisognerebbe tenere conto di considerazioni pietistiche. In base all’esame però non avrebbe meritato il voto minimo che gli abbiamo attribuito...»).

Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Altro che recriminazioni per l’ipergarantista Carnevale che proprio grazie ai giustizialisti alla Di Pietro si ritroverà a lungo nei guai. Non ci resta che chiedere direttamente a lui, all’integerrimo magistrato in pensione Felice Filocamo, che agli esami orali proprio con Di Pietro ebbe un curioso botta e risposta. «Nel grande giorno - scrive Filippo Facci nel suo libro su Di Pietro - gli chiesero un documento perché si identificasse e reagì stizzito: “Ma io sono il commissario Di Pietro”. “Si, certo, ma solo quando me lo avrà dimostrato”...».

Giudice Filocamo, scusi il disturbo. Sappiamo che lei non ha mai parlato di questa storia degli esami di Antonio Di Pietro per indossare la toga. Ma l’onorevole Belcastro ci ha riferito che...

«Fermatevi. Parlate con il giudice Carnevale, è lui l’autore di tutto (risatina), di quella raccomandazione. Io ero solo il segretario della commissione, chiedete, chiedete a Carnevale».

Corrado Carnevale si è già espresso dicendosi pentito d’aver raccomandato Tonino a diventare un pm. L’onorevole Belcastro, riferendo di una vostra confidenza, ci ha raccontato che non si trattò solo di raccomandazione ma di molto di più, e di più grave, a seguito di un esame quantomeno disastroso da parte di Di Pietro. Esame ben al di sotto della sufficienza e a seguito del quale sarebbero stati strappati compiti e verbali. Sarebbe stato commesso un reato...

«Che ormai sarebbe prescritto (risata). La prego, la fermo. Diciamo che anche se sono passati tanti anni è antipatico rivelare quelli che sono, e restano, i segreti di una camera di consiglio. Non si fa. Non mi faccia scendere nei particolari che vi ha riferito Belcastro, non è mio costume, non insista».

Almeno se lo ricorda quell’esame?

«E come non me lo ricordo? L’esame del vicecommissario Di Pietro è stato... poco decoroso perché insomma... la commissione era convinta che non dovesse essere promosso. Poi è successo quello che è successo e...».

E?

«E... niente. In quell’occasione è stato fortunato (risata). Seguendolo, negli anni, ho potuto notare come sia stato sempre fortunato. Come quando prese soldi e regali da quelle persone lì, a Milano. Si è detto che non era reato, benissimo, ma non fu una cosa molto decorosa per lui e per la magistratura. Così come non ha fatto una bella figura quando venne sospeso dal consiglio nazionale forense per aver tradito il mandato difensivo di un suo assistito accusato d’omicidio, che peraltro, se non ricordo male, era pure il suo migliore amico».

A proposito di questo «tradimento» la Cassazione ha appena chiuso il caso confermando la «condanna» a Di Pietro.

«Ecco, appunto, per indegnità, per scorrettezza, più di questo che gli devono dire?».

Non ce ne voglia, Filocamo. Ma dobbiamo tornare all’esame di Di Pietro perché le cose riferite dall’onorevole Belcastro, anche se il reato è prescritto, sono comunque di una certa rilevanza.

Belcastro parla di verbali e compiti strappati...

«Strappare i verbali... dico... strappare... guardi, in camera di consiglio ognuno esprime la propria opinione, e alla fine, sommando le opinioni, ha prevalso l’opinione generale contraria alla promozione di Di Pietro. Poi, con l’intervento di qualcuno che ha ritenuto che quella decisione non fosse... come dire... beh, ha capito, la commissione poi cambiò idea. Ci furono delle discussioni, la decisione venne rivista. Se chiedete al giudice Carnevale vi può dire lui come andarono veramente le cose. Lui era il capo, lui era il presidente. Io ero solo il segretario della commissione e il segretario, verbalizzavo punto e basta, non avevo poteri decisionali».

Faccia uno sforzo, presidente. Davvero non si ricorda se ha strappato il compito di Di Pietro e se poi qualcun altro l’ha riscritto?

«Cercate di capire... sono passati trent’anni...».

Corrado Carnevale: "Al concorso in magistratura, Di Pietro ha avuto due aiutini". L'ex giudice Corrado Carnevale: "Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio", scrive Rachele Nenzi su “Il Giornale”. "Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale". A svelare questo dettaglio sulla carriera dell'ex toga di Mani Pulite è il Tempo che riporta quanto detto dall’avvocato Roberto Aloisio, legale del giudice in pensione Corrado Carnevale, al collegio della prima sezione civile della Corte d’Appello di Roma. Come scrive il quotidiano romano, "la vicenda giudiziaria prende le mosse da un’intervista che nel 2008 Carnevale rilasciò al condirettore del giornale online "Petrus", Bruno Volpe, in cui confessò di essersi pentito di aver fatto promuovere Di Pietro al concorso in magistratura. Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune". Corrado Carnevale è tornato in aula per difendersi dall'accusa di diffamazione mossa da Antonio Di Pietro. Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. Durante il dibattimento in tribunale, il legale di Carnevale ha ribadito le dichiarazioni del suo assistito: "In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria". Opposta la versione del legale di Di Pietro: "Dagli atti documentali del processo di primo grado è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa".

Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato. L’ex giudice Carnevale sull’esame di Tonino a pm: «Era povero, mi commossi. E due 5 diventarono 6», scrive Valeria Di Corrado su “Il Tempo”. «Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale». Un aspetto non trascurabile del percorso che ha portato un vicecommissario del Molise a diventare uno dei magistrati di punta del pool di Mani Pulite, viene alla luce da una causa civile per diffamazione. È stato l’avvocato Roberto Aloisio, legale del giudice in pensione Corrado Carnevale, a spiegare ieri al collegio della prima sezione civile della Corte d’Appello di Roma come andò l’esame per diventare uditore di Di Pietro. La vicenda giudiziaria prende le mosse da un’intervista che nel 2008 Carnevale rilasciò al condirettore del giornale online «Petrus», Bruno Volpe, in cui confessò di essersi pentito di aver fatto promuovere Di Pietro al concorso in magistratura. «Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune». Per quelle dichiarazioni, poi riprese da altre testate giornalistiche, Di Pietro ha querelato per diffamazione a mezzo stampa Carnevale. Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. «L’urgenza di un’inibitoria – ha spiegato l’avvocato Aloisio – è dovuta al fatto che è già stato notificato l’atto di precetto. Lunedì scorso eravamo in attesa dell’ufficiale giudiziario. Il mio assistito non solo ritiene che giustizia non sia stata fatta, ma ritiene che 30 mila euro (se si considerano pure le spese legali e gli interessi) non siano una bazzecola per nessuno, anche per un magistrato la cui pensione mensile corrisponde alla metà di quella somma». Prima di celebrare l’udienza, ieri, il presidente del collegio d’Appello Francesco Ferdinandi ha chiesto alle parti «data la levatura delle loro personalità» se volessero raggiungere un accordo bonario e rinunciare al contenzioso, ma il legale di Di Pietro si è opposto. A quel punto l’avvocato Aloisio è entrato nel merito della questione: «In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria». A difendere l’ex pm di Mani Pulite, in udienza, c’era un avvocato dello studio legale Scicchiatano, di cui lo stesso Di Pietro fa parte da quando ha lasciato la carriera politica per quella forense. «Dagli atti documentali del processo di primo grado – ha spiegato il civilista – è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa». Ora la parola passa ai giudici di secondo grado che dovranno decidere se accogliere la richiesta di sospensiva della sentenza.

Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».

TIZIANA PARENTI.

Tiziana Parenti. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Tiziana Parenti detta Titti (Pisa, 16 aprile 1950) è un avvocato, politica ed ex magistrato italiana. Pisa 16 aprile 1950. Avvocato. Ex magistrato (era nel pool Mani pulite, versante tangenti rosse: fece arrestare il comunista Primo Greganti). Ex parlamentare (eletta con Forza Italia nel 1994 e 1996). «Candidarsi era giusto, lo rifarei. Nel 94 stava per andare al potere una classe dirigente vendicativa. Avevo già dato un’occhiata all’organigramma, in Procura: Occhetto presidente del Consiglio, Violante ministro dell’Interno... Un disastro». Ruppe con Berlusconi ai tempi della Bicamerale: «Ero stata mandata là e mi era chiaro che Berlusconi la usava per trattare sulle sue cose. Credeva ai suoi consiglieri, ma io glielo dicevo: “Guarda che non è qui che risolverai i tuoi processi”. Sono passata al gruppo misto e poi, nel 2001, non mi sono ricandidata. Non avrei saputo con chi farlo» (a Maria Latella). Presidente della commissione Antimafia dal 1994 al 96. Nel 2004 aderì alla Margherita di Rutelli. Assolta nel marzo 2007 a Genova nello stesso processo in cui un colonnello dei carabinieri fu condannato per aver gestito in modo spregiudicato droga e pentiti. Detta “Titti la rossa”.

Biografia. Dopo un'iniziale adesione giovanile al PCI di Pisa, entra in magistratura. Magistrato in servizio prima in corte d'assise, poi alla procura di Milano, "Titti la rossa" - come veniva soprannominata da alcuni giornalisti - fu il Pubblico Ministero dell'inchiesta denominata dai mass-media delle tangenti rosse, ed è stata sostituto procuratore del pool milanese dal marzo 1993 nell'inchiesta "Mani pulite". Dopo aver lasciato la magistratura ha intrapreso la professione di avvocato. Fecero scalpore le sue dimissioni dal pool e dalla magistratura e la successiva adesione a Forza Italia, nelle cui liste fu eletta alla Camera nel marzo 1994 nel collegio maggioritario di Mantova. Fu presidente della Commissione antimafia, nel corso della XII Legislatura. Rieletta nel 1996 alla Camera nel collegio maggioritario di Grosseto, aderì al gruppo di Forza Italia. Successivamente, nel 1998, fu tra i primi aderenti al nuovo partito dell'UDR di Francesco Cossiga. Aderì quindi ai SDI. Accusata nel 1995 di concorso in falso in atto pubblico in un'inchiesta contro alcuni ufficiali dell'Arma dei Carabinieri, viene assolta definitivamente nel 2009. Nel 2004 aderisce a La Margherita ed esercita l'avvocatura. Nel 2012 rientra nel Partito Socialista Italiano.

EXPO’, paura per la nuova tangentopoli, scrive Roberto Capocelli su “L’Avanti On line”. Il Presidente del Consiglio Renzi promette ancora una volta di “metterci la faccia”, mentre il commissario, Giuseppe Sala, per l’Expo sembra voler buttare acqua sul fuoco. Secondo Sala, incaricato di vigilare sula regolarità dei lavori dell’Expo, «il principale problema che ha causato ritardi è stato il maltempo». Sala, ascoltato in Commissione Antimafia, sciorina una serie di dati che sembrano essere orientati a promuovere l’Expo mentre, nel merito di ciò su cui è chiamato a rispondere, si limita a dire di aver dato troppa fiducia ad Angelo Paris, il direttore pianificazione e acquisti, «non sospettando che potesse tenere certi tipi di comportamenti». I comportamenti a cui fa riferimento sono di turbativa d’asta e corruzione ed hanno portato già all’arresto di numerose persone facendo parlare di una “tangentopoli due”. L’unica responsabilità di cui si fa carico il commissario è quella di non aver insistito abbastanza con il comune di Milano al fine di organizzare «una gara per il general contractor a cui affidare il cantiere». Titti Parenti, ex magistrato del pool di “Mani Pulite”, esponente socialista che ha vissuto in prima linea gli avvenimenti iniziati il 17 febbraio del ’92 con l’arresto di Mario Chiesa, amministratore del Pio Albergo Trivulzio, ha una lettura diversa di quanto accade oggi a Milano che restituisce all’Avanti! con la profondità della prospettiva storica.

«Onorevole Parenti, in relazione alle indagini dell’Expo si parla di una nuova Tangentopoli. Cosa pensa? Quali indicherebbe come differenze e quali come similitudini con i fatti di più di vent’anni fa?

«Più che delle differenze, io credo che ci si trovi di fronte a un’altra cosa. Mi spiego: certamente gli atti di corruzione sono uguali nelle modalità, non c’è dubbio. Ma, l’elemento davvero differente riguarda il ruolo della politica. Oggi la politica è più debole di quello che era vent’anni fa. Prima c’era una stabilità di punti di riferimento, cioè dei partiti e dei leader. Oggi, i punti di riferimento sono provvisori, mancano i grandi leader e i partiti si sgretolano. Sono caduti quei puntelli e non c’è più niente di tutto questo. Anche i personaggi che si avvicendano sulla scena, a parte casi clamorosi, sono personaggi un po’ provvisori. Non vedo grandi strateghi, grandi leader che hanno una storia. Tutto questo incide anche sulle modalità di corruzione».

Come?

«Proprio la provvisorietà che caratterizza questi leader li rende ancora più facili a pericolose condiscendenze verso pratiche poco trasparenti. Lo fanno per rimanere a galla, perché non hanno una forza propria. Per questo hanno bisogno di ricorrere a lobby, a giri di clientele. Certamente c’è un rinnovarsi di situazioni già viste, ma con soggetti senza un grosso “peso specifico”».

Eppure tra gli arrestati figura il nome di Primo Greganti, il “compagno G”. Una contraddizione rispetto al quadro che lei dipinge. No?

«No. Anzi. Proprio i tre nomi storici (Greganti, Frigerio e Grillo ndr) della politica venuti fuori che ci fanno capire la situazione. Sono loro a rappresentare una continuità paradossalmente proprio perché, nel contesto attuale, sono gli unici che hanno una storia consolidata e, di conseguenza, possono offrire affidabilità e capacità. Perché in queste situazioni non ci sono improvvisazioni».

Ma, come mai una persona come Greganti, continuava ad essere, a prescindere dall’accertamento delle sue responsabilità, un referente in fatto di opere come l’Expo?

«Non so come si possano essere create queste connessioni con personaggi “datati”. Sicuramente all’epoca di Tangentopoli si sarebbe dovuto adoperare indagini più approfondite per scoprire le tante radici che quelle persone avevano messo e questo ci aiuterebbe a capire quanto accade oggi. Invece, all’epoca, ci si concentrò sui leader dei partiti e non sui gregari senza considerare che spesso i leader neanche controllano gregari, gli danno carta bianca perché gli fanno comodo».

Che impressione le fa vedere il continuo riproporsi di dinamiche di corruzione?

«Tangentopoli è stata una mera illusione e la burocrazia è rimasta intatta. Si volle far credere che si era concluso il problema. Ma, il problema è profondo e affonda le radici nella società italiana che rende quasi sempre impossibile arrivare con i meriti propri, e questo vale per gli individui come per le imprese. Se qualcuno cerca di essere onesto, ma davanti si trova una schiera di disonesti che cercano di fregarlo ha poche alternative: se ne va o si accontenta di cose residuali. Oppure si adegua. È una lotta impari, sleale».

Dunque, mi sta dicendo che la corruzione è un fenomeno che attraversa trasversalmente la società italiana?

«Come ora emerge chiaramente, si tratta proprio di un fenomeno trasversale. Anche prima era trasversale solo che per ragioni complesse emergeva meno. Ma, oggi come ieri, sono tutti d’accordo: è una questione di logica, non è possibile che ce ne sia uno o due che fanno affari sporchi e gli altri stanno a guardare perché, se così fosse, il sistema non vivrebbe a lungo. Tutti sanno come vengono assegnati molti appalti e tutti devono essere coinvolti sennò finirebbe “la pacchia”. Il nostro è un Paese fatto per le “larghe intese” in tutto: il maggioritario non ci stava bene perche alcuni prendevano e altri no. Ora siamo ritornati con larghe intese ad avere una società espansa, anche nella corruzione».

Riguarda la politica come l’imprenditoria?

«Certo. Dobbiamo considerare che non abbiamo, in Italia, grandi imprese capaci di stare sul mercato, fatta eccezione per una parte del nostro export di qualità. Il resto sono imprese familiari, o piccole, o comunque imprese che non hanno una struttura adeguata. Da questo consegue che gli appalti si fanno con gli eccessi di ribasso che non permettono nessun margine di guadagno ad imprese serie. Sono competizioni volte al peggio invece che al meglio. È inevitabile, dunque, che si ricorra a raccomandazioni, mazzette, a referenze che, con il tempo, possono cambiare, ma si tratta pur sempre di operare in un sistema di relazione occulta. Manca la trasparenza e tutti lo sanno».

Cosa determina questo sottobosco?

«C’è una complicità tra società, potere politico e imprenditoriale che rende la nostra economia debole. L’Italia non è debole per la crisi, che certo peggiora le cose, ma è strutturalmente debole. Poi, quando qualcuno scopre l’acqua calda, arrivano le commissioni di inchiesta e le “task force”, che sono ulteriormente dispendiose e non risolvono il problema e che, oltretutto, sono a loro volta nominate non si sa in base a quali criteri. Ma il punto è che le persone non sono messe in grado di competere nell’ambito di un’attività professionale, nel lavoro. Per competere davvero e far emergere i migliori c’è bisogno di trasparenza».

Ci sono rischi concreti ce possa saltare l’Expo?

«Rispetto all’organizzazione dell’Expo mi pare che ci siano ritardi anche piuttosto gravi. Certamente non si può pensare di fare grandi opere in tempi biblici come è prassi da noi. Ci sono pratiche burocratiche che implicano corruzione e raccomandazioni che rallentano tutto e, già nella tempistica si può vedere che le cose non vanno. L’opera sicuramente è a rischio ed è a rischio la nostra credibilità, l’immagine del Paese nel mondo. Perché l’Expo rappresenta soprattutto una porta d’ingresso per persone interessate a investire che significa lavoro. Qui si parla di riforma del lavoro e di contratti, ma i contratti ci saranno quando c’è lavoro. Mi sembra che si parla di formalità prima di avere la sostanza. Quello che sta accadendo a Milano si sa all’estero».

Un danno considerevole per l’economia che, si dice, va rilanciata…

«Nessun investitore ha piacere a trovarsi in condizioni di grave rischio, e i fenomeni di corruzione e malcostume rappresentano uno svantaggio considerevole che viene valutato. E questo certo deprime ancora di più l’economia del Paese. La politica e il mondo imprenditoriale devono capire che così non si può andare avanti. Quello che vediamo non rappresenta un caso isolato, ormai il ‘re è nudo’. Ognuno si deve rendere conto che bisogna qualificarsi, attrezzarsi e ci si deve confrontare su problematiche necessità. Gli anni passano ma nessuno dice mai la verità, prima di tutto a se stesso e poi agli altri perché, da noi, se non sei nel compromesso sei escluso. È terribile vivere in una società così».

Titti Parenti: "La corruzione è organica all'Italia". L'ex magistrato parla della Tangentopoli infinita. "Sono cambiate le ragioni: allora non si rubava per arricchirsi". Titti la rossa, che nel '94 fu eletta per Forza Italia, ricorda: "Lasciai la magistratura  quando Mani pulite prese una deriva politica". E ancora: "Corrotto e corruttore non sono diversi. Tutti coinvolti, anche i rossi". Francesco Ghidetti su “Il Quotidiano Nazionale”. Incontriamo Tiziana Parenti nella sua casa di Trastevere. Carte, appunti, ritagli di giornali e libri si accumulano nelle stanze. «Titti la rossa» adesso fa l’avvocato. Si occupa di questioni toste. ’Ndrangheta, per capirsi. Ma nessuno può dimenticare il suo ruolo di primissimo piano nel pool di Mani Pulite. Lei era il magistrato che si occupava di «tangenti rosse». Lei, che dopo una militanza nel Pci pisano, ha poi fatto politica in Forza Italia e nello Sdi.

Avvocato Parenti, Tangentopoli è storia o cronaca?

«Cronaca. Siamo ancora lì. Non ci si vuole rendere conto che la corruzione è organica al sistema-Italia. Vent’anni fa come oggi».

Un quadro non incoraggiante...

«Lo so. Non a caso uso la parola sistema perché indicativa di un modo di essere tipico della nostra società».

Però, nella tanto vituperata Prima Repubblica non si rubava...

«Sì, l’ho già sentita. Non si rubava per arricchirsi, ma per la lotta politica. Ora, io non devo scrivere saggi di storia comparata. Né giustificare certe pratiche di ladrocinio dei beni pubblici. Però, volendo parlare di contesto posso dire che prima le ragioni della corruzione erano diverse. L’Italia aveva avuto a che fare con i mostri del Novecento: fascismo, nazismo, comunismo. Occorreva accompagnarla lungo l’accidentato viale della democrazia per garantire sistema, lavoro, assistenza sanitaria».

All’inizio di Mani Pulite vi rendeste conto che l’Italia avrebbe subito un clamoroso trauma?

«A parte il fatto che bisogna vedere se davvero c’è stato questo cambiamento e se sia stato davvero così clamoroso. A parte il fatto che io arrivai dopo e per occuparmi di tangenti ‘rosse’. Detto ciò, tutto nasce dal Psi milanese e da Mario Chiesa in particolare. Una storia già scritta, mi sono sempre chiesta? Forse. Anche perché ci fu un allargamento che colpì altre forze politiche».

Alcuni dicono: non i «rossi».

«Per quel tipo di indagini c’era un’oggettiva difficoltà. Diciamo che con partiti come Psi, Dc, Psdi, Pri era più facile. Avevano sistemi più rozzi. Invece, si dipinse il Pci come fuori dal sistema. E quindi impermeabile alla corruzione. Un falso. I comunisti agivano su un doppio binario: prendevano soldi dal blocco sovietico e, dagli anni Ottanta, cominciarono a comportarsi come gli altri».

Contesto internazionale: cade il Muro, i cosacchi non arriveranno più, il ceto politico italiano può anche morire: vero? falso?

«Vero. In parte. Attenzione, però. Non è che nel 1989 cade il Muro e poco dopo la Prima Repubblica. Il processo era cominciato per lo meno quindici anni prima. Col Papa. Coi socialisti che aiutavano i patrioti polacchi».

Politici cattivi, imprenditori vittime.

«Figuriamoci. Corrotto e corruttore non sono figure diversamente cattive. Spesso le seconde sono le peggiori e ci guadagnano di più. Occhio: il populismo è il vero nemico della politica».

Lei poi entrò in politica.

«Sì. Però tentennai molto. Prima con Forza Italia, poi con i socialisti dello Sdi. Francamente, il punto era un altro. Volevo impegnarmi, certo. Ma, soprattutto, lasciare la magistratura. Furono anni per me di profondo disagio. Le indagini avevano preso una direzione politica che mi lasciò assai perplessa...».

Tiziana Parenti: «Quei fondi dall’Est su cui non si indagò», scrive Angelo Picariello su “L’Avvenire”. ​Tiziana Parenti, ovvero Titti la Rossa, quella delle tangenti al Pci mai provate, oggi fa l’avvocato a Roma con studio a Trastevere. Venti anni dopo Tangentopoli va col ricordo a quella primavera del ’94, a una fase che segnò la fine di Manipulite. «Berlusconi aveva vinto le elezioni. Stava formando il governo e io ero appena stata eletta deputata con Forza Italia. Correva voce che volesse Antonio Di Pietro a capo della Polizia. Io andai a dirgli che era un errore».

Ma non lo voleva ministro dell’Interno?

«Fra noi correva quest’altra voce e ne parlai con Berlusconi. Che non smentì, anzi si arrabbiò. L’uomo, un po’ come i comunisti, non ama esser contraddetto».

Invece lei...

«Gli dissi che non era un bel segnale. Lui evidentemente pensava invece che fosse importante in termini di immagine. Mi rispose seccato: «Guardi che non ho nemmeno un’inchiesta». «Ma ore ne arriveranno a decine, vedrà», gli risposi. E fui facile profeta».

Vuol dire che fino alla discesa in campo non c’era ancora traccia di scontro fra Procura milanese e Berlusconi?

«Ricordo i giornalisti di Fininvest che venivano a prendere le veline e come si arrabbiavano quando non gliele davano. Ma le telecamere fisse davanti alla Procura dalle reti di Berlusconi le ricordano tutti. Non era una vera direttiva, ma c’era il chiaro orientamento a risparmiare, da un lato le aziende di Berlusconi e dall’altro l’ex Pci. Perché potevano essere utili una copertura mediatica e politica».

Ma sul Pci risparmiato accusano lei. Perché la scelsero?

«Ho un sospetto: siccome nel mio profilo avevo dovuto dichiarare la mia passata iscrizione al Pci per tre anni, per come sono andate poi le cose potrebbero aver pensato a me - che avevo chiesto di essere collocata alla Dda - perché avevo il curriculum giusto per archiviare».

Ma che cosa le ha impedito di andare a fondo sulle tangenti all’ex Pci? Quella rogatoria mai arrivata sui 600 milioni versati da Panzavolta sul conto “Gabbietta” di Primo Greganti alla Banca di Lugano?

«Che fossero fondi per il Pci è chiaro, già la sola contestualità con i versamenti di tangenti agli altri partiti lo dimostra. Ma era solo un filone, c’era da indagare sulle coop rosse, e soprattutto sui fondi arrivati attraverso la Germania dell’Est».

Di questo non si è saputo niente.

«C’era uno scatolone alto così, pieno zeppo di attestazioni bancarie, ma andavano tradotte dal tedesco. Lei pensa sia facile farsi raccontare la provenienza dalle banche della Germania dell’Est?»

Poi si è dimessa da pm...

«E mi risulta che non ci abbia pensato più nessuno».

Ma perché lasciò?

«D’Ambrosio mi disse che l’inchiesta sul Pci era un «vagone staccato». Credo, in realtà, che non si volesse andare a fondo».

Ma Greganti nega e ha dimostrato che quei soldi gli servirono a comprare un appartamento.

«E lei ci crede?»

Su Berlusconi comunque hanno recuperato con gli interessi...

«Da leader politico è diventato un bersaglio, ma credo abbia inciso anche quell’offerta fatta da lui a Di Pietro che, sebbene non andò in porto, indispettì parte della Procura, nel frattempo spaccatasi proprio sulla scelta politica del loro ex collega. Il risultato è che i due filoni risparmiati dalle prime inchieste di Manipulite hanno caratterizzato questo ventennio inconcludente».

Berlusconi e i comunisti...

«Si sono fatti la guerra ma erano d’accordo a non fare le riforme, tanto che ora sono stati commissariati dai tecnici. E la corruzione impazza più di prima».

Ha mai visto ai suoi tempi 13 milioni spariti ad opera di un tesoriere?

«No, assolutamente. E infatti oggi è peggio. Da avvocato ora mi occupo di un caso che va avanti da sei anni, una compravendita di esami a Roma 3 e alla Sapienza. La corruzione impazza, neanche più con coperture ideologiche. Ovunque ci sia un potere da gestire e un do ut des da utilizzare».

Tiziana Parenti (ex Pm di Mani Pulite): Di Pietro riferiva dell’inchiesta all’America, scrive Giampiero Marrazzo su “L’Avanti On Line”. Una volta per tutte è stato detto: Antonio Di Pietro, soprannominato da qualcuno “Tonino l’Americano” aveva rapporti con gli amici d’Oltreoceano ben prima che l’inchiesta di Mani Pulite cominciasse ad entrare nel vivo. E non soltanto. Ai referenti diplomatici americani a Milano, l’ex pm, oggi leader dell’Idv, avrebbe anche rivelato in anticipo rispetto all’inizio degli arresti, il coinvolgimento di Craxi e della Dc. Andando avanti con ordine: ieri il quotidiano “La Stampa” pubblicava un’intervista postuma all’ex ambasciatore Usa in Italia, Reginald Bartholomew, il quale, ricordando il periodo iniziale del suo incarico, dichiarava: “Indagini giudiziarie, arresti di politici «presero subito il sopravvento sul resto del lavoro, perché la classe politica si stava sgretolando ponendo rischi per la stabilità del Mediterraneo», ed è in questa cornice che Bartholomew si accorge che qualcosa nel Consolato a Milano «non quadrava». Se fino a quel momento il predecessore Peter Secchia aveva consentito al Consolato di Milano di gestire un legame diretto con il pool di Mani Pulite «d’ora in avanti tutto ciò con me cessò», riportando le decisioni in Via Veneto”.  Come se non bastasse oggi arriva la conferma sempre sul quotidiano torinese, con l’intervista all’ex Console americano a Milano Peter Semler, il quale seraficamente ricorda: «Parlai con Di Pietro, lo incontrai nel suo ufficio, mi disse su cosa stava lavorando prima che l’inchiesta sulla corruzione divenisse cosa pubblica. Mi disse che vi sarebbero stati degli arresti. Ci vedemmo alla fine del 1991, credo in novembre, mi preannunciò l’arresto di Mario Chiesa e mi disse che le indagini avrebbero raggiunto Bettino Craxi e la DC». Con la medesima tranquillità, quasi fosse cosa buona e giusta, Semler rivela nell’intervista a “La Stampa”, «Di Pietro mi piacque molto, poi fece il viaggio negli Stati Uniti organizzato dal Dipartimento di Stato (…). Gli fecero vedere molta gente, a Washington, a New York (…). Ero spesso in contatto con lui, ci vedevamo (…). Con me era sempre aperto, ogni volta che chiedevo di vederlo lui accettava, veniva anche al Consolato (…)». Sempre oggi sullo stesso giornale, Di Pietro risponde: «Non potevo anticipargli il coinvolgimento dei vertici di Dc e del Psi, perché, in quel novembre, già indagavo su Mario Chiesa ma non avevo idea di dove saremmo andati a parare. Semler confonde conversazioni avute in tempi e con persone diverse». A questo punto qualche domanda bisogna pur porsela: come mai Di Pietro riferiva all’allora console americano a Milano la nascita dell’inchiesta Mani Pulite? Soprattutto, quale importanza aveva, mediaticamente e politicamente parlando l’allora pubblico ministero, ben prima del famoso arresto del gestore dell’albergo Pio Trivulzio di Milano, Mario Chiesa, tanto da essere convocato dai più alti vertici diplomatici statunitensi? Abbiamo voluto porre questi ed altri quesiti a chi allora faceva parte proprio del pool di Mani Pulite, l’allora pubblico ministero Tiziana Parenti, già deputato di Forza Italia, che, in esclusiva all’Avanti! torna a parlare dei legami e delle sensazioni che aleggiavano nel palazzo di Giustizia di Milano.

Onorevole Parenti, allora, le nuove dichiarazioni sembrano darle ragione: quando lei disse che l’input dell’inchiesta non era soltanto italiano ma aveva radici americane, i suoi allora colleghi del pool, ad iniziare da Di Pietro la querelarono?

«Questa di Semler è una confessione a tutti gli effetti. Sono cose che tutti sapevano, ma che in pochi hanno voluto dire. Ma sono contenta che finalmente anche diplomatici americani l’abbiano rivelato. Perché se noi guardiamo la storia, è vero che esisteva la corruzione nei partiti, ma per quale motivo iniziarono quelle indagini e soprattutto perché in quel momento?»

Ce lo dica lei…

«Dopo la caduta del muro di Berlino si erano formate in Europa determinate problematiche politiche: l’Italia non faceva passi in avanti, era proprio come adesso, chiusa in guerre intestine, e gli americani avevano paura e intendevano condurla da qualche parte. Perché loro volevano continuare a navigare indisturbati nel Mediterraneo e la figura di Craxi per loro era troppo ingombrante. Basta osservare i precedenti eventi internazionali che vedevano coinvolti i rispettivi paesi: Italia e America».

Ma sappiamo che il legame del nostro Paese con gli Stati Uniti è ben lontano…

«E’ inutile nasconderci dietro un dito, l’Italia nasce sulla corruzione e sul protettorato americano, e questo è durato per 50anni. Poi qualcosa cambiò. Ma se non ci fosse stata una volontà specifica, visto che i nostri problemi erano ben precedenti alla data di inizio dell’inchiesta di Mani Pulite, forse quelle inchieste non si sarebbero mai fatte, o forse non sarebbero partite da Milano, regno del Psi di Craxi, e perché non da Roma o da Torino. Così come mi domando per quale motivo un console americano dovesse incontrare uno come Di Pietro che prima dell’arresto di Mario Chiesa era un emerito sconosciuto, non aveva condotto nessun inchiesta di rilievo. E non le nascondo che lo stesso arresto “in flagranza” di Chiesa mi sembrò orchestrato ad arte».

E il mondo della finanza?

«Va detto che anche gli imprenditori hanno avuto una grande parte nella spallata nei confronti della Prima Repubblica, visto che si dovevano ridisegnare proprio gli assetti politico-economici del Paese».

L’ex console Semler dichiara nell’intervista a “La Stampa” di essere stato amico di molti giudici milanesi di allora. Lei lo conobbe?

«Francamente non ho mai conosciuto questo signore. E anche questa mi sembra una cosa strana. Se è vero quello che dice su Di Pietro, non sapevo si potesse andare a rivelare indagini che avessero il segreto d’ufficio».

Quindi pensa che ci fu e che fu determinante il ruolo dell’America durante quel periodo del nostro Paese e negli anni immediatamente successivi?

«Assolutamente. Per noi era un periodo drammatico quel del ’92 e del ’93: c’erano state le uccisioni di Falcone e Borsellino, le bombe. L’impellenza ormai era di sciogliere le Camere, la situazione era scappata di mano e già allora me ne rendevo conto. Tanto che come cittadino, prima ancora che come giudice, tutto questo mi allarmava».

E Di Pietro come s’inserisce in questo contesto?

«Non so come si sia inserito, fatto sta che queste ultime dichiarazioni dimostrano dei suoi legami con gli Stati Uniti. Anche se non capisco dove l’ex console voglia andare a parare, ma sembra quasi voglia lanciare un messaggio. A chi e perché sarebbe curioso saperlo».

Insomma che direzione avrebbe dovuto prendere l’Italia secondo gli Usa?

«Questo non so dirglielo. Posso dirle però che io ho visto con i miei occhi dei fogli con su scritto quello che sarebbe dovuto essere l’organigramma delle massime cariche del nostro Stato, girava per il Tribunale di Milano. Ricordo ancora l’occasione: ero scesa al bar del Palazzo di Giustizia per la pausa pranzo e qualcuno me lo mostrò. Io pensai: ma siete sicuri che le cose andranno in questo modo! La mia impressione era che avessero pianificato tutto troppo presto. Comunque, se c’è del vero basterebbe analizzare i documenti che ci sono rimasti, a cominciare dall’archivio di Di Pietro, proprio quello di cui si parla nell’intervista di oggi».

Andreotti diceva: «Visto che non ho fantasia, possiedo un grande archivio, e ogni volta che parlo di questo archivio chi deve tacere, come d’incanto, inizia a tacere». Strano che anche Di Pietro tenga un archivio, non crede?

«Diciamo che di certo mi sembra strano che qualcuno abbia un archivio in casa».

Insomma come se ne esce da queste vere, presunte, parziali verità postume?

«Se non riscriviamo con serietà la vera storia di questo Paese, invece di aspettare che tutti se la portino nella tomba, è naturale che non avremo più una memoria, che la politica non andrà avanti e che questo tipo di reati ci saranno ancora».

Lei queste cose le ha già dette ed è stata querelata dagli altri componenti del pool. Com’è finita?

«Sono stata assolta dal tribunale di Brescia. Poi dalla Camera, in quanto onorevole, non è stata data l’autorizzazione a procedere nei miei confronti. Successivamente è stato sollevato il conflitto di attribuzione alla Corte Costituzionale, che a sua volta ha dichiarato l’improcedibilità verso di me. E per inciso, non ho mai accettato per le mie dichiarazioni alcuna transazione finanziaria con Di Pietro o altri del pool».

La Parenti sicura: «È nei servizi segreti», scrive Mariateresa Conti su “Il Giornale”. «La provenienza di Antonio Di Pietro è in una struttura parallela ai servizi segreti. Di Pietro su questo non ha mai fatto chiarezza...». Le parole sono attualissime. E chi parla, l'ex pm di Mani pulite, ex deputato ed ex presidente della Commissione anfimafia, Tiziana Parenti, è una voce più che autorevole. Solo che la dichiarazione riportata non è affatto attuale. Anzi, ha ben tredici anni. Tredici anni durante i quali quelle denunce, di Titti la Rossa ma non solo, sugli oscuri legami tra Tonino e i servizi segreti sono rimaste lettera morta. E tali, forse, sarebbero rimaste sino ad ora, se il leader Idv, tentando di giocare d'anticipo, non avesse gridato al complotto sul suo blog. Ma c'erano, c'erano eccome le denunce, su quei rapporti, alquanto anomali per un magistrato, con i servizi. Già 13 anni fa, appunto. È il settembre del 1996. A dare la stura, l'allora presidente del Cnel Giuseppe De Rita, che dalle colonne del Tempo lancia l'allarme che provoca un putiferio: «Da Tangentopoli e dalla vicenda mafiosa stiamo uscendo con un apparato di potere costituito dall’intreccio tra pubblici ministeri, polizia giudiziaria e forse servizi segreti incontrollabile e incontrollato che ci deve preoccupare». Un allarme grave, subito raccolto dall'onorevole Parenti, che cita espressamente Di Pietro in un'intervista al Tg delle 20 di Telemontecarlo. La Parenti conferma la contiguità dell'ex pm - nel frattempo ministro di Prodi - ai servizi segreti: «La sua provenienza - dichiara - come risulta a Brescia, è in una struttura parallela ai servizi segreti. Su questo Di Pietro non ha mai fatto chiarezza». I tempi televisivi sono tiranni. All'agenzia di stampa Ansa, invece, Titti dice un po' di più. Afferma di essere pienamente d'accordo con De Rita e spiega che la «connessione» tra pm, polizia e servizi segreti deriverebbe da «una politica scientifica» del Pci, che «sin dalla fine degli anni '60» avrebbe «allevato una certa magistratura e politicizzato la polizia». È una bagarre. I giornali ne parlano per giorni. La sinistra insorge, Di Pietro minaccia querele e poi denuncia. Ma qualche anno dopo, a febbraio del 2000, il tribunale di Bergamo gli dà torto e sentenzia: non luogo a procedere. Tre mesi dopo l'analisi della Parenti si fa ancora più dettagliata. Dalle colonne di Repubblica, sentita da una giornalista di punta del quotidiano di Scalfari, l'attuale direttora dell'Unità Concita De Gregorio, Titti la Rossa «spara - parola di Concita - colpi di cannone». Contro tutti: Scalfaro, il Pds, Borrelli. E Di Pietro. «Quello che dico - afferma - è tutto documentato in carte riservate in possesso della procura di Milano. Basterebbe indagare partendo da una domanda semplice: perché è cominciata Tangentopoli? Cos'è successo nella procura di Milano dal '90 al '92?». La Parenti è un fiume in piena: «È successo - continua - qualcosa a cui le indagini del Gico sono arrivate molto vicino, ed è per questo che le vogliono fermare. È successo che prima di Mario Chiesa c'erano altri, e in particolare un imprenditore che aveva, non so a che titolo, colloqui stretti con Di Pietro e che lo teneva in contatto con certi ambienti, per così dire, ambigui, in Italia e Oltreoceano». Ambienti ambigui? Oltreoceano? L'onorevole Parenti racconta un viaggio negli Usa, contatti con la Cia. Dice che Di Pietro, attraverso l'imprenditore suo amico della quale la Parenti non fa il nome, entra in contatto «con ambienti del dipartimento di giustizia Usa». E che nei mesi che intercorrono tra l'arresto di Mario Chiesa (febbraio '92) e l'entrata nel vivo di Mani pulite «va in America. La Cia - aggiunge - voleva far fuori il Psi e certa parte della Dc, perché non più affidabili. Caduto il muro di Berlino, crollato il comunismo, bisognava fare piazza pulita della vecchia classe politica e il Pds poteva essere un interlocutore affidabile. Allora Di Pietro va, e ottiene la legittimazione. La sua rete di rapporti, in Italia, è pronta». Anche questa volta è un putiferio. Di Pietro querela l'ex collega pm e la giornalista. La Camera fa scudo, sostiene che quelle dichiarazioni sono protette dall'immunità. E gli atti finiscono alla Consulta. La Parenti torna sul tema anche in altre occasioni, in dibattiti pubblici. Ma la sua voce resta inascoltata. Inascoltata. Ma perfettamente attuale oggi. A tredici anni di distanza.

LE MITICHE TANGENTI ROSSE.

Le mitiche tangenti rosse, scrive Filippo Facci su “Il Post”. Eccoci al famigerato Pci-Pds «salvato» dalla magistratura. In un guscio di noce, la presente tesi è che il partito fu in minima parte salvato e in massima parte si salvò e basta. Ma va spiegato bene perché. Vediamo anzitutto come andarono le cose. Il 1° marzo 1993, in teoria, anche il Pds nazionale era entrato seriamente in Tangentopoli: si era fatto vivo tal Primo Greganti, un ex funzionario comunista di Torino sospettato d’aver raccolto una tangente di 621 milioni per il Pds e di averla nascosta in un conto svizzero chiamato Gabbietta. Sarà la prima di una serie di contestazioni inutili: Greganti si chiuderà in un silenzio eroico e inusuale dicendo in pratica di aver preso i soldi per sé e non per il partito, ossia il contrario di quanto sosteneva il politico medio. L’ex segretario amministrativo del Pds, Marcello Stefanini, sarà inquisito lo stesso: ma la sua morte prematura coinciderà con quella di molti filoni sui finanziamenti al Pds, come non era accaduto per il Psi con la morte del segretario amministrativo Vincenzo Balzamo. Dirà Greganti: «Quando ho incontrato Di Pietro, e ho scoperto che aveva mandato i poliziotti ad arrestarmi a casa prima dell’alba, non ho avuto più dubbi. Mi voleva catturare nel sonno. Solo che io non c’ero. Avevo dormito fuori. Dove abito io c’era mezzo metro di neve. E i poliziotti sono rimasti pure impantanati. Io e Di Pietro avevamo un appuntamento, era da quindici giorni che gli chiedevo di ricevermi. Finalmente ci accordiamo per le 11 al Palazzo di Giustizia e lui che fa? Mi manda i poliziotti alle quattro del mattino a casa per arrestarmi. Hai capito che metodi?» Il Pool di Milano intanto si era allargato: nella primavera del 1993 era arrivato il trentaduenne Paolo Ielo e Di Pietro avrebbe gradito anche l’inserimento del pm Gemma Gualdi, sua amica da molti anni, ma Borrelli le preferì infine un’altra collega, Tiziana Parenti, subito destinata al filone delle cosiddette «tangenti rosse». Le incomprensioni e i problemi caratteriali ebbero la meglio praticamente da subito, sia per il temperamento particolarmente orgoglioso di lei sia perché Di Pietro, come diceva Ielo, «vuole fare il prete, il sacrestano e anche il chierichetto». Ha raccontato il pidiessino Giovanni Pellegrino: «All’inizio D’Alema era convinto che Violante, con la sua influenza nella magistratura, potesse proteggerci sufficientemente dall’azione dei giudici. Poi Tiziana Parenti cominciò a prendere di mira le fonti finanziarie del Pci-Pds e del sistema di imprese che ruotavano intorno al partito, arrestando Renato Pollini, che del Pci era stato l’ultimo tesoriere. In tal modo la situazione si fece pesante anche per il Pds». Nella primissima fase di Mani pulite il Pds non venne per nulla risparmiato. Le indagini rasero al suolo la federazione milanese (consiglieri, assessori, segretari) e i pidiessini non mancarono di lamentarsi: anche se, al solito, tra mille distinguo. «Dopo i primi arresti» ha raccontato Gianfranco Maris, legale del segretario cittadino del Pds Roberto Cappellini, «il mio cliente mi disse che aveva preso anche lui dei soldi. Chiesi a Di Pietro di sentirlo, ma rifiutò». Racconterà Cappellini: «Me lo ricordo, Di Pietro, subito dopo l’arresto. Era scatenato, urlava: “Parla, perché se no non esci più”». Il filone rosso parve decollare quando il manager Lorenzo Panzavolta raccontò che a Tangentopoli già scoppiata aveva versato altri 621 milioni al Pds sempre a mezzo Greganti: di lì in poi le chiamate in correità cominciarono a piovere da tutte le parti, e parlarono gli imprenditori Bruno Binasco, Giuseppe Squillaci, Paolo Pizzarotti oltre al solito Maurizio Prada e all’ex tesoriere milanese Luigi Mijno Carnevale. Quest’ultimo, a pagina tre del suo verbale d’interrogatorio, chiamò in causa molto chiaramente «Occhetto e D’Alema, naturalmente d’accordo con la segretaria amministrativa diretta dall’onorevole Stefanini». Arrestarono anche Marco Fredda, il responsabile immobiliare del Pds. Ma le voci su avvisi di garanzia per Occhetto e D’Alema rimasero tali. Il dissidio definitivo sarà del 24 agosto, quando Tiziana Parenti decise di inviare un’informazione di garanzia al segretario amministrativo del Pds Marcello Stefanini senza neppure avvertire i colleghi: le iscrizioni, sino ad allora, le aveva sempre vergate personalmente Di Pietro. Marcello Stefanini era un senatore, e questo significava avere un solo mese di tempo per motivare la richiesta di autorizzazione a procedere: il Pool temeva che la collega non avesse abbastanza elementi per poterla ottenere. E mentre i vertici della Quercia denunciavano una «strategia della tensione», ecco che il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, che di solito non muoveva un dito, condusse una sua personale indagine non per incolpare bensì per scagionare Primo Greganti: si era collegato con l’anagrafe tributaria e aveva concluso che neanche una lira era giunta al Pds. Il 29 ottobre 1991, nel giorno in cui Greganti prelevava una consistente somma a Lugano – spiegò – lo stesso firmava anche il rogito per comprare una casa, ecco dunque a prova che quei soldi non erano finiti a Botteghe Oscure. Il caso era chiuso, anzi no: il gip Ghitti avrebbe voluto vederci chiaro e dapprima negò l’archiviazione. Non credeva – senza malizia: nessuno ci aveva mai creduto – alla storia del Greganti millantatore. Ma perse la battaglia. Tra pubbliche litigate e qualche chiacchierata di troppo coi giornalisti, in autunno l’inchiesta verrà ufficialmente tolta a Tiziana Parenti in quanto «non allineata con la procura» dirà Gerardo D’Ambrosio prima di aggiungere: «Questo non è il processo al Pds, ma a Greganti e Stefanini». D’Ambrosio è lo stesso personaggio che nel maggio precedente aveva dichiarato all’«Unità»: «Mani pulite è finita … nel senso che ciò che doveva emergere nel filone politico-affaristico è venuto fuori». Sul settimanale «L’Europeo» era stato ancora più chiaro: «Lo scenario è nitido, Dc e Psi si finanziavano attraverso meccanismi illeciti … c’è stata la fase dello stragismo … poi è venuta l’epoca della corruzione». D’Ambrosio, anni dopo, una volta lasciata la magistratura, si candiderà come senatore nel Pds, frattanto divenuto Ds. Se Primo Greganti rappresentava una domanda, ogni risposta giunse comunque tardiva e seppellita da formidabili solidarietà ambientali. Greganti divenne un vero personaggio in un mondo dove un barbuto presidente di una coop, già di suo, appariva mediaticamente meno intrigante di un cassiere socialista in crociera a Bora Bora, dome Silvano Larini. Ma diversi, più che gli uomini, erano i metodi: lo era un sistema di finanziamento illecito più difficile da individuare, lo erano elargizioni dall’Urss e commesse dall’Est che in buona parte rientravano nei reati amnistiabili; ma diversa, in quel 1993, fu soprattutto la gestione di Mani pulite da parte di una magistratura che sceglieva gli obiettivi a seconda delle possibilità del momento. Quando il Pool si mosse, insomma, la stampa già pensava ad altro. Le carte che dimostravano come il Pds si finanziò in maniera illecita diventavano migliaia in tutto lo Stivale, e da altrettante sentenze si evinceva tuttavia che nel Pci-Pds, più che per altri partiti, la raccolta di fondi risultava periferizzata, parcellizzata e soprattutto spersonalizzata. I nomi dei percettori finali non comparivano quasi mai. Il Pds poteva contare sul mitico sistema cooperativo, ma casi moralmente riprovevoli come quelli emersi in Campania (commistioni coop-camorra nell’aggiudicazione degli appalti) non fecero notizia più di tanto, mentre non si poteva negare che una scelta oculata di uomini di fiducia, cui intestare interi patrimoni immobiliari, fu premiata da comportamenti processuali poco solleticabili dal carcere. Il magistrato Francesco Misiani la mise così: «So perfettamente che se avessi insistito, forse, prima o poi, sarei riuscito a dimostrare in un’aula di tribunale che il Pci non era estraneo al circuito di finanziamento illecito … non lo feci, consapevole anche del fatto che la resistenza anche a lunghi periodi di detenzione, dimostrata dagli indagati, forniva anche un ineccepibile dato formale in grado di chiudere le inchieste». Questo mentre Italo Ghitti, il gip di Mani pulite, in un’intervista rilasciata nel 2002 al «Corriere della Sera», ammetteva che il Pds aveva un apparato di finanziamento illecito non meno vorace: «La storia di Mani pulite non ha esaurito e non esaurisce la storia: qualcuno si sarà anche potuto salvare da accuse di corruzione, ma magari ha dovuto lasciare la sede di partito, vendere il giornale, chiudere l’azienda … il tempo ha evidenziato come, al di là dei fatti penalmente rilevanti, vi fossero realtà che adottavano praticamente lo stesso metodo dei partiti più coinvolti». Difficile non ripensare al ridimensionamento della macchina organizzativa pidiessina, notoriamente la più dispendiosa della Prima e della Seconda Repubblica. Durante la Prima resse in qualche modo la leggenda dei finanziamenti ottenuti dalla vendita delle salamelle al Festival dell’Unità, nella Seconda invece si passerà alle scalate bancarie. Ha raccontato il democristiano ed ex presidente del Consiglio Arnaldo Forlani: «Quando queste fonti si sono prosciugate hanno chiuso e poi riciclato l’Unità, hanno venduto la sede delle Botteghe Oscure, molte di quelle provinciali e di sezione, e infine hanno licenziato centinaia di dipendenti. Avevamo calcolato che spendevano più di tutti gli altri partiti messi insieme. L’autofinanziamento copriva sì e no un terzo dei costi. C’è una documentazione con alcuni dati: cinquemila funzionari tra federazioni provinciali e organismi collaterali, centinaia di dattilografe e autisti, un migliaio tra giornalisti e tipografi, oltre quattrocento addetti solo alla sede centrale». Il filone legato all’energia indica chiaramente che la spartizione a livello nazionale era fra tutti i partiti. Il manager Lorenzo Panzavolta parlò di tre tangenti di 1 miliardo e 242 milioni ciascuna a Dc, Psi e Pci: l’1,6 per cento sulle commesse assegnate al gruppo Ferruzzi. Spiegò che un tempo il Pci si limitava a pretendere che una quota degli appalti fosse assegnata alle cooperative rosse, ma dal 1986 il Consorzio cooperative costruzioni di Bologna puntò ad allargare il proprio mercato: sicché il pidiessino Giambattista Zorzoli entrò nel consiglio d’amministrazione dell’Enel e Panzavolta versò 1 miliardo e 246 milioni sui conti svizzeri di Greganti. Quest’ultimo sarà condannato a 3 anni e Zorzoli a 4 anni e 3 mesi per corruzione e finanziamento illecito al partito: «Le somme» recita la sentenza «non sono state incassate da Greganti per prestazioni personali bensì vanno collegate a un’intermediazione fiduciaria posta in essere da quest’ultimo a vantaggio del Pci». Per gli appalti legati alla costruzione di impianti di desolforizzazione, in particolare, occorreva una nuova legge e serviva che il Pci assicurasse almeno il numero legale in Parlamento. Raccontò ancora Panzavolta: «Dissi a Greganti: se lei può dire ai suoi parlamentari … Allora Greganti si adoperò e difatti la legge venne poi approvata, perché il numero c’era. Il Partito comunista votò contro questa disposizione, però era sufficiente la loro presenza per farla passare. E Greganti venne da me e disse: “Vede che io conto, vede che riesco a ottenere queste cose”». I giudici della VII sezione del Tribunale di Milano, nel luglio 1996, spiegarono che «a livello di federazione milanese, l’intero partito, e non solo alcune sue componenti interne, venne coinvolto direttamente nel sistema degli appalti per la Metropolitana Milanese … Da circa il 1987 l’allora Pci fu inserito nel novero dei partiti politici che partecipavano alla spartizione delle tangenti provenienti dalle imprese». L’accordo era a tal punto consolidato che il segretario amministrativo della Dc, Maurizio Prada, fungeva spesso da cassiere unico e smistava il denaro ai segretari amministrativi degli altri partiti, nessuno escluso: «Risulta dunque pacifico che il Pci-Pds, dal 1987 sino al febbraio 1992» spiega ancora la sentenza «ricevette, quale percentuale del 18,75 per cento sul totale delle tangenti, una somma non inferiore ai tre miliardi». Raccolti dal collettore Sergio Eolo Soave prima e dal sostituto Luigi Mijno Carnevale poi, nella divisione delle tangenti si passerà alla regola dei tre terzi: due terzi alla corrente occhettiana e un terzo alla corrente migliorista. Si rimanda alle note in fondo a questo post per le non poche sentenze, condanne ed emblematiche assoluzioni del Pci-Pds-Ds nei filoni Alta Velocità (1) e Fiat-Pds (2) e tangenti «Le gru» di Grugliasco (3) e inchiesta veneta sulle cooperative (4) e inchiesta torinese su Eumit Intereurotrade (5) Si tratta di situazioni definite che continuano a restare misconosciute rispetto a situazioni non definite ma di più forte carica simbolica: a distanza di anni, per esempio, si discute ancora del miliardo di lire che Raul Gardini pagò al Pci per l’affare Enimont, versamento assodato per il quale il socialista Sergio Cusani fu anche condannato in primo grado. È anche vero che i retroscena di quel miliardo vennero trasmessi per televisione al processo Cusani, questo in un periodo in cui un coinvolgimento del Pci-Pds in Mani pulite l’avrebbe probabilmente trascinato nello stesso baratro in cui giacevano altri partiti storici. La storia è sempre quella: nel 1994 l’ex uomo di fiducia di Gardini, Leo Porcari, confermò ad Antonio Di Pietro di aver accompagnato il suo principale in via delle Botteghe Oscure perché incontrasse Massimo D’Alema e Achille Occhetto. Nella sentenza del 28 aprile 1994 si apprende di almeno tre incontri di Raul Gardini coi succitati. La testimonianza di Porcari convergeva con quella di Carlo Sama: l’ex amministratore di Montedison, infatti, aveva riferito a Di Pietro di un colloquio avuto con Sergio Cusani dove quest’ultimo raccontava che Raul Gardini «gli aveva detto di aver passato 1 miliardo tondo al Partito comunista, ad Achille Occhetto in persona, per ottenere un appoggio per la defiscalizzazione degli oneri gravanti su Enimont». Non bastasse, Pino Berlini, uomo Ferruzzi a Losanna, aveva confermato la movimentazione del miliardo, mentre Sergio Cusani, sempre secondo Carlo Sama, avrebbe usato un aereo privato della Montedison per portare il miliardo da Milano a Ravenna e poi da Ravenna a Roma. L’audizione di Occhetto e D’Alema fu tuttavia negata dal tribunale, che pure, nella sentenza, scrisse: «Gardini si è recato di persona nella sede del Pci portando con sé 1 miliardo di lire. Il destinatario non era quindi semplicemente una persona, ma quella forza di opposizione che aveva la possibilità di risolvere il grosso problema che assillava Enimont [un decreto di sgravio fiscale ] e il fatto così accertato è stato dunque esattamente qualificato come illecito finanziamento di un partito politico». Nel processo d’appello, Cusani fu condannato a 6 anni – due in meno del primo grado –, ma l’episodio venne stralciato. Riportare tutti i processati e i condannati delle inchieste sulle coop rosse, ancora e infine, è impresa impossibile: basti che hanno proceduto le Procure di Milano, Brescia, Torino, Venezia, Bologna, Reggio Emilia, Modena, Ravenna, Ferrara, Firenze, Grosseto, Arezzo, Roma, Frosinone, Napoli, Lecce, Palermo, Catania e Caltanissetta. Per non parlare dell’indagine veneziana di Carlo Nordio che con centinaia di imputati ha assorbito i procedimenti di Milano, Torino e Roma. Moltissime le condanne, nessuna o quasi di peso politico. Qualche incomprensione diplomatica, a margine dell’inchiesta di Nordio, a metà degli anni Novanta, rischiò di alimentare i dubbi di chi sosteneva e sostiene che il Pool di Milano abbia trascurato la sinistra. Ha raccontato Carlo Nordio: «La Procura di Milano mi mandò una serie di verbali anche molto importanti dai quali emergeva … tutta una serie di finanziamenti fatti al Pci-Pds. Ricordo che furono inviati i verbali di un tale Carnevale. Dopo accadde un fatto anomalo. … arrivò a Venezia un plico anonimo con la fotocopia di un verbale di questo Carnevale, dove si faceva il nome dell’on. D’Alema, e questo verbale [da Milano] non mi era stato mandato. Allora chiesi alla Procura di Milano: “Questo verbale esiste?”. In un primo tempo mi dissero che non lo sapevano, … che loro avevano mandato tutto quello che avevano… Allora fecero delle ricerche e lo trovarono … Io ritenni il fatto singolare». Non meno singolare un altro episodio sempre raccontato da Nordio. La Procura di Milano, nel 1993, aveva già interrogato il futuro teste chiave dell’inchiesta veneziana, Agostino Borello, amministratore di una cooperativa piemontese che aveva raccontato una serie di finanziamenti occulti a margine dei quali, in forma di ringraziamento, si registrava la regolare presenza alle riunioni di D’Alema e di Craxi. Nordio, perciò, nella primavera del 1995, tornò a Milano per ascoltare questo Borello: «Lo interrogai presso la sede della Guardia di Finanza. … Vedendo che esisteva una direttiva della Procura di Milano della fine del 1993 che demandava alla Guardia di Finanza l’onere di riscontrare le dichiarazioni di Borello, chiesi agli ufficiali … : “Cosa avete risposto a questa direttiva? … L’avete riscontrato o meno?”, e mi fu detto che non avevano ancora risposto. Al che io dissi: “Avete una direttiva della Procura di Milano di fine 1993 e un anno e mezzo dopo non c’è risposta?”». Mi fu detto: “C’è stato tanto da fare”».

1) Il costruttore Bruno Binasco (Itinera, autostrade) raccontò di 400 milioni dati a Greganti per il Pds e in particolare citò una riunione del 1989 convocata dal senatore Lucio Libertini in via delle Botteghe Oscure. C’erano i massimi costruttori italiani. Si era alla vigilia del varo di grandi opere, tra le quali nuovi tratti autostradali e appunto l’Alta Velocità ferroviaria: e il Pds aveva aderito senza riserve, è nero su bianco. Il costruttore Marcellino Gavio confermerà che Greganti incassò denaro per tener buono il partito, e il compagno G. peraltro non negò di averlo ricevuto come funzionario del Pci: ma addusse a giustificazione una complicata operazione immobiliare poi smontata dai giudici. Gavio motiverà l’elargizione «in previsione del fatto che in quel momento venivano stanziati i finanziamenti per le opere pubbliche che il partito era impegnato a sostenere». Greganti e Binasco sono stati condannati per finanziamento illecito al Pds (rispettivamente a 5 mesi e a 1 anno e 2 mesi) e dalla sentenza si apprende che «era la volontà non del Greganti, ma del Pds, e che tale richiesta egli faceva espressamente in nome e per conto del tesoriere nazionale Stefanini». Circa la posizione di Massimo D’Alema, il cassiere socialista Bartolomeo De Toma raccontò: «Balzamo mi riferì di una riunione sull’Alta Velocità dove si discuteva di una ripartizione dei lavori tra le varie imprese che poi avrebbero erogato finanziamenti illeciti. In quell’occasione Balzamo mi disse che, pur essendo Stefanini il segretario amministrativo, tutte le questioni riguardanti il finanziamento erano coordinate dall’allora vicesegretario Massimo D’Alema». Marcello Stefanini e Vincenzo Balzamo non poterono confermare né smentire, essendo morti.

2) Sempre a proposito della posizione di Massimo D’Alema, l’europarlamentare diessino Cesare De Piccoli, capo dei dalemiani a Venezia, nel 1993 fu beneficiario di mazzette Fiat. Il manager Ugo Montevecchi infatti aveva confessato al Pool di Milano: «Mi fu fatto presente che bisognava dare una mano al Pci e significativamente alla corrente veneta di D’Alema». E partirono 200 milioni elargiti al Pds nel maggio e nel giugno 1992 (in piena Mani pulite) poi versati su conti svizzeri. I reati andarono in prescrizione nel febbraio 2000. Due mesi dopo Cesare De Piccoli divenne sottosegretario all’Industria nel secondo governo Amato e in seguito passò all’ufficio economico del partito. Per altra indagine, poi, fu appurato che Massimo D’Alema nel 1985 incassò circa 20 milioni illeciti da Francesco Cavallari, re delle cliniche baresi e definito «facente parte di un’associazione di tipo mafioso» dalla Procura antimafia di Bari. Il reato, peraltro non negato da D’Alema, è caduto in prescrizione perché confessato solo nel 1994, un anno dopo la scadenza dei termini.

3) A proposito di Piero Fassino e dell’indagine sull’immenso centro commerciale «Le gru» di Grugliasco, in provincia di Torino, non fu trovato alcun riscontro circa il particolareggiato ma solitario racconto fornito alla procura da Antonio Crivelli, ex capogruppo del Pci: «La linea del partito era che il centro andava costruito a ogni costo: la nostra sensazione era che la decisione fosse stata già presa in altra sede, e cioè in sede di segreterie di partiti a livello provinciale e nazionale … Avevo saputo che Fassino si era recato a Parigi sotto la Tour Eiffel per ritirare una borsa con del denaro, in relazione alla vicenda delle Gru». Furono appurate tangenti a due sindaci comunisti, ma nessuno confermerà mai il racconto di Crivelli, e tantomeno lo farà Fassino, sentito come testimone per la sua curiosa funzione di garante politico per la costruzione di un centro commerciale.

4) L’immensa inchiesta veneziana condotta da Carlo Nordio, che pure archiviò le posizioni di Occhetto, D’Alema e Craxi, accertò centinaia di responsabilità e più in generale la falsità dei bilanci, l’occultamento regolare di beni, il legame finanziario col Pci-Pds nonché «la partecipazione della segreteria nazionale alla gestione economica delle risorse e in particolare dei finanziamenti pervenuti in modo anomalo e clandestino», e soprattutto la condiscendenza di svariati «signor G» oltreché la disponibilità del partito di un immenso patrimonio immobiliare gestito da prestanome e derivante da contributi clandestini. Nell’archiviare l’indagato Massimo D’Alema, la Procura di Reggio Emilia ha dovuto prendere atto che il presidente di una cooperativa rossa che aveva fatto versamenti illeciti al Pci, Nino Tagliavini, «dichiara di aver preso parte, nel febbraio 1992, con molti altri presidenti di cooperative, a una riunione nel corso della quale il D’Alema avrebbe ricordato agli intervenuti gli oneri economici che il partito doveva sopportare, dicendo loro che lo Stefanini li avrebbe chiamati. Sarebbe stato così che, sollecitato a un incontro, Tagliavini avrebbe versato 370 milioni». Una delle migliori descrizioni di come funzionasse il rapporto tra partito e cooperative resta quella di Giovanni Donigaglia, presidente della Coopcostruttori di Argenta (Ferrara) e ovviamente comunista di ferro. Durante Tangentopoli, inquisito a Verona, Milano e Napoli, collezionò un numero impressionante di arresti e la racconterà così: «Nelle commesse pubbliche era riservata una quota di appalto alle cooperative vicine al Pci, che ha sempre richiesto e voluto che una parte degli appalti fosse riservata alle imprese ideologicamente vicine alle sue posizioni … Ogni volta che c’è un appalto pubblico in cui si deve formare un raggruppamento di imprese e in cui deve essere previsto l’inserimento di una cooperativa, io mi rivolgo al Consorzio cooperative di costruzione per avere ordini, poi è il Consorzio che decide come distribuire ogni appalto tra le cooperative. Periodicamente venivamo informati dai funzionari circa le richieste economiche del partito». Fra questi funzionari c’erano Primo Greganti, Renato Pollini e Marcello Stefanini. Ecco come il denaro arrivava a destinazione: «Pubblicità sui giornali del Pci-Pds, contributi alle Feste dell’Unità, spese per manutenzione di sedi, assunzione di operai e personale su richiesta di esponenti del partito, contribuzioni a manifestazioni e convegni».

5) La Procura di Torino indagò sulla Eumit (Euro Union Metal Italiana Torino) Intereurotrade e cioè su una società che promuoveva import-export di acciai con i paesi comunisti. Un classico del Pci vecchia maniera: la società era stata fondata nel 1974 dal Partito comunista e da una banca della Germania Est, la Deutsche Handelsbank, ovviamente sotto l’occhio attento del servizio segreto Stasi. Poi il fascicolo confluì a Milano e in mille altri rivoli: con ciò divenendo un dedalo di cui si è sempre scritto e capito poco, complice la spaventosa difficoltà di raccogliere documentazioni oltrecortina; senza contare che una banca austriaca, in particolare, non ha mai risposto alle rogatorie chieste dalla Procura di Milano, e questo senza che il Pool scatenasse il finimondo. Non si tratta di cifre da poco, ma di qualcosa come 16 miliardi di lire che sono passati dalla Eumit al Pci tra il 1983 e il 1989, estero su estero: i reati prospettati furono frode fiscale, bancarotta fraudolenta e finanziamento illecito al partito; gli indagati furono Achille Occhetto, Renato Pollini e Marcello Stefanini. Un prestanome del caso, certo Brenno Ramazzotti, ex funzionario del Pci, faceva la parte del Greganti di turno. Ma è ancora e direttamente il Greganti autentico, sorta di prezzemolo del finanziamento illecito pidiessino, a spuntare nel tardo 1993: sul suo celebre conto svizzero Gabbietta nel 1990 era transitato infatti 1 miliardo di lire (frutto della vendita della quota di Eumit appartenente al Pci, quell’anno ceduta interamente alla Deutsche Handelsbank), che poi aveva fatto un giro contorto ed era andato a ripianare i conti della Ecolibri, una casa editrice amministrata da Paola Occhetto, sorella di Achille. In pratica: «Realmente vi furono illecite erogazioni da Eumit al Pci, il cui segretario era allora l’on. Achille Occhetto, e i segretari responsabili [tesorieri] erano allora sia Stefanini sia Pollini. Tanto è attestato dalla logica, dal riscontro documentale, dalle univoche risultanze della rogatoria in ambito della Ddr». La Eumit era una società autentica che faceva profitti autentici, beninteso, ma sino al 1989, ossia sino al crollo della cortina di ferro, rappresentava una sorta di passaggio obbligato per tutte le imprese italiane che volevano fare affari con l’Est: bisognava passare di lì e pagare una commessa, una tangen te, un pizzo che poi finiva al partito. Tutto questo è appurato nelle sentenze, al pari della sussistenza di un finanziamento illecito che tuttavia «cessò prima della fine del 1989, data in cui la funzione di illecito strumento di erogazione della ricchezza di Eumit venne meno; senza contare la citata amnistia che vi fu nello stesso anno. Nella sentenza di archiviazione dell’estate del 2000, dunque, non si ravvisano i reati di falso in bilancio e bancarotta, ma per tutto il resto (corruzione, finanziamento illecito, reati fiscali) intervennero la prescrizione e l’amnistia.

TANGENTOPOLI E TIFO DA STADIO, 20 ANNI DOPO.

Tangentopoli, dopo 20 anni Milano si divide come allo stadio. Tangentopoli vent'anni dopo. Milano è più che mai divisa nel ricordarla. Di Pietro dice di aver fatto il suo «dovere» durante un mega evento al Teatro Elfo Puccini, ma Tiziana Parenti, all'epoca nel pool, lo smentisce. «Quando mi affidarono il plico su Greganti era sotto il suo tavolo e nessuno lo aveva mai aperto». In mezzo pure Stefania Craxi che attacca il convegno di Di Pietro: «Non dovevano farlo», scrive Alessandro Da Rold su “L’Inkiesta”. C’è una parte della storia di Tangentopoli che passa quasi inosservata a vent’anni di distanza dall’arresto di Mario Chiesa al Pio Albergo Trivulzio. E che contribuisce a creare ombre e veleni sull'evento che ha sepolto la prima repubblica italiana. È quella dei 43 suicidi tra politici, imprenditori o dirigenti di azienda che tra 1992 e il 1994 furono raggiunti da un avviso di garanzia o citati sui quotidiani come presunti «mariuoli». Ma è soprattutto quella del  filone che portava alle tangenti rosse del Partito Comunista, di cui il pool di Mani Pulite decise di affidare le chiavi a Tiziana Parenti. «Proprio a me, che avevo la tessera del Pci da tanti anni...», ammette l'ex magistrato durante una semideserta conferenza stampa a Milano all’Hotel dei Cavalieri, insieme con l’ex avvocato di Craxi Michele Saponara, Tiziana Maiolo e il giornalista Paolo Liguori. In questa giornata di celebrazione e festa per il leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Piero al teatro Elfo Puccini insieme con il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, tutto esaurito, Titti la rossa mette il dito nella piaga di quegli anni creando una specie di confronto a distanza con gli ex colleghi del pool. Li smentisce sulle ricostruzioni date in questi giorni («C’era la copertura politica da parte del Pci»). E ribalta il ricordo che in questi giorni viene messo nero su bianco su diversi settimanali o quotidiani. «Il problema di Tangentopoli fu soprattutto la mancanza di credibilità che avevano i magistrati. Io lo dissi a D’Ambrosio: non ci serve l’aiuto dei giornali, i magistrati devono svolgere il loro lavoro e basta». Proprio D’Ambrosio ieri ha rilasciato un’intervista al Messaggero dove ha sostenuto invece che le accuse di politicizzazione del pool arrivarono «perchè noi non guardavamo in faccia nessunno». Stesso discorso fatto anche da Di Pietro che durante le celebrazioni all’Elfo ha detto di aver fatto «il suo dovere». Discorso che invece stride con quello dei protagonisti dell’Hotel dei Cavalieri, che hanno puntato il dito proprio sulla strategia «chirurgica dei pm che cancellarono solo una parte della politica italiana, sperando di portare la sinistra al governo. Cosa che non successe grazie all’avvento di Berlusconi».  Del resto, la Parenti racconta nel dettaglio di quando arrivò al palazzo di Giustizia di Milano. «Mi chiamò Minale perchè avevamo lavorato assieme in Corte d’Assise. Non capii il perchè di questa richiesta in un primo momento, anche perchè non mi sembrava di avere un curriculum da inquirente. Mi affidarono il caso di Primo Greganti e delle tangenti rosse. Il plico lo trovai sotto la scrivania di Di Pietro. Credo che nessuno l’avesse mai letto». Passa il tempo, la Parenti indaga, ma un certo punto iniziano a incalzarla sulla scarcerazione del compagno G. «Mi chiesero di togliergli la custodia cautelare. Anzi, mi dissero pure che sarei stata ricompensata...Allora capii il perchè di quella chiamata nel pool: avevo un passato comunista e potevo dare una mano alla causa». Titti la rossa se lo domanda più volte durante la conferenza stampa. «Io quelle indagini le ho portate avanti. Chiesi anche una rogatoria alla Germania dell’Est perchè molti soldi arrivavano da lì. Le carte ci sono ancora, ma le hanno abbandonate». Le inchieste sulla Milano Serravalle che hanno travolto il Partito Democratico di Milano con l’ex presidente della provincia di Milano Filippo Penati la scorsa estate non l’hanno smossa più di tanto. «La tangente di Greganti arrivava da Marcellino Gavio...Sono storie che si conoscono da anni, ma su cui i quotidiani e una parte della magistratura non hanno mai voluto approfondire. Poi, nel momento del bisogno saltano fuori». È proprio il sodalizio tra stampa e magistratura quello che provocato il maggior disgusto nell’ex pm di Mani Pulite. «Ricordo i corridoi del palazzo Giustizia invasi dai giornalisti. C’erano bottigliette per terra, cartacce, un caos incredibile, che a volte noi che ci occupavamo anche di altro facevamo fatica a muoverci. Sembrava di stare allo stadio. Era qualcosa di tremendo per una persona come me che voleva solo fare il magistrato e credeva nella magistratura». Secondo la Maiolo, che ha appena pubblicato un libro per Rubbettino, «giornalisti e pm si mettevano d’accordo per chi arrestare. Era tutto organizzato». Titti la rossa non ce l’ha con i quotidiani. «In questi giorni ho visto sull’Espresso una foto del pool con Ilda Boccassini. All’epoca lei non c’era neppure, se la storia non viene raccontata com’è, l’Italia non capirà mai dai suoi errori». Milano, del resto, non è mai stata così divisa come in questi giorni di ricordo dell'arresto di Mario Chiesa al Pio Albergo Trivulzio. Mentre Di Pietro all'Elfo Puccini ricordava la «metastasi» della politica italiana mentre allora si parlava di tumore, Stefania Craxi dall'altro lato della città ricordava invece il discorso del padre Bettino in parlamento. «Craxi, nel discorso del 3 luglio 1992, chiese la responsabilità politica a tutti i partiti di dare una morte politica alla prima Repubblica, di porre un rimedio a quella degenerazione, a quel problema di moralizzazione della vita pubblica che si era creato seguì un vile silenzio. Venticinquemila avvisi di garanzia hanno prodotto 4mila processi e qualche centinaio di condanna». E poi, rispetto all'evento al Puccini dice: «Non doveva essere fatto».

Vent’anni e sentirli, scrive Filippo Facci su “Il Post”. Tutto parte e riporta lì, sempre a Mani Pulite, genesi di una seconda Repubblica mai nata e già vecchia: è il nostro Prima e Dopo Cristo, è l’incubatrice di un presente politico eternamente incerto tra ieri e domani. Agli spauracchi genere «non è cambiato niente» si è progressivamente sostituita una consapevolezza terrificante: è cambiato tutto, nel senso che la politica di allora oggi appare superiore anche perché diversi erano i curriculum, le professionalità, le investiture dal basso: roba che oggi ha ceduto il passo alla nomina di uno bravo ogni venti amici e parenti e servi. Avevi i voti o non li avevi: non c’erano carfagne e non c’era merito di guerra che potesse bastare. Nostalgia? Per niente. Nulla giustifica come il finanziamento illegale della politica, un tempo fisiologico e necessario, fosse degenerato a Milano come nel resto del Paese. Nella capitale morale ogni appalto doveva sovvenzionare la politica in quote prestabilite (tot alla Dc, tot al Psi, tot al Pci eccetera, secondo il consenso acquisito) e le imprese a loro volta potevano prestabilire i vincitori delle gare in barba al libero mercato, formando così un «cartello» che escludeva altra concorrenza e falsava i costi. Maggioranze e opposizioni conducevano un gioco delle parti che dietro le quinte diveniva complicità e spartizione degli affari: a Milano accadeva che per determinati appalti ci fosse un cassiere unico che poi ridistribuiva agli altri partiti, Pci compreso. Il sistema era talmente oliato da rendere praticamente impossibile comprendere chi, tra imprese e partiti, avesse il coltello dalla parte del manico. Gli imprenditori si definiranno come ricattati dai politici, i politici come assediati da imprenditori ansiosi di offrire: in concreto «era un sistema», come disse Bettino Craxi, o quantomeno una «dazione ambientale», come la descrisse Di Pietro: ispirato, in realtà, da un altro magistrato che si chiamava Antonio Lombardi. Era un sistema malato di elefantiasi e degenerato negli effetti pratici ed economici: più costose e durature erano le opere e più grande era la torta da spartire, il mercato era sfalsato e così pure la selezione delle offerte migliori e più convenienti. Tutto questo, naturalmente, in linea di massima: fioccavano le eccezioni e le isole felici, mentre le degenerazioni e un senso del limite si tenevano la mano in un Paese che in qualche modo tirava avanti. Grazie al debito pubblico? I numeri, ormai, hanno smentito anche questo. Dal 1946 al 1992, la Prima Repubblica ha accumulato un debito pubblico pari a circa 6-700 miliardi di euro: il restante – ossia i 1300 miliardi di euro che hanno portato il debito pubblico italiano alle cifre odierne – lo ha fatto la Seconda Repubblica dei vari governi Berlusconi, Amato, Ciampi, D’Alema e Prodi; la Prima Repubblica accumulava una media giornaliera di 47,5 milioni di euro di debito al giorno, la Seconda è arrivata a oltre 200 milioni di euro al giorno, quasi quintuplicando la cifra. Oscar Giannino, un collega quantomeno rigoroso, ha raffrontato i governi di centrodestra e centrosinistra sulla base dei dati della Banca d’Italia: il record di debito pubblico sono stati i 330 milioni al giorno del primo governo Berlusconi, che nell’ultimo governo è sceso a 207 milioni. Perfetto, ma perché Mani pulite nacque proprio allora? Qui in genere si scontrano versioni improbabili e micro – la favoletta del magistrato onesto che smaschera i corrotti – e altre non meno improbabili e complottarde e legate a scenari internazionali. Tra Montenero di Bisaccia e Washington, non manca chi sostenga che l’inchiesta avrebbe potuto nascere in ogni momento dal Dopoguerra in poi, anche se è vero che alla fine degli anni Novanta certe disinvolture avevano superato ogni limite e così pure la tolleranza di una popolazione in progressiva crisi economica. Noi voliamo basso. È inutile ricostruire e contestualizzare tutti gli scenari che indubbiamente, più che dare origine all’inchiesta, da un certo punto poi non ne impedirono la nascita come in passato sarebbe probabilmente accaduto, anzi, come probabilmente avvenne. Si possono tuttavia menzionare pochi accadimenti chiave che prepararono il terreno.

Uno, nell’aprile 1990, fu l’amnistia che contemplava vari reati compiuti sino al 24 ottobre 1989, e tra questi il finanziamento illecito ai partiti. La demarcazione si rivelerà essenziale per giustificare l’impunità di alcune parti politiche e soprattutto per depenalizzare ogni finanziamento illecito versato al Pci dall’Unione Sovietica. Dall’ottobre 1989 al marzo 1992 non passarono che una trentina di mesi: l’intero sconvolgimento del sistema politico italiano è stato realizzato in quel periodo.

Dirompente, nel tardo 1989, fu poi l’entrata in vigore del nuovo Codice di procedura penale Vassalli-Pisapia. Esso si proponeva, nelle intenzioni, pari dignità giuridica tra accusa e difesa, custodia cautelare come extrema ratio , segretezza delle indagini, pubblicità del processo e, soprattutto, prova che doveva formarsi rigorosamente in aula. Il totale stravolgimento delle velleità del nuovo Codice, con la complicità della classe politica e il palese dolo della magistratura, sarà una chiave di volta della prima e fondamentale parte di Mani pulite. Molti magistrati nei primi anni Novanta lanciavano grida d’allarme contro un nuovo Codice che paventavano come troppo garantista.

Il procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 1992, definì le nuove norme addirittura «ipergarantiste» e lo stesso facevano i cronisti. Il professor Giandomenico Pisapia, presidente della commissione per la riforma del codice di procedura penale, intervistato dallo scrivente nel 1992, la mise così: «È il processo che è pubblico, non le indagini. Il nuovo Codice vieta la divulgazione di atti che sono in gran parte segreti: il segreto delle indagini c’è e serve a tutelare sia le indagini sia l’indagato che naturalmente teme che la divulgazione di notizie anticipate possa pregiudicare la sua immagine, immagine che una volta guastata non può essere ripristinata nemmeno in caso di assoluzione». L’allora vicepresidente del Csm Giovanni Galloni, sempre nel 1992, aggiunse: «La stampa deve intervenire solo a conclusione delle indagini, e l’avviso di garanzia deve essere protetto da segreto istruttorio ». Sembra fantascienza.

- Il referendum sulla preferenza unica proposto da Mario Segni simboleggiò poi come anche Bettino Craxi, che invitò bonariamente gli elettori a disertare le urne, non avesse polso di quanto andava montando. Alle urne si recò il 65 per cento degli italiani e il referendum passò con il 95,6 per cento di sì. Il voto celava null’altro che una forte insofferenza contro i partiti.

- Altre date rilevanti, a Mani pulite iniziata, saranno il 5 ottobre 1992 e il successivo 29 ottobre, quando la lira cioè scese al minimo storico e fu ratificato anche in Italia il Trattato di Maastricht sull’unione monetaria. Qualsiasi peculiarità italiana, di lì in poi, avrebbe dovuto allinearsi a parametri ormai imprescindibili: anche da questo, il 10 luglio 1992, nascerà una manovra finanziaria da 30.000 miliardi di lire con cui il governo di Giuliano Amato tenterà un primo risanamento del disavanzo pubblico. Nello stesso periodo verrà avviata la privatizzazione di Iri, Eni, Enel e Ina: una strada obbligata e però gravida di conseguenze sociali e occupazionali che contribuiranno a riscaldare il clima. L’Italia, all’inizio del 1992, era un castello di carte che aspettava solo un refolo di vento. Crisi varie, inflazione, la Fiat che annunciava prepensionamenti, carabinieri ammazzati dalla camorra, urla contro i politici durante i funerali, l’antipolitica che strepitava dai televisori: senza contare che il capo dello Stato, Francesco Cossiga, il 2 febbraio avrebbe sciolto le Camere. E Milano, da sempre laboratorio anticipatore di ogni brezza o tempesta destinata a spirare nel paese, era una polveriera rimasta incustodita.

E Di Pietro? Di Pietro era un magistrato di non buonissima fama. Non aveva rapporti neanche coi giornalisti, o non erano buoni: lo sfotticchiavano per la pronuncia o addirittura fingevano un refuso e scrivevano «Antonio Di Dietro». I giovani cronisti lo chiamavano «il troglodita». Che avesse in mente tutto fuorché Mani pulite l’ha raccontato in più occasioni Elio Veltri, che l’incontrò nei primi giorni di febbraio: il magistrato gli disse che presto avrebbe abbandonato i reati contro la pubblica amministrazione e si sarebbe dedicato alle estorsioni; aveva archiviato il caso di un’intera famiglia di Parma scomparsa nel nulla e «Chi l’ha visto?» ci aveva montato una puntata intera. A lui era piaciuto, la tv lo faceva già impazzire. Ammetterà anche Francesco Saverio Borrelli: «Non immaginavo che dall’arresto di Chiesa potesse nascere quello che è nato, ma credo che non l’immaginasse nessuno. Non l’immaginava certamente Di Pietro».

È vero, Mani Pulite nacque per caso, ma il caso non esiste. E comunque non se ne accorse nessuno, dapprima: quasi tutto andava bene a quasi tutti. All’ascesa socialista si era via via accompagnato un discutibile sottopotere socialista: Milano era da bere, ma lo slogan era soprattutto di chi non poteva sedere a tavola. Il Titanic romano già affondava lentissimo mente Milano era una Bismarck. Tutto era diverso e inimmaginabile. La cerimonia d’insediamento di Giulio Catelani, venturo procuratore generale dai toni «rivoluzionari», fu benedetta dalla presenza di Giulio Andreotti. Persino la nomina di Francesco Saverio Borrelli a capo della procura ebbe il placet della Dc e del Psi. E non era crollato il mondo, nel maggio 1990, quando la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del senatore socialista Antonio Natali – tesoriere maximo – era stata respinta. La Metropolitana Milanese era a tutti gli effetti una società per azioni privata, si disse, dunque poteva finanziare i partiti. Tutti. Eppure, neanche due anni dopo, il ragionamento sarà rovesciato e si andrà di ramazza. Allora invece nessuno fiatò, neanche le opposizioni. Non si procedette neppure per violazione del finanziamento illecito. La verità è che la nave andava, e Antonio Di Pietro era a bordo.

Molti hanno scritto che già in quel periodo il magistrato indagasse per Mani pulite, anzi, che indagava praticamente da sempre, come un infiltrato che conducesse una sorta di indagini preliminari lunghe quarantadue anni. Così, a cena da qualche personaggio imbarazzante, mica cenava: raccoglieva materiale probatorio. Con altri fingeva amicizia: poi sbirciava nel loro portafoglio – questo scrivono – e annotava il nome delle banche in cui avevano i conti. Tutto molto improbabile, anzi. Di Pietro continuava a essere quel personaggio straordinariamente ambiguo che è ed è sempre stato, da amico di tutti e di nessuno. A Palazzo di Giustizia non aveva una fama meravigliosa: certi suoi trascorsi l’avevano accompagnato sin lì. «Tu gli giri sempre intorno, ai politici, ma non li prendi mai» gli diceva per esempio Elio Veltri, che lo conobbe in quel periodo e che scrisse: «Confesso che qualche volta ho dei dubbi, perché nelle inchieste non arriva mai ai politici. I loro furti sono così evidenti e la loro certezza di impunità così sfacciata, che si fatica a pensare che non si possa incastrarli».

Le perplessità, condivise da molti cronisti giudiziari, erano legate perlopiù alla rumorosissima inchiesta sull’Atm (Azienda Trasporti milanesi) di cui presidente era il democristiano Maurizio Prada e vicepresidente il socialista Sergio Radaelli: si era profilato dunque il rischio che Di Pietro incontrasse di giorno gli amici che già frequentava la sera. Prada e Radaelli, infatti, facevano parte di un giro di frequentazioni ad ampio raggio (il sindaco, l’ex questore, il capo dei vigili, industrialotti vari) che il magistrato aveva anche invitato a casa sua. Tra gli amici non mancavano industriali come Giancarlo Gorrini o il costruttore Antonio D’Adamo: che fecero, insieme, più di duecento milioni di «prestito» beneficiato da Di Pietro. Lo spaventoso elenco di favori che il magistrato ebbe dallo stesso potere che poi avrebbe abbattuto (prestiti, affitti a equo canone, domicili, auto per sè e per la moglie, incarichi e consulenze per moglie e amici, impieghi per il figlio, vestiario, telefoni, la celebre Mercedes scontata) non rappresentano solo comportamenti «di indubbia rilevanza disciplinare», come avrebbe sancito la magistratura: rappresentò, allora, la ragione principale per cui, tra i ben informati, a Milano nessuno pensava che Di Pietro avrebbe fatto il botto. Anche al famoso Mario Chiesa, cioè alla miccia iniziale, Di Pietro arrivò quasi distrattamente. Nel giugno 1990 «Il Giorno» aveva pubblicato un articolo nel quale un impresario funebre raccontava che per lavorare al Pio Albergo Trivulzio bisognava pagare: la querela di Mario Chiesa era stata affidata a Di Pietro, che aveva archiviato, sì, ma aveva anche preso nota e in parallelo aveva aperto un fascicolo e disposto intercettazioni.

Ma l’arresto di Chiesa fu comunque un caso. Luca Magni, un imprenditore del ramo pulizie, non si rivolse a Di Pietro perché strozzato dalle tangenti e dal bisogno: lo fece perché vessato dall’arroganza di Chiesa. Il lavoro non gli mancava, ma per gli appalti della Baggina, «Chiesa cominciò a chiamarmi insistentemente. Mia sorella non stava bene, era stata ricoverata, per cui non avevo tempo da dedicargli. La risposta fu che la salute di mia sorella era affar mio, non dell’ingegner Chiesa». Magni – che ha raccontato queste cose, vent’anni dopo, nel libro «Alla fine della fiera» di Federico Ferrero – allora si rivolse a un’associazione di commercianti che gli diede un numero dei Carabinieri. Il capitano raccolse la denuncia e la presentò al magistrato di turno: che era Di Pietro, ma poteva anche essere un altro.

Chiesa aveva chiesto a Magni di versare il 10 per cento su un appalto. Allora l’impresario andò nell’ufficio dell’ingegnere con settanta banconote segnate da centomila: flagranza di reato, concussione, galera. Le modalità di quell’arresto, riviste oggi, fanno comprendere quanto fosse diverso come l’atteggiamento della magistratura a proposito della custodia cautelare: in Mani pulite una sola chiamata in correità basterà per incarcerare chicchessia, ma, prima di essa, Di Pietro non si fece bastare la confessione di Luca Magni e neppure le intercettazioni telefoniche: predispose banconote segnate, un microfono e persino una telecamera che peraltro non funzionò.

L’arresto di Chiesa destò scalpore, certo, ma il neonato Tg5, per capirci, non pronunciò la parola «socialista» neanche una volta. Sembrava tutto sotto controllo: l’avvocato di Chiesa, Nerio Diodà, chiese subito il patteggiamento. «Faremo la direttissima» annunciò Borrelli, inconsapevole di quanto aveva tra le mani. O, forse, sin troppo consapevole. Dirà Di Pietro: «Io dimenticai di depositare gli atti nei tempi prescritti per la direttissima… Borrelli aveva dato indicazione di depositarli… erano in vista le elezioni del ’92, la tensione montava, il fatto risultava chiaro, era opportuno rinviare Chiesa a giudizio per direttissima e chiudere così il caso e le crescenti polemiche. A quel punto, io non ho la forza di dire al dottor Borrelli che non lo faccio perché voglio arrivare a un obiettivo preciso; e allora “mi sbaglio”».

Così la faccenda s’insinuò nella campagna elettorale per le elezioni politiche. E Craxi, il 3 marzo, disse: «Mi ritrovo un mariuolo che getta un’ombra sul Partito». Mariuolo che intanto marciva in galera mentre vari imprenditori pellegrinati in Procura – per paura o perché tirati in ballo da un collega «infiltrato», Fabrizio Garambelli – cominciarono a parlare e straparlare pur di scampare la galera. Chiesa decise di parlare il 23 marzo: era politicamente finito, non aveva più un lavoro né una moglie, suo figlio non gli scriveva da un mese e la sua nuova compagna era incinta da sette. Parlò per questo. Ammise i versamenti ai vari big del Garofano e non solo a loro. Il 30 marzo i cronisti si appostarono con l’orecchio vicino alla stanza di Di Pietro, la 254, e annotarono un urlo di Chiesa: «M’avete rotto i coglioni con quel nome». Il nome di Bobo Craxi. Suo padre era candidato alla presidenza del Consiglio e vantava ancora un alto gradimento.

Il 2 aprile concessero gli arresti domiciliari a Chiesa. Si delineava uno scenario probatorio da paura, e il gip Italo Ghitti disse chiaro e tondo: «Il nostro obiettivo è colpire un sistema, non le singole persone». Cominciò una nuova fase giurisprudenziale. Ogni reato ipotizzato, di lì in poi, sarebbe stato inquadrato nell’affiliazione a un sistema, e dimostrare che l’indagato ne avesse fatto parte sarebbe bastato a giustificare il protrarsi delle carcerazioni. Chi parlava e denunciava altri, invece, poteva essere liberato perché ritenuto ormai inaffidabile agli occhi del sistema: come i pentiti con la mafia. Ogni proposta di sistematizzare la confessione sarebbe stata avallata dal Pool. E ogni tentativo di limitare le carcerazioni sarebbe stato chiamato colpo di spugna.

L’antipolitica montò soprattutto in tv. Su Raitre c’era Gad Lerner col suo «Profondo Nord», poi diventato «Milano, Italia». Su Italia Uno c’era Gianfranco Funari col suo «Mezzogiorno italiano». Michele Santoro, col suo «Samarcanda», aveva fatto grandissimi ascolti con una puntata dedicata alla crisi dei partiti; poi, dopo che il 12 marzo a Mondello avevano ucciso il democristiano Salvo Lima, si era rivolto direttamente alla piazza televsiva: «Siete contenti che l’hanno ammazzato?». Scoppiò un putiferio. Gli fui intimato di rinunciare alla piazza nelle settimane pre-elettorali, ma rifiutò, sicché gli chiusero la trasmissione per quindici giorni. Da immaginarsi che cosa ne venne fuori.

In ogni caso il voto del 5 aprile 1992 segnò il crollo storico della Dc e perdite minime per il Psi, ma il pentapartito ne uscì comunque malconcio. La Lega superò i tre milioni di voti (9 per cento) e cantarono vittoria anche neo movimenti come la Rete. La stampa aprì un fuoco di fila contro la maggioranza e ci fu anche una telerissa in diretta fra il direttore del Tg1 Bruno Vespa e il segretario repubblicano Giorgio La Malfa: «Lei, Vespa, è stato sconfitto come l’onorevole Forlani, e se ne deve andare!», «E lei ha lottizzato la Rai come hanno fatto gli altri partiti, se non peggio».

Cominciava un burrascoso interregno giudiziario. Ebbe inizio un periodo incredibile: chiamate in correità a mezzo stampa, il Tg3 come se l’Armata rossa fosse alle porte di Trieste, telefonate concitate, avvocati coi clienti in lista d’attesa. La Prima Repubblica era finita, ma neppure questo avevano ancora capito.

Una sola notte di prigione, il 21 aprile 1992, trasformò otto imprenditori in terribili accusatori: ammisero centocinquanta miliardi pagati a vari politici e cominciò la delazione ambientale. Ammetterà Di Pietro: «Per l’imprenditore la convenienza è soprattutto imprenditoriale. Qual è il suo primo problema quando viene coinvolto? I giornali, la televisione, l’arresto, la confessione, tutto questo produrrà effetti a catena disastrosi per la mia impresa. Le banche mi ritireranno i fidi, i committenti non mi daranno più gli appalti, i lavoratori mi contesteranno, sarò costretto a chiudere».

Il 23 aprile ecco un altro caposaldo: il fascicolo virtuale. Tutti i fatti di Tangentopoli sarebbero stati compresi in un solo procedimento con un solo gip, il finto mite Italo Ghitti. Al resto provvedevano altre tecniche. «L’avviso di garanzia è stato un bel passo indietro, perché noi pm abbiamo potuto agire indisturbati e in silenzio più di prima… La legge dice che il pm dovrebbe cercare anche gli elementi favorevoli all’indagato. Ma figuriamoci!». Dopo l’iscrizione di Tizio nel registro degli indagati, secondo il Nuovo Codice, un’inchiesta non doveva durare più di sei mesi: il Pool aggirare la normativa col modello 44, cui si ricorreva quando l’indagato era ignoto: i sei mesi non decorrevano. È il registro in cui inserirono Bettino Craxi. Altro stratagemma: archiviare direttamente a modello 45 (cui si ricorre quando si ritiene che non esista notizia di reato, come nel caso di denunce di pazzi con manie di persecuzione) oppure, sempre per indagare a tempo scaduto, comunicare al Procuratore generale l’intenzione di rinviare a giudizio.

Il 27 aprile con Di Pietro apparve un nuovo pm: Gherardo Colombo, uno gentile, jeans stinti, Lacoste, scarpe da vela consumate, il vizio delle sigarette e delle dita nel naso. Di Pietro aveva richiesto che gli fosse associato Piercamillo Davigo, ma Borrelli all’inizio preferì Colombo anche per controllare meglio Di Pietro, che aveva la fama che aveva. Davigo sarebbe arrivato poi.

La stampa invece era già arrivata, anzi, la ressa si era fatta insopportabile e certi entusiasmi cominciarono a creare problemi. Il 27 aprile 1992 i carabinieri non poterono arrestare il socialista Matteo Carriera perché sotto casa sua c’era il Gabibbo. Quei parvenu della Fininvest esordivano coi loro telegiornali e dapprima vennero sospettati di intelligenza col nemico, ma gli steccati caddero subito, anzi, il problema divenne che di notizie ne davano sin troppe e rischiavano di bruciare tutti gli altri. Ogni tanto Paolo Brosio del Tg4 diffondeva il panico nei servizi della notte («Il gip ha appena firmato ventinove ordini di cattura») e ogni volta i cronisti della carta stampata venivano richiamati per verificare e ribattere. Una volta, in diretta, Brosio disse che avevano arrestato l’industriale Carlo Gavazzi – in realtà morto – e non suo figlio Riccardo. Un’altra volta intervistò l’ex sindaco Carlo Tognoli e lo chiamò per cinque volte Pillitteri.

L’informazione si strinse nel collo di bottiglia di pochi cronisti, quei quattro o cinque che avevano consolidato rapporti personali coi magistrati, ma poi si allargò a tutti gli altri. Nacque, per un delimitato ma decisivo periodo, una specie di Pool dei giornalisti: una redazione giudiziaria unificata con distribuzione equanime delle notizie e dei celebri verbali, spesso tradotti dal burocratese e semplificati in linguaggio corrente. Due gli obbiettivi: gestire la mole impressionante delle notizie e in secondo luogo proteggersi da eventuali censure distribuendo le notizie a tutti gli altri. Di fatto le informazioni si strinsero nel collo di bottiglia di pochi cronisti, e l’informazione si fece uniformata da giornale a giornale. L’entusiasmo e la giovane età, in qualche caso, giustificarono episodi al limite del fanatismo: per esempio la produzione della maglietta «anch’io seguo Mani pulite», o ancora il primo avviso di garanzia a Craxi appeso in sala stampa (dopo aver brindato a champagne, come accadde anche per l’arresto di Salvatore Ligresti) e più in generale una dedizione che portò alcuni ragazzi a sentirsi parte dell’inchiesta anziché strumento della medesima: «C’è un gruppo di cronisti che si comporta in maniera alterata, abbandonando il privato» disse il decano dell’Ansa. Le notizie uscivano da più direzioni, non soltanto dai magistrati: ma difficilmente uscivano se loro non volevano. Dirà Italo Ghitti, il gip storico di Mani pulite: «Ci fu un momento in cui ebbi la certezza che determinate notizie uscivano dagli uffici dei pm». Ci furono casi in cui le notizie furono depositate nelle edicole prima che nelle mani degli avvocati, o altri casi, particolari, come raccontato dal cassiere democristiano Severino Citaristi: «Consegnai gli elenchi anche a Di Pietro. Conoscendo le poco corrette abitudini di Milano, gli raccomandai di fare in modo che l’elenco non fosse reso pubblico. Me lo assicurò. Infatti, due giorni dopo, quotidiani e settimanali pubblicarono integralmente i tre elenchi.

Scrisse l’allora cronista del manifesto: «I giornalisti hanno avuto i loro padrone: la magistratura. Molti giornali si sono messi sull’attenti, si sono scordati pezzi del Codice penale, pezzi importanti delle garanzie che la legge prevede per gli imputati. E’ stato rispettato più il Codice Di Pietro che non il nuovo Codice penale. C’è stata una specie di identificazione totale con l’ufficio del pm, tanto che alcuni periodici (L’Espresso e Panorama, nda) sono diventati i portavoce della Procura e i depositari dei verbali d’interrogatorio. I giornali si sono così abituati a singolari trattative sulla carcerazione preventiva o sulla consegna degli imputati, come se fosse una cosa normale».

Il ruolo della stampa era fisiologico all’inchiesta: questa la vera novità. Travestita da libera circolazione delle notizie, la pubblicazione di certi verbali piuttosto che altri si traduceva in un irresistibile effetto richiamo per decine di indagati che si ritrovavano nero su bianco sui giornali. Senza contare che un solo avviso di garanzia, o mezza notizia ben filtrata, erano in grado di squadernare ogni trattativa politica.

Di Pietro, tra i cronisti, era oggettivamente adorato. L’uomo che anni prima avevano chiamato «Di Dietro», nel loro gergo, divenne «Zanzone», «Dio», «Diozanza», «Padrepio», «l’Onnipotente» e da un certo punto in poi «la Madonna». Un esempio dei rapporti che Di Pietro intratteneva coi giornalisti è ricavabile da un interrogatorio di Giancarlo Gorrini reso nel 1997 a Brescia: «Io e Di Pietro ci trovammo a uscire dal suo ufficio. Nel suo corridoio vi erano numerosi giornalisti e operatori delle varie tv che immediatamente accesero i faretti. Di Pietro, alzando e muovendo le braccia, disse di stare fermi in quanto la persona che era con lui non era un indagato bensì un suo amico». Gorrini in realtà era già inquisito per bancarotta fraudolenta e condannato per appropriazione indebita: ma a Di Pietro, coi giornalisti, bastava alzare un braccio.

La manovalanza dei cronisti doveva interfacciarsi coi desk delle rispettive redazioni, e circolavano leggende secondo le quali i direttori dei principali quotidiani si telefonavano per concordare spazi e titoli comuni. Piero Sansonetti, condirettore de l’Unità nel 1992-1993, ha raccontato che c’era del vero: «Nel biennio 1992-1993 la società politica era allo sbando e nacque un’alleanza di ferro tra quattro giornali: il Corriere, la Stampa, l’Unità e Repubblica. Il direttore de l’Unità era Veltroni, alla Stampa c’era Mauro, il caporedattore di Repubblica era Antonio Polito. Tra i quattro giornali si stabilì un vero e proprio patto di consultazione che li rendeva fortissimi: ci si sentiva due o tre volte al giorno, si concordavano le campagne, le notizie, i titoli. Il punto di riferimento di tutti era Paolo Mieli». Antonio Polito confermerà: «I partiti pesavano pochissimo, il governo era altrettanto debole, perse in pochi mesi una decina di ministri che si dimettevano subito, appena ricevuto l’avviso di garanzia, anche per via delle nostre campagne di stampa. Abbiamo interpretato e indirizzato l’opinione pubblica».

L’unico giornale non propriamente sdraiato sulle procure era Il Giorno diretto da Paolo Liguori, dove scrivevano firme come Andrea Marcenaro, Carla Mosca e Napoleone Colajanni. Suo antagonista naturale era L’Indipendente, dove ai brindisi all’avviso di garanzia si accompagnavano talvolta veri e propri ammiccamenti alla violenza di piazza.

Ma c’era una seconda ragione per cui i cronisti chiamarono Di Pietro «la Madonna»: fu per via delle decine di avvocati che presero a pellegrinare in Procura in omaggio al citato effetto richiamo dei giornali. Partì da qui, sommessamente, una polemica volta a indicare anche una sostanziale abdicazione del ruolo dell’avvocato alla base del crescente successo di Mani pulite. Per tutta l’inchiesta, infatti, ruolo essenziale fu quello dei cosiddetti «avvocati accompagnatori», legali che spesso si limitavano ad assistere i loro clienti nel percorso che li portava fino alla stanza di Antonio Di Pietro: poi null’altro che un’ossequente confessione. Un cronista del Mattino, a proposito dell’appoggio dato ai clienti nel parlare e liberarsi, li ribattezzò «addetti al vomito». Scrisse invece un cronista del Manifesto: «Gli avvocati raramente rappresentano un contraddittorio coi magistrati, una fonte d’informazione alternativa… Il processo in pratica si celebra prima di andare in aula… Il ruolo dei legali il più delle volte si limita ad assistere inerti agli interrogatori o alle trattative per evitare ai loro clienti la galera».

In pratica i cosiddetti i principi del foro, con poche eccezioni, durante Mani pulite non batterono chiodo. Non era sfuggito che avvocati poco noti, ma graditi ad Antonio Di Pietro, erano i difensori di tutti i principali accusatori di Tangentopoli: cambiare avvocato si traduceva in un cambio di atteggiamento e in una potenziale svolta processuale, ergo si usciva dal carcere o neppure ci si entrava. Il semi-sconosciuto Giuseppe Lucibello, compagno di bisboccia di Tonino, assunse difese clamorose come quella del banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia. Anche il democristiano Roberto Mongini, che di legali ne cambiò addirittura tre, cambiò e cominciò a parlare. Uno come Salvatore Ligresti rimase in carcere per cinque mesi sinché cambiò avvocati e fu subito liberato previo cambio di atteggiamento. Autentica guerra di nervi fu poi quella combattuta da Michele Saponara, presidente dell’Ordine degli Avvocati: il socialista Loris Zaffra, da lui difeso, rimase a San Vittore per sei mesi sinché non dette incarico a un altro e fu l’apriti sesamo. Eppure, fiutata l’aria, Zaffra era giunto a far verbalizzare: «Non intendo avvalermi di un altro avvocato ». «La Procura», accusò Saponara, «fece sapere alla famiglia di Zaffra che se voleva tornare libero doveva cambiare avvocato». A tal proposito, ascoltato dagli ispettori ministeriali nel 1995, Saponara produrrà una testimonianza secondo il quale un pm del Pool aveva urlato a Zaffra: «Se non cambia legale, si dimentichi di uscire». Ma le accuse non trovarono conferma. Col tempo, e col progredire dell’inchiesta, architrave di Mani pulite diverrà invece lo studio del professor Federico Stella, eminenza grigia, difensore dell’Eni e futuro ghostwriter di Antonio Di Pietro. Il professor Stella difese l’imprenditore Fabrizio Garampelli, che con le sue confessioni spedì in galera praticamente chiunque tranne se stesso; difese uno sterminato numero di dirigenti dell’Eni «buono» ed elaborerà ben due proposte di legge per uscire da Tangentopoli, entrambe appoggiate dal Pool: una a ottobre 1992, elaborata in seno all’Assolombarda, di cui pure era difensore, e un’altra praticamente identica nel settembre 1994, presentata in pompa magna alla Statale di Milano. A dispetto di queste semplificazioni, comunque, in Mani pulite trovarono spazio anche avvocati con posizioni più varie e sfumate. Quando L’Espresso nella primavera 1993 pubblicò una specie di hit parade degli avvocati di Tangentopoli (titolata «Primo Bovio, ultimo Chiusano») il presunto vincitore, Corso Bovio, scrisse così al settimanale: «La qualità di un avvocato non si misura dalla durata della carcerazione… Credo che la sua funzione sia quella di far rispettare la dialettica del processo. Mi autoassolvo, ma non sento di assolvere il mio ruolo… Perry Mason non è famoso perché pilota le confessioni o patteggia le pene. Oggi sono vincenti l’inquisizione, il pentitismo, lo Stato di Polizia con le sue manette e le sue galere».

Intanto il pool proseguiva con una tripartizione precisa: Di Pietro interrogava, Colombo spulciava le carte e Davigo vergava le richieste di autorizzazione a procedere. Italo Ghitti invece autorizava gli arresti «privilegiando la rapidità al cesello», come dirà Colombo. Dirà invece Di Pietro, appena più grezzo: «Io andavo dai colleghi e segnalavo un’operazione che mi puzzava. “Vedi che cosa è successo qui?” Questo secondo me è un reato di porcata… Cari Davigo e Colombo, cavoli vostri, entro domattina trovate una soluzione che dal punto di vista giuridico non faccia una piega perché non voglio rischiare una sconfitta dal tribunale della Libertà”». Traduzione: io lo metto dentro, il come e il perché trovatelo voi. Ha raccontato Primo Greganti, storico inquisito comunista: «Avevano emesso un mandato d’arresto illegittimo. Ma, dopo aver ammesso l’errore, Di Pietro mi disse: “Adesso vado da Davigo, e vedrai che lui un motivo per tenerti dentro lo trova”. Fatto sta che tornai in cella per altri ventisei giorni». A Di Pietro era permesso tutto, anche perché si avviava a divenire un eroe nazionale: partecipò alla festa della Polizia e l’applaudirono per due minuti. Il suo status era cambiato in un niente: gli avevano riverniciato la stanza, aveva quattro scrivanie, tre computer e due poltroncine girevoli in similpelle. Gli giungevano migliaia di lettere da tutt’Italia, soprattutto immaginette sacre e santini di Padre Pio, e la sera le portava a casa per leggerle al figlio. Il Corriere della Sera, nella sola settimana dal 7 al 15 maggio, sfoderò questi titoli: «Il pm contadino, quasi un eroe», «La domenica tranquilla dell’eroe», «Il fascino discreto dell’uomo onesto». Il dipietrismo nacque ufficialmente in maggio. La prima scritta era stata individuata nel parcheggio dello stadio di San Siro: «Di Pietro, sei meglio di Pelè». Poi un «Grazie Di Pietro» in via Manin e poi lo striscione «Di Pietro sindaco» ancora a San Siro. E così via. «La rabbia degli onesti corre sui muri» titolò l’Unità del 10 maggio. A metà del mese ecco la prima fiaccolata pro Di Pietro con cabaret finale a cura di Lella Costa, David Riondino, Paolo Rossi più una giovanissima Sabina Guzzanti. Il 30 maggio, su Italia Uno, Gianfranco Funari nel suo programma «Mezzogiorno italiano» fece partire uno spot quotidiano con immagine di Di Pietro che camminava e una voce di sottofondo che lo incitava: «Vai avanti… vai avanti…».

Anche la strage di Capaci registrò il tentativo di sfruttare la morte di Falcone per portare acqua a Mani pulite. Il magistrato morì un sabato, e lunedì 25 maggio «la Repubblica» uscì in edizione straordinaria col titolo «L’ultima telefonata con Di Pietro». La morte del magistrato siciliano ebbe il potere di accelerare l’elezione del presidente della Repubblica dopo un interminabile gioco di fumate nere, veti e contro-veti. Il 25 maggio elessero Oscar Luigi Scalfaro, sponsorizzato da Marco Pannella e Bettino Craxi, che non se ne pentiranno mai abbastanza. Dopo le tormentate elezioni di Giorgio Napolitano e Giovanni Spadolini alla Camera e al Senato, anche la corsa per palazzo Chigi s’avviava a conclusione: «Craxi», sussurravano tutti. Ma la sera del 3 giugno la notizia era un’altra: «C’è anche il nome di Craxi nell’inchiesta sulle tangenti» disse il Tg1. Di Pietro precisò: «Allo stato il mio ufficio non ha rilevato nulla di penalmente rilevante che possa riguardare la famiglia Craxi». Allo stato, Craxi non sarebbe stato presidente del Consiglio, punto. La sua parabola si fece discendente anche se il 3 luglio pronunciò un discorso alla Camera destinato a passare alla Storia, parole che per buona parte riverserà in un altro discorso che pronuncerà il successivo 29 aprile 1993, giorno precedente all’assedio dell’Hotel Raphael. Craxi chiese al Parlamento di assumersi le proprie responsabilità per trovare una soluzione politica alla crisi della Prima Repubblica. Lo fece quando mancavano quasi sei mesi a un suo coinvolgimento effettivo in Mani pulite, e quando l’eventualità che potesse essere inquisito pareva semplicemente impensabile. Racconterà il segretario amministrativo della Dc Severino Citaristi: «Dissi a Forlani che era il momento di prendere posizione, ma invano». Secondo Giovanni Pellegrino, Pds, allora presidente della giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato, «Quando Craxi fece quel discorso c’era ancora qualche margine per fare almeno delle riforme che consentissero di uscire dal pantano, ma non se ne fece niente perché Occhetto aveva altri programmi: pensava che il Pds sarebbe uscito indenne e che gli altri partiti sarebbero stati cancellati dalla geografia politica».

Agosto fu il mese dei tre corsivi sull’«Avanti!» vergati da Bettino Craxi. Il segretario socialista il 23 la mise giù dura: «Col tempo potrebbe persino risultare che il dottor Di Pietro è tutt’altro che l’eroe di cui si sente parlare, e che non è proprio oro tutto quello che riluce». Senza farla tanto lunga: il poker di Craxi non era un bluff, tutte le carte – Mercedes svendute, frequentazioni, prestiti eccetera – verranno calate negli anni successivi e saranno decisive per le dimissioni di Di Pietro dalla magistratura. Ma allora non c’era neanche il tavolo per giocare. Di fatto, per qualche tempo, fioccarono le scarcerazioni: «Come mai», notò anche il Corriere della Sera, «Di Pietro rinuncia alla sua proverbiale risolutezza? Perché una linea tanto morbida?» Se lo chiese anche Gherardo Colombo: «È successo che tornando dalle ferie estive dissentisse su iniziative di Piercamillo e mie in tema di custodia cautelare… Ciò si verificava contestualmente al fatto che la stampa avesse avuto da ridire su alcuni aspetti dell’indagine». Ma forse, a contribuire a una certa cautela, il 3 settembre era stato anche il terribile suicidio del deputato socialista Sergio Moroni. La sua toccante lettera spedita al Presidente della Camera, letta al Tg2 e pubblicata da tutti i giornali, denunciava un clima da caccia alle streghe e risvegliò qualche orgoglio parlamentare. Ma erano colpi di coda. Il 19 settembre il cassiere socialista Vincenzo Balzamo passò da Palazzo di Giustizia e fu preso d’assalto dai cronisti: e nessuno di loro ricorda quel giorno con particolare orgoglio. Ma la sindrome era tale che L’Avanti!, poco tempo dopo, titolò «Querci: ho dato 400 milioni a Balzamo» quando nessun altro giornale fece altrettanto, anche perché Balzamo intanto era sul letto di morte. Il 2 novembre fu stroncato da un infarto e l’Indipendente titolò in prima pagina «Balzamo, infarto da mazzetta». Quello stesso giorno altri giornali titolavano invece «Di Pietro in autostrada soccorre una ferita» e resta il fatto che tutte le accuse contro il segretario amministrativo del Psi, di lì poi, sarebbero state deviate su Craxi.

La verità è che il Pool di Milano era assortito fantasticamente e fu insuperabile nel fare ciò che volle fare. Di Pietro. Davigo. Colombo. Borrelli. Poi Ielo e Greco. Un po’ meno D’Ambrosio, che in realtà non faceva un tubo se non dichiarazioni disastrose. Resta che per abbattere una Repubblica – che non è, in genere, un compito del potere togato – il Pool e tutta la magistratura stravolsero o sovra-interpretarono il Codice di procedura penale varato nel 1989: lo neutralizzarono e poi ridestarono come un frankenstein inquisitorio/accusatorio. A un Di Pietro usato come ariete (le manette come regola) si affiancò infatti una contro-legislazione operata dall’alto: alcune sentenze della Corte costituzionale (su tutte la 255/92) e una legge suicida (il Decreto Scotti-Martelli) ristabilirono lo strapotere delle indagini preliminari; ai pm era sufficiente estrarre verbali d’interrogatorio e riversarli in processi che non contavano più nulla, ridotti a vidimazioni notarili delle carte in mano all’accusa. La loro totale discrezionalità dipendeva perlopiù dalla loro buona o cattiva disposizione, dalle trattative ossia che l’indagato fosse disposto ad accettare pur di uscire dal procedimento o dalla galera preventiva: colpevole o innocente che si ritenesse.

Le condanne di Mani pulite (si parla di Milano) nacquero in maggioranza da patteggiamenti e riti abbreviati: 847 su 1254, esiti che erano stati ottenuti quando il carcere preventivo era la regola e quando nelle indagini tutto si esauriva, complice la stampa e le sue storture. Tutti quei nuovi riti erano divenuti le scorciatoie pagate a caro prezzo da chi aveva voluto uscire dal tritacarne giudiziario, dal Rito ambrosiano: ma tutto erano fuorché normalità, soprattutto per chi non era disposto a starci. Forse non è un caso che tra i 1320 indagati che il Pool spedì ad altre procure competenti il numero dei proscioglimenti fu altissimo. Tutta gente non colpevole ma che non figura, però, nella casistica ufficiale di Mani Pulite, come se Milano avesse teso a sbarazzarsi delle posizioni scomode e indisponibili alla confessione liberatoria. Si dovrà aspettare anni perché una riforma elementare ristabilisca un principio chiave che Mani pulite aveva fatto a pezzi: l’articolo 513, quello in base al quale solo nel processo una testimonianza può diventare una prova, non nel parlatorio di un carcere o in una caserma di polizia. Esattamente come accade nei film americani, dove tutto ciò che non avviene durante il processo, semplicemente, non esiste.

In una sentenza bresciana che trattava delle omissioni di Mani pulite – sentenza favorevole a Di Pietro – il giudice fu costretta a scrivere che «le mancanze di approfondimenti rilevate appaiono del tutto in lines con i già evocati frenetici ritmi di lavoro che connotarono la prima fase di Mani Pulite». Chiamato a testimoniare, il pm Francesco Greco la mise così: «Difficilmente in Mani pulite i filoni investigativi venivano approfonditi oltre un certo livello, perché non c’era il tempo per farlo. Scoperto un episodio si andava a quello dopo». Il Pool era composto da gente cazzuta e competente, ma Mani pulite per certi aspetti fu un’indagine superficiale in cui la velocità primeggiò sulla qualità e sull’accuratezza. I magistrati sceglievano gli obiettivi a seconda delle possibilità del momento, e fu Francesco Saverio Borrelli a parlare di «Blitzkrieg»: «Era la guerra lampo tipica degli eserciti germanici, una penetrazione impetuosa su una fascia molto ristretta di territorio, lasciando ai margini le sacche laterali». Il Pool agiva allo stesso modo: «Tendeva ad arrivare rapidamente ad assicurarsi risultati certi, lasciando ai margini una quantità di vicende da esplorare in un secondo momento». Il punto è che i risultati giunsero perciò in un secondo momento (quando giunsero) oppure dal 1994 in poi, quando la stampa e il Paese già pensavano ad altro. Le carte che dimostrano come il Pds si finanziò in maniera illecita, per fare l’esempio più clamoroso, diventarono migliaia in tutto lo Stivale: ma non se ne accorse nessuno, perché nella fase più calda ed efficace – quando tutto era possibile, forzature comprese – il Pool si era concentrato sul Psi e sulla Dc. Il Pci-Pds si salvò anche per questo.

Il Pool di Milano fece delle scelte. Forse non poteva evitarle, ma le fece, e questo contribuì a scrivere una storia perlomeno parziale. Per descrivere i singoli casi (segretari di partito abbattuti o neppure sfiorati, imprenditori salvati e altri suicidati, Eni buono ed Eni cattivo eccetera) non basterebbe un libro, ma il vizio d’origine è riscontrabile sin dai primi mesi dell’inchiesta, quando si propinò la favoletta degli imprenditori concussi e dei cattivi concussori, cioè i politici. Il 28 novembre 1992, a botta calda, il famoso Mario Chiesa fu condannato a sei anni e sei mesi e sei miliardi da restituire: il 160 per cento dei soldi ricevuti; mentre Fabrizio Garampelli, il concusso, difeso da legali graditi all’accusa, dovette rimborsare solo il 15 per cento senza che frattanto avesse mai smesso di lavorare: la sua azienda vinceva gli appalti del Pio Albergo Trivulzio da vent’anni – con ogni presidente – e continuò a farlo. Altri imprenditori se la cavarono con meno di due anni e la condizionale. Dirà lo stesso Mario Chiesa: ««Tangentopoli non nasce solo per la prepotenza dei politici. Di imprenditori estorti non c’è nemmeno l’ombra… corruttori pronti a prendere calci nel culo, a subire ogni vessazione, sempre pronti a presentarti ventisette donne pur di non uscire dalla loro nicchia ed evitare di misurarsi col libero mercato… Una logica da gironi danteschi: nel primo c’erano le imprese garantite per i lavori a cavallo del miliardo, nel secondo quelle per opere sui tre miliardi… sino alla Cupola, sei o sette imprese che si riuniscono e pianificano investimenti e leggi ad hoc per dividersi gli appalti secondo una logica mafiosa».

Confermerà, molti anni dopo, Piercamillo Davigo: «Le imprese si sono sempre giustificate dicendo che erano state costrette a farlo, che erano concusse, ma quello che si è appurato nei processi o nei patteggiamenti, con le innumerevoli condanne, mi fa propendere per l’altra ipotesi, quella di una prevalente corruzione. Anche perché, molte volte, al versamento delle tangenti si accompagnavano sistematiche pratiche di alterazione delle gare attraverso gli accordi tra le imprese stesse. Insomma, molti imprenditori costituivano una categoria di soggetti abituati a vivere di ‘protezione’, al riparo della concorrenza, con un mercato privilegiato in cui gli appalti venivano suddivisi e spartiti al loro interno; in questa situazione il costo delle tangenti era rappresentato, a ben vedere, da cifre tutto sommato modiche rispetto ai benefici che se ne ottenevano».

Mani pulite è anche questo, anzi, fu soprattutto questo, un’inchiesta giudiziaria che ebbe conseguenze politiche alla cui ombra potè accadere ogni cosa. E per forza: il Paese, agli albori del 1993, era un groviglio di manette, di malcontento e di retorica. Retate ad Ancona, Vercelli, Bergamo, Monza, in tutte le città d’Italia. Una manifestazione contro la manovra economica degenerò in scontri con 60 feriti. Gli scioperi fiorirono dappertutto e vennero contestati i sindacati. La Lega invitò a non acquistare i Bot, fallì un attentato contro la sede della Confindustria, scesero in piazza i commercianti contro l’annunciata minimum tax. Al segretario della Cisl, Sergio D’Antoni, tirarono un bullone in testa. Arrestarono l’intera giunta regionale dell’Abruzzo e l’intera giunta comunale di Vercelli. Ma è impossibile, ora, spiegare lo scenario in cui scivolavano le inchieste di quel periodo, ed è ancor oggi impossibile trovare un filo comune tra accadimenti che mozzavano il respiro: la bomba che il 14 maggio 1993 scoppiò al quartiere Parioli di Roma, l’autobomba che il 27 luglio scoppiò a Milano in via Palestro, le altre due l’indomani scoppiarono a Roma in piazza San Giovanni in Laterano e a San Giorgio al Velabro. L’opinione pubblica e i mass media si ritrovarono in un conformismo che si pensava smarrito. Durante il funerale delle vittime di via Palestro si distinsero frasi come queste: «Metteteli tutti a pane e acqua: la forca, ci vuole la forca!»; «Giuràtelo che li metterete tutti alla forca!»; Di Pietro, fatti ridare i soldi che hanno rubato, devi sequestrare tutto, hai capito?».

Dopo quel paio di suicidi eccellenti che avevano calamitato l’attenzione sui metodi della magistratura (Gabriele Cagliari e Raul Gardini) si ripartì tranquillamente in quarta. Un sondaggio, elaborato dopo i suicidi, spiegava che il 60 per cento degli italiani riteneva che la carcerazione andasse bene così. Ormai la magistratura prendeva i contorni di un grande gendarme con potere d’interdizione permanente su uomini e cose. Un faro accecante sul vuoto della politica. Il mondo giornalistico intanto esplodeva in entusiasmi conformisti di cui solo noi siamo capaci, come l’era Monti in parte dimostra. Il settimanale «L’Europeo» regalava gli adesivi circolari «Forza Di Pietro», «Panorama» esaltava l’Italia «dei tanti Di Pietro che sono fedeli alle mogli, una nuova specie di uomo». Chiara Beria di Argentine scriveva sull’Espresso sempre su Di Pietro: «Un implacabile nemico delle mazzette, un giudice mastino che interrompe i lunghi, estenuanti interrogatori offrendo Ferrero Rocher». Maria Laura Rodotà scriveva su Panorama: «Il nuovo eroe italiano, il nuovo modello, a grande richiesta… Di Pietro, eroe tranquillo, un role model, un modello di comportamento italiano». Laura Maragnani scriveva su Donna: «Di Pietro fa sognare anche le donne. Piace. Strapiace. C’è chi lo definisce un sex symbol, un eroe per gli anni Novanta… Dicono di lui che sia duro, testardo, di metodi spicci. E che sia onesto, onestissimo. Basta questo a farlo adorare alle donne? O è merito anche del suo anti-look, del calzino corto che si ribella alla tirannia dell’apparire?». Ah, saperlo.

Nel suo consueto editoriale sul Fatto quotidiano dal titolo “Vent’anni e non sentirli”, Marco Travaglio traccia un parallelo. Il 13 luglio del 1994 e oggi, cosa hanno in comune queste date?

Vent’anni e non sentirli (Marco Travaglio). Da Il Fatto Quotidiano del 13/07/2014. Il Consiglio dei ministri del 13 luglio è più breve del solito. Il premier e i ministri han fretta di correre a vedersi la semifinale dei Mondiali di calcio. Ma, profittando della distrazione generale, cacciano anzitempo il Cda Rai per sostituirlo con un vertice di stretta osservanza governativa, e varano in quattro e quattr’otto due leggi vergogna da urlo: un condono fiscale per gli evasori, pudicamente ribattezzato “concordato”; e un decreto che salva dalla galera i colletti bianchi (niente più custodia cautelare in carcere, al massimo domiciliari, per concussione, corruzione, peculato, abuso d’ufficio, finanziamento illecito ai partiti, bancarotta fraudolenta, falso in bilancio, frode fiscale, associazione per delinquere, truffa allo Stato). Intanto le tv pubbliche e private bombardano gli italiani con spot che annunciano i mirabolanti (e inesistenti) risultati già ottenuti in pochissimo tempo dal nuovo governo, con slide dominate dalla scritta “Fatto!”, e con sondaggi che annunciano l’irresistibile ascesa del premier e del suo partito, ben oltre il recente successo elettorale. A questo punto è bene precisare l’anno in cui avveniva tutto ciò: il 1994. E anche il nome del presidente del Consiglio: Silvio Berlusconi. Oggi la storia si ripete, ma con qualche piccola variante. Ci sono sempre i Mondiali, anche se vent’anni fa l’Italia di Sacchi andò in finale e la perse malamente ai rigori contro il Brasile, mentre quest’anno è subito rincasata. C’è sempre un premier “nuovo”, mediatico, chiacchierone, molto populista e popolare, anche se non guida la destra ma il centrosinistra. Al posto degli spot “Fatto!”, ci sono le slide di Renzi e le sue conferenze stampa con effetti speciali, ma la sostanza non cambia: si danno per fatte leggi mai viste, o solo annunciate, o ancora da approvare, o già approvate ma prive delle norme attuative. E soprattutto si annuncia la “grande riforma” della Costituzione che rafforza a dismisura il premier a scapito dei poteri di controllo, Parlamento in primis: se però B. – piduista doc – si vantava del proprio autoritarismo, Renzi – piduista a sua insaputa – lo nega a dispetto dell’evidenza. E il condono agli evasori? Tranquilli, sta arrivando: solo che oggi, anziché camuffarlo da “concordato”, lo chiamano “voluntary disclosure”, in inglese, così pochi capiscono che ripulisce i fondi neri dei grandi frodatori depenalizzando i reati commessi per arraffarli. E il decreto Biondi? Abbiamo anche quello. Si chiama decreto Orlando del 26 giugno: “Non può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva da eseguire non sarà superiore a 3 anni”. Il che equivale a immunizzare dalla galera tutti i galantuomini sorpresi a tentare stupri, rapinare, rubare, borseggiare, spacciare, molestare o stalkerare ragazze, pestare moglie e figli. Ma anche corrotti, corruttori, politici finanziati illegalmente, frodatori fiscali eccetera, che con comodi patteggiamenti o riti abbreviati superano raramente i 3 anni di condanna. Non tutto però è uguale al ’94. Da allora, se Dio vuole, molte cose sono cambiate e tanto tempo non è trascorso invano. Vent’anni fa, a bloccare il decreto Biondi, provvidero i pm di Mani Pulite, abbandonando polemicamente le inchieste su Tangentopoli; e i giornali, da La Voce di Montanelli a Repubblica di Scalfari al Corriere di Mieli a La Stampa di Mauro, che informarono i cittadini sugli effetti del “Salvaladri” innescando un meccanismo virtuoso a catena. Migliaia di persone scrissero e telefonarono ai giornali e ai partiti, Montanelli lanciò la raccolta di firme del “popolo dei fax”, movimenti e partiti di opposizione chiamarono la gente nelle piazze, Lega e An si spaventarono e costrinsero B. a ritirare il decreto (“io non lo volevo, è stato Biondi…”). Ecco, oggi le porcate sono identiche. Mancano solo un’informazione che le chiami col loro nome, un’opposizione che le contrasti (a parte i 5Stelle e i resti di Sel) e un’opinione pubblica che protesti. Per il resto tutto bene.

LA CASTA. CON L'IMMUNITA' PARLAMENTARE SI DIFENDE.

Casta, così l'immunità parlamentare è diventata lo scudo contro arresti e processi. Dal 1994 Montecitorio e Palazzo Madama hanno respinto il 90 per cento delle richieste di carcerazione o di domiciliari avanzate dai giudici. E negato spesso l’uso di intercettazioni e tabulati, sempre per un presunto fumus persecutionis nelle indagini. Una “protezione” che con il nuovo Senato sarà estesa a sindaci e consiglieri regionali, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso”. Immunità anche per i “nuovi” senatori. Dopo critiche, proteste, smentite e pressioni varie, alla fine lo scudo giudiziario sarà esteso anche ai sindaci e ai consiglieri regionali che approderanno a Palazzo Madama. E come avviene per i deputati, servirà un’autorizzazione per arrestarli, intercettarli ed effettuare perquisizioni nei loro riguardi. Eppure, se vorrà evitare che finisca col lancio di monetine come durante Tangentopoli, il governo farebbe bene ad approfittare della riforma costituzionale per congegnare un sistema che eviti gli abusi degli ultimi due decenni. Senza contare il caso Galan , in merito al quale Montecitorio non si è ancora espresso, su 31 richieste di arresto avanzate dai giudici nell’arco di questo ventennio - ha ricostruito l’Espresso - 28 sono state respinte. Nove volte su dieci, in pratica, Camera e Senato hanno ritenuto viziate da fumus persecutionis le istanze della magistratura di mandare in carcere o ai domiciliari un parlamentare. Un dato che mostra come la riforma dell’articolo 68 della Costituzione varata nel 1993 sull’onda di Mani pulite non sia servita a granché. Così se nella Prima Repubblica, senza il via libera della Camera di appartenenza, un onorevole non poteva essere inquisito e nemmeno arrestato dopo una condanna definitiva, dal ’94 in poi l’immunità ha continuato a rappresentare un formidabile scudo dalle vicende giudiziarie. Peraltro con una significativa recrudescenza negli ultimi anni, visto che oltre un terzo delle richieste di arresto sono state inoltrate nella scorsa legislatura (2008-2013).

Dati riferiti agli anni 1994-2014.

Il berlusconiano Alfonso Papa e i democratici Luigi Lusi e Francantonio Genovese , arrestati negli ultimi tre anni, sono gli unici a essere finiti dietro le sbarre. Ma fino al 2011 ogni richiesta è stata puntualmente respinta. Spesso grazie anche al voto segreto. Come nel caso del deputato Pdl Nicola Cosentino, accusato di concorso esterno in associazione camorristica: secondo l’istruttoria svolta dai deputati della Giunta delle autorizzazioni di Montecitorio, l’onorevole andava spedito in carcere come chiedeva il gip di Napoli. Ma nel segreto dell’urna, nel 2009 l’Aula lo ha graziato , impedendo anche l’utilizzo di alcune sue intercettazioni telefoniche. Idem nel 2011 per Alberto Tedesco (Pd) e nel 2012 per il senatore Sergio De Gregorio (Pdl), accusato di truffa e false fatturazioni nell’inchiesta sui fondi pubblici all’editoria e per il quale erano stati chiesti i domiciliari. In altri casi, invece, il Parlamento si è trasformato in una sorta di Corte di Cassazione. E anziché limitarsi ad appurare un eventuale intento persecutorio dei pm (come previsto dalla legge), si è spinto a dare giudizi di merito sulle inchieste. Nel 1997, ad esempio, il deputato Carmelo Carrara (Ccd-Cdu), relatore della richiesta d’arresto di Cesare Previti - salvato dal carcere nell’inchiesta Imi-Sir, in cui l’avvocato fu poi condannato per corruzione in atti giudiziari - ravvisava «un’esasperazione accusatoria del gip di Milano». Due anni dopo anche il relatore Filippo Berselli (An) motivò il suo “no” alla richiesta di carcerazione nei confronti di Marcello Dell’Utri per la «evidente sproporzione tra la misura cautelare adottata e i reati contestati», ovvero tentata estorsione e calunnia. Quando il gip di Bari nel 2006 chiese i domiciliari per Raffaele Fitto nell’ambito di un’inchiesta sulla sanità, la Giunta della Camera stabilì all’unanimità che il pericolo di reiterazione del reato “non appare motivato”. E quindi l’ex governatore pugliese - poi condannato a 4 anni in primo grado -  doveva restare libero. La richiesta di carcerazione nei confronti del deputato Udc Remo Di Giandomenico, anche lui accusato di corruzione nel 2006, era invece “connotata da fumus persecutionis, specie in rapporto all’attualità delle esigenze cautelari”. E siccome l’onorevole in una sua memoria difensiva alla Giunta aveva “offerto concreti elementi di contestazione nei confronti delle accuse”, “si affievolisce la esigenza custodiale”. Tradotto: niente arresto. Il fumo della persecuzione Montecitorio l’aveva ravvisato anche nel 1998, nelle due diverse richieste di carcerazione dell’ex sindaco di Taranto Giancarlo Cito (poi condannato sia per l’una che l’altra vicenda): entrambe furono infatti respinte. Si dirà: se l’inchiesta è debole, è comprensibile una levata di scudi. Eppure nemmeno un’indagine riconosciuta come fondata dagli stessi onorevoli ha portato a un esito diverso. Quando nel 2006 il gip di Roma chiese il carcere per il deputato Giorgio Simeoni (Forza Italia) per il pericolo d'inquinamento delle prove in un’inchiesta sulla sanità, la maggioranza dei suoi colleghi in Giunta osservarono che “il pericolo mancherebbe perché il quadro indiziario è tutto sommato abbastanza solido”. Risultato: l’autorizzazione a procedere non fu concessa nemmeno in questo caso. Il diniego agli arresti non è l’unico aspetto significativo. Grosso modo una volta su due (in totale 26 su 58), il Parlamento ha negato anche l’uso di uno strumento fondamentale d’indagine come le intercettazioni. Ma le Camere non hanno solo impedito l’utilizzo delle conversazioni captate indirettamente. In qualche caso hanno negato perfino la semplice acquisizione dei tabulati, che consentono di ricostruire le chiamate ricevute ed effettuate, per “tutelare la sfera di riservatezza del parlamentare”. Pure l’insindacabilità, vero cuore dell’immunità, si è prestata a qualche interpretazione di manica assai larga. Si tratta dello “scudo” nei confronti delle opinioni espresse dagli eletti, una prerogativa fondamentale per assicurare la loro indipendenza e autonomia senza il timore di essere trascinati in tribunale. Su oltre 700 casi, il 92 per cento delle volte Montecitorio e Palazzo Madama hanno ritenuto che i giudizi di deputati e senatori sfociati in una causa per diffamazione erano stati espressi nell’esercizio delle funzioni parlamentari, come prevede la legge. Pertanto gli onorevoli non erano processabili. Un “ombrello” sotto il quale - solo per citare alcuni degli episodi più celebri - sono finite le critiche di Francesco Storace a Giorgio Napolitano (dalla «disdicevole storia personale», la «evidente faziosità istituzionale» e «indegno di una carica usurpata a maggioranza»), le accuse di Maurizio Gasparri a John Woodcock («un bizzarro pm, che spara a vanvera accuse ridicole») oppure le intemerate di Vittorio Sgarbi contro i pm del pool di Milano («vanno processati ed arrestati: sono un’associazione a delinquere con libertà di uccidere che mira al sovvertimento dell'ordine democratico»). Proprio Sgarbi, peraltro, in questi anni si è dimostrato una sorta di record-man: oltre 150 delibere di insindacabilità (un quinto del totale) hanno riguardato proprio lui. Un dilagare generalizzato contestato dalla Corte costituzionale, che in questi 20 anni - a seguito di conflitti di attribuzione sollevati dai giudici - ha annullato 84 concessioni di immunità: per la Consulta si trattava di affermazioni che nulla avevano a vedere con l’attività parlamentare. E quindi deputati e senatori andavano processati come normali cittadini.

Onorevole inquisito? Non c'è fretta. La melina delle Camere che rallenta i giudici. Due anni di attesa per le intercettazioni di Verdini. Quasi uno per quelle dell'Ncd Azzollini. Sei mesi (finora) per l'autorizzazione nei confronti dell'ex ministro Matteoli e tempi ancora vaghi per le offese di Calderoli alla Kyenge. Quando è indagato un suo componente, il Parlamento se la prende comoda, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso”. Paragonare un ministro di origini congolesi a un orango è un'opinione insindacabile espressa nell'esercizio delle funzioni parlamentari? Comunque la pensiate, sappiate ci vuole molto tempo prima di stabilirlo. Pure se, dopo un'istruttoria durata settimane e settimane, per decidere ci vorrebbe assai poco. E per autorizzare la magistratura a procedere nei confronti di un ex ministro accusato di aver intascato mezzo milione di euro? Possono volerci anche sei mesi. Troppo? Sciocchezze, perché come niente si può arrivare anche a un anno o due di attesa. Parafrasando Bogart, sono i tempi dell'immunità parlamentare, bellezza. Un istituto pensato per proteggere deputati e senatori dal rischio di intenti persecutori della magistratura, trasformatosi col tempo in un tribunale preventivo preoccupato più che altro di salvarli dai processi. Ma a regalare anzitempo generose assoluzioni non c'è solo questo scudo giudiziario, che ha trasformato l'immunità in impunità e portato a respingere nella Seconda repubblica il 90 per cento delle richieste di arresto avanzate dai giudici . Prima ancora di arrivare a un verdetto, qualunque sia, si assiste infatti puntualmente a una sorta di "melina" calcistica che dilata a dismisura i tempi. Il caso di Denis Verdini è emblematico: il Parlamento ci ha messo due anni prima di concedere l'uso delle sue intercettazioni nell'inchiesta sulla P4, in cui è accusato di corruzione. Era maggio 2012 quando il gup Cinzia Parasporo ha trasmesso alla Camera la richiesta di usare una trentina di telefonate captate indirettamente tra l'allora deputato, che in quanto tale non poteva essere intercettato, e la "cricca" delle Grandi opere (Angelo Balducci, Fabio De Santis e Riccardo Fusi). La Giunta delle autorizzazioni di Montecitorio aveva anche espresso parere positivo e nel giro di un mese era tutto pronto. Bastava solo trovare uno spazio nel calendario dei lavori d'Aula. Invece, nonostante ci fossero mesi e mesi a disposizione, niente da fare. Risultato: la legislatura è finita, Verdini è stato eletto senatore e ad aprile 2013 il gup ha dovuto di nuovo trasmettere gli atti, stavolta a Palazzo Madama. Dove, come al gioco dell'oca, si è ripartiti da zero. E prima del via libera è trascorso un altro anno. Grosso modo lo stesso lasso di tempo necessario a rispondere "no" al gip di Trani che chiedeva di usare una decina di intercettazioni indirette del senatore Ncd Antonio Azzollini, inquisito per la presunta truffa dell'ampliamento del porto di Molfetta . Una vicenda che mostra la mera ragion politica che si cela a volte dietro alcune scelte: per salvare il potente parlamentare alfaniano e in questo modo la stabilità del governo, con una decisione senza precedenti il Pd - come ha rivelato l'Espresso - ha addirittura convocato una riunione d'emergenza. E dire che in Giunta si era già visto di tutto: 11 sedute in 7 mesi, due richieste di integrazioni istruttorie chieste al giudice e altrettante audizioni del senatore, perfino una disputa sulle date in cui erano iniziati gli ascolti. Alla fine, dopo dieci mesi di passione, il Senato ha negato l’autorizzazione: era chiaro che mettendo sotto controllo i telefoni degli altri indagati i pm avrebbero intercettato anche il parlamentare, ha motivato nella sua relazione il senatore Pd Claudio Moscardelli. Ma se quelli di Verdini e Azzollini sono i più eclatanti, i casi sono numerosissimi. Sono passati sei mesi, ad esempio, da quando è arrivata in Senato la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dell'ex ministro dell'Ambiente Altero Matteoli, che secondo i pm dell’inchiesta sul Mose avrebbe ricevuto tangenti per 550 mila euro fra il 2001 e il 2012. Sarebbe bastata qualche ora per votare, visto che la relazione istruttoria sulla vicenda è pronta dal 10 febbraio. Solo che per settimane nessuno si è preoccupato di farla mettere all'ordine del giorno dell’Aula. Che si è occupata di tutt’altro, fra decreti in scadenza da convertire, emergenze, mozioni varie e perfino la richiesta di dimissioni di fuoriusciti del Movimento cinque stelle. Adesso, dopo qualche pressing informale, il presidente Piero Grasso ha finalmente fissato la data: il 2 aprile. Intanto, nel corso di un'audizione sugli appalti, si è assistito al paradosso di un presidente di commissione accusato di corruzione (Matteoli) seduto accanto al presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone. Ancora tempi lunghi si prevedono invece per gli epiteti di Roberto Calderoli rivolti nel luglio 2013 all’allora ministro dell’Integrazione: «Ogni tanto, smanettando con internet, apro il sito del governo e quando vedo venire fuori la Kyenge io resto secco. Io sono anche un amante degli animali per l’amore del cielo. Ho avuto le tigri, gli orsi, le scimmie e tutto il resto. Però quando vedo uscire delle sembianze di un orango, io resto ancora sconvolto». Diffamazione aggravata da finalità di discriminazione razziale, secondo i pm bergamaschi Maria Cristina Rota e Gianluigi Dettori. Ma non per la Giunta di Palazzo Madama, che col voto determinante di alcuni senatori Pd si è espressa per lo stop al processo. Adesso resta da vedere se, dopo le polemiche, l'Aula ( e soprattutto il Pd ) confermerà o ribalterà il parere espresso. Intanto le cose vanno per le lunghe: la relazione, affidata al forzista Lucio Malan, è pronta dal 25 febbraio ma la questione non ha ancora trovato posto nel calendario dei lavori.. «Calderoli - vi si legge - ha utilizzato, all'interno di un articolato intervento sull'immigrazione fortemente critico, un'espressione forte, ma fatta esclusivamente come battuta ad effetto, visto che il contesto, oltre che politico, era anche ludico e cioè quello di una festa estiva organizzata». Insomma, uno scherzo. Quindi niente processo. Non sono state poste all'ordine del giorno nemmeno le 13 telefonate e 68 sms dell’ex senatore Pd Antonio Papania che secondo la Procura di Trapani proverebbero la corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio: tra il 2010 e il 2012 l’allora parlamentare avrebbe ricevuto “in più occasioni utilità consistite nell’assunzione di numerose persone a lui gradite e da lui segnalate”. Ma la vicenda è oggetto di un ping pong che si trascina da mesi. Le carte sono arrivate a Palazzo Madama a giugno ma se ne è iniziato a discutere solo a ottobre. A dicembre il caso è approdato in Aula ma per una questione formale il fascicolo è stato rimandato in Giunta. Sono trascorsi altri tre mesi e da qualche settimana è tutto pronto per il voto dell’Assemblea. Ma tutto è ancora fermo. Va riconosciuto che quando si tratta di arrestare un parlamentare le Camere riescono a essere più celeri: per acconsentire a mandare dietro le sbarre i deputati Giancarlo Galan (Forza Italia) e Francantonio Genovese (Pd), come chiesto dai giudici, ci sono voluti “solo” due mesi. In ogni caso moltissimo se si considerano le motivazioni che richiedono la carcerazione: pericolo di fuga, inquinamento delle prove e reiterazione del reato. Insomma, se i rischi sono tali, a ben vedere neppure otto settimane sono così poche. Tanto più che, a giudicare dalle date, nemmeno in queste circostanza di estrema urgenza il Parlamento pare essere stato particolarmente solerte nella rispondere alla magistratura. La relazione che concedeva l'arresto di Galan per corruzione, ad esempio, è rimasta ferma una dozzina di giorni prima di arrivare in Aula: dal 10 al 22 luglio 2014. Nel caso di Genovese - accusato di peculato, truffa aggravata, riciclaggio, emissione di fatture false e associazione a delinquere - le carte sono arrivate da Messina il 18 marzo 2014 ma la Giunta delle autorizzazioni di Montecitorio ha iniziato l’esame solo il 26 e la seconda seduta si è tenuta il 10 aprile, dopo altre due settimane. Poi, siccome c'è stata Pasqua di mezzo, altre due settimane di stop. Casi eccezionali? Non proprio. Nella scorsa legislatura, quando fu raggiunto il record di 11 richieste di arresto nei confronti di parlamentari, i tempi sono stati grosso modo gli stessi. Nel 2008 ci vollero tre mesi e mezzo prima di votare (contro) la richiesta di domiciliari per il pidiellino Nicola Di Girolamo. E oltre due mesi prima di respingere l'arresto dell'imprenditore Antonio Angelucci, di Vincenzo Nespoli, del consigliere del ministro Tremonti, Marco Milanese, e consentire quello di Alfonso Papa (tutti del Pdl). Due mesi per arrestare Alberto Tedesco (Pd) e un mese e mezzo per mandare ai domiciliari Sergio De Gregorio (Pdl) e in carcere Luigi Lusi (Pd). Unica eccezione, quella del deputato Pd Salvatore Margiotta: nel 2008 la Camera impiegò appena due giorni per respingere la richiesta di arresti domiciliari, avanzata dal pm Henry John Woodcock nell'ambito dell'inchiesta per la realizzazione del Centro oli della Total in Basilicata. Per quelle accuse (turbativa d’asta e corruzione) lo scorso dicembre il parlamentare dem, adesso senatore, è stato condannato in Appello a un anno e sei mesi.

Finanziamenti ai partiti, nessuno controlla. Entro il 15 febbraio 2015 dovrebbe essere ultimata la verifica sulle fonti di finanziamento pubbliche e private. Ma i magistrati designati per occuparsi della commissione trasparenza si sono dimessi. E non è facile trovare chi voglia sostituirli, scrive Mariagrazia Gerina il 19 dicembre 2014 su “L’Espresso”. C’è una montagna di carte ancora da controllare per verificare dove sono andati a finire i finanziamenti pubblici ai partiti e anche da dove vengono quelli privati: ricevute, fatture, elenchi dei donatori, con nomi e cognomi di tutti quelli che hanno dato più di 5mila euro. La legge prevede che entrate e uscite di ciascun partito siano passate al setaccio entro il prossimo 15 febbraio da cinque alti magistrati nominati dai presidenti di Camera e Senato. Ma nelle stanze di via del Seminario assegnate alla Commissione per la trasparenza dei rendiconti dei partiti da quasi due mesi non c’è nessuno. Sul sito del parlamento campeggiano ancora i nomi dei cinque commissari che il 28 ottobre si sono dimessi. «Prima o poi se ne accorgeranno che ce ne siamo andati», bisbiglia sarcastico uno di loro. Trovare chi voglia sostituirli non è facile. Finora, solo il presidente della Corte dei Conti ha indicato i tre nomi che spetta a lui designare, quelli di Consiglio di Stato e Cassazione mancano ancora all’appello. Tanto che i presidenti di Camera e Senato stanno pensando di accontentarsi di tre soli commissari pur di far ripartire i controlli. Compito ingrato lavorare per una Commissione che deve funzionare “a costo zero”. «È nata con il piombo ai piedi», sentenzia Bruno Bove, che l’ha presieduta dal 2012, quando è stata istituita, fino a due mesi fa: «Abbiamo fatto il nostro lavoro finché è stato possibile». Si sono arresi davanti alla montagna di rendiconti relativi al 2013. A partire da quest’anno, la legge prevede che la Commissione verifichi non solo la correttezza ma anche la «conformità delle spese effettivamente sostenute e delle entrate percepite alla documentazione prodotta». Sono migliaia di pagine da spulciare. E, a seguire, ci sono le sanzioni da applicare agli inadempienti. I commissari lo avevano scritto nella lettera riservata, consegnata a Pietro Grasso e a Laura Boldrini, prima dell’estate: è impossibile procedere con appena due segretarie a disposizione e senza essere dispensati dagli incarichi ordinari presso le rispettive magistrature. La risposta sperata non è arrivata. E sono seguite le dimissioni. «L’auspicio è che siano servite a dare una scossa», osserva Bove. Chissà. Il parlamento per correre ai ripari sta preparando una “leggina” che consenta ai prossimi commissari di essere almeno collocati “fuori ruolo” per la durata del mandato. Nel frattempo, però, con il nuovo sistema di finanziamento dei partiti voluto da Matteo Renzi, il lavoro è raddoppiato. Oltre alla ripartizione dei fondi pubblici, che saranno ridotti ma non aboliti prima del 2017, la Commissione dovrà verificare le nuove entrate previste: il 2 per mille, i contributi diretti dei privati e gli sgravi fiscali a cui la legge del febbraio scorso dà accesso. Una forma di finanziamento pubblico indiretto. Forse ancora meno trasparente. Un consiglio più che ai successori, ancora non nominati, il presidente uscente lo dà al legislatore: «C’è da mettere ordine nel groviglio delle norme». Fin qui il parlamento, a quanto pare, non ci è riuscito.

"1992": LA STORIA SCRITTA DAI VINCITORI.

Ai funerali di Pietrino Vanacore, intorno alla sua bara, assorta nel silenzio con la rabbia ed il dolore, c’era la gente che gli voleva bene. Una donna ha avuto il coraggio di dare voce alla sua comunità: «applaudite, hanno ottenuto quello che volevano!!!» La frase era rivolta a coloro, che, per deformazione professionale e culturale, non hanno una coscienza. Intanto, intorno alle sue spoglie gli sciacalli hanno continuato ad alimentare sospetti. La sua morte non è bastata a zittire una malagiustizia che non è riuscita a trovare un colpevole, ma lo ha scelto come vittima sacrificale. A zittire una informazione corrotta che lo indicava come l’orco, pur senza condanna. Non poteva dirsi vittima di un errore giudiziario, come altri 5 milioni di italiani in 50 anni. Per venti anni è stato perseguitato da innocente acclamato. Voleva l’ultima parola per dire basta. Non l’hanno nemmeno lasciata. Pure da morto hanno continuano ad infangare il suo onore. Accuse che nessuna norma giuridica e morale può sostenere. Accanimento che nessuna società civile può accettare. La sua morte è un omicidio di Stato e di Stampa. Non si può, per venti anni, non essere capaci di trovare un colpevole e continuare a perseguitare un innocente acclamato. Non si può, per venti anni, continuare ad alimentare sospetti, giusto per sbattere un mostro in prima pagina. Ferdinando Imposimato, il “giudice coraggio” delle grandi inchieste contro il terrorismo e la delinquenza organizzata, ha provato sulla propria pelle l’amarissima esperienza di star sul banco degli imputati. Egli conclude, come un ritornello inquietante: “E’ più difficile talvolta difendersi da innocenti che da colpevoli”. Parola di magistrato.

Manette facili e ideologia. Che processi tragicomici.

Oltre quarant'anni fa, le commedie all'italiana avevano colto le degenerazioni del sistema giudiziario. Quasi nulla è cambiato, scrive Claudio Siniscalchi su “Il Giornale”. L'editoria cinematografica italiana è stata dissanguata prima dagli ideologi di sinistra, poi dal dominio della scrittura oscura di semiologi e psicoanalisti, o presunti tali. Ormai trattasi di un corpo tenuto in vita da una macchina artificiale. Ci vorrebbe, per rianimarlo, un miracolo. O, almeno, un po' di sangue fresco. Buona linfa scorre all'interno di una linea di ricerca sul cinema italiano avviata dall'editore calabrese Rubbettino, guidata dal giovane universitario Christian Uva, all'insegna di una complementarità: cinema e storia. L'ultimo tassello è In nome della legge. La giustizia nel cinema italiano, a cura di Guido Vitiello. Il volume, raccolta di molti saggi, suscita alcune considerazioni. Dagli anni Trenta del secolo passato ad oggi, cioè dal fascismo alla democrazia, la commedia è stata il genere principe del cinema italiano. Nel Ventennio la macchina da presa s'è tenuta alla larga dai tribunali. Nel dopoguerra invece ci si è buttata per cogliere il tratto comico della giustizia. L'immenso Vittorio De Sica con la toga da avvocato (versione aggiornata dell'azzeccagarbugli manzoniano), folti capelli candidi, gesti da mattatore, eloquio da senatore (del Regno non della Repubblica), ridicolizzato dalla perdita della memoria. Totò e Peppino, grandissimi falsi testimoni. L'Albertone nazionale alla sbarra imputato di essersi bagnato nella marana senza vestiti. Il giudice Adolfo Celi che non ammette repliche alla sua autorità e competenza equestre. Insomma, in aula si ride. Pensate ora all'americano Codice d'onore (1992) di Rob Reiner. Il giovane Tom Cruise in doppiopetto blu con bottoni d'oro, avvocato della marina, assistito da Demi Moore, impegnato ad incastrare davanti alla corte marziale un mastino gallonato del corpo dei marine, Jack Nicholson. Non è uno scontro generazionale, di temperamenti, ma di visioni del mondo. Persino di attori. Il processo qui è anche spettacolo. Un grandioso spettacolo. Serissimo. Certo l'impianto giuridico americano rispetto a quello italiano agevola la drammatizzazione cinematografica. Per questo il cinema hollywoodiano ha un genere specifico dedicato ai tribunali, il courtroom drama o legal film. La commedia all'italiana, però, non è stata soltanto un contenitore di risate. Ha saputo anche cogliere e indicare questioni cruciali. Ad esempio la denuncia dell'arbitrarietà della carcerazione preventiva. L'odissea giudiziaria (e carceraria) che tocca ad Alberto Sordi in Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy è un capolavoro dal sorriso amaro. Lo stritolamento dello sfortunato e innocente geometra mette a nudo l'arretratezza del sistema giudiziario e carcerario italiano. Siamo all'inizio degli anni Settanta, e sembra la storia di oggi. E come dimenticare l'istantanea sull'ideologizzazione progressista della magistratura scattata da Dino Risi nel suo In nome del popolo italiano (1971)? Il giudice Ugo Tognazzi non riesce a contenere l'odio di classe nei confronti dell'imprenditore di successo Vittorio Gassman. Quest'ultimo incarna il male del capitalismo italiano del boom economico: corrotto e corruttore. Quindi va eliminato, anche bruciando le prove della sua innocenza. La condanna non deve essere giudiziaria ma ideologica e morale. Infatti il procuratore, che mostra con disinvoltura una copia dell'Unità, non ce l'ha solo con i ricchi. Vorrebbe chiudere in cella anche capelloni, maoisti, anarchici, obiettori di coscienza, giovani scansafatiche. Da un figlio dei fiori redarguito si becca un insulto e l'accusa di essere fascista. Del resto nello stesso periodo la magistratura viene raffigurata come il braccio armato del potere (spesso occulto, antidemocratico, fascistoide), sia nel genere popolare «poliziottesco», sia nel filone di «ricerca impegnata», da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e Todo Modo (1976) di Elio Petri a Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi. Il cinema italiano si suicida tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Nelle macerie dell'ultimo trentennio si salva poco o niente. L'inchiesta Mani pulite poteva diventare un serbatoio infinito di sceneggiature ma la poltrona della sala cinematografica è stata sostituita dal divano di casa. La magistratura saliva al cielo grazie al piccolo schermo. La grande popolarità di Antonio Di Pietro, il più teatrale dei magistrati, comincia con la televisione. E con la televisione si chiude. Non regge all'urto della cannonata sparatagli da Milena Gabanelli. Col tubo catodico era schizzato tra le stelle. Col plasma è tornato sulla terra.

Napolitano: 1992-2011 Re Giorgio tra due guerre. C'è il Napolitano che ai tempi di Mani Pulite criticava il protagonismo della magistratura milanese e il Napolitano di oggi, preoccupato per  i frequenti attacchi al potere giudiziario. Che cosa è cambiato? Si chiede  Giovanni Fasanella su “Panorama”. Chissà se è proprio come raccontano le cronache. Se è vero che Silvio Berlusconi, venerdì 11 febbraio alle 17, è salito al Quirinale per chiedere il conforto di Giorgio Napolitano contro la procura milanese. E che il presidente della Repubblica glielo ha negato, invitandolo invece a presentarsi davanti ai giudici, l’unica sede in cui difendersi dalle accuse. Chissà. Prima di varcare la soglia di quel palazzo, accompagnato dal suo sottosegretario Gianni Letta, forse il premier ricordava il Napolitano presidente della Camera, l’uomo che nel 1992-93, nel pieno della rivoluzione giudiziaria passata alla storia col nome di «mani pulite», mentre gli avvisi di garanzia fioccavano a centinaia, aveva sfidato il pool milanese, costringendolo almeno in un’occasione addirittura a scusarsi con il Parlamento. Se erano davvero questi i fotogrammi che passavano velocemente nella sua memoria e il gelo che un’ora dopo ha suggellato la fine dell’incontro, come raccontano le cronache, il Cavaliere deve avere lasciato il Quirinale con immagini molto diverse. A lui il Napolitano di oggi dev’essere sembrato solo uno sbiadito ricordo di quello di ieri. «Egregio Signor presidente, ho deciso di indirizzare a Lei alcune brevi considerazioni prima di lasciare il mio seggio in Parlamento compiendo l’atto conclusivo di porre fine alla mia vita…»: era il 3 settembre 1992 e mai Napolitano era apparso in pubblico emozionato fin quasi alle lacrime, come in quel giorno. L’aula di Montecitorio lo ascoltava nel più assoluto silenzio mentre leggeva la lettera che gli aveva scritto il deputato socialista Sergio Moroni. «Vengo coinvolto nel cosiddetto scandalo “tangenti”, accomunato nella definizione di “ladro” oggi così diffusa. Non lo accetto, nella serena coscienza di non avere mai personalmente approfittato di una lira. Ma quando la parola è flebile non resta che il gesto». Quelle furono le ultime parole scritte da Moroni prima di uccidersi sparandosi in bocca con un fucile, nella cantina della sua abitazione. E il destinatario, il presidente della Camera, non ebbe neppure la forza di commentarle come avrebbe voluto. Lo ammise lui stesso nel libro che pubblicò dalla Rizzoli due anni dopo, Dove va la Repubblica. 1992-94, una transizione incompiuta. «Avrei forse dovuto, quel giorno, dire di più. Ho poi sentito il rammarico di non essere stato più esplicito: di non avere espresso più apertamente la mia inquietudine per una situazione che tendeva a bloccarsi nella contrapposizione tra la tendenza a rimettere solo all’azione della magistratura, acriticamente e anche strumentalmente acclamata da una parte delle forze politiche, l’imperiosa necessità di una bonifica politica e morale, e il tentativo di opporvi resistenza, in vario modo, in seno al Parlamento». Il presidente della Camera nell’era di «mani pulite» era convinto che fosse stato oltrepassato un limite. Che l’azione della magistratura tendesse a volte a colpire nel mucchio, alterando in modo pericoloso l’equilibrio fra i poteri. All’inizio del 1993, era ormai sotto inchiesta gran parte del Parlamento, le richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di deputati e senatori avrebbero ben presto raggiunto la cifra impressionante di 619. Il governo presieduto dal socialista Giuliano Amato, entrato in carica appena sei mesi prima, nel giugno del 1992, stava per crollare. I suoi ministri, raggiunti da avvisi di garanzia, cadevano uno dopo l’altro, come birilli su un tavolo da biliardo. E proprio mentre nell’aula di Montecitorio si discuteva una mozione di sfiducia presentata dal segretario del Pds Achille Occhetto, il 2 febbraio 1993 accadde un episodio che scatenò l’ira di Napolitano. Inviato da Gherardo Colombo, uno dei pubblici ministeri del pool milanese, un ufficiale della Guardia di finanza si era presentato alla Camera pretendendo i bilanci del Partito socialista. Il presidente dell’assemblea prese subito la parola per denunciare l’accaduto. Poi telefonò al capo della procura di Milano, Francesco Saverio Borrelli, costringendolo a scusarsi. E convocò Colombo nel suo studio per chiedergli spiegazioni. Non pago, consegnò alla stampa un comunicato di rara durezza: «Si è chiesta in modo irrituale agli uffici della Camera copia di atti per altro già pubblicati per obbligo di legge sulla Gazzetta ufficiale. La segreteria generale della Camera ha contestato la irritualità e incomprensibilità di tale passo». Il suicidio di Moroni e l’«assalto» giudiziario al Parlamento lasciarono a lungo il segno. Al punto che Napolitano, ormai presidente della Repubblica, ha dedicato a quella drammatica fase della storia italiana alcune delle pagine più toccanti della sua autobiografia, ripubblicata dalla Laterza nel 2008, due anni dopo la sua ascesa al Quirinale. Rievocando quegli anni, parla addirittura di «clima di “pogrom” nei confronti della classe politica». E ne denuncia le responsabilità senza perifrasi: «Una gran parte del mondo dell’informazione; e una parte dello stesso mondo politico, dell’opposizione vecchia e nuova». Parla del ruolo della stampa. Stigmatizza cultura e atteggiamenti forcaioli, allora, del Msi (poi Alleanza nazionale) e della Lega. Ricorda le «forche caudine» organizzate dai deputati missini all’ingresso di Montecitorio e il cappio agitato e invocato dai leghisti dentro l’aula. Non risparmia critiche neppure al suo partito, il Pds, «che certamente contava di trarre beneficio, sul piano politico ed elettorale, da quella bufera che investiva soprattutto i partiti di governo». Impietoso il quadro complessivo che Napolitano ricostruisce: «L’adesione acritica a qualsiasi posizione e azione venisse dalla magistratura inquirente, l’amplificazione e generalizzazione delle risultanze di qualsiasi indagine, l’intimidazione nelle stesse aule parlamentari facevano parte di quello che fu chiamato giustizialismo e costituì non solo un fattore di stravolgimento degli equilibri istituzionali, ma anche un ostacolo al corretto svolgimento della funzione propria del Parlamento rispetto a esigenze reali di moralizzazione e di rinnovamento». Insomma, scrive, «ne scaturì la prassi abnorme delle dimissioni obbligate di ogni membro del governo che fosse raggiunto da un’”informazione di garanzia”, strumento previsto dal codice a tutela del diritto di difesa del cittadino e divenuto l’equivalente di un pubblico sospetto di colpevolezza (anche per mancanza di riservatezza e per lo scandalismo della stampa)». Chissà se anche il presidente della Repubblica ripensava a quegli anni, mentre aspettava Silvio Berlusconi, il pomeriggio di venerdì 11 febbraio. Chissà se ha rivisto mentalmente i fotogrammi di quel trauma, mentre dettava il comunicato diffuso prima dell’incontro, quasi a volere stabilire preventivamente una distanza dalla delicata posizione del Cavaliere: «Nella Costituzione e nella legge possono trovarsi i riferimenti di principio e i canali normativi e procedurali per far valere insieme le ragioni della legalità nel loro necessario rigore e le garanzie del giusto processo. Fuori di questo quadro, ci sono solo le tentazioni di conflitti istituzionali e di strappi mediatici che non possono condurre, per nessuno, a conclusione di verità e giustizia». Parole pesanti. Che alle orecchie del premier devono essere suonate peggio che una presa di distanze: la negazione di un passato garantista e un avallo esplicito alla procura milanese. Quel che è certo è che il Giorgio Napolitano presidente della Repubblica è ancora più angosciato di quanto non lo fosse il Napolitano presidente della Camera, almeno così si fa sapere dal Colle: oltre tre lustri sono trascorsi da quel trauma, ma è come se il tempo non fosse mai passato, con un sistema ancora bloccato da un odio politico che diventa sempre più cieco e da tensioni istituzionali che diventano sempre più laceranti.

1992, i trucchi del pool e gli errori di Craxi. Un docufilm in onda su History Channel ricostruisce con testimonianze inedite i metodi della squadra di Di Pietro. E ripropone le sottovalutazioni del leader socialista, come nella politica di oggi, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Ormai su Mani Pulite si sta ritirando fuori di tutto, intrecciando fiction e cronaca, in un quadro forse un po' confuso che ha un solo punto fermo: oggi come allora, la maggioranza degli italiani non è più disposta a tollerare la corruzione. C'è un documentario che forse può aiutare a trovare qualche punto fermo, grazie ad alcune testimonianze e documenti d'epoca: “1992 attacco al potere”, che andrà in onda questa sera (14 aprile 2015) e il 21 aprile alle 23 su History Channel. Si apre con Luca Magni, l'imprenditore che consegnò la bustarella a Mario Chiesa che ha fatto crollare un intero sistema politico. Ricostruisce i fatti minuto per minuto. Dice che i magistrati «era come se avessero la macchina ma non sapessero farla partire, io sono stato la chiave che ha fatto partire tutto». Negli occhi di Magni non c'è più il senso di sfida che mostrava ventitre anni fa: non ha l'aria dell'eroe, sembra un uomo distrutto, piange. Il pregio del filmato è proprio quello di offrire prospettive diverse, molto personali. Ci sono i racconti di tutti gli uomini chiave della prima fase di Tangentopoli, i protagonisti rimasti nell'ombra che ricordano metodi e trucchi investigativi: il capitano dei carabinieri Roberto Zuliani e i due poliziotti Giancarlo Spadoni e Rocco Stragapede, veri factotum di Antonio Di Pietro. L'avanzata dell'indagine verso il cuore del potere viene narrata con ritmo e chiarezza. Forse per questo tra le righe emerge il dilemma più importante di quella stagione, ossia il ruolo che ha avuto nella vita italiana Bettino Craxi. Viene riproposto un documento unico: l'intervista televisiva in cui il leader socialista dà del “mariuolo” a Chiesa. «Mi preoccupo di creare le condizioni perché il paese abbia un governo in grado di affrontare le condizioni difficili che abbiamo davanti e mi ritrovo un mariuolo che getta un'ombra su tutta l'immagine di un partito che a Milano in cinquant'anni non ha avuto un amministratore condannato per reati gravi contro la pubblica amministrazione». È un momento decisivo, che incrina il silenzio di Mario Chiesa: dopo tre mesi tutti gli amministratori socialisti milanesi e lombardi saranno sotto accusa. Quelle parole sono state un errore tattico, che ha determinato una sconfitta strategica. E nascevano dall'incapacità di Craxi nel fare i conti con la situazione. Lo conferma Paolo Pillitteri, suo cognato ed ex sindaco di Milano: «Conoscevo Di Pietro, aveva i classici modi del contadino furbo, io ero molto preoccupato ed avevo ragione. Glielo dicevamo a Bettino. Lui non ascoltava: “Non dovete preoccuparvi, è una cosa locale, si ferma lì”. Noi invece abbiamo capito subito che l'inchiesta vuole espandersi: l'arresto di Chiesa era stato un colpo di gong, lui lo sottovalutò». Il primo maggio 1992 sono proprio gli avvisi di garanzia a Pillitteri e a Carlo Tognoli a rendere manifesta la portata dell'istruttoria. Con qualcosa altro che l'uomo forte del Psi non riesce a valutare: il meccanismo mediatico che si è innestato intorno ai magistrati di Milano, sulla spinta soprattutto delle reti Mediaset, cementando il consenso popolare verso i magistrati. «Un circo mediatico-giudiziario che non conoscevano», ammette Pillitteri «e creava il mito di Di Pietro. Il pool diventa un Olimpo che getta saette». Mentre invece le parole di Craxi non incutono più timore. Quando si rende conto della minaccia e cerca di giocare il suo poker, nei confronti di Di Pietro e degli altri partiti, non capisce che il tavolo è cambiato. I messaggi trasversali contro il magistrato, anche quelli che si riveleranno fondati, cadono nel nulla. Come accade all'avvertimento lanciato in Parlamento il 3 luglio, con un discorso che viene riproposto in “1992 attacco al potere”: «I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale.
Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». C'è una seconda parte dell'intervento di Craxi che – depurata dagli attacchi del momento – sembra mantenere un'attualità politica: l'appello al cambiamento delle regole prima che gli illeciti distruggano la credibilità di tutti i partiti. «Un finanziamento irregolare ed illegale al sistema politico, per quanto reazioni e giudizi negativi possa comportare e per quante degenerazioni possa aver generato non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica, per creare un clima nel quale di certo non possono nascere né le correzioni che si impongono né un’opera di risanamento efficace ma solo la disgregazione e l’avventura. A questa situazione va ora posto un rimedio, anzi più di un rimedio. È innanzitutto necessaria una nuova legge che regoli il finanziamento dei partiti e che faccia tesoro dell’esperienza estremamente negativa di quella che l’ha preceduta». Oggi le sovvenzioni pubbliche sono state abrogate e per questo il problema della natura dei contributi privati alla vita politica è diventato ancora più forte. Le indagini continuano negli ultimi mesi a evidenziare come in questo settore non ci siano né controlli efficaci, né trasparenza. Questo – come “l'Espresso” denuncia da mesi - riguarda soprattutto il canale lecito ma opaco delle fondazioni, usate da esponenti di tutti i partiti per raccogliere soldi. Nonostante accuse e sospetti siano crescenti, i segnali di riforma restano deboli. Il Parlamento non sembra deciso a prendere iniziative concrete per cambiare i meccanismi del finanziamento, con il rischio di sottovalutare la rapidità del cambiamento. E ripetere gli errori del 1992.

Realtà e non fiction nel 1992 di History. Mani Pulite raccontata da imprenditori e forze dell'ordine, scrive “L’Ansa”. Non è il 1992 raccontato su Sky dall'acclamata serie con Stefano Accorsi, Miriam Leone, Guido Caprino e Antonio Gerardi ma alla fine tra i titoli di coda non apparirà l'avvertimento che "le storie narrate sono frutto della fantasia degli autori" e "che qualsiasi collegamento con persone vissute e viventi è puramente causale". La storia dell'anno che sconvolse il nostro Paese, che "dal sassolino Mario Chiesa si trasformò in una frana inarrestabile", è raccontata senza filtro e senza risparmiare sui particolari in "1992 - Attacco al potere", in onda martedì 14 e 21 aprile alle 23.00 su History (canale 407 di Sky). E niente è casuale, "rielaborato" e "romanzato". Sarà per questo che vedere, dopo venti anni, l'imprenditore Luca Magni dalla cui denuncia partì "Mani Pulite" raccontare, con il groppo alla gola e le lacrime agli occhi come se non fosse passata che una manciata di minuti, la storia di quel giorno che sconvolse la sua vita e quella dell'Italia intera vale forse più di una fiction. E sentire dalla voce di Roberto Zuliani, capitano dei Carabinieri e nome in codice "Giaguaro", tutti i particolari dell'irruzione nello studio di Mario Chiesa e del suo arresto (anche il fatto che la storia delle mazzette gettate nel water è una balla) tiene incollati allo schermo. Il valore aggiunto delle due puntate di History infatti è proprio questo: i protagonisti non sono solo Chiesa, Antonio Di Pietro e Bettino Craxi ma tutti le persone meno conosciute che stavano al loro fianco e che svolsero un ruolo fondamentale in quei giorni, dai poliziotti e dai carabinieri che eseguirono le perquisizioni e gli arresti agli imprenditori che finirono al centro delle inchieste, dai giornalisti ai fotografi. La vicenda è raccontata con ritmo incessante tra interviste esclusive, materiale di repertorio inedito, ricostruzioni dei luoghi, delle indagini e degli interrogatori. Ecco allora il Di Pietro che, come racconta Filippo Facci all'epoca giornalista de L'Avanti, "faceva Di Pietro e cioè lo sbirro, quello che aveva sempre fatto". Ecco il collaboratore Rocco Stragapede, "la scatola nera" di Di Pietro, con cui il magistrato vive quasi in simbiosi e si capisce al volo tanto da condurre assieme interrogatori "da far paura". E lo spettatore, tenuto per mano da coloro vissero in prima linea quei giorni ma al Tg non comparvero mai, non vede solo il Di Pietro conosciuto ma può sbirciare nella sua sala degli interrogatori, dove lui siede sulla sedia al rovescio e appoggia sulla scrivania montagne di fascicoli gonfi come a dire "Caro indagato, noi di lei sappiamo tutto!". Se qualcuno aprisse quei fascicoli, ci troverebbe solo giornali vecchi ma il bluff regge alla grande. Oppure può scoprire che quando era pensieroso o preoccupato il magistrato di tirava giù i calzettoni e si grattava i polpacci per ore. O come racconta Giancarlo Spadoni, investigatore della Procura di Milano che era il primo ad arrivare e l'ultimo ad andarsene ed riuscito a inculcare alla sua squadra "un metodo di lavoro, legato all'organizzazione e all'informatica, che non aveva uguali in Italia".

"1992", l'anno che cambiò l'Italia. Sky mette in onda la fiction su Tangentopoli di Giuseppe Gagliardi, ideata da Stefano Accorsi. In scena la sconfitta dei vecchi partiti e la strategia dell’ex Cavaliere. Mentre la sinistra si rivela solo una comparsa, scrive Marco Damilano su  “L’Espresso”. C’è, nelle prime scene di “1992”, l’immagine delle banconote che galleggiano nella tazza del cesso, i pezzi da centomila lire con Caravaggio che tornano su dallo scarico, come un rigurgito nella coscienza collettiva. I soldi, in quei primi anni Novanta, erano ancora qualcosa di fisico. Si toccavano, si annusavano, si buttavano via. Dalla finestra, per esempio: una sera d’estate gli abitanti del quartiere romano Flaminio avevano visto planare come aeroplanini di carta banconote per tredici milioni di lire, una mazzetta gettata dalla moglie di un notabile dc. E nel water: la tangente da 37 milioni che il pomeriggio del 17 febbraio 1992 l’ingegner Mario Chiesa, il socialista presidente del milanese Pio Albergo Trivulzio, cerca di far sparire mentre i carabinieri bussano alla porta. Era un lunedì, l’inizio di una settimana di routine per il burocrate della tangente, invece crollò un sistema durato decenni. E quel colpo di sciacquone equivale allo sparo di Sarajevo che portò all’estinzione gli Imperi invincibili della Prima Repubblica, i democristiani, i socialisti. La fine della belle époque dei partiti. E l’annuncio del Nuovo. Prodotta da Wildside e diretta da Giuseppe Gagliardi (Tatanka) da una idea di Stefano Accorsi, debutta il 24 marzo in prima TV su Sky Atlantic HD e in contemporanea su Sky Cinema 1 HD la fiction 1992, diretta da Giuseppe Gagliardi, da un'idea di Stefano Accorsi e sceneggiata da Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo. Sullo schermo, personaggi immaginari insieme ai protagonisti della cronaca politica. Arrivano in tv (dal 24 marzo 2015 su Sky Atlantic Hd) le dieci puntate della fiction sull’anno che cambiò l’Italia, il 1992 di Tangentopoli. La calata nel Parlamento romano dei barbari della Lega, il pool Mani Pulite di Antonio Di Pietro, la fine di Bettino Craxi, le stragi di mafia. E l’embrione dell’avventura politica di Silvio Berlusconi. Un anno ricostruito dal regista Giuseppe Gagliardi nei dettagli: cravatte, pettinature, trasmissioni (“Non è la Rai”), i pesantissimi cellulari. Volti famosi e storie sconosciute: la scelta narrativa degli sceneggiatori Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo è affiancare personaggi di fantasia a quelli reali (il pm Di Pietro, Francesco Saverio Borrelli, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Marcello Dell’Utri, Umberto Bossi). «Abbiamo seguito la lezione di James Ellroy», spiega Lorenzo Mieli, il produttore della fiction con Wildside. «Mescolare la finzione con la realtà, i fatti della cronaca con le trame e i ricatti invisibili al cittadino e allo spettatore». “1992” è il nostro Italian Tabloid, in una Milano notturna, cupa, livida, una Gotham City in cui i vecchi potenti si aggirano da padroni e invece sono già morti, e i buoni non esistono. L’ideatore della serie è Stefano Accorsi, classe 1971, segnato come tutti i suoi coetanei da quei dodici mesi spartiacque: «Volevo capire cosa è successo quell’anno. E raccontare quella parte d’Italia che ha vinto, nel segno dell’ambiguità. In questa storia non ci sono personaggi giusti». L’attore sta girando l’Italia in teatro con il “Decamerone” di Boccaccio in cui interpreta Panfilo, sempre attuale: «Giorno non passa che novello scandalo scalza lo precedente... E li cittadini onesti smarriscon così fede e orgoglio di civica appartenenza e vien loro meno, speranza e fiducioso attendimento nel domani». In “1992” è Leonardo Notte, pubblicitario di successo, arrogante, spregiudicato, ansioso di consumare il presente per far dimenticare un passato che continua a tormentarlo. «Gli anni Ottanta sono finiti!», avverte durante una convention al cospetto di Dell’Utri. «E la crisi è un’opportunità». Per questo sarà incaricato dal presidente di Publitalia di studiare cosa si muove nel profondo della società. Chi rappresenterà il Nuovo quando i vecchi politici saranno spazzati via. Chi farà la scalata. A rileggere i testimoni più lucidi di allora si avverte il senso della Fine in arrivo. «La classe politica italiana sembra assoggettarsi a due spinte esattamente opposte, l’istinto di conservazione e un’oscura volontà di auto-annientamento», aveva scritto Edmondo Berselli sul “Mulino” nell’autunno 1991. Nella campagna elettorale del 1992, l’ultima dei partiti della Prima Repubblica, il Psi aveva girato un docufilm sul suo segretario Bettino Craxi, candidato a tornare a Palazzo Chigi. Ma i primi piani avevano rivelato un uomo stanco, lontano dal Capo che aveva interpretato la modernità per un decennio. «Va a finire che ci fa una migliore figura chi ha avuto l’accortezza di farsi riprendere da lontano, come Berlusconi, seduto di sbieco al pianoforte, bello come Julio Iglesias», commentò profetico Emanuele Pirella sull’“Espresso”. «All’elettore vien più voglia di votare Berlusconi che quell’affaticata comparsa di Craxi». In “1992” il passaggio dal vecchio al nuovo è confuso e feroce, come ogni trapasso. Scandito dagli homines novi , i vincenti di “1992”. I magistrati, i leghisti. Berlusconi. «Ognuno è rappresentato da un personaggio, un avatar che incarna la loro ossessione, la spinge all’estremo», spiega Mieli. Pietro Bosco, interpretato da Guido Caprino, è un reduce della guerra nel Golfo che si ritrova eletto per caso deputato della Lega, catapultato sul palcoscenico di Roma ladrona, tra gli intrighi, le trappole, le seduzioni della Capitale. Gli fa schifo la politica, entra sbandierando il “tutti a casa”, la sua irriducibile diversità rispetto agli uomini del potere in blu ministeriale, e invece ci cade dentro, fino in fondo. Luca Pastore (Domenico Diele) è un agente di polizia giudiziaria che lavora con Antonio Di Pietro, mosso da una sete di giustizia, anzi, di vendetta verso un industriale che gli ha distrutto la vita. Veronica Castello (Miriam Leone) vuole lavorare in tv, a “Domenica In”, a qualsiasi costo. L’ansia di cambiamento, di fare piazza pulita. La sete di giustizia che si trasforma in desiderio di vendetta, di purificazione. La brama di una vita in “prime time”. Questioni private che intrecciano le pulsioni profonde della società italiana degli anni Novanta, disposta ad auto-assolversi, dimenticare e a ricominciare. «L’elettorato non è moderato, è smodato, arrapato», grida Leo Notte, in questo stato nascente, di disperata vitalità, in cui tutto cambia e tutto è necessario prendere, cavalcare, afferrare, come l’Occasione di cui parla Machiavelli nel “Principe”, «senza quella occasione la virtù dell’animo loro si saria spenta». «Per lui il movimento è una condizione essenziale per sopravvivere. Era un estremista, si è trasformato in un pubblicitario senza smettere di essere contro il sistema, lo status quo», lo descrive Accorsi. «Il suo credo è lo stesso che canta Manuel Agnelli degli Afterhours: “Io maledico il modo in cui sono fatto/ Il mio modo di morire sano e salvo dove m’attacco”. Riesce sempre a farla franca, a morire sano e salvo». Come vorrebbero fare molti italiani nel 1992, pronti a buttarsi nella nuova avventura. La sinistra compare in una sola scena, è un pallido candidato alla Camera del Pds di Achille Occhetto, impaurito come la sua giacchetta marrone. Ma non c’è sinistra e non c’è alternativa, nell’Italia del 1992 e forse anche in questa. La corruzione c’è ancora, da Milano a Palermo. E se degli uomini nuovi di allora è già nota la parabola, le speranze bruciate, la rivoluzione giudiziaria immeschinita nei partitini personali degli ex pm, la Lega bossiana divorata dalle mollezze romane, Berlusconi che appare come un’ombra di luce già spenta, lo spettatore è colto dall’inquietudine di immaginare, in un’altra fase di cambiamento, che fine faranno gli uomini nuovi di oggi che gridano al tutti a casa e alla rottamazione del passato, la loro scalata al potere, famelica di illusioni. Nell’inizio è già visibile la fine. Qualcosa di familiare. 

Padri, figli, corrotti e magistrati. La fiction (non manichea) sul ’92, scrive Mattia Feltri su “La Stampa”. John Wayne non c’è. Nessun giustiziere solitario, nessun supereroe spuntato dal retrobottega della nostra coscienza a riscattare gli umili e offesi. Non aspettatevi inquadrature di metaforici calci di fucile segnati di tacche a ogni potente abbattuto, intanto che la vecchietta o il ragazzino o il padre di famiglia risollevano la testa dalla polvere. Non è la biografia agiografica o problematica di un Tonino Di Pietro né quella collettiva di un pool che vediamo oggi, venti anni dopo, nelle foto di gruppo mentre avanza con lo sguardo che punta lontano, involontario e caricaturale nuovo Quarto stato di Pellizza da Volpedo, la serie di cui la prima puntata va in onda su SkyAtlantic, non è - nella sintesi che migliore non ci riesce - la storia di Mani pulite ma la storia di Tangentopoli, e cioè non è la storia del drappello di pm bensì la storia di come eravamo, noi abitanti della città delle mazzette. Una bella sorpresa: due decenni e tre anni dopo quel 17 febbraio - giorno dell’arresto di Mario Chiesa e inizio della fine della Prima repubblica - qualcuno è stato capace di ricacciare il secchio in quei complicati mesi senza attingere a retorica settaria. Non ci sono i buoni contro i cattivi. Non è il bene contro il male. I politici rubavano e furono presi con le mani nel sacco, e non erano né mostri né perseguitati. I magistrati indagavano con le timorose prudenze del contesto, espresse dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli che trattiene Di Pietro: «Per puntare in alto ci vogliono le spalle coperte». È un Di Pietro a cui luccicano gli occhi alla vista di cinque lettere stampate sul giornale - «Craxi» - perché è lì che vuole arrivare, introduzione a una giustizia redentrice che prima trova i colpevoli e poi le notizie di reato. E però non è questo il punto. Davvero non contano né Di Pietro né Borrelli né Craxi né Chiesa, conta molto di più tutto ciò che lì dentro c’è di fiction. I personaggi storici sono colonne del tempio dentro cui si muovono i personaggi di fantasia, i veri protagonisti, il ragazzone rientrato dalla guerra del Golfo senza un’idea di sé e del suo futuro che salva un capoccia leghista dall’aggressione di due albanesi, sarà candidato al Parlamento, salirà sul palco a urlare salivante che è ora di finirla adesso basta, «adesso tocca a noi», e tanto basta al nuovo entusiasmo: e lui poi va a liquidare il padre: «Presto avrò una casa quattro volte questa». C’è il collaboratore della procura determinato a incastrare l’imprenditore corrotto per una questione personale, pur di raccattare le prove violerà domicili, ingannerà ragazzine, minaccerà a mano armata e troverà la giornalista cui girare (di nascosto) le informazioni buone per gli scoop e per la fama degli inquirenti. C’è il giovane berlusconiano (Stefano Accorsi, ideatore della serie) collaboratore di Marcello Dell’Utri che per vendere la pubblicità a un inserzionista indeciso gli spiega che «la gente là fuori è orribile», si tratta soltanto di assecondarla: non diseducarla o traviarla, assecondarla. C’è tutto il nostro mondo, la ragazza che per la carriera in tv si concede a chi la piglia, i padri boriosi che non capiscono i figli, i figli tossici che mandano al diavolo i padri, la gente maleducata e velenosa, i grandi attici delle grandi baldorie, i miserabili appartamenti di miserabili rancori, c’è persino l’insegnante delle medie che salverà il mondo liberando i piedi dalla costrizione delle scarpe. Ricordate che niente è definitivo, i peggiori diventeranno i migliori, i pessimi risultati saranno prodotto delle buone intenzioni: è il festival molto credibile, compreso qualche inevitabile eccesso parodistico, dell’ambiguità morale che fa parte della nostra vita e della buona scrittura che la racconta. 

Di Pietro: “Questa è fiction, Mani pulite invece è storia”. “1992” vista con l’ex pm: non dice come provarono a fermarci, scrive Paolo Colonnello su “La Stampa”. Già alla prima inquadratura, si preoccupa: «Oh, ma non è che quello lì con le chiappe all’aria sono io?». Lo «Zanza», anzi, lo «Zanzone» come Antonio Di Pietro veniva chiamato dagli allora giovani cronisti di Mani Pulite a significare la scaltrezza e la furbizia contadina, si accomoda sul divano. Chiede un caffè, ride di gusto: «Ah, no, meno male, non sono io… Eccomi, eccomi! C’è perfino il gilet bordeaux che usavo allora». Panoramica sulla Milano da bere: i rampanti di Publitalia, l’attricetta che si fa raccomandare, le ragazzine di Boncompagni, i ristoranti e la rucola: «Era così ma non per tutti: c’era chi se la godeva, chi faceva affari, chi faceva carriera…Io indagavo, ricordi?». E come dimenticarselo: 1992, un anno infernale. Prima puntata di un ventennio che sembra non aver mai fine. «Se si confronta un’informativa del ‘93 che feci insieme a Davigo sulla corruzione con quella che hanno fatto su Incalza adesso, ritrovi molti degli stessi nomi». Un po’ più stanco, più affaticato, l’avvocato Di Pietro 23 anni dopo ammette di non avere più grandi aspirazioni: «Sindaco di Milano? Ma con quale partito? E poi…». E poi? «Prima che finisca la serie in tivù, lo dico subito: se c’è un errore che non rifarei, è quello di mettermi in politica. Mannaggia... Ho 65 anni e devo dire che un po’ li sento». Di Pietro è ansioso di vedere la fiction. Non mangia, non beve, un asceta. Passa la prima scena di sesso e si sfila gli occhiali: «Prendo atto, però non mi pare necessaria…». Però il sesso è sempre stato un orpello fondamentale del potere. «Vero. Ma, se interessa, vorrei dire che durante la nostra inchiesta non abbiamo mai utilizzato il gossip per scoprire le tangenti».  Certo è strano per un’inchiesta che nacque anche grazie alla causa di separazione tra l’ex presidente della Baggina, Mario Chiesa, e la sua ex moglie, Laura Sala. «Si, ma non ci fu bisogno di intercettazioni. Chiedemmo di poter vedere gli atti della separazione, poi lei ci parlò dei conti in Svizzera, “Levissima” e “Fiuggi”. Quando dissi a Chiesa che l’acqua minerale era finita, lui capì al volo e crollò. Fu l’inizio della fine». Alla scena dell’arresto di Mario Chiesa, lo «Zanza» chiede di mettere in pausa: «Non è vero che andò in bagno per buttare altri soldi. Quella storia la raccontò dopo una settimana e si riferiva a un’altra mazzetta di un altro imprenditore…». Osserva divertito l’ufficio del suo pool investigativo: «Seee… magari avessimo avuto tutto quello spazio!». È colpito dal rampante di Publitalia interpretato da Stefano Accorsi, chiamato da Marcello Dell’Utri a fondare Forza Italia: «Bisogna dire che Dell’Utri che racconta la storia della Repubblica delle Banane è convincente. Grazie a Berlusconi stiamo comprando banane ancora adesso. La differenza è che mo’ ci stanno tanti berluschini». E i «dipietrini»? «Anche quelli sono stati un problema. Mani Pulite iniziò ad affondare per la nascita dei tanti dipietrini d’Italia che senza avere una visione d’insieme del “sistema”, indagavano chiedendoci gli atti per competenza».  Davvero Craxi all’inizio era un tabù? «Ma quando mai. Per noi Craxi all’inizio non era un problema. Cioè, sapevo, avendo visto come si era comportato in precedenza, che si sarebbe potuti arrivare a lui, ma davvero nell’inchiesta il suo nome non esisteva. Il “Cinghialone”, come lo chiamavate voi, era ancora lontano dalle carte…». Alla fine, rimane deluso: «Qui mi sembra che Mani Pulite sia solo uno sfondo, una scusa per raccontare altro». Emozioni? «Nessuna, io ho vissuto una realtà che mi ha riempito abbastanza. Mi basterebbe che qualcuno un giorno scrivesse come hanno cercato di delegittimarmi in tutti i modi… Non c’azzeccava niente. Speriamo nella storia, questa è solo fiction».

«Ma quali escort? Non andò così» Segni contesta la fiction «1992». La ricostruzione tv sugli anni di Tangentopoli e le critiche di uno dei protagonisti di allora, scrive Renato Bendetto su Il Corriere della Sera”. Nell’ultimo episodio di 1992 , la serie tv di Sky sugli anni di Tangentopoli, Mario Segni appare scandalizzato. È rappresentato al tavolo di un ristorante: discute di politica e di possibili intese con alcuni uomini di Publitalia (la discesa in campo di Berlusconi in prima persona è di là da venire). Arrivano Olga, Irina e Katarina, tre prostitute ingaggiate per «siglare l’intesa». Segni si alza e se ne va indignato. A differenza del personaggio della serie, Mario Segni, quello vero, martedì sera non si è alzato, è rimasto davanti alla tv a guardare la puntata. Ma era scandalizzato: «Sono indignato. Hanno mistificato la realtà». Segni è stato tra i protagonisti (quando da deputato lasciò la Dc dopo il successo del referendum per il maggioritario) della stagione politica raccontata da 1992 . Nulla di strano che il suo nome compaia nella serie di Sky, che mescola personaggi reali e di fantasia e racconta una storia di fiction nel contesto(reale) di Mani pulite: Dell’Utri lo vuole sondare come possibile leader di una «casa dei moderati»; a trattare c’è Leonardo Notte (Stefano Accorsi), protagonista della fiction, uomo marketing del Biscione incaricato del dossier politico. Notte e Segni sono insieme al ristorante: il deputato ex dc è indeciso sul dolce («vorrei una mousse, anzi no, una crostata. Aspetti... abbia pazienza. Ho cambiato idea... mi porti il menu»). Notte taglia corto: «Il dolce lo offre la casa». Arrivano le prostitute e l’intesa fallisce. Notte dirà a Dell’Utri: «Ci ha messo mezz’ora solo per scegliere il dolce, Segni non va da nessuna parte». «Possibile che si debba ridurre tutto a una volgare pochade?», si chiede Segni, quello vero, dopo aver visto la puntata. «I rapporti tra movimento referendario e la nascita di Forza Italia sono parte di una storia più complessa, che ha inizio con l’offerta di alleanza di Berlusconi e si conclude con il mio rifiuto. Una storia politica, non fatta di prostitute. I contatti furono diretti», specifica. E di quella scena smentisce tutto. A cominciare dall’anno: non fu il 1992. «Il primo contatto con Berlusconi fu a casa di Gianni Letta, nell’ottobre del 1993: al tavolo c’erano Berlusconi e Confalonieri». E nessuna prostituta russa. In effetti quella di Sky è una fiction: «Anche se ispirate a fatti realmente accaduti le storie narrate sono frutto della fantasia degli autori», è chiaramente espresso all’inizio di ogni puntata di 1992 . Per Segni, «va bene mescolare realtà e finzione, ma quando nomi e cognomi sono quelli... Non puoi raccontare falsità e attribuirle a una persona specifica».

La serie tv su Tangentopoli. E Di Pietro pontifica in tv. Grazie a una fiction l'Italia prova a fare i conti con il proprio turbolento passato, con una classe politica spazzata via da un'inchiesta della magistratura, scrive Orlando Sacchelli su “Il Giornale”. Parte "1992", la serie tv di Sky dedicata a Tangentopoli e all'inchiesta che spazzò via un'intera classe politica. Fiction e realtà, sapientemente mescolati, suddivisi su dieci episodi. Un'operazione culturale oltre che "cinematografica". Perché non è solo una delle tante serie tv. Parla di un periodo su cui il nostro Paese ancora non ha fatto pienamente i conti. Ci sono stati i processi e le sentenze. E i cambiamenti politici che da esso sono derivati. Ma ci sono ancora tante omissioni. Il compito di mettere mano alla vicenda e inquadrarla nel modo migliore possibile tocca agli storici. Non può essere altrimenti. La tv fa spettacolo, anche se può offrire spunti di riflessione interessanti. E non bisogna dimenticare che, essendo prodotta da noi italiani (e venduta all'estero), la serie fornisce una chiave di lettura del nostro Paese a chi ci vedrà (e giudicherà) oltreconfine. La tesi che da una parte i politici fossero tutti ladri, e dall'altra, invece, ci fossero solo brave persone, che mai e poi mai si erano macchiate del reato di finanziamento illecito ai partiti, a distanza di ventitre anni si può considerare superata. E non solo perché Bettino Craxi lo disse in parlamento (e poi in tribunale a Milano). I bilanci dei partiti depositati in parlamento erano tutti (o quasi) farlocchi e chi doveva controllare non lo faceva. Così erano anche i soldi dall'estero e quello delle imprese che finanziavano la politica. Si è andati avanti così per oltre quarantacinque anni. Poi due amnistie hanno cancellato tutti i reati (fino al 1989) e da allora in poi si sono creati i presupposti (penali) per lo scoppio dello scandalo, esploso, com'è noto, il 17 febbraio 1992, con l'arresto di Mario Chiesa. Uno dei protagonisti dell'epoca, Antonio Di Pietro, impazza su giornali e tv. "Del film ho preso atto, quando ho saputo che lo stavano facendo - racconta Di Pietro a Sky Tg24 Pomeriggio -. La realtà l’avevo già vissuta e mi darete atto che già la realtà era davvero un film. Chi in quegli anni ha visto evolversi giorno dopo giorno l’inchiesta di Mani pulite ha visto un drammatico film di una storia italiana. Che poi, voglio dire, è come se stessimo sfogliando i giornali di questi giorni", dice l’ex pubblico ministero. "Prima dell’inchiesta Mani pulite - prosegue - a Milano ci furono molte inchieste contro la pubblica amministrazione. Quel sistema, all’interno della procura di Milano, lo avevamo ben individuato. Il problema delicato era sul piano processuale: la corruzione è un reato a concorso necessario, bisognava scoprire sia l’atto d’ufficio fatto per fare piacere a qualcuno, sia i soldi o l’utilità corrisposti: nel reato di corruzione si era puniti in due. L’inchiesta di Mani pulite ha permesso di scoprire casi in cui gli imprenditori non erano corruttori, ma subivano una tangente che non volevano subire. È stata una chiave di lettura che ci ha permesso di aprire quella scatola, ma come era fatta la scatola lo sapevamo già allora e purtroppo lo sappiamo ancora oggi". Per il lancio della serie Sky ha dato voce a diversi protagonisti dell'epoca: soprattutto politici e giornalisti. Oggi, accanto a Di Pietro, ha avuto spazio e voce anche Claudio Martelli, ex ministro del Psi e braccio destro, per anni, di Craxi. A lui il compito (arduo) di dare voce agli "sconfitti". "È stato fatto un lavoro monumentale di documentazione - dice Stefano Accorsi, ideatore e interprete di 1992 - ma il lavoro più prezioso è stato quello fatto dagli sceneggiatori per tenere fuori tutto quello che si è detto di Mani pulite nei 20 anni successivi e tutelare nel racconto la realtà dell’epoca, con lo stupore di fronte alla prima grande inchiesta sui vertici politici ed imprenditoriali e la speranza di cambiamento. L’idea di questa serie - prosegue - è nata nel 2011, pensando al fatto che erano passati quasi vent’anni da quegli avvenimenti senza che nessuno li avesse raccontati in tv". Tangentopoli è ormai lontana nel tempo. Ventitre anni sono tanti e i protagonisti, salvo rare eccezioni, sono spariti dalla scena. Qualcuno prova a riaffacciarsi (vedi Di Pietro). Altri, come l'ex pm Gherardo Colombo, scrivono libri (Lettera a un figlio su Mani pulite) tentando di spiegare ai giovani cosa accadde in quel periodo. La stessa operazione la fa la tv con la serie di Accorsi. Vedremo con quali risultati.

Sesso, soldi e potere ma quante lacune in 1992, la serie tv su Mani pulite. La fiction "1992" parla dell'inchiesta Mani pulite e delle vicende che portarono alla fine della Prima Repubblica. Poca politica e si vede subito che nel "mirino" c'è Berlusconi, scrive Orlando Sacchelli su "Il Giornale". Si parte subito in quarta, con lo spettacolare arresto di Mario Chiesa. Del resto non poteva essere altrimenti. Tangentopoli è iniziata da lì, dal Pio Albergo Trivulzio, noto ai milanesi come la "Baggina", l'istituto di ricovero per anziani a cui capo c'era l'esponente socialista. Chiesa intasca una mazzetta, gli inquirenti ascoltano tutto grazie a una microspia e irrompono nel suo ufficio. A nulla servono le scuse di Chiesa e del suo avvocato. Le banconote sono siglate, una ad una, e fotocopiate. Non si scappa. La tangente, pagata dall'imprenditore Luca Magni (sette milioni di lire, la prima di due rate, per un appalto complessivo di 140 milioni), dà il via all'inchiesta passata alla storia come "Mani pulite". Nasce Tangentopoli e, nel giro di pochi mesi, un'intera classe politica crollerà sotto i colpi della magistratura. La serie tv di Sky "1992" inizia così, con Antonio Di Pietro subito protagonista. Al centro della storia ci sono sei persone comuni, la cui vita si intreccia con il terremoto politico, civile e sociale innescato dalla maxi inchiesta. I personaggi di fantasia si muovono in parallelo a quelli reali. Questo per permettere agli autori un certo margine di libertà nello sviluppo della storia, che corre lungo i binari della realtà. Nelle prime due puntate trasmesse da Sky vengono subito ben tratteggiati i protagonisti: Leonardo Notte (Stefano Accorsi), rampante pubblicitario esperto di marketing, che lavora per Publitalia; il poliziotto Luca Pastore (Domenico Diele), che entra a far parte del pool di Mani pulite proprio quando inizia l'inchiesta; Bibi Mainaghi (Tea Falco), figlia viziata di un imprenditore milanese colluso con la politica; Veronica Castello (Miriam Leone), bella showgirl disposta a ogni compromesso pur di sfondare in tv; Pietro Bosco, ex militare rientrato dall'Iraq, che inizia un'avventura politica militando nella nascente Lega Nord. Accanto a loro ci sono i protagonisti reali, a partire da Antonio Di Pietro (interpretato da Antonio Gerardi), Piercamillo Davigo (Natalino Balasso), Francesco Saverio Borrelli (Giuseppe Cederna), Gherardo Colombo (Pietro Ragusa). Tra i personaggi veri c'è anche Marcello Dell'Utri (Fabrizio Contri), che fin dall'inizio apprezza le doti di Notte. Il racconto ha ritmo e gli attori sono bravi. Belle le musiche, tutte rigorosamente di quel periodo ("Non amarmi", di Aleandro Baldi e Francesca Alotta, "Everybody hurts" dei Rem), interessanti gli spezzoni dei tg dell'epoca. Ma a chi non ha vissuto quel periodo o letto qualcosa, questa serie fornirà qualche informazione utile per capire cosa è stata davvero Tangentopoli? Secondo noi no. Del resto non c'era d'aspettarsi troppo: si tratta di fiction non di un documentario e tantomeno di un approfondimento storico. In "1992" si capisce che si vuole andare a parare in una certa direzione. Il messaggio viene messo in bocca a Dell'Utri, che parlando con il rampante Notte (Accorsi) senza mezzi termini gli indica il suo obiettivo, con un mix tra spregiudicata filosofia politica e marketing: "Bisogna salvare la Repubblica delle banane". E il riferimento non è tanto all'impresa (Publitalia) quanto alla politica, la nuova formazione che dà lì a pochi mesi vedrà la luce. Per il resto c'è molta superficialità e una grande banalizzazione. Siamo solo alle prime due puntate ed è probabile che, grazie ai personaggi di fantasia, la serie vivrà un crescendo di emozioni e colpi di scena. C'è da sperarlo. Perché se dovessimo limitare il giudizio alla prima parte della storia, la delusione sarebbe grande. E non perché sappiamo già come va a finire. La politica vera si vede solo sullo sfondo: nei manifesti elettorali, nei comizi di Umberto Bossi e poco altro. Tutto qua? Chi ha visto House of cards sa come si può trattare l'argomento in una serie tv. Fiction, sì, ma con molta più sostanza. Tutta un'altra cosa rispetto a 1992. Forse il problema, per la serie ideata da Accorsi, è che si dovevano fare i conti con la realtà. E si è preferito limitarsi ai cliché.

Continua "1992 La serie": poco scandalo Tangentopoli e tanto anti-berlusconismo. Tutto ruotava intorno alla figura di Silvio Berlusconi come personaggio più desiderato dagli italiani? Troppo difficile da credere. O troppo facile, scrive Carola Parisi su “Il Giornale”. Giù la maschera. 1992 La Serie non parla di Tangentopoli. E dispiace, perché le premesse per un buon prodotto c’erano tutte. Ma la seduzione e la tentazione di trasformare il racconto di quello che fu uno dei momenti più imbarazzanti e confusi di questo Paese, in una velata critica a Silvio Berlusconi, a Fininvest e alla ancora non nata Forza Italia, era troppo forte. Si può capire che un certo salotto non abbia voglia di accedere a nuove chiavi di lettura. Che siano anche solo quelle della storia. Stupisce che sia quello stesso salotto che ama pavoneggiarsi al grido di: "Io la televisione non la guardo, preferisco un buon libro". "Qui mi sembra che Mani Pulite sia solo uno sfondo, una scusa per raccontare altro". Sono proprio le parole di Antonio Di Pietro, protagonista, in qualità di magistrato, e anima dello scandalo di Tangentopoli, a descrivere una ricostruzione filmica poco corrispondente alla realtà. Facile, facilissimo, farsi coccolare dalle braccia sicure dell’anti-berlusconismo. Ma è stata davvero Publitalia, con la sua fitta schiera di manager spietati, assassini, ex comunisti da banda armata e amanti dei ménage à trois nelle vasche idromassaggio, il centro della vita dell’Italia nel 1992? Tutto ruotava intorno alla figura di Silvio Berlusconi come personaggio più desiderato dagli italiani? Troppo difficile da credere. O troppo facile. Ed è Stefano Accorsi nei panni di Notte a portarsi sulle spalle tanta responsabilità. Lui è l’emblema di una politica vuota, partorita a tavolino tra slogan e marketing. Priva di contenuti. E questo sarebbe uno spaccato dello scandalo Tangentopoli? Sul finale della quarta puntata, Miriam Leone che interpreta Veronica, ambiziosa amante di Michele Mainaghi, imprenditore che decide di togliersi la vita dopo essere stato coinvolto nell’inchiesta Mani Pulite (ed anche nella triste vicenda della vendita di sangue infetto), disposta a tutto per ottenere un programma in tv, dopo una telefonata di raccomandazione a Berlusconi, bussa alla porta del Cavaliere. Ultima spiaggia per fare carriera in tv. Il rimando è chiaro e davvero poco velato, ma, oltre a strappare qualche facile ghigno, è uno scivolone banale per chi vorrebbe raccontare l’Italia che si delineò dopo l’arresto di Mario Chiesa. Eppure, la produzione è stata elogiata nel resto d’Europa. All’indomani del debutto al Festival di Berlino, ad esempio, il Frankfurter Allgemeine Zeitung ha applaudito 1992: "Raramente un paese ha il coraggio di guardarsi allo specchio come in questo caso". Sì, gli specchi di legno.

1992, un alieno chiamato Silvio Berlusconi: la serie mostra con coraggio la carica rivoluzionaria del Cavaliere, scrive di Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano”. C’è un’antipatia sottile e diffusa nei confronti di Stefano Accorsi. La frase «da un’idea di Stefano Accorsi», utilizzata da Sky per la promozione della serie 1992, è diventata un hashtag su Twitter, ovviamente per sfottere. Certo, ormai ci sono i libri di storia, Accorsi mica si è inventato l’epoca di Tangentopoli. Però non basta un cretino qualsiasi per ideare un prodotto come quello che sta andando in onda sulla pay tv. Lo dimostra il fatto che, tanto da destra quanto da sinistra, sono arrivate parecchie critiche. Ed è facile immaginare che tante altre ne arriveranno a breve, quando la figura di Silvio Berlusconi diventerà sempre più presente nella serie. Si può discutere fin che si vuole sull’accuratezza e sull’attendibilità storica di 1992, ma ci sono qualità che emergono oltre ogni ragionevole dubbio. Tanto per cominciare, è scritta benissimo. Leonardo Notte, il pubblicitario interpretato dallo stesso Accorsi, è un personaggio denso, sfaccettato. Il cognome e il fatto che vesta spesso di nero dovrebbero caratterizzarlo come una figura negativa, ma la faccenda è più complessa. Notte ha dei tratti demoniaci, è un Grande Seduttore, nonché un uomo che ha adattato i propri ideali all’epoca in cui vive. Dall’Autonomia Operaia bolognese è passato a Publitalia. Un percorso che hanno fatto in parecchi - sotto forme diverse, se vogliamo - in questo Paese. A Notte interessano i soldi, le donne, in parte anche il potere. Ma tutti i personaggi della serie sono così. La bellezza di 1992 sta nel fatto che non ci sono dietrologie o letture politicamente orientate. Emergono gli uomini e le loro brame. Ciascun protagonista è mosso da ambizioni personali. Di Pietro viene ripetutamente accusato di puntare soltanto a Bettino Craxi, di esserne ossessionato, di volerlo inchiodare con ogni mezzo, a costo di abusare della carcerazione preventiva (cosa che gli viene rinfacciata e che lui non smentisce). I personaggi fittizi che si agitano nel Palazzo di Giustizia di Milano sono spinti chi dal desiderio di vendetta, chi dalla necessità di racimolare soldi. In qualche modo, sono tutti «cattivi». Leonardo Notte, oltre all’egoismo, manifesta anche un enorme talento. Nel suo mestiere è una specie di genio, un Dottor House (o un Don Draper di Mad Men). Soprattutto, capisce per primo quali sono le potenzialità «politiche» del Cavaliere. Una delle scene più belle è quella in cui il politico democristiano e quello socialista - entrambi contattati da Marcello Dell’Utri perché lo aiutino a capire in che direzione va la corrente a Roma e dintorni - si trovano a tavola con Mariotto Segni. Vogliono chiedergli se ha intenzione di diventare il nuovo leader dei «moderati». Verso la fine della cena, ecco comparire Notte. Si siede a tavola e gli basta un dettaglio per capire che Segni non ha futuro: Mariotto non riesce a decidere se ordinare una mousse o un altro dolce, continua a cambiare idea. Uno così, non può andare da nessuna parte. Notte, con l’ausilio di tre escort russe, lo fa indispettire e manda a monte l’incontro. Questo perché ha capito la portata rivoluzionaria di Berlusconi. Dopo una convention (introdotta da Massimo Boldi, quello vero) esce sul balcone a fumare una sigaretta e guarda il cielo assieme a una collega. Parlano di Ufo. «Stasera c’è stato un avvistamento», dice. Si riferisce al Cavaliere, che ha tenuto un discorso. Proprio perché si tratta di una serie tv e non di un saggio storico, a emergere dal racconto di 1992 sono gli uomini. Quella che si tenta, semmai, è un’analisi antropologica. A un certo punto si riporta una frase di Formentini secondo cui gli uomini di Berlusconi sarebbero un esercito di plastica. Ed ecco che la camera scorre inquadrando la coda alla mensa di Publitalia: una sfilata di acconciature diverse ma simili. Appare un tipo umano unico, con minime variazioni. Ecco il lato negativo dell’antropologia berlusconiana. Ma c’è anche quello positivo: la carica sovversiva del «sogno», la spinta del cambiamento in un Paese soffocato, annichilito. Berlusconi è presentato appunto come un alieno che può portare un vento fresco in un Palazzo pieno di dinosauri. Questa ricerca di qualcosa di diverso, di uno scossone, pervade tutte le puntate della serie, con i suoi lati oscuri e le sue lame di luce. A molti non piacerà, perché dopo tutto il Cavaliere rappresenta ancora l’incarnazione del Male. Ma l’affresco dell’Italia è vivido, affascinante. 1992 è un prodotto ambizioso, a tratti letterario. Sarà anche un’idea di Accorsi, ma è una buona idea. Talmente buona che, come spesso capita alle opere di valore, parla del passato e sembra mettere in scena il presente. Con quel pizzico di speranze in più che, ventitrè anni fa, almeno c’erano.

1992, Mediaset contro Sky: "Quella fiction ci danneggia". Mediaset contro Sky. Oggetto del contendere: la fiction della tv di Murdoch su Mani Pulite. S'intitola "1992" e ricostruisce la storia di Tangentopoli, ma la storia così com'è stata messa in scena non è piaciuta affatto ai vertici del Biscione. Paolo Liguori, volto storico di Mediaset, su Il Giornale sottolinea come la fiction abbia falsificato le origini del concorrente. "Un'operazione di propaganda che non bada a spese a uso dei soliti nemici di Berlusconi". Sotto accusa la grande divisione tra buoni e cattivi: "Si qua Di Pietro e Mani Puliti, di là i corrotti, i partiti, Dell'Utri e Publitalia. Falso enorme perfino nei particolari: la Lega non è  nata dopo l'arresto di Mario Chiesa e le televisioni Fininvest, come tutti ricordano, furono in prima linea davanti al Tribunale di Milano". Non piace, quindi, questa ricostruzione considerata troppo "di parte", un'ennesima occasione per attaccare l'acerrimo nemico Silvio. 

Scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: il Di Pietro da fiction non la racconta giusta. Elencare “quello che manca” in un film o in una fiction è facile e comodo, ci si possono riempire i libri: non è un caso che gli autori della serie «1992» (Sky, cominciata martedì scorso) si siano paraculati premettendo che «ogni riferimento a fatti accaduti» eccetera eccetera. Messa così, però, è facile e comodo anche per gli autori: perché i riferimenti a fatti accaduti ci sono eccome, con nomi e cognomi, e il prodotto è stato venduto all’estero con pretese storicizzanti. Alcuni personaggi di pura fantasia quindi vanno benissimo (poi possono piacere o meno) e altri personaggi sospesi tra fantasia e cronaca già sono discutibili: va bene anche questo, e infatti sono gli episodi pretesa aderenza con la realtà a lasciare un po’ così. Si può trasvolare sul dettaglio che lo svincolo autostradale Bologna-Borgo Panigale non c’era (non così) e che pure non esisteva un determinato modello di frigorifero. Si può ritenere imprescindibile che il grattacielo del Pirellone nella fiction appaia già ristrutturato (post incidente aereo del 2002) e che gli spot pubblicitari con la prima campagna ministeriale sull’Aids (quella con le sagome contornate di viola) risalga in realtà all’anno prima, al 1991, come pure la versione del programma «Avanzi» in cui si vedono Serena Dandini e Corrado Guzzanti. Fa niente anche per un divano di design che non era ancora stato disegnato, e pace anche se ormai non c’è scena milanese - ambientata in un bar - che non abbia per location la solita Belle Aurore di via Castelmorrone, sempre quella, due palle: oltretutto lo spacciano come bar vicino al tribunale anche se dista più di sei chilometri. E, oltretutto, nella fiction si vede un ufficiale di polizia giudiziaria che paga e se ne va senza scontrino.

1) Però, egregi autori, verso la fine della seconda puntata compare un mandato d’arresto che sembra disegnato al computer da un bambino: non sono fatti così, a esser precisi non erano neanche più d’arresto: erano i famigerati ordini di custodia cautelare. Nota: quegli interrogatori di gruppo coi tavolini uno affianco all’altro, seriali e con Di Pietro direttore d’orchestra, beh, non esistono e sono ridicoli.

2) Al di là di possibili inesattezze già evidenziate da Mario Chiesa circa il proprio arresto («non esiste nessun verbale che attesti la leggenda della tangente gettata nel water», ha detto) qui non si vuole segnalare un’imprecisione: tuttavia le modalità di quell’arresto, riviste oggi, fanno comunque comprendere quanto fosse diverso l’atteggiamento della magistratura a proposito della custodia cautelare. In Mani pulite, una sola chiamata in correità basterà per incarcerare chicchessia, ma prima di essa Antonio Di Pietro non si fece bastare la confessione di Luca Magni e neppure le intercettazioni telefoniche: predispose banconote segnate (in realtà solo una ogni dieci) e poi microfono e persino una telecamera che non funzionò. Solo allora arrestò Chiesa.

3) Nella fiction si vede un Di Pietro che garantisce riservatezza alla moglie di Mario Chiesa qualora l’avesse aiutato a individuare i conti in Svizzera dell’ex marito. A parte che fu lei a rivelarne l’esistenza agli inquirenti, Di Pietro in realtà la fece attendere per ore e ore in corridoio: e questo proprio per farla vedere ai giornalisti perché scrivessero di lei, cosicché l’ex marito intendesse.

4) A un certo punto un improbabile Di Pietro dice che il processo per direttissima a Mario Chiesa «ho deciso di non farlo». Non andò proprio così, Di Pietro infatti mica poteva decidere diversamente da qualcosa che il suo procuratore capo aveva già annunciato. L’ha raccontato Di Pietro stesso: «Mani pulite s’è fatta perché io - sì, io e solo io -, diciamo per sbaglio, “dimenticai” di depositare gli atti nei tempi prescritti per la direttissima...Borrelli aveva dato pubblicamente l’indicazione di depositare gli atti...erano in vista le elezioni del ’92, la tensione montava... A quel punto, io non ho la forza di dire al dottor Borrelli che non lo faccio perché voglio arrivare a un obiettivo preciso; e allora “mi sbaglio”». Borrelli a suo modo ha confermato: «Non immaginavo che dall’arresto di Chiesa potesse nascere quello che è nato, ma credo che non l’immaginasse nessuno. Non l’immaginava certamente Di Pietro».

5) Non c’è cronaca e sentenza ma soprattutto logica che porti a sostenere che Marcello Dell’Utri abbia pensato d’inventarsi un soggetto politico sin dall’inizio del 1992. Non quando arrestarono Chiesa (l’arresto fu a lungo snobbato) e neanche dopo le elezioni del 5 aprile 1992, che segnò certo un crollo storico della Dc ma perdite minime per il Psi, grande sponsor di Berlusconi. Le cui tv, va ricordato, sin da principio diedero manforte all’inchiesta. È vero che la Lega superò i 3 milioni di voti (quasi il 9 per cento) anche se fanno vedere che un tizio viene candidato quando le liste erano senz’altro già chiuse.

6) Qualche pignoleria. A un certo punto inquadrano il programma «Non è la Rai» trasmesso su Italiauno, ma al tempo andava in onda su Canale 5: passerà a Italiauno solo dal gennaio 1993. Il termine «cinghialone» riferito a Craxi, o cinghiale, non fu di Di Pietro, ma dei cronisti; comparve per la prima volta su l’Indipendente. In un baracchino vicino al Castello Sforzesco si vedono in vedita delle bottigliette di Gatorade che non esistevano. Sciocchezzuola finale: nella fiction si dice che la scuola steineriana «è una delle più care di Milano». Non è vero per niente. Siccome il riferimento è chiaramente ai figli di Berlusconi, andrebbe aggiunto che la sezione scolastica del caso era a Lambrate, e nasceva da una scissione dalla storica scuola steineriana di via Clericetti; era così malmessa che Veronica Berlusconi mandò personalmente degli imbianchini a mettere in ordine le aule.

Bene, ora siamo pronti per le puntate successive.

Tangentopoli:la storia scritta dai vincitori scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista”. Il 1992 mi evoca subito il numero 41, i quarantuno morti suicidi di Tangentopoli, che non hanno potuto scrivere la Storia per ovvie ragioni, ma anche perché la Storia la scrivono i vincitori, e loro erano i vinti. La storia dei Vinti è rimossa con fastidio, dopo che uno dei Pubblici Ministeri di Milano, Gerardo D’Ambrosio, aveva sentenziato, non senza un certo cinismo: «Evidentemente c’è ancora qualcuno che ha il senso dell’onore». Non un dubbio sul fatto che il circo mediatico-giudiziario del disonore che era stato cucito addosso a colpevoli e innocenti sia stato il vero assassino, che ha colpito con violenza la reputazione e la vita di persone che non avevano nessuna possibilità di difendersi, incarcerati, disorientati e sbeffeggiati. Ma dalla parte dei trionfatori, che in occasione della fiction di Sky invadono ogni angolo del pianeta della comunicazione, la storia è stata raccontata come il puro trionfo del Bene sul Male, un gruppo di magistrati-guerrieri senza macchia in lotta contro una classe politica corrotta che ammorbava l’intera società. Sulla scialuppa degli onesti erano saliti ben presto imprenditori in lacrime, giornalisti-coccodè, uomini politici con le tasche traboccanti di rubli, avvocati-accompagnatori alleati del Pubblici Ministeri. Ma la storia di Tangentopoli potrebbe anche essere raccontata come vera Storia Politica, come vicenda che segnò il trionfo massimo di una giustizia di parte, che ebbe come protagonisti magistrati politicizzati e un eroe tutt’altro che “senza macchia”. Che vide complici con le toghe innanzi tutto quegli imprenditori che avevano ben lucrato sul finanziamento illegale ai partiti, a tutti i partiti, e che mai se ne erano lamentati, finché l’arresto di otto di loro fece rendere conveniente agli altri immaginare di esser stati sfruttati. Sono gli stessi che, proprietari di giornali, decisero la campagna del Grande Sputtanamento degli uomini politici, quelli sconvenienti, i non allineati. Quelli che si salvarono dal carcere ripudiando se stessi e la propria storia e accoltellando quelli che erano stati i loro benefattori. La vacca non dava più latte. Non c’era più pane e loro scelsero le brioches. Il girotondo intorno ai protagonisti principali, magistrati e imprenditori, era fatto di avvocati di grandi e piccoli studi, che salivano festosi, ma in ginocchio, le scale fino al quarto piano del Palazzo di giustizia tenendo per mano i proprio assistiti pronti all’autodafè, mentre il Di Pietro di turno li riceveva in ciabatte, rideva e agitava manette. Quelli bravi, quelli amici, riuscivano a salvare l’assistito dal carcere e ne venivano ricompensati. In vario modo e da diverse parti. Avevano dimenticato il codice a casa, molti di questi avvocati, badavano al sodo e basta. C’erano poi i giornalisti-coccodè, i cronisti giudiziari che ogni mattina fiutavano la preda, giovani entusiasti che indossavano con orgoglio la maglietta che inneggiava all’eroe di Mani Pulite, lavoravano in pool e non tornavano mai in redazione a mani vuote, con il carniere pieno di verbali d’interrogatorio ( non erano ancora di moda le intercettazioni ), sicuri che avrebbe apprezzato il direttore, ma soprattutto l’editore, lo stesso che tremava se il campanello di casa suonava troppo presto il mattino. I fiaccolanti forse erano i più innocenti, cittadini che facevano il girotondo intorno al Palazzo, nella speranza-illusione che qualcosa cambiasse. Ma non c’erano solo loro, c’era un po’ di tutto, in quelle manifestazioni, compresi i cinici di nuovi movimenti politici che volevano solo sostituirsi agli altri, e anche quelli che erano sulla scialuppa di salvataggio, comunisti e democristiani di sinistra che si erano finanziati come gli altri, ma che si erano opportunamente alleati ai magistrati. Una folla di indifferenti, mentre ogni giorno saltavano le regole dello Stato di diritto, mentre veniva calpestata la Costituzione, mentre si violavano le competenze territoriali, la libertà personale e i diritti della difesa. Mentre si usava il carcere come tortura per far parlare la gente. Mentre si uccideva. Tanto la Storia la scrivono i vincitori, anche alle spalle dei quarantuno che non ci sono più.

Caro Pietro, servirebbero altri cent’anni…, scrive Piero Sansonetti il 30 marzo 2015 su “Il Garantista”. «Ti romperemo le ossa». Giorgio Amendola sibilò questa frase nell’orecchio di Pietro Ingrao, passandogli vicino nella sala dove si celebrava l’XI congresso del Pci, nel 1966. E non era un modo di dire. Nei mesi successivi Pietro Ingrao e tutti gli ingraiani furono emarginati, esclusi dalla vita politica del gruppo dirigente del Pci, del quale erano stati l’anima. «Ti romperemo le ossa» è una frase agghiacciante, specie se pronunciata da un grande intellettuale, comunista e borghese. Che fosse una frase metaforica non cambia molto, e dice invece molto su cosa fosse esattamente il Pci post-togliattiano, impasto di stalinismo profondo, di conservatorismo, di burocrazia, eppure sempre sulla breccia nella battaglia riformista. Oggi in Italia la sinistra non esiste più. Nel senso letterale della parola. Resta in piedi solo questo tentativo di Maurizio Landini, che però più che altro è un tentativo estremo di difesa, di resistenza. Di difesa dal renzismo. Il renzismo nasce nelle aree del centrosinistra ma si è strutturato come il più serio, robusto e insidioso tentativo di restaurazione classica, conservatrice e di destra. Il partito di Renzi è il partito di massa più di destra che abbia mai operato dalla caduta del fascismo ad oggi. Cos’è che ha spinto così a destra Renzi? L’assenza della sinistra. Renzi non è un leader ideologico, è un amministratore della politica, e non certo un creatore. Si è trovato a operare in un quadro nel quale la caduta e la scomparsa della sinistra ha creato un’onda, o quasi uno tsunami, che spinge tutto a destra, e lui ha seguito quest’onda, ha fatto surf. Quando è morta, in Italia, la sinistra? Non saprei dire la data di morte. Posso dire qual è secondo me la data nella quale iniziò l’agonia. È proprio il 1966, XI congresso del Pci. E non solo. Il ’66 è l’anno successivo alla chiusura del Concilio ed è l’anno che da alla luce le prime avvisaglie del ’68. È un anno di grande fermento a sinistra. E l’XI congresso è il congresso nel quale il Pci decide come proseguire il suo cammino dopo la scomparsa di Togliatti. Fa i conti con la necessità di entrare nella modernità. Ma ha paura ad entrare nella modernità. Si confrontano e si danno battaglia due ipotesi riformiste molto distanti l’una dall’altra. La prima è quella di Amendola e del segretario Longo, i quali pensano che il Pci debba restare dentro l’idea stalinista di sempre, e cioè la convinzione che il fine della politica sia sempre e comunque e esclusivamente la presa del potere. La via per il potere, in quel momento, era l’avvicinamento al centrosinistra che, sebbene avesse subìto il colpo del ’64 (minacciato golpe militare e alt alle riforme più ardite) restava un solco sul quale camminare, e poteva essere condizionato da sinistra, e poteva, nei tempi medi, includere il Pci nel governo. La seconda ipotesi era quella di Ingrao, che pensava che si dovesse mettere in discussione il modello liberista, come si configurava allora, e che questo fosse possibile sfruttando la forza innovativa e ribelle che veniva dalle nuove generazioni e dal mondo cattolico, spaccando lo schieramento politico dell’establishment e offrendo al paese una modernità nella discontinuità. Ingrao immaginava il ’68, che ancora non era venuto, lo prevedeva, cercava già di indicargli un sentiero politico. E per fare questo poneva un’altra grande questione: la fine del centralismo democratico, l’apertura della discussione libera, della ricerca, del dissenso dentro la partito. Ingrao non era affatto un liberale. Qualche anno fa, l’ultima volta che l’ho intervistato, non sono riuscito a fargli spendere qualche parola buona per la “libertà borghese”, non lo interessava. Ingrao però ha sempre capito che la libertà, un certo grado di libertà, è essenziale per aprire le porte al pensiero e alla ricerca. E al dubbio. E Ingrao pensa che il pensiero, e la ricerca, e il dubbio, siano l’essenziale della politica. Per questo, Ingrao, l’uomo che più si identificava con la storia e la vita del Pci, secondo me, non ha mai avuto niente a che fare con il Pci. E’ la verità: niente a che fare con il Pci. Ingrao fu sconfitto all’XI congresso e messo fuori dai giochi politici. Il Pci restò il partito di Amendola, anche se poi fu chiamato Berlinguer a governarlo. La libertà di pensiero e di dubbio fu bandita. E lo stalinismo restò, temperato dalla burocrazia. La burocrazia diventò la chiave di tutto. Cos’è la burocrazia, in politica? Un meccanismo che attenua, leva via gli spigoli, addolcisce, e garantisce stabilità e strada dritta. È nemica degli eccessi, è utile per cancellare gli orrori maggiori dello stalinismo, ma soprattutto è nemica del pensiero, dell’anticonformismo. Il Pci è stato il partito regno della burocrazia. Cosa poteva farci, Pietro Ingrao, nel Pci? Domani compie cent’anni. Un secolo di battaglie politiche grandiose. Con questo cruccio: spesso ha avuto ragione, molte volte ha avuto paura, sempre ha perso. E con un grande cruccio per noi: se avesse vinto all’XI, e se in Italia fosse nata una sinistra anti-liberista e libertaria, che avesse tenuto sulla corda le classi dirigenti, non avesse accettato la subalternità al pensiero dominante, la storia d’Italia sarebbe stata diversa? In Italia quella sinistra, che è l’unica che può vivere nella modernità, non è mai nata. Ci portiamo ancora appresso la sconfitta dell’XI.

DA QUALE PULPITO VIEN LA PREDICA. CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO E DELLA SOCIETA' CIVILE.

Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa. Al Mef c'è chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza. Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. E l'Anac corre ai ripari: dipendenti onesti, segnalate a noi, scrive Thomas Mackinson su “Il Fatto Quotidiano”. Al Tesoro c’è chi si porta via pure i timbri. Se parlare di 60 miliardi l’anno quasi non impressiona più, si possono però citare i 130 dipendenti della Difesa per i quali nel giro di due anni l’amministrazione ha avviato procedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti. Certo potevano essere anche di più, visto che l’amministrazione conta 31.589 dipendenti tra militari e civili. Fatto sta che tra il 2013 e il 2014 per 109 di loro è scattata la sospensione cautelare dal servizio con privazione della retribuzione, cinque sono stati licenziati in tronco. A cercare bene si scopre che neppure la Presidenza del Consiglio, coi suoi 3.382 dipendenti, è immune agli illeciti: negli ultimi due anni Palazzo Chigi ha dovuto vedersela con un dirigente accusato di peculato e sei procedimenti disciplinari legati a vicende penali, una delle quali per rivelazione di segreto d’ufficio. Nel frattempo al Ministero dell’Economia e Finanze si sono registrati 15 casi su 11.507 dipendenti, compreso quello che s’è portato a casa i timbri dell’ufficio, e vai a sapere per farne cosa.

La mappa anche le guardie fanno i ladri. Pillole da una casistica che disegna una inedita “mappa della corruzione” nelle amministrazioni che sono il cuore dello Stato. La si ottiene analizzando una per una le “relazioni annuali sull’attività anticorruzione” che i funzionari responsabili della prevenzione delle amministrazioni pubbliche devono predisporre entro il 31 dicembre di ogni anno, così come previsto dalla legge Severino (n.190/2012), le norme in fatto pubblicità e trasparenza (decreto n. 33/2013) e le successive “disposizioni sulla condotta per i pubblici dipendenti” (n. 62/2013). Prescrizioni cui ha contribuito in maniera importante l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), fornendo le linee guida del Piano nazionale anticorruzione, elaborando schemi operativi e modelli organizzativi e operativi per le amministrazioni e predisposto formulari destinati alla raccolta, gestione e diffusione dei dati nei piani triennali delle singole PA. Un articolato sistema di prevenzione e contrasto che – visti i numeri – sembra ancora insufficiente a contenere un fenomeno che si consuma prevalentemente nelle amministrazioni statali. Il bubbone, infatti, è tutto lì, come certificano le 341 sentenze pronunciate negli ultimi 10 anni dalla Corte dei Conti per casi di corruzione e concussione: il 62% ha riguardato i dipendenti dello Stato, a pari merito col 12% quelli dei comuni, sanità, enti previdenziali e assistenziali. Residuali, al momento, i reati che riguardano province, regioni e università. Dunque il problema è nel cuore dello Stato. E la tendenza non sembra cambiare, anzi. Dai documenti aggiornati a dicembre si apprende anzi di amministrazioni che hanno visto raddoppiare gli episodi di illecito penale nel giro di un anno. Al Ministero per i Beni culturali ad esempio erano stati 12 nel 2013, nel 2014 sono stati 24. Altri rapporti fanno intravedere la penetrazione verticale dell’inquinamento corruttivo. Non fa gli argine, ad esempio, il Consiglio di Stato. Siamo in casa di giudici, non ci si aspetterebbe che ladri e corrotti avessero dimora. Invece su 869 dipendenti sono stati avviati 15 provvedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti, due sono terminati con il licenziamento. E che cosa succede, allora, a casa delle guardie? La Finanza reprime gli illeciti. Ma molto lavoro arriva direttamente dai suoi uffici, e su dimensioni di scala impressionanti. La Gdf conta 433 dirigenti, 2.477 ufficiali, 56mila tra ispettori, appuntati e finanzieri. Negli ultimi due anni le Fiamme Gialle hanno avviato ben 783 procedimenti disciplinari per fatti penali a carico dei propri dipendenti: 17 riguardano ufficiali, 766 personale non dirigente o direttivo. Con quali effetti e sanzioni? Una degradazione generale: 658 sanzioni disciplinari di corpo, 40 sospensioni disciplinari, 66 perdite di grado. Nota di colore: nel cortocircuito tra guardie e ladri spunta anche il finanziere “colluso con estranei per frodare la Finanza”. La via italiana all’anticorruzione, visti questi, sembra ancora in salita. La difficoltà è palese, avvertita e denunciata sia dall’interno degli uffici pubblici e sia all’esterno, come in più occasioni ha segnalato la stessa Anac. I responsabili della trasparenza lo dicono chiaramente: a due anni dalla legge che è il perno delle politiche di contrasto al fenomeno, le amministrazioni non hanno poteri effettivi, non ricevono risorse adeguate, devono muoversi in un quadro normativo sempre più complesso e farraginoso che affastella leggi su leggi. Solo gli obblighi di pubblicazione hanno raggiunto quota 270. “Un monitoraggio efficace è difficilmente attuabile”, ammette Luigi Ferrara, da sei mesi responsabile anticorruzione del Mef, “anche in considerazione del fatto che l’Amministrazione non ha poteri d’indagine e che i terzi potenzialmente interessati sono molto numerosi”. E abbiamo visto quanto.

Una macchina senza benzina. Che non va avanti. Il dito è puntato sull’insufficienza di strumenti e risorse per debellare la natura pervasiva e sistemica della corruzione. Si è fatto un gran parlare dei fondi per l’authority, spesso centellinati in nome del risparmio. Per nulla di quelle che servono alle amministrazioni per utilizzare gli strumenti via via codificati dal legislatore per fare opera di prevenzione dall’interno. L’impressione, ammette un funzionario, è che si vuol fare la guerra a parole, a costo zero. E questo atteggiamento vanifica gli sforzi. Un esempio? Il personale individuato dalle amministrazioni per vigilare sui settori a maggior rischio si sarebbe dovuto formare “senza ulteriori oneri per lo Stato, nella Scuola superiore della pubblica amministrazione”. Questo dice la legge 190. Ma quasi mai succede. “Alcune misure e raccomandazioni, per lo più riferite alla Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, sono state superate a seguito della soppressione della Scuola medesima”, fa notare con sottile ironia il responsabile anticorruzione del Mef, Luigi Ferrara. L’Anac gli dà ragione, sottolineando come il legislatore avesse assegnato alla formazione un ruolo essenziale, ma a distanza di un anno era ancora “la tessera mancante del mosaico”. Tanto che le attività progettate dalla Scuola nazionale dell’amministrazione “non si può dire siano andate a regime”. A volte le carenze riguardano cose banali: “Mancano gli applicativi informatici ad hoc per il supporto dell’attività di monitoraggio e di attuazione delle misure anticorruzione”, mette a verbale il capo dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane del Miur, Sabrina Bono. Del resto, spiega, il nuovo complesso di norme che ha investito le amministrazioni si scontra con la mancanza di personale dedicato. Per far seguito agli impegni previsti dalla normativa anticorruzione la funzionaria si è avvalsa di un dirigente e di due funzionari che “hanno svolto tali funzioni congiuntamente ai compiti assegnati in ragione dell’ufficio d’appartenenza”. Uno modo delicato per dire che non c’è personale da dedicare alla missione, a fronte di un aumento esponenziale degli adempimenti. In questo quadro, l’invito a ciascuna amministrazione a disegnare una propria politica di prevenzione rischia di cadere nel vuoto.

L’authority chiama in causa la politica. Sono criticità ben note all’Anac che negli anni ha lanciato più volte l’allarme sul rischio che le iniziative assunte si traducano in un mero adempimento formale degli obblighi, senza effetti reali sul malcostume nella cosa pubblica. Già nel primo anno di applicazione della 190/2012 l’Autorità chiamava in causa la politica e inviava al Parlamento una durissima relazione: “Appare particolarmente problematica – si legge – la constatazione che il livello politico non abbia mostrato particolare determinazione e impegno”. La rampogna era diretta al legislatore che affastellava leggi su leggi per spegnere l’incendio della corruzione salvo dimenticarsi di aprire i rubinetti. Ma era rivolta anche ai vertici delle amministrazioni pubbliche che all’invito a render conto delle proprie attività, segnatamente in fatto di trasparenza, rispondevano alzando un muro di gomma. Dopo un anno, per dire, solo l’8% dei ministeri si era premurata di indicare un responsabile interno. Molte non trasmettevano i dati, altre non davano seguito agli obblighi in materia di pubblicazione. Con la beffa finale, segnalata direttamente da Cantone pochi mesi dopo, per cui – a fronte del quadro sopra descritto – “la quasi totalità dei dirigenti pubblici ha conseguito una valutazione non inferiore al 90% del livello massimo atteso”.

Quelle denunce mai fatte. Ecco l’ultima speranza. Il dato fa poi il paio con la scarsa propensione dei dipendenti degli “uffici” a denunciare “fatti penalmente rilevanti per i quali siano venuti a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro”. Doveva essere la mina che fa saltare il sistema dall’interno, il famoso whisteblowing di matrice anglosassone, tanto enfatizzato dai mezzi di informazione all’indomani dell’approvazione della legge Severino. E quanti “sussurrano”? Pochi, quasi nessuno. Le “Relazioni” dei responsabili anticorruzione confermano che le segnalazioni si contano sulle dita di una mano e che quasi mai arrivano da dentro gli uffici, nonostante la promessa protezione contro rappresaglie e discriminazioni. Se ci sono, quasi sempre arrivano da fuori. Esempi. La Difesa, con 30mila dipendenti, registra un solo caso che abbia comportato una misura di tutela del segnalante. Il Ministero dell’Istruzione ha 4.223 dipendenti in servizio. Il responsabile anticorruzione nel suo rapporto conferma che la procedura è attivata via mail. Quanti l’hanno usata in due anni? Nessuno. Segno che il timore e l’omertà tengono ancora banco negli “uffici”. E forse per questo lo scorso 9 gennaio l’Anac ha diramato una nota per segnalare la propria competenza a ricevere segnalazioni.

Consiglieri, commessi e segretari. Ecco il Parlamento dei parenti. La burocrazia più ricca di intrecci familiari d’Italia? È quella delle Camere. Legami L’ex tesoriere della Margherita Lusi aveva il fratello in Senato e il cognato alla Camera, scrive Sergio Rizzo “Il Corriere della Sera”. Chi guarda con apprensione alla fusione fra le amministrazioni di Camera e Senato, per possibili traumi o crisi di rigetto, si può tranquillizzare. Il ruolo unico è già stato realizzato, con reciproca soddisfazione, per via familiare. La recente nomina all’impegnativo incarico di segretario generale di Montecitorio di Lucia Pagano, figlia dell’ex consigliere della Camera Rodolfo Pagano e moglie del nuovo capo dell’informatica di Palazzo Madama, Mauro Fioroni, ne è la certificazione più limpida. In Italia non esiste burocrazia con intrecci parentali e dinastici così diffusi e profondi come in quella del Parlamento. A tutti i livelli: da quelli più bassi ai più elevati. E altri casi, oltre a quello di Lucia Pagano, rendono bene l’idea. Il suo vice Aurelio Speziale, per esempio, è sposato con Gloria Abagnale, consigliere del Senato. Giovanni Gifuni, consigliere della Camera, è figlio dell’ex potentissimo segretario generale di Palazzo Madama Gaetano Gifuni. Mentre l’ex vicesegretario generale della Camera Carlo Goracci è il papà di Alessandro Goracci, alto funzionario del Senato. E se il padre di Ugo Zampetti, fino a qualche giorno fa capo indiscusso della burocrazia di Montecitorio, era il responsabile della biblioteca di Palazzo Madama, quello dell’attuale segretario generale del Senato Elisabetta Serafin era solo un commesso. Commesso come anche il papà di Daniela D’Ottavio, consigliera d’Aula. A dimostrazione del fatto che l’ascensore sociale, fermo ormai ovunque, qui non è mai andato in manutenzione. «vietato» Anche se qualche volta s’inceppa. Figlio di un ex consigliere della Camera, Fabrizio Castaldi ne sarebbe diventato a 43 anni uno dei segretari generali più giovani di sempre se la sua candidatura non fosse naufragata in extremis. Come quella di Giacomo Lasorella, incidentalmente fratello della giornalista Rai Carmen Lasorella. E quella del possibile terzo incomodo Costantino Rizzuto Csaky, consorte di Maria Teresa Stella, consigliera della Camera al servizio biblioteca. Parentela, quest’ultima, che ci riporta a un illustre caso del passato. Fece scalpore, cinquant’anni orsono, il matrimonio fra Antonio Michela-Zucco, nipote dell’omonimo inventore della rivoluzionaria macchina di stenotipia, e Magda Sammartino. Erano entrambi stenografi del Senato e la cosa venne considerata causa di incompatibilità. Per rimuoverla fu deciso il trasferimento della moglie alla Camera. Dove Magda Sammartino fu protagonista di una splendida carriera arrivando, prima donna nella storia, all’incarico di vicesegretario generale. Ma erano altri tempi. i Oggi la presenza di coniugi nelle stanze dei bottoni della stessa amministrazione non scandalizza più davvero nessuno. Marito e moglie sono il capo servizio controllo parlamentare Carlo Lomaglio e la direttrice dell’ufficio pubblicazioni della Camera Consuelo Amato: figlia del magistrato ed ex capo dell’amministrazione penitenziaria Nicolò Amato. Marito e moglie sono Stefano Cicconetti, dirigente di Montecitorio ora in pensione, e la sua collega ancora in servizio Maria Teresa Calabrò: figlia del potentissimo ex presidente del Tar Lazio e dell’Agcom Corrado Calabrò. Marito e moglie sono Alessandro Palanza, ex vicesegretario generale della Camera e la funzionaria Martina Mazzariol. Attualmente vicepresidente della Fondazione Italiadecide di Luciano Violante, Palanza ha guidato a lungo un’amministrazione nella quale aveva un ruolo di rilievo anche sua sorella Maria Rita. Marito e moglie sono Pietro Calandra, alto dirigente del Senato poi finito all’autorità di vigilanza dei lavori pubblici su indicazione del Pd e la funzionaria di Palazzo Madama Stefania Boscaini. Ma si potrebbe andare avanti chissà quanto, notando come il gioco degli intrecci e delle parentele non sia limitato ai soli burocrati. Dice tutto quello intorno alla funzionaria della Camera Giuliana Coppi. Figlia del principe del Foro Franco Coppi, legale di Silvio Berlusconi, è sposata a sua volta con un altro avvocato. Non uno dei tanti. Il suo nome è Pierantonio Zanettin, senatore di Forza Italia eletto al consiglio superiore della magistratura in quota al partito di Berlusconi. Si potrebbe anche ricordare come il vicesegretario della Camera Guido Letta sia il nipote di Gianni Letta e cugino di Enrico Letta. Oppure che il funzionario del Senato Luigi Ciaurro sia figlio dell’ex ministro liberale Gianfranco Ciaurro, scomparso ormai quindici anni fa. O che Valentina Loiero, figlia dell’ex governatore della Calabria Agazio Loiero, e Giulia Laganà, figlia dell’ex parlamentare del Pd Tana De Zulueta, facciano parte dello staff della presidente Laura Boldrini. La cui segreteria, peraltro, era stata per otto mesi guidata da Marco Cerase, genero di Alberto Asor Rosa, prima che venisse trasferito ad altro incarico per far posto all’astro emergente Castaldi. Come dimenticare poi che l’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, ex senatore, aveva il fratello direttore del servizio del Senato, mentre suo cognato Francesco Petricone è funzionario della Camera? E che Cristiano Ceresani, un altro funzionario della Camera già vicecapo legislativo di Gaetano Quagliariello e oggi addirittura capo con il ministro Maria Elena Boschi, è il marito di Simona De Mita, quindi genero dell’ex presidente del Consiglio e attuale sindaco di Nusco Ciriaco De Mita?  

Più di 5 milioni di italiani con la tangente o la raccomandazione, scrive Paolo Comi su “Il Garantista”. C’è una ricerca del Censis, che è stata presentata a Roma, molto interessante su svariati argomenti (la ricerca è sul rapporto tra mondo produttivo e pubblica amministrazione) e che ci fornisce in particolare un dato sul quale sarà giusto riflettere. Questo: quattro milioni e mezzo di italiani ammettono di avere fatto ricorso a una raccomandazione per ottenere una maggior velocità (e un buon esito) alle pratiche disperse nei meandri dell’amministrazione pubblica. E addirittura 800 mila ammettono di avere fatto un regalino a dirigenti e funzionari per avere in cambio un atto dovuto. Regalino, a occhio, è qualcosa di simile alla tangente. Le cifre poi vanno lette bene. Se quattro milioni e mezzo ammettono, è probabile che altri quattro milioni e mezzo non ammettono. E così per gli 800 mila. Le cifre vere potrebbero essere 9 milioni di raccomandazioni e un milione e seicentomila piccole tangenti. Se consideriamo che non tutta la popolazione attiva (e cioè circa 40 milioni di persone) ha avuto bisogno di velocizzare pratiche nella pubblica amministrazione (diciamo circa la metà) otteniamo questo rapporto: su 20 milioni di persone che hanno avuto problemi con la pubblica amministrazione, 9 milioni hanno fatto ricorso a una raccomandazione, perché conoscevano qualcuno, un milione e seicentomila ha pagato una tangente, altri 9 milioni e quattrocentomila se ne sono stati buoni buoni in fila ad aspettare. E’ abbastanza divertente intrecciare questi dati coi dati su coloro che chiedono più rigore, più pene, severità e ferocia contro la corruzione. Corrotti, corruttori e ”punitori” di corruttori e corrotti, spesso, sono la stessa persona. La ricerca del Censis ci consegna una realtà nitida e incontrovertibile: almeno la metà degli italiani fa uso di forme soft di corruzione. E le forme, probabilmente, sono soft perché non esistono le possibilità che siano hard. Perché questi nove milioni non hanno né potere né soldi. Naturalmente di fronte a questo dato si può dire: colpa dei politici che danno il cattivo esempio. Beh, questa è una stupidaggine. Non c’è un problema di cattivo esempio, perché anzi, da almeno vent’anni, i politici e i giornalisti e tutti i rappresentanti delle classi dirigenti, delle professioni, dei mestieri e della Chiesa, non fanno altro che indicare la corruzione come il peggiore dei mali che ammorba la nostra società. Il problema è che spesso, gli stessi, ricorrono in qualche modo alla corruzione e non si sentono per questo incoerenti. Qualche caso un po’ clamoroso di ipocrisia è saltato fuori recentemente dalla cronaca, fior di imprenditori antimafia e anticorruzione presi con le mani nel sacco. La gran parte dei casi però non emerge. Potete star sicuri, ad esempio, che una buona parte degli opinionisti, dei giornalisti e dei politici che tutti i giorni si impancano e vi fanno la lezione di moralità, qualche mancetta l’hanno lasciata, qualche pagamentino in nero lo hanno accettato, qualche rimborso spese di troppo… L’altro giorno, in una intervista divertentissima, il vecchio Pippo Baudo raccontava, sorridendo, di quando il principe dei moralizzatori, Beppe Grillo, si faceva pagare dalla Rai il rimborso spese per il soggiorno a Roma, se lo metteva in tasca, e poi andava a mangiare e a dormire a casa di Pippo. Il vecchio Baudo se la rideva, e ha anche raccontato di quel giorno che Beppe gli ha detto: «Magari, per sdebitarmi, lascio una mancia alla Nena». La Nena era la donna di servizio di Baudo, e Baudo subito ha detto a Beppe che gli pareva un’ottima cosa, e gli ha chiesto quanto pensava di lasciarle. Grillo, vecchio genovese, ha risposto: «Che dici, cinquemila?». «Non sarà troppo?, gli ha ribattuto, ironico, Pippo Baudo. E allora Grillo ha sentenziato: «No, meno di 5000 no, allora è meglio niente». E non gli ha lasciato niente… Così il rimborso se l’è preso tutto intero. Non sarà colpa dell’esempio, ma comunque è colpa dei politici. La raccomandazione e la tangente sono un frutto del modo nel quale è organizzata la vita pubblica. E i politici di questo sono responsabili. La mancata trasparenza (nella pubblica amministrazione come negli appalti) è la causa vera della corruzione. Perché la rende possibile e perché la rende indispensabile. Però di tutto questo frega poco a tutti. Prendiamo la questione degli appalti. E’ chiaro come l’acqua che il sistema complicatissimo vigente (in Italia ci sono oltre 30 mila stazioni appaltanti, e non si sa a chi rispondano, e non si sa chi decide, e ognuna adopera criteri tutti suoi per valutare, e non sia sa chi e come può controllare ed eventualmente indagare) consegna poteri discrezionali enormi a un certo numero di persone e -spesso – ad alcuni politici. Che naturalmente esercitano questo potere. Alcuni, meritoriamente, in modo onesto – ma perché sono disperatamente onesti loro, incorruttibili – alcuni in modo meno onesto, o comunque traendone qualche utilità. Moltissime volte l’appalto viene assegnato senza gara. Altre volte col sistema del ribasso dei prezzi, che è un sistema assurdo perché consegna un potere immenso a chi decide e presuppone un rapporto forte e sregolatissimo tra impresa e stazione appaltante. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che, in seguito a una perizia seria, si può stabilire che costruire in quel luogo una scuola con certe caratteristiche e di una certa grandezza costa una cifra tot. Diciamo 10 milioni. L’appalto non può essere dato a chi chiede meno. Se uno mi offre di fare quella scuola a 5 milioni, mi sta fregando. O pensa di fare la scuola con la carta pesta, o pensa di farla piano piano e che tra due anni chiederà una revisione prezzi e otterrà 15 milioni ( e poi magari la farà lo stesso di carta pesta…). L’appalto deve essere concesso a una cifra fissa all’azienda che da le maggiori garanzie. E da un numero ridottissimo e quindi controllabile di stazioni appaltanti. Se fosse così sarebbe molto difficile corrompere qualcuno. E la stessa cosa per le pratiche della pubblica amministrazione. Vanno semplificate, spesso abolite, deburocratizzate e risolte in tempi certi. Ottenere qualcosa del genere sarebbe una riforma seria. Una riforma dello Stato molto, molto più utile e profonda dell’abolizione del Senato e roba simile. Perché nessuno le chiede queste leggi? Perchè la politica e l’intellettualità italiana sono nelle mani di un cerchio magico (che si è costruito, trasversale, attorno al triumvirato Anm-Travaglio- Salvini) il quale se ne frega delle riforme e chiede solo pene severe. Per loro non contano le leggi, le idee, contano gli anni di carcere e basta. Adesso hanno stabilito che la pena massima per la corruzione sale da otto o dieci anni. E sono felici, e brindano, e sentono le manette tintinnare allegre. Riforma forcaiola e inutile. Il problema non è di tenere un povero cristo in prigione per due anni di più, il problema è di rendergli impossibile la corruzione. Ma questa idea non piace a nessuno. Non piace a Salvini, non piace a Travaglio, non piace all’Anm, non piace, probabilmente, neanche a Renzi, e nemmeno ai 4 o 9 o 10 milioni di italiani delle raccomandazioni e dei regalini. A loro piace solo sapere che impiccheranno Lupi con una corda d’oro.

Repubblica inetta, nazione corrotta, scrive Massimo Cacciari su “L’Espresso”. Nonostante gli angeli vendicatori di Tangentopoli la corruzione dilaga ancora in Italia. E la spiegazione si trova in Machiavelli: è l’incapacità di governare a produrre malaffare e conflitti d’interessi. Corruzione, corrotti, corruttori. Non si parla d’altro. Ma come? Non avevamo stretto un patto col destino dopo Tangentopoli? Che mai più saremmo incorsi in simili peccati? Non erano discesi dal Sinai eserciti di Di Pietro, con il loro seguito di angeli vendicatori? E ancora non vi è chi tema le loro pene? Neppure i nipotini di Berlinguer e i giovani scout? Nulla dunque può spezzare l’aurea catena che dalle origini della patria va ai Mastellas e da lì ai Boccias, e abbraccia in sé destri e sinistri, senes, viri et iuvenes? Ah, se invece di moraleggiare pedantemente, leggessimo i padri! «Uno tristo cittadino non può male operare in una repubblica che non sia corrotta» (Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Libro III, cap.8). Niccolò vedeva dall’Albergaccio meglio che noi ora da Montecitorio. Tristi cittadini sempre ci saranno. Ma in una repubblica che non sia, essa, corrotta, poco potranno nuocere e facilmente essere “esiliati”. Gli “ordini” contano, le leggi, che non sono fatte dai giudici. Le leggi non cambiano la natura umana, ma la possono governare. È la repubblica corrotta che continuamente produce i corrotti. E quando una repubblica è corrotta? Quando è inetta. Quando risulta impotente a dare un ordine alla molteplicità di interessi che la compongono, quando non sa governare i conflitti, che sono la ragione della sua stessa vita, ma li patisce e li insegue. Se è inetta a mutare in relazione all’“occasione”, se è inetta a comprendere quali dei suoi ordini siano da superare e quali nuovi da introdurre, allora è corrotta, cioè si corrompe e alla fine si dissolverà. Corruzione è anzitutto impotenza. E impotenza è incapacità di “deliberare”. Una repubblica strutturata in modo tale da rendere impervio il processo delle decisioni, da rendere impossibile comprendere con esattezza le responsabilità dei suoi diversi organi, una repubblica dove si è costretti ogni volta alla “dannosissima via di mezzo” (sempre Niccolò docet), alla continua “mescolanza” di ordini antichi e nuovi, per sopravvivere - è una repubblica corrotta e cioè inetta, inetta e cioè corrotta. Ma quando questa infelice repubblica darà il peggio di sé? Con megagalattiche ruberie da Tangentopoli? Purtroppo no. Piuttosto (“banale” è il male), allorchè diviene quasi naturale confondere il privato col pubblico, concepire il proprio ruolo pubblico anche in funzione del proprio interesse privato. Magari senza violare norma alcuna - appunto perché una repubblica corrotta in questo massimamente si manifesta: nel non disporre di norme efficaci contro i “conflitti di interesse”, di qualsiasi tipo essi siano. Una repubblica è corrotta quando chi la governa può credere gli sia lecito perseguire impunemente il «bene particulare» nello svolgimento del proprio ufficio. Che questo “bene” significhi mazzette, o essere “umani” con amici e clienti, “essere regalati” di qualche appartamento, manipolare posti nelle Asl o farsi le vacanze coi soldi del finanziamento pubblico ai partiti, cambia dal punto di vista penale, ma nulla nella sostanza: tutte prove della corruzione della repubblica. Poiché soltanto “il bene comune è quello che fa grandi le città” (Discorsi, Libro II, cap.2). Il politico di vocazione può riuscire nel difficile compito di tenerlo distinto sempre dal suo privato. Il politico di mestiere, mai. Quello che si è messo alla prova nei conflitti della repubblica senza corrompersi, può farcela. Il nominato, il cooptato, che abbia cento anni o venti, mai. Ma abbiamo forse toccato il fondo. E questo deve darci speranza. Per vedere tutta la virtù di Mosè, diceva Niccolò, era necessaria tutta la miseria di Israele.

ALL’INIZIO FU TANGENTOPOLI. L’ultimo bilancio dell’inchiesta mani pulite, condotta dal pool di magistrati della procura di Milano, risale al febbraio del 1999. Anche perché da allora la stessa inchiesta mani pulite può dirsi morta, mentre Tangentopoli continua ad imperare. A sette anni dall’avvio delle indagini sulla corruzione politica e finanziaria che va sotto il nome di Tangentopoli, cominciate il 17 febbraio 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, il solo pool di Milano aveva indagato 3.200 persone, aveva chiesto 2.575 rinvii a giudizio e aveva ottenuto 577 condanne, di cui 153 con sentenza passata in giudicato. Le statistiche ci dicono ancora che fino alla fine 1997 la guardia di finanza aveva accertato reati fiscali legati a Tangentopoli per un importo di 3.609 miliardi. Sono cifre che bastano da sole a dare un’idea della diffusione in Italia del sistema della corruzione che ha riguardato arricchimenti personali, ma anche e soprattutto maniere illecite di finanziamento dei partiti mediante il sistema delle tangenti, le cosiddette bustarelle, pagate da imprenditori ad esponenti politici. Quello che le statistiche non possono però raccontarci riguarda i criteri in base ai quali, non solo il pool di Milano, ha portato avanti queste inchieste. Anche perché, pur essendo – per ammissione degli stessi magistrati inquirenti - la corruzione estesa a tutti i partiti, nessuno escluso, decapitando di fatto solo una parte della classe politica e permettendo ad un’altra di salire al potere, l’inchiesta giudiziaria mani pulite ha avuto un notevole impatto sugli assetti istituzionali del Paese.

Mose, ultimo capitolo della tangentopoli della Seconda Repubblica. Da Bertolaso a Galan, passando per Penati, scrive Pietro Salvatori su “L’Huffingtonpost” All’inizio fu Tangentopoli. Una purga benefica per il sistema, dicevano. Qualcosa non deve essere andato per il verso giusto se vent’anni dopo un pubblico ministero come Carlo Nordio presenzia ad una conferenza stampa snocciolando parole come queste: “Avendo trattato Tangentopoli 20 anni fa posso dire che gran parte della corruzione scoperta oggi è simile e molti dei protagonisti sono gli stessi. Ma questo è un sistema molto più sofisticato". Punto. Si riparte da Expo, Mose, la cricca del G8, gli scandali milanesi, il “colpo di culo” del terremoto abruzzese. Se è vero, come sosteneva Honoré de Balzac, che “la corruzione è l’arma della mediocrità”, la grande aspirazione della classe politica emersa nel post-Tangentopoli sarebbe dovuta essere quella di elevare la schiera dei mediocri spazzati via dalle procure in un giardino di ottimati dai saldi principi e dalla retta condotta. Non sembra essere andata così. Perché nel pieno di una crisi economica di portata storica il ricorso alle Grandi opere salvifiche è stata spesso la bandiera sotto la quale combattere per creare occupazione, sviluppo e rivitalizzare una filiera produttiva in debito d’ossigeno. Ma è indubbio che quella dei “big deal all’amatriciana” è sovente stata un’etichetta latrice di operazioni opache, appalti pilotati, se non di corruttele. Gli ultimi sono gli episodi che hanno visto trentacinque arresti nell’ambito della realizzazione del Mose, il gigantesco sistema di paratoie mobili che dovrebbe isolare Venezia dai rovesci delle maree. Trentacinque paia di manette sono scattate ai polsi di altrettanti indagati. Tra questi figurano l’azzurro Renato Chisso, assessore regionale ai Trasporti, il democratico Giampietro Marchese, collega di Chisso in Regione, ma soprattutto Giorgio Orsoni, sindaco Pd della città lagunare. I provvedimenti di custodia cautelare sarebbero stati trentasei, se non che il berlusconiano Giancarlo Galan siede tra i banchi della Camera, e per lui bisognerà attendere l’autorizzazione a procedere da parte di Montecitorio. Quello delle fila di Forza Italia è uno sfarinamento che va avanti da tempo. Per tacer del leader, le inchieste che coinvolgono i fedelissimi dell’ex Cavaliere occupano da mesi le pagine della cronaca giudiziaria: da Denis Verdini (sotto botta per la gestione del Credito cooperativo fiorentino) a Marcello Dell’Utri (condannato per concorso esterno in associazione mafiosa), passando per Claudio Scajola, arrestato per aver favorito la latitanza dell’ex collega onorevole Amedeo Matacena. La vecchia guardia, si dirà. Vero, ma solo in parte. Perché, a molte delle figure riemerse da un’epoca che fu, si affiancano volti nuovi di una classe dirigente maturata dopo il 1994. Prendiamo Orsoni. Fino alla metà degli anni zero ha guidato la società ingegneristica dell’aeroporto di Venezia ed è stato consigliere di amministrazione alla Biennale. La sua frequentazione con gli ambienti della politica è tutto sommato residuale (tecnico al ministero dei Lavori pubblici dal ’96 al ’98, un’esperienza da assessore del capoluogo lagunare terminata nel 2005) fino al 2010. È quando la svolta fusionista veltroniana si è consumata da tempo che viene individuato come volto nuovo, profilo da grand commis tecnico, da presentare sul palcoscenico nazionale, lanciato nel 2010 verso la polverizzazione dell’avversario di centrodestra, Renato Brunetta, e da innalzare a guida Democratica di uno dei patrimoni storici dell’umanità. Sorte condivisa da Giampietro Marchese, che, forte di una prima elezione in consiglio regionale nel 2005, non ha ancora festeggiato il primo decennio con una targhetta di un certo rilievo sulla porta dell’ufficio. Orsoni avrebbe ricevuto soldi per finanziare la propria campagna elettorale, in cambio di “agevolazioni” ai suoi co-imputati una volta eletto. Proprio da questo punto di vista, sono stati i magistrati che indagano sull’altro grande scandalo delle ultime settimane, quello che riguarda l’Expo 2015, a mettere in luce un paradigma delle inchieste che hanno terremotato la politica del post-Tangentopoli. Mentre vent’anni fa ci si sporcava le mani avendo come scopo principale quello di apportare benefici al proprio partito, oggi a muoversi sono cupole ramificate che sì coltivano rapporti con la politica o che ne fanno parte, ma che si mettono in moto per tornaconto personale. Così se alla metà degli anni ’90 si poteva dare a Primo Greganti il beneficio del dubbio che i soldi in nero fossero transitati per un suo conto avendo come destinazione finale il sol dell’avvenire, oggi l’accusa è quella che si sia mosso per intascarsi una bustarella degli appalti che tentava di pilotare. Così come i suoi sodali tripartisan nella cricca che sguazzava nelle ricche commesse dell’esposizione universale: l’ex democristiano Gianstefano Frigerio, e l’ex senatore berlusconiano Luigi Grillo. Anche qui un miscuglio di protagonisti datati di un’epoca che sembrava archiviata si unisce senza soluzione di continuità a rampanti arrivisti dell’ultima ora, come il responsabile dell’ufficio contratti Angelo Paris, che ha ammesso di aver commesso alcuni dei presunti illeciti contestatigli “per la promessa di una futura carriera”. La primogenitura della lunga serie di mani sporcatesi nel tentativo di drenare parte del fiume di denaro diretto verso le grandi opere è dell’uomo nuovo per eccellenza dell’epoca d’oro di Silvio Berlusconi, quel Guido Bertolaso che ha guidato le sorti di mezza Italia da capo della Protezione civile e sottosegretario della presidenza del Consiglio. Una carriera folgorante, rimasta invischiata in un “sistema gelatinoso” che lo ha visto coinvolto insieme ad Anemone e Balducci, accusati di aver distratto soldi dall’organizzazione del G8 della Maddalena, dai cantieri messi in piedi per i 150 anni d’Italia e dall’allestimento dei mondiali di nuoto. Vecchi sistemi, uomini e fini nuovi. Il trait d’union delle due epoche è quel Filippo Penati che non ha conosciuto il carcere forse solamente perché la prescrizione è intervenuta a estinguerne i reati. Anche il “sistema Sesto” era imperniato su opere pubbliche. Da un lato due aree industriali (le cosidette Falck e Marelli) per la cui riqualificazione, secondo gli inquirenti, girarono una serie di mazzette. Dall’altra l’acquisto (dal gruppo Gavio) della Provincia di parte delle quote della Milano-Serravalle, con un danno per le casse erariali stimato in 119 milioni di euro. Penati ha un cursus honorum nel corpaccione dei partiti della Prima repubblica simile a quello di Greganti. Ma i fatti contestatigli risalgono a quando, da semplice assessore di Sesto San Giovanni, arrivò a toccare con mano il potere vero, come presidente della Provincia meneghina, un incarico che lo fece incamminare verso la grande sfida (persa) per la guida del Pirellone contro Roberto Formigoni. Da semplice quadro di partito negli anni nei quali l’Italia veniva sconvolta dalle inchieste del pool di Milano, è nella Seconda Repubblica che l’ex sindaco di Sesto San Giovanni si proiettò sul panorama nazionale. Prima da presidente provinciale, nel 2004, poi da membro del coordinamento del Pd veltroniano, infine da capo della segreteria politica di Pier Luigi Bersani una volta che questi vinse le primarie per la segreteria del 2009. Insomma, per le mele marce della politica dalla metà degli anni ’90 a oggi, le grandi opere sono spesso “una botta di culo”. Così Ermanno Lisi, assessore della giunta di centrosinistra de L’Aquila, definiva il terremoto che provocò 309 vittime nel capoluogo abruzzese. In barba alle bare e alle migliaia di sfollati, Lisi vedeva nelle montagne di soldi che sarebbero arrivati per la ricostruzione una grande opportunità di business. Dello stesso parere sembrerebbero altri tre amministratori aquilani: il vicesindaco Roberto Riga, indagato per una presunta mazzetta da 30mila euro, un ex consigliere comunale con delega, Pierluigi Tancredi del Pdl, accusato di corruzione, e un altro ex assessore, Vladimiro Placidi. Solo punte dell’iceberg in un sistema che ha portato l’Autorità di vigilanza dei contratti pubblici a trasmettere negli ultimi anni alle procure e alla Corte dei Conti più di settanta indagini e quasi mille denunce per false dichiarazioni nelle gare di appalto. Tante, troppe, per la voracità di quella classe politico-imprenditoriale che si doveva affrancare dalla mediocritas dei propri padri. E che, al contrario, a dar retta a Nordio, insieme ai suoi predecessori rischia di trasmettere sugli schermi degli italiani il brutto film di una nuova Tangentopoli.

Tangenti Mose, Massimo Carlotto: «Il Nord è più criminale del Sud». Tangentopoli in Veneto. Lo scrittore Carlotto: «All'estero ci studiano come laboratorio della nuova malavita economica». Intervista di Gabriele Lippi su “Lettera 43”. Chi ha letto i suoi libri, probabilmente, nella mattinata di mercoledì 4 giugno 2014 è rimasto meno stupito di altri. Di intrecci tra criminalità e politica in Veneto, Massimo Carlotto ne aveva parlato anni prima che lo scandalo Mose scoppiasse coinvolgendo il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, l'assessore regionale alla Infrastrutture Renato Chisso e l'ex governatore, ora deputato di Forza Italia, Giancarlo Galan. «NORD PIÙ CRIMINALE DEL SUD». Nessuna sorpresa dunque per Carlotto, che a Lettera43.it spiega come questo sistema fosse «evidente da tempo», e racconta come, ormai, «il Nord è ben più criminale del Sud» e viene studiato nelle università straniere «come il laboratorio della nuova criminalità economica». Una situazione riemersa con prepotenza dalle acque torbide dei canali veneziani. Massimo Carlotto, scrittore nato a Padova.

DOMANDA. Politica, malaffare, criminalità. Quello scoppiato a Venezia sembra un romanzo di Carlotto.

RISPOSTA. Devo dire che questo l'avevo raccontato in Alla fine di un giorno noioso.

D. Sapeva già tutto?

R. In Veneto si aspettava da tempo questa azione della magistratura, il sistema era evidente, era stato messo a nudo dai comitati sul territorio.

D. Come si sapeva?

R. Le denunce sono state fatte nel corso degli anni in un silenzio assordante e nella protervia con cui i politici coinvolti rispondevano alle domande dei comitati. La battaglia è stata gestita da una minoranza forte e agguerrita del Veneto. Ora, finalmente, il territorio può tirare un sospiro di sollievo.

D. Corruzione e politica. Cosa sta succedendo al Veneto?

R. Nulla di nuovo. Questo è un sistema che ha governato la Regione per moltissimi anni. Ci sarà un motivo per cui nelle università straniere il Nord Est italiano è studiato come il laboratorio della nuova criminalità economica. Si è creata una connessione tra la criminalità e tre ambienti fondamentali della società: imprenditoria, politica e finanza.

D. E da questa unione cosa è nato?

R. Un sistema che ha permesso nel passato grandi accumulazioni di capitale che poi si sono riversate in tutti questi agganci nel mondo dei grandi appalti. Ma si tratta di una situazione definita ormai da tempo.

D. Quello del Nord Est virtuoso e motore dell'economia italiana è un falso mito, dunque?

R. Il mito è dovuto anche al fatto che ci sono stati moltissimi imprenditori onesti che hanno creato un sistema economico vincente. Poi si sono infilati anche quelli che hanno accumulato grandi ricchezze evadendo sistematicamente le tasse, con il lavoro nero, con lo smaltimento illegale dei rifiuti industriali.

D. La superiorità morale del Nord vantata dalla Lega non esiste?

R. Lo dico da moltissimo tempo che il Nord è ben più criminale del Sud, perché i veri affari avvengono qui. Bisogna dire la verità anche sui tempi in cui le mafie si sono insediate in Settentrione. La 'ndrangheta è arrivata a Torino nel 1964. È l'Italia nel suo complesso che ha un sistema criminale di cui bisogna liberarsi al più presto.

D. L'inchiesta sul Mose andava avanti da anni, ma si aspettava uno scandalo di tali proporzioni?

R. Mi sorprende solo il coinvolgimento del sindaco di Venezia. Gli altri nomi circolavano da tempo nell'ambito delle indagini e tra coloro che si occupavano di queste cose.

D. Il sindaco di Venezia, un assessore regionale, l'ex presidente della Regione. Uno scandalo bipartisan. La politica veneta è tutta da rottamare?

R. Esiste anche una parte della politica onesta, anche in senso bipartisan. C'è però un sistema che ha governato il Veneto per tantissimi anni e che ora deve essere debellato completamente. Ma poteva essere fatto prima.

D. In che senso?

R. Si sta facendo ora un'opera di pulizia che prima della magistratura toccava alla politica. Agli elettori. Il sistema politico era evidente, ma si è preferito mantenerlo perché era fortemente ancorato a quello economico.

D. Come si spiega il ritorno forte della magistratura sugli appalti?

R. Credo che siano cambiati anche gli equilibri politici, in particolare per quanto riguarda il Veneto. Pensare che il lavoro dei magistrati non sia influenzato da queste cose significa non essere ancorati alla realtà. D'altra parte gli appalti sono diventati un'occasione di riciclaggio del denaro sporco per la criminalità organizzata.

D. Come mai proprio gli appalti?

R. Quando la criminalità ricicla su attività normali non c'è guadagno, c'è una perdita che la guardia di finanza calcola intorno al 30%. Investendo in attività pubbliche, invece, la criminalità riesce anche a guadagnare sui soldi che investe, oltre a riciclarli.

D. Per Galan c'è una richiesta d'arresto. Pensa che il parlamento darà l'ok?

R. Questo non lo so ed è difficile dirlo. Quello che secondo me è politicamente importante è la dimensione complessiva dell'inchiesta per cui il sistema nel suo complesso è stato messo a nudo.

D. Sembra anche qualcosa che va oltre Tangentopoli. Tra gli indagati ci sono magistrati, ex generali della guardia di finanza. La criminalità si insinua ovunque.

R. Questo è il dato della mutazione antropologica di questa società. La dimensione dell'agire criminale è di una illegalità diffusa che ha contagiato nel suo complesso la società.

D. Cioè?

R. Non c'è aspetto che non sia toccato o influenzato da queste forme illegali. Niente di cui stupirsi in un Paese in cui la corruzione aumenta del 100% ogni anno.

D. Se fosse un libro di Carlotto come andrebbe a finire?

R. Arriverebbe qualcuno che mette tutto a tacere, come successo con Tangentopoli. Si sono accordati sul 10% di tangente e tutto è continuato nella normalità, fino allo scandalo successivo. In questo Paese gli scandali sono serviti spesso a sanare le contraddizioni. Questo è un po' diverso, ma non bisogna abbassare la guardia per il futuro.

D. Insomma, il lieto fine c'è solo per i cattivi della storia.

R. Esattamente.

Basta sdegno e chiacchiere. Trentuno anni e costi quadriplicati. Quando diremo basta alle mazzette? Per il Mose ci sono voluti nove volte i tempi del colossale ponte di Donghai, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. «Votatelo, pesatelo, se sbaglia impiccatelo», diceva un antico adagio veneziano. Certo, se anche le accuse contro Giorgio Orsoni, Giancarlo Galan e gli altri politici e affaristi coinvolti nell’inchiesta trovassero conferma nei processi e nelle sentenze, nessuno pretende corda e sapone. Il quadro di corruzione disegnato dai giudici, però, è così vasto da imporre finalmente una guerra vera, non a chiacchiere, contro la mazzetta. L’«affare» del Mose è esemplare. Perché c’è dentro tutto. C’è dentro lo spaccio dell’«emergenza», dei lavori da fare a tutti i costi in tempi così drammaticamente rapidi da non consentire percorsi lineari nei progetti, nella scelta degli esecutori, nelle gare d’appalto, nelle commesse. Risultato: di fretta in fretta sono passati 31 anni, nove volte di più di quelli bastati alla Cina per fare il ponte di Donghai, che coi suoi 32 chilometri a 8 corsie sul mare collega Shanghai alle isole Yangshan. C’è dentro l’idea della scorciatoia per aggirare (non cambiare: aggirare) le regole troppo complicate con la creazione d’un concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova che, dopo tre decenni passati senza lo straccio di una concorrenza e dopo essere stato così pesantemente coinvolto negli scandali coi suoi massimi dirigenti, giura oggi d’essere estraneo alle brutte cose e pretende di presentarsi come una verginella al primo appuntamento. C’è dentro quel rapporto insano tra la cattiva politica e il cattivo business così stretto da chiudere ogni spazio ai controlli veri sui costi, sui materiali, sugli uomini, sui tempi. Basti ricordare l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: «La scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento...». Sono passati quasi vent’anni, da quella scadenza: ci saranno anche stati degli intoppi, ma cosa succederebbe, in Germania o in Olanda, se lo Stato si sentisse preso per i fondelli sui tempi in modo così sfacciato? E cosa direbbero i leghisti da tre lustri al governo del Veneto se un cantiere interminabile come quello del Mose fosse ancora aperto dopo tanti anni a Reggio Calabria o a Napoli? C’è dentro il disprezzo per i pareri discordanti e più ancora, alla faccia del chiacchiericcio federalista, per le opinioni del Comune, tagliato fuori da decisioni prese altrove: «Sinistra e destra, sul Mose, erano d’accordo, e io sono rimasto inascoltato», ha accusato più volte, negli anni, Massimo Cacciari. Ieri l’ha ripetuto: «Le procedure erano tali che da sindaco io non potevo toccare palla». Una linea verticistica che la Serenissima non avrebbe accettato mai. Al punto di pretendere, se c’erano di mezzo opere idrauliche, che oltre a quello degli ingegneri si sentisse il parere di «otto pescadori» e cioè «due da S. Nicolò, uno da Sant’Agnese, uno da Muran, due da Buran e due da Chiozza». E poi c’è dentro, in questa brutta storia, il continuo rincaro delle spese, la peste bubbonica delle nostre opere pubbliche: doveva costare un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose. E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto che ne basteranno sei. C’è dentro la blandizia verso i possibili «amici» e insieme l’insofferenza arrogante verso ogni critica, come nel caso della stupefacente querela per «accanimento mediatico» (avevano dato battaglia sui giornali) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di avere criticato il costosissimo progetto delle paratie mobili, la gallina dalle uova d’oro del consorzio. C’è dentro la ripartizione di incredibili privilegi, come ad esempio, per citare le Fiamme Gialle, «il compenso di un milione di euro riconosciuto nel 2009» all’allora presidente Giovanni Mazzacurati «a titolo di “una tantum”, nonché i periodici rimborsi spese privi di giustificazione contabile», per non dire delle case affittate in California, delle consulenze distribuite ad amici e parenti o della liquidazione finale di 7 milioni di euro incassata dopo l’arresto: l’equivalente di trentuno anni di stipendio del presidente della Repubblica. Una buonuscita stratosferica, per un uomo finito in manette. E tutti soldi pubblici. Sia chiaro. Tutti soldi privatamente gestiti come in una combriccola di società private ma tirati fuori dalle tasche degli italiani. Per amore di Venezia. Per salvare Venezia dall’acqua alta dovuta non solo ai capricci della Natura e del Fato ma anche a interventi come la cosiddetta «sussidenza», cioè lo sprofondamento del suolo dovuta al pompaggio dell’acqua dolce nel sottosuolo o la creazione del canale dei petroli, un canyon lungo 14 chilometri, largo 200 metri e profondo fino a 17, scavato nel ventre di una laguna delicata la cui profondità media era di 110 centimetri. E torniamo al rispetto per l’acqua, la terra, le barene della Serenissima Repubblica. «Tre condition de homeni ruinano la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li Particulari», cioè i proprietari, scriveva nel ‘500 il Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino. Scordava gli affaristi dell’appalto facile. Quelli della spartizione fra sodali. Che non guardano alla destra o alla sinistra ma al business. O, per dirla alla veneta, ai «schei». Montagne di «schei». Certo è che quest’ultima ondata di arresti colpisce i cittadini italiani, proprio mentre mostravano di voler credere in un riscatto e in una nuova speranza, come una frustata in faccia. E dimostra che, nella scia dei moniti di papa Francesco che batte e ribatte contro il «pane sporco» del «dio tangente», è indispensabile una svolta vera. Nei fatti. L’Expo 2015, i restauri a Pompei, il G8 alla Maddalena e poi all’Aquila, i primi interventi e poi la ricostruzione in Abruzzo, i Mondiali di nuoto, il Mose... Non c’è Grande Evento, da anni, che non sia infettato dalla corruzione. E dopo ogni arresto, lagne su lagne. E tutti a chiedersi come sia possibile, come mai non cambi mai niente, perché proprio qui e bla bla bla... Poi, passata la tempesta di sabbia, appena si posa la polvere, le leggi che parevano ur-gen-tis-si-me vengono rinviate dal lunedì al martedì, poi alla settimana dopo, poi al mese seguente, poi all’autunno e da lì all’estate successiva... Eppure è tutto chiaro: per vent’anni, come denunciano don Luigi Ciotti, Piercamillo Davigo e tanti altri, ogni sforzo della cattiva politica (troppo comodo dare tutta la colpa ai berlusconiani) è stato dedicato a smontare le leggi che c’erano e a buttare bastoni tra le ruote dei giudici. Pochi numeri: nel decennio dopo la stagione di Mani Pulite, 1996-2006, secondo l’Alto Commissariato, le condanne per corruzione precipitarono dell’83,9%, quelle per concussione del 90,4%, quelle per abuso d’ufficio del 96,5%. Come mai? Perché l’Italia è più pulita? Magari! L’abbiamo scritto ma vale la pena di ripeterlo: dice il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal curato dall’Universita di Losanna, che nelle nostre carceri solo 156 detenuti, lo 0,4% del totale, sono lì per reati economici e fiscali, tra cui la corruzione e la concussione. Una percentuale ridicola. Dieci volte più bassa rispetto alla media europea del 4,1%. È una coincidenza se la Germania, il Paese di traino del Continente, ha le galere più affollate di «colletti bianchi»? Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno?

Dopo i «100 motivi per amare l’Italia». Ecco (almeno) 10 motivi di vergogna. L’amore per il nostro Paese non cambia ma vicende come quella di Venezia (Mose), o di Genova (Carige) e Milano (Expo), impongono una riflessione, scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Abbiamo appena pubblicato su Corriere.it «100 buoni motivi per amare l’Italia». Sono stati tradotti in inglese, spagnolo e francese. Vicende come quella di Venezia (Mose), Genova (Carige), Milano (Expo) - tanto per restare alla cronaca di questi giorni, e restare lontani dalle paludi romane e dai buchi neri del sud - non ci fanno cambiare idea. Ma onestà impone di aggiungere, ai 100 motivi d’orgoglio, almeno 10 motivi di vergogna: intraducibili. Ecco perché, purtroppo, in queste ore l’Italia ci imbarazza.

1. Perché tutti sono innocenti finché non è provata la colpevolezza. Ma insomma.

2. Perché gli oppositori drammatizzano e i governanti minimizzano. Salvo scambiarsi i ruoli al prossimo giro.

3. Perché la fame è fisiologica, ma l’ingordigia è patologica: dove finiscono tutti quei soldi? Cosa se ne fanno? Quanti auto tedesche e appartamenti svizzeri deve comprare, un uomo, prima di essere sazio?

4. Perché le grandi opere, da decenni, sono occasioni di grandi saccheggi. Ma ce ne accorgiamo sempre dopo.

5. Perché la nostra indignazione è tribale: il peccato è grave quando lo commettono i nostri avversari. Altrimenti, parliamone.

6. Perché i collettori di frustrazioni sono lì che aspettano. E non tutti sono inoffensivi come Grillo & C.

7. Perché viene il dubbio che non ci meritiamo Venezia, sprechiamo Milano, svergogniamo Genova, umiliamo Siena, roviniamo Roma. E al Sud, ormai, abbiamo rinunciato.

8. Perché «Delitto e castigo», in Italia, è solo il titolo di un romanzo russo che hanno letto in pochi. C’è sempre un’amnesia, un’amnistia o una prescrizione per tirarsi fuori dai guai.

9. Perché le pene italiane sono drammatiche, lontane e incerte. Quando dovrebbero essere proporzionate, rapide e certe.

10. Perché abbiamo la memoria di un pesce rosso (quattro secondi). Dimentichiamo tutto subito. E qualcuno, questo, se lo ricorda bene.

Corruzione, la Grande Ipocrisia. L'analisi. Da Tangentopoli in poi, e per un infinito ventennio di malaffare, non solo si è fatto assai poco. Ma quel poco che si è fatto lo si è fatto male, scrive Massimo Giannini su “La Repubblica”. Cos'altro deve succedere, per convincere la politica a muovere un passo concreto, tangibile e inequivocabile, contro la corruzione che torna a minare le basi della convivenza civile e della concorrenza economica? Quante altre retate devono accadere, per spingere il governo e il Parlamento a ripristinare con un atto definitivo, responsabile ed efficace, il principio di legalità di cui in questi anni di fango hanno fatto strame tutti, ministri e sottosegretari, amministratori centrali e cacicchi locali? Domande tutt'altro che oziose (o capziose), di fronte all'acqua lurida che tracima dal Mose, dove proprio la politica si è definitivamente messa "a libro paga", esigendo quello che i magistrati chiamano "lo stipendio di corruzione". Da Tangentopoli e Mani Pulite in poi, e per un infinito ventennio di malaffare pubblico e privato, non solo si è fatto assai poco. Ma quel poco che si è fatto lo si è fatto assai male. Grandi proclami, piccoli compromessi. Leggi-feticcio, da dare in pasto al popolo bue. E poi appalti in deroga a volontà, per lucrare fondi neri. Non solo in epoca berlusconiana, che sappiamo straordinariamente nefasta sul piano etico. Anche in tempi più recenti, che speravamo finalmente proficui sul piano della ricostruzione morale e della legislazione penale. Così non è stato. Così non è ancora. E al presidente del Consiglio Renzi, che meritoriamente dichiara di voler "cambiare verso" all'Italia anche dal punto di vista della giustizia e che opportunamente si accinge a dare più poteri al commissario anti-corruzione Cantone, non è inutile ricordare quanto è accaduto e quanto sta ancora accadendo. Al di là degli annunci, che pure servono a scuotere la coscienza di un Paese disabituato al meglio e assuefatto al peggio, ma che da soli non bastano a consolidare nell'opinione pubblica la percezione di un vero cambiamento. Da troppo tempo - interrotti solo dai blitz dei pm sulle infinite cricche tricolori, dal terremoto dell'Aquila al G8 della Maddalena, dai mondiali di nuoto al sacco di Carige, dall'Expo milanese al Mose veneziano - abbiamo ascoltato alti lai e asciugato lacrime di coccodrillo. Ma nulla è cambiato, nei codici e nelle norme di contrasto. C'è come l'accidiosa consapevolezza che la corruzione, con i suoi 60 e passa miliardi di "fatturato" l'anno, rappresenti una parte essenziale e forse irrinunciabile del Pil nazionale. Così l'establishment, politico ed economico, celebra a ogni nuovo arresto la Grande Ipocrisia. Interviste sdegnate, riunioni d'emergenza. Poi più nulla. O leggi fatte male, a volte col legittimo sospetto che le si vogliano esattamente così, per convenienza bipartisan. Non parliamo, stavolta, dei misfatti compiuti da Berlusconi premier. Sono tristemente noti. Diamo dunque per acquisite le 12 leggi ad personam azzardate dall'ex Cavaliere sulla giustizia. La colossale occasione, miseramente mancata, è stata la legge Severino, approvata dal governo Monti nel novembre 2012. Insieme a qualcosa di buono (le nuove norme sulla decadenza e l'incandidabilità, che costano allo stesso Berlusconi condannato il seggio al Senato) la legge "spacchetta" inopinatamente il reato di concussione, riducendo i reati (e dunque i tempi di prescrizione) per l'ipotesi meno grave (ma infinitamente più frequente) dell'"induzione". L'anomalia viene segnalata dai magistrati, rilevata dal "Sole 24 Ore" e da "Repubblica", che ne chiede conto al ministro Guardasigilli consegnandole 250 mila firme raccolte a favore di una "seria legge contro la corruzione". Ma non c'è niente da fare. La legge passa così com'è, con la benedizione trasversalissima delle appena nate Larghe Intese: "tecnici" montiani, Pd e Pdl votano compatti, alla Camera: 480 favorevoli, solo 19 contrari, il Parlamento approva. Di lì nascono tutti i guai successivi. Berlusconi userà i benefici derivanti dal caos normativo innescato dalla legge Severino nel processo Ruby. La stessa cosa farà Filippo Panati nel processo Falck. Un caos che nel frattempo viene autorevolmente certificato. A febbraio di quest'anno tocca alla Ue, nel suo rapporto sulla corruzione, evidenziare la lunga "serie di problemi irrisolti" lasciati dalla legge Severino (prescrizione, falso in bilancio, autoriciclaggio, voto di scambio) e stigmatizzare "gli effetti della frammentazione del reato di concussione". Il 15 marzo tocca invece alla Corte di Cassazione denunciare per sentenza i danni causati da quella legge all'esercizio della giurisdizione, e chiedere a governo e Parlamento di porvi rimedio al più presto. La richiesta cade nel vuoto. Mentre cominciano a scoppiare i nuovi scandali, governo e Parlamento non solo non raccolgono l'invito. Ma si muovono lanciando al Paese segnali contraddittori, su tutti i fronti che riguardano lo Stato di diritto. Due esempi, ma clamorosi perché passati sotto silenzio. Il 28 gennaio 2014 il governo Letta approva il decreto legge numero 4, "disposizioni urgenti in materia di emersione e rientro dei capitali detenuti all'estero". È la cosiddetta "voluntary disclosure", in voga in altri Paesi dell'Unione. Ma da noi viene allentata oltre misura. Al Senato il testo originario viene modificato, le imposte dovute sui capitali rientrati vengono dimezzate e i reati di frode "con altri artifici", oltre alla omessa o infedele dichiarazione, vengono depenalizzati. Di fatto, quasi un colpo di spugna, che alla fine non passa solo perché la Camera il 19 marzo decide di stralciare queste norme e di farle confluire in un ddl che sarà presentato in futuro. Per uno scampato pericolo, un disastro compiuto. Il 17 maggio è entrata in vigore la legge numero 67, che introduce la possibilità di chiedere l'affidamento in prova ai servizi sociali nei procedimenti per delitti economico-finanziari con pene fino a 4 anni di detenzione. In questi casi, su richiesta del soggetto incriminato, si sospende il processo e si avvia un percorso di servizio e risarcimento, di durata massima 2 anni, al termine del quale il reato si estingue. Nella lista dei delitti per i quali si può ottenere il beneficio ci sono l'omessa dichiarazione dei redditi, la truffa, il falso in bilancio e persino il furto. Questo sì, a tutti gli effetti, ha le fattezze di un "colpo di spugna", studiato proprio per i reati dei "colletti bianchi". Il Parlamento approva unanime la legge, il 2 aprile scorso, nell'indifferenza dei più. Mentre riesplodono le nuove e vecchie Tangentopoli, che vedono il potere politico alternativamente vittima e a volte carnefice di quello economico, il Parlamento invia dunque questi strani segnali di fumo al Paese. Delinquere non è poi così compromettente. Alla fine si può scendere a patti. Di fronte a tanto cinismo consociativo, la Grande Speranza si chiama Matteo Renzi. Solo lui può spazzare via la Grande Ipocrisia chiamata lotta alla corruzione. Ma le prime mosse del premier non sono confortanti. Nel discorso sulla fiducia alle Camere, il 22 febbraio, il nuovo presidente del Consiglio non dice una parola sul tema della legalità e delle strategie di contrasto al malaffare. Un silenzio che assorda, e che spinge Roberto Saviano a scrivere una lettera aperta al premier, su "Repubblica" del 28 febbraio. Renzi raccoglie la sollecitazione, e il giorno dopo annuncia dal salotto di Fabio Fazio, a "Che tempo che fa", la nomina di Raffaele Cantone alla guida dell'Autorità anti-corruzione, nata un anno prima e mai formata. È un primo indizio, che sembra rassicurante. Ma le mosse successive, purtroppo, non sembrano trasformarlo nella prova che tutti aspettiamo. La vicenda del Documento di Economia e Finanza, non aiuta a capire qual è la vera strategia del governo. Il Consiglio dei ministri, riunito a Palazzo Chigi, approva il Def l'8 aprile. Renzi ne illustra le linee guida, con le solite slide. Il giorno dopo, sul suo sito, il ministero dell'Economia pubblica il testo integrale. A pagina 27 del Piano Nazionale delle Riforme, compare un ricco capitolo dedicato alla giustizia: "Asset reale per lo sviluppo del Paese", è il titolo. Pier Carlo Padoan, dai tempi dell'Ocse, ha bastonato duramente l'Italia, proprio per i ritardi sulla corruzione. Per questo, nel Def, il ministro scrive parole chiarissime, non solo sulla giustizia civile e amministrativa, ma proprio sulla lotta alla corruzione: occorre "rivedere la disciplina del processo penale, con particolare riferimento all'istituto della prescrizione, ferma restando l'esigenza di assicurare la certezza e ragionevolezza dei tempi". Più avanti: "Introduzione dei reati di autoriciclaggio e autoimpiego, anche rafforzando il 41 bis". E infine: "È necessario affrontare in modo incisivo il rapporto tra gruppi di interesse e istituzioni e disciplinare i conflitti di interesse e rafforzare la normativa penale del falso in bilancio". Finalmente una dichiarazione programmatica impegnativa. Il segno che "cambiare si può". Ma sei giorni dopo, quando il Def arriva alle Camere per l'avvio dell'iter parlamentare, il testo è sorprendentemente cambiato. Il capitolo Giustizia rimane, alle pagine 29 e 30, e poi a pagina 63, nel capitolo II.10 intitolato "Una giustizia più efficiente". Si parla di tutto, dalla riforma della giustizia civile al sovraffollamento carcerario, dalle leggi già varate sul voto di scambio a quelle contenute nella Severino. Si propone la "mediazione obbligatoria" e la "depenalizzazione dei reati minori", la "difesa dei soggetti più deboli" e la "tutela dei minori". Ma per quanto li si cerchi, i paragrafi sulle modifiche al processo penale, dalla prescrizione all'autoriciclaggio, dall'autoimpiego al falso in bilancio, non ci sono più. Chi e perché le ha cancellate? Una spiegazione possibile, anche se parziale, la forniscono gli atti parlamentari. Il 16 aprile, durante il dibattito in Commissione Giustizia della Camera, i deputati Cinquestelle almeno per una volta fanno bene il loro mestiere. Alfonso Bonafede "ritiene che sia estremamente grave che nella formulazione presentata alle Camere del Def in data 9 aprile 2014 venga fatto espressamente riferimento all'esigenza di affrontare definitivamente entro giugno 2014 il problema dei tempi di prescrizione e che ieri, martedì 15 aprile, dopo che nella serata di lunedì 14 aprile il presidente del Consiglio si sia incontrato con Silvio Berlusconi, sia pervenuta alle Camere una "errata corrige" da parte della presidenza del Consiglio, nella quale è stato cancellato ogni riferimento alla questione della prescrizione". La risposta di Donatella Ferranti, presidente della Commissione, arriva di lì a poco: "Le correzioni apportate con l'errata corrige - replica l'esponente del Pd - erano state in realtà segnalate dagli uffici del Ministero della Giustizia alla Presidenza del Consiglio la scorsa settimana". Dunque, non sarebbe stato il premier a "depotenziare" il testo, e meno che mai l'avrebbe fatto dopo l'incontro di due ore, a Palazzo Chigi, con l'ex Cavaliere. Possiamo credere alla ricostruzione della Ferranti. Ma l'anomalia resta. E se a "sbianchettare" i paragrafi sul programmato giro di vite per la prescrizione, l'autoriciclaggio e il falso in bilancio è stato il ministro Orlando, e non Renzi, che differenza fa? Di nuovo: che segnale si vuol mandare al Paese? Siamo all'oggi. La gigantesca metastasi delle mazzette, che si propaga da Milano a Venezia nel corpo malato dell'"operosa Padania", obbliga il governo a fare qualcosa, subito. Orlando ha preso tempo sui vari provvedimenti già all'esame del Parlamento da più di un anno (dal testo della Commissione Fiorella sulla prescrizione alle diverse proposte sul falso in bilancio). Ha rinviato tutto a un più organico disegno di legge anti-corruzione, originariamente previsto entro l'estate e ora forse anticipato alla prossima settimana. Ma nel frattempo deve battere un colpo, almeno sulla promessa attribuzione dei pieni poteri a Cantone e magari anche sull'autoriciclaggio. Se ci riuscirà, al Consiglio dei ministri di domani, sarà tanto di guadagnato. Ma di fronte alla nuova Questione Morale, che torna a devastare drammaticamente il Paese e a sporcarne irrimediabilmente l'immagine, non basta più la narrazione riformista. Serve l'azione riformatrice. Chiara e severa, senza concessioni e senza ambiguità. Anche così si difende la memoria di Enrico Berlinguer dagli iconoclasti pentastellati.

Democratici divisi anche sulle mazzette. Fassino: "Orsoni uomo onesto". Ma i renziani non vogliono scandali. Moretti: "Nuova classe dirigente per mettere fine alla corruzione", scrive Fabrizio Boschi su “Il Giornale”. È sempre così. Quando succedono queste cose è tutto un fuggi fuggi. Quello non c'entra, quell'altro è innocente, ci auguriamo che la magistratura faccia chiarezza al più presto, bla bla bla. A una settimana dai sorrisoni a trentadue denti mostrati al Nazareno, dopo la schiacciante vittoria di Renzi alle Europee, da ieri mattina il Pd si è improvvisamente ammutolito. Anzi no, di chiacchiere se ne sono sentite sin troppe, ma del fiume di parole sgorgate dalle bocche dei dirigentoni e esponentoni del partito, qualcuna non solo era dissonante, ma in certi casi contrastante. Nordisti contro sudisti. Veneti contro il resto del mondo. Soprattutto la nuova contro la vecchia guardia. Ex comunisti contro neo demo-renziani. C'è da capirli ahiloro. Il loro cristallino sindaco di Venezia, di specchiata moralità e ineccepibile levatura, è finito in manette. E si levò nell'aria un unico attestato di stima: «Chiunque conosca Orsoni non può dubitare della sua correttezza e della sua onestà». Parola di Piero Fassino, sindaco di Torino. Virginio Merola gli fa eco da Bologna. Ma loro appartengono al vecchio, due che Renzi, se fosse il rottamatore, avrebbe già rottamato (per motivi anagrafici). Uno ad uno hanno fatto capolino i nuovi, o quelli rivestiti di nuovo, come la ex bersaniana, poi ultrà renziana, Alessandra Moretti, che da ex vicesindaco di Vicenza scarica tutte le colpe sui vecchi compagni con una frase che i politici di razza definirebbero «concreta»: «È arrivato il tempo che una nuova generazione di politici si prenda la responsabilità di scommettere sul futuro». Parole sacrosante. L'altra conterranea, Laura Puppato, ex sindaco di Montebelluna in provincia di Treviso, salita a forza sullo stipato carro renziano, dà la colpa di tutto questo marciume a quei vecchi bacucchi del suo partito, in via di rottamazione: «Dall'inchiesta sul Mose viene fuori la parte peggiore della politica del passato», mentre «noi con Renzi stiamo voltando pagina da tutto questo». E pure il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Sandro Gozi, si smarca dalla puzza che fuoriesce dalla laguna, tirando fuori un evergreen: «Siamo il governo del cambiamento». Quel discolo di Pippo Civati non ci casca e pretende «una maggiore selezione della classe dirigente». Il filosofo ex sindaco di Venezia, Massimo Cacciari aveva la soluzione in tasca ma, guarda caso, nessuno l'ha ascoltato: «Da sindaco, durante i governi Prodi e Berlusconi ebbi modo di ripetere che le procedure assunte non permettevano alcun controllo da parte degli enti locali e che il Mose si poteva fare a condizioni più vantaggiose. L'ho ripetuto milioni di volte». L'eurodeputato rieletto David Sassoli s'improvvisa spazzino e si augura che si faccia «pulizia rapidamente» con un pizzico di retorica: «Voglio una Repubblica fondata sul lavoro non sulle mazzette». Sarà il prossimo ad essere rottamato.

Quella verità inconfessabile: "Niente affari senza tangenti". Dall’interrogatorio dell’imprenditore Maltauro emerge la fotografia di un Paese in via di decomposizione. "Ho quasi settant’anni, mettiamo fine a questo sistema", scrivono Luca Fazzo Enrico Lagattolla su “Il Giornale”. È come nel '92, è come Mani Pulite. No, «è peggio». È l'Italia delle tangenti vista con gli occhi di chi, le tangenti, le paga. Enrico Maltauro è un imprenditore. Un mese fa finisce in carcere perché - sostengono i pm di Milano - ha versato stecche per avere i lavori di Expo. «Tutto vero», conferma Maltauro davanti al giudice. «Ammetto», dice l'imprenditore all'inizio dell'interrogatorio di garanzia. Ma a Maltauro non basta, e chiede al gip Fabio Antezza di poter fare «una premessa». È la fotografia di un Paese in via di decomposizione. Così eccola, la metastasi della corruzione. «Questa vicenda - mette a verbale l'imprenditore - è collegata alla vicenda del '92. Perché io lo chiamo, lo definisco stato di necessità da parte di un professionista che svolge e gestisce la mia attività, di avere la necessità della sua presenza sul mercato delle opere pubbliche e dei lavori banditi dallo Stato (...). Una persona che fa il mio mestiere ha l'assoluta necessità di avere un contatto, un'interlocuzione, un rapporto con la... diciamo con le stazioni appaltanti». È una consapevolezza antica. «Parlo dalla metà degli anni '80». «Mi sono perfettamente reso conto - insiste Maltauro - che esiste una totale e assoluta invadenza e una totale e assoluta dominanza della... chiamiamola politica, con le sue varie diramazioni. Con il sottogoverno, con la politica, con le espressioni amministrative periferiche, rispetto alla gestione di questo mercato. Per cui in qualche modo, in modo assoluto e in modo assolutamente forte, in modo assolutamente in certi casi patologico, viene a essere necessitato un collegamento e un contatto di questo genere». L'imprenditore vicentino scava nel passato. «Io avevo avuto un'esperienza molto negativa negli anni '90 (ha patteggiato una pena a un anno per le tangenti sugli appalti di Malpensa 2000, ndr), dopodiché decisi sostanzialmente non dico di cambiare mestiere, ma di ritirarmi in un altro tipo di attività». Maltauro racconta di aver lavorato in Libia, e dopo qualche anno di essere tornato in Italia. «Nell'ambito di questa mia rientrata nel sistema italiano, mi sono assolutamente reso conto che la situazione che avevo lasciato tanti anni prima non solo non era cambiata, ma forse sotto un certo aspetto era anche peggiorata». E in che modo l'Italia di oggi è peggio di quella di vent'anni fa? «Il sistema dei partiti - spiega ancora Maltauro - che fino agli anni '90, '92, '93 comunque sia aveva un suo ordinamento, una sua gerarchia, aveva una sua logica, bella, brutta, sbagliata, giusta, questo è un altro ragionamento, però c'era una sorta di gerarchia, di ordine, di riferimento, di definizione. Negli ultimi anni qui la situazione si era sfarinata, prendendo delle caratteristiche assolutamente personalizzate. Gruppi di potere, gruppi di influenza, gruppi di lobby, gruppi di gestione di attività/nomine/conseguenze delle nomine». Quindi, che fare? «O lavoriamo all'estero, cosa che peraltro abbiamo fatto, oppure vendiamo l'attività, cosa che io ho pensato moltissime volte». Maltauro racconta di aver provato a cercare dei partner stranieri, vendendo quote della propria società. «Abbiamo fatto un preliminare con un'importante azienda austriaca (...). Era un'operazione di grande qualità e di grande livello, anche perché è una delle grandi società europee, per cui era una cosa che mi rendeva molto contento». Ma «non riuscimmo a concludere quell'operazione». Motivo? «Il consiglio di amministrazione della multinazionale austriaca prese paura, molto semplicemente detto, della situazione italiana. E vennero a dirci: Guardate, tutto a posto dal punto di vista dei numeri, però noi non ce la sentiamo di approfondire». E così, sfumati i capitali stranieri, Maltauro ritiene di non avere avuto altre alternative. «Siamo una società che ha mille e ottocento dipendenti a libro paga (...), è un'azienda che ha quasi cent'anni». E per «trovare delle soluzioni dal punto di vista anche dell'acquisizione del lavoro (...), ho avuto la necessità, diciamo così, di aumentare o impostare un mio livello di comunicazione con la... chiamiamola politica, con la para-politica, con le lobby della politica, chiamiamole come vogliamo. E rispetto a questo, a questo che io definisco stato di necessità, si incardina il procedimento che mi vede in questo momento protagonista. Io non contesto minimamente i fatti. (...) Ho quasi settant'anni e questo momento mi mette nella volontà e nell'assoluta decisione di porre una censura definitiva con questo tipo di situazione».

Siamo un popolo di corrotti? Credo che in questi giorni, di fronte all’ennesimo episodio di malaffare, un interrogativo del genere si sia riproposto con una forza fin qui inedita. Ma una risposta negativa, pur ineccepibile, non soddisfa più, scrive Giovanni Belardelli su “Il Corriere della Sera”. Se si abbattessero le ville che hanno distrutto le nostre coste, tanti italiani sentirebbero che lo Stato non li ha abbandonati Testo: C’è qualcosa, nel modo d’essere e di agire degli italiani, che ci rende più inclini di altri popoli a infrangere regole e norme, o quanto meno ci spinge a tollerare con disinvoltura che altri lo facciano? Credo che in questi giorni, di fronte all’ennesimo episodio di corruzione seriale, un interrogativo del genere si sia riproposto con una forza fin qui inedita. Per dirla in modo brutalmente sintetico, siamo un popolo di corrotti? Il fatto è che una risposta negativa, pur ineccepibile (a intascare od offrire tangenti non sono «tutti», ma sempre persone con un nome e un cognome), non soddisfa più. Non allontana la sensazione che certi fenomeni di corruzione, se effettivamente sono presenti in tutte le democrazie sviluppate, in Italia appaiono non solo più diffusi ma anche radicati nella cultura del Paese, quasi fossero parte dell’identità della nazione, ne caratterizzassero l’anima profonda. E neppure funziona più, di fronte a una sequenza di scandali che pare ininterrotta, la consolatoria spiegazione che attribuisce il malaffare diffuso a un certo numero di politici e imprenditori disonesti, aiutati da qualche pubblico funzionario senza scrupoli. Non perché queste responsabilità non ci siano davvero tutte, come mostrano le cronache di questi giorni. Ma perché da tempo quelle stesse cronache danno regolarmente notizia di piccole e grandi ruberie, truffe, imbrogli (dai falsi permessi per disabili all’alterazione delle autocertificazioni sul reddito) che coinvolgono una platea di cittadini non proprio ristretta e segnalano la sostanziale accettazione di fenomeni di illegalità di massa. Insomma, al mito della società civile onesta, che si contrappone alle varie cricche politico-affaristiche, non crede ormai più nessuno. Del resto, l’idea che il nostro Paese abbia qualche serio problema nel rapporto con la legge circola da secoli. Era proprio questo che tra Sette e Ottocento (l’epoca del Grand Tour, che aveva l’Italia tra le sue mete obbligate) sostenevano tanti osservatori stranieri: convinti che ogni popolo avesse un suo «carattere nazionale», vedevano negli italiani una grande vitalità e creatività, bilanciate però da una scarsa o nulla inclinazione a rispettare le leggi, a guardare oltre il proprio interesse individuale concepito nell’accezione più egoistica del termine. In anni più vicini a noi, le scienze sociali non hanno fatto altro, in fondo, che dare una veste scientifica a quella diagnosi, evocando il «familismo amorale» o la scarsa «cultura civica» degli italiani. Si è trattato di spiegazioni suggestive, anche se mai interamente convincenti. In ogni caso, il deficit di etica pubblica e privata di cui soffre il Paese sembra innegabile. Ma questo riconoscimento dovrebbe portare a qualcosa di più efficace del solito auspicio di trasformazioni culturali profonde, che vedranno semmai i nostri nipoti. Dovrebbe indurre a dare un qualche riconoscimento a quella parte del Paese che tutto sommato le leggi le rispetta, ma che non si sente adeguatamente valorizzata dalle istituzioni. In attesa, infatti, di una rivoluzione culturale, se verrà e quando verrà, che cambi la mentalità collettiva, i pubblici poteri dovrebbero puntare il loro sguardo, ad esempio, su quegli italiani che abusi edilizi non ne hanno fatti, ma vedono chi invece ne ha compiuti godere in assoluta tranquillità i frutti del proprio comportamento. Sono pur sempre le istituzioni, come sostenne ai suoi tempi Jean-Jacques Rousseau, a formare «il genio, il carattere, i gusti e i costumi di un popolo». E allora, se - invece di promuovere tanti corsi, giornate, navi della legalità, invece di obbligare ogni università ad avere il suo bel «piano triennale anticorruzione» - si abbattessero un po’ delle ville e villette che hanno distrutto chilometri delle nostre coste, tanti italiani certo insorgerebbero. Ma tanti altri, è probabile, sentirebbero che lo Stato non li ha abbandonati, che punta su di loro per uscire prima o poi dalla palude fatta di una illegalità e una corruzione accettate, più o meno fatalisticamente, come normali.

La mazzetta incurabile, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Non riesco più a indignarmi per la corruzione. Troppo seriale, scontata, inestirpabile, trasversale per suscitare ancora rabbia. Il sistema col tempo è peggiorato: si prendono mazzette senza realizzare le opere e poi ieri portava almeno benefici a cascata, oggi resta ai diretti interessati. È stupida la reazione «mandiamoli tutti a casa»; e poi chi subentra, in base a quale sortilegio sarà più affidabile? Sono forse cambiati i criteri di selezione, sono mutate le motivazioni, ci sono differenze «etniche», culturali o religiose che possano farci dire che i nuovi sono diversi? Chi ci dice che i miracolati di Grillo ma anche quelli di Renzi, diventati di colpo classe di potere, siano più affidabili rispetto ai loro predecessori? Vi ricordate cosa fecero i craxiani rispetto ai vecchi marpioni dc & soci? E la soluzione non è nemmeno dare poteri enormi ai giudici o invocare nuove leggi, normative più toste. Non serve e s'è visto. Per arginare la corruzione restano tre vie non ancora intraprese: rendere più semplice il sistema e le sue norme, sfoltendo i passaggi e i poteri di veto, perché più controlli ci sono e più potenziali corrotti ci saranno; selezionare la classe dirigente sulla base di curriculum, competenza, capacità e non in base a criteri cosmetici, demagogici o di affiliazione ai clan e ai capi; scegliere i politici in base alla motivazione che li muove, se sono spinti da molle civili e ideali o no, perché se quel che conta siamo io, i miei e la nostra vita, la corruzione è dietro l'angolo. E si ripeterà in eterno.

Certi sindaci d’Italia tra mazzette, furtarelli e le accuse di spaccio di marijuana. I guai penali e amministravi di (alcuni) amministratori pubblici. I casi degli ultimi sessanta giorni, scrive Alessandro Fulloni il 2 aprile 2015 su “Il Corriere della Sera”.

1. Condanne, arresti e dimissioni. C’è quello (caso classico) che intasca mazzette, l’altro (caso inedito) che si appropria dei risparmi che gli avevano affidato due anziane sorelle decedute. Poi c’è il primo cittadino che potrebbe essere sottoposto (e sarebbe un record) per due volte nel giro di venti mesi alle applicazioni della legge Severino sulla corruzione. C’è anche l’amministratore «sceriffo» - noto alle cronache per aver fatto arrestare tre ladri - che si fa beccare per spaccio. Storie di (alcuni) sindaci italiani: quelli che alla guida di comuni grandi e piccoli (circa 8 mila) talvolta amministrano con eccessiva disinvoltura la cosa pubblica. Ecco, per stare agli ultimi sessanta giorni, le vicende più singolari. Tra condanne, arresti e le attese di pareri della Consulta sull’applicazione della Severino. Il caso più noto di questi giorni è quello del sindaco di Ischia Giuseppe Ferrandino, arrestato lunedì nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Napoli sulle opere di metanizzazione sull’isola e detenuto nel carcere di Poggioreale. Martedì si è dimesso dando mandato al suo legale di consegnare al segretario generale del Comune di Ischia una lettera nella quale comunica la sua decisione, presa «al solo fine di potersi difendere libero da vincoli e ruoli istituzionali». Nella lettera Ferrandino scrive di avere «la serenità di chi è straconvinto della propria innocenza e di chi ritiene di avere sempre operato nell’esclusivo interesse della cittadinanza e di chi crede fermamente nella giustizia italiana».

2. Il sindaco che si appropria dei risparmi delle sorelle morte. Si sarebbe appropriato di una somma di denaro di circa 36 mila euro, i risparmi di una coppia di anziane sorelle che poi sono morte. Per questo motivo è stato arrestato dai carabinieri, con l’accusa di peculato, il sindaco di Santa Maria Salina (nel Messinese), Massimo Lo Schiavo. Le due sorelle, malate e bisognose di assistenza, erano proprietarie di una casa e di vari beni. Nel giugno del 2013 furono trasferite in una casa di riposo di Leni, sull’isola di Salina, per essere curate. La loro abitazione fu sigillata e le anziane chiesero all’amministrazione di custodire i loro risparmi: 36 mila euro, 212 dollari australiani e 180 dollari americani. Il sindaco ha preso il denaro e lo ha sigillato in due buste alla presenza dei vigili urbani. Dopo la morte di una delle donne ed è stato nominato un amministratore di sostegno dell’altra anziana. Poco tempo dopo è deceduta anche la sorella e l’amministratore ha chiesto di avere la somma di denaro e le chiavi dell’abitazione. A questo punto il sindaco avrebbe accampato alcune scuse dicendo che la somma era solo di 25 mila euro e di non sapere dove fossero le buste perché le avrebbe perse durante un trasloco. Ha poi consegnato seimila euro all’amministratore, chiedendogli di aspettare il versamento delle somme restanti. Nel corso delle indagini i carabinieri hanno però trovato a casa del sindaco le buste, che erano state in precedenza sigillate, vuote. Nel corso della perquisizione nell’abitazione del sindaco sono stati trovati anche 12 mila euro, in parte anche in valuta straniera. Sono in corso accertamenti per stabilire la provenienza del denaro.

3. La mazzetta al sindaco dei record. Una mazzetta di 100 mila euro in cambio di un appalto di otto milioni per realizzare alloggi popolari. È la contestazione della Procura di Bari nei confronti di Sergio Povia, sindaco di centrosinistra di Gioia del Colle, arrestato il 6 febbraio dalla Finanza. Arresti poi revocati dal gip. Ma il primo cittadino (più volte alla guida della cittadina pugliese a partire dal 1993: un record) a seguito della bufera giudiziaria, si è dimesso. Con lui erano finiti in carcere anche l’ex vicesindaco e l’imprenditore che aveva allungato la mazzetta. I reati contestati sono corruzione e turbativa d’asta. Secondo il pm Eugenia Pontassuglia, le persone arrestate (sia politici che dipendenti comunali e liberi professionisti) in cambio della tangente avrebbero fatto in modo che l’imprenditore si aggiudicasse la gara per numerosi alloggi. Gli indagati avrebbero tenuto una «molteplicità di condotte collusive sia nella fase concernente la pubblicazione del bando di gara, predisposto dai funzionari comunali seguendo le direttive indicate da Posa e contenute in elaborati tecnici redatti da professionisti di sua fiducia, sia la fase successiva».

4. «Fumo» e bilancino in casa dell’assessore «sceriffo». Droga e un bilancino di precisione all’interno della cassaforte di casa. Con l’accusa detenzione ai fini di spaccio è stato arrestato, giovedì 26 marzo, l’assessore alla sicurezza di Pieve Fissiraga (Lodi) , il leghista Antonio Iannone (soprannominato l’assessore «sceriffo»). I carabinieri che hanno perquisito la sua abitazione, gli hanno intimato di aprire la cassaforte: all’interno c’erano 250 grammi di hashish, uno di marijuana e un bilancino. Il tribunale di Lodi ha convalidato il fermo concedendogli gli arresti domiciliari. Iannone si era fatto la fama di «assessore sceriffo». Nell’autunno scorso, ad esempio, aveva bloccato quasi da solo e fatto arrestare tre romeni sorpresi a rubare rifiuti nella piazzola ecologica del paese.

5. Condanna in Appello per l’ex sindaco di Buccinasco. L’11 febbraio l’ex sindaco di Buccinasco (nel Milanese), Loris Cereda, arrestato nel marzo 2011 per un giro di tangenti legate ad appalti per la nettezza urbana e per il cambio di destinazione d’uso di alcune aree della cittadina, è stato condannato a 3 anni e 6 mesi (e 20.000 euro di provvisionale al Comune) per corruzione dalla seconda Corte d’Appello di Milano. L’accusa imputava a Cereda (che in primo grado aveva avuto 4 anni e 3 mesi) una tangente di 7mila euro per garantire l’approvazione di una convenzione tra il Comune e una società per la concessione d’uso di un’area verde «da destinare a parcheggio». Inoltre l’allora sindaco avrebbe accettato 25mila euro e la messa a disposizione di due Ferrari e una Bentley per garantire l’approvazione di una delibera di «rinnovo del contratto per i servizi di igiene urbana» con «contestuale subappalto».

6. Il Caso Ostia e il «minisindaco» dimissionario. A Ostia, municipio del comune di Roma, il minisindaco (Pd) Andrea Tassone è dimissionario. Un gesto annunciato il 18 marzo dallo stesso Tassone in chiave di allarme antimafia: troppo forti le pressioni della criminalità organizzata, «non ho gli strumenti per andare avanti. Non ho mai chiesto un carrarmato per combattere le mie battaglie ma almeno una piccola mazzafionda l’avrei desiderata». Una vicenda però in chiaroscuro, che mette in imbarazzo il Pd: tra le condizioni per continuare, Tassone (citato nelle carte di Mafia Capitale dal faccendiere Salvatore Buzzi che lo definisce «nostro») ha posto l’allontanamento del comandante dei vigili di Ostia Roberto Stefano. Ma Stefano ha condotto l’inchiesta sui chioschi del lungomare di Ostia, dove «ballano» 300 mila euro per le opere a scomputo, un’indagine per la quale risultano indagati (con elezione di domicilio) lo stesso Tassone e anche l’assessore ai Lavori pubblici Antonio Caliendo (anche se lui nega). Morale: dimissioni (almeno sinora) definitive. Consiglio municipale a un passo dallo scioglimento. E nuove elezioni praticamente certe.

7. Il sindaco che diventa senatore «grazie» a legge Severino. Fosse un calciatore, Domenico Auricchio, detto «Mimì», fedelissimo di Berlusconi, sarebbe un numero 7, genere Franco Causio. Claudio Sala o Bruno Conti, capace di saltare l’avversario con un dribbling secco. Auricchio invece è un sindaco-senatore, e il dribbling lo ha fatto infilandosi in uno di quei «varchi» non previsti dal la legge Severino. Grazie alla quale è arrivato a palazzo Madama, per usare le parole del presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone «dopo una condanna di primo grado» per la quale da sindaco - due anni fa - è stato «sospeso per effetto della Severino». «Epperò può entrare in Parlamento perché era il primo dei non eletti». Ma ora c’è un nuovo caso. Terminata la sospensione di 18 mesi, Auricchio è tornato sindaco in piena regola. Nuova tegola il 18 marzo: quando è stato condannato per abuso d’ufficio. I giudici del tribunale di Nola lo hanno giudicato colpevole dell’installazione di un chiosco abusivo in pieno Parco Nazionale del Vesuvio: una concessione avvenuta, secondo l’accusa, senza passare dall’ufficio tecnico. Ora il sindaco-senatore rischia una nuova applicazione della Severino. La seconda in 20 mesi. E sarebbe record.

8. De Luca, attesa per il parere della Consulta. Vincenzo De Luca, 65 anni, è stato per quattro volte sindaco di Salerno, due volte deputato e sottosegretario ai Trasporti nel governo Letta. Una trafila dal Pci al Pd. Ora per il centrosinistra è il candidato (vincente alle primarie) alle prossime regionali in Campania. Il 21 gennaio è stato condannato ad un anno di reclusione per abuso d’ufficio per la nomina di un ex collaboratore come project manager del termovalorizzatore. Il giorno dopo il prefetto di Salerno ha disposto la sua sospensione in base alla legge Severino che prevede tra le altre misure, la sospensione e decadenza degli amministratori locali in condizione di incandidabilità (appunto come De Luca, condannato per un reato contro la pubblica amministrazione). L’ex sindaco di Salerno attende ora una decisione della Corte costituzionale. Che presto, anche se il ruolo non è ancora stato assegnato a un relatore, dovrà vagliare la costituzionalità della legge anticorruzione varata dal governo Monti. Se venisse eletto governatore della Campania in assenza di una decisione della Corte, De Luca verrebbe immediatamente sospeso su richiesta della presidenza del Consiglio. Però, un minuto dopo De Luca farebbe ricorso al Tar. Poi si vedrà.

Mafia: neri, rossi e boss. Chi comanda a Roma. La ragnatela criminale di Carminati aveva unito politici di destra e sinistra. Il volto nuovo del potere criminale in un saggio-inchiesta di Lirio Abbate e Marco Lillo che svela intrecci con vip, calciatori, professionisti e imprenditori, scrivono Lirio Abbate e Marco Lillo su “L’Espresso”. È l'inchiesta più clamorosa dell'ultima stagione, l'incredibile ragnatela di potere creata intorno al Campidoglio da Massimo Carminati. Adesso quella rete di malaffare viete setacciata da un saggio scritto da Lirio Abbate de "l'Espresso" e da Marco Lillo de "il Fatto". "I Re di Roma" (Chiarelettere, 256 pagine): prende il titolo dall'inchiesta giornalistica del nostro settimanale che nel 2012 svelò la spartizione criminale della metropoli capitolina, prima ancora che le indagini ne ricostruissero l'organizzazione. Ecco in anteprima il capitolo finale, sulla matrice politica di questo scandalo: a comandare era il terrorista mai pentito che dava ordini a uomini di destra e sinistra. In libreria per Chiarelettere il nuovo libro inchiesta di Lirio Abbate e Marco Lillo: ''I Re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di mafia capitale''. Una storia incredibile, che è poi diventata l'inchiesta di Pignatone e che propone al lettore una mappa inquietante e dettagliata di ''un sistema criminale senza precedenti, che ha dominato Roma con la complicità di politica e istituzioni. Un sistema che pesa sui cittadini con disservizi visibili ogni giorno''. E dunque "Mafia Capitale" è di destra o è di sinistra? Massimo Carminati è il capo dell’organizzazione ed è un ex Nar, non certo un ex Br. Poche storie: «mafia Capitale» è di destra. Gaber risponderebbe: eh no, sembra facile. Il Nero è socio dipendente di una coop rossa, la 29 giugno, dunque lo vedi che «mafia Capitale» è di sinistra? L’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, è indagato per associazione mafiosa con Buzzi e Carminati, dunque «mafia Capitale» torna a destra. Sì, ma Giuliano Poletti, da capo della Legacoop, andava a cena con uno dei capi di «mafia Capitale», Salvatore Buzzi, e dunque è di sinistra. Sì, ma a quella cena c’era pure il manager dell’Ama legato ad Alemanno, Franco Panzironi, dunque è di destra. E Ignazio Marino si faceva finanziare la campagna elettorale dalla coop rossa 29 giugno, quella che poi lucrava sugli immigrati, lo vedi che è di sinistra? Peccato che la coop 29 giugno finanziava la fondazione di Gianni Alemanno, mica quella di Renzi, quindi è di destra. Dimentichi che il Rosso finanziava anche le cene elettorali dell’attuale premier, quindi è di sinistra. Sì ma Buzzi faceva il tifo per il centrodestra alle elezioni comunali del 2013 e poi, per cambiare il bilancio del Comune a favore della sua cooperativa, sono intervenuti Massimo Carminati e il segretario del sindaco Alemanno, mica Che Guevara. Quindi è di destra. Il bilancio del Comune con le correzioni a favore della coop amica di Carminati, però, poi lo approvavano anche i consiglieri del Pd, quindi «mafia Capitale» è di sinistra. Alla fine forse è più corretto prendere atto che «mafia Capitale» è sia di destra che di sinistra, ma tradisce insieme i valori della destra e quelli della sinistra. Chi fa saltare le regole della concorrenza e del libero mercato, chi usufruisce di sconti e condoni per continuare a violare la legge, come hanno fatto Buzzi e Carminati, è la negazione dei valori della destra economica e sociale. All’opposto, chi usa persino il disagio degli immigrati, dei nomadi e dei senzatetto per gonfiare il proprio portafoglio compie il peggiore tradimento possibile ai valori della sinistra. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? Se «mafia Capitale» fosse solo di destra o solo di sinistra, sarebbe più facile da combattere. Invece, gli affari rossi e quelli neri si mescolano e diventano verdi: il colore dei soldi. Carminati è socio della coop di Buzzi che con una mano scrive discorsi di ringraziamento al ministro Poletti e al premier Renzi e con l’altra sostiene e finanzia le elezioni di Gianni Alemanno. L’ex collaboratore di Veltroni, Luca Odevaine, è lo sponsor delle cooperative care al Vaticano e a Giulio Andreotti. Dov’è la destra e dov’è la sinistra? Sono in parlamento e governano insieme da molti anni, prima con Mario Monti, poi con Enrico Letta e ora con Matteo Renzi. Non è un caso se l’opposizione si è rivelata inefficace sia nell’era Veltroni che nell’era Alemanno. Solo il lavoro del Ros dei carabinieri e dei magistrati della Procura di Roma ha scoperchiato il verminaio che oggi, a prescindere dalle possibili condanne, è già sotto gli occhi di tutti. In tutte le indagini maggiori del 2014, dall’Expo al Mose fino a «mafia Capitale», sono emerse tre costanti: la presenza di finanziamenti non trasparenti alle fondazioni dei politici di destra e di sinistra; la nomina di manager incapaci e asserviti al potere politico a capo delle municipalizzate, delle società miste e dei consorzi pubblici che gestiscono le grandi opere; l’alleanza tra coop rosse e coop bianche per entrare negli appalti maggiori. Se il governo Renzi avesse voluto, avrebbe potuto approvare un decreto per intervenire su questi problemi composto di tre articoli: tutti i finanziamenti a una fondazione nella quale figuri un politico in qualsiasi veste, non solo quelli ai partiti, devono essere resi pubblici su internet; i manager delle municipalizzate, delle società miste e dei consorzi che devono gestire soldi pubblici sono scelti con concorso nazionale per titoli, primo dei quali la fedina penale intonsa; le cooperative che sono sorprese a truccare le gare o a corrompere pubblici ufficiali perdono ogni beneficio di legge dal punto di vista fiscale. In pochi giorni l’ampia maggioranza destra-sinistra che ha dominato la scena della politica italiana negli ultimi anni avrebbe potuto risolvere i tre problemi posti dall’indagine su «mafia Capitale». Non ci sarebbero stati più i finanziamenti «segreti» della coop rossa a Gianni Alemanno né le nomine di soggetti condannati per ricettazione come Riccardo Mancini a capo dell’Eur Spa. Le cooperative rosse sarebbero state più accorte ad assumere un tipo come Massimo Carminati. Invece il governo Renzi ha preferito proporre l’ennesimo pacchetto di grida manzoniane che aumentano le pene minime senza sfiorare i veri nodi delle fondazioni, delle municipalizzate e del sistema cooperativo. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? All’indomani della scoperta di «mafia Capitale», l’animo dei politici è confuso, molto confuso. E non solo a livello locale. Il presidente del Consiglio Renzi difende il suo ministro Poletti, fotografato quando era responsabile delle coop, insieme a Buzzi, e dice: «È un galantuomo». E annuncia il commissariamento del Pd romano con Matteo Orfini. Il premier è «sconvolto, perché vedere una persona seria come il procuratore di Roma parlare di mafia mi colpisce molto. Vale per tutti il principio di presunzione di innocenza e il governo ha scelto Raffaele Cantone per l’anticorruzione. Certe vicende fanno rabbia, serve una riflessione profonda». E ancora: «Certo, l’epicentro è l’amministrazione di Alemanno, ma alcuni nel Pd romano non possono tirare un sospiro di sollievo». E così il presidente di Dem annuncia che il partito a Roma è «da rifondare e ricostruire su basi nuove». Ci sono un assessore e il presidente del consiglio comunale indagati e dimissionari e altri esponenti sotto inchiesta. E il sindaco Ignazio Marino parla di «pressioni» sulla sua amministrazione e assicura che «ha sbarrato le porte a chiunque volesse influenzarla in qualsiasi modo». E dell’ormai ex assessore alla Casa, Daniele Ozzimo, indagato e dimessosi, che nel rimpasto di giunta era in predicato per assumere le deleghe al sociale, dice: «L’ho conosciuto per la sua forza nell’imporre la legalità». Il ciclone giudiziario soffia anche su quello che è stato il partito di Silvio Berlusconi a Roma, il Pdl. A cominciare da Gianni Alemanno, ex sindaco, indagato per associazione mafiosa, che appena ricevuto l’avviso di garanzia si autosospende dagli incarichi in Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale e afferma su “Libero” e “la Repubblica”: «Un anno e mezzo fa, dopo il primo articolo de “l’Espresso” sui “quattro re di Roma”, tra cui Carminati, che io non ho mai conosciuto, anzi pensavo fosse morto oppure in pensione, sono cominciate le allusioni. Allora chiesi ai miei collaboratori: ma voi avete contatti, ci parlate? Fu un coro di no». La scena che descrive l’ex sindaco potrebbe essere quella di una commedia. Ma la storia è seria per poterci ridere sopra. E Alemanno ribadisce la propria innocenza: «Due cose non rifarei. La prima: trascurare la composizione della squadra. Ho sbagliato i collaboratori. Ma è capitato pure a Veltroni con Odevaine, che era il suo vicecapo di gabinetto e che io ho allontanato appena arrivato in Campidoglio. La seconda: non aver agito in totale discontinuità con il passato». «Salvatore Buzzi – aggiunge Alemanno – il patron della cooperativa 29 giugno, io l’ho trovato ed è cresciuto sotto le amministrazioni di sinistra. Non volevo fare la figura del sindaco di destra che caccia tutti quelli di sinistra». Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? Fra intercettazioni e sviluppi investigativi, nell’inchiesta finiscono nomi di politici, non solo quelli indagati ma anche altri che, pur non essendo stati colpiti da provvedimenti giudiziari, vengono trascinati in questa storia dai protagonisti dell’indagine. Nelle lunghe conversazioni spunta anche il nome di un altro politico di destra, l’ex ministro Ignazio La Russa. Di lui parlano Pozzessere e Carminati: «Ignazio doveva mette’ a pareggia’ all’interno... i conti di Ligresti... Ignazio faceva... fa il capo bene lui... me lo ricordo, da ragazzini era così, eh, io quando andavo a Milano... la federazione del Mis erano solo loro, lui, Romano, er padre... vanno ai congressi e gli rompono sempre il cazzo al padre, gli dicono che era mafioso perché era amico di Ligresti ... è Ligresti che viene da me, no io che vado da lui». E c’è anche Gianni Letta, l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Buzzi punta alla gestione del Cara di Castelnuovo e ottiene un incontro con Letta per tentare di sensibilizzare il prefetto di Roma. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra?

LA SINISTRA: IERI DIVERSI. OGGI CATTIVI E DANNOSI...OSSIA UGUALI.

Ieri diversi, oggi cattivi dannosi e pericolosi, scrive Bruno Manfellotto su “L’Espresso”. Duecento tesserati in due ore. Falso un iscritto su cinque. Il rapporto sul Pd romano fa impressione. Ma sarebbe bene farne altri simili in tutto il paese. Cattivo. Dannoso. Pericoloso. No, non è un virus. Si parla di Pd, la Ditta, l’ex Pci della diversità berlingueriana. Secondo la lettura choc di Fabrizio Barca. E non è una battuta scappata in tv, ma il punto d’arrivo di un’analisi minuziosa svolta su 110 circoli romani del Pd, durata finora sei mesi, ricca di documentazione e di testimonianze dei militanti (è tutto sul blog di Barca assieme al resoconto del suo precedente “Viaggio in Italia”, personale inchiesta alla scoperta del partito condotta nel 2013 provincia per provincia). Dunque, un lavoro serio. Confesso che non mi era mai capitato di leggere parole così dure, precise e taglienti sulla realtà interna di un partito, scritte per di più da qualcuno che in quel partito milita convintamente. Che siano poi firmate da Barca, uomo colto, scrupoloso, rigoroso servitore dello Stato, è una garanzia in più di fedeltà e qualità. E però, nonostante questo, il rapporto non ha avuto finora l’eco che merita. Forse perché riguarda solo il Pd romano; o perché nei giorni in cui è stato diffuso un primo documento (il lavoro continua), giornali e tv erano presi dalla strage di Tunisi e dal pasticciaccio Lupi-Incalza. Ma nemmeno nei giorni successivi il dibattito è decollato, anzi tutto è ricominciato stancamente come prima, con le minacce di scissione a sinistra, le battutine sferzanti di questo contro quello e la sempiterna ricerca di un anti-leader, stavolta individuato nell’ottimo Giuliano Pisapia che non ha fatto a tempo ad annunciare di non volersi ripresentare a sindaco di Milano per essere candidato a sua volta a capo di una cosa che non c’è. Certo, Roma è stata colpita da Mafia Capitale, l’inchiesta che ha investito anche frange di Pd, spinto Matteo Renzi a commissariare il partito e a sua volta il commissario Matteo Orfini a incaricare Barca dell’indagine. Ma quando si legge di assenza di trasparenza, di deformazioni clientelari, di scorribande dei capibastone, di - testuale - carne da cannone da tesseramento (si citano casi di “duecento tessere in due ore”, e si scopre che un tesserato su cinque è falso), sale il timore che la malattia non si fermi all’ombra del Cupolone. Del resto, quando il Pd ha chiamato a raccolta i suoi elettori, penso alle primarie, ne sono capitate di tutti i colori, e non solo nel 2012 (una per tutte, i cinesi in fila a Napoli). E alzi la mano chi non ha pensato subito a infiltrati, brogli, tessere false. Renzi ha provato a evitare in Campania lo scontro Vincenzo De Luca-Andrea Cozzolino, ma invano: si è dovuto beccare De Luca con tutto il seguito di legge Severino e dintorni. Non era andata meglio in Emilia dove i due candidati Stefano Bonaccini, caro al premier, e Matteo Richetti sono finiti in una delle mille inchieste della magistratura. In Liguria è finita con Sergio Cofferati che denuncia brogli. E l’altro giorno, mentre Massimo D’Alema scaldava animi scissionisti, Renzi cercava di scongiurare la candidatura a sindaco di Enna di Vladimiro Crisafulli, ieri giudicato “impresentabile” alle politiche e oggi sponsorizzato dal Pd locale. Intanto ad Agrigento le primarie del centrosinistra vedevano in testa Riccardo Gallo Afflitto, vicesegretario regionale di Forza Italia, promotore di una lista civica. Molte cose non tornano. E non c’è da meravigliarsi se alle ultime regionali il Pd ha dimezzato i voti nella sua Emilia e a Livorno, storica roccaforte rossa, ha conservato sì un sontuoso 52 per cento, ma è stato punito alle contemporanee comunali nelle quali gli elettori hanno preferito il grillino Nogarin. Intendiamoci, nel suo viaggio Barca ha incontrato anche un robusto Pd né cattivo né dannoso né pericoloso, anzi, ma che spesso fatica a imporsi sull’altro. Là dove ce la fa, ecco i “luoghi ideali”, simili a quelli dove in questi mesi sono stati avviati significativi progetti pilota. Mi permetto di suggerirne un altro: che almeno un circolo in ogni città chieda a Renzi di estendere il metodo Barca in tutta Italia così che l’indagine sullo stato del Pd conquisti il primo posto nel programma del partito. Sì, forse ne vedremo delle belle. Ma lo sforzo di trasparenza e di pulizia aiuterebbe a riprendere quella fiducia in se stessi che in tanti è andata dispersa.

A D’Alema bonifici per 87 mila euro. Vino e fondazione, i versamenti all’ex premier. I pm potrebbero sentirlo Nelle intercettazioni i timori dei dirigenti della coop Cpl: siamo ascoltati, scrivono Fulvio Bufi e Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Erano forniture annuali quelle che la «Cpl Concordia» ordinò all’azienda «La Madeleine» di Massimo D’Alema. Spumante e vino rosso per 22.500 euro. Complessivamente i versamenti ammontano dunque a 87mila euro in tre anni. Soldi che i vertici della cooperativa sostenevano di aver elargito «perché è molto più utile investire negli “Italianieuropei”». E di questo si parlerà domani nel corso degli interrogatori di garanzia di Francesco Simone, che curava le pubbliche relazioni dell’azienda, e del presidente Roberto Casari, entrambi arrestati per dall’associazione per delinquere, corruzione, turbata libertà degli incanti, riciclaggio, emissione di fatture per operazioni inesistenti. E chiarimenti sulla natura di questi rapporti potrebbero essere chiesti allo stesso D’Alema: i magistrati stanno valutando la sua convocazione dopo aver ascoltato la versione degli indagati. Non sarà l’unico. L’inchiesta che ha portato in carcere il sindaco di Ischia Giuseppe Ferrandino per le tangenti che avrebbe preso per affidare la metanizzazione dell’isola alla «Cpl» si allargano ai rapporti della cooperativa con le altre Fondazioni create dai politici. E inseguono i soldi all’estero: a San Marino, dove Simone dice di poter muovere fondi, ma soprattutto in Tunisia. È lo stesso manager, in passato fedelissimo di Bettino Craxi, a vantarsi con il presidente del consiglio di amministrazione Maurizio Rinaldi, della propria capacità di muoversi nel Paese africano: «Se tu vuoi vieni una volta con me in Tunisia che è una cosa più sicura, ti apri il tuo conto oppure fai un’altra società che costa duecento euro... Tunisia, offshore, dove tu sei socio unico e garante, nella mia stessa banca, così è più veloce l’operazione». Lui faceva la spola continuamente e quando si trattava di nascondere i soldi da far rientrare in Italia li nascondeva nei posti più strani, compreso il passeggino del figlio. Nelle conversazioni intercettate nel marzo del 2014 Simone parla con una dipendente di «Italianieuropei» per l’acquisto di 500 libri di D’Alema da presentare a Ischia. Specifica di essere «disposto a pagare cifra piena se i soldi vanno alla Fondazione», altrimenti chiede uno sconto del 10 per cento. La donna lo rassicura che il pagamento sarà diretto e così si accordano per la fornitura dei volumi «ma anche del vino, uniamo l’utile al dilettevole».
In realtà quelle bottiglie non sono le uniche acquistate. Secondo una nota dei carabinieri del Noe, delegati alle indagini, «nel 2013 sono state comprate 1.000 bottiglie di spumante per 14.600 euro e nel 2014 altre 1.000 bottiglie di vino rosso per 7.900 euro». Uniti a tre bonifici da 20.000 euro l’uno elargiti alla Fondazione e alle centinaia volume «Non solo euro» fanno 87.300 euro. Quando decidono quali Fondazioni devono finanziare i vertici di «Cpl» sono molto espliciti, come spiega il responsabile commerciale in un colloquio del maggio scorso. Verrini : «Il mio problema però è questo, queste persone poi quando è ora, le mani nella merda ce le mettono o no?». Simone : «...dobbiamo pagarlo perché ci porta questo e chiudiamo questo, no venti ma anche duecento...». Non si sa a chi si riferiscano, gli atti sono coperti da omissis «per ragioni investigative». Certo è che un filone dell’indagine, come scrive il giudice, si concentra sui versamenti «al mondo politico-istituzionale, ovvero a quelle fondazioni o associazioni che in qualche modo sono espressione di tale mondo». E infatti sottolinea come «il tenore e il contenuto della conversazione appaiono fondamentali anche per la valutazione delle esigenze cautelari, e in particolare della pericolosità sociale dei protagonisti della vicenda, rappresentando lo “specchio” della strategia aziendale di tale cooperativa, con particolare riferimento ai rapporti e alle relazioni “patologiche” esistenti tra gli uomini espressione di tale cooperativa da una parte ed esponenti politici (e più in generale della pubblica amministrazione) dall’altra, rapporti sovente “schermati” attraverso triangolazioni con fondazioni varie e di varia natura». Accertamenti che riguardano anche i rapporti diretti con chi si sarebbe mostrato disponibile ad agevolarli, come il sottosegretario Simona Vicari, vera promotrice dello sblocco di 140 milioni di euro nella legge di stabilità come loro avevano sollecitato e sul conto della quale sono tuttora in corso nuove verifiche. Dalle intercettazioni raccolte dagli investigatori si capisce che alla Cpl c’era la consapevolezza di essere al centro di una indagine. «Siamo ascoltati», dice Simone a Verrini. In un’altra conversazione Simone fa riferimento al generale della Guardia di Finanza Michele Adinolfi (già coinvolto in altre inchieste) e parla della necessità di ricercare microspie negli uffici della cooperativa: «Ho parlato con un assistente di Adinolfi... Serve fare una bonifica, Nicò! Quando mi autorizzi chiamo il generale, ce la facciamo fare, però ovviamente ci farà un prezzo di riguardo. Però facciamola».

A SINISTRA: DA ACCUSATORI AD ACCUSATI LE COSE CAMBIANO.

D’Alema e il caso Ischia: «Così la magistratura si delegittima da sola. Il Csm e l’Anm devono intervenire». L’ex premier: «Non ritengo legittimo l’uso di intercettazioni come quello nei miei confronti. Abolito il finanziamento pubblico ai partiti, ora si criminalizza quello privato», scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Il giorno dopo, Massimo D’Alema è ancora «indignato e offeso».

Davvero non ha trovato una ragione a giustificazione dei magistrati che hanno inserito il suo nome nell’ordine d’arresto per le presunte tangenti a Ischia?

«E quale potrei trovare? Si parla di un’ipotesi di reato, tutta da dimostrare, in cui io non c’entro. Non c’era alcuna necessità di utilizzare intercettazioni fra terze persone, senza valore probatorio, dove si parla di me de relato. Allora mi viene il sospetto che ci sia un motivo, per così dire, extra-processuale».

Sarebbe a dire?

«Dubito che la notizia dell’arresto del sindaco di Ischia e qualche suo presunto complice sarebbe finita sulle prime pagine dei giornali, se nell’ordinanza non fossero stati citati D’Alema, Tremonti, Lotti o qualche altro personaggio di richiamo. Ma se questa fosse la logica che ha ispirato i magistrati, ci sarebbe da preoccuparsi. Non per me, ma per il funzionamento della giustizia. Anche perché negli ultimi tempi si sono susseguite diverse assoluzioni che hanno sconfessato le indagini, soprattutto nei confronti di amministratori locali addirittura arrestati. Se le inchieste avessero l’obiettivo di una più efficace ricerca delle prove, anziché di qualche forma di pubblicità, credo sarebbe più utile alla giustizia e alla moralità pubblica».

Che fa, delegittima anche lei la magistratura solo perché stavolta è stato toccato dal «pubblico ludibrio» delle intercettazioni?

«Io non delegittimo nessuno. Sono stato a lungo indagato e sempre prosciolto, anche quando avevo responsabilità di governo. Un pm ha dovuto risarcirmi per i tempi troppo lunghi di accertamento della verità, a spese dei contribuenti, come credo che per altre ragioni sia capitato pure al pm di Napoli titolare di questa indagine. Credo però che l’organo di autogoverno della magistratura, il Csm, ma anche l’Associazione magistrati, dovrebbero esercitare una maggiore vigilanza affinché certe misure non siano superate e la magistratura non si delegittimi da sola. Non ritengo legittimo un uso delle intercettazioni come quello che è stato fatto nei miei confronti».

Ha riforme da suggerire?

«No, dico che serve maggiore autocontrollo tenendo presente che i magistrati devono accertare fatti e reati, senza attribuirsi funzioni politiche o pubblicistiche di altro genere. Proprio per mantenere integro il rispetto che si deve alla funzione giudiziaria e che io conservo: sono un garantista, ma anche un legalitario».

Nelle intercettazioni gli indagati dicono che lei era disponibile a «mettere le mani nella merda» per loro, e che già gli «aveva dato delle cose»; parole che per pm e giudice non sono affatto irrilevanti. Non è questo suo presunto ruolo che dovrebbe indignarla e offenderla?

«Io ho solo aderito agli inviti a partecipare a iniziative pubbliche. Non ho fatto niente per queste persone, che sono state interrogate: immagino che se i magistrati avessero ritenuto di dovermi contestare dei reati lo avrebbero fatto. D’altra parte, se hai motivo di ritenere che ci sia stato un illecito, me lo contesti e io mi difendo. Insomma, compito del magistrato è provare a verificare il contenuto di quelle parole, che possono essere millanterie, frasi in libertà o qualunque altra cosa, prima di darle in pasto al pubblico».

Lei che rapporti aveva con le persone arrestate?

«Il sindaco di Ischia Ferrandino l’ho conosciuto nel 2014, quindi quando il presunto reato era, eventualmente, già stato consumato. Con i responsabili della Cpl, Roberto Casari e Francesco Simone, avevo rapporti più risalenti nel tempo, ma non ho mai fatto alcunché di illecito, né me l’hanno chiesto. Del resto se in due anni di intercettazioni non c’è la mia voce qualcosa vorrà dire...».

Dunque non sa perché dicessero quelle frasi?

«Io no. Mi auguro che i magistrati lo chiedano a loro».

E l’acquisto dei suoi libri e dei suoi vini?

«L’acquisto dei libri, legato a una presentazione in concomitanza con un’iniziativa elettorale a favore di Ferrandino candidato alle elezioni europee del 2014, rientra nei finanziamenti che noi raccogliamo per la fondazione Italianieuropei , un’associazione culturale che pubblica una rivista prestigiosa e svolge molte iniziative importanti. Tutto alla luce de sole, così come le donazioni, regolarmente messe a bilancio. Quando abbiamo cominciato, sedici anni fa, abbiamo ricevuto sostegno da Pirelli, dalla Fiat, da De Benedetti e molte altre imprese. Quanto al vino, mi scusi ma mi viene da sorridere: se i pm vogliono acquisire agli atti una buona guida enologica scopriranno che i nostri spumanti sono segnalati tra i migliori, ed è notorio che in occasione delle festività le aziende ne acquistano in quantità per regalarli. Li abbiamo venduti e fatturati, concedendo la possibilità di pagare quattro mesi dopo: siamo noi che abbiamo fatto il favore alla cooperativa, non viceversa».

L’acquirente dice che fu lei a chiedere di comprare...

«Nel particolare non mi ricordo. Ma in generale consiglio a tutti di comprare il nostro vino. Spero non sia un reato grave... Ho sentito anche dire che siccome io sono una persona nota c’è chi compra per simpatia e dunque questa sarebbe concorrenza sleale, ma vale anche il contrario: c’è chi non compra per antipatia, come è ovvio e lecito che sia. Dov’è il reato?».

Reati a parte, ci sono questioni di opportunità politica che emergono dalle indagini e hanno un loro peso. Come è capitato all’ex ministro Lupi.

«Premessa la mia totale solidarietà nei suoi confronti, credo che ci sia un po’ di differenza tra l’avere la responsabilità di un ministero e contemporaneamente rapporti con chi ottiene appalti e commesse, lavorando proprio con quel ministero, e chi, senza incarichi istituzionali, continua a fare politica da privato cittadino».

E raccoglie fondi per la sua fondazione, come faceva quando era parlamentare...

«Prima è stato abolito il finanziamento pubblico dei partiti, ora si criminalizza il finanziamento privato della politica. E dopo che resterà? Lo chiedo in generale, perché Italianieuropei non ha mai beneficiato di finanziamenti pubblici, ma ha sempre vissuto con il sostegno di semplici cittadini e imprenditori. Sono favorevole a regole di maggiore trasparenza nel finanziamento delle fondazioni, magari accompagnate con qualche serio incentivo fiscale. Ma episodi come quello di cui stiamo parlando spaventano le persone e le allontanano anche da legittime attività di sostegno. Per questo io sono preoccupato: non per l’azienda di famiglia, ché anzi, gli ordini dei vini stanno aumentando in segno di solidarietà, bensì per il futuro di Italianieuropei».

E per il futuro del Pd? I fatti emersi negli ultimi tempi non sono sintomo di una «questione morale» nel partito e nella sua classe dirigente?

«Il Pd è un partito di governo a tutti i livelli. E questo, naturalmente, lo espone a rischi di compromissione e inquinamento, che non debbono essere sottovalutati. È evidente che ci vuole maggiore vigilanza».

La vera storia del vino di D'Alema. Presto interrogato dai giudici, scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questa storia è tutto rosso o per lo meno rosé: le Coop, le presunte tangenti e pure il vino. Infatti nell’inchiesta della procura di Napoli che indaga sui fondi neri e le presunte mazzetta pagate dalla Cpl Concordia, spunta il nome dell’azienda vitivinicola della famiglia di Massimo D’Alema, La Madeleine, adagiata sulle colline umbre tra Otricoli e Narni (Terni). Nei giorni scorsi l’ex premier è stato avvistato nello stand dei produttori umbri del Vinitaly, intento a vendere personalmente le sue etichette. Ma dalle nuove carte giudiziarie apprendiamo che per piazzare i suoi “rossi” Baffino preferisce andare sul sicuro e rivolgersi ai vecchi compagni. Uno degli arrestati di ieri, il barese Francesco Simone, responsabile delle relazioni istituzionali del gruppo Cpl Concordia, il 6 novembre aveva dichiarato agli inquirenti: «Confermo che la Cpl ha acquistato 2.000 bottiglie di vino prodotte dall’azienda della moglie di D’Alema, tuttavia posso rapprsentarvi che fu Massimo D’Alema in persona, in occasione di un incontro casuale tra me, lui, il suo autista e il presidente Casari a proporre l’acquisto dei suoi vini». Il giudice Amelia Primavera nell’ordinanza chiosa con una certa perfidia: «Visto il prezzo pagato dalla Cpl Concordia per ciascuna delle 2.000 bottiglie di vino acquistate (non si tratta di un prodotto da somministrare in una mensa aziendale) si tratta evidentemente di un’altra delle "eccezioni" cui faceva riferimento lo stesso Simone per parlare dell’acquisto dei libri». Ma quanto valgono 2 mila bottiglie di nettare rosso dalemiano? L’ordinanza non lo svela. La moglie di Massimo D’Alema, Linda Giuva, procuratore speciale dell’azienda, si limita a farci sapere che i prodotti sono stati inviati in tre momenti diversi (novembre 2013, aprile 2014 e ottobre 2014) e che «gli acquisti sono stati fatti in occasione delle festività». Tre le etichette vendute: il prodotto base, in vendita a 9,50 euro, il Cabernet Franc "Sfide"; lo spumante Nerosé (17,50 euro) e il pinot nero Narnot, (29 euro, 70 il magnum). Tutte ideazioni dell’enologo dei vip Riccardo Cottarella. «I pagamenti sono avvenuti tramite bonifico bancario che hanno seguito le fatture di circa mediamente 130 giorni (…) i prezzi sono stati quelli di listino». La signora sottolinea che la Cpl il regalo non lo ha fatto a loro, ma ai propri clienti, visto che i vini della Madeleine piacciono e «un’etichetta è esaurita da più di tre mesi». Forse per questo la coop si è anche preoccupata di organizzare la presentazione dell’ambrosia di casa D’Alema nell’isola di Ischia. Il solito Simone ne discute al telefono con la segretaria della Fondazione Italianieuropei dello stesso D’Alema: «Io ho poi parlato con (…) la Linda (…) perché siccome noi come Cpl abbiamo preso anche alla signora del vino (…) volevamo fare un’iniziativa di presentazione del vino suo loro a Ischia con tutti i ristoratori e gli albergatori una cosa bella… l’utile al dilettevole: presenteremo il libro (di D’Alema ndr) e…». Il vino. Simone ha le idee chiare: «Volevo organizzare un fine settimana a Ischia per presentare il libro e poi a latere senza ovviamente nessuna evidenza pubblica mentre il libro sarebbe una manifestazione pubblica».  Quindi in piena campagna elettorale per le Europee del 2014 "il compagno D’Alema" come lo chiamano un po’ ironicamente gli indagati, promuove la sua ultima impresa editoriale e la moglie, a rimorchio, le bottiglie. La coppia nel luglio scorso ha avuto l’onore di ricevere praticamente sotto casa, a Gallipoli, (storico buen retiro dalemiano) il premio Barocco, «condotto con sobrietà da Alba Parietti» si legge sul sito della Madeleine. Nella motivazione si ricorda «che la nuova avventura imprenditoriale rappresenta una delle tante "Sfide" che Linda Giuva ha portato avanti nella sua vita, ricordando così il nome di uno dei prodotti della Madeleine». La Parietti che premia l’amica Linda è la metafora perfetta di una "sfida" solo immaginaria, la vendita del proprio vino nel circuito delle coop rosse più riconoscenti e disponibili. Nella Madeleine non mancano altri incroci curiosi. Per esempio il socio dei figli di D’Alema è l’imprenditore barese Francesco Nettis, conosciuto attraverso Roberto De Santis, sodale da quasi 40 anni di Baffino e già armatore della sua barca a vela. De Santis è stato recentemente perquisito nell’inchiesta sulle Grandi opere di Firenze e con Nettis ha usufruito di una vacanza in barca a Saint Tropez con belle fanciulle al seguito a spese di Giampaolo Tarantini, il presunto procacciatore di escort per Silvio Berlusconi. L’esclusiva crociera doveva servire a «ricompensarlo (De Santis ndr) delle conoscenze (D’Alema compreso ndr) che mi aveva fatto fare» ha detto Tarantini a verbale. E gli intrecci non sono finiti. Nel 2009 Francesco D’Alema, erede non ancora diciannovenne dell’ex premier, ha acquistato il 40 per cento dell’azienda agricola da un prestanome dell’avvocato Sergio Melpignano, fiscalista noto alle cronache anche per alcune traversie giudiziarie oltre che proprietario di un esclusivo resort molto amato dal fu Lìder Maximo. Per dieci mesi questo professionista è stato il socio "occulto" del cadetto di casa D’Alema. Poi l’ex segretario dei Ds ha acquistato l’intero pacchetto. Non prima di aver indicato a Melpignano, il nome del "compagno" Adolfo Orsini, ex dipendente di Asl e sindaco di Città di Castello (Perugia), per l’incarico di «rappresentante delegato della società agricola» nell’acquisto dei «diritti di reimpianto» di viti presso diversi agricoltori locali. Orsini nel 2010 diventa così l’amministratore unico dell’Agenzia regionale umbra per lo sviluppo e l’innovazione in agricoltura ed è probabilmente anche grazie alla sua esperienza che la Madeleine ottiene 57mila euro di finanziamenti regionali. Orsini è stato socio anche nella Soluzioni di business (Sdb) di Vincenzo Morichini, pure lui umbro, ex socio di D’Alema nella barca a vela Ikarus e suo fundraiser per la fondazione Italianieuropei. Quando nel 2011 Morichini viene coinvolto in una vicenda di appalti e mazzette, legati all’Enac, l’ente dell’aviazione civile, il nome di Orsini finisce in un pizzino con un elenco di presunti contributi sospetti a politici, ma la sua posizione viene subito chiarita. Il 27 settembre 2013, con un decreto del ministero delle Politiche agricole, è nominato consigliere dell’Istituto di servizi per il mercato agricolo e alimentare (Ismea), poltrona su cui è stato riconfermato l’estate scorsa. Ecco la morale della favola: per le sue “Sfide” D’Alema preferisce affidarsi a un rodato circuito di amici e compagni. Che, miracolosamente, ottengono incarichi ed appalti. Per poi brindare, magari, con un Nerosé della real casa.

"Non sono come Lupi". D'Alema passa nel torto pure quando ha ragione. Nel difendersi dalle insinuazioni cade nella solita superiorità morale della sinistra. E così la vigliaccata su di lui finisce in secondo piano, scrive Renato Farina su “Il Giornale”. È stato sputtanato a sangue, anzi a vino, merda e libri, con un cocktail di intercettazioni micidiali fornito dalla ditta Woodcock. Nessuna indagine su di lui, ma citazioni perfette per annegarlo a testa in giù nel cabernet della sua cantina. Una vigliaccata, non si fa. A nessuno. E lo abbiamo scritto. Come reagisce, Massimo D'Alema? È inutile, è più forte di lui: crede di essere il primo e unico essere superiore vittima di questo trattamento di immersione nella fossa dei coccodrilli. Siccome però vede che c'è un altro tizio arrivato lì poco fa tra le fauci degli alligatori, precipitato anche lui con al collo le intercettazioni senza essere indagato, che fa D'Alema? Come un Conte Ugolino lo morde sulla nuca. In prima pagina, Il Mattino di Napoli titola: «Io, offeso e indignato non sono come Lupi». È un messaggio destinato al popolo comunista, ma se possibile diretto anche a Zeus che poteva tirargli fulmini, inviargli come a Prometeo un'aquila a squarciargli il petto e a divorargli il fegato: però solo a lui. Cos'è questa confusione? Cosa ci fa lì, anche Maurizio Lupi? No, questo per D'Alema è insopportabile. Persino quando ha ragione, Massimo D'Alema riesce ad aver torto, a manifestarsi per quella creatura umana sì, ma diversa, tipicamente figlia dell'educazione comunista, per cui lui, gettato a terra da mosse schifose dell'avversario, riesce a rivoltarsi e per prima cosa sputazza sui compagni di sventura. È superiore moralmente anche nelle intercettazioni. Guai ad accomunarlo alla genia degli esseri che non sono stati introdotti da piccoli alla visione estatica di Palmiro Togliatti. Nello specifico. Dove sta la differenza con Lupi? Abbiamo provato a scavare. In effetti. La storia dei vini firmati D'Alema acquistati dalla cooperativa Concordia, nel numero di duemila bottiglie, sono cose normali, normalissime. Ad esempio. A Predappio si produce il vino del Duce, un sangiovese ovviamente nero, e i nostalgici lo acquistano non per le recensioni del Veronelli e del Gambero Rosso, ma poiché credono di rinvenirvi sentori residui di olio di ricino e di palmizi imperiali per la gloria dell'idea fascista. Immaginiamo accada la stessa cosa con le etichette di casa D'Alema: sono un segno di appartenenza, le Coop rosse si specchiano in quei riflessi e così i loro clienti, se mai avessero un dubbio, capiscono chi è il loro santo in Paradiso, e nella vigna. Ovvio. In fondo, anche se con finali diversi, sono entrambi, Benito e Massimo, ex primi ministri. Siamo assolutamente certi che per decidere la commessa (i prezzi per i privati, comprensivi di Iva, partono dalle 9,50 euro del Cabernet Franc Sfide alle 17,50 del Nerosè) abbiano nominato una commissione di enologi che hanno assaggiato alla cieca trenta diverse bottiglie di rosso, scegliendo il migliore. O no? Così per i cinquecento libri prodotti coi grappoli ubertosi cresciuti nella testa del medesimo D'Alema, Non solo euro. Anche lì ordinati si suppone previa consultazione di una severa e imparziale giuria della Fondazione Gramsci. O no? Ciascuno ha le sue idee. Ma perché caro D'Alema ci tieni così tanto a stabilire le distanze da Lupi, implicitamente dandogli del disonesto? Sostieni di essere un «pensionato», mentre Lupi era un ministro, dunque è diverso, molto diverso. Le intercettazioni fanno presente tuttavia che in realtà D'Alema vi è rappresentato come un pensionato piuttosto vispo e in carriera. Siamo costretti alla citazione da D'Alema, se no come si fa il paragone? «Bisogna investire negli Italianieuropei dove D'Alema sta per diventare commissario europeo... D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi e ci ha dato delle cose». Insomma: comprano per imbonirsi uno molto bravo a interessarsi delle cose, e che presto diventerà super-ministro. E com'è nato l'acquisto della partita di vini dalemiani? Stralcio di verbale d'interrogatorio dell'acquirente: «Posso rappresentarvi che fu D'Alema in persona in occasione di un incontro casuale, a proporre l'acquisto dei suoi vini». Si noti poi il particolare fornito dal compratore per conto della Coop Concordia: i vini sono dell'«azienda della moglie di D'Alema». Secondo noi ha ragione D'Alema. Non è come Lupi. Lupi è meglio.

Giuliano Ferrara a Massimo D'Alema: scrivi un libro. Un consiglio, quasi un'esortazione quella che Giuliano Ferrara fa a Massimo D'Alema su Il Foglio, scrive “Libero Quotidiano”. Un consiglio elargito sotto forma di una lettera che comincia così: "Gentile D'Alema che lei si senta "indignato e offeso". Una cooperativa amica può comprare derrate di suoi libri ed ettolitri del suo vino senza che il venditore debba sentirsi infamato da un reato penale, magari per accostamento a pratiche corruttive del sindaco di Ischia (da provare) o addirittura al clan dei Casalesi specie se l'accostamento sia ricavato da intercettazioni in cui se ne dicono delle brutte". Ferrara spiega come anche lui sia "schifato" dall'uso che ne viene fatto dalle intercettazioni. E evidenzia come Il Foglio si sia sempre "indignato e offeso" "di fronte a questa manomissione del diritto e della verità storia e dell'autonomia della politica".  Fatta questa premessa, l'ex direttore dà un consiglio all'ex premier: scrivere un libro. Un libro-verità "che metta definitivamente le cose a posto". Sarebbe un caso editoriale. E poi la battuta finale: "Ne acquisteremmo tre, quattrocento copie, e poi faremmo un brindisi con il suo buon vino di Umbria". 

Arrestato il vino di D'Alema. Milioni, mazzette e bottiglie: manette nel Pd e nella super coop, scrive Salvatore Tramontano su Il Giornale”. Dopo Lupi, D'Alema. I malpensanti diranno che chi attraversa la strada di Renzi si ritrova con la faccia nel fango. È la teoria del gatto nero, che si specchia con quella governativa dei gufi. La realtà è meno scaramantica e forse anche un po' più preoccupante. Lupi e D'Alema non sono indagati, ma la condanna delle intercettazioni vale più di una sentenza. Sono le frasi a effetto che fanno la differenza, i simboli. A Maurizio Lupi sono stati fatali la mezza raccomandazione a favore del figlio e l'orologio superlusso, per D'Alema il vino comprato dalla Coop coinvolta nello scandalo e il dialogo «rubato» tra due esponenti della stessa cooperativa. Ecco cosa si sono detti: «Ci sono politici che mettono le mani nella merda e quelli che non lo fanno. D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi. Ci ha dato delle cose». Quello che un tempo era l'uomo forte del Pd urla tutta la sua rabbia contro questo gioco di ventilatori. Si chiede come sia possibile che queste intercettazioni del tutto irrilevanti ai fini dell'inchiesta finiscano su stampa e tv. Perché? Con quale obiettivo? Secondo quale legge ed etica? Benvenuto a giustiziopoli. D'Alema ha fatto conoscenza con il metodo Woodcock, il pm acchiappavip, che da Fabrizio Corona a Vittorio Emanuele, da vallettopoli alla famiglia Mastella si è specializzato nel tanto rumore per nulla. Solo che le risposte alle sue domande sono tutte a sinistra. Le procure da almeno vent'anni i processi li fanno prima. Le intercettazioni da strumento utile per le indagini sono ormai una gogna politica. Ed è certo che le carte non escano da sole dagli uffici giudiziari per accomodarsi nelle pagine dei giornali. C'è qualcuno che le passa e spesso sceglie i tempi dell'uscita. L'indignazione di D'Alema è arrivata con decenni di ritardo. Non era lui quello della scossa sulla testa di Berlusconi? Ma peggio di D'Alema stanno le Coop rosse. Non c'è inchiesta che negli ultimi tempi non le veda protagoniste. È la caduta buzziana di Mafia capitale, è l'affare delle grandi opere, e questa volta a Ischia finisce nella polvere la Cpl Concordia, re del metano e una delle cooperative più antiche d'Italia. Sembra la fine di un sogno, di un'utopia. C'era una volta la coop sei tu, il sogno padano della terza via tra capitalismo e comunismo. La coop riconosciuta e protetta dalla Costituzione. C'è da chiedersi invece come la ragnatela delle Coop rosse sia diventata una fabbrica di appalti sospetti, in una zona grigia di politica e affari. Una cooperazione a delinquere.

D'Alema minaccia il giornalista: "Mi dica il nome, la denuncio". Il giornalista di Virus gli chiede del vino acquistato dalla coop finita nell'inchiesta per mazzette. D'Alema sbotta: "La querelo". Nicola Porro: "Si adoperi piuttosto per cambiare le leggi", scrive Sergio Rame Mer, 01/04/2015, su “Il Giornale”. "Gli acquisti (del vino, ndr) sono avvenuti nel corso di due anni non in una convention del Pd, sono stati regolarmente fatturati e sono avvenuti in prossimità delle festività, evidentemente per fare regali come fanno molte imprese". Massimo D'Alema perde le staffe e sbotta. Non riesce proprio a sopportare la domanda di un giornalista di Virus che gli chiede delle bottiglie di vino acquistate dalla CPL Concordia, la cooperativa rossa finita nell'inchiesta per mazzette a Ischia. "Io la querelo - tuona l'ex premier davanti a tutti - non sarebbe il primo oggi". Poi minaccia: "Mi dia il suo nome, le arriverà una denuncia". All'Università di Bari, dove partecipa al convegno Sprofondo Sud sull’ultimo numero della rivista Italianieuropei, D'Alema si scontra duramente con Filippo Barone, giornalista della trasmissione Virus che domani sera torna su Rai 2 con Nicola Porro. Barone interroga l'ex premier proprio sull'opportunità di mischiare una convention del Pd alla vendita di vini. "Come risulta chiaramente dalle fatture - replica, secco, l'ex Ds - quegli acquisti sono avvenuti nel corso di due anni, in prossimità di festività, evidentemente per fare regali, come fanno molte imprese e sono stati fatturati ad un trattamento di favore, con pagamenti a quattro mesi e non in una convention del Pd". Come ricostruisce lo stesso D'Alema, si è trattato di "acquisti avvenuti nel corso di due anni, regolarmente fatturati e non certo nel corso di una convention del Pd, non c’entra nulla". Poi, rivolgendosi al giornalista di Virus che gli ha posto la domanda, aggiunge: "E siccome sto denunciando diversi giornali, denuncerò anche lei, lei dice cose sciocche". In una intervista al Corriere della Sera, poi, D'Alema invita il Csm e l’Associazione nazionale magistrati a "esercitare una maggiore vigilanza affinché certe misure non siano superate e la magistratura non si delegittimi da sola". "Non ritengo legittimo - conclude - un uso delle intercettazioni come quello che è stato fatto nei miei confronti". Ogni volta che l'abuso delle intercettazioni va a colpire un democrat, si apre un caso nazionale. Quando tocca a un esponente del centrodestra, allora tutto passa sotto silenzio. "Si risparmi le querele - scrive Nicola Porro su Facebook - si adoperi piuttosto per cambiare le leggi". Il caso D'Alema sarà tra i temi della puntata di Virus di domani. "Sono convinto, per quello che conta, che queste intercettazioni sono una schifezza - continua Porro - per di più il metodo Woodcock che ben conosco, si basa su intercettazioni a strascico". Il conduttore di Virus è d’accordo con D'Alema sul fatto che se non lo avessero tirato in ballo, tutta l’inchiesta avrebbe avuto minore rilevanza mediatica. "Detto questo - chiosa - mi chiedo per quale dannato motivo quando si è parlato delle intercettazioni e delle leggi che le volevano regolamentare il nostro Leader maximo non si è adoperato per farle passare anzi in un caso le ha esplicitamente affossate. E mi chiedo per quale motivo la sinistra fino a quando non è toccata direttamente fischietta facendo finta che non ci sia un problema con la giustizia spettacolo". Poi Porro incalza: "Ci spieghino, cosa dobbiamo fare allora? le intercettazioni del Cav, dei suoi amici, di oscuri consiglieri regionali, di faccendieri vari; favolette come la culona della Merkel o regali di Rolex possono finire in tv, diventare miti e quelle che riguardano Dalema no? Domani - conclude Porro - Virus ha intenzione di parlare anche di queste cose e delle inchieste di Woodcock il cui stile di intercettazione e di inchieste viene improvvisamente scoperto dalla sinistra. Ben arrivata e si risparmi le querele. Si adoperi piuttosto per cambiare le leggi".

D’Alema: «Tutelare non indagati». Denuncerò chi dice il falso». In mattinata sfuriata contro un giornalista sulla questione dei vini alle coop. In serata replica dell’Anm: «Pensare ai reati». Gratteri: punire pubblicazione arbitraria, scrive “Il Corriere della Sera”. «Che noi abbiamo venduto dei vini alla cooperativa Cpl è vero, però non ho capito perché questo debba essere contenuto in un atto giudiziario dal momento che non è un reato». Massimo D’Alema non usa mezzi termini riguardo alla vicenda che lo vede coinvolto, intercettato nell’ambito di un’indagine per presunte tangenti a Ischia. «Non sono indagato per nessun reato - ha detto con fermezza da Bari, dove si trovava per un convegno della Fondazione che presiede Italiani Europei. Allora - ha continuato - perché si devono rendere pubbliche in un atto giudiziario cose private di persone, tra l’altro in questo caso si tratta di mia moglie, che non sono indagate, che non hanno compiuto alcun reato. E che vengono semplicemente gettate in pasto così all’opinione pubblica per poter essere diffamate. Occorre - ha concluso - una tutela delle persone che non sono indagate». Concetti che aveva già ribadito in un’intervista al Corriere,sostenendo che, così facendo, «la magistratura si delegittima da sola». E in serata arriva la reazione dell’Anm: «Fermare l’attenzione sui fatti gravi di corruzione che stanno emergendo, non sulle polemiche»: è l’invito alla stampa dell’Anm. .La riservatezza «va tutelata», ma «non si mettano in discussione le intercettazioni come strumento di indagine». A proposito del diritto di difesa e riservatezza delle comunicazioni, nel frattempo, una nuova fattispecie di reato di «pubblicazione arbitraria di intercettazioni» viene proposta dalla commissione Gratteri. Il nuovo reato si accompagnerebbe, tra l’altro, alla previsione dell’«inedito divieto» all’autorità giudiziaria a inserire il testo integrale delle intercettazioni. Quest’ultima disposizione - è scritto nella proposta - «mira a una tutela rafforzata del diritto di privacy, eliminando il fenomeno negativo della divulgazione, proprio tramite gli atti dell’autorità giudiziaria, del contenuto di informazioni che esulano l’accertamento processuale. Si vuole così porre uno deciso e serio sbarramento alla possibilità che la lesione alla sfera riservata degli intercettati possa trovare la sua origine nell’ attività di impiego procedimentale o processuale dei risultati delle intercettazioni». Intanto, a margine del convegno, è scoppiata una lite tra D’Alema e un giornalista del programma tv Virus. «Lei ha detto -si è infuriato l’ex premier - che ho venduto il vino durante una convention del Pd, come si chiama lei, scusi? Devo trasmettere al mio avvocato questa informazione. La prego di mandare questa registrazione, avrà una denuncia». Un’intemerata che si è svolta sotto gli occhi delle telecamere: «Quegli acquisti sono avvenuti nel corso di due anni non in una convention del Pd. Lei dice delle cose sciocche perché quegli acquisti, come risulta chiaramente dalle fatture sono avvenuti nel corso di due anni, sono stati regolarmente fatturati, sono avvenuti in prossimità delle festività evidentemente per fare molti regali come fanno molte imprese e sono stati fatturati con trattamento di favore, diciamo, perché con fatture a 4 mesi», ha spiegato, ribadendo: le bottiglie «non sono state vendute nel corso di una convention del Pd, quindi la pregherei, siccome sto denunciando, oggi, diversi giornali, denuncio anche lei, con l’occasione». «Ben arrivata» alla sinistra sulla questione intercettazioni e «si risparmi le querele. Si adoperi piuttosto per cambiare le leggi», scriveva qualche ora dopo sulla sua pagina Facebook Nicola Porro, conduttore di Virus, criticando l’uscita dell’esponente Pd. «Mi dispiace di essermi arrabbiato con un collega - si è giustificato poco dopo D’Alema - ma metterei in guardia i giornalisti dal dichiarare o scrivere simili e palesi sciocchezze». E che all’ex premier la faccenda non sia andata giù lo rivela la nota dei suoi legali, che dicono di aver «ricevuto mandato di tutelare la sua onorabilità in sede sia civile che penale da ricostruzioni evidentemente errate e strumentali che compaiono oggi su alcuni organi di stampa». Sono sempre gli avvocati a ricostruire: «L’on. D’Alema - sottolineano - non ha personalmente ricevuto alcunché dalla cooperativa CPL Concordia, né direttamente né indirettamente. La CPL Concordia ha acquistato copie del libro `Non solo euro´ in occasione di una manifestazione politica in vista delle consultazioni elettorali europee del 2014 e, nell’arco di un biennio, circa 2.000 bottiglie di vino dell’azienda agricola della famiglia del Presidente D’Alema, regolarmente fatturate e pagate con bonifici a quattro mesi di distanza dalla fornitura. Infine la CPL Concordia ha effettuato, in tre diverse annualità, finanziamenti del tutto leciti alla Fondazione Italiani Europei, che notoriamente non è una fondazione personale dell’on. D’Alema ma un istituto che egli presiede e dirige, politicamente e culturalmente, a titolo del tutto volontario, senza beneficiare né direttamente né indirettamente dei contributi che la stessa riceve per la sua attività». Il caso D’Alema riporta così alla ribalta il tema delle intercettazioni, che spesso coinvolgono anche non indagati all’interno di inchieste delicate (vedi recentemente il caso Lupi, costretto a dimettersi da ministro).«Un intervento del legislatore sarebbe opportuno, non limitando l’intervento della magistratura e non mettendo il bavaglio alla stampa, ma tutelando l’onorabilità e la riservatezza delle persone non indagate», dice il vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura, Giovanni Legnini, a margine di un convegno su «Economia e legalità» a Roma. «Il presidente D’Alema pone un tema serio, quello della riservatezza e dell’onorabilità delle persone non indagate - ha commentato Legnini - Il Csm però non è munito di poteri d’intervento d’ufficio, può intervenire se investito dal pg o dal ministro». Il tema della fuga di notizie, quindi, «meriterebbe un intervento legislativo appropriato».

Massimo D'Alema: "Una legge per tutelare chi non è indagato", scrive “Libero Quotidiano”. "Non sono indagato per nessun reato, perché rendere pubbliche in un atto giudiziario cose private di persone come mia moglie?". Massimo D’Alema non ci sta a vedere il suo nome negli atti dell'inchiesta sulle tangenti a Ischia e, dal foyer del teatro Petruzzelli di Bari, invoca una legge che avrebbe evitato anche le dimissioni dell'ex ministro Lupi che si è fatto da parte dopo essere stato coinvolto, pur non essendo indagato, nello scandalo "Grandi Opere". Una legge ad hoc - "Serve un intervento legislativo per tutelare l'onorabilità delle persone non indagate, per proteggerle da campagne diffamatorie come questa che mi vede protagonista, me e la mia famiglia", ha tuonato l'ex presidente del Copasir ribadendo la sua difesa: "E' falso che ho ricevuto bonifici per 87mila euro, per questo a partire da oggi abbiamo cominciato a muovere la carta bollata e a intraprendere azioni legali contro quanti hanno avviato questa campagna scandalistica priva di qualsiasi fondamento". Diffamazione - "Ho già avuto modo di esprimere tutta la mia indignazione - ha proseguito D'Alema - per la divulgazione di notizie che riguardano persone a me vicine che non sono indagate, messe in collegamento con un'indagine con cui non hanno nessuna attinenza. Questo episodio conferma quanto affermato oggi dal vicepresidente del Csm, ossia che occorrono delle norme per tutelare i non indagati. Perché rendere pubbliche in un atto giudiziario cose private di persone come mia moglie?". Quanto alla Fondazione di cui è presidente, ha precisato: "Definirmi beneficiario dei contributi raccolti dalla Fondazione ItalianiEuropei di cui risulto essere presidente protempore a titolo gratuito è un'affermazione falsa che ha solo carattere diffamatorio". 

Massimo D'Alema, parla la moglie Linda Giuva: "Il vigneto? Lo abbiamo acquistato per i nostri figli", scrive “Libero Quotidiano”. Travolto dal suo vino, Massimo D'Alema perde le staffe. Un uomo nel mirino, Baffino. E ora, in suo "soccorso", scende in campo niente meno che la moglie, la riservatissima Linda Giuva, che da sette anni gestisce il vigneto di famiglia, intestato ai figli Giulia e Francesco. Rompe il silenzio, la signora, e lo fa in un'intervista concessa a Repubblica dove parla dei 15 ettari di terreno dei quali 6,5 sono impegnati dal vigneto. "Vorrei fare il mio lavoro - si sfoga -, la produttrice di vino, onesta e laboriosa, senza dover essere inseguita da insulti e basse insinuazioni". Ma non è tutta pubblicità? Sì, lo è, la signora D'Alema conferma: "Abbiamo avuto in queste ore un'impennata di ordini inimmaginabile". La signora racconta che il vigneto, quando fu acquistato, era un allevamento di bovini. Poi spiega perché lo comprarono: per la prole, "con lo sguardo rivolto al futuro dei figli". I vini dei D'Alema, insomma, come una "garanzia" per il futuro dei loro pargoli. Parla il macellaio - Nell'articolo, in cui la signora Linda Giuva si sbottona ben poco, Repubblica si spende poi nell'elogio di D'Alema, citando voci che da Narni, in provincia di Terni, assicurano come "Massimo qui ha portato un po' di benessere". Nell'articolo si dà la parola anche a Fabrizio Nunzi, il macellaio del Paese, che presenta le bottiglie e spiega che un tempo votava per Silvio Berlusconi, ma ora con D'Alema si dà del tu. "Lui mi chiama e io gli preparo il filetto, la coppa di testa o il capocollo, di cui è ghiottissimo". E' forse arrogante, Baffino? Il Macellaio ovviamente rassicura tutti: "Lo pensavo anche io prima di conoscerlo, invece è un uomo senza spocchia. Doveva vederlo ad agosto alla sagra, il Vinotricolando, sembrava uno di noi: era lì con il suo banchetto, fermava le persone". L'inchiesta? "Non ci credo - taglia corto il macellaio -. Il suo vino davvero è buono, lo vogliono in tanti, e dopo questo polverone ancora di più".

Caro Massimo, benvenuto tra i perseguitati, scrive Tiziana Maiolo su "Il Garantista". Negli Stati Uniti il magistrato si tiene le intercettazioni ben strette nel proprio cassetto”. Così il giornalista Federico Rampini nella trasmissione Piazza pulita, ricorda, dal Paese in cui vive e lavora, l’anomalia italiana paragonata a un sistema, come quello americano, dove in uno spazio dieci volte più grande, il numero complessivo delle intercettazioni è pari alla metà di quelle italiano. E del resto, non occorre andare lontano per avere l’esempio di un magistrato che di recente è stato capace di “tenere ben strette nel proprio cassetto” le intercettazioni che lui stesso aveva disposto. Parliamo del Procuratore aggiungo di Venezia Carlo Nordio, che è riuscito a condurre un’inchiesta colossale come quella sul Mose senza che neppure una riga fosse sfuggita dalle maglie del segreto investigativo, intercettazioni comprese. Il che significa che è possibile evitare lo “sputtanamento”, soprattutto di persone non indagate, purché il magistrato, che è il custode naturale della riservatezza delle indagini, lo voglia. E quindi, a contrario, ogni volta che la notizia scappa, significa che il magistrato, prima di tutto ( e con lui le forze dell’ordine che dipendono dal Pm ) lo ha voluto. Intercettazioni depositate in edicola, si dice, con ammiccamento complice, tra giornalisti. E’ capitato, buon ultimo, a un esponente del Pd, Massimo D’Alema, non uno qualunque, ma che ha il torto di non essere sull’inginocchiatoio davanti a San Matteo. Sadicamente, e con un po’ di malizia, avremmo preferito che la vittima dell’ennesimo circo mediatico-giudiziario fosse un amico del premier Renzi, secondo il detto del “chi la fa l’aspetti”. Perché questo problema delle intercettazioni in edicola in genere viene preso a cuore solo da chi lo subisce e dai propri amici. Inoltre gli argomenti usati per lo “sputtanamento”, soprattutto del personaggio politico, sono sempre quelli più adatti a suscitare invidia sociale, dal posto di lavoro per il figlio o l’orologio di valore simbolico come il Rolex ( se così non fosse non esisterebbero i falsi ), come nel caso di Maurizio Lupi, o le bottiglie di vino pregiato come nel caso di Massimo D’Alema. Lo “sputtanamento” è costruito ad hoc per istigare i cittadini all’odio e all’invidia. Il personaggio individuato serve da cappello su inchieste che spesso non conquisterebbero le prime pagine (con conseguente tam tam televisivo e sui social ) senza “il nome” del politico da rosolare. E qui si apre un problema di politica giudiziaria molto serio. Da un po’ di tempo i magistrati delle indagini preliminari hanno introdotto il costume di allegare all’ordinanza di custodia cautelare il testo delle intercettazioni. Il documento complessivo è “a disposizione delle parti”, il che non vuol dire che siano atti pubblici. Ma ormai è come se lo fossero, perché magistrati e forze dell’ordine li distribuiscono a piene mani ai giornalisti dietro l’alibi che i responsabili di queste propalazioni potrebbero anche essere gli avvocati. Ma quale difensore avrebbe interesse a rendere pubbliche intere pagine che danneggiano il loro assistito? La risposta è ovvia. Inoltre, in mezzo alle intercettazioni, ne viene allegata abilmente qualcuna che riguarda un uomo politico famoso, che non è indagato, che spesso non è neppure intercettato (come nel caso di D’Alema ), ma di cui parlano altri. Che cosa si imputa, con titoloni e strilli, al non-indagato che diviene immediatamente un imputato al Tribunale del popolo? Il “comportamento”. Il re dei cattivi comportamenti resta sempre Silvio Berlusconi, e giù moralismi a palate. Ma insomma, anche Lupi e D’Alema: era opportuno che…..e giù moraleggiando. A nessuno ( o quasi ) viene in mente di considerare che il magistrato dovrebbe limitarsi, se proprio deve, ad allegare all’ordinanza solo le intercettazioni relative alla commissione di reati, e non ai comportamenti, soprattutto se di persone estranee. E comunque che dovrebbe tenerle ben strette nel proprio cassetto, come Nordio e tutti i magistrati Usa insegnano. Purtroppo queste questioni non riguardano più solo il mondo della politica, come insegna tutto quanto il processo a Massimo Bossetti, che è già diventato il processo della pubblica moralità, di cui sono diventate vittime, oltre all’imputato, tutte le donne della sua famiglia, nella cui vita affettiva e sessuale si fruga con rara morbosità, in modo che tutti noi “spettatori” possiamo sentirci più virtuosi. Il problema delle intercettazioni (una volta erano i verbali d’interrogatorio ) in edicola non ha soluzione, purtroppo. Perché ogni volta che il Parlamento o un Governo cercano di metterci mano, partono sempre con il cercare di erogare sanzioni all’utilizzatore finale, il giornalista, arrivando persino a tentare di punirlo con il carcere. Si sa già come va poi a finire, con i sindacati, gli articoli ventuno, le senonoraquando, tutti a protestare con il bavaglio sulla bocca e la cosa finisce in niente. Del resto una parte ( ma solo una parte ) di ragione i giornalisti l’hanno, perché il cane cui viene dato l’osso, come fa a non rosicchiarlo? L’unica punizione che veramente meriterebbero certi giornalisti è di essere intercettati, non solo al telefono, anche in camera da letto o sulla Comasina, che è una strada abitualmente popolata da prostitute. Per il resto, l’unico che dovrebbe essere sanzionato ( ma da chi? Dai suoi colleghi?) è il naturale custode della notizia, colui che l’ha prodotta e che dovrebbe tenerla “ben stretta nel proprio cassetto”.  Ecco perché il problema non ha soluzione, ecco perché è inutile lamentarsi, caro compagno D’Alema. Benvenuto tra noi.

Arrangiatevi, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Riassunto. Nel 2005 ci fu una convergenza tra Berlusconi e i Ds per una legge sulle intercettazioni, ma nel 2006 i Ds bocciarono la proposta (Castelli) perché c'era la campagna elettorale. Dopo la diffusione delle intercettazioni su Antonveneta, poi, i Ds ricambiarono idea e nel 2007 ci fu la legge proposta da Clemente Mastella: fu votata da Ds, Margherita, Verdi e Rifondazione comunista, ma poi - tra polemiche arroventate - si arenò al Senato. Nel 2008, durante la campagna elettorale, Walter Veltroni promise di riesumare la proposta, ma poi ricambiò idea e, in giugno, si accodò alla posizione di Di Pietro e dell'Associazione nazionale magistrati, anche se nel programma Pd restava scritto che pubblicare intercettazioni durante le indagini andava espressamente proibito. Nel 2010 il governo Berlusconi cercò di blindare finalmente una legge, ma fioccarono manifestazioni (anche un'assemblea di direttori di giornale) e il provvedimento si sfarinò, con Massimo D'Alema che definì la norma "ostruzionistica per le indagini". Nel 2013 i "saggi" nominati da Napolitano dissero che l'uso delle intercettazioni andava ridotto, ma il Pd, in Commissione giustizia, rispose che "il tema non è una priorità". Ora D'Alema non è indagato come non lo era Maurizio Lupi, tuttavia "io non do gli appalti" specifica il Migliore. Il quale è stato sputtanato dalle intercettazioni come Maurizio Lupi, tuttavia "D'Alema non è ministro" specifica l'altro Migliore, il piddino Gennaro. Insomma, D'Alema: vedi titolo.

SPUTTANATI E SPUTTANANDI.

Pd, scandali e risse: la deriva che Matteo Renzi non riesce a fermare. Travolto dalle inchieste. Infiltrato da affaristi e mafiosi. Con gli iscritti in fuga. Il partito democratico è in crisi. E il segretario e premier non sembra poterla controllare, scrive Marco Damilano su “L’Espresso”. Divisioni. Iscritti in fuga. Infiltrazioni di ogni tipo, comprese quelle della criminalità mafiosa. «Un partito buttato», travolto da indagini giudiziarie e da minacce di scissione. È il Pd che si avvia alle elezioni regionali di fine maggio raccontato nell'inchiesta dell'“Espresso” di questa settimana. Un viaggio da Nord a Sud in quello che l'ex ministro Fabrizio Barca nel suo rapporto sul Pd romano definisce «un partito non solo cattivo ma pericoloso e dannoso», in cui «traspaiono deformazioni clientelari e una presenza massiccia di “carne da cannone da tesseramento”» e che «subisce inane le scorribande dei capibastone». Con il più importante dei suoi leader storici, Massimo D'Alema, in guerra con la magistratura e con la stampa dopo intercettazioni e notizie senza rilevanza penale che accostano la sua fondazione ai dirigenti della cooperativa Cpl Concordia arrestati da pm napoletani. A Roma e a Ostia il Pd è chiamato a liberarsi dai condizionamenti della mafia. In Calabria non è stata ancora completata la formazione della giunta di Mario Oliverio, eletta quattro mesi fa. In Campania c’è il caso di Vincenzo De Luca e l'arresto a Eboli di funzionari accusati di sfruttare donne immigrate: certificati falsi di residenza in cambio di voti alle primarie comunali per il Pd. In Sicilia c’è il candidato vincente alle primarie del Pd Silvio Alessi che in realtà è di Forza Italia. Nelle Marche, al contrario, il presidente uscente del Pd Gian Mario Spacca guiderà una lista civica di centrodestra con gli uomini di Berlusconi. In tutte queste situazioni c’è un solo protagonista, il Pd di sempre, con i vecchi uomini e i vecchi metodi, e un grande assente, il nuovo corso di Renzi. Decisionista da capo del governo, da segretario del Pd Renzi si rivela immobilista. Nei territori finisce in minoranza o è costretto ad affidarsi ai professionisti del trasformismo. E dietro di lui c’è il deserto. «vedo una contraddizione profonda tra il Pd di Roma e il territorio e tra Renzi e il renzismo. C’è una grande distanza tra il segretario-premier e la sua classe dirigente», dice Antonio Bassolino. E sulla scissione, avverte il grande vecchio Alfredo Reichlin, «vedo in Renzi una preoccupazione. Lui sa che non si fa un partito del 40 per cento che vuole rappresentare il Paese nel profondo senza un rapporto con l’elettorato di sinistra e le sue rappresentanze». Ma anche per questo il Pd renziano rischia di apparire un'occasione perduta. Un partito buttato.

Ma che razza di partito è diventato il Pd? Scosso dagli scandali, da nord a sud. Succube dei vecchi apparati. In calo drammatico di iscritti. Diviso fino al rischio di scissione. Si avvicinano le elezioni regionali e il Pd è del tutto fuori controllo. E Renzi sembra incapace di agire, continua Marco Damilano. Vecchia pietra/per costruzioni nuove/vecchio legname/per nuovi fuochi...». Il senatore del Pd Mario Tronti quasi sussurra i versi di Thomas Stearns Eliot per festeggiare i cento anni di Pietro Ingrao, l’ultimo comunista, il sopravvissuto del secolo delle ideologie. Nell’auletta dei gruppi parlamentari applaudono le prime file, il capo dello Stato in carica (Sergio Mattarella) e il presidente emerito (Giorgio Napolitano), Pier Luigi Bersani e Achille Occhetto, Anna Finocchiaro e Luciano Violante, Emanuele Macaluso e Aldo Tortorella, antichi più che anziani. Vecchie pietre, vecchio legname. Le nuove costruzioni, il Pd di Matteo Renzi, non si vedono in sala. Non c’è un ministro a testimoniare la presenza del nuovo corso, neppure un vice-segretario. «Il governo? E chi è?». Massimo D’Alema, seduto a due posti di distanza dall’ex rivale Occhetto, sfodera l’acidità dei momenti peggiori. Il giorno prima il suo nome è rimbalzato nell’inchiesta giudiziaria che ha portato   ll’arresto del sindaco Pd di Ischia Giosi Ferrandino , candidato alle europee. Notizie non rilevanti ai fini penali sull’acquisto di bottiglie di vino di produzione dalemiana e di cinquecento copie del suo libro, più finanziamenti di 60mila euro (registrati) della cooperativa Cpl Concordia alla fondazione Italianieuropei, corredate da intercettazioni («D’Alema è uno che mette le mani nella m...»), ma che bastano a far infuriare l’ex premier. Galeotto fu il libro: “Non solo euro”, il testo in questione, fu presentato a Roma da Renzi il 18 marzo 2014, quel giorno Matteo assicurò che per la futura Commissione europea il governo avrebbe scelto «le persone più forti che abbiamo». D’Alema si era riconosciuto nell’identikit, invece Renzi designò Federica Mogherini. È anche da quella promessa che parte la guerra che oggi dilania il Pd. Il fantasma di una mini-scissione che agita il partito del 41 per cento alle elezioni europee, con la minoranza interna che minaccia di non votare la legge elettorale Italicum quando a fine mese approderà alla Camera. Un atto che segnerebbe una rottura irreparabile. «Operazione 27 aprile», la chiama Pippo Civati. Ma la vera guerra contro il passato che preoccupa Renzi non è quella contro i leader della minoranza (Pier Luigi Bersani, Gianni Cuperlo, Stefano Fassina, Rosy Bindi, Pippo Civati), divisi tra loro. È la difficoltà a far cambiare verso al Pd, dopo quasi un anno e mezzo di segreteria. Divisioni. Iscritti in fuga. Infiltrazioni di ogni tipo, comprese quelle della criminalità mafiosa. «Un partito non solo cattivo ma pericoloso e dannoso», ha scritto l’ex ministro Fabrizio Barca nel suo rapporto sul Pd romano, in cui «traspaiono deformazioni clientelari e una presenza massiccia di “carne da cannone da tesseramento”» e che «subisce inane le scorribande dei capibastone». A Roma il centrosinistra governa dal 1993, salvo la parentesi di Gianni Alemanno dal 2008 al 2013, l’inchiesta Mafia Capitale sta sfiorando le amministrazioni del Pd e i suoi uomini-chiave. L’ultimo indagato, il cinquantenne Maurizio Venafro, era il capo di gabinetto di Nicola Zingaretti alla presidenza della regione Lazio. Nato e cresciuto nella Fgci di Goffredo Bettini e nelle sezioni di borgata del Pci, nessuno ha mai messo in discussione la sua correttezza ma è il modello Roma fatto persona, per più di venti anni nelle stanze del potere romano: capo staff di Francesco Rutelli in Campidoglio, affiancandolo nella candidatura a premier nel 2001, capo del dipartimento comunicazione con Enrico Gasbarra alla Provincia di Roma, capo delle relazioni esterne della giunta Marrazzo e infine braccio destro di Zingaretti. Negli stessi giorni è stato sciolto il municipio di Ostia, governato dal Pd, per collusioni con la mafia. Roma è l’unica situazione locale in cui Renzi si è mosso con rapidità, nominando commissario il presidente del partito Matteo Orfini. Che non è un estraneo alle beghe correntizie, è stato in cordata per anni con il deputato Umberto Marroni (uno dei commensali, tra l’altro, nella cena in cui il futuro ministro Giuliano Poletti sedeva a tavola con Gianni Alemanno e con il socio del boss Massimo Carminati Salvatore Buzzi). Nel partito li chiamavano i Dalemerrimi o i Dalebani, per sottolineare la fedeltà al loro capo di allora, D’Alema. In minoranza a Roma, dove dominavano Bettini, Zingaretti, i veltroniani. Oggi Orfini sta con Renzi, ha impugnato la bandiera del rinnovamento: azzeramento delle commissioni in Campidoglio, inchiesta sui circoli, invito ai consiglieri comunali ad andare in Procura a denunciare le situazioni sospette. In altre situazioni, invece, il Pd nazionale stenta a intervenire. In Calabria non è stata ancora completata la formazione della giunta di Mario Oliverio, eletta il 23 novembre, quattro mesi fa. E non si può neppure dare la colpa all’inesperienza, dato che il nuovo presidente è entrato per la prima volta nel consiglio regionale calabrese nel 1985, quando Renzi aveva dieci anni. In Campania c’è il volo del calabrone Vincenzo De Luca su cui pesa una condanna in primo grado per abuso di ufficio e che per la legge Severino potrebbe essere costretto a sospendersi dalla sua funzione in caso di elezione. Ma ha vinto le primarie e si presenta come l’uomo di Renzi in regione. Intanto a Eboli un funzionario del Comune e un imprenditore sono stati arrestati con l’accusa di sfruttare donne immigrate: certificati falsi di residenza in cambio di voti alle primarie comunali per il Pd. In Sicilia c’è lo scambio delle identità. Nella pirandelliana Agrigento il candidato vincente alle primarie del Pd Silvio Alessi in realtà è di Forza Italia, sponsorizzato dal presidente del Pd isolano Marco Zambuto (ex cuffariano, ex alfaniano, oggi faraoniano, nel senso di Davide Faraone, il sottosegretario all’Istruzione capo dei renziani in Sicilia) che è andato in visita ad Arcore da Silvio Berlusconi. Nelle Marche, dopo dieci anni di governo, il presidente uscente del Pd Gian Mario Spacca si è buttato dalla parte opposta e guiderà una lista civica di centrodestra aperta a Forza Italia. In tutte queste situazioni c’è un solo protagonista, il Pd di sempre, con i vecchi uomini e i vecchi metodi, e un grande assente, il nuovo corso di Renzi. Il leader egemone a Roma, che strapazza e umilia gli avversari, nei territori finisce in minoranza o è costretto ad affidarsi ai professionisti del trasformismo. E dietro il leader c’è il deserto. I renziani, per ora, non esprimono una classe dirigente, un’organizzazione, una cultura politica. Faticano a darsi un nome. Una settimana fa i renziani della Lombardia si sono riuniti per la prima volta tutti insieme con il segretario regionale Alessandro Alfieri e con il numero due del Pd nazionale Lorenzo Guerini. E hanno deciso di chiamarsi “maggioranza del Pd”, così, senza altri aggettivi. Qualunque altra definizione, tipo quella dei catto-renziani vagheggiata dagli amici di Graziano Delrio, avrebbe fatto infuriare il premier. Di riforma del Pd si stanno occupando due ex avversari del leader, Orfini e il bolognese Andrea De Maria, incaricato di preparare un evento a Cortona. Sul tesseramento è stato chiamato a lavorare il deputato di Arezzo Marco Donati, renziano della prima ora. Compito delicato. Nel 2014 a Bologna, la città rossa per eccellenza, nell’anno del boom elettorale renziano, si sono persi per strada un quarto degli iscritti. I circoli chiudono: erano tre a Sasso Marconi, ne è rimasto uno e il nuovo segretario cittadino è stato votato da cinquanta irriducibili (su 400 iscritti). Altrove è il contrario, c’è il tesseramento gonfiato di anime morte. L’ex deputato di Sel Gennaro Migliore, ora renziano, spedito da Orfini a monitorare il municipio romano di Tor Bella Monaca, non si separa mai da una cartellina rossa che contiene i primi risultati dell’indagine: almeno un quarto delle tessere è di provenienza incerta, sospetta. «Ho votato per Renzi alle primarie e lui è un politico di razza», osserva un padre nobile del Pd come Antonio Bassolino, «ma vedo una contraddizione profonda tra il Pd di Roma e il territorio e tra Renzi e il renzismo. C’è una grande distanza tra il segretario-premier e la sua classe dirigente, una questione che continua a restare irrisolta e che è sempre più urgente. È una difficoltà quasi tecnica: con l’attività di governo che assorbe ogni energia dove può trovare Renzi il tempo di affrontare le tante questioni locali?». Le elezioni regionali sono ormai vicine. Un nuovo test per il Pd renziano dopo le trionfali europee del 2014 e le regioni conquistate negli ultimi mesi (l’Emilia confermata nonostante inchieste e astensioni e Sardegna, Piemonte, Abruzzo e Calabria strappate al centro-destra). Se sulla legge elettorale dovesse arrivare lo strappo della minoranza le conseguenze sul voto sarebbero imprevedibili. Ma ancora più imprevedibile è che il premier decisionista sul rinnovamento del partito si riveli immobile. Abbandonando il Pd al vecchio legname. Senza costruzioni nuove.

La Ditta del Pd si rottama da sola. Ischia, Roma, le cooperative. Nuovi scandali che coinvolgono soprattutto uomini ex Pci. Ma con un partito così Renzi non può rinnovare il Paese, scrive Luigi Vicinanza su “L’Espresso”. C'è dell'umorismo involontario nel titolo dell’ultimo libro di Massimo D’Alema, “Non solo euro”, cinquecento copie del quale sono state acquistate dalla cooperativa rossa Cpl Concordia, quella che trafficava con il sindaco d’Ischia. E già, non solo euro. Ma anche vino. Duemila bottiglie di rosso. Dalemiano, rigorosamente. Acquistate sempre dalla stessa coop. Saperi & sapori: la via rivoluzionaria per la conservazione del potere. Nulla di illegale, è stato ripetuto. Ed è bene ribadirlo. Come nel caso del Rolex regalato al figlio dell’ex ministro Maurizio Lupi. Così si usa a Roma e dintorni. D’altra parte è tutto ancora da verificare il fondamento dell’inchiesta condotta da un pm napoletano famoso non certo per i risultati processuali. Intanto però le carte giudiziarie, prima di un reato, ci parlano di una diffusa spregiudicatezza nei comportamenti. Non è roba da codice penale, ma da codici di stile. Ecco dunque sempre dalla Cpl Concordia un versamento di 60mila euro alla fondazione che fa capo a D’Alema, Italianieuropei. Con tre distinti bonifici negli anni. Dunque verosimilmente fatturati. Ma rimasti finora riservati. Difficile credere a una donazione disinteressata. L’associazione dalemiana, interpellata da “l’Espresso” tre mesi fa in occasione di una preveggente copertina, “Le casseforti dei politici”, disse di preferire la segretezza dei conti alla trasparenza sui nomi dei donatori. Perché quel tipo di finanziamento non ha regole. Ognuno fa come gli pare. Leader nazionali e capetti di periferia si sono intestati la loro fondazione. Di destra come di sinistra. Promuovono convegni, riviste e vino quando serve. Senza vergogna. Una onorevole tradizione politica, tramandata dal Pci di Berlinguer, si spappola definitivamente in affarucci di bottega o in tangenti d’oro. Con le cooperative rosse sempre più spesso al centro di inconfessabili patti scellerati. Peggio del peggior capitalismo. Corruttori delle regole di mercato in nome di una solidarietà sociale perduta e umiliata. Appare dunque come una beffa della storia l’accusa rivolta a Matteo Renzi dalle agitate minoranze interne del Pd: non sei di sinistra. Riducendo l’essere di sinistra a un’etichetta, a una rendita di posizione, senza valori e contenuti. La “ditta” di bersaniana memoria si è disintegrata per colpa dei suoi troppi difetti, prima ancora che per la rottamazione renziana. Da Ischia a Venezia, lungo tutto lo stivale, è un festival di pasticci. Tale da mettere a rischio la stessa sopravvivenza del Partito democratico, con tutta l’arroganza della “vecchia guardia”. È il tema della nostra inchiesta di copertina di questa settimana. Al premier-segretario questo partito sta stretto più di quanto dica Massimo D’Alema che ancora pochi giorni fa evocava manovre di scissione. Fuori da Palazzo Chigi e dalla stanze del Nazareno è evidente l’assenza di controllo. Il rinnovamento non si intravede oltre il perimetro degli studi tv. Non è necessario spingersi nel profondo Sud, basta restare a Roma. Il rapporto stilato da Fabrizio Barca, dirigente rigoroso, studioso di valore, racconta di un’organizzazione inquinata, dannosa (vedi “l’Espresso” n. 13): un iscritto su cinque è fasullo; la compromissione con i clan di Mafia Capitale inquietante. Il contenitore è corrotto. C’è ancora del contenuto da salvare? Con buona pace di quegli onesti e generosi militanti resistenti a ogni choc. Per lo stesso Matteo Renzi è difficile liberarsi di notabili e capifazione quando questi controllano ingenti pacchetti di voti. Giosi Ferrandino, il sindaco di Ischia arrestato, alle europee del maggio scorso ha rastrellato in tutto il Sud oltre 80mila preferenze. Sì, quelle stesse preferenze che, secondo convenienza, vengono sbandierate come strumento di democrazia e partecipazione per la selezione dei gruppi dirigenti. E i risultati si vedono. Negativi. La narrazione renziana è lontana dalla realtà. Non basta rottamare. Quel che resta del Pd va rifondato. È in gioco la stessa credibilità del segretario e del suo progetto politico. Se non rinnova in casa, come può rinnovare l’Italia?

Finché incassate soldi di nascosto, scrive Alessandro Gilioli su L'Espresso". «Restano misteriosi e non accessibili molti dei flussi finanziari che rappresentano forme diverse di finanziamento del sistema della politica nel nostro paese». E poi: «Avere dati dettagliati sui finanziamenti che i partiti hanno ottenuto dai privati sarebbe stato interessante. Sfortunatamente, questi dati sono risultati non recuperabili». E ancora: «Il nostro lavoro è stato reso difficoltoso dalla difficoltà di accesso ai dati e dalla bassa qualità degli stessi (…). L’esigenza della trasparenza e della massima fruibilità dei dati rappresenta ancora un obiettivo da raggiungere». Queste parole testuali appaiono nel report ufficiale sui costi della politica rilasciato dall'ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, finalmente reso pubblico: e ora si capisce anche meglio perché Cottarelli non è più lì. Non sarà un eroe dei due mondi, ma ha detto l'indicibile: e cioè che i partiti prendono soldi in mille modi che noi non sappiamo, che quando uno (nominato dal governo!) cerca di scoprirlo gli mettono i bastoni tra le ruote e che infine la trasparenza sui finanziamenti veri alla politica, in questo Paese, è lontanissima. È curioso come la cannonata ad alzo zero di Cottarelli sia apparsa on line proprio mentre D'Alema abbaiava e querelava in giro perché sui giornali era uscita l'intercettazione che riguardava lui e la sua fondazione. Nell'intercettazione, lo ricordo, il regista degli affari sporchi della cooperativa Cpl Francesco Simone dice: «Bisogna investire negli Italianieuropei dove D’Alema sta per diventare commissario europeo... D’Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi e ci ha dato delle cose». Lo stesso Simone parla poi con un’impiegata della Fondazione «dell’acquisto da parte di “Cpl” di alcune centinaia di copie dell’ultimo libro del politico nonché di alcune migliaia di bottiglie del vino prodotto da un’azienda agricola riconducibile allo stesso D’Alema». Nella perquisizione alla Cpl sono stati infine trovati «tre dispositivi di bonifici effettuati da “Cpl” in favore della Fondazione Italianieuropei ciascuno per l’importo di 20 mila euro nonché un ulteriore dispositivo di bonifico per l’importo di 4.800 euro per l’acquisto di 500 libri di D’Alema dal titolo “Non solo euro”». Come noto, D'Alema si è incazzato come un puma perché sono usciti quei verbali: «È incredibile diffondere intercettazioni che nulla hanno a che vedere con l’indagine, la giustizia non può avere come fine quello di sputtanare le persone, ma deve avere come fine la ricerca dei responsabili dei reati». Poi ha pure perso un po' la calma. Le fondazioni dei politici in Italia sono prevalentemente macchine per finanziare i politici stessi e soprattutto non rivelano a nessuno i nomi dei loro finanziatori: «Ottengono i quattrini che sono il vero motore delle campagne elettorali. Possono intascare centinaia di migliaia di euro senza darne conto e sono fuori da ogni possibilità di controllo», come ha detto il presidente dell'Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone. In particolare, quando nel dicembre scorso "l'Espresso" ha chiesto a ItalianiEuropei chi la finanziava, ha ottenuto un secco diniego con la seguente spiegazione: «Preferiamo la privacy alla trasparenza. I nostri bilanci sono depositati alla prefettura, non ci sono i nomi e i cognomi ma trovate entrate e uscite». Quindi quei verbali che tanto hanno fatto infuriare D'Alema sono stati sostanzialmente un (pur minuscolo) squarcio di verità sui finanziatori segreti della sua Fondazione. E allora, il problema in questo Paese è un verbale processuale depositato che restituisce ai cittadini una piccolissima porzione di un loro diritto sacrosanto - sapere chi finanzia privatamente la politica - o è il fatto che la politica si faccia finanziare in modo torbido e segreto? Ecco: con permesso, finché i partiti e i politici incassano i soldi di nascosto dai cittadini, tramite le loro fondazioni, credo che qualsiasi loro lamentela sulla pubblicazione dei verbali "sputtananti" abbia davvero scarsa credibilità, scarsa autorevolezza, ma soprattutto scarsissima ragion d'essere.

"D'Alema attacca i cronisti ma ce l'ha con Woodcock". Il suo braccio destro a Palazzo Chigi: "Coi giornali ha un rapporto morboso. Per lui bisogna 'lasciarli in edicola'. Anche sua madre non li sopporta. Ma da premier rimise tutte le querele", scrive Andrea Cuomo su "Il Giornale". «Massimo è un antico professore di liceo. Uno di quelli che quando ti interroga va a fondo, non si accontenta di risposte abborracciate. Per questo non sopporta la superficialità del giornalismo attuale». Fabrizio Rondolino ride quando gli chiediamo del D'Alema che minaccia di querele i giornalisti, lui che ne è stato responsabile della comunicazione, lui che ne è stato amico (spesso) e nemico (talvolta), lui che l'altro ieri si è preso anche la briga di ordinargli, per solidarietà, due casse di vino Madeleine («una di NarnOt e una di Sfide»).

Rondolino, va bene che noi giornalisti siamo spesso degli adorabili cialtroni. Ma lui non se la prende troppo?

«Ma lui sbaglia, perché se il sistema informativo è questo, la battuta di agenzia che dà il titolo, bisogna essere furbi e cavalcarlo. O ignorarlo, come fa Renzi, che non considera i giornali, per lui sono già morti, lo bastonano e fa finta di nulla, lui punta su tv e social network».

Proprio un bel quadretto...

«Lo aveva detto lo stesso D'Alema a Prima Comunicazion e negli anni Novanta: i giornali bisogna lasciarli in edicola».

Ecco, la profezia si avvera.

«Sì, ma per altri motivi».

Torniamo a D'Alema. Si ricorda qualche episodio?

«Sì, ma non d'ira, semmai di sarcasmo. Ricordo una giornalista che gli si avvicinò col microfono sguainato: Segretario, posso farle una domanda? E lui, gelido: L'ha già fatta. E si allontanò lasciando la collega con un palmo di naso».

Si racconta anche di una fatwah nei confronti di Augusto Minzolini quando era notista politico della Stampa.

«Io già non lavoravo più con D'Alema. Peraltro a me il Minzo sta simpatico. Ma quella volta avrà scritto qualcosa di antipatico o di terribilmente vero».

Un rapporto insanabile tra Baffino e l'informazione.

«Sì, ma nato da un amore tradito. D'Alema, da vecchio comunista, ha sempre avuto un rapporto morboso con la carta stampata. Antonio Gramsci fondò prima i giornali e poi il Pci. E non era Marx che diceva che il giornale è la preghiera mattutina dell'uomo moderno? No, mi sa che era Hegel».

Sì, Hegel.

«Che poi anche la mamma di D'Alema ce l'aveva con i giornalisti. La incontrai solo una volta e mi trattò come una persona poco affidabile».

Magari aveva ragione la signora. Ma scatti di ira mai?

«Non ricordo urla o porte sbattute. Non voglio fare psicoanalisi da bar, ma questo è uno dei suoi problemi. Lui è un vecchio illuminista, pensa davvero che la ragione sovrasti tutto. Da qui l'estremo autocontrollo, che si manifesta in quella postura sempre contratta. La mente controlla le passioni. Punto».

Una persona fredda.

«Ma no, poi non è affatto freddo. È timido, legato alla famiglia, ama la moglie. Ma questa sfera affettiva è sepolta dentro la corazza dell'illuminista».

Sa perdonare?

«Mettiamola così. Una delle cose che mi ha insegnato è che la battaglia politica non è mai personale. Lui le ha prese e le ha date non dico con fair play ma con l'atteggiamento del giocatore di scacchi che se perde non cerca scuse e pensa alla rivincita. Infatti quando diventò presidente del Consiglio, nel 1998, rimise tutte le querele, primo e unico a farlo. Da leader di una parte politica era diventato il presidente di tutti gli italiani e pensò a un gesto distensivo».

Ne rimise una anche a me.

«Che poi, lui, ora, mica ce l'ha con i giornalisti ma con la magistratura. Se la prende con la stampa perché non può prendersela con Woodcock che lo ha gettato in una vicenda in cui non è nemmeno indagato».

Con lei si è mai arrabbiato?

«Quando fallì la scalata alla poltrona di commissario europeo, per Europa scrissi un pezzo affettuoso in cui sostenevo che era la fine della sua carriera politica. Qualcuno glielo fece notare e lui: Non mi occupo di giornali clandestini».

Alla faccia dell'affetto. E in che rapporti siete ora?

«Ma dài, buoni; gli voglio bene, gli compro anche il vino».

Chieda lo sconto. Col caldo i rossi non si vendono più.

«Allora lo pretendo».

Michele Santoro attacca i dalemiani: "Siete dei miserabili". Il conduttore attacca anche "Baffino" e i suoi vini acquistati dalle Coop, scrive Mario Valenza su "Il Giornale". Dopo le intercettazioni e le polemniche sul caso Ischia piovute addosso a Massimo D'Alema, Michele Santoro attacca "Baffino" nel suo monologo iniziale a Servizio Pubblico. In apertura di puntata, Santoro si è rivolto direttamente all'ex presidente del Consiglio sfottendolo sui tanti ruoli che ha ricoperto finora, da politico a presidente della fondazione Italianierupei fino al vignaiolo. "C'è chi ha parlato malissimo dei suoi vini, come l'ex sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, candidato Pd alla presidenza 'Ha detto che il tuo vino è una schifezza, lo ha fatto per far piacere a Renzi e per i titoli sui giornali - ha detto Santoro - così come fanno i miserabili ex amici di D'Alema che non perdono occasione per sputargli in faccia. Oppure - aggiunge il conduttore - come i soci della Coop Concordia che apprezzano il fatto che D'Alema è uno capace di mettere 'le mani nella m...'".

Michele Santoro attacca Massimo D'Alema: "Grazie a te il prossimo leader maximo sarà Matteo Salvini", scrive “Libero Quotidiano”. Non vedeva l'ora Michele Santoro di togliersi altri sassi delle scarpe contro Massimo D'Alema. E tutto il caos sulle intercettazioni che riguardano il Baffino a proposito dell'inchiesta sulle tangenti al comune di Ischia è stata l'occasione ghiotta per il tribuno di La7. In apertura a Servizio Pubblico si è rivolto direttamente all'ex presidente del Consiglio sfottendolo sui tanti ruoli che ha ricoperto finora, da politico a presidente della fondazione Italianierupei fino al vignaiolo. C'è chi ha parlato malissimo dei suoi vini, come l'ex sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, candidato Pd alla presidenza della Campania: "Ha detto che il tuo vino è una schifezza, lo ha fatto per far piacere a Renzi e per i titoli sui giornali - ha detto Santoro - così come fanno i miserabili ex amici di D'Alema che non perdono occasione per sputargli in faccia. Oppure - aggiunge il conduttore - come i soci della Coop Concordia che apprezzano il fatto che D'Alema è uno capace di mettere 'le mani nella m...'". Secondo Santoro il grande vincitore rimane ancora una volta Matteo Renzi e quasi si intravede una nuova sfavillante ossessione dopo Berlusconi. "D'Alema non sarà condannato perché non ha fatto niente di illecito - dice Santoro - lo saranno però quelli che hanno creduto in lui, condannati a tifare Renzi per evitare il trionfo della Destra". E poi c'è un altro merito di Baffino, cioè quello di aver fatto scappare gli elettori delle periferie, i lavoratori: "Che continueranno a non credere più nel socialismo e voteranno Matteo Salvini. Uno - aggiunge Santoro - che sa solo ripetere 'a casa, a casa' oppure 'Santoro a casa'. Uno così originale - ha concluso un infiacchito Santoro - corre il rischio di diventare il leader maximo, altro che D'Alema".

Istituzioni, coop e imprese: chi finanzia Italianieuropei. Italianieuropei può contare su un fatturato di 1,2 milioni di euro. Nonostante i fondi stiano calando, la fondazione si sostenta attraverso finanziamenti diretti e inserzioni pubblicitarie di garndi imprese: ecco chi sostiene economicamente la fondazione di Baffino, scrive Sergio Rame su Il Giornale. "... È molto più utile investire negli Italiani Europei dove D'Alema sta per diventare commissario europeo, capito... D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi ci ha dato delle cose...". È il brano di un dialogo intercettato tra Francesco Simone e Nicola Verrini, due degli arrestati nell'ambito dell'inchiesta sulle opere di metanizzazione che hanno interessato i comuni dell'isola di Ischia. È la prima conversazione, riportata nell'ordinanza di custodia, nella quale si fa riferimento a Massimo D'Alema. Ed è il gip Amelia Primavera a sottolineare come per "comprendere fino in fondo e per delineare in maniera completa il sistema affaristico organizzato e gestito dalla Cpl Concordia, appare rilevante soffermarsi sui rapporti intrattenuti tra i vertici della cooperativa e l'esponente politico che è stato per anni il leader dello schieramento politico di riferimento per la stessa Cpl Concordia, che è tra le più antiche cosiddette cooperative rosse". Rapporti che passano anche attraverso la fondazione dell'ex premier: Italianieuropei. Che peso ha economicamente e politicamente la fondazione di D'Alema? Difficile a dirlo con esattezza. Come riporta la Stampa, Italianieuropei può contare su un fatto di 1,2 milioni di euro. La maggior parte di questo bottino viene portato a casa dalla pubblicità che, nonostante la crisi dell'editoria e gli appena mille abbonati alla rivista di riferimento della fondazione, tiene botta. Come aveva spiegato il segretario Andrea Peruzy, agli inserzionisti vengono proposti pacchetti da 30mila euro. Tra questi troviamo Mps, Enel, Eni, Unicredit, Rai e Aeroporti di Roma. Tanto per citarne alcuni. La lista è lunga. La struttura, però, costa. Nell'ultimo triennio, per esempio, la Solaris, la srl che pubblica i libri e le riviste della fondazione, ha chiuso in negativo: meno 115mila euro nel 2011, meno 214mila euro nel 2012 e meno 154mila euro nel 2013. Ogni volta il buco è stato ripianato dalla fondazione. Negli ultimi giorni sono crescite le pressioni su D'Alema per capire da dove arrivano i soldi che "gonfiano" le casse di Italianieuropei. "D'Alema faccia i nomi di tutti i suoi donatori - tuona il piddì Fabrizio Barca - così si potrebbe tramutare una cosa sgradevolissima in una grande sfida". Di questi nomi si sa poco è niente. Come ricostruisce la Stampa, i primi finanziatori furono poco più di una ventina. Misero insieme un miliardo di lire: 103mila euro dalla Lega delle Coop guidata da Ivano Barberini, 100mila euro dalla Cooperativa estense, 50mila euro dall'Associazione nazionale delle cooperative e dalla Lega coop di Modena, 25mila euro dalla Lega coop di Imola. E ancora: la Romed di Carlo De Benedetti, la Fiat e la Pirelli. Cifre che variavano dai 25 agli 80mila euro. Non mancavano certo imprenditori come Guidalberto Guidi, gli Angelucci, Francesco Micheli, Vittorio Merloni, Alfio Marchini, Claudio Cavazza e Giuseppe Clementi. Italianieuropei non è una fondazione ad appannaggio di D'Alema. Nel comitato di indirizzo siedono infatti politici come Gianni Cuperlo, Anna Finocchiaro, Ignazio Marino e Franco Marini. Negli ultimi anni i finanziamenti si sono ridotti. Ma, stando a quanto riportato dalla Stampa, ancora nel 2012 veniva finanziata da Finmeccanica e Poste con cifre oltre i 25mila euro. Tra gli inserzionisti della rivista, invece, troviamo ancora Piaggio, Fs, British american tocacco e, appunto, Finmeccanica. "Stiamo valutando le modalità con cui rendere noti i nomi dei nostri sostenitori - ha spiegato nei giorni scorsi la portavoce Daniela Reggiani - naturalmente nel rispetto della normativa e della loro privacy".

La Coop finanziava anche Renzi, Bersani e Meloni, scrive “Libero Quotidiano”. Non solo Massimo D’Alema. Emergono sempre nuovi particolari dalle carte dell'inchiesta di Napoli  sui finanziamenti della cooperativa Cpl Concordia. Secondo quanto riporta Il Fatto Quotidiano avrebbe finanziato una cena elettorale di Matteo Renzi, ha versato 17.000 euro al Pd di Roma e ha dato contributi elettorali un po’ a tutti: a Ugo Sposetti ed Eugenio Patané del Pd, al comitato "Per Ignazio Marino sindaco di Roma", alla lista civica Zingaretti e al Pd marchigiano. Ma le elargizioni erano bipartisan perché dalle carte dell’inchiesta spunta il nome dell’esponente di Fratelli d' Italia Antonio Paravia e al comitato "Io sto con Giorgia Meloni". Il Fatto riporta l’interrogatorio del direttore generale affari esteri Cpl Fabrizio Tondelli che diece: "Io non darei soldi a nessun politico e infatti anche quando si è parlato di partecipare alla cena di Renzi io ero in disaccordo, non trovavo alcuna utilità. Tuttavia il cda per motivi commerciali e di opportunità ha poi stabilito diversamente e quindi ha erogato il contributo". L’elargizione era sempre dichiarata. E quello che colpisce è proprio la trasversalità di queste donazioni: nel novembre 2014, la cooperativa registra 5.000 euro in uscita per i democratici. Matteo Renzi ha organizzato due cene di raccolta fondi, il 6 a Milano e la replica il 7 a Roma. Ma la cooperativa ha finanziato le campagne elettorali anche in precedenza, quando c’erano ancora di Ds. Nel 2011 il candidato sindaco di Bologna Virgilio Merola ha ricevuto un assegno di 20.000 euro. “ Lo stesso periodo spediva 10.000 ciascuno ai dem di Pesaro, di Ferrara, il doppio a Urbino, un obolo (2.000) a Foggia e Frosinone.”, scrive ancora il Fatto. E poi soldi al comitato di Bersani. Tra il 2013 e il 2014 sono emerse altre donazioni: 10.000 per il senatore Ugo Sposetti (Pd); 5.000 per il deputato Alfredo D' Attorre; 10.000 per la lista civica Zingaretti e altri 10.000 per il comitato Zingaretti; 6.000 per una cena elettorale di coppia Zingaretti-Marino; 2.000 per il comitato "io sto con Giorgia Meloni" e 3.000 per Antonio Paravia di Fratelli d' Italia; 2.500 per Ignazio Marino sindaco di Roma e 5.000 per Antonio Decaro sindaco di Bari; 2.000 per il mandato a Strasburgo di Cecile Kyenge e 4.000 per l' ex ministro Flavio Zanonato; 1.000 per Antonella Forattini in Lombardia e 10.000 per Eugenio Patané, consigliere regionale poi indagato a Roma nell' ambito di Mafia Capitale; 17.000 per il Partito democratico della provincia di Roma. Non solo politici, Ma anche solidarietà: centinaia di euro, sono state versate per le associazioni locali, per un progetto a Chernobyl, per i genitori con figli disabili, per un omaggio alla fondazione di Umberto Veronesi. Un investimento maggiore per la beatificazione di Giovanni Paolo II vale uno sforzo in più, 25.000 euro.

Tangenti, ecco come la Coop rossa riusciva a cancellare le multe e ottenere onorificenze, scrive “Libero Quotidiano”. L'interrogatorio per Francesco Simone, definito dai magistrati "l'uomo-chiave" dell'inchiesta sulle tangenti a Ischia, è fissato per oggi. Nel frattempo emergono nuovi elementi sulla cooperativa Cpl di Modena che dimostrano come il responsabile delle relazioni istituzionali del gruppo abbia tessuto una rete con molteplici fili annodati con la Fondazione Italianieuropei di Massimo D'Alema, ma anche con la fondazione Big Bang che ha sostenuto Matteo Renzi. Una rete che riusciva ad ottenere qualsiasi cosa chiedesse, persino delle onorificenze per il presidente della CPL, Roberto Casari.

Le onorificenze - Casari, infatti, nel 2011 era stato nominato cavaliere del lavoro, ma non bastava. Simone, rivela il Messaggero, si da da fare per averne una anche da Palazzo Chigi. Lo dimostra una telefonata tra lui e un funzionario della prefettura di Modena, Daniele Lambertucci, a cui ha delegato la partita. "Io ho scritto e ho parlato con il capo della segreteria di Poletti che però è stato incasinato tra Germania Parigi con Renzi quindi non mi ha ancora risposto", dice Simone a Lambertucci. "Nel frattempo ho incrociato la responsabile dell' ufficio onoreficenze di Palazzo Chigi e mi diceva di proporlo come Grande Ufficiale o Commendatore". Il funzionario conferma e Simone incalza: "Eh come si può fare in questo caso deve arrivare dalla Prefettura su segnalazione di qualche cittadino...". Lambertucci gli spiega che "sempre su segnalazione deve arrivare". Alle preoccupazioni di Simone, il funzionario replica: «"Sta andando tutto velocemente a noi fa fede il nostro riferimento la teniamo monitorata noi sotto controllo già è partita a velocità supersonica".

Le multe - La solerzia di Lambertucci per accontentare Francesco Simone è documentata anche da altre intercettazioni. Come quelle per far annullare delle multe di Roberto Casari in cambio di biglietti per la partita del Modena, o per accelerare l'attribuzione di un certificato antimafia che potrebbe servire alla Coop per ottenere un appalto in Sicilia. "Te l'ho girata due minuti fa", dice il funzionario a Simone in base agli atti pubblicati dal Messagero, "l'ho messa a posto, la situazione con il verbale lì è definitiva per sempre... Dì al presidente di pensare al Modena che ci servono tre punti alla Spezia". Poco dopo, a Lambertucci arrivano i biglietti per la partita del Modena e le magliette dei calciatori. E lo stesso fa per l'inserimento della Cpl Concordia nella white list antimafia: "L' inserimento nella white list era stata un po' rallentata visto alcune vicissitudini passate, senza parlarne abbondantemente a telefono...".

Berlusconi intercettato: vogliono arrestarmi su ordine Napolitano. Nelle carte dell’inchiesta spunta anche il nome dell’ex Cavaliere, scrive “Il Corriere della Sera”. Anche il nome dell’ex premier Silvio Berlusconi spunta tra le migliaia di intercettazioni dell’inchiesta sulle tangenti a Ischia. Sono le 11.31 dell’11 maggio dello scorso anno. È Silvio Berlusconi, tramite la sua segreteria - annotano i carabinieri del Noe - a chiamare Amedeo Laboccetta, ex parlamentare del Pdl. È lui ad essere intercettato, perché gli inquirenti intendono chiarire soprattutto la natura dei suoi contatti con Francesco Simone, il responsabile delle relazioni istituzionali della cooperativa CPL, arrestato nei giorni scorsi. Con Laboccetta il Cavaliere «parla, tra l’altro, della situazione di crisi sociale. Berlusconi dice inoltre - scrivono ancora i carabinieri - che i giudici, anche su ordine del Capo dello Stato, aspettano soltanto un suo passo falso per avere la scusa ed arrestarlo». Nell’atto giudiziario in questione, che è una richiesta di proroga delle intercettazioni nei confronti di Labocetta datato 5 giugno 2014, non c’è la trascrizione testuale della telefonata ma solo il sunto della conversazione. Stessa cosa in molti altri atti in cui lo stesso il passaggio viene riportato, sempre in forma sintetica. Gli investigatori si occupano di Laboccetta in quanto ritenuto una delle persone della «rete relazione» di tom-tom Simone, il consulente della Cpl che «arrivava dovunque».
In particolare, al di là del lavoro svolto per conto della cooperativa rossa, Simone aveva stretto rapporti con Alessandro Clementi, della Wave Investment partners di Roma, una società che si occupa di gestione e recupero del credito al quale segnalava aziende che vantavano dei crediti, anche con la pubblica amministrazione, disposte a cederli alla Wave. E Laboccetta era stato da poco nominato presidente della società campana Gori che vantava qualcosa come 170 milioni di crediti nei confronti sia dei privati che della Pa. «Laboccetta - scrivono i carabinieri, dando conto dell’esito di una intercettazione - dice che sarebbe opportuno fare una manifestazione d’interesse perché una gara avrebbe tempi più lunghi, ma Simone si raccomanda di non spargere la voce sulla questione che stanno trattando, trovando d’accordo il suo interlocutore». In un successivo colloquio intercettato tra Simone e Clementi «si parla del nuovo Decreto che è stato emanato e che stabilisce che solo le banche possono acquistare e scegliere i crediti relativi alla pubblica amministrazione». In questo contesto Clementi «fa presente che `quella roba lì´ vista con Laboccetta non può farla con il decreto legge in questione. In conclusione Simone dice però a Clementi di andare avanti con Laboccetta e company rassicurandolo che probabilmente il decreto decadra’». È in questo scenario che i carabinieri del Noe annotano i «contatti frequenti» di Laboccetta «sia con l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che con l’ex deputato Marco Milanese», in passato consigliere dell’ex ministro Giulio Tremonti e coinvolto in diverse inchieste. Viene citata in particolare la telefonata dell’11 maggio, nella quale Berlusconi e e Laboccetta «commentano la situazione di crisi che c’è in giro...disoccupazione giovanile e problema immigrati e l’Europa che non prende posizioni». Segue la considerazione di Berlusconi sui giudici che «aspettano solo un suo passo falso» per arrestarlo. La conversazione chiude con la proposta di Labocetta di far incontrare al Cavaliere, di lì a poco, «l’amico Marco», riferendosi a Milanese. Berlusconi acconsente, ma poi di fatto l’incontro salta. Alcuni giorni prima, emerge sempre dagli atti dell’inchiesta, Laboccetta era stato a cena con Milanese e la compagna di questi, la quale aveva incontrato Berlusconi a Palazzo Grazioli quello stesso pomeriggio. «È stata una cena molto, molto interessante», riferisce alle 23.58 Laboccetta a Berlusconi, aggiungendo che martedì avrà «..un promemoria analitico, preciso e puntuale che è veramente interessantissimo».

CON LO SPUTTANAMENTO C'E' LA GALERA...ANCHE I MAGISTRATI.

Sputtanati e sputtanandi. Sarebbe comodo per Panorama cavalcare lo "scandalo" D'Alema. Ma lo scandalo vero, in questa faccenda, è l'uso delle intercettazioni, scrive Giorgio Mulè su Panorama. L’ultima fatica della Procura di Napoli ci consegna l’ennesimo caso di sputtanamento politico e mediatico a uso e consumo dei libidinosi delle intercettazioni. Il metodo è sempre lo stesso, il protagonista pure. Quanto al metodo è quello, solito, d’inserire in un provvedimento giudiziario brandelli di conversazioni assolutamente irrilevanti sul piano penale, ma esplosive su quello politico e giornalistico. Il protagonista, poi, è ancora una volta il sostituto procuratore Henry John Woodcock, cioè il pm che passerà alla storia come protagonista mai punito dei più allucinanti flop giudiziari della Repubblica. In questa giostra impazzita e barbara che sono le intercettazioni, stavolta è salito Massimo D’Alema, ovviamente da non indagato come si usa in questa giungla che vorrebbero contrabbandarci per giustizia. Sarebbe stato molto comodo per Panorama cavalcare lo "scandalo". Perché questo giornale e questo direttore hanno più volte incrociato le lame con l’ex presidente del Consiglio, duramente attaccato per i rapporti che storicamente hanno legato e legano il partito democratico al mondo delle cooperative rosse. Rapporti stretti e consolidati, che i dirigenti del Pd di oggi e di ieri hanno goffamente negato nonostante l’evidenza dei fatti. La coerenza rispetto a una linea che ha sempre indicato come stella polare il rispetto dei diritti e delle garanzie di tutti i cittadini unita allo schifo che proviamo ogni volta che le inchieste si trasformano in una micidiale macchina del fango (vogliamo parlare del processo Ruby e di Silvio Berlusconi, assolto dopo cinque anni di gogna?) ci impongono di stare dalla parte di D’Alema. Ci fa quindi specie che il presidente del Consiglio e segretario del Pd, Matteo Renzi, non abbia sentito l’obbligo di pronunciare nell’immediatezza dei fatti, con un tweet o davanti alla direzione del suo partito, parole chiare e nette contro questa barbarie. Sarebbero state parole coraggiose pronunciate da un vero leader. Ma, come sappiamo, coerenza e coraggio sono doti che Renzi contempla unicamente quando ha un tornaconto personale (vedi il caso Lupi). Peggio per lui. Perché è scritto nelle stelle, diciamo così, che sarà solo una questione di tempo: prima o poi anche lui finirà sui giornali, magari da non indagato, come nuovo socio del grande club degli sputtanati a causa di conversazioni telefoniche intercettate. La puzza si sente già in lontananza perché, come ci informa il Fatto quotidiano, esisterebbe almeno un’intercettazione irrilevante ascoltata dai pm di Napoli nell’ambito dell’inchiesta in cui è stato tirato in ballo D’Alema; una conversazione tra Renzi e un generale della Guardia di finanza, un ufficiale abbondantemente sputtanato quattro anni fa dal solito Woodcock e poi regolarmente archiviato. Al pavido Renzi, che non trova le parole per schierarsi contro la barbarie consumata ai danni di D’Alema, suggeriamo allora di darsi una mossa. Conviene anche lui - eccome - sbrigarsi a varare un provvedimento che limiti questa ignominia. Non pensi agli italiani rovinati e sputtanati senza motivo, pensi a se stesso che oggi è nelle vesti dello "sputtanando" prossimo venturo. Statene certi, stavolta la legge la farà.

Toh, ora i compagni scoprono il fetore delle intercettazioni. Le parole rubate al telefono hanno fatto comodo finché i derubati erano avversari da esporre alla berlina, da emarginare e, infine, escludere dall'arena, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. Fin dagli anni Cinquanta la sinistra si dà tante arie e suole dividere l'umanità in buoni e cattivi, mettendosi dalla parte dei primi che essa definisce non a caso progressisti. Già. Talmente progressisti da arrivare ultimi in ogni circostanza. Lo abbiamo constatato anche stavolta a proposito delle intercettazioni, da decenni al centro di polemiche, oggetto di numerose proposte di legge dibattute all'infinito eppure rimaste lettera morta poiché prive del nullaosta indovinate di chi? Degli ex o postcomunisti, decida il lettore come chiamarli; tanto, comunisti erano e la loro mentalità settaria è ancora intatta dai tempi che furono. Il problema è semplice. Ai politici col birignao e sedicenti colti in quanto militanti o simpatizzanti di sinistra, le parole rubate al telefono (contenenti millanterie e forzature di ogni genere sul cui significato occorrerebbe detrarre la tara) hanno fatto comodo finché i derubati erano avversari da esporre alla berlina, da emarginare e, infine, escludere dall'arena. Un gioco facile facile. Le Procure inserivano negli atti processuali le registrazioni di colloqui malandrini, compresi quelli penalmente irrilevanti ma giornalisticamente interessanti, piccanti, e a divulgarle provvedeva solerte la stampa, suscitando la curiosità morbosa dell'opinione pubblica. Gli sventurati, vittime delle incursioni nella loro vita privata, venivano infilzati con soddisfazione da chi se ne avvantaggiava. Questo tipo di falli erano e sono impuniti: manca una legge apposita che li sanzioni. Clemente Mastella, quando era guardasigilli, predispose una normativa per arginare il traffico delle intercettazioni (poco giudiziarie e molto gossippare), però la maggioranza progressista che all'epoca reggeva il governo lo mandò al diavolo, creando i presupposti per eliminarlo dalla scena. È chiaro a chiunque che le intercettazioni violano il segreto delle conversazioni private, ma poiché di solito riguardano la gente comune (della quale non importa nulla a nessuno nel Palazzo) oppure «nemici» di partito da sputtanare, ogni iniziativa tesa a disciplinare la materia è stata sistematicamente bocciata. Per lustri il personale politico di destra e centrodestra ne ha fatto le spese, mentre quello di sinistra ne ha tratto dei benefici sotto il profilo elettorale, essendo scontato che dai faldoni dei tribunali non uscisse nemmeno un sospiro delle loro telefonate innocenti o no. Una pacchia per i progressisti durata fin troppo. Infatti la musica sta cambiando. Qualche spiffero velenoso comincia ad ammorbare le sacre stanze degli «intelligenti per antonomasia», i quali, sfiorati dal fetore delle intercettazioni, sono sul punto di cambiare idea; anzi, l'hanno cambiata, tanto è vero che si stanno attrezzando per impedire la fuga di notizie frutto di «furti» negli uffici dei magistrati. Come? Sbattendo in galera i giornalisti «ricettatori» del materiale scottante. Se la stampa aiuta la sinistra, i progressisti predicano in favore del diritto alla libertà della medesima; se, invece, essa si concede un attacco antigauche, allora meditano d'ingabbiare i ficcanaso delle redazioni. Sinché erano i berlusconiani a essere massacrati dai quotidiani con paginate e paginate di chiacchierate intime, non c'era anima bella che suggerisse di porre fine alle gratuite diffamazioni. Al contrario, adesso i progressisti, colpiti dalle indiscrezioni, invocano la Costituzione affinché agli scribi sia tolta la licenza di ferire con la penna riportando il contenuto di nastri registrati su ordine delle Procure. Questa è la storia delle intercettazioni che attendono ancora - per poco, suppongo - una regolamentazione: non per vietarne l'impiego a scopo investigativo (ci mancherebbe), bensì perché si pubblichino soltanto quelle relative all'accertamento di reati. Ci si domanda come sia possibile procedere in questo senso. Visto che siamo tanto cretini da non recuperare in proprio una soluzione che salvi la capra (la dignità delle persone) e i cavoli (giudiziari), sarebbe opportuno dare un'occhiata alle legislazioni di altri Paesi e copiare la migliore. Non è un'operazione complicata, basta alzare i glutei dalla sedia ministeriale e recarsi, per esempio, negli Stati Uniti a verificare come agiscano le autorità americane. Chi avrà l'energia per affrontare la trasferta scoprirà che negli Usa non sfugge una parola dei discorsi intercettati. Motivo? I magistrati statunitensi non mollano ai giornalisti neppure uno spiffero. Sarà perché ignorano l'esistenza di Pulcinella, per loro il segreto è una cosa seria.

Intercettazioni. Piano Gratteri: galera giornalisti che pubblicano le irrilevanti, scrive Redazione Blitz. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, nell’ambito della riforma della Giustizia da affrontare con un complicato iter legislativo (due deleghe al Governo), ha bloccato la proposta della commissione istituita a Palazzo Chigi e guidata dal procuratore antimafia Nicola Gratteri in tema di intercettazioni. Nel testo, ne descrive i contenuti Francesco Grignetti de La Stampa, era previsto anche il carcere per i giornalisti che pubblicano quelle irrilevanti. Gratteri ha ipotizzato un nuovo reato: la pubblicazione arbitraria di intercettazioni. Si sanzionerebbe chi pubblica le intercettazioni “acquisite agli atti di un procedimento penale” ma “irrilevanti ai fini della prova”. Per i trasgressori, praticamente si applicherebbe solo ai giornalisti, prevista una sanzione da 2mila a 10mila euro o la detenzione da 2 a 6 anni. Ha spiegato Orlando: “La Commissione Gratteri ha fornito un importante contributo. Chiaramente non tutti i punti diventeranno testo di legge”.

Vi sono molte cose condivisibili nella lenzuolata pubblicata dal “Fatto Quotidiano” dedicata alle riforme presentate dalla commissione guidata dal procuratore Nicola Gratteri, mancato ministro della Giustizia per veto di un malfidato Napolitano, scrive Dagospia. Per esempio, è razionale interrompere la prescrizione con la formulazione dell’imputazione e farla cessare dopo la sentenza di primo grado. Ed è giusto sancire che le prove restino valide anche se cambia il giudice del dibattimento, come è comprensibile lo sforzo di aumentare il ricorso al rito abbreviato e al patteggiamento. Un po’ meno prudente, e garantista, l’ansia di ridurre i ricorsi “inammissibili” e l’idea di punire il voto di scambio mafioso anche senza le intimidazioni. Ma sono vicende sulle quali è lecito e utile discutere. Fa invece letteralmente accapponare la pelle la parte che riguarda le intercettazioni. Gratteri vuole istituire un nuovo reato ad hoc (ne abbiamo troppo pochi…) che si chiama “Pubblicazione arbitraria delle intercettazioni”, dove nell’aggettivo “arbitrario” c’è già tutta la pericolosità di un reato, appunto, “arbitrario”. Il reato consiste in un divieto ai magistrati di utilizzare il testo integrale delle intercettazioni negli atti, “a meno che la riproduzione testuale dell’intera comunicazione intercettata non sia rilevante ai fini della prova”. E poi nel divieto ai cronisti di “divulgare i dati”. Per ora, come si vede, la formulazione del reato è piuttosto vaga ma non meno pericolosa. In compenso ecco le pene: reclusione da due a sei anni e la multa da 2.000 a 10.000 euro. Fermiamoci un attimo e respiriamo: sei anni di carcere per la pubblicazione “arbitraria” di un’intercettazione? Ma non vi sembra un’enormità? Dagospia di intercettazioni ne pubblica pochine, ma il “Fatto” letteralmente ci campa. Solo perché la proposta arriva da un magistrato amico facciamo finta di nulla? Se anziché Gratteri a proporre il carcere fosse stato Carlo Nordio, vicino a Forza Italia, e se al governo ci fosse Silvio Berlusconi non starebbero tutti gridando al bavaglio liberticida?

Intercettazioni: e se anche rischiassi la galera? G. Antonio Stella: "pubblicherei", scrive Ugo Dinello su “Articolo 21”. "Una cosa indecente che va chiamata con il suo nome: censura". L'uomo dall'ironia garbata per antonomasia, Gian Antonio Stella, il giornalista del "Corriere della Sera" che riesce a mettere alla berlina i potenti senza mai farli urlare al complotto, dopo aver letto cosa prevede il disegno di legge Alfano, lascia il fioretto e afferra la clava. Quel disegno che mente anche nel nome (parla di "tutela della privacy" quando invece mira a impedire alla stampa di seguire qualsiasi "attività d'indagine" cioè qualsiasi tipo di notizia, soprattutto quelle sgradite ai potenti) gli fa perdere, solo per un istante, il consueto aplomb. Non l'ironia. E soprattutto non la voglia di opporvisi.

"Una cosa indecente. Se fanno una legge in cui si stabilisce che il magistrato, o il brigadiere, o il cancelliere o l'avvocato che passa le notizie ai giornalisti - se non lo può fare, perchè mica è detto che l'avvocato non lo possa fare - e ammesso che vengano incastrati con prove ritenute "inoppugnabili", perfino per l'avvocato Ghedini, perfino per l'avvocato Longo, o per l'avvocato Previti, o per l'avvocato Sammanco (tutti legali di Berlusconi ndr), se fosse incastrato persino per queste persone e decidessero di dargli 10 anni di galera, facciano. Perché se c'è una legge che stabilisce che non si possono diffondere le notizie per tutelare il segreto istruttorio è giusto che ci sia una punizione. Ma che vengano puniti dei giornalisti perché pubblicano delle notizie che riescono a procurarsi, beh, questo è indecente. E se questo disegno passasse è l'anticamera della censura. Bisogna chiamare le cose con il loro nome e allora lo chiamino "disegno di legge sulla censura". E a quel punto anche chi come me è sempre stato molto, ma molto, ma molto riottoso a fare paragoni fra Silvio Berlusconi e il duce - e secondo me sono paragoni per ora improponibili - beh, se passasse questa legge l'unico precedente che avrebbe nella storia sarebbe proprio la censura fascista".

Brutale. E a te? Cioè, se dopo questa legge capitasse di avere per le mani...

"Pubblicherei.."

... una notizia che..

"...pubblicherei..."

... ti fa andare in galera se...

"... pubblicherei..."

E se il tuo editore ti dicesse: "Caro Gian Antonio, scusa ma io di pagare un milione di euro di multa per raccontare la verità agli italiani non ho proprio l'intenzione". Perché sarà questa una delle armi della censura. Multare gli editori "disobbedienti". Che fai?

"Beh, in quel caso si aprirà un contenzioso tra me e il mio editore. Sarebbe la prima volta".

Perchè quello degli editori è un bel capitolo...

"Su questo bisogna essere molto chiari. La storia di questi anni ci ha dimostrato che i giornali e le tivù del gruppo Berlusconi sono stati molto, mooolto generosi di intercettazioni fornite ai loro lettori. Diciamo la verità: quando ha potuto usare le intercettazioni tutto il gruppo che ruota intorno al presidente del Consiglio Berlusconi altroché se le ha usate. Caspita se le ha usate. Vogliamo ricordarci le campagne di stampa su Fassino intercettato sulla banca?".

E pure intercettazioni abusive....

"Appunto, vogliamo ricordarci tutti gli altri casi? Ma ce ne sono stati decine. Tanto è vero che quando sono venute fuori le prime voci sul giro di vite in questo settore, persino Vittorio Feltri fece dei pezzi durissimi contro quest'ipotesi. Difatti io sono sicuro che Vittorio Feltri, se uomo d'onore come credo sia, tornerà su questo tema opponendosi a questo disegno di legge. Perché è un tema che lui ha già affrontato duramente e lo ha detto in modo molto chiaro. Ricordo una polemica tra lui e la dirigente di Mediaset passata alla Rai e intercettata, Deborah Bergamini, fu una polemica durissima. Io condivido totalmente quello che ha scritto Vittorio Feltri quella volta. Quindi condivido totalmente ciò che pensava il direttore scelto da Silvio Berlusconi per il giornale di suo fratello".

Ricominci a divertirti...

"Sì, perché è molto divertente vivere in un Paese in cui il garantismo vale solo per Berlusconi e non per i ragazzi di Emergency e le "intercettazioni infami" sono solo quelle che riguardano lui e non quelle che riguardano gli avversari. E' davvero molto divertente questo paese. C'è un'idea dell'uguaglianza dei cittadini che è assai bizzarra".

Caso Escort, l’ira di Sgarbi sulle intercettazioni: “Magistrati criminali, vadano in galera”, scrive “Il Fatto Quotidiano”. Furia incontenibile di Vittorio Sgarbi ai microfoni de La Zanzara (Radio24) sulle intercettazioni delle conversazioni tra Berlusconi e Tarantini: “Sono intercettazioni abusive. Questa magistratura criminale usa i soldi nostri per occuparsi dei cazzi degli altri. Si usa troppa tolleranza nei confronti di gente infame che usa la giustizia per scopi politici e di affermazione. Vadano a fare in culo questi magistrati che si occupano di pettegolezzi e di stronzate coi soldi nostri”. Con il suo noto linguaggio sopra le righe, il critico d’arte aggiunge: “Berlusconi è un comico da cinepanettone, quello che dice nelle telefonate è una cosa da conte Mascetti, da gagà di Dapporto. E’ puro varietà. E noi paghiamo le tasse per questa gentaglia, che continua a inondare i giornali di schifezze. Soldi dello Stato per queste puttanate. Ma intercettino il buco del culo questi incapaci di Bari che non sanno che cazzo fare se non pettegolezzi. Hanno rotto i coglioni”. E continua: “Mattarella li mandi in galera, dica a questa gente che non deve diffondere merda inutile. Dica: ‘Archiviate tutto’ per carità di patria, non se ne può più. D’altra parte, tutto il mondo è pieno di ricchi che pagano le donne. Si pensi a Kennedy o a Clinton, che si è fatto fare pompini da tutti gli Usa, o a Fidel Castro, che ha avuto 35mila donne. E poi quanti soldi Berlusconi dà a sua moglie? Lei viene mantenuta perché non lavora”. Su Tarantini Sgarbi afferma: “L’ho conosciuto assieme alla moglie e a Checco Zalone in un posto bellissimo in Puglia, vicino a Monopoli. Tarantini è come Lavitola e Corona, cioè gente che non ha fatto niente in vita sua. Processi su questa roba, quando l’Italia è in miseria, l’economia non funziona, si buttano soldi in stronzate, cadono i monumenti. Vadano in galera questi magistrati” di Gisella Ruccia.

Intercettazioni telefoniche: cosa dice la legge, scrive Zeus News. Cosa sono realmente le intercettazioni telefoniche, che cosa permettono di scoprire, come vengono eseguite e perché finiscono sui giornali. Ormai è diventata un'abitudine consolidata: succeda quel che succeda là fuori, ogni due mesi in Parlamento si deve discutere di intercettazioni telefoniche. Ma cosa sono realmente le intercettazioni telefoniche? Che cosa permettono di scoprire? Come vengono eseguite? E come mai finiscono sui giornali?

La legge. A differenza di quello che avviene in molti altri paesi, in Italia le forze dell'ordine (Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia Postale, etc.) godono di pochissimo potere discrezionale e, salvo rari casi, non possono avviare o gestire un indagine di propria iniziativa. Le indagini di polizia vengono avviate e coordinate dalla Procura della Repubblica, nella figura del Procuratore Generale o di un Sostituto Procuratore. In entrambi i casi si tratta di un Magistrato Inquirente, non di un poliziotto. Il Procuratore, a sua volta, non ha assolutamente nessun potere discrezionale riguardo alle indagini: nel momento in cui viene a conoscenza di un reato è tenuto, per legge, ad avviare un'indagine. Diversamente finisce in galera per omissione di atti d'ufficio. Questa è la famosa "obbligatorietà dell'azione penale". Durante l'indagine il Procuratore agisce sotto il controllo del Giudice per le Indagini Preliminari e al termine dell'indagine presenta le sue tesi al Giudice per l'Udienza Preliminare, che decide se rinviare l'imputato a giudizio o se archiviare il caso. Se la tesi del Procuratore viene considerata abbastanza solida, il caso viene passato al Pubblico Ministero che rappresenterà l'accusa (lo Stato) in tribunale. Salvo rari casi, tutti i processi penali (quelli in cui si rischia la galera) si celebrano davanti ad un collegio giudicante formato da un giudice titolare e da due giudici "a latere". Per i casi di omicidio e cose simili si celebrano addirittura davanti alla famosa "corte d'assise" formata da due giudici "togati" (due magistrati di professione) e da sei "giudici popolari" (semplici cittadini scelti a caso nelle liste elettorali). In Italia, una sentenza diventa "esecutiva", e quindi si può finalmente mettere in galera il malfattore, solo al termine del terzo e ultimo grado di giudizio (la Corte di Cassazione). Se questo vi sembra un sistema bizantino e iper-garantista, siete in buona compagnia. Praticamente tutti gli studiosi di diritto ritengono che il sistema giudiziario italiano sia tra i primi al mondo per livello di garantismo e per complessità, soprattutto per quanto riguarda la parte penale. All'interno di questo schema, le intercettazioni entrano in gioco solo quando esiste un fondato sospetto che una persona possa utilizzare il telefono, la posta elettronica o altri mezzi di comunicazione per portare a termine il suo piano criminoso. In altri termini, in Italia non si possono fare intercettazioni "a caso". Non si possono nemmeno fare "monitoraggi" generici nella speranza di "beccare" qualcuno mentre organizza una rapina. Si può procedere a una intercettazione solo quando esistono delle fondate ragioni per pensare che l'Indagato usi il telefono per il proprio "business" criminale e solo quando il reato ipotizzato è di una certa gravità. Per avviare una intercettazione è necessario l'ordine del Giudice per le Indagini Preliminari, che solitamente agisce su richiesta del Procuratore della Repubblica o di un suo Sostituto. L'intercettazione iniziale può avvenire solo sullo specifico numero telefonico per cui è stata richiesta e non può durare più di 15 giorni. Se durante questo periodo vengono raccolte delle "notizie di reato" o degli "indizi di reato" di un certo valore, allora l'intercettazione può essere protratta per altri 15 giorni (e poi altri 15, ad infinitum) ed allargata ad altre utenze telefoniche, diversamente viene terminata. Il materiale raccolto durante le intercettazioni è coperto da segreto istruttorio fino al momento in cui viene depositato presso la Cancelleria del Tribunale insieme al resto delle prove a carico e insieme alla richiesta di rinvio a giudizio. A quel punto diventa pubblico. Sia gli avvocati della Difesa che qualunque privato cittadino (o giornalista) possono richiederne una copia. Il fatto che tutto il materiale raccolto dall'Accusa sia di pubblico dominio è la conseguenza di un principio di Diritto universalmente riconosciuto e che serve a proteggere l'Imputato. Se così non fosse, si potrebbero celebrare processi farsa "a porte chiuse" alla maniera di Stalin. In questo modo, invece, l'Imputato può sapere di cosa viene accusato e può difendersi pubblicamente.  Questa situazione è molto diversa da quanto avviene in molti altri paesi. Ad esempio, negli Stati Uniti (e in quasi tutti i paesi di lingua inglese) la Polizia può avviare un'indagine di sua iniziativa e può mettere in atto una intercettazione telefonica senza nessun mandato di un Giudice. Può tranquillamente fare intercettazioni "a caso" e può svolgere "monitoraggi" di vario tipo. Addirittura, in alcuni casi, possono eseguire delle intercettazioni telefoniche anche moltissimi altri "enti" che non hanno nulla a che fare con la Polizia. Ecco come Antonio Ingroia spiega nel suo libro la situazione che esiste in USA e UK: "Ebbene, negli Stati Uniti, le intercettazioni sono consentite non solo per i reati più gravi, di competenza dell'FBI, ma anche per i reati previsti dai singoli stati, per cui le intercettazioni possono essere disposte dal procuratore federale, dal procuratore di ciascuno stato, dalle polizie locali e persino dalle polizie municipali (che corrispondono ai nostri vigili urbani!). Per non parlare dei corpi antiterrorismo e persino dalle autorità di controllo della Borsa!"."In Gran Bretagna, poi, il potere di ordinare delle intercettazioni, senza che sia necessaria l'autorizzazione di un Giudice, è riconosciuto ai Servizi Segreti, a tutte le articolazioni della Polizia e a una selva di enti pubblici che vanno dagli istituti finanziari, ai direttori degli istituti di pena, fino addirittura ad uffici postali e pompieri!" Quello che si vede in telefilm come NCIS o CSI è effettivamente la pratica quotidiana in molti paesi di lingua inglese ma, in qualunque paese europeo, porterebbe i poliziotti dritto in galera per abuso di potere. Tutti gli osservatori sono concordi nel ritenere l'Europa un "faro nella notte" per quello che riguarda la protezione del cittadino dalle intercettazioni e l'Italia viene da sempre considerato il paese più garantista d'Europa da questo punto di vista. Questo avviene già da molto, molto prima che si iniziasse a parlare di riforma della legge sulle intercettazioni. Un'ultima parola sulle intercettazioni dei parlamentari. In Italia è vietato porre sotto intercettazione il telefono di un parlamentare (e quindi anche quello di un Ministro o di un altro esponente del Governo e delle Istituzioni, come il Presidente della Repubblica). Nemmeno un Giudice può ordinare una intercettazione di questo tipo. Ma, allora, com'è possibile che appaiano sui giornali le intercettazioni del Presidente del Consiglio, dei suoi Ministri e di altri Parlamentari? Questo avviene perché questi parlamentari si intrattengono in conversazioni compromettenti con loschi figuri che non godono della loro stessa prerogativa. Quando questi malviventi vengono rinviati a giudizio, i materiali raccolti a loro carico devono essere resi pubblici per permettere loro di difendersi pubblicamente. Il Giudice non potrebbe fare diversamente nemmeno se lo volesse. Si noti che solo in Italia è vietato intercettare i parlamentari. In tutto il resto d'Europa, ed in gran parte del mondo (USA, Canada, Australia, Giappone, persino in Russia, etc.), un parlamentare è un semplice cittadino agli occhi della Magistratura e quindi non gode di nessuna protezione in più rispetto al normale "Signor Rossi". La famosa "immunità parlamentare", inoltre, salva il parlamentare solo dalle conseguenze delle azioni che compie nello svolgimento delle sue funzioni, non dalle conseguenze delle sue azioni criminali. Si noti anche che il contenuto delle intercettazioni telefoniche (che siano rilevanti o meno ai fini dell'indagine, che riguardino privati cittadini o parlamentari) viene considerato di pubblico dominio in praticamente tutti i paesi del mondo alla sola condizione che le intercettazioni siano state depositate come atti in un processo.

REATO IMPUNITO: LA FUGA DI NOTIZIE.

Non solo “sti signori” sono impuniti per motivi di colleganza e di casta, ma, addirittura è impedito parlarne. Su “Panorama” e su “Il Giornale” la testimonianza di una giornalista. “Non sono ancora le 9 quando in casa di Anna Maria Greco, la cronista de "Il Giornale" «colpevole» di aver scritto un articolo intitolato La doppia morale della Boccassini, suonano alla porta. Tranne la figlia che si sta preparando per uscire, gli altri dormono tutti. Ad alzarsi è il marito. L’uomo non fa in tempo ad aprire, che in un attimo quelli hanno già imboccato la strada per la camera da letto. Manco si trattasse di dover scovare un pericoloso latitante pluricondannato, i carabinieri si presentano in cinque. Devono subito localizzare la giornalista e notificarle l’ordine di perquisizione disposto dal procuratore aggiunto Pierfilippo Laviani nell’ambito dell’indagine a carico del membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura Matteo Brigandì, accusato di abuso d’ufficio per aver passato, proprio a lei, un fascicolo riservato. Anna Maria non è indagata di nulla. Ha solo scritto un articolo riguardante un procedimento disciplinare a carico di Ilda Boccassini risalente al 1982 quando, la principale accusatrice di Silvio Berlusconi per il caso Ruby, fu costretta a difendersi davanti al Csm dopo essere stata beccata in atteggiamenti amorosi con un giornalista di "Lotta continua". Anna Maria non è indagata, eppure le rivoltano la casa: setacciano stanza per stanza, smontano cassetto per cassetto, controllano foglio per foglio. Alla fine della perquisizione le porteranno via il suo pc personale, le agende, i documenti, ogni singolo foglio con la sigla “Csm”, come se non fosse normale trovarne nella casa di una cronista che da vent’anni si occupa di giudiziaria. «La cosa più grave – racconta Anna Maria a "Panorama.it" mentre è ancora in attesa di firmare il verbale della perquisizione assistita dal suo avvocato – è che si sono portati via pure il pc di mio figlio, al quale io non ho mai nemmeno avuto accesso. Speriamo che almeno quello ce lo restituiscano in fretta». Eh già, perché magari è proprio nel computer del figlio 24enne che Anna Maria avrebbe potuto nascondere il fascicolo incriminato, a meno che non l’abbia occultato nella redazione romana del Giornale perquisita anch’essa in mattinata. «Io quel fascicolo l’ho visto, ma non ce l’ho. E comunque non sapevo che si trattasse di carte segrete dal momento che riguardano un procedimento risalente all’’82 conclusosi, come ho anche scritto nel mio articolo, con un’assoluzione per la Boccassini. Dov’è il segreto?» . La Greco, che in tutta la sua carriera non ha mai subito una perquisizione domiciliare, non nasconde rabbia e sorpresa. Da una parte è ancora scossa per quanto accaduto poche ore prima in casa sua, dall’altra si sente delusa e amareggiata perché a “denunciarla” su un giornale è stata proprio una che fa il suo stesso mestiere. Anna Maria non fa nomi, ma è semplice capire a chi alluda. Il giorno dopo la pubblicazione del suo articolo, infatti, su "Repubblica" Liana Milella svela la presunta fonte dello scoop del Giornale sulla Boccassini, ossia lo stesso Brigandì oggi accusato d’abuso d’ufficio. «Qui siamo davanti a un fatto clamoroso: una giornalista che, invece di tutelare un principio cardine del nostro lavoro come la copertura delle fonti, arriva a fare una cosa del genere. Dovrebbe vergognarsi». Nessun attestato di solidarietà, dunque, da chi per mesi si è battuto contro il bavaglio alla libera informazione? «Macché solidarietà! Da altri sì, non certo dai colleghi di Repubblica». A parte scovare il fascicolo che le avrebbe passato Brigandì, secondo la Greco, dietro la doppia perquisizione ordinata oggi in casa sua e al Giornale, c’è una chiara intenzione intimidatoria nei confronti di chi esercita questa professione. «Da oggi il mio lavoro diventerà ancora più difficile di quello che è normalmente, – spiega la cronista - occuparsi di giustizia, e in particolare della condotta dei magistrati, è sempre più rischioso. Anche quando hai in mano fatti e documenti certi che comprovano delle responsabilità a loro carico, devi muoverti in punta di piedi». Secondo la Greco, invece di essere una casa di vetro, trasparente agli occhi dei cittadini, la giustizia è sempre più una casa di piombo, «se nemmeno dopo 30 anni dalla chiusura di un procedimento a suo carico, la gente ha diritto di sapere cosa ha fatto un magistrato, che democrazia è? Perché non si dovrebbe parlare oggi di un fatto che può essere d’interesse per l’opinione pubblica dal momento che quel magistrato si sta occupando di un’indagine che riguarda la privacy di una persona? Perché – si chiede ancora Anna Maria mentre aspetta solo che la lascino andare a casa e riprendere il suo lavoro – i cittadini non dovrebbero sapere certe cose?».” «I carabinieri - ha spiegato la giornalista - mi hanno detto che dovevano procedere a una perquisizione personale e, di fronte a una donna carabiniere, ho dovuto spogliarmi integralmente. Non si tratta quindi semplicemente di una consegna degli abiti, come sostenuto dalla procura, ma di una procedura molto imbarazzante. Confermo altresì, come scritto nel mio articolo, di non essere stata toccata. Mi chiedo - ha concluso - se sia normale che una giornalista venga costretta a rimanere nuda di fronte a un'esponente delle forze dell'ordine senza nemmeno essere indagata. Lascio il giudizio ai lettori».

Fughe di notizie. Fughe inarrestabili. Fughe senza colpevole. È così che va la giustizia italiana da quando la giustizia fa notizia. Dal primo ciak di Mani pulite. Certo, allora gli arresti si susseguivano sul nastro della procura, al quarto piano, e qualche volta il Gabibbo arrivava sotto casa prima dei carabinieri e prima delle manette. Oggi gli spifferi portano sui giornali frammenti di verbali in tempo reale, notizie che servono a far discutere, ma non aggiungono un grammo all’inchiesta, intercettazioni che poi, a bocce ferme, riservano sorprendenti riletture. La contabilità degli incendi mediatici, quella non la tiene più nessuno. Figurarsi. Già nell’ormai lontanissimo 1995, un’epoca fa, gli avvocati del Cavaliere, contestavano 130 fughe non ortodosse. Numeri che oggi, se aggiornati, verrebbero polverizzati. Numeri che, naturalmente, nessuno dentro i palazzi di giustizia ha mai preso sul serio. Perché le Procure spesso considerano la fuga un episodio deplorevole, ma non un reato, così come invece è, specie se commesso da un loro collega. E perché le poche indagini aperte sono davvero, per dirla con il linguaggio della magistratura, atti dovuti. Atti dovuti e nulla più. Atti senza futuro. Gli avvocati del Cavaliere, ma non solo loro, hanno depositato nel tempo diverse denunce, a Milano, e anche a Brescia, competente per i reati compiuti dalla magistratura di rito ambrosiano. In un caso e nell’altro i risultati sono stati nulli.

Ed è inutile contestare, tanto il potere in Italia è nelle mani della magistratura, non nelle mani del popolo. Ed infatti, a seguito della perquisizione del 1 febbraio 2011 presso l’abitazione di Anna Maria Greco e presso la redazione de "Il Giornale" disposta dalla procura di Roma attinente alla pubblicazione di documenti interni al Csm riguardanti il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, la Federazione nazionale della stampa aveva commentato in una nota: “Oggettivamente, non se ne può più. Nello scontro politica-magistratura non possono essere chiamati a pagare i giornalisti se danno notizie, ancorché su di esse e sulla loro valenza in termini di interesse pubblico, ciascuno possa avere opinioni diverse. La perquisizione di oggi a carico della collega de 'Il Giornale' Anna Maria Greco appare, allo stato, assolutamente incomprensibile, oltreché, nei fatti, pesantemente invasiva". "Le notizie 'riservate', non escono mai con le proprie gambe. - aggiungeva la nota FNSI - Ma se si volesse prendere a prestito una espressione del moderno linguaggio politico-giudiziario, si potrebbe dire che si va a cercare presunte colpe, neanche meglio precisate, nell''utilizzatore finale'. Cosi non si può andare avanti. Ai giornalisti è chiesto, tanto più in questa fase di scontro politico e istituzionale dai toni esasperati, di alzare l’asticella della responsabilità, per non fare la fine dei vasi di coccio. Ma occorre misura e rispetto, da parte di tutti". Critica sulla vicenda, per altri profili, anche l'Unione Camere Penali. "Si possono esprimere ampie riserve, non solo estetiche, in merito allo 'scoop', strumentale e bacchettone, del 'Giornale' sulla dottoressa Ilda Boccassini, che segna l'ennesimo episodio di imbarbarimento dello scontro in atto, cosi come si possono anche avanzare fondati interrogativi - afferma una nota della Giunta UCPI - sulla necessita di custodire come il terzo segreto di Fatima gli atti dei procedimenti disciplinari dei magistrati risalenti a trenta anni fa, ma non ci si può esimere dal registrare anche l'inusitato spiegamento di mezzi processuali con cui, ancora una volta, la magistratura reagisce quando viene coinvolto un collega". "Mentre tante Procure leggono sonnacchiose sui quotidiani gli atti dei propri processi, di cui per legge e vietata la pubblicazione, quando viene interessato un magistrato scattano prontamente i sigilli alle stanze di un organo costituzionale e si perquisiscono con altrettanta solerzia quelle di un giornale, anch'esso avamposto del diritto di manifestazione e diffusione del pensiero, difeso dalla Costituzione", commentano i penalisti. "Se ce ne fosse stato ancora bisogno, abbiamo avuto la riprova", conclude la nota UCPI, "di quanto sia discrezionale non solo l'esercizio dell'azione penale, ma anche le sue stesse modalità, con buona pace del principio di eguaglianza che tutti invocano".

LE COOP ED IL SISTEMA SCOPPIATO.

Un sistema sCOOPpiato: i vantaggi fiscali non hanno più senso, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Alcune note a margine della vicenda che ha visto il sindaco Pd di Ischia finire in galera. Lo accusano di aver preso mazzette dalla cooperativa che eseguì i lavori per la metanizzazione dell'isola. Fin qui niente di straordinario: è ciò che capita spesso - anche tra i progressisti - quando ci sono di mezzo opere pubbliche e dunque i soldi dei contribuenti. Siccome chi paga sono appunto gli italiani, le imprese pagano con generosità, assecondando ogni desiderio di politici e funzionari. Siamo alla solita corruzione. Ciò che è meno solito è il susseguirsi di inchieste che vedono al centro le cooperative. Cambiano i nomi, cambiano i vertici, ma il sistema è lo stesso. Le coop, ossia delle società che dovrebbero ispirarsi a criteri etici e di solidarietà fra i lavoratori, in realtà si comportano come qualsiasi impresa, anzi peggio di qualsiasi impresa, usando metodi spicci e spregiudicati degni di una gang e soprattutto "oliando" a suon di tangenti la pubblica amministrazione. Già alcune cooperative sono un'anomalia, perché pur essendo colossi in grado di fare concorrenza a primarie ditte private godono di una fiscalità di vantaggio, che consente loro di risparmiare su tasse e contributi. Ma visto che oltre a comportarsi come qualsiasi azienda del settore, si muovono anche come i più disinvolti corruttori, la cosa si fa insopportabile. Eppure, da Mafia capitale al Mose si capisce che queste coop sono abituate a ottenere gli appalti pubblici ad ogni costo, anche violando la legge. Ha senso dunque favorirle abbassando solo a loro le imposte? Non si distorce il mercato più di quanto già non lo distorcano le bustarelle? Altro che sostenere la necessità di rivedere il sistema degli appalti, come l'altro ieri ha dichiarato il presidente di Lega Coop Mauro Lusetti, qui bisogna rivedere il sistema delle coop, soprattutto di quelle collaterali alla politica, che, guarda caso, sono di sinistra.

Cooperazione a delinquere: ormai è pioggia di inchieste. Dall'ultimo caso di Ischia fino alle tre coop coinvolte nel "sistema Incalza" per realizzare le grandi opere. Quei soldi all'ex ministro Kyenge, Zingaretti e Sposetti, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Se si volesse scherzare con il codice penale (ma solo per ironia, giacché la materia è serissima), si potrebbe inventare un nuovo reato: la «cooperazione a delinquere». Un po' per celia e un po' perché tutti gli ultimi grandi scandali legati a fenomeni corruttivi che hanno interessato le Procure di mezza Italia vedono quasi sempre tra gli indagati esponenti di spicco delle coop, soprattutto di quelle «rosse». Insomma, la storica gemmazione del vecchio Pci, la terza via del fare impresa - né capitalismo né comunismo ma socialità - non è poi così diversa da quella tradizionale. Il viaggio a ritroso non può non partire dalla fine. Con la coop rossa Cpl Concordia, gigante modenese della distribuzione del gas, che avrebbe «unto» numerose ruote, in particolare quelle del sindaco di Ischia Giosi Ferrandino e dell'ex premier Massimo D'Alema, per garantirsi l'appalto per la metanizzazione dell'isola campana. Un contratto da 160mila euro all'albergo del primo cittadino ischitano, tre bonifici da 20mila euro a ItalianiEuropei (ma «nel Pd – giura il presidente Matteo Orfini – non credo ci sia questione morale»). Poi si contano i 2mila euro all'ex ministro Cécile Kyenge, altri 10mila nel 2013 per la Lista Civica Nicola Zingaretti, 10mila euro nel 2013 per l'ex tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti. Non trascurabili altri 6mila euro al Pd Comitato Provvisorio Roma che, sempre nel 2013, aveva ottenuto un finanziamento da 10mila euro dalla 29 Giugno di Salvatore Buzzi. Basta tornare a due settimane fa ed è la Procura di Firenze a salire in cattedra denunciando il «sistema Incalza», cioè il potere del super dirigente del ministero delle Infrastrutture di indirizzare appalti e commesse. Nell'occhio del ciclone tre Coop rosse: la Cmc di Ravenna, partecipante al consorzio Cavet che ha realizzato la Tav Firenze-Bologna, è accusata di aver versato oltre 500mila euro a Incalza tra il 1998 e il 2008. Le fanno compagnia la reggiana Coopsette («favori» in cambio della nomina dell'imprenditore Perotti alla direzione di alcuni lavori) e la Cmb di Carpi. Ancora un po' indietro e si palesa la corruzione di Mafia Capitale. Al centro c'è sempre una cooperativa rossa, la 29 giugno di Salvatore Buzzi: una piccola grande holding di servizi da 59 milioni di fatturato. Dalle pulizie alla nettezza urbana, dai centri di accoglienza ai campi rom. Gestita da un dominus in grado di far sedere al proprio tavolo il presidente della LegaCoop, Giuliano Poletti (oggi ministro), e il sindaco di Roma Gianni Alemanno. «I classici risolutori di problemi, che vanno a mette' 'e mani nella merda». È il braccio destro di Buzzi, l'ex Nar Massimo Carminati, parlando proprio delle Coop a introdurre quel vocabolo triviale che si ritroverà anche nelle intercettazioni napoletane su D'Alema. Nell'inchiesta milanese sugli appalti Expo, invece, si ritrova il colosso Manutencoop e anche un protagonista della prima Tangentopoli, il «compagno G.», ossia Primo Greganti, che aveva un contratto di consulenza con la Cmc di Ravenna. Cambiano città e temi, ma i protagonisti sono sempre le coop che, tra un «favore» e l'altro ai politici amici, riescono ad ottenere commesse pubbliche importanti. E anche il Mose di Venezia non è esente dal sistema. «Il 20% dei lavori alle aziende Iri, 60% a quelle private, 20% alle cooperative rosse», raccontò al pm Nordio un dirigente Italstat circa trent'anni fa. L'inchiesta dell'anno scorso ha dimostrato che l'impostazione non è cambiata molto. Le coop presenti nei consorzi che dovevano realizzare il sistema di barriere mobili «finanziavano» la politica per garantirsi la prosecuzione del sistema. E che dire dell'ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati che impose la Ccc di Bologna per la riqualificazione dell'area Falck di Sesto San Giovanni? E poiché le coop rosse sono nate e cresciute all'interno della «famiglia» Pci-Pds-Ds-Pd, occorre interrogarsi sulla natura di questo rapporto. In alcuni casi, i risvolti penali sono spariti per prescrizione, causa ridefinizione del reato di concussione da parte del governo Monti (con incluso salvataggio delle grandi coop). Ma c'è anche un sostanzioso profilo politico: Cpl Concordia, 29 giugno, Cmb, Ccc, Manutencoop e compagnia cantante sono spesso comparse nell'elenco dei finanziatori (leciti, per carità) del partito: sia di quello tinto di rosso dei vecchi Bersani, D'Alema e Veltroni sia quello più sbiadito di Renzi. I Comuni di Roma, Venezia e Ischia, la Provincia di Milano, se guidati dal centrosinistra, avevano, tra gli altri, un interlocutore privilegiato che, a sua volta, compariva tra gli sponsor del partito. E quando si parla di grandi appalti, il «sistema» non trascura mai o quasi mai le Coop. Forse non c'è nemmeno corruzione o concussione, è solo familiarità.

«Il sistema criminale» della Coop rossa. Dopo il caso Incalza & Co, la corruzione scuote di nuovo il Paese. Questa volta a finire nel mirino degli inquirenti è la storica cooperativa modenese Cpl Concordia. Sotto accusa l'ex presidente, vari mananger e il sindaco Pd di Ischia, Giuseppe Ferrandino. E tra i contatti politici nelle carte spuntano i nomi di D'Alema e Bobo Craxi, scrivono Giovanni Tizian e Nello Trocchia su “L’Espresso” Ombre rosse sugli appalti in Campania. C'è la storica cooperativa emiliana, la Cpl Concordia, c'è il primo cittadino dell'isola verde, ci sono faccendieri e imprenditori e compaiono i nomi di politici di rango, come Massimo D'Alema, che non è indagato. Il gip lo definisce un «sistema criminale». Un altro. L'ennesimo. Dopo Incalza & Co: ecco il nuovo capitolo del romanzo criminale italiano. I vertici della cooperativa Cpl concordia - arrestati l'ex presidente Roberto Casari, l'ex socialista Francesco Simone (relazioni esterne), Nicola Verrini (area commerciale) - avevano messo in piedi un 'protocollo criminale'. Corrompevano funzionari e politici per accaparrarsi gli appalti nel settore della realizzazione di impianti energetici, in Campania, e emettevano false fatture per “pagare tangenti e altre utilità”. Non badavano a costi e la corruzione non si fermava a politici e funzionari: se serviva, a libro paga, finivano pure gli uomini del clan. Un meccanismo rodato. In provincia di Caserta, infatti, i vertici di Cpl si erano accordati anche con esponenti della criminalità organizzata e con i politici conniventi con gli ambienti camorristici. Tutto è ben definito nell'intercettazione tra Simone e Verrini quando distinguono i politici in due categorie, quelli che 'mettono le mani nella merda' e gli altri. Loro hanno fatto sempre affidamento sui primi. C'è un particolare inedito che l'Espresso ha scovato. L'inchiesta nasce dalle intercettazioni disposte nei confronti di Giuseppe Incarnato: «Dal monitoraggio degli ascolti emergevano – scrive il Gip – preziosi spunti investigativi». Incarnato, che non risulta indagato, è protagonista già di una indagine relativa all'indebitamento della clinica del Vaticano, l'Idi di Roma. Al telefono parla con Francesco Simone, personaggio chiave del sistema, discutendo di alcune gare bandite dalla regione Campania. Quella di oggi, considerando anche gli omissis, è solo la prima tappa dell'inchiesta sul sistema della Cpl Concordia.  Otto sono finiti in carcere, Simone Arcamone, responsabile tecnico del comune di Ischia, è finito ai domiciliari, per due è scattato l'obbligo di dimora. Tutto parte dall'esigenza di metanizzare l'isola. La storica cooperativa modenese, in cambio dei «favori» di Ferrandino per l'assegnazione dei lavori - avrebbe stipulato due «fittizie convenzioni» (ciascuna da 165 mila euro) con l'Hotel Le Querce di Ischia, di proprietà della famiglia del sindaco, ciascuna da 165 mila euro, a fronte della «messa a disposizione» di alcune stanze durante le stagioni estive 2013 e 2014 per i dipendenti della società modenese. Il sindaco, al secondo mandato, era diventato 'un factotum al soldo della Cpl”. E pensare che si definiva campione di legalità, che 'andava inculcata ai giovani', e aveva fondato anche un osservatorio coinvolgendo magistrati ed esponenti istituzionali. Oggi è in carcere con l'accusa di corruzione. Sarebbe lui l'articolazione politica di quello che viene definito dagli inquirenti «un vero e proprio sistema». Altre utilità ottenute dal sindaco sarebbero state l'assunzione del fratello, Massimo Ferrandino, come consulente della Cpl  e almeno un viaggio tutto pagato in Tunisia. Secondo l'accusa l'amministrazione avrebbe favorito l'azienda emiliana, che a sua volta avrebbe pagato tangenti grazie ai fondi neri costituiti in Tunisia con la società Tunita Sarl, riconducibile a Francesco Simone, responsabile delle relazioni istituzionali del gruppo Cpl Concordia, definito dagli inquirenti «personaggio chiave» della vicenda. Simone è un vecchio socialista di scuola craxiana. «Nasce socialista come segretario di Bobo Craxi che fu una delle prime persone che mi fece conoscere, e all'inizio Simone spese questa sua conoscenza per introdurre la Cpl in Tunisia, nazione nella quale i Craxi avevano forti entrature. Non so se Bobo Craxi sia mai stato legato da rapporti formali (consulenze, contratti ... ) con la Cpl» racconta ai pm un testimone. Un paragrafo dell'ordinanza è dedicato ai rapporti della Cpl Concordia con esponenti politici, in particolare con Massimo D'Alema che è estraneo all'indagine. Relazioni tra la storica cooperativa rossa e "il leader dello schieramento politico di riferimento per la stessa Cpl”. Simone parla al telefono con Nicola Verrini nel marzo 2014: “ Preferisco investire negli ItalianiEuropei dove D'Alema sta per diventare commissario europeo”. E più avanti: “D'Alema mette le mani nella merda come ha fià fatto con noi ci ha dato delle cose”. Poi a proposito dei rapporti con D'Alema si evidenzia nell'ordinanza “l'acquisto da parte della Cpl di alcune centinaia di copie dell'ultimo libro del predetto politico nonché di alcune migliaia di bottiglie del vino prodotto da un'azienda agricola riconducibile allo stesso D'Alema”. Il numero delle copie è pari a 500, le bottiglie, invece, duemila. Così come l'11 maggio la presentazione del libro di D'Alema ad Ischia viene curata dalla Cpl Concordia e si tiene nell'albergo 'Le Querce' della famiglia Ferrandino. Ci sono poi, nell'ultima parte del paragrafo, i finanziamenti erogati dalla Cpl alla fondazione Italianieuropei.  Vengono ritrovati nella perquisizione nella sede di Cpl Concordia, tre bonifici da 20 mila euro (periodo 2012-2014). Non solo i libri di D'Alema, la Cpl ha acquistato anche copie del libro dell'ex ministro Giulio Tremonti. Vengono acquisite due fatture rispettivamente di 7440 euro e di 4464 euro. Massimo D'Alema ha chiarito subito: «Rapporti trasparenti, non ho avuto alcun regalo e alcun beneficio personale. L'acquisto delle bottiglie di vino è stato fatturato e pagato con bonifici». Ferrandino è stato il primo dei non eletti alle utlime Europee. E se Andrea Cozzolino, eurodeputato, avesse vinto le primarie contro Vincenzo De Luca e poi le regionali avrebbe dovuto lasciare il posto proprio al sindaco di Ischia. Ferrandino in quella campagna elettorale si è dato molto da fare. Nelle intercettazioni, mentre parla di voti da raccogliere in Campania, fa riferimento anche a un fedelissimo di Matteo Renzi, Luca Lotti (sottosegretario alla presidenza del Consiglio), con il quale avrebbe dovuto parlare, senza specificarne il motivo.

TANGENTOPOLI ED IL POTERE DELLE FONDAZIONI.

Tangentopoli di Ischia: il vero potere adesso passa per le Fondazioni. Da mafia Capitale allo scandalo Penati, tutte le inchieste dell'ultima stagione finiscono per sottolineare il ruolo che le fondazioni hanno assunto nella vita politica nazionale. È lì che - in maniera lecita o illecita - affluiscono i finanziamenti per i leader di tutti gli schieramenti: da Massimo D'Alema a Gianni Alemanno, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Mafia Capitale, lo scandalo Penati e adesso anche la tangentopoli ischitana. Non è un caso se tutte le inchieste dell'ultima stagione finiscano per sottolineare il ruolo che le fondazioni hanno assunto nella vita politica nazionale. È lì che - in maniera lecita o illecita - affluiscono i finanziamenti per i leader e persino per i gregari di tutti gli schieramenti, da Massimo D'Alema a Gianni Alemanno. E, di fatto, oggi questi organismi hanno rimpiazzato le vecchie correnti. «Non ci sono più i partiti. È inutile imporre la trasparenza nei bilanci dei partiti, che ormai sono spompati e nessuno li finanzia più. Oggi il vero potere passa per le fondazioni», ha detto il presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone, il primo a porre la questione in un'intervista a “l'Espresso” nello scorso dicembre. L'indagine sulle mazzette a Ischia accende i riflettori sulla prima di queste creature, ItalianiEuropei, nata nel 1998 per volontà dell'allora premier Massimo D'Alema. Al di fuori della rilevanza penale, l'invito dell'uomo della coop Concordia a «investire in ItalianiEuropei» si traduce in tre bonifici da 20 mila euro ciascuno. Soldi motivati nelle intercettazioni dal loquace Francesco Simone, perché «D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi... ci ha dato delle cose». Sessantamila euro sono poca cosa, forse, rispetto alle somme che girano nei circuiti del malaffare. E un versamento attraverso bonifici sembra rispettare tutte le forme della legalità. Ma quanti altri contributi ha ricevuto ItalianiEuropei? Impossibile saperlo. «Diciamo che preferiamo la privacy alla trasparenza», ha spiegato la portavoce di D'Alema Daniela Reggiani a Marco Damilano e Emiliano Fittipaldi, autori tre mesi fa di un'inchiesta de “l'Espresso” sulla questione: «I nostri bilanci sono depositati alla prefettura, non ci sono i nomi e i cognomi ma trovate entrate e uscite. Non è giusto che l’origine di un contributo venga svelata, se chi l’ha fatto sapeva di poter rimanere nell’ombra. È una questione di correttezza». Correttezza verso chi paga, non certo verso i cittadini. Questo è il cuore del problema. Fondazioni e associazioni simili sono lo snodo della vita politica ma sfuggono a qualunque controllo. Salvo rare eccezioni, non c'è trasparenza: non devono spiegare chi le finanzia, né come usano le risorse. Le regole contabili sono minime, senza nessuno di quegli obblighi a cui devono sottostare i finanziamenti ai partiti e ai parlamentari. Eppure si tratta di organismi con sedi prestigiose e uffici nel centro storico di Roma, che editano riviste patinate e organizzano convegni di alto livello. Ad esempio «ItalianiEuropei», come scrisse Marco Damilano su “l'Espresso”, ha sede in piazza Farnese, di fronte all'ambasciata francese: nel 2012 aveva un patrimonio di un milione e 600 mila euro, una rivista mensile da appena mille abbonati e da 582 mila euro di pubblicità, a consultare il bilancio della società editrice Solaris (tra gli inserzionisti: Eni, Enel, British American Tobacco, Finmeccanica, Trenitalia, Monte dei Paschi). Già l'indagine romana sulla ragnatela di Massimo Carminati aveva evidenziato il fiume di cash che affluiva nei conti di diverse fondazioni. C'era Gianni Alemanno con la sua “Italia Futura”, sulla quale è stata dirottata gran parte dei 285 mila euro pagati da Salvatore Buzzi, reuccio delle cooperative romane e braccio destro dell'ultimo re criminale della capitale. E c'era persino l'associazione intitolata alla memoria di Alcide De Gasperi a cui vanno 30 mila euro: è presieduta da Angelino Alfano, a cui invano “l'Espresso” ha chiesto lumi su tutti gli sponsor. Ma non sono solo i big a usare questi circoli come bancomat. Luca Odevaine, il funzionario che arbitrava lo smistamento dei profughi diventato l'ultimo grande business, nelle intercettazioni sembra alterare le attività di “Integra Azione” a suo piacimento, sfruttandone i bilanci per mascherare i quattrini ottenuti dalla rete di Carminati. Una ricerca dell'università La Sapienza curata dal politologo Mattia Diletti ne ha censite ben 105: il 34 per cento sono think-tank di carattere personale, legate alla figura di un leader o di un capo-corrente. Negli anni duemila ogni politico di spicco ne ha creata una. E sono protagoniste sempre più frequenti delle cronache giudiziarie. Dalle vicende di Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, sono spuntati i fondi a “Centro per il futuro sostenibile”, sigla con vocazione ambientalista creata da Francesco Rutelli e dall’attuale assessore ai Trasporti della Capitale Guido Improta, che secondo l'Ansa sarebbe indagato per i rincari della Metro C, notizia da lui smentita. Invece la “Fondazione della Libertà” che fa riferimento a Altero Matteoli, ex ministro sotto inchiesta per la tangentopoli del Mose, è stata chiamata in causa nello scandalo Enac. La trasparenza, quando c'è, è sempre parziale. “Open” di Matteo Renzi indica parte degli sponsor, ma non fa luce su chi partecipa a caro prezzo alle cene elettorali, né all'impiego delle disponibilità. «A livello di percezione questa situazione ha raggiunto limiti di indecenza», ha dichiarato Cantone, chiedendo una legge che stabilisca criteri rigorosi anche per questo settore. Perché ormai il merchandising usato per finanziare la politica sembra senza confini. La cooperativa Concordia compra duemila bottiglie di vino dalle cantine di D'Alema e si assicura cinquecento copie del suo saggio “Non solo Euro” per 4800 euro. Ma, in omaggio alla trasversalità imperante, ne paga quasi 12 mila per due diverse opere letterarie di Giulio Tremonti. Un investimento in cultura che forse può spiegare la frenesia editoriale di tanti politici.

Il trucchetto delle fondazioni per nascondere le mazzette. I think tank legati ai politici non sono tenuti a dichiarare chi li finanzia o a depositare un bilancio. Ormai è boom di "pensatoi": sono oltre 100 e spesso finiscono nelle inchieste, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. L'ultima stima ne conta più di cento, 105 per la precisione. Per tutti i gusti, da destra a sinistra, da leader a presunti tali, nessuno si fa mancare una fondazione. Se lievitano a vista d'occhio è perché offrono diversi vantaggi, soprattutto in tempi di magra per il finanziamento pubblico ai partiti. Le fondazioni ricevono fondi ministeriali, accedono al 5 per mille, hanno sgravi fiscali, a differenza dei partiti possono ricevere donazioni da aziende pubbliche - munifici colossi come Eni, Finmeccanica, Poste - ma il grosso delle risorse arriva da tasche private, ed è qui il principale vantaggio dei think tank : non sono tenute a dichiarare chi le finanzia, neppure a depositare un bilancio, tutto al riparo da sguardi indiscreti. «Non siamo neppure obbligati a tenere una contabilità ufficiale delle erogazioni che riceviamo» racconta il presidente di un'importante fondazione politica, legata ad un ex ministro. Così negli ultimi anni il flusso di denaro si è spostato dalle segreterie di partito alle segrete stanze delle fondazioni, che puntualmente spuntano in miriadi di inchieste per corruzione, da Mafia capitale con la «Nuova Italia» di Alemanno, fino a quella sulla coop Cpl. Il presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone ha segnalato ancora il problema: «È inutile imporre la trasparenza nei bilanci dei partiti, che ormai sono spompati e nessuno li finanzia più. Oggi il vero potere passa per le fondazioni». In questo campo Massimo D'Alema è un precursore, perché la sua fondazione Italianieuropei , prestigiosa sede in piazza Farnese a Roma, festeggiava già nel 2008 i dieci anni di vita. Il volume celebrativo edito per l'occasione riporta anche un po' di cifre e di nomi. Circa 350mila euro di donazioni, arrivati da big come la Glaxo, multinazionali del tabacco come Philip Morris, aziende di elettrodomestici come Merloni, e poi Pirelli, Ericcson, e una serie di coop: Coop Estense, Legacoop Imola, Lega Nazionale Coop e Mutue, Lega Ligure delle Coop... Chi la finanzi adesso non si sa (anche se basta comprare la rivista bimestrale e vedere chi sono gli inserzionisti di pubblicità, a botte di decine di migliaia di euro, tutte grosse aziende con tanta voglia di buone relazioni con la politica), perché alla richiesta la fondazione dalemiana risponde che i nomi non si fanno, per la privacy («Dai finanziamenti si potrebbe desumere l'orientamento politico di chi ha elargito il contributo» ha spiegato lo stesso D'Alema). Privacy che altrove, come in Germania, dove le fondazioni sono ampiamente finanziate dallo Stato, non esiste, perché si devono seguire precise e severe regole di trasparenza. Anche a Bruxelles è così, e D'Alema lo sa bene, visto che presiede un'altra fondazione, la Foundation for European Progressive Studies (espressione del Partito socialista europeo di cui fa parte il Pd), che nell'ultimo hanno si è presa 3 milioni di euro di fondi dalla Ue. Dietro le carriere politiche c'è spesso l'attivismo di una fondazione. Tosi è arrivato alla rottura con la Lega proprio per la sua fondazione «Ricostruiamo il Paese», 57 sedi in tutta Italia, finanziatori ignoti. Enrico Letta, appena diventato premier, ha chiuso la sua VeDrò, appena visitata dalla Guardia di finanza, ma l'associazione politica è servita a preparare la strada di premier di larghe intese (tutti invitati a Vedrò). Quella di Renzi, prima la Big Bang e poi la Fondazione Open, guidate dal braccio destro Carrai, sono stati i motori della repentina ascesa del sindaco di Firenze, concentrando finanziamenti, sponsor, amicizie. Renzi, in piena guerra di primarie Pd (coi bersaniani che lo accusavano di ricevere soldi persino da Usa e Israele...), ha pubblicato una lista di finanziatori. Ma sugli sponsor di Renzi e sui partecipanti alle cene di fund raising resta un'ampia zona di mistero. Come in tutte le altre. Sarà per questo che piacciono tanto?

Fondazioni, così i politici ora fanno cassa. I finanziamenti ai leader piccoli e grandi ora passano attraverso questi enti, che possono operare senza alcun controllo. Ecco come la fine dei fondi pubblici cambia il rapporto tra il Parlamento e le lobby, scrivono Marco Damilano e Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Il palazzo delle fontane all'Eur di Roma illuminato per la cena del Pd Doveva essere un anticipo di futuro. Il partito all’americana. Il fund raising, la raccolta fondi, limpida e trasparente come un ruscello di montagna. Venerdì 7 novembre la prima cena di auto-finanziamento del Pd a Roma (dopo quella di Milano) era stata un successone. Ottocento tavoli, mille euro a testa, il presidente del Consiglio Matteo Renzi festeggiato come uno sposo. «Esperimento riuscito, da ripetere». Il mondo nuovo della politica finanziata dai privati. Che si è rivelato invece, tre settimane dopo, il solito mondo di mezzo. Il confine sottile e buio che separa la vetrina del potere dalle bande criminali scoperte dall’operazione Mafia Criminale. Alla cena con il premier c’era anche Salvatore Buzzi, presidente della cooperativa “29 giugno”, arrestato con l’accusa di essere il cassiere della banda romana guidata da “Er Cecato”, come ha raccontato il suo vice Claudio Bolla: «Il tavolo alla cena di Renzi è costato 10 mila euro, ha pagato tutto la cooperativa e, tra i nostri soci, c’è anche Massimo Carminati». Si realizza la profezia del boss ex Nar intercettato: «Tutto è possibile, che ne so, che un domani io posso stare a cena con Berlusconi». O con il suo giovane successore a Palazzo Chigi, ignaro. «I nomi si vedono. Sono tutti pubblici e registrati. Chiedete al tesoriere del partito Francesco Bonifazi», ha garantito il premier in tv il 3 dicembre. A due settimane di distanza, però, la lista degli invitati e dei contributi non è saltata fuori. Nell’attesa, l’inchiesta “Mafia Capitale” e le regalie dei presunti criminali alla politica arrivano proprio mentre i leader provano faticosamente a costruire un nuovo modello di approvvigionamento, dopo che l’abolizione del finanziamento pubblico (che entrerà a regime nel 2017) sta già dissanguando le casse dei partiti. Dunque, l’antica domanda resta più attuale che mai. Chi finanzia la politica? E perché? «Non ci sono più i partiti. È inutile imporre la trasparenza nei bilanci dei partiti, che ormai sono spompati e nessuno li finanzia più. Oggi il vero potere passa per le fondazioni», ha denunciato una settimana fa a “l’Espresso” il presidente dell’Autorità anti-corruzione Raffaele Cantone. «Le fondazioni ottengono, spesso attraverso altre mediazioni, i quattrini che sono il vero motore delle campagne elettorali. Possono intascare centinaia di migliaia di euro senza darne conto. Oggi sono fuori da ogni possibilità di controllo». Le fondazioni politiche sono un punto di intersezione tra interessi pubblici e privati, legali e inconfessabili, di lobby e di cordate che si incrociano e si incontrano, senza nessun obbligo di trasparenza dei bilanci e dei finanziatori. Una terra di mezzo, appunto. E sono il fantasma che si aggira tra le pagine dell’inchiesta su “Mafia Capitale”. Spulciando tra le migliaia di documenti e intercettazioni si scopre, infatti, che gli enti finiti nell’ordinanza (alcuni solo di striscio) sono ben cinque. Come il magistrato Cantone, anche l’ex Nar Carminati e il compare Buzzi avevano capito che i think-tank possono essere scatole vuote. Da riempire di soldi e tangenti. Matteo Renzi alla cena di finanziamento del Pd Anche se dei pensosi convegni sull’economia e delle conferenze sul Mediterraneo ai boss fregava nulla, non è un caso che nell’ordinanza d’arresto la parola “fondazione” venga pronunciata dagli indagati 45 volte. Sono i soggetti giuridici spuntati come funghi negli ultimi dieci anni, enti dove la trasparenza è un accessorio e il lobbismo spinto è l’unico, vero core business. Pronti a degenerare in una macchina per corrompere dirigenti pubblici, ungere i facilitatori, riciclare e fare ottimi affari. Dal think-tank all’americana al think-“tanke” all’amatriciana. “Il Tanke” era il soprannome che “Er Cecato” dava a Franco Panzironi, in testa all’elenco degli arrestati, ex amministratore delegato dell’Ama, la municipalizzata romana dei rifiuti, e segretario della fondazione di Gianni Alemanno “Nuova Italia”. La onlus che il “Tanke” usava come una sorta di bancomat. Secondo i pm, infatti, i padrini di “Mafia Capitale” avrebbero finanziato il club di Gianni per almeno tre anni, da gennaio 2012 allo scorso settembre, versando centinaia di migliaia di euro: al pensatoio dell’ex sindaco di Roma, tra bonifici e bustarelle, secondo i pm sarebbero arrivati dalle cooperative dei boss contributi per 265 mila euro. In cambio, l’organizzazione avrebbe ottenuto appalti pubblici e utilità di ogni tipo. «Quello è ’na cambiale, l’ho messo a 15 mila al mese», ride Buzzi al telefono, facendo riferimento all’affitto della sede della centralissima via San Lorenzo in Lucina, nello stesso palazzo in cui c’è la sede nazionale di Forza Italia. Panzironi dai presunti mafiosi otteneva di tutto e di più: da orologi di lusso alla «rasatura del prato di zone di sua proprietà». Ma il “Tanke” era direttore operativo anche di un’altra prestigiosa associazione, la “Fondazione per la pace e la cooperazione internazionale Alcide De Gasperi”, presieduta per decenni da Giulio Andreotti, con ottime entrature in Vaticano e nella finanza bianca (tra i consiglieri spicca Giovanni Bazoli accanto a Vito Bonsignore, condannato per corruzione). Buzzi gira 30 mila euro anche a loro, e incontra Panzironi negli eleganti uffici di Via Gregoriana. Al tempo l’ente era presieduto dall’ex berlusconiano Franco Frattini, ma dal luglio 2013 è stato sostituito dal numero uno del Viminale, Alfano. Anche sul sito della “De Gasperi”, come su quello di “Nuova Italia” manco a dirlo, non c’è alcuna sezione “trasparenza”. Abbiamo provato a contattare per giorni il segretario generale Lorenzo Malagola per chiedere lumi sui finanziatori privati, ma non ci ha mai richiamato. Anche Alfano non ha voluto rispondere alle nostre domande. «Sottolineiamo però», tiene a far sapere il suo staff, «che la fondazione non è di un politico, esiste da trent’anni, e che presidente onorario è la figlia di De Gasperi». Andiamo avanti. Se nel paragrafo dell’ordinanza dedicata alle «frequentazioni di Carminati» spunta Erasmo Cinque, costruttore coinvolto nelle inchieste sul Mose e sull’Expo nonché autorevole membro del cda della “Fondazione della liberà per il Bene comune” dell’amico ex ministro di An (oggi in Forza Italia) Altero Matteoli, un uomo del “Cecato” aveva messo piede anche in altre due associazioni, stavolta di tendenza democrat. Stefano Bravo, per gli inquirenti lo “spallone” del clan, il commercialista che portava i denari oltreconfine, è stato tra i promotori della “Human Foundation”, una creatura dell’ex ministro Pd Giovanna Melandri. Ma era - ha scoperto “l’Espresso” - anche presidente del collegio dei revisori della Fondazione “Integra Azione”, fondata da Legambiente. L’ente, che ha un logo profetico in cui una mano rossa ne stringe una nera, era presieduto da Luca Odevaine (l’ex vice-capo di gabinetto di Walter Veltroni al soldo di Buzzi finito in galera) e da Francesco Ferrante, ex senatore del Pd. «È un paradosso, noi di Human foundation siamo nati proprio perché crediamo nella trasparenza assoluta di stampo anglosassone», spiega furiosa la Melandri, che solo pochi giorni fa ha scoperto che uno dei fondatori del suo circolo (nell’elenco spiccano anche il viceministro all’Economia Carlo Calenda e il filosofo Sebastiano Maffettone) è considerato dai pm uno dei complici dell’ex terrorista nero. «Noi siamo parte lesa. Se il dottor Bravo sarà condannato ammetteremo di aver sbagliato a scegliere un collaboratore, ma con “Mafia Capitale” non abbiamo nulla a che spartire». È un fatto che la Human sia tra le pochissime onlus a indicare sul sito le aziende che sponsorizzano i suoi progetti: si va da Unicredit e Telecom, passando per Banca Mediolanum a Sorgenia, che hanno versato liberalità da un minimo di 10 mila (contributore “bronze”) a un massimo di 50 mila euro l’anno (contributore “platinum”). «Solo Vodafone ha messo di più per un master alla Cattolica», chiosa la Melandri, che sostiene l’apoliticità della sua creatura. Presentata al mondo però con una lettera di Giorgio Napolitano, l’intervento dell’allora premier Mario Monti, i saluti dell’allora ad Enel Fulvio Conti e le conclusioni di Giuliano Amato. Il commercialista oggi indagato lavorava anche in un’altra fondazione di sinistra, “Integra Azione”, un ente creato nel 2010 per favorire «l’integrazione tra i popoli». «Abbiamo fatto progetti di cui sono orgoglioso, con fondi europei, all’ospedale Pertini di Roma, la Coca-Cola ha contribuito per un progetto a Rosarno», interviene Ferrante, che l’anno scorso ha lanciato il nuovo partito ambientalista “Green Italia”. «Il centro per gli immigrati di Mineo, in Sicilia? È vero, nelle intercettazioni ne parlavano Odevaine e Buzzi, ma “Integra” non c’entra nulla, era un affare personale di Luca». Comunque, la onlus ha organizzato dei corsi per mediatori culturali, proprio per il centro vicino Catania che Buzzi sognava di trasformare in un nuovo business della banda. Con l’abolizione del finanziamento pubblico e con la ricerca di sponsor privati che potranno contribuire al massimo per 100 mila euro, le fondazioni avranno un peso sempre più rilevante nella politica. Come avviene in Francia, Usa, Gran Bretagna. Ma se lì i controlli sono stringenti (in Germania, ad esempio, le fondazioni sono una per partito, finanziate quasi interamente dallo Stato, controllate dalla Corte dei conti e obbligate alla pubblicità e alla trasparenza dei bilanci) il modello italiano è più simile al far west. Prendiamo la più famosa delle fondazioni politiche, a lungo considerata la più influente di tutte, la fondazione Italianieuropei di Massimo D’Alema, con elegante sede in piazza Farnese a Roma, di fronte all’ambasciata francese. Se chiedi la lista dei finanziatori rispondono a muso duro che loro, finché la legge non cambierà, non divulgheranno un bel nulla. «Diciamo che preferiamo la privacy alla trasparenza», ragiona Daniela Reggiani, portavoce del fondatore del pensatoio. «I nostri bilanci sono depositati alla prefettura, non ci sono i nomi e i cognomi ma trovate entrate e uscite. Non è giusto che l’origine di un contributo venga svelata, se chi l’ha fatto sapeva di poter rimanere nell’ombra. È una questione di correttezza». In linea con quanto affermato dallo stesso D’Alema nel 2011: «Dai finanziamenti si potrebbe desumere l’orientamento di chi ha elargito il contributo». L’ex premier lo dichiarò tre anni fa, quando la sua fondazione finì nella bufera per il coinvolgimento di Vincenzo Morichini nello scandalo degli appalti truccati dell’Enac (l’imprenditore amico di D’Alema era il procacciatore di finanziamenti della fondazione, ha patteggiato un anno e sei mesi per corruzione e frode fiscale). Tra le onlus vicine al centro-sinistra non sempre la trasparenza è stata considerata una virtù. Nel 2012 l’allora tesoriere della Margherita Luigi Lusi fu arrestato per appropriazione indebita dei rimborsi elettorali del suo partito. Poco dopo un’inchiesta de “l’Espresso” scoprì che Lusi, nel 2009, aveva girato oltre un milione di euro al “Centro per il futuro sostenibile”, fondazione con vocazione ambientalista creata da Francesco Rutelli e dall’attuale assessore ai Trasporti della Capitale Guido Improta. Lusi aveva bonificato il denaro quando Rutelli aveva già fondato un altro partito, l’Api. Lo stesso “Cfs”, poi, versò decine di migliaia di euro alla nuova formazione politica: nessuno di questi contributi fu mai dichiarato, né dall’Api né da Rutelli. Due vicende con gli stessi protagonisti, ma che corrono separate. Per il furto dei rimborsi elettorali Lusi è stato l’unico condannato. Anche la “Fondazione della Libertà” che fa riferimento a Matteoli è stata tirata in ballo nella vicenda delle tangenti Enac. L’ex ministro delle Infrastrutture ha sempre smentito qualsiasi coinvolgimento, ma oggi non può certo negare di conoscere bene Erasmo Cinque, l’imprenditore a cui Carminati ha fatto visita nel maggio del 2013. I nomi di Matteoli e di Cinque - che è nel cda della fondazione con l’ex deputato Marcello De Angelis, ex di Terza posizione, cinque anni di carcere alle spalle e una carriera come cantante del gruppo musicale 270bis, riferimento all’articolo del codice penale sulle associazioni con finalità di terrorismo - sono finiti anche nelle inchieste sul Mose e dell’Expo. Il boom delle fondazioni è stato raggiunto nel 2012-2013, quando la crisi dei partiti ha toccato l’apice. Secondo una recente ricerca dell’università La Sapienza curata dal politologo Mattia Diletti sono oggi 105, in crescita esponenziale: erano appena 33 nel 1993, anno di passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica. Il 34 per cento sono think-tank di carattere personale, legate alla figura di un leader o di un capo-corrente. Nell’ultimo decennio, in pratica, ognuno si è fatto la sua, con nomi immaginifici (Claudio Scajola con la “Cristoforo Colombo”) o banalotti (“Fare Futuro”, “Futuro Sostenibile”, “Costruiamo il Futuro”). L’ultima arrivata è “Ricostruire il Paese” del sindaco di Verona Flavio Tosi, leghista in rotta di collisione con Matteo Salvini: tesserarsi costa dieci euro, nell’agenda degli eventi dell’ultimo mese c’è la partecipazione di Tosi a “Un giorno da pecora” e a “Virus”, i comitati locali si chiamano “fari” (accendiamo un faro...) ma sui donatori non c’è illuminazione. Così come nulla si sa di preciso su “Costruiamo il futuro”, la fondazione del ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi, oggi gettonatissima, perché il destino degli enti e le loro fortune economiche segue la parabola dei loro promotori. Vice-presidente è l’ingegnere valtellinese Lino Iemi, legato alla Compagnia delle Opere, immobiliarista con il pallino dei centri commerciali e degli shopping center, edificatore di una controversa città-mercato in Sardegna. Chi meglio di lui, per costruire il futuro? L’unica associazione che ha messo on line i bilanci dettagliati e l’elenco dei suoi finanziatori è anche la più in voga del momento. La fondazione “Open”, un tempo chiamata “Big Bang”, organizza gli incontri annuali della stazione Leopolda e fa riferimento diretto al premier Renzi. Tra i donatori ci sono i deputati e i senatori renziani al gran completo, compreso il tesoriere del Pd Bonifazi che ha elargito 12 mila euro. Ma anche l’ex presidente della Fiat Paolo Fresco (25 mila euro), l’ex presidente della cassa di risparmio di Firenze Jacopo Mazzei (10 mila), il finanziere Davide Serra (125 mila euro) di casa a Palazzo Chigi (era a pranzo da Renzi una settimana fa). Tutto regolare. Eppure sulla trasparenza resta ancora molto da fare. In occasione dell’ultima Leopolda Open, con una nota ufficiale, ha fatto sapere che in due anni di vita ha raccolto due milioni in donazioni, e che ogni kermesse costa circa 300 mila euro: il resto è stato speso «in due elezioni primarie, il sito della Fondazione e tantissimi eventi e incontri socio-culturali in tutta Italia», di cui però non si hanno evidenze. Incuriosisce, inoltre, che Renzi da un lato come segretario del Pd partecipi alle cene di auto-finanziamento per il partito e dall’altro promuova una fondazione privata affidata ai suoi fedelissimi. Ancor più curioso che il board sia composto da sole quattro persone: Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Marco Carrai e il presidente Alberto Bianchi. Rispettivamente il ministro delle Riforme, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il più fedele consigliere del premier e l’avvocato di Matteo, presidente di Open nominato a primavera anche membro del cda dell’Enel. Le fondazioni, dicono gli esperti, saranno la prossima frontiera della politica “all’americana”. In realtà le onlus hanno preso la solita declinazione: all’italiana. Nella ricerca della Sapienza emerge che a fare da padrone nelle sponsorizzazioni sono i più importanti enti pubblici e le principali banche: Eni, Enel, Finmeccanica, Autostrade, Telecom, Edison, Unicredit, Intesa-SanPaolo, Ferrovie. Le nove sorelle che fanno girare l’economia italiana. Talmente inserite nel meccanismo che Enrico Letta, da premier, si sentì in dovere di sciogliere la sua associazione VeDrò per non finire stritolato in un circuito di pressioni e di lobbying. Molti ex VeDrò sono però confluiti tra i renziani della Leopolda: i deputati Ernesto Carbone e Lorenza Bonaccorsi, Simonetta Giordani, passata da Autostrade al governo Letta come sottosegretaria alla Cultura e infine nominata da Renzi nel cda di Ferrovie. Nei prossimi anni, quando il finanziamento pubblico sarà interamente cancellato, i soldi arriveranno da lì. Imprenditori ed enti pubblici che foraggiano fondazioni, guidate da politici che decidono gli aiuti alle aziende e nominano i vertici delle stesse partecipate. Un bel circuito di interessi, lasciamo perdere il conflitto, roba fuori moda. I think tank sono destinati a evolversi: da struttura personale a disposizione del capocorrente di turno a società di consulenza da cui attingere per personale, risorse, classe dirigente. Un passo ulteriore verso la destrutturazione della politica. Perché dopo la grande torta del finanziamento pubblico, in assenza di trasparenza e certezza su chi versa soldi alle fondazioni, non finiremo in una nuova casa di cristallo, come si auguravano in tanti, ma in un territorio ancora più oscuro. E pericoloso.

La selva oscura delle fondazioni e quel controllo che non c’è, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Che una cooperativa finanzi una fondazione politica, come sembrava essere nei progetti della Cpl Concordia finita nell’inchiesta sulle mazzette al sindaco pd di Ischia, non è affatto uno scandalo. Nelle democrazie occidentali è questa la forma con cui i privati contribuiscono anche alla formazione della classe dirigente dei partiti. Ma in piena trasparenza. Proprio quella che invece in Italia manca: alimentando il sospetto che la funzione principale di queste fondazioni, moltiplicatesi in modo esponenziale negli ultimi anni proprio mentre l’opinione pubblica premeva per imporre ai partiti regole più stringenti, sia decisamente più prosaica. Ai magistrati che indagano su Mafia capitale Franco Panzironi, ex segretario generale della Nuova Italia di Gianni Alemanno e insieme collaboratore della Alcide De Gasperi di Franco Frattini, ha raccontato che le fondazioni politiche sono un comodo salvadanaio dove gli imprenditori mettono soldi in cambio dell’accesso a un sistema di relazioni. Lungi da chi scrive il voler fare di tutta l’erba un fascio. Ma il problema esiste, e lo sanno bene i partiti. Che però di metterci mano seriamente non ne hanno alcuna intenzione. Nel 2012, mentre si discuteva alla Camera il taglio dei rimborsi elettorali, un emendamento pensato da Linda Lanzillotta e Salvatore Vassallo che mirava a imporre le stesse regole di trasparenza previste per i partiti anche alle fondazioni, fu impallinato da destra e da sinistra. Due anni più tardi, nella legge sulla presunta abolizione del finanziamento pubblico, ecco spuntare finalmente quell’obbligo. Peccato che sia inapplicabile. La norma di cui parliamo dice che sono soggette agli obblighi di trasparenza validi per i partiti le fondazioni i cui «organi direttivi» siano nominati «in tutto o in parte» dai partiti medesimi. Neppure una di quelle esistenti ricade in questa fattispecie. E siccome chi l’ha scritta non ha l’anello al naso, la norma aggiunge che le regole di trasparenza, (per esempio la pubblicazione online di tutti i contributi di entità superiore a 5.000 euro) si applicano anche a quelle fondazioni che destinano più del 10 per cento dei proventi al finanziamento di attività politiche. Si tratta soltanto di stabilire come e chi controlla che quel limite non venga superato. Ma di questo non si fa cenno. Fatta la legge, non si deve neppure fare la fatica di trovare l’inganno. Quante fondazioni resterebbero in vita se le regole della trasparenza venissero correttamente applicate e fatte rispettare, non possiamo dirlo. Ma sul fatto che sia ormai necessario intervenire senza furbizie ci sono pochi dubbi. Lo sostiene con fermezza anche il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone. Che per questo si è beccato una punzecchiatura dalemiana dalla Velina rossa con l’invito a far pubblicare tutti i contributi alle fondazioni,«anche a quelle di Firenze». Bersaglio: Matteo Renzi. Ma forse Pasquale Laurito, autore della Velina, non aveva consultato il sito della renziana Fondazione Open. Avrebbe trovato una lunga lista di finanziatori. Dai 175 mila euro del patron del fondo Algebris Davide Serra ai 50 mila dell’ex presidente Fiat Paolo Fresco e della sua consorte Marie Edmée Jacqueline, ai 60 mila della Isvafim di Alfredo Romeo, ai 62 mila del finanziere molisano Vincenzo Manes... Va però detto che non compaiano i nomi di chi non ha dato l’assenso alla pubblicazione. Come se la privacy possa valere per i finanziamenti a una fondazione che fa riferimento al premier e con un consiglio direttivo nel quale accanto al suo amico del cuore Marco Carrai ci sono il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi, il sottosegretario alla presidenza Luca Lotti e l’avvocato Alberto Bianchi, nominato dal governo nel consiglio di amministrazione dell’Enel. Nessuna lista abbiamo trovato invece nel sito della Italianieuropei presieduta da Massimo D’Alema, di cui Claudio Gatti e Ferruccio Sansa ricordano nel loro libro «Il sottobosco» alcuni finanziatori: gli imprenditori Alfio Marchini e Claudio Cavazza, i gruppi Pirelli e Asea Brown Boveri, nonché le immancabili Coop, queste ultime per 103.291 euro. Per la sinistra Italianieuropei è stata un formidabile rompighiaccio. Da allora è stato un fiorire di fondazioni, associazioni, centri studi, think tank. Pier Luigi Bersani e Vincenzo Visco hanno messo su Nuova economia nuova società. Anna Finocchiaro la Fondazione Cloe. Walter Veltroni la scuola di politica Democratica, che ha cambiato nome in Idemlab. Impossibile poi non citare Astrid di Franco Bassanini e Glocus di Linda Lanzillotta. Come pure le associazioni Riformismo e solidarietà dell’attuale sottosegretario (all’Economia) Pier Paolo Baretta e Libertà Eguale del viceministro (stesso ministero) Enrico Morando. E il network trasversale di Enrico Letta e Angelino Alfano, Vedrò. La destra non è stata certo da meno. Ecco allora la Free Foundation di Renato Brunetta. Poi la già citata Nuova Italia di Alemanno, adesso orfana di quel Panzironi finito nella bufera giudiziaria romana: al suo posto Claudio Ferrazza, avvocato dell’ex sindaco di Roma. Orfana del medesimo soggetto pure la Alcide De Gasperi di Frattini, dove Panzironi, ha raccontato l’ex ministro degli Esteri, era arrivato dietro consiglio di Alessandro Falez, imprenditore della sanità con solidissimi rapporti vaticani. Quindi la Cristoforo Colombo per le Libertà di Claudio Scajola, con un comitato politico presieduto dall’ex ministro Mario Baccini: il quale a sua volta ha una propria fondazione, la Foedus. Ecco poi la Fondazione della Libertà per il Bene Comune: presidente l’ex ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, al suo fianco il costruttore suo braccio destro Erasmo Cinque insieme a Roberto Serrentino e Giovan Battista Papello, entrambi già piazzati all’Anas dalla destra. Ecco ancora Italia Protagonista di Maurizio Gasparri. E Riformismo e Libertà di Fabrizio Cicchitto. Mentre si chiama Europa e civiltà la fondazione di cui è presidente onorario Roberto Formigoni. Per non parlare di Magna Carta di Gaetano Quagliariello, che ha il merito di esporre gli stemmi (ma non i contributi) dei soci fondatori, fra cui Erg e Mediaset: mentre non troviamo più l’elenco dei soci aderenti, dove tre anni fa figurava anche la holding pubblica Finmeccanica. Esiste ancora il Movimento delle Libertà dell’ex parlamentare di Forza Italia Massimo Romagnoli. Come Città Nuove, embrione di quello che poteva essere il partito della ex presidente della Regione Lazio Renata Polverini. E sopravvive pure Costruiamo il futuro, forse un tantino abbacchiata dopo quello che è successo al suo presidente (autosospeso) Maurizio Lupi.

TANGENTOPOLI E LE CONSULENZE TRUCCATE.

"Mose, un miliardo bruciato in tangenti e consulenze". L'inchiesta di Venezia. Il costruttore Baita: un euro su cinque sprecato per le spese extra. Le risorse dissipate anche in assunzioni di favore e studi tecnici inutili per realizzare l'opera, scrivono Giuseppe Caporale e Corrado Zunino su “La Repubblica”. C'è un miliardo di troppo nel prezzo del Mose, cantiere costato ad oggi 5,6 miliardi pubblici. Quel miliardo di troppo lo ha evidenziato il più importante tra i costruttori, Piergiorgio Baita che ha guidato la Mantovani spa fino al suo arresto, 28 febbraio 2013. Quel miliardo non è servito a far crescere la mastodontica opera idraulica, ad assumere i progettisti più qualificati, a pagare macchinari, bonifiche, straordinari. È servito solo ad alimentare il Consorzio Nuova Venezia, appaltatore unico della diga da trenta chilometri. Fin qui la magistratura ha certificato 22,5 milioni di tangenti consegnate dal consorzio a sindaci e presidenti di Regione, magistrati delle acque e della Corte dei conti, consiglieri regionali, finanzieri, spioni. A questo bottino minimo (il 4 per mille del valore dell'opera, ben al di sotto della media delle mazzette italiane) vanno però aggiunti i costi delle "utilità" certificate: le ville ristrutturate a carico della pubblica comunità, i soggiorni in grand hotel di Venezia e Cortina, i voli privati, le vacanze in Toscana pagate alla famiglia di Paolo Emilio Signorini, funzionario della Presidenza del Consiglio. E, ancora, i contratti a progetto offerti nelle "aziende Mose" a figli e fratelli di magistrati, le molte assunzioni precisamente inutili: la figlia di Paolo Splendore, direttore dei servizi segreti del Triveneto, la figlia di Giovanni Artico, importante funzionario della Regione Veneto, quindi Giancarlo Ruscitti, ex funzionario della sanità utile per ottenere l'appalto dell'ospedale di Padova. Il conto del malaffare s'impenna, infine, contabilizzando le consulenze inutili, gli studi idrogeologici commissionati e neppure letti. "Tutti insieme noi costruttori abbiamo girato al consorzio cento milioni l'anno", dice l'ingegner Baita, maggior azionista Cnv da undici stagioni. Fanno un miliardo, qualcosa in più, lasciando fuori i venti precedenti anni di vita del raggruppamento Nuova Venezia. È una tangente globale pari al 20 per cento dell'opera: i conti iniziano a tornare. Nelle 437 pagine delle richieste di arresto della procura veneziana si trovano molte conferme a quella cifra sprecata, un miliardo di euro, in illecite "pubbliche relazioni". Le regole della tangente collettiva - i costruttori dovevano fare una colletta ogni volta che veniva richiesto - le impose il capo supremo Giovanni Mazzacurati quando prese in mano le redini del consorzio monopolista in Laguna. Nel 2002. "La mia azienda aveva appena rilevato le quote del Consorzio appartenute a Impregilo, un investimento da 70 milioni che ci trasformava negli azionisti più importanti", ha messo a verbale l'amministratore della Mantovani, Piergiorgio Baita. "L'ingegner Mazzacurati mi convocò e, in sede, mi precisò una serie di regole non scritte che vigevano tra i soci. La più importante era questa: dovevamo impegnarci tutti a retrocedere al consorzio, in nero, le somme concordate". Il secondo obbligo era che "nessuna delle singole imprese, salvo ordine supremo, poteva permettersi di pagare direttamente politici e funzionari: le tangenti dovevano sempre passare attraverso il consorzio". Mazzacurati, che pretendeva di essere l'unico a gestire i rapporti politici più alti - incontrò diverse volte a Roma Silvio Berlusconi e Gianni Letta "per spiegare come stavano i lavori del Mose e farli procedere più velocemente" - riceveva le buste di denari personalmente dai costruttori. Altre volte mandava uno dei suoi collaboratori: Luciano Neri o Federico Sutto. Raccoglievano e consegnavano al presidente. "Era Mazzacurati a decidere il fabbisogno di fondi extracontabili, a scegliere chi doveva anticipare le somme nei momenti di crisi. Era lui, durante le campagne elettorali, a dettare gli importi del finanziamento ai partiti. Noi della Mantovani e quelli di Fincosit sostenevamo rappresentanti del Pdl, Condotte e Coveco il Pd. Solo la mia azienda ha retrocesso al consorzio sei milioni di euro". Retrocesso, si dice così. Significa " restituire in nero" parte del denaro pubblico ricevuto per trasformarlo in tangente. Già, nel tempo il collezionista di "rientri" aveva perfezionato il" sistema di retrocessione", come illustra il prospetto recuperato dalla finanza nel novembre 2011. Le quattro aziende più importanti - la Mantovani, la Coedmar, la Fincosit e la cooperativa Coveco - si facevano carico di "ritornare" al loro consorzio il 50-6-0 per cento degli importi indicati nelle "prestazioni di servizio", studi idrogeologici e consulenze tecniche. La stessa aliquota (50-60 per cento dell'appalto) le aziende dovevano riconsegnarla sulla voce "anticipazione di riserve" (fondi messi da parte in attesa di richieste urgenti). Infine, le quattro grandi aziende grandi e le due minori dovevano garantire il 5-6 per cento dei ricavi derivanti dai "lavori in sasso": la gettata di massi fatta per alzare dighe alle quattro bocche del Mose. "Il sospetto che qualcuno di noi costruttori cercasse di barare al gioco della colletta c'era ", confessa Baita. Spiegano i magistrati: "Accettato l'importo richiesto, le imprese stipulavano con il consorzio contratti fittizi per prestazioni sovradimensionate nell'importo. I contratti venivano tutti predisposti dal ragionier Neri". Un esempio? "La coop Coveco riceveva una fattura dalla sua azienda San Martino di 2-00 mila euro e faceva la fattura di200 mila euro al Consorzio Venezia Nuova. Dopo un mese Pio Savioli con la sua macchinetta andava a prendere 1-00 mila euro in contanti dalla San Martino e li portava in Piazzale Roma all'amico Neri ". Che li girava a Mazzacurati, che li distribuiva a Orsoni e Galan. Alla fine di ogni esercizio le singole imprese dovevano taroccare i loro bilanci annuali per spiegare gli esborsi extra Mose. E predisporre relazioni con l'elenco delle riunioni e degli incontri formali. "Attività mai svolte", dicono i magistrati, "che saranno coperte da Valentina Croff, rappresentante legale del Consorzio ". Per telefono, intercettati, si sentono dirigenti di società quantificare il falso: "Per merce sollevabile con i moto pontoni posso mettere trenta tonnellate?... No, è rischioso, metti solo dieci".

Lupi, le consulenze d'oro del suo ministero. Sul sito delle Infrastrutture, 48 pagine e 478 file raccontano dei contratti (e dei rinnovi di anno in anno) degli “esperti” scelti fuori dai ranghi della Pubblica Amministrazione di cui si è avvalso il dicastero. Dai 136 mila euro per Incalza ai 60 mila netti per Girlanda. Con buona pace della spending review, scrive Sonia Oranges su “L’Espresso”. Quarantotto pagine per poco meno di 480 file che, sul sito del ministero della Infrastrutture , raccontano della valanga di consulenze e collaborazioni, spesso ottimamente pagate, di cui si è avvalso in questi anni il dicastero guidato da Maurizio Lupi. Di certo lo era quella di Ercole Incalza, il superdirigente arrestato lunedì scorso per un presunto giro di tangenti sulle grandi opere. Incalza lo scorso anno, ha ricevuto 136mila euro dal ministero per guidare la struttura tecnica di missione: un cococo d’oro, che fa sbiadire la pensione da 60 mila euro annui, pure percepita dal dirigente ora in manette. D’altra parte, la struttura di missione brilla per quantità e consistenza delle consulenze assegnate: circa una Ercole Incalza ventina quelle da 75mila euro annui, destinate a professionisti (soprattutto avvocati e ingegneri) che spesso portano avanti carriere parallele: quelle svolte privatamente, e quelle costruite negli anni all’interno della pubblica amministrazione, con redditi da quadro, senza aver mai vinto alcun concorso. Carriere parallele in cui i confini tra pubblico e privato sono pericolosamente sfumati, almeno a leggere i dettagli dei curriculum. Sergio Mastrangelo è al ministero dal 2011 come esperto, pur essendo presidente di consorzi privati impegnati nella ricostruzione in Abruzzo. Alfredo Cammarano, fino al 2009 è stato dipendente dell’Economia e funzionario apicale del Cipe, poi consulente per il gruppo che doveva costruire una pezzo di autostrada tra l’aeroporto di Grazzanise e la Domitiana, infine consulente delle Infrastrutture. La lista di nomi è lunga. C’è il brindisino Donato Caiulo che da dirigente del porto pugliese finì pure lui in un’inchiesta sul rigassificatore. C’è un manager dell’information technology come Domenico De Rinaldis che contemporaneamente lavora anche con il ministero dello Sviluppo economico, e c’è l’avvocato Massimo Ricchi, pedeegree forense maturato nello studio di Giuseppe Consolo, che si è già sperimentato al Cipe e al ministero della Giustizia. Ma anche negli altri settori del ministero, gli appannaggi dei collaboratori non lasciano a desiderare. Di certo non si lamenta Nicola Bonaduce, consigliere per gli affari regionali di Lupi, già suo capo segreteria alla Camera e con un passato milanese a dirigere le relazioni istituzionali della Compagnia delle Opere: porta a casa un compenso da 90mila euro l’anno, che arrotonda con i 28mila euro provenienti dall’incarico di consigliere di indirizzo dell’Istituto nazionale di Ricovero e Cura degli Anziani. Che nulla hanno a che fare con ponti, strade e porti, ma poco importa nella logica dei giri di poltrone del palazzo. Rocco Girlanda La stessa logica che spiega la permanenza al ministero delle Infrastrutture di Rocco Girlanda, pure lui indagato nell’ultimo scandalo delle opere pubbliche. Nel dicastero era sottosegretario forzista durante il governo Letta, e quando gli azzurri abbandonarono il governo, preferì lasciare gli azzurri ed entrare in Ncd, conservando la poltrona. E se il cambio della guardia a Palazzo Chigi gli è costato il sottogoverno, alle Infrastrutture è rimasto lo stesso. Come consulente “esperto per l'approfondimento delle problematiche inerenti l'autotrasporto ed il trasporto merci e concernenti il miglioramento dell'efficienza del trasporto pubblico locale, nonché per i rapporti con il Cipe”, per un corrispettivo di 60mila euro annui. Netti.

Tangenti grandi opere, Giulio Burchi: "La spartizione delle direzioni lavoro, una delle vergogne di questo paese", scrive Claudia Fusani su L'Huffington Post. Passerà alla storia per quel grido “Ercole, Ercolino (Incalza, ndr), che decide tutto lui, al 100%i” condiviso con l’amico imprenditore al telefono.. Oppure per l’altra: “Non faccio altro che fare l’ufficio di collocamento”. O magari per quella straordinaria ammissione: “I soldi che ho guadagnato a stare in questo Paese di merda deregolarizzato…”. Ogni inchiesta regala uno o più personaggi, una o più frasi destinati ad entrare nella cronaca. E quindi nella storia. Pennellate gergali che hanno il potere di spiegare più di mille pagine di atti giudiziari. Nei faldoni di “Sistema”, l’inchiesta della procura e del Ros di Firenze sulla “Cricca delle Grandi Opere” (o della Struttura tecnica di missione) si ritaglia un ruolo molto particolare Giulio Burchi, imprenditore modenese di 65 anni (li ha compiuti proprio in questi giorni) che forse è azzardato chiamare “compagno” ma certo vanta una buona amicizia con un compagno storico come Ugo Sposetti. Il “compagno” Burchi, dunque. Dal punto di vista giudiziario ha un ruolo abbastanza defilato tra gli oltre cinquanta indagati. E’ indagato per false fatturazioni (200 mila euro) e traffico di influenze (346 bis cp), uno dei nuovi reati contro la corruzione introdotti dalla famosissima legge Severino. Burchi avrebbe cioè utilizzato le proprie conoscenze per ottenere la direzione dei lavori di un tratto (20 km) della Salerno-Reggio Calabria. Eppure, nonostante la marginalità, è quasi un Virgilio che accompagna gli investigatori nella selva oscura della Struttura di missione. Colui che, essendoci dentro da anni, ne rivela nelle intercettazioni presunti meccanismi e segreti. Con una caratteristica: il compagno Burchi odia e ama il sistema. Scrivono i pm fiorentini Turco, Mione e Monferini: “Benchè in numerose conversazioni intercettate Burchi non perda occasione per stigmatizzare il rapporto illecito tra Ercole Incalza e Stefano Perotti, è un soggetto perfettamente inserito nel sistema illecito”. Quando si ha notizia dei primi arresti per Expo tra cui quello di Antonio Acerbo, il sub commissario di Expo, Burchi ammette: “Anch’io ho fatto compromessi ma i soldi che ho guadagnato a stare in questo paese di merda deregolarizzato non li avrei mai potuti guadagnare in Inghilterra o in America”. Una gola profonda. A sua insaputa. Il “compagno” Burchi, ad esempio, è il primo ad indicare agli investigatori il buco nero dell’inchiesta, dove nasce il malaffare nella cricca della Struttura di missione. Il 5 giugno 2014, commentando le notizie sull'indagine della Procura di Venezia sul Mose, afferma: “Ci sono due elementi che sono assolutamente non procrastinabili, togliere dalla Legge Obiettivo il fatto che il general contractor possa nominarsi il direttore dei lavori”. E’ quello che i pm chiameranno “il grimaldello del collaudato sodalizio criminale: “Una direzione dei lavori siffatta, dove il controllore è per contratto anche il controllato, è lo strumento che fa transitare su società e soggetti privati enormi somme di denaro (per compensi non inferiori all’1% dell’importo dei lavori appaltati, ma in molti casi fino addirittura al 3%), prive di sostanziale giustificazione ed inquadrabili nel prezzo di una dazione corruttiva”. Detto in modo ancora più chiaro, “utilità illecite in favore del sodalizio medesimo costituite dal conferimento dell’incarico professionale di direzione lavori e spesso da una miriade di assunzioni o consulenze collaterali alla gestione dell’appalto, del tutto fittizi, in favore di amici degli amici del pubblico ufficiale o di suoi prestanome o accoliti”. Così, in un’intercettazione del 21 ottobre 2014, Burchi dice: “La spartizione fantastica di queste direzioni lavori commissionate dai general contractor è una delle vergogne grandi di questo Paese perché affidando alle stesse imprese la direzione dei lavori hai depotenziato la funzione di controllo dello Stato. Una cosa che se tu la spieghi ad un inglese non ci riesci ... Un mio amico inglese mi ha detto che non era possibile, che mi sbagliavo”. Ecco perché i pm definiscono “ricordo quasi patetico le mazzette” rispetto alla “moderna prassi corruttiva” dove i “professionisti nominati direttori dei lavori (nell’inchiesta Sistema è il caso dell’ingegnere Perotti, ndr) e gli stessi funzionari (l’ingegnere e dirigente generale del ministero Ercole Incalza e suoi sodali, ndr) fanno parte di un’unica compagine criminale che condivide strategie, azioni e proventi illeciti”. Giulio Burchi è un supermanager dai molti incarichi: presidente del consiglio di amministrazione di Italferr spa dal 2004 al 2007, siede in diversi cda (la Autocamionabile della Cisa spa; autostrade lombarde; società di progetto autostrada diretta Brescia Milano; serenissima A4) anche di partecipate miste ed è referente della Siteco s.r.l. (servizi di engineering e di consulenza tecnica), e della “Siteco Informatica s.r.l.”. È stato anche socio dell’invidiatissimo “Perottino”(Stefano Perotti, arrestato con Incalza, Cavallo e Pacella) che definisce “il loro uomo su tutto”, quello che ha preso “diciassette direzioni lavori sempre con lo stesso sistema” ma che è vissuto nell’ambiente come “una spina nell’occhio” perché “Incalza glielo ha fatto digerire in molte situazioni in cui ne avrebbero fatto anche a meno”. Nelle numerose intercettazioni i pm rintracciano il filo rosso di una prassi volta “inequivocabilmente a procurarsi false fatture per abbattere gli utili”. Questo per testimoniare l’originalità e l’affidabilità della gola profonda. Che infatti rivela vari aspetti del sistema. Quello dei figli, ad esempio: il figlio di Acerbo che si scambia incarichi e consulenze con il padre ex numero 2 di Expo; il figlio di Lupi, di alcuni amici del giovane ingegnere e di altri figli di dirigenti del ministero che beneficiano di posti di lavoro. Burchi è una fonte preziosa anche nel raccontare un altro effetto collaterale dell’inchiesta Sistema: la ricerca di posti di lavoro. “Non faccio altro che fare l’ufficio di collocamento” dice al telefono con l’amico Ugo Sposetti (il senatore Pd che a sua volta in questi giorni ha paragonato “alla Caritas” il suo interessamento “per persone che hanno bisogno”). Burchi si attiva spesso per trovare posti e incarichi in favore di persone indicate da Sposetti o dal viceministro alle Infrastrutture Riccardo Nencini il quale “scrivono i pm, s’interfaccia con il Burchi tramite l'ex parlamentare Mauro Del Bue”. Il 3 aprile 2014 il supermanager chiede a Del Bue di procurargli un appuntamento con Nencini. Subito dopo Del Bue chiede a Burchi: “Tu potresti dargli qualche contributo di questo tipo anche a Nencini, ci sono delle nomine da fare in giro, ci interessa sistemare due o tre persone in qualche ente”. Altre intercettazioni spiegano che in effetti Burchi ha chiesto a più soggetti, tra cui il viceministro, un intervento per una nomina in Terna. Il 17 maggio 2014 sempre Burchi dice al telefono: “Sistemare uno in un collegio, mi può essere utile, Riccardo Nencini è vice ministro”. Magari sono solo millanterie ma è significativo di come ragionano gli uomini della cricca. Che in certi momenti sembrano non poterne più dello strapotere di Perotti. Il 5 aprile Burchi è al telefono con un altro manager, Giovanni Gaspari. Parlano dell’appalto e delle direzione lavori dell’autostrada in Libia. Perotti vuole e otterrà anche quella. Gaspari auspica qualche intervento di “pulizia”, probabilmente dal governo: “Speriamo che vada avanti, un po’ di pulizia la dovrebbe fare, però non sta pulendo quello che gli altri stanno facendo lì alle Infrastrutture... Lupi & C stanno facendo”.

La Procura di Milano: «Giulio Tremonti corrotto». Ecco le accuse. Richiesta dei pm al Senato: l'ex ministro va processato per corruzione. Nel mirino una tangente da 2,5 milioni su un affare miliardario di Finmeccanica, mascherata da parcella del suo studio professionale. Le ammissioni del suo ex braccio destro, Marco Milanese, e degli altri faccendieri arrestati, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Un grande ministro. Il suo studio professionale privato. E una parcella da due milioni e mezzo di euro. C'è questo triangolo d'oro alla base dell'inchiesta che ha spinto la Procura di Milano a chiedere al Senato l'autorizzazione a procedere contro Giulio Tremonti. L'ex ministro dell'Economia ora rischia di finire sotto processo per corruzione. In Italia l'unico precedente di questa speciale procedura risale agli anni neri dello scandalo Lockheed. Come qualsiasi altro indagato, Tremonti va considerato innocente e lo rimarrà fino a un'eventuale condanna definitiva. Ma rispetto ai normali cittadini ha un'arma in più: grazie a una legge costituzionale del 1989, i suoi colleghi parlamentari hanno il potere di bloccare con un veto politico il processo contro il senatore Tremonti. L'indagine riguarda un affare del gruppo Finmeccanica che si è rivelato disastroso per le casse dello Stato. Ma ha garantito una ricca parcella allo studio fiscale fondato dal professor Tremonti. Nel 2008 l'azienda statale, allora guidata da Pierfrancesco Guarguaglini, acquista il gruppo statunitense Drs, che è un grande fornitore di tecnologie militari, per un prezzo astronomico: 5 miliardi e 200 milioni di dollari, che all'epoca corrispondono a 3,4 miliardi di euro. Oggi il valore del gruppo americano si è quasi dimezzato: lo Stato italiano ci ha rimesso più di due miliardi di dollari. Tra i consulenti fiscali di quell'operazione spicca lo studio Virtax, di cui è socio fondatore Tremonti, che quando diventa ministro lo affida al suo fidato collega Enrico Vitali. Finmeccanica è una grande società controllata dal governo, che ha il potere di nominare gli amministratori. Inoltre il ministero dell'Economia deve sborsare 250 milioni di euro per l'aumento di capitale necessario a garantire gli imponenti prestiti bancari spesi per comprare Drs. Nel 2008, dunque, sembra a tutti impensabile varare un'operazione così costosa senza l'appoggio di Tremonti. Che infatti vede il numero uno di Finmeccanica ancor prima delle elezioni, quando è già sicura la vittoria di Berlusconi: nel suo interrogatorio, però, Tremonti «non ha memoria» di quel primo incontro con Guarguaglini. La richiesta di autorizzazione a procedere cita numerosi testimoni, già sentiti da diverse procure (Roma, Napoli e Milano) nelle indagini su Finmeccanica: tutti confermano che Tremonti all'inizio è contrario a quell'operazione miliardaria dell'azienda statale. Il problema è che l'ostilità del ministro smette di manifestarsi proprio quando lo studio Virtax ottiene quella consulenza da due milioni e 615 mila euro. La data del contratto di assistenza fiscale con Finmeccanica è veramente imbarazzante: 8 maggio 2008, lo stesso giorno in cui Tremonti diventa ministro del quarto governo Berlusconi. L'indagine, come impone l'apposita legge sui reati commessi dai ministri nell'esercizio dei loro poteri, è stata condotta da tre magistrati estratti a sorte. Riuniti nel cosiddetto «tribunale dei ministri», hanno avuto solo solo 90 giorni di tempo per chiudere l'intera inchiesta. Tremonti intanto ha potuto esaminare tutti gli atti d'accusa, presentare prove a discolpa e farsi interrogare. Ma non ha convinto nessuno dei tre giudici istruttori. Il primo pilastro dell'accusa è il rovesciamento della posizione di Tremonti, che sembra avvenire in perfetta coincidenza con la consulenza fiscale milionaria incassata dal suo studio. Lo testimonia perfino il suo ex braccio destro, Marco Milanese, l'ex parlamentare di Forza Italia già protagonista del caso dei soldi in nero per affittare una casa di lusso per il ministro a Roma: l'indagine romana che ha spinto Tremonti a patteggiare la sua prima condanna per finanziamenti illeciti. Riascoltato dal tribunale dei ministri, Milanese spiega di aver assistito personalmente all'incontro tra il ministro e Guarguaglini. E conferma che all'inizio «Tremonti si lamentava che queste società, tra cui Finmeccanica, andassero a investire all'estero e non in Italia». L'ex braccio destro, già inquisito per le tangenti del Mose di Venezia, non vorrebbe dire di più. Ma quando il tribunale dei ministri gli contesta le dichiarazioni che lui stesso aveva già reso in precedenza ai pm, l'ex onorevole Milanese conferma di aver saputo, dall'interno di Finmeccanica, «che l'affare era stato concluso e che al riguardo della contrarietà con Tremonti avevano trovato una strada... attraverso il coinvolgimento dello studio Vitali». Nello stesso interrogatorio Milanese rivela che il ministro Tremonti, per le comunicazioni più riservate, «non usava il suo telefono, ma prendeva il mio o quello della capo-segreteria». Anche Lorenzo Borgogni, ex responsabile delle relazioni esterne di Finmeccanica, dichiara di aver «accompagnato Guarguaglini allo studio a Roma di Tremonti, che gli domandò come mai non investiva in Italia ma negli Stati Uniti». In quel momento Tremonti non era ancora ministro e secondo Borgogni il suo parere «era molto condizionato dalla Lega», preoccupata per la sorte della fabbrica Agusta che ha sede a Varese, la città di Bossi e Maroni. Sul collegamento tra la parcella e il successivo via libera, invece, Borgogni all'inizio sostiene di non ricordare bene: «Può darsi che abbia detto che sicuramente con un coinvolgimento dello studio, anche il ministero.... la posizione di Tremonti sarebbe stata più in difficoltà». Ma quando gli viene contestato un altro verbale, lo stesso Borgogni finisce per confermare che il movente dell'incarico «era certamente quello di inserire lo studio di Vitali, che poi voleva dire anche Tremonti, nell'orbita delle società che lavoravano per Finmeccanica, e soprattutto in un'acquisizione di questo genere». L'accusa più esplicita arriva da Lorenzo Cola, il faccendiere romano di estrema destra che ai tempi di Guarguaglini era incredibilmente diventato il rappresentante di Finmeccanica nella trattativa miliardaria con gli americani. Cola riassume così la posizione iniziale del ministro: «Gurauaglini mi informò che Tremonti gli disse: “Voi andate a investire questi grandi capitali all'estero, quando noi in questo momento avremmo altre emergenze, tipo Alitalia”». Lo stesso Cola aggiunge che in seguito Guarguaglini (che invece nega tutto) gli rivelò che «per avere il consenso di Tremonti e poter fare l'operazione, era stato necessario dare questa consulenza allo studio professionale». Di consulenze per quell'affare, in effetti, Cola se ne intende: lui stesso ha intascato più di 16 milioni di dollari, che Finmeccanica (azienda statale quotata in borsa) gli ha versato su un conto intestato a una società offshore. L'ex titolare dell'Economia è stato attaccato più volte, durante tutto il ventennio berlusconiano, per i presunti conflitti d'interessi tra l'attività pubblica e quella privata, ma ha sempre replicato di non aver mai mescolato il suo ruolo di ministro delle tasse con quello di consulente fiscale delle aziende. Ogni volta che è tornato al potere con Berlusconi, in effetti, Tremonti ha lasciato ai suoi partner tutte le attività dello studio, restandone socio esterno, per ridiventarne titolare solo quando non era più ministro. E così nel 2006, nei due anni di governo Prodi, nella sede centrale di via Crocefisso a Milano è tornata la sigla «studio Tremonti», ma nel 2008, quando è ridiventato ministro, il suo nome è scomparso dall'elenco dei professionisti associati. Anche la consulenza a favore di Finmeccanica, quindi, è stata gestita dal suo socio principale, Enrico Vitali, che aveva fondato lo studio negli anni '80 insieme a Tremonti. Ma i magistrati milanesi ora si sono convinti che quella parcella, benché intestata ad altri, sia stata il prezzo sborsato da Finmeccanica per “comprare” il consenso del ministro. Una tangente ben mascherata con una fattura in apparenza regolare. Il tribunale dei ministri è arrivato a concludere che quella consulenza era fittizia, cioè serviva solo a dare una giustificazione cartacea al passaggio di soldi, anche grazie ad altre deposizioni. Alessandro Pansa, allora direttore generale di Finmeccanica, anche lui ora coinvolto suo malgrado nell'indagine per corruzione, ha dichiarato che fu Guarguaglini a imporgli la scelta dei consulenti fiscali. Ai quali Pansa impose uno sconto: quattro milioni in tutto, anziché i cinque richiesti. A chiudere il cerchio delle testimonianze sono gli altri consulenti di Finmeccanica: i tributaristi italiani della società Ernst & Young. Che confermano di aver dovuto accettare, con imbarazzo, la richiesta di Vitali di incassare la fetta più grande della parcella, cioè due milioni e mezzo. Anche se il lavoro effettivo di consulenza a Finmeccanica l'aveva fatto proprio e soltanto Ernst & Young. Un manager di questa società dichiara testualmente che Vitali e i suoi colleghi «erano puri spettatori», nel senso che «l'intero lavoro» era a carico di Ernst & Young, e quasi si scusa della sua testimonianza, precisando: «Non volevo essere offensivo nei confronti di nessuno, era proprio una constatazione di quello che è veramente accaduto». A questo punto i giudici del tribunale del ministri passano in rassegna tutti i documenti che dovrebbero dimostrare l'effettivo contenuto della consulenza fornita dallo studio fiscale di cui Tremonti è fondatore e comproprietario. Il controllo è possibile perché la Procura di Roma, con il pm Paolo Ielo, ha sequestrato già nel 2010 l'intero dossier Drs nella sede di Finmeccanica. Mentre l'indagato Vitali ha potuto presentare al tribunale tutti gli atti del suo studio. Quindi i giudici milanesi passano in rassegna tutte le carte, una dopo l'altra, ma non trovano neppure un atto dello studio Virtax che possa rappresentare una qualsiasi forma di esecuzione della consulenza contrattata con Finmeccanica. E tantomeno giustificare una parcella da due milioni e mezzo. Ci sono soltanto email, resoconti di riunioni orali e informazioni generiche sulle leggi fiscali americane, scaricabili anche da Internet. Tutti gli atti più importanti sono stati compilati da Ernst & Young: lo studio Virtax, osservano sconsolati i giudici, si è limitato «ad apporre il proprio logo successivamente alla redazione del documento».

Giulio Tremonti: "Mai chiesto nulla a Finmeccanica". La replica dell'ex ministro alla notizia delle indagini avviate dalla procura di MIlano nei sui confronti per presunti reati ministeriali, scrive R.I. su “L’Espresso”. «Non ho mai chiesto o sollecitato nulla ed in nessun modo da Finmeccanica. Anche per questo, come sempre, ho assoluta fiducia nella giustizia». Così l'ex ministro Giulio Tremonti ha replicato alla notizia delle indagini avviate dalla procura di Milano. «Ben prima di entrare nel governo, insediatosi venerdì 8 maggio 2008 - spiega Tremonti in una nota - mi sono cancellato dall'ordine degli avvocati e sono uscito dallo studio in base ad atto notarile e perizia contabile. Ci sono rientrato solo nel 2012, un anno dopo la fine del governo, come prescrive la legge. Nel durante ho interrotto tutti i rapporti con lo studio». «L'operazione DRS-Finmeccanica - prosegue - ha interessato e coinvolto la politica industriale e militare di due Stati. Come risulta dai documenti SEC e Consob, l'operazione è iniziata nell'ottobre 2007 ed è stata conclusa lunedì 12 maggio 2008. Anche seguendo il calendario, si può dunque verificare che, per la sua dinamica irreversibile e per la sua natura internazionale, l'operazione non era da parte mia né influenzabile, né modificabile, né strumentalizzabile. In questi termini, non ho mai chiesto o sollecitato nulla ed in nessun modo da Finmeccanica».

Quanti affari col metodo Tremonti. Tre milioni al “suo” studio per sbloccare un’operazione di Finmeccanica: l’ex ministro indagato per corruzione. Ma per i pm anche altri casi sono sospetti. A partire dal Mose, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Giulio Tremonti Un grande ministro. Il suo studio privato. E una ricca parcella. C’è un triangolo d’oro alla base dell’inchiesta che ha convinto la Procura di Milano a iscrivere nel registro degli indagati il nome di Giulio Tremonti, per la prima volta accusato di corruzione. L’indagine riguarda un affare di Stato: una colossale acquisizione decisa nel 2008 dall’allora vertice del gruppo Finmeccanica, che si è poi rivelata disastrosa per le casse pubbliche. Ma che in compenso ha garantito una parcella invidiabile allo studio tributario fondato dal professor Tremonti. Ricostruendo quell’operazione, i magistrati hanno acceso un faro su un presunto schema corruttivo: il sospetto è che possa aver funzionato anche in altri casi clamorosi. Dall’intrigo fiscale Bell-Telecom ai finanziamenti-scandalo per il Mose di Venezia. Un quadro che ha portato i pm ad approfondire anche altre indagini collegate, per verificare un’ipotesi d’accusa più ampia: una sorta di “sistema Tremonti”. Per ora la Procura di Milano ha fatto partire solo la prima procedura di messa in stato d’accusa davanti al tribunale dei ministri, che riguarda una presunta triangolazione tra l’allora ministro dell’Economia, lo studio professionale da lui fondato e il gruppo Finmeccanica. Nel maggio 2008 quel colosso statale, allora guidato da Pierfrancesco Guarguaglini, acquista la holding statunitense Drs, che è un grande fornitore di tecnologie militari, per un prezzo senza precedenti: 5 miliardi e 200 milioni di dollari. Tra i consulenti di quell’acquisizione compare lo studio Vitali, Romagnoli, Picardi & associati, che ha come socio fondatore proprio Tremonti. Finmeccanica versa a quello studio una parcella netta di due milioni e 400 mila euro, quasi tre con l’Iva. L’azienda statale è controllata dal governo, che nomina i dirigenti, per cui è impensabile varare un’operazione così costosa senza il via libera del ministero dell’Economia. Durante le trattative, secondo la ricostruzione dei magistrati, Tremonti si dichiara contrario. Ma all’improvviso diventa favorevole, proprio alla vigilia dell’accordo. E ora si scopre che, pochissimi giorni prima di questo “ribaltone”, il socio più importante dello studio da lui fondato aveva siglato quella ricca consulenza con Finmeccanica. Per un affare indubbiamente sbagliato: oggi il valore del gruppo americano si è quasi dimezzato. A conti fatti, lo Stato italiano ci ha perso più di due miliardi di dollari. L’accusa di corruzione è stata formalizzata dai pm Roberto Pellicano e Giovanni Polizzi dopo un vertice con il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati, che ha esaminato gli atti e autorizzato l’iscrizione. Gli indizi finora raccolti hanno convinto i magistrati, in sostanza, che quella parcella milionaria fosse la vera spiegazione del cambio di linea del ministro Tremonti.  L’ex titolare dell’Economia era stato attaccato più volte, nel ventennio berlusconiano, per gli ipotetici conflitti d’interessi legati al suo studio, ma ha sempre replicato di non aver mai mescolato il suo ruolo di ministro con la sua professione privata. Ogni volta che è tornato al governo, infatti, Tremonti ha sempre rivendicato di aver lasciato ai suoi partner tutte le consulenze dello studio, restandone socio dall’esterno, per ridiventarne titolare solo dopo aver perso la carica. E così nel 2006, durante il governo Prodi, nella sede di via Crocefisso a Milano era ricomparsa la sigla «studio Tremonti», ma nel 2008 il suo nome è sparito dalla lista dei professionisti. La consulenza per Finmeccanica sarebbe stata gestita, in particolare, dal suo socio più fidato, Enrico Vitali, che fondò lo studio insieme a lui negli anni Ottanta. Ma ora i magistrati avanzano l’ipotesi che quella parcella intestata al collega nascondesse il prezzo pagato da Finmeccanica per “comprare” il sì del ministro. Tra gli atti d’accusa ora inviati al tribunale dei ministri, compaiono anche gli interrogatori di Marco Milanese, che è stato il braccio destro di Tremonti per un decennio. Arrestato per corruzione per l’inchiesta sul Mose di Venezia, Milanese ha confermato che Tremonti era contrario all’affare Drs, ma cambiò idea in circostanze poco chiare. Il sospetto di una consulenza fittizia, secondo l’accusa, troverebbe riscontro anche nei tempi strettissimi: Finmeccanica avrebbe affidato l’incarico allo studio dei soci di Tremonti appena cinque giorni prima di siglare l’acquisizione. Le anomalie dell’affare e i dubbi sulla consulenza-lampo verrebbero indirettamente riscontrati anche da altri testimoni d’accusa, come Alessandro Pansa, il manager che sostituì Guarguaglini, e gli altri consulenti di Finmeccanica, soprattutto i tributaristi italiani della Ernst & Young. Ora Tremonti potrà difendersi davanti al cosiddetto tribunale dei ministri, composto da tre giudici estratti a sorte. La procedura è regolata da una legge costituzionale del 1989, che è molto singolare: di fronte a un possibile reato commesso da un ministro, le procure hanno il divieto di trovare prove. «Omessa ogni indagine», come impone quella legge, possono soltanto avvisare l’indagato. È la stessa procedura finora applicata soltanto all’ex ministro Altero Matteoli, accusato di corruzione nell’inchiesta sulle bonifiche-scandalo della Laguna di Venezia. L’inchiesta su Tremonti è nata dalle istruttorie delle Procure di Napoli e Roma sul gruppo Finmeccanica, che avevano svelato il ruolo di Lorenzo Cola, un faccendiere che nell’era di Guarguaglini era diventato un’eminenza grigia. Intercettandolo, si è scoperto che proprio lui gestì la trattativa miliardaria su Drs, fissandone il prezzo senza alcuna verifica indipendente (in gergo, “due diligence”). Per la sua mediazione non ufficiale, pure Cola sarebbe riuscito a farsi pagare da Finmeccanica una consulenza da favola: 16 milioni e mezzo di dollari, che l’azienda statale gli avrebbe versato addirittura su un conto offshore, nascosto al fisco. Nell’aprile scorso, quando “Il Fatto Quotidiano” pubblicò le prime indiscrezioni sull’affare Drs, Tremonti si dichiarò all’oscuro di tutto: «Non so nulla». Ma a questo punto i magistrati stanno valutando se sia necessario trasmettere al tribunale ministeriale anche il fascicolo sulla tangente da mezzo milione che gli industriali del Mose di Venezia hanno ormai confessato di aver versato a Marco Milanese. Quella mazzetta, nella primavera 2010, ebbe il sicuro effetto di sbloccare centinaia di milioni di fondi pubblici in precedenza fermati dal ministro. E l’ordine di pagare Milanese, secondo il manager pentito Piergiorgio Baita, sarebbe venuto dal grande capo del Consorzio, Giovanni Mazzacurati, «dopo un incontro con Tremonti a Roma». Finora l’ex ministro aveva avuto pochissimi guai giudiziari: l’anno scorso ha dovuto patteggiare un’accusa di finanziamento illecito, a Roma, per l’affitto in nero della lussuosa residenza che gli aveva procurato proprio Milanese. Gli stessi pm lombardi del caso Finmeccanica però stanno tenendo aperta anche l’inchiesta sulla Bell, la cassaforte lussemburghese della scalata a Telecom, che era difesa dallo studio Tremonti. I suoi soci italiani furono costretti a pagare le prime tasse in Italia solo nel 2007, dopo il ritorno al governo di Prodi e Visco, versando al fisco ben 156 milioni di euro. Un altro incrocio pericoloso tra Tremonti, il ministero e lo studio tributario su cui ora i magistrati vogliono accendere nuove luci.

LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. GIUSEPPE ORSI.

"In cella senza prove e poi assolto. Ora sono volontario per i poveri". L'ex numero uno di Finmeccanica, le inchieste sulle tangenti indiane e quella sui soldi alla Lega finite in un nulla di fatto: "Con me hanno distrutto la reputazione dell'Italia", scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La pietra tombale sulle voci maligne e i sussurri l'ha messa infine il gip di Busto Arsizio: «L'ipotesi di un finanziamento illecito alla Lega non ha trovato alcun riscontro investigativo». Peccato che ci siano voluti quattro anni, le dimissioni da amministratore delegato e presidente di Finmeccanica, in pratica la più grande industria italiana, un danno d'immagine per il sistema Italia incalcolabile, decine di titoli di giornale che ricamavano su tutto il ricamabile. Non si è arrivati nemmeno al dibattimento. «Appunto. La stessa Procura, dopo anni e anni di indagini, ha chiesto e ottenuto l'archiviazione perché su questa storia dei 10 milioni che avrei girato alla Lega, tirandoli fuori come una costola da un'altrettanto inesistente tangente indiana, non c'era nulla di nulla». Giuseppe Orsi è seduto al tavolo in un' anonima palazzina della periferia milanese. Sotto c'è «Ruben», il ristorante per i nuovi poveri voluto dall'ex patron dell'Inter Ernesto Pellegrini. La cena costa 1 euro. Orsi in pratica è l'amministratore delegato di un ambizioso progetto che mira a dare pane ma anche occupazione ai tanti in difficoltà. Lui, però preferisce un'altra qualifica: «Sono il primo volontario. Sa, ho ancora sulle spalle una condanna a 2 anni per false fatture. Confido che cada in appello. Intanto, per correttezza, non voglio, pur potendolo fare, ricoprire alcun incarico societario. Però». Giuseppe Orsi, classe 1945, allarga le braccia: «Vede, non è mio costume alimentare polemiche, ma qualche considerazione vorrei farla». «Sono stato assolto per la famigerata mazzetta al numero uno dell'aviazione indiana e ora hanno riconosciuto la mia estraneità a qualunque attività illegale sul versante Lega. Dicevano persino che l'Indian connection avrebbe rappresentato per la Lega quel che Monte dei Paschi aveva scoperchiato per il Pd. Sono stato 83 giorni in cella a Busto Arsizio senza prove. C'erano solo le calunnie di un ex dirigente, Lorenzo Borgogni, che ho querelato. È stato lui a raccogliere le malevolenze di alcune persone interne all'azienda, a soffiare sul fuoco costruendo l'accusa».

Una contestazione doppia.

«Sì, io avrei allungato un obolo alla Lega. E avrei creato una provvista in nero sul fronte indiano dove avrei corrotto il maresciallo Sashi Tyagi, capo di stato maggiore dell'Indian Air Force».

Ma perché Borgogni l'avrebbe messa in mezzo?

«Quando nel 2011 sono arrivato sul ponte di comando di Finmeccanica, con qualcosa come 70mila dipendenti, io ho iniziato una profonda riforma della società. Avevo in mente il modello della public company anglosassone. Rapporti col potere politico ridotti all'indispensabile, chiusura di alcune delle troppe sedi romane non operative, avanti con la meritocrazia e via i dirigenti abituati solo a tessere trame nel palazzo».

Gliel'hanno giurata?

«Qualcuno non si è arreso al cambiamento. Il problema è quel che è successo dopo».

A cosa allude?

«L'indagine è partita da Napoli, da Woodcock, poi è stata trasferita a Busto. Bene, dopo mesi e mesi di inchieste, una bella mattina di febbraio del 2013 vengo arrestato. Scusi, ma perché prima non mi hanno almeno interrogato? Tu puoi considerare che il numero uno di Finmeccanica sia un corruttore internazionale, ma dovresti porti il problema del danno al Paese. Invece, mi hanno messo in cella con una sfilza di accuse terrificanti, dalla corruzione internazionale al riciclaggio, che poi sono cadute. E il governo non ha mosso un dito».

Monti?

«Solo silenzio. Altrove, vedi la Gran Bretagna, il Paese fa quadrato intorno alle sue industrie strategicamente rilevanti. Da noi un colosso come Finmeccanica, con aziende importantissime come Agusta Westland e Alenia, è stato letteralmente abbandonato al suo destino. Nessuno ha provato a circoscrivere l'incendio».

Quale incendio?

«L'ipotesi era che Agusta, da cui io provenivo e di cui ero stato amministratore delegato, avesse versato nel 2005 una tangente al maresciallo Tyagi per piazzare 12 elicotteri AW 101. Un contratto da 700 milioni che ora naturalmente è sospeso. Gli inglesi mettono il segreto di Stato e chiudono la partita. Da noi tutte le illazioni sono lecite. Ma così si distrugge l'Italia e la sua reputazione».

Non c'era la tangente?

«Non è mai stata quantificata nemmeno la fantomatica cifra, anche se si sosteneva che avrei versato fino a 51 milioni di euro. Al dibattimento abbiamo dimostrato che il processo decisionale indiano era precedente e che Tyagi aveva solo ratificato una scelta fatta da altri, con un passaggio tecnico molto importante: l'abbassamento della quota di volo degli elicotteri richiesti dall'India, portandola, diciamo così, ad un'altezza adatta ai nostri AW 101. Del resto Guido Haschke, il presunto mediatore di questa storia, ha negato di aver compiuto alcuna attività corruttiva. Certo, Haschke era storicamente in società con tre fratelli a loro volta cugini di questo signore. Capisco la suggestione, ma questo può essere un indizio. E invece siamo persino andati in India a dare improbabili lezioni di moralità».

Tipo?

«Messaggi di questo tenore: “Attenzione cari amici indiani. Voi avete un capo di stato maggiore corrotto. Le prove forse ci sono o forse no, ma intanto ve lo diciamo”. Secondo lei come l'hanno presa? I giornali hanno cominciato a scrivere che li accusavamo di essere un Paese di ladri. E a puntare il dito contro un tizio che lì è un semidio. Gli stessi giornali sostenevano che noi andiamo a sparare contro i loro marinai».

Ah, i marò.

«Mi sono sempre chiesto se ci sia un nesso fra le due vicende».

Il caso Tyagi può aver complicato la già contorta vicenda?

«Un collegamento diretto secondo me non c'è. E però il clima è quello: l'India si è sentita sotto pressione su due fronti, con una perfetta sovrapposizione temporale».

Ora è finita.

«No, ci sarà l'appello, c'è ancora quella macchia delle false fatture. E poi, non creda: il disastro, in termini economici, contrattuali, di immagine, è incalcolabile. Vada lei a spiegare al Pentagono o all'amministratore delegato della Boeing che la tangente non c'era, che Finmeccanica si è comportata bene, che il suo amministratore delegato non è un bandito. Se entri in una black list, se sei stato depennato, non è facile rientrare nel gioco. E quando ero in cella, qualcuno si chiedeva: “Possibile che Orsi non esca nemmeno con la cauzione?”».

La cauzione?

«Sì, non è che negli Usa conoscano a memoria come funziona il nostro sistema. Pochi sanno che da noi questo istituto non c'è».

Oggi?

«Ruben è un'esperienza importante. Diamo da mangiare alle famiglie bisognose. Senza avvilire la dignità di chi viene qua. Per questo quell'euro è importante. E presto passeremo alla fase due: il lavoro. A Milano non mancano tanto il cibo e i sussidi quanto l'opportunità di un lavoro che restituisca dignità. Manca il lavoro e manca ancora di più la cultura del lavoro. È ora di affrontare questa emergenza».

LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. BETTINO CRAXI.

Bettino Craxi Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Benedetto Craxi, detto Bettino (Milano, 24 febbraio 1934 – Hammamet, 19 gennaio 2000), è stato un politico italiano. Craxi fu Presidente del Consiglio dei Ministri dal 4 agosto 1983 al 17 aprile 1987. Coinvolto in seguito nelle inchieste condotte dai giudici di Milano che presero il nome di Tangentopoli, subì due condanne definitive per corruzione e finanziamento illecito al Partito Socialista Italiano, e morì mentre erano in corso altri quattro processi contro di lui. Egli respinse fino all'ultimo giorno della sua vita l'accusa di corruzione, mentre ammise di aver accettato finanziamenti illeciti, prassi diffusa, per permettere la dispendiosa attività politica del PSI, meno potente finanziariamente dei due grandi concorrenti, la DC e il PCI. Il governo e il partito di Craxi vennero sostenuti anche da Silvio Berlusconi, suo amico personale, avendo altresì una forte sintonia con dei leader della sinistra europea del calibro di Felipe González e Mário Soares, con cui vi fu una grande vicinanza rispetto all'allargamento dell'Ue ed al ruolo del "socialismo mediterraneo". È uno degli uomini politici più rilevanti della cosiddetta Prima Repubblica, ma anche uno dei più controversi a causa delle dette indagini di Mani Pulite, che ne condussero all'incriminazione e ad una duplice condanna definitiva in sede penale. Craxi non scontò mai la pena perché lasciò il Paese, rifugiandosi in Tunisia, mentre erano ancora in svolgimento i procedimenti giudiziari nei suoi confronti; pertanto, da latitante, «morì in solitudine, lontano dall'Italia».

Biografia. Primogenito dell'avvocato Vittorio Craxi (1906 – 1992), antifascista e perseguitato politico, la cui famiglia paterna era originaria di San Fratello (comune della provincia di Messina sui Nebrodi), e di Maria Ferrari, una casalinga di Sant'Angelo Lodigiano (un comune della provincia di Lodi in Lombardia), Benedetto nasce a Milano il 24 febbraio 1934. Durante la seconda guerra mondiale, la famiglia decide di affidarlo al collegio cattolico "De Amicis" a Cantù, sia per il carattere turbolento, sia per allontanarlo dai pericoli che correva a causa dell'attività antifascista del padre che, dopo la liberazione, assumerà la carica di viceprefetto a Milano e poi quella di prefetto a Como. Terminata la guerra, Bettino Craxi frequentò il Liceo ginnasio statale Giosuè Carducci a Milano e iniziò ad avvicinarsi giovanissimo alla politica; nel 1953 a 19 anni entrò nella federazione milanese del Partito Socialista, diventandone funzionario e 4 anni dopo, a 23 anni, fu eletto nel comitato centrale del PSI. Nel frattempo frequentò la facoltà di giurisprudenza, diventando vicepresidente dell'Unuri, il parlamentino degli studenti. Intanto proseguiva la sua ascesa all'interno del PSI: nel 1965 divenne membro della direzione nazionale. Dopo un'esperienza di amministratore come consigliere comunale a Sant'Angelo Lodigiano e assessore nella sua Milano, iniziata nel 1960, nel 1968 veniva eletto per la prima volta in Parlamento. Poco dopo il fallimento dell'unificazione socialista (cioè la riunificazione coi socialdemocratici avvenuta nel 1969), nel 1970 diventò vicesegretario nazionale, su nomina di Giacomo Mancini. All'interno del partito fu un convinto sostenitore di Pietro Nenni e del centro-sinistra "organico" che in quegli anni governava l'Italia. Nel 1972 con l'elezione di Francesco De Martino a segretario nazionale del PSI, durante il congresso di Genova, Craxi viene confermato insieme a Giovanni Mosca nel ruolo di vicesegretario, ricevendo l'incarico di curare i rapporti internazionali del partito. Da rappresentante del PSI presso l'Internazionale Socialista stringe legami con alcuni dei protagonisti della politica estera del tempo, da Willy Brandt a Felipe González, da François Mitterrand a Mario Soares, da Michel Rocard ad Andreas Papandreou. A partire da quella funzione di responsabile del PSI per gli esteri, e per tutto il seguito della sua carriera politica, finanziò alcuni partiti socialisti messi al bando dalle dittature dei rispettivi Paesi, tra cui il Partito Socialista Operaio Spagnolo, il Partito Socialista Cileno di Salvador Allende, di cui Craxi era amico personale, e il Partito Socialista Greco. In omaggio all'apporto dato ai socialisti cileni, Craxi è stato insignito del Premio Allende alla memoria, al Festival del cinema latino-americano di Trieste del 2009. Nel 1976, un articolo sull'Avanti! del segretario socialista Francesco De Martino causò la caduta del governo Moro, provocando le successive elezioni anticipate che si conclusero con una crescita impressionante del PCI di Enrico Berlinguer, mentre la Democrazia Cristiana riuscì a rimanere il partito di maggioranza relativa solo per pochi voti. Per il PSI invece, quelle elezioni furono una pesante sconfitta: i voti scesero sotto la soglia psicologica del 10%. Secondo Craxi, poco dopo la sua elezione a segretario, la popolarità del partito, secondo un sondaggio da lui commissionato, era scesa ai minimi storici del 6% (solo da Mani pulite in poi il PSI scenderà più in basso). De Martino, che puntava ad una nuova alleanza con i comunisti, fu costretto alle dimissioni e si aprì all'interno del partito una grave crisi. Alla ricerca di una nuova identità che rilanciasse il partito, il 16 luglio il comitato centrale si riunì in via straordinaria presso l'Hotel Midas di Roma ed elesse Bettino Craxi, da pochi giorni capogruppo alla Camera, nuovo segretario. La scelta di Craxi fu frutto di una mediazione fra le varie correnti socialiste che si presentavano fortemente frammentate e quindi incapaci di far emergere un segretario, appoggiato da una solida maggioranza. Emerse così la volontà di eleggere un "segretario di transizione" che guidasse il partito fuori dalla crisi. Il primo a proporre il nome di Craxi fu Giacomo Mancini, che riuscì a far convergere sul suo nome anche i voti delle correnti guidate da Claudio Signorile ed Enrico Manca. Si opposero alla sua elezione soltanto i cosiddetti "demartiniani", ostili a colui che era considerato il "pupillo di Nenni", i quali però al momento delle votazioni preferirono astenersi. Craxi mostrò immediatamente le sue doti politiche, palesando di essere tutt'altro che un semplice "segretario di transizione". Nominò suoi collaboratori personalità nuove, alcune molto giovani, tanto da dare inizio a quella che sarà chiamata la "rivoluzione dei quarantenni". Si mosse con determinazione ed energia, puntando al rilancio del partito, che "partendo dalla sua grande tradizione, ritrovasse il suo orgoglio e il coraggio di intraprendere nuove strade, di dare inizio a quello che il segretario chiamò "il nuovo corso". Volendo tracciare nuovi sentieri, Craxi si oppose al compromesso storico e delineò per il futuro una linea dell'alternanza fra la DC e il suo partito. Già nei primi anni di segreteria ci fu una rivalutazione del pensiero socialista libertario rispetto al marxismo, una riscoperta di Proudhon rispetto a Marx. Basta leggere un saggio scritto da Craxi stesso su L'Espresso e intitolato «Il Vangelo socialista», dove si ha una profonda critica del leninismo: «La profonda diversità dei «socialismi» apparve con maggiore chiarezza quando i bolscevichi si impossessarono del potere in Russia. Si contrapposero e si scontrarono due concezioni opposte. Infatti c'era chi aspirava a riunificare il corpo sociale attraverso l'azione dominante dello Stato e c'era chi auspicava il potenziamento e lo sviluppo del pluralismo sociale e delle libertà individuali [...] La meta finale è la società senza Stato, ma per giungervi occorre statizzare ogni cosa. Questo è, in sintesi, il grande paradosso del leninismo. Ma come è mai possibile estrarre la libertà totale dal potere totale? Invece [...] Si è reso onnipotente lo Stato [...] Il socialismo non coincide con lo stalinismo [...] è il superamento storico del pluralismo liberale, non già il suo annientamento.» Durante il sequestro Moro fu l'unico leader politico insieme ad Amintore Fanfani e Marco Pannella a dichiararsi disponibile ad una trattativa, attirandosi addosso parecchie critiche. In quello stesso anno, il 1978, si svolse a Torino il XLI congresso in cui Craxi riuscì a farsi rieleggere segretario grazie al consolidamento del pur innaturale "asse" con la sinistra lombardiana, rappresentata da Claudio Signorile, malgrado la sua corrente dell'"Autonomia Socialista" fosse giunta a questo punto in aperto contrasto con quella demartiniana, rappresentata da Enrico Manca. Craxi si presentò agli Italiani in una maniera totalmente nuova: da un lato prese esplicitamente le distanze dal leninismo rifacendosi a forme di socialismo non autoritario, e dall'altro si mostrò attento ai movimenti della società civile e alle battaglie per i diritti civili, sostenute dai radicali, curava la propria immagine attraverso i mass media e mostrava di non disdegnare la politica-spettacolo. Avviò una campagna per la "governabilità del governo", assumendo toni sempre più decisionisti, con quella che nei giornali sarà chiamata la "grinta" di Craxi; vi fu anche chi la presentò come l'unica forma di alternativa fino a quando vi sarebbe stata una "democrazia bloccata" dalla presenza del più grande partito comunista dell'Occidente. L'azione di Craxi viene aspramente criticata dalla sinistra interna, ma trascina il partito all'ottimo risultato raggiunto alle elezioni del 1983. In seguito a ciò, Craxi – che nel 1979 aveva dovuto rinunciare ad un precedente incarico, conferitogli dal presidente Pertini – chiede e ottiene la presidenza del Consiglio. È il primo socialista che ci riesce. Il primo governo Craxi è sostenuto dal Pentapartito, un'alleanza fra Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli. Quest'alleanza nasceva non da accordi pre-elettorali o da una comune identità di vedute, ma dall'opportunità, fortemente sfruttata da Craxi, offerta dal capovolgimento delle alleanze tra le correnti della Democrazia cristiana (la cui gestione interna s'era assestata sulla linea del Preambolo di Donat Cattin, che aveva sostenuto la necessità di "tenere i comunisti fuori dal governo"): è l'unica maggioranza, in pratica, capace di potersi formare, senza coinvolgere in nessun modo il Pci. Nonostante ciò, il suo governo fu uno dei più lunghi nella storia della Repubblica e riuscì a lasciare una traccia profonda nella politica italiana. Il 5 agosto 1983, appena un giorno dopo aver formato il suo primo governo, Craxi istituisce il Consiglio di Gabinetto, dando seguito ad un impegno assunto con i partiti del Pentapartito nel corso delle consultazioni: «Si tratta - disse allora Craxi - di un Consiglio nel quale saranno rappresentate tutte le forze politiche; un Consiglio politico, che dovrà consentire consultazioni più rapide su tutte le questioni che saranno poi sottoposte al vaglio del Consiglio dei ministri, su tutte le questioni di indirizzo importanti. Si tratta di un organismo autorevole in cui saranno rappresentati anche i ministeri politici ed economici più importanti». La prima riunione si svolge il 26 agosto e vi prendono parte, oltre naturalmente a Craxi, Arnaldo Forlani, vicepresidente del Consiglio e Giulio Andreotti, ministro degli Esteri, Giovanni Goria, ministro del Tesoro, Oscar Luigi Scalfaro, ministro dell'Interno in rappresentanza della Dc, Giovanni Spadolini, segretario del Pri e ministro della Difesa, Renato Altissimo ministro dell'Industria del Pli, Gianni De Michelis, Psi e ministro del Lavoro e il ministro del Bilancio del Psdi Pietro Longo. Fanno parte del Consiglio quindi i rappresentanti di tutti e cinque i partiti dell'alleanza di governo. Il Consiglio in seguito assunse un ruolo centrale e agì come sede di concertazione delle principali decisioni politiche nel successivo triennio, contribuendo alla fama di "governo forte" che assunse quell'Esecutivo. Presenziava alle riunioni il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giuliano Amato (PSI). Furono diversi i provvedimenti varati dal governo Craxi, fra i più importanti: il nuovo concordato con la Santa Sede, detto Accordi di Villa Madama perché firmato nel 1984 a Villa Madama con il cardinale Agostino Casaroli Segretario di Stato vaticano; il cattolicesimo abbandonava la nozione di "religione di Stato" e veniva abolita la "congrua". Veniva istituito il contributo dell'8 per mille per i finanziamenti alla Chiesa cattolica e alle altre religioni e l'insegnamento facoltativo della religione cattolica nelle scuole. Il taglio di tre punti della Scala mobile, a seguito del cosiddetto "decreto di San Valentino", ottenuto con la concertazione della CISL e della UIL, ma contestato dal Pci e dalla CGIL. Quest'ultima abbandonò le trattative e diede vita a massicce manifestazioni di massa, con la collaborazione del Pci, che nel frattempo scatenò in Parlamento un ostruzionismo durissimo. Il decreto passò con la fiducia e in seguito venne avviata una raccolta di firme che portò ad un referendum abrogativo. Al referendum, che si tenne nella primavera del 1985, Craxi partecipò attivamente alla campagna elettorale a sostegno della sua riforma, riuscendo ad ottenere, a sorpresa, la sconfitta degli abrogazionisti. Una politica economica di cui rivendicò i successi, l'inflazione, dal 1983 al 1987, scese dal 12,30% al 5,20%, e lo sviluppo dell'economia italiana vide sia una crescita dei salari (in quattro anni, di quasi due punti al di sopra dell'inflazione) diventando il quinto paese industriale avanzato del mondo. D'altro lato però, in quegli stessi anni il debito pubblico passò da 234 a 522 miliardi di euro (dati valuta 2006) e il rapporto fra debito pubblico e PIL passò dal 70% al 90%. Ciò ha fatto dire che la sua gestione del bilancio - sul punto non correttiva degli squilibri accumulatisi nei conti pubblici già nel decennio precedente - ha contribuito a provocare allo Stato l'enorme debito pubblico, decisamente superiore alla media europea; c'è chi invece distingue tra i suoi due governi nella IX legislatura ed i governi a partecipazione del suo partito che gli succedettero nella X legislatura. La battaglia agli evasori fiscali nel commercio al minuto, che produsse l'obbligo del registratore di cassa e dello scontrino fiscale grazie ad una battaglia condotta dal ministro delle finanze Bruno Visentini. Il condono edilizio Nicolazzi del 1985: esso era inserito in una legge urbanistica, che non fu mai realmente applicata, che aveva l'ambizione di voltare pagina rispetto al passato ed introduceva un sistema di regole penali e una diretta attribuzione di responsabilità alle amministrazioni comunali per la repressione degli abusi. Il "decreto Berlusconi", varato dopo la decisione dei pretori di Torino, Roma e Pescara di oscurare i canali televisivi della Fininvest di proprietà di Silvio Berlusconi, allora un semplice imprenditore con cui Craxi aveva una forte amicizia (fece da testimone al suo secondo matrimonio). Il decreto stabilì la legalità delle trasmissioni delle televisioni dei grandi network privati, ma suscitò aspre critiche da parte delle piccole emittenti private e di costituzionalisti, e fu approvato dal Parlamento solo tramite il voto di fiducia. Tra i progetti non realizzati di Craxi vi fu invece la mancata riforma delle istituzioni. Come ricordò anni dopo il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, "il discorso sulle riforme istituzionali che aveva rappresentato, già prima dell'assunzione della Presidenza del Consiglio, l'elemento forse più innovativo della riflessione e della strategia politica dell'on. Craxi (...) non si tradusse in risultati effettivi di avvio di una revisione della Costituzione repubblicana. La consapevolezza della necessità di una revisione apparve condivisa (...) ma (...) non seguì alcuna iniziativa concreta, di sufficiente respiro, in sede parlamentare. Si preparò piuttosto il terreno per provvedimenti che avrebbero visto la luce più tardi, come la legge ordinatrice della Presidenza del Consiglio e, su un diverso piano, significative misure di riforma dei regolamenti parlamentari". Rimase quindi "un inutile abbaiare alla luna" - come lo definì Craxi stesso con amarezza - il progetto di una "grande riforma" costituzionale in senso presidenzialista, che desse maggiore efficienza in senso decisionista ai poteri pubblici italiani; non si raggiunse mai in Parlamento la maggioranza necessaria anche solo per affacciare l'ipotesi di approvazione di un testo, sul quale peraltro vi erano forti oscillazioni nello stesso entourage craxiano (vi era chi optava per il presidenzialismo all'americana e chi per quello alla francese). Eppure, nel 1992, un'autorità in tema di scienza politica come Norberto Bobbio osservò che, rispetto alle riforme costituzionali, "non si poteva negare che Craxi fosse stato un precursore". Altro insuccesso fu la sua proposta – sulla scorta di analoghe operazioni effettivamente realizzate negli anni settanta in Grecia e, negli anni cinquanta nella Germania Ovest di Konrad Adenauer – della "lira pesante", un progetto per la parità uno a mille della valuta: si disse con la possibile coniazione di una moneta con l'effigie di Garibaldi, ma l'operazione non ebbe alcun seguito. Con i potentati economici del Nord il rapporto fu sempre alquanto dialettico: al congresso della CGIL del 1986 accusò gli industriali di voler "lucrare senza pagare", ricevendo dalla platea sindacale un caloroso applauso e dando così l'impressione di un'efficacia redistributiva maggiore di quella che – dopo la marcia dei quarantamila, che aveva visto spuntarsi le armi del sindacalismo confederale – era promessa dal massimalismo di sinistra facente capo al PCI. Di contro la Confindustria evidenziò polemicamente che da un lato si chiedeva agli industriali un contributo al benessere della collettività, ma a ciò non corrispondeva una buona condotta della politica nella gestione del denaro pubblico. Infatti, dagli anni settanta la spesa pubblica decollò e il sistema partitico non fece nulla per porvi un freno. Assai più criticati, perché rientranti in una nozione di ingerenza dello Stato nell'economia, furono gli interventi del governo Craxi per la fine del mandato di Enrico Cuccia come presidente di Mediobanca (elusa dal consiglio di amministrazione con la sua nomina a presidente onorario) e l'opposizione alla vendita del complesso alimentare dell'IRI – la SME – negoziata direttamente dal suo presidente Romano Prodi e smentita da una direttiva del Governo. Nella politica estera, il governo Craxi e il personale intervento del Presidente del Consiglio "si caratterizzarono per scelte coraggiose volte a sollecitare e portare avanti il processo d'integrazione europea, come apparve evidente nel semestre di presidenza italiana (1985) del Consiglio Europeo". Si tratta di un indirizzo che proseguì anche nei successivi governi a partecipazione socialista e che portò al deciso avallo del trattato di Maastricht nel 1992. Craxi continuò anche la politica atlantista dei suoi predecessori, ai quali aveva dato l'appoggio del suo partito per l'installazione in Sicilia degli "euro-missili" posizionati contro l'URSS; secondo Zbigniew Brzezinski, l'ex segretario di Stato di Carter, ”senza i missili Pershing e Cruise in Europa la guerra fredda non sarebbe stata vinta; senza la decisione di installarli in Italia, quei missili in Europa non ci sarebbero stati; senza il PSI di Craxi la decisione dell'Italia non sarebbe stata presa. Il Partito Socialista italiano è stato dunque un protagonista piccolo, ma assolutamente determinante, in un momento decisivo”. Nel contempo, però, Craxi mantenne una linea di attenzione ad alcune cause terzomondiste, come già lasciava prevedere - prima del suo arrivo alla guida del Governo - il sostegno dato all'Argentina nella Guerra delle Falkland, senza però interferire in alcun modo nel conflitto. Stipulò accordi con i governi della Jugoslavia e della Turchia; sostenne anche il dittatore della Somalia Muhammad Siad Barre, già segretario del Partito Socialista Rivoluzionario Somalo. Fornì un appoggio convinto alla causa palestinese e intrecciò relazioni diplomatiche con l'OLP e con il suo leader Yasser Arafat, di cui divenne amico personale, sostenendone le iniziative. Obiettivo dichiarato era quello di fare dell'Italia una potenza regionale nell'area del Mar Mediterraneo e del Vicino Oriente. In quest'ambito, tre episodi sono considerati quelli più significativi, e tutti e tre coinvolsero gli Stati rivieraschi di fronte alle coste italiane: Egitto, Libia e Tunisia. La cosiddetta "Crisi di Sigonella" rappresentò l'episodio più noto a livello internazionale della politica estera craxiana. Il complesso caso diplomatico avvenne appunto nella base NATO di Sigonella, in Sicilia, nell'ottobre 1985, e rischiò di sfociare in uno scontro armato tra VAM (Vigilanza Aeronautica Militare) e Carabinieri da una parte e gli uomini della Delta Force (reparto speciale delle forze armate statunitensi) dall'altra, all'indomani di una rottura politica - poi ricomposta - tra Craxi e il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, circa la sorte dei sequestratori della nave da crociera italiana Achille Lauro, che avevano ucciso un passeggero disabile, statunitense ed ebreo. Craxi riteneva che i terroristi andassero processati sotto la giurisdizione italiana, e così avvenne, anche se il loro capo riuscì a sfuggire alla cattura e si rifugiò in Iraq.

All'epoca del bombardamento statunitense contro Tripoli, avvenuto il 14 aprile 1986, il ruolo di Craxi fu reputato eccessivamente prudente e fu per questo criticato dalla stampa nazionale per non aver reagito alla rappresaglia libica (il lancio di missili su Lampedusa, avvenuto il giorno successivo al raid statunitense). Oltre venti anni dopo è emersa una diversa descrizione dei fatti secondo cui Craxi avvertì preventivamente Gheddafi dell'imminente attacco statunitense su Tripoli, consentendogli in tal modo di salvarsi. Si tratta di una ricostruzione conforme con le note posizioni del governo italiano, che considerava la ritorsione statunitense, scaturita dalla politica di appoggio al terrorismo della Libia, come un atto improprio, che non doveva coinvolgere come base di partenza dell'attacco il suolo italiano. Tale versione è coerente anche con alcune ricostruzioni dei missili su Lampedusa, segnatamente quella secondo cui i missili sarebbero stati un espediente per coprire "l'amico italiano" agli occhi degli statunitensi: lo dimostrerebbe la scarsa capacità offensiva di penetrazione dei missili, che per altro sarebbero caduti in mare senza cagionare alcun danno. Tale tesi, nel contempo, però, non spiega come facesse Craxi a conoscere l'attacco due giorni prima, visto che esso fu condotto da navi della VI flotta alla fonda nel golfo della Sirte e che ostentatamente all'epoca si disse che il governo italiano - così come tutti gli altri governi della NATO con l'eccezione di quello Regno Unito - non era stato coinvolto nella sua preparazione. Sul punto, però, è giunta recentemente una testimonianza diretta del consigliere diplomatico di Craxi a palazzo Chigi, l'ambasciatore Antonio Badini, secondo cui Reagan inviò Vernon Walters ad informare il governo italiano dell'imminente attacco a Gheddafi e Craxi, non essendo riuscito a convincere gli statunitensi a desistere, decise di salvare la vita al leader libico per evitare un'esplosione di instabilità in un Paese islamico di fronte all'Italia. Nel novembre 1987 la senescenza fisica e mentale del "padre della patria" tunisino, Habib Bourguiba, indusse la diplomazia francese a cercare di "teleguidare" un proprio candidato alla successione: ma ventiquattr'ore prima della loro mossa, la successione di Bourghiba avvenne con un colpo di Stato incruento di Zine El-Abidine Ben Ali, che prese il potere mantenendolo per oltre 23 anni (fino al gennaio 2011), al quale immediatamente Craxi offrì il necessario sostegno internazionale. Dieci anni dopo, le memorie dell'ammiraglio Fulvio Martini, allora capo del Sismi, rivelarono che non solo si era avuto il prematuro (e concordato) riconoscimento internazionale italiano del nuovo governo tunisino, ma addirittura la scelta del nuovo Presidente "bruciando sul tempo" il candidato di Parigi. Una nuova crisi esplose nel 1986. Il segretario della Democrazia Cristiana, Ciriaco De Mita, ottenne che il secondo incarico conferito dal nuovo Capo dello Stato Francesco Cossiga a Craxi fosse vincolato ad un informale "patto della staffetta", che avrebbe visto un democristiano alternarsi alla guida del governo dopo un anno, per condurre al termine la legislatura. Dopo aver taciuto per mesi intorno a questo patto, avallandone implicitamente l'esistenza, Craxi sconfessò l'accordo in un'intervista a Giovanni Minoli nella trasmissione Mixer del 17 febbraio del 1987. La sfida così pubblicamente lanciata ricompattò la DC e fu raccolta da De Mita, che fece nuovamente cadere il governo e, con un governo Fanfani, portò il Paese alle urne; con un gesto di sfida, Craxi dichiarò che non gli interessava guidare il governo durante il periodo elettorale, perché "non stiamo in America latina, dove è il prefetto che decide l'esito delle elezioni in una provincia". L'esito elettorale – che non portò molto avanti l'"onda lunga" del consenso del PSI, da lui ripetutamente vaticinata – si incaricò di smentire quest'assunto. La fine del governo Craxi portò ad attestazioni di stima e di rammarico per la sua caduta da parte di diversi giornali stranieri, come Le Monde, Wall Street Journal, Financial Times. Dal 1987 in poi, la DC non fu più disponibile a dare la fiducia a Craxi, preferendo sostenere come presidente del Consiglio prima Giovanni Goria e poi Ciriaco De Mita. Fu solo uno degli episodi degli scontri fra De Mita e Craxi, spiegabile forse nel fatto che il leader democristiano era anche il punto di riferimento della sinistra Dc, quella cioè più vicina al Pci. Anche alla luce di questo orientamento, Craxi resse il gioco a Forlani ed Andreotti nella progressiva sottrazione a De Mita della segreteria DC e poi della Presidenza del Consiglio. Rimase agli atti, di quella stagione di decisionismo senza Craxi presidente, l'approvazione della modifica dei Regolamenti parlamentari che abolì il voto segreto nell'approvazione delle leggi di spesa; invano richiesta da Craxi per anni da Presidente del Consiglio, fu conseguita grazie alla sua politique d'abord, di attacco al governo De Mita. In questi anni Craxi ottenne importanti ruoli alle Nazioni Unite: fu rappresentante del segretario generale dell'ONU Peréz de Cuéllar per i problemi dell'indebitamento dei Paesi in via di sviluppo (1989); successivamente svolse l'incarico di consigliere speciale per i problemi dello sviluppo e del consolidamento della pace e della sicurezza (rinnovatogli nel marzo 1992 da Boutros Ghali). Il ritorno al governo della Democrazia cristiana fu accompagnato da un'accentuata conflittualità, all'interno dell'alleanza col PSI: Craxi inaugurò una tecnica di "movimentismo" (corredata di frequenti minacce di crisi di governo, che rientravano dopo aver ottenuto dal partner di governo le concessioni richieste), che fu definita "rendita di posizione". Conseguenze furono importanti battaglie condotte - al di fuori del vincolo di maggioranza - a fianco di alleati occasionali: quella sulla responsabilità civile dei giudici a fianco di Pannella, quella sulla chiusura delle centrali nucleari a fianco dei Verdi, ambedue coronate dal successo referendario; quella sull'ora di religione e quella sulla penalizzazione del consumo di droghe a fianco dell'ala conservatrice dello schieramento politico. Ma la sensazione che se ne trasse fu di un'estrema disinvoltura tattica, lontana dalla rimozione delle cause del dissesto del Paese e finalizzata solo ad acquisire vantaggi elettorali. La traduzione di questi vantaggi in cariche pubbliche - secondo un metodo di spartizione assai accurato e, quel che è peggio, generalizzato a tutti i livelli della vita politica, sia nazionale che locale, con capovolgimenti di alleanze locali in base ad esigenze nazionali - era foriera, invece, di un'estremizzazione dei vizi partitici già intrinseci al sistema politico italiano. Uno degli assunti più reiterati della retorica craxiana - la facile polemica sull'assemblearismo ed il consociazionismo, che aveva "favorito nel nostro paese rendite di posizione (...) di coloro che hanno amministrato senza doverne dare troppo conto all'opposizione, che assai spesso è pervenuta ad accordi con la maggioranza", ritardando o impedendo la modernizzazione del Paese - veniva quindi controbilanciato da un fenomeno gravido di conseguenze proprio sul piano dell'efficienza del sistema: "la formazione della volontà politica non avviene più attraverso un processo pubblicistico e collegiale, quanto piuttosto attraverso un processo privatistico e contrattuale". Persino un momento di trasparenza della vita politica come l'abolizione del voto segreto nell'approvazione delle leggi di spesa - per il quale Craxi insistette fino ad ottenere, nel novembre 1988, l'apposita revisione dei regolamenti parlamentari - fu guardato con sospetto, dall'opinione pubblica: sin da allora ci si chiese se "l'estensione del voto palese andrà nel senso di rafforzare l'elemento pubblicistico e collegiale, oppure se la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica saranno chiamati semplicemente a ratificare accordi raggiunti nell'ambito delle coalizioni governative". A partire dalla vittoria elettorale del 1983, con la crescita di consenso per il PSI, si estinse all'interno del partito socialista l'opposizione a Craxi, tanto che nei successivi congressi, fu sempre rieletto con voti plebiscitari; l'unica corrente ufficialmente non craxiana rimase quella di Michele Achilli, con meno del 2% degli iscritti. A porsi contro Craxi rimasero alcuni esponenti, anche prestigiosi, che condussero solitarie battaglie. Uno su tutti Giacomo Mancini, che esclamò in un congresso "Questo non è più il partito socialista italiano; è il partito craxista italiano". Anche fra i sostenitori di Craxi vi era coscienza della grande autorità che aveva il segretario nel partito, senza precedenti nella storia del socialismo italiano. All'inizio degli anni ottanta, Craxi – che già nel 1979 aveva avviato una revisione ideologica, inneggiando al socialismo umanitario di Proudhon in luogo di quello scientifico di Marx – proseguì ed incoraggiò una revisione anche estetica del partito. Ad esempio, vennero cancellati dal programma politico alcuni termini che potevano ricondurre al marxismo; venne eliminato il termine autonomismo che venne sostituito con la parola riformismo, giudicata più inerente dalla corrente moderata e riformista. Venne inoltre abolito il termine "Comitato Centrale" (perché esso riconduceva immediatamente ai partiti comunisti), sostituito dal più neutro "Assemblea Nazionale", nella quale entrarono a far parte oltre ai politici anche uomini dello spettacolo, della moda, dello sport e della cultura. Alcuni eccessi di spettacolarizzazione (celebri le scenografie congressuali ideate dall'architetto Filippo Panseca) furono criticati dai suoi stessi compagni di partito: Rino Formica coniò, per l'Assemblea Nazionale del 1991, l'eloquente immagine di una "corte di nani e ballerine". Si rinunciò al tradizionale anticlericalismo socialista (con l'approvazione del Concordato) e fu infine ridotta e poi eliminata (dal 1985) la falce e martello dal simbolo storico del PSI, sostituendola col garofano rosso, che da allora divenne emblema del partito. Soprattutto dopo il 1989, (quando cadde il muro di Berlino), ritenendo ormai prossima la crisi del PCI, nelle intenzioni di Craxi entrò anche il lancio di un progetto annessionistico a sinistra, con la parola d'ordine dell'"unità socialista", scritta che fu aggiunta al simbolo del partito. Il rapporto assai travagliato con il PCI risale agli anni della guerra fredda, quando citando Guy Mollet Craxi aveva sostenuto che "I comunisti non sono a sinistra, sono a est": ma furono "i comunisti della seconda generazione, quella dopo Togliatti e Longo" quelli che "non apprezzano la sua posizione e gliela fanno pagare cara, avvalendosi anche dell'implacabile collaborazione del direttore di Repubblica, che pure nei lontani anni sessanta era stato fraternamente appoggiato da Craxi, con Lino Jannuzzi, nella campagna elettorale". L'impulso ad una trasformazione del grande partito della sinistra italiana in senso occidentale era impresso da Craxi con una metodica scevra dalle sudditanze politiche dei suoi predecessori, giovandosi della posizione di potere acquisita con i lunghi anni di governo con la DC, tanto che essa è descritta da Claudio Petruccioli come una disperante sindrome da "riserva indiana" in cui il PSI costringeva in un ghetto politico il PCI ponendosi "all'imboccatura della valle" della politica di governo ed esigendo un pedaggio democratico che non gli venne mai concesso. Quando però il PCI guidato da Achille Occhetto si stava per trasformare nel PDS, per costituire un'unica forza politica ispirata al riformismo socialdemocratico, la sua strategia non seppe adeguarsi altro che con la volontà di unificare PSI, PSDI e il nuovo partito, in una logica visibilmente annessionistica che fu particolarmente criticata dai riformisti del PCI (cosiddetta corrente "migliorista"), i quali videro nel mancato tentativo di arruolare Gianfranco Borghini nel PSI un'aggressione da rintuzzare con decisione (alla fine fu solo suo fratello, Giampiero Borghini, a passare dall'altra parte). Craxi fu anche favorevole all'entrata del neonato Partito Democratico della Sinistra nell'Internazionale Socialista (di cui lo stesso leader socialista fu vicepresidente fino al 1994, quando fu sostituito proprio dal segretario della "Quercia" Achille Occhetto). Il progetto di alcune limitatissime liste comuni, sperimentato nelle elezioni amministrative del 1992 (dove non riscosse molto successo), naufragò definitivamente in seguito alle inchieste di Tangentopoli.

Nel 1989, Craxi torna alla carica contro la maggioranza della Democrazia cristiana espressione della sinistra interna: è deciso a ritornare a Palazzo Chigi, ma per farlo deve scalzare De Mita dalla guida del governo e del partito. Forma perciò con i democristiani Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani un'alleanza di ferro: il C.A.F. (dalle iniziali dei cognomi dei tre protagonisti), che fu definita la "vera regina d'Italia". Nel LXII congresso del PSI, Craxi, dopo essere stato rieletto segretario con una maggioranza schiacciante, fa approvare una mozione che - anche per le modalità con cui viene illustrata dal fidatissimo vicesegretario Claudio Martelli, allora considerato il suo delfino in pectore - suona come esplicita sfiducia al governo De Mita. De Mita rassegna le dimissioni da Presidente del Consiglio, dopo che aveva perso già la segreteria democristiana che era andata nelle mani di Arnaldo Forlani, alleato di Andreotti. Quest'ultimo assume la guida di due governi che reggono fino al 1992. Sono anni "di assoluto immobilismo": il governo sembra incapace di prendere decisioni concrete; nel Paese si diffonde un forte malcontento, accentuato dai sospetti emersi con lo scandalo Gladio. Craxi confida apertamente in un logoramento democristiano e spera nella possibilità di portare il partito socialista al centro della scena politica, assumendo quel ruolo-guida, che fino a quel momento apparteneva alla Dc. Si mostra fiducioso di sé, anche quando il referendum sulla preferenza unica, promosso da Mario Segni – al quale Craxi si era opposto invitando gli italiani ad "andarsene al mare" – raccoglie invece un larghissimo consenso. Il progetto di Craxi, coltivato a lungo, non si sarebbe però mai realizzato: secondo Giuliano Amato, dopo il crollo del muro di Berlino si finì per contare "più sulla definitiva disfatta dell'ex Pci che non sulla prospettiva di assumere noi la guida della sinistra. Sbagliammo: invece di attendere che il cadavere del Pds passasse sul fiume, avremmo dovuto invocare noi le ragioni della convergenza". Nella stessa circostanza Amato affermò che "forse ebbe un peso anche la sua malattia, molto seria, alla quale teneva testa solo grazie alla sua fibra veramente robusta, perché nei fatti non si curava, era sregolatissimo. Mi venne detto da medici esperti che l'incedere del diabete determina anche incertezze nuove nel carattere delle persone che ne soffrono. Può essere dunque che il suo ritrarsi da una decisione rischiosa fosse anche la conseguenza di un cattivo stato di salute"; in effetti, all'agosto 1990 risale il primo ricovero di Craxi al San Raffaele di Milano per le complicazioni derivate dal diabete mellito che l'avrebbe portato alla morte dieci anni dopo. Un'altra chiave di lettura è invece quella secondo cui "per un cattivo governo il momento più pericoloso è sempre quello in cui comincia a riformarsi", secondo la "legge" enunciata da Alexis de Tocqueville e di cui in quegli stessi anni sperimentarono la fondatezza altre "democrazie bloccate" come il Giappone monopolizzato dal partito liberaldemocratico. La recessione economica, la crisi politica della Prima Repubblica, l'aumento del già abnorme debito pubblico e l'affermazione delle liste regionali (in particolare la Lega Lombarda) causarono il crollo del sistema politico di cui egli fu grande protagonista; inoltre, le inchieste giudiziarie avviate nei suoi confronti causarono la sua caduta, stavolta definitiva. L'epicentro del potere socialista e craxiano era Milano, centro nevralgico della finanza e degli affari, con il cui ambiente il PSI finì per identificarsi. Nel dicembre del 1986 si avvicenda alla guida del comune Paolo Pillitteri, cognato di Craxi, sostituendo Carlo Tognoli, con una giunta pentapartito. Il 17 febbraio 1992, l'ingegnere Mario Chiesa, esponente del PSI, già assessore del comune di Milano con l'ambizione alla poltrona di sindaco, viene arrestato in flagrante per aver intascato una tangente da una ditta di pulizie. Craxi al TG3 del 3 marzo, a un mese dalle elezioni politiche, commenterà sostenendo che «una delle vittime di questa storia sono proprio io... Mi trovo davanti a un mariuolo che getta un'ombra su tutta l'immagine di un partito che a Milano, in 50 anni, non ha mai avuto un amministratore condannato per reati gravi contro la pubblica amministrazione». Il 23 marzo Chiesa inizia a confessare svelando ai pubblici ministeri dell'inchiesta Mani Pulite il complesso sistema di tangenti che coinvolgono i dirigenti milanesi del PSI. Craxi, fiducioso che il crollo della DC sia imminente, organizza una massiccia campagna elettorale, puntando alla presidenza del Consiglio. Il 6 aprile l'intero Quadripartito del governo Andreotti VII esce dalle urne con un clamoroso 48,8%. Il PSI, dal canto suo, passa dal 14,3 al 13,5%, ma a Milano c'è già un crollo di oltre 5 punti (dal 18,6 al 13,2%). «Un piccolo calo» commenta Craxi «rispetto alla crisi dei partiti di governo». In virtù di questo, Craxi chiede la guida del nuovo governo, per poter portare «l'Italia fuori dal caos». Ma il nuovo Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro rifiuta di concedere incarichi ai politici vicini agli inquisiti. Craxi è costretto a farsi da parte; al suo posto viene nominato il socialista Giuliano Amato. Dal maggio 1992 Mani Pulite era però ormai una questione nazionale, tanto da spingere Craxi il 3 luglio 1992 alla Camera, durante il discorso di fiducia al governo Amato I, a chiamare in correità tutto il Parlamento dichiarando «spergiuro» chi avesse negato di aver fatto ricorso al finanziamento illecito dei partiti. Il giuramento cui sfidò tutto il Parlamento non fu raccolto da nessuno, ma fu per anni sentito come un silenzio ipocrita. Secondo Gerardo D'Ambrosio il discorso craxiano fu «onesto», mentre il silenzio altrui era dovuto al fatto che «in quel periodo gli altri partiti speravano di farla franca, anziché affrontare il problema lasciarono Craxi solo». Per Piero Ostellino il discorso conteneva anche un appello "all’etica della responsabilità", un appello che "non è stato colto, per opportunismo e per viltà, ieri; non è colto, per conformismo e per incultura, oggi". Secondo Piero Fassino, in quell'occasione «non c’è dubbio che ci fu un silenzio assolutamente reticente e ambiguo da parte di tutta la classe politica davanti al discorso che Craxi fece alla Camera e nel quale disse con parole crude che il problema del finanziamento illegale non riguardava soltanto il PSI ma l’intero sistema politico». In un corsivo sull'Avanti! – firmato con il consueto pseudonimo "Ghino di Tacco" – attaccò gli inquirenti e Di Pietro: "non è tutto oro, quello che luccica". Questo attacco, cui fece seguito il giudizio riferito da Rino Formica circa il "poker d'assi" che Craxi aveva mostrato in una direzione del suo partito sul conto di Di Pietro, non riuscì ad emanciparsi dall'impressione che Craxi difendesse se stesso non con i fatti, ma con vaghe teorie "complottistiche", volte a chiamare a raccolta sostenitori politici che non vennero mai allo scoperto. L'impotenza politica di Craxi si accentuò quando la situazione processuale precipitò a causa della sua chiamata in correità da parte della magistratura milanese, fino a quel momento solo adombrata: il 15 dicembre 1992 Craxi ricevette il primo degli avvisi di garanzia della Procura di Milano. Il sentimento anticraxiano esplose nel Paese: "fu un autentico contagio di massa, un meccanismo accusatorio" nel quale "non passava giorno senza che Craxi incontrasse per strada giovinastri che gli gridavano «Ladro!» mostrandogli i polsi incrociati. Nacque una specie di ritualità” nella pubblica riprovazione, tanto che un giorno "il sosia televisivo Pier Luigi Zerbinati si nascose in un'auto per paura di essere scambiato per Craxi". Il 23 marzo 1993 gli avvisi di garanzia - tutti per episodi circostanziati di corruzione e finanziamento illecito di partito - erano diventati 11, ma già l'11 febbraio 1993 Craxi si era visto costretto a dimettersi dalla segreteria del PSI. Anche gli altri due componenti del cosiddetto CAF, Forlani e Andreotti, verranno raggiunti in quel periodo da informazioni di garanzia, l'uno nell'ambito del processo per tangenti negli appalti Eni-Snam-Autostrade e l'altro addirittura per supposta collusione con la mafia. Sia Forlani che Andreotti, peraltro, verranno completamente assolti e scagionati da ogni accusa. Il nuovo governo ebbe vita tormentata fin dagli inizi. Poco dopo l'avviso a Craxi una "pioggia di avvisi di garanzia" cadde sulle teste dei principali leader politici nazionali. Il PSI venne travolto dalle inchieste; la sua dirigenza fu letteralmente decimata e perse la guida del governo dopo la mancata firma del presidente Scalfaro al decreto Conso che mirava ad una "soluzione politica" depenalizzando il finanziamento illecito ai partiti. Craxi stesso ricevette una ventina d'avvisi di garanzia e dopo aver accusato la Procura di Milano di muoversi dietro "un preciso disegno politico", si presentò alla Camera il 29 aprile del 1993 e in un famoso discorso tuonò: "Basta con l'ipocrisia!"; tutti i partiti –secondo Craxi– si servivano delle tangenti per autofinanziarsi, anche quelli "che qui dentro fanno i moralisti". La sua linea di difesa fu incentrata sulla tesi secondo cui i finanziamenti illeciti sarebbero stati necessari alla vita politica dei partiti e delle loro organizzazioni per il mantenimento delle strutture e per la realizzazione delle varie iniziative; il suo partito non si sarebbe discostato da questo generale comportamento e, quindi, più che dichiarare sé stesso innocente, Craxi giungeva a sostenere che egli era colpevole né più né meno di tutti gli altri. In altre parole, egli si dichiarò colpevole, anche davanti ai giudici, solo di finanziamento illecito al PSI, ma negò sempre ogni accusa di corruzione per arricchimento personale. Il 29 aprile 1993, la Camera dei deputati negò l'autorizzazione a procedere nei suoi confronti provocando l'ira dell'opinione pubblica e facendo gridare allo scandalo numerosi quotidiani. Nella stessa aula, seguirono momenti di tensione, con i deputati della Lega e dell'MSI che gridavano "ladri" ai colleghi che avevano votato a favore di Craxi, secondo una tecnica di utilizzo politico definita "la mossa del cavallo". Alcuni ministri del governo Ciampi si dimisero in segno di protesta. Il 30 aprile in tutt'Italia si svolsero manifestazioni di dissenso: a Roma circa 200 giovani dell'istituto Einstein sostarono in piazza Colonna scandendo slogan contro governo e Parlamento; un altro centinaio protestarono davanti alla sede del PSI in via del Corso; un terzo gruppo, proveniente dal liceo Mamiani, percorse in corteo il centro storico soffermandosi anch'esso davanti alla sede del PSI venendo però disperso dalle forze dell'ordine. Ci furono anche una manifestazione del Movimento Sociale Italiano nella galleria Colonna - seguita da un incontro stampa del segretario Gianfranco Fini per sottolineare l'impossibilità di tenere in vita questo parlamento - e un'altra dimostrazione, tenuta in serata per iniziativa del PDS, la cui riunione di segreteria era stata per l'occasione sospesa. Diverse migliaia di persone si radunarono in piazza Navona per ascoltare i discorsi del segretario del PDS Occhetto, di Francesco Rutelli e di Giuseppe Ayala: tutti loro avevano incitato i presenti a protestare contro il voto parlamentare a favore dell'ex Presidente del Consiglio. Un piccolo corteo, organizzato dalla Lega Nord, sfilò infine da piazza Colonna al Pantheon. In coincidenza con la fine del comizio tenutosi a Piazza Navona, una folla invase Largo Febo e attese Craxi all'uscita dell'hotel Raphael, l'albergo che da anni era la sua dimora romana. Quando Craxi uscì dall'albergo, i manifestanti lo bersagliarono con lanci di oggetti, insulti e soprattutto monetine e cantilene irridenti. Con l'aiuto della polizia, Craxi riuscì a salire sull'auto e poi lasciò l'hotel. Quest'episodio, ritrasmesso centinaia di volte dai telegiornali, viene preso come simbolo della fine politica di Craxi. Egli stesso definì quanto aveva subito "una forma di rogo" in un'intervista a Giuliano Ferrara trasmessa su Canale 5.

Nel corso del 1993 ed a seguito della sua testimonianza al processo Cusani emersero sempre più prove contro Craxi: con la fine della legislatura e l'abolizione dell'autorizzazione a procedere, si fece sempre più vicina la prospettiva di un suo arresto. Il 15 aprile 1994, con l'inizio della nuova legislatura in cui non era stato ricandidato, cessò il mandato parlamentare elettivo che aveva ricoperto per un quarto di secolo e, di conseguenza, venne meno l'immunità dall'arresto. Il 12 maggio 1994 gli venne ritirato il passaporto per pericolo di fuga, ma era già troppo tardi perché Craxi, si seppe solo il 18, era già in Tunisia ad Hammamet, protetto dall'amico Ben Alì; già il 4 maggio era stato avvistato a Parigi, dato che inizialmente era intenzionato a chiedere asilo politico alla Francia. Il 21 luglio 1995 Craxi sarà dichiarato ufficialmente latitante. Ci fu anche chi disse già dal 1993, cosa subito smentita, che Craxi volesse candidarsi al parlamento europeo nelle file del Partito Socialista francese. La fuga all'estero del leader socialista fu percepita dall'opinione pubblica come un tentativo di sottrarsi all'esecuzione delle condanne penali inflittegli. Dalla latitanza in Tunisia, con fax e lettere aperte, Craxi continuò a commentare le vicende della politica italiana, perseverando nelle accuse rivolte al PDS e ai giudici di Mani Pulite, e nell'affermazione di aver ricevuto finanziamenti illeciti, ma non a fini di corruzione. Si soffermò anche su alcuni suoi ex sodali, come Giuliano Amato, da lui dipinto come il becchino, in alcuni dei quadri, della cui pittura si dilettò nella parte finale della sua vita. Dall'estero, assistette alla fine del PSI, con la divisione dei suoi maggiori esponenti, confluiti in parte nel Polo delle Libertà, in parte nell'Ulivo, in genere non approvandone spesso le scelte politiche. Craxi, secondo quanto dichiarato dai figli, nutriva inoltre la convinzione che i giudici di Mani Pulite fossero stati manipolati da parte di ex comunisti e spinti anche da settori del governo degli Stati Uniti, che volevano un "cambio di regime politico" dopo la crisi di Sigonella, poiché, anche se non antiamericano, Craxi era considerato troppo "indipendente", e approfittarono del finanziamento illecito ai partiti. Craxi ipotizzò anche un intervento della CIA, volto a guidare l'azione del pool di Milano. Affetto da cardiopatia, gotta e da molti anni malato di diabete, colpito poi da un tumore a un rene, Craxi morì il 19 gennaio del 2000 per un arresto cardiaco. L'allora presidente del Consiglio e leader dei Democratici di Sinistra Massimo D'Alema propose le esequie di Stato, ma la sua proposta non fu accettata né dai detrattori né dalla famiglia stessa di Craxi, che accusò l'allora governo di avere impedito al leader socialista di rientrare in Italia per sottoporsi a un delicato intervento chirurgico presso l'ospedale San Raffaele di Milano (operazione effettuata invece a Tunisi). I funerali di Craxi ebbero luogo alla cattedrale di Tunisi e videro una larga partecipazione della popolazione autoctona. Ex militanti del PSI e altri italiani giunsero in Tunisia per rendere l'ultimo saluto al loro leader. Le precedenti vicende dell'epoca Mani Pulite, ancora vicine, non erano dimenticate dalla folla di socialisti giunta fuori la cattedrale della città tunisina e la delegazione del governo D'Alema, formata da Lamberto Dini e Marco Minniti, venne bersagliata da insulti e da un lancio di monete che voleva rappresentare la simbolica restituzione di quanto ricevuto con l'episodio all'Hotel Raphael. La sua tomba, nel piccolo cimitero cristiano di Hammamet, è orientata in direzione dell'Italia.

Il termine "craxismo" e "craxiano" vennero usati per definire, in senso prima dispregiativo, poi storico-politico, la stagione politica di Craxi, ma non furono mai usati dal leader socialista. Egli stesso definiva la sua azione come ispirata al socialismo riformista classico e autonomista, ma ebbe gli elogi, per il patriottismo che si richiamava a Giuseppe Garibaldi, di parti politiche opposte alla sua: il giornalista e storico di destra Giano Accame definì quello di Craxi un "socialismo tricolore", ossia un socialismo nazionale, ma di stampo democratico e di sinistra. Nella storiografia più recente è stato evidenziato "il nesso che Craxi riuscì a stabilire tra la modernizzazione in atto nella società italiana e la necessità di operare una modernizzazione sia nei partiti sia nelle istituzioni. Questa modernizzazione egli la interpretò, sembra giustamente, nel senso di un rafforzamento della leadership sia all'interno dei partiti sia nell'apparato decisionale con una stabilizzazione ed un consolidamento del ruolo del capo del governo. Al primo aspetto si legò lo sforzo di plasmare la struttura socialista in senso «leggero» e progressivamente deideologizzato: un partito agile adatto ad una «guerra per bande», come lo avrebbe definito nel 1987 Gaetano Arfé. Al secondo appartenne una prassi di governo che accentuò molto il ruolo personale e certi elementi di decisionismo appartenuti alla personalità del leader socialista". Il lato negativo del craxismo è che indubbiamente, più di quanto già facevano i partiti concorrenti, accentuò la necessità di procurare risorse al partito per procurare consensi tramite convegni, manifestazioni, ecc. in cui tutte le spese erano a carico del partito; ma ancor più grave fu la deliberata politica di espansione del deficit pubblico per aumentare il benessere immediato dei cittadini, senza tagliare nessuno spreco, lasciando così il conto da pagare alle generazioni future. Sul mutamento introdotto da Craxi nella politica e nella società italiana, vi è chi ha sottolineato come, al di là delle estremizzazioni mediatiche, il craxismo abbia "lanciato" una generazione di giovani di cui, ancora a vent'anni di distanza e dagli opposti fronti degli schieramenti parlamentari, le istituzioni e la gestione della cosa pubblica ancora si avvalgono. Ma il quesito storiografico è se questa spinta modernizzatrice abbia avuto anche un valore in sé, oltre all'emersione di una nuova generazione di politici e di amministratori. Secondo alcuni gli anni di Craxi “sono il frutto di quell'idea di moderno in cui l'individualismo senza princìpi si sostituisce alle solidarietà tradizionali in crisi”, di cui quel governo seppe solo accelerare la “destrutturazione” senza sostituirvi nuovi valori. Secondo altri, invece, “Craxi interpreta le domande di dinamicità di una società che cambia e chiede alla politica di stare al passo”, a differenza di chi vedeva “nei cambiamenti un'insidia, anziché un'opportunità”; la teoria - elaborata da Craxi insieme con Claudio Martelli - dei «meriti e bisogni», "che fu contrapposta all'egualitarismo delle culture politiche allora vigenti, ha fatto da apripista a quella meritocrazia della quale - almeno a parole - oggi nessuno riesce a prescindere". Gennaro Acquaviva, in particolare, gli riconosce «la dote, che fu particolarmente sua, di saper prendere decisioni politiche serie e rischiose con freddezza e al momento giusto, costruendosi contemporaneamente condizioni e forza sufficienti a fargli convogliare sulla decisione un consenso ampio e solido, in grado di portarlo alla realizzazione della decisione stessa». Certo è che dagli anni ottanta parole d'ordine come "governabilità" e "decisionismo" - dopo la deriva degli anni settanta, in cui ogni forma di autorità era osteggiata come potenziale fonte di autoritarismo - sono state successivamente invocate da destra e da sinistra per proporre un approccio modernistico all'organizzazione del sistema-Paese. Vi è stato però chi ha sottovalutato l'apporto ideale di tale approccio, rilevando che esso andava incontro ad una pulsione già presente nella politica italiana negli anni cinquanta ed all'epoca soddisfatta dall'interventismo in economia del primo Fanfani e dalle ricette solidaristiche e stataliste dei morotei; Craxi avrebbe soltanto "aggiornato" le soluzioni offerte dalla politica degli anni ottanta, sposando un moderato liberismo economico più in voga nell'epoca di Reagan e Thatcher. Da ciò la spiegazione della competizione senza quartiere che si scatenò tra PSI craxiano e sinistra DC per oltre un decennio, vista come deleteria dalla parte più tradizionalista del Paese che vi leggeva il pericolo di un riformismo foriero di un tracollo delle strutture-partito su cui si fondava la democrazia italiana del dopoguerra. Come arma di tattica politica, volta a spezzare il connubio tra democristiani di sinistra e partito comunista che negli anni settanta aveva compresso lo spazio di manovra del PSI, abbandonò la delimitazione dei rapporti politici all'"arco costituzionale": ricevette Almirante nelle consultazioni di governo e consentì all'elezione di un deputato del partito di destra ad un organo parlamentare di garanzia. Vi è stato chi, vent'anni dopo, ha ritenuto di leggere da tutto ciò un'apertura politica alla destra, anticipando lo "sdoganamento" di Fini da parte di Berlusconi nel "discorso di Casalecchio" del 1993. Eppure, una testimonianza circa il ruolo consulenziale che avrebbe svolto Craxi nel 1993 nei confronti dell'ingresso in politica di Silvio Berlusconi, esclude che nel suo disegno fosse coinvolta la destra post-fascista. Quali che fossero destinati ad essere i suoi orientamenti tattici dopo la rovinosa caduta degli anni novanta, la sua formazione personale e politica restava strategicamente di sinistra: per tutti gli anni ottanta l'attenzione per il progresso sociale e le conquiste sociali della sinistra non fu da lui abbandonata, se è vero che, ancora vent'anni dopo, Massimo D'Alema indicava in Craxi uno dei due soli leader (l'altro è lui stesso) di partiti di sinistra che abbiano assunto la carica di capo del Governo nei 148 anni dall'Unità d'Italia; analoga posizione, nel tempo, hanno assunto Piero Fassino e Nichi Vendola, secondo il quale “non si può ridurre la vita politica di Craxi alla cifra di una vicenda giudiziaria (...) penso che Craxi abbia interpretato un’idea della modernizzazione dell’Italia che in qualche maniera era dentro il tempo in cui cominciava ad aprirsi la stagione della globalizzazione liberista (...) secondo la tradizione dell’umanesimo socialista (...) Da questo punto di vista ci sono, nella vicenda di Craxi, semi buoni che devono ancora germogliare".

Le sentenze di condanna. Craxi è stato condannato con sentenza passata in giudicato a:

5 anni e 6 mesi per corruzione nel processo ENI-SAI il 12 novembre 1996;

4 anni e 6 mesi per finanziamento illecito per le mazzette della metropolitana milanese il 20 aprile 1999.

Per tutti gli altri processi in cui era imputato (alcuni dei quali in secondo o in terzo grado di giudizio), è stata pronunciata sentenza di estinzione del reato a causa del decesso dell'imputato. Fino a quel momento Craxi era stato condannato a:

4 anni e una multa di 20 miliardi di lire in primo grado per il caso All Iberian il 13 luglio 1998, pena poi prescritta in appello il 26 ottobre 1999.

5 anni e 5 mesi in primo grado per tangenti ENEL il 22 gennaio 1999;

5 anni e 9 mesi in appello per il conto protezione, sentenza poi annullata dalla Cassazione con rinvio il 15 giugno 1999;

3 anni in appello bis per il caso Enimont il 1º ottobre 1999;

Craxi fu anche rinviato a giudizio il 25 marzo 1998 per i fondi neri Montedison e il 30 novembre 1998 per i fondi neri Eni.

Le prove sulla base delle quali furono emesse le prime sentenze di condanna della vicenda giudiziaria di Craxi, secondo alcuni autori, si incaricheranno di smentire due dei suoi principali assunti difensivi. Il primo era quello secondo cui i reati erano stati compiuti solo per eludere le forme di pubblicità obbligatoria del finanziamento dei partiti, e non in contraccambio di atti amministrativi: in un caso (sentenza ENI-SAI) la sua condanna definitiva fu per corruzione, e non solo per finanziamento illecito di partito (ciò spiega l'insistenza dei suoi eredi nell'attaccare la procedura di quella sentenza dinanzi alla Corte di Strasburgo). L'altro assunto era quello secondo cui i proventi dei reati contestatigli era destinato al partito e non a fini personali; varie sentenze - non passate in giudicato solo per il decesso dell'imputato - sostennero in motivazione che Craxi aveva utilizzato parte dei proventi delle tangenti (circa 50 miliardi di lire) per scopi personali (Finanziamento del canale televisivo GBR di proprietà di Anja Pieroni, acquisto di immobili, affitto di una casa in Costa Azzurra per il figlio); durante le indagini (dopo un fallito tentativo di far rientrare tali proventi in Italia, bloccato dal nuovo segretario del Psi Ottaviano Del Turco) Craxi li versò sul conto di un prestanome, Maurizio Raggio. La lettura di un uso privato dei fondi, ancora assai ricorrente, fu sostenuta da Vittorio Feltri all'epoca dei fatti, ma è stata dallo stesso abbandonata più di recente (lo stesso Feltri ammise anche di aver attaccato Craxi in maniera eccessiva) venendo così sostanzialmente a coincidere con quanto sempre sostenuto dai familiari circa l'esistenza di conti segreti ascrivibili al solo PSI. Distinguendo tra movente e comportamenti, uno dei giudici del pool anticorruzione di Milano, Gerardo D'Ambrosio, sostenne in proposito: «La molla di Craxi non era l'arricchimento personale, ma la politica».

Le sentenze di assoluzione. Craxi venne invece assolto:

nel processo per le tangenti Intermetro, dal tribunale di Roma nel 1999.

nel processo alle irregolarità degli appalti per la costruzione della metropolitana di Lima, in Perù; l'estraneità dell'ormai defunto Craxi venne riconosciuta, sempre a Roma, nella sentenza che assolse tutti i co-imputati nel 2002.

I ricorsi a Strasburgo contro le sentenze di condanna. Il 5 dicembre 2002 la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo (dopo aver bocciato il ricorso in prima istanza) ha emesso una sentenza d'appello - in riferimento al processo preso in esame, quelli ENI-Sai - che condanna la giustizia italiana per la violazione dell'articolo 6 ("equo processo"), paragrafo 1 e paragrafo 3, lettera D ("diritto di interrogare o fare interrogare i testimoni") della Convenzione europea dei Diritti dell'Uomo, in ragione dell'impossibilità di «contestare le dichiarazioni che hanno costituito la base legale della condanna», condanna formulata «esclusivamente sulla base delle dichiarazioni pronunciate prima del processo da coimputati (Cusani, Molino e Ligresti) che si sono astenuti dal testimoniare e di una persona poi morta (Cagliari)». Tuttavia, la Corte ha rilevato anche che i giudici, obbligati ad acquisire le dichiarazioni di questi testimoni dal codice di procedura penale, si sono comportati in conformità al diritto italiano. Per quanto riguarda gli altri ricorsi valutati (diritto di disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie alla difesa) la corte non ha rilevato violazioni. Per la violazione riscontrata la corte non ha comminato nessuna pena, in quanto ha stabilito che «la sola constatazione della violazione comporta di per sé un'equa soddisfazione sufficiente, sia per il danno morale che materiale». La Corte ha emesso una seconda sentenza il 17 luglio 2003, questa volta riguardante la violazione dell'articolo 8 della Convenzione ("diritto al rispetto della vita privata"). La Corte ha rilevato infatti che «lo Stato italiano non ha assicurato la custodia dei verbali delle conversazioni telefoniche né condotto in seguito una indagine effettiva sulla maniera in cui queste comunicazioni private sono state rese pubbliche sulla stampa» e che «le autorità italiane non hanno rispettato le procedure legali prima della lettura dei verbali delle conversazioni telefoniche intercettate». Come equa soddisfazione per il danno morale, la Corte ha elargito un risarcimento di 2000 € per ogni erede di Bettino Craxi.

Eredità politica. La forte personalità di Bettino Craxi incise in tal modo sulla strutturazione stessa del PSI da determinarne, dopo la sua uscita di scena e anche a causa delle inchieste di Tangentopoli, il rapido e repentino disfacimento. Dei tre immediati eredi del PSI, i Socialisti Italiani (eredi legali del simbolo e del nome), la Federazione Laburista e il Partito Socialista Riformista, sarà quest'ultimo, nonostante la breve vita, ad ospitare la maggioranza dei membri della corrente craxiana rimasti in politica. In seguito molti esponenti socialisti già a lui fedeli hanno aderito a Forza Italia, il partito dell'amico Silvio Berlusconi; tra questi si ricordano: la figlia Stefania (poi fondatrice di un partito autonomo denominato Riformisti Italiani), Fabrizio Cicchitto, Giulio Tremonti, Maurizio Sacconi, Renato Brunetta e Franco Frattini. Altri sono rimasti a sinistra aderendo prima ai Socialisti Italiani e successivamente al partito dei Socialisti Democratici Italiani (guidato da Enrico Boselli); tra questi si ricordano Ugo Intini e Ottaviano Del Turco (in seguito aderente al PD), o confluendo nei DS: la Federazione Laburista di Valdo Spini e i Riformatori per l'Europa di Giorgio Benvenuto. Anche la corrente di maggioranza della CGIL (oggi vicina al Partito Democratico) è stata guidata da un ex-craxiano, Guglielmo Epifani, che fu anche segretario confederale; Guglielmo Epifani è stato poi nominato segretario del PD nel 2013 dall'Assemblea Nazionale, ponendo quindi un esponente del gruppo craxiano degli anni Ottanta alla guida del partito che comprende una parte degli ex comunisti, tra cui molti che furono accesi rivali e forti critici di Craxi stesso; socialista era anche il giurista del diritto del lavoro Marco Biagi, poi assassinato dalle Nuove Brigate Rosse. Altro partito erede della politica craxiana è il Nuovo PSI (nato dalla fusione del Partito Socialista - Socialdemocrazia e della Lega Socialista), che vede nelle sue file uno dei più importanti esponenti socialisti degli anni ottanta, Gianni De Michelis, già ministro degli esteri; tuttavia, De Michelis e Bobo Craxi, figlio secondogenito di Bettino, a seguito di un infuocato congresso celebratosi verso la fine del 2005 si sono contesi con reciproche contestazioni la guida del partito, con strascichi anche giudiziari. L'oggetto del contendere furono le alleanze politiche: Bobo Craxi intendeva far entrare il Nuovo PSI, che finora ha appoggiato i governi berlusconiani, nell'Unione di centrosinistra, mentre De Michelis, pur concordando nel ridiscutere il rapporto con Berlusconi, si era dichiarato contrario a questa alleanza; anche Stefania Craxi, in contrapposizione con Bobo, si è fermamente opposta ad un passaggio dei socialisti craxiani nella coalizione prodiana. Tuttavia Bobo Craxi ha fondato una sua lista in appoggio della coalizione dell'Ulivo, denominata I Socialisti (oggi un piccolo partito denominati Socialisti Uniti e guidato da Saverio Zavettieri). L'anno successivo, però, anche De Michelis ha abbandonato il centro-destra, per avvicinarsi, seppur brevemente e criticamente, al centro-sinistra, per tornare poi a collaborare col ministro berlusconiano Renato Brunetta. Claudio Martelli ha invece aderito prima allo SDI, poi al Nuovo PSI, prima di ritornare alla sua precedente attività giornalistica. Nel 2007 molti craxiani hanno aderito alla Costituente Socialista di Enrico Boselli, volta a ricostituire il PSI, che ha sancito la rinascita del Partito Socialista, seppur in forma ridotta, rispetto quello dell'epoca craxiana. Sia Boselli che il successore come segretario, Riccardo Nencini, hanno rivendicato al PSI moderno l'eredità politica migliore di Craxi, cosa fatta anche, nell'area laica, dal leader radicale Marco Pannella. A parte queste contese strettamente partitiche, l'eredità politica di Craxi è oggi contesa da parte del centrosinistra, sia da numerosi esponenti del Partito Democratico (alcuni dei quali provenienti dal PSI craxiano), sia dal rinato Partito Socialista Italiano ma anche dal Popolo della Libertà (centro-destra), alleato con il Nuovo PSI. Nel bene e nel male, si tratta di comunque di una figura che ha segnato indiscutibilmente la politica e la storia italiane del dopoguerra. Nel libro Segreti e Misfatti (2005), scritto dal suo fotografo personale e amico fidato fino agli ultimi giorni tunisini Umberto Cicconi, si scoprono molti retroscena curiosi ma anche di grande interesse politico, storico ed umano. Sempre lo stesso anno, la pubblicazione del libro di Bruno Vespa, L'Amore e il Potere, contenente anche gossip su Craxi e le sue presunte amanti, ha provocato la reazione del figlio Bobo, che ha definito il carattere del libro "particolarmente odioso".

La Fondazione Craxi. La Fondazione Craxi è una fondazione nata il 18 maggio 2000 allo scopo di tutelare la personalità, l'immagine, il patrimonio culturale e politico di Bettino Craxi attraverso la raccolta di tutti i documenti storici che riguardino la sua storia politica. Principale animatrice è la figlia Stefania Craxi, già deputato del gruppo Misto e oggi presidente del movimento politico Riformisti Italiani. La sede principale è a Roma, mentre un'altra importante sede si trova ad Hammamet, in Tunisia, luogo dove è sepolto Bettino Craxi. Tra le attività della fondazione vi è la costituzione e valorizzazione dell'"Archivio Storico Craxi", costituito riunendo documenti conservati in diversi luoghi (Milano, Roma, Hammamet), costituiti essenzialmente da corrispondenza, memorie, discorsi, articoli, interviste, atti processuali. L'obiettivo generale è quello di "riabilitare" la figura dello statista italiano coinvolto nei processi di Mani Pulite e di riqualificarne l'importanza storica nonostante le svariate condanne penali riportate. La fondazione figura anche come organizzatrice di convegni e mostre inerenti alla vita e all'attività politica di Bettino Craxi, cui affianca anche un'attività editoriale.

Riconoscimenti. A seguito del ricorrente tentativo di conseguire un atto ufficiale che esprima una condivisione pubblica dell'operato del personaggio, si apre periodicamente il dibattito sull'opportunità o meno di intitolare in Italia una strada al leader socialista. Ad una disamina condotta nel dicembre 2009, risultano i toponimi "piazza Bettino Craxi" nei comuni di Grosseto e Lissone e "via Bettino Craxi" in quelli di Valmontone, Lecce, Botrugno, Marano Marchesato, Alà dei Sardi e Scalea. Nella città di Aulla (provincia di Massa e Carrara) nel 2003 per iniziativa dell'allora sindaco Lucio Barani era stata eretta anche una statua di Craxi (di marmo bianco, con la scritta: "A Bettino Craxi, statista, esule e martire"), oltre ad intitolargli una piazza. La frase sulla tomba di Craxi ("La mia libertà equivale alla mia vita"), a lui stesso attribuita, è scolpita anche nel monumento alle vittime di Tangentopoli, situato sempre ad Aulla. La statua (proprietà del Nuovo PSI, che la commissionò, secondo quanto dichiarato da Barani) fu messa in vendita dall'amministrazione successiva. Lo scultore Maurizio Cattelan ha scolpito un altro monumento marmoreo a Bettino Craxi. Il monumento è stato scolpito dall'artista veneto ispirandosi ad un modello non utilizzato dagli scultori della cave di Carrara, per la realizzazione della statua posizionata ad Aulla, ma includendo rimasugli di un'opera degli anni Trenta, modificata per l'occasione. Intenzione di Cattelan era posizionarlo a Carrara al posto della statua di Giuseppe Mazzini, per dimostrare la "vulnerabilità della storia", ma successivamente, in seguito a proteste, è stato messo in un vicino cimitero. L'opera raffigura una sorta di piccolo tempio greco in bassorilievo, con due angeli piegati, mentre due putti sollevano un tondo con un ritratto di profilo del leader socialista. Il governo tunisino ha provveduto, il 19 gennaio 2007, in occasione del settimo anniversario della sua morte, a intitolargli una via. Il 15 gennaio 2007 in un comune laziale di 2.500 anime, Sant'Angelo Romano, a 20 chilometri da Roma, l'amministrazione di centrodestra guidata dal sindaco Angelo Gabrielli, ex socialista, ha inaugurato una piazza all'ex leader socialista. Per quanto riguarda le grandi città, violente polemiche hanno frenato la decisione toponomastica: sette anni dopo la sua morte aveva preso avvio il progetto di intitolare una strada di Roma a Bettino Craxi. La decisione è stata presa la prima volta dal sindaco della Capitale Walter Veltroni, in accordo con la sua giunta di centro-sinistra, e poi ribadita dal nuovo sindaco Alemanno. Nel 2009 identica proposta è stata avanzata dal sindaco di Milano Letizia Moratti, portando ad una manifestazione di protesta, svoltasi il 9 gennaio 2010 in piazza Cordusio, durante la quale Beppe Grillo e Antonio di Pietro hanno arringato gli oltre cento partecipanti.

Soprannomi. Per alcuni anni fu soprannominato il "Cinghialone" dai suoi detrattori, dopo esser stato così definito in un articolo di Vittorio Feltri sul quotidiano L'Indipendente; più raffinatamente, Indro Montanelli, sul Giornale, nel giorno delle sue dimissioni da segretario del PSI, lo definì un "imano", volendo intendere forse la parola imam, dandogli quindi il senso di un dignitario/satrapo orientale. Matt Frei afferma che nella Roma politica il suo epiteto sarebbe stato il "Maestro", in quanto padrone delle mille tattiche utili alla strategia politica che lo aveva posto al centro della vita nazionale per oltre un decennio. Nella polemica su Tangentopoli, era comune in quel periodo storico sentire definito Craxi come "ladrone", detentore di un tesoro alla Ali Baba. Rispetto a questo tipo di definizioni - la cui ampia diffusione nell'opinione pubblica sfugge oramai ad un giudizio solo processuale, essendo la forma di percezione pubblica di un giudizio storico - più eleganti appaiono i richiami storici ricercati da autori di più auliche similitudini. Ad esempio, Francesco De Gregori lo definì Nerone in una sua canzone, per poi comunque affermare, alcuni anni dopo, la superiorità di Craxi rispetto ai politici che vennero dopo di lui. Craxi usò lo pseudonimo Ghino Di Tacco, epiteto datogli da Eugenio Scalfari, per firmare articoli anonimi sul giornale Avanti!. A volte il nome fu storpiato dagli avversari in Ghigno Di Tacco, in riferimento presunto all'espressione facciale di Craxi, Giorgio Forattini, che allora lavorava per la Repubblica, il giornale diretto da Scalfari, storpiò a sua volta questo soprannome in Benito di Tacco, perché era solito rappresentare Craxi in camicia nera e stivali, per via dei suoi modi "da Duce". 

L'ultimo discorso di Craxi alla Camera. Discorso alla Camera dei Deputati del 29 Aprile 1993 - Di Bettino Craxi. "Circa dieci mesi or sono prendendo la parola di fronte alla Camera dissi con franchezza ciò che un ex Presidente della Repubblica definì poi come l'apertura di quella "grande confessione" verso la quale avrebbe dovuto e dovrebbe aprirsi, con tutta la sincerità necessaria, tutto o gran parte almeno del mondo politico. I giudici che mi accusano l'hanno considerata invece come una "confessione extragiudiziale" elevandola subito e senz'altro a prova di primo grado contro di me. Quella per la verità era ed è rimasta la sola prova di quell'accusa. Sempre che una dichiarazione una analisi ed una riflessione fatte di fronte al Parlamento possano essere considerate alla stregua di una prova penale. Ricordo che, ancor prima di allora, commentando a caldo le prime esplosioni scandalistiche milanesi che aprivano il libro dagli inesauribili capitoli apertosi poi un po' dovunque, mi ero permesso semplicemente di dire: "Su quanto sta accadendo la classe politica ha di che riflettere". Questa affermazione fu allora maltrattata come espressione di un atteggiamento intimidatorio, provocatorio, financo ricattatorio. In realtà non era difficile avvertire già da allora tutta la dimensione del problema che si era aperto, tutta la sua gravità e la sua complessità. Non era difficile cogliere la inutilità e l'errore di una difesa e di una giustificazione che non fossero improntate al linguaggio della verità. Per le responsabilità che mi competevano, per il ruolo che, per lungo tempo, avevo esercitato, di Segretario nazionale del Partito Socialista, io non ho negato la realtà, non ho minimizzato, non ho sottovalutato il significato morale, politico, istituzionale della questione che veniva clamorosamente alla luce riguardante il finanziamento irregolare ed illegale ai partiti ed alle attività politiche ed anche il vasto intreccio degenerativo che ad esso si collegava o poteva, anche a nostra insaputa, essersi collegato. Come si ricorderà ne parlai proprio di fronte a voi seguendo una traccia che stamane mi consentirete di riprendere. Osservavo nel Luglio del '92: "C'è un problema di moralizzazione della vita pubblica che deve essere affrontato con serietà e con rigore, senza infingimenti, ipocrisie, ingiustizie, processi sommari e grida spagnolesche. E' tornato alla ribalta, in modo devastante, il problema del finanziamento dei Partiti, meglio del finanziamento del sistema politico nel suo complesso, delle sue degenerazioni, degli abusi che si compiono in suo nome, delle illegalità che si verificano da tempo, forse da tempo immemorabile. Bisogna innanzitutto dire la verità delle cose e non nascondersi dietro nobili e altisonanti parole di circostanza che molto spesso e in certi casi hanno tutto il sapore della menzogna. Si è diffusa nel paese, nella vita delle istituzioni e della pubblica amministrazione, una rete di corruttele grandi e piccole che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica, uno stato di cose che suscita la più viva indignazione, legittimando un vero e proprio allarme sociale, ponendo l'urgenza di una rete di contrasto che riesca ad operare con rapidità e con efficacia. I casi sono della più diversa natura, spesso confinano con il racket malavitoso, e talvolta si presentano con caratteri particolarmente odiosi di immoralità e di asocialità. Purtroppo anche nella vita dei Partiti molto spesso è difficile individuare, prevenire, tagliare aree infette sia per la impossibilità oggettiva di un controllo adeguato, sia talvolta, per l'esistenza ed il prevalere di logiche perverse. E così all'ombra di un finanziamento irregolare ai Partiti e, ripeto, al sistema politico, fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione, che come tali vanno definiti trattati provati e giudicati. E tuttavia, d'altra parte, ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare od illegale. I Partiti specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche e operative, hanno ricorso e ricorrono all'uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest'aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro". E del resto, andando alla ricerca dei fatti, si è dimostrato e si dimostrerà che tante sorprese non sono in realtà mai state tali. Per esempio, nella materia tanto scottante dei finanziamenti dall'estero sarebbe solo il caso di ripetere l'arcinoto "tutti sapevano e nessuno parlava". Ed osservavo ancora: "Un finanziamento irregolare ed illegale al sistema politico, per quante reazioni e giudizi negativi possa comportare e per quante degenerazioni possa aver generato non e' e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica, per creare un clima nel quale di certo non possono nascere nè le correzioni che si impongono nè un'opera di risanamento efficace ma solo la disgregazione e l'avventura. A questa situazione va ora posto un rimedio, anzi più di un rimedio". Mi spiace che tutto questo sia stato, allora, sottovalutato. Tante verità negate o sottaciute sono venute una dopo l'altra a galla e tante ne verranno, ne possono e ne dovranno venire ancora. E mentre molti si considerano tuttora al riparo dietro una regola di reticenza e di menzogna, non si è posto mano a nessun rimedio ragionevole e costruttivo. Questo deve valere anche per i Partiti che se debbono continuare ad esistere come elementi attivi della democrazia italiana ed europea sia pure in un diverso ruolo ed in diverse configurazioni, debbono essere posti di fronte a nuove regole impegnative ed utili a rinnovare e a far rifiorire la loro essenza associativa e democratica. Si è invece fatto strada con la forza di una valanga un processo di criminalizzazione dei partiti e della classe politica. Un processo spesso generalizzato ed indiscriminato che ha investito in particolare la classe politica ed i partiti di governo anche se, per la parte che ha cominciato ad emergere, non ha risparmiato altri come era e come sarà prima o poi inevitabile. Era del tutto evidente che scavando e risalendo negli anni e persino nei decenni nella sfera delle forme di finanziamento illegale dell'attività politica, delle sue articolazioni, delle organizzazioni e competizioni elettorali, ogni giorno si sarebbe incontrato un episodio, un caso, uno scandalo. E così è stato. E così sarà. La lista delle indagini, delle investigazioni e poi delle controinvestigazioni, dei pentiti, dei pentiti a scoppio ritardato e dei contropentiti, delle rivelazioni vere o false, mirate o sapientemente mutilate, e dei rei-confessi per amore o per forza è destinata a farsi interminabile. A queste si sono aggiunti fatti di corruzione personale che sono del tutto estranei alla responsabilità dei Partiti anche se pesano egualmente in tutta la loro gravità. Ma di tutte l'erbe s'è fatto alla fine un fascio. Tutto si è ridotto ad una unica accusa generalizzata. Le campagne propagandistiche hanno ruotato sovente solo attorno a slogans ed a brutali semplificazioni. Di questo si è incaricata infatti parte almeno della stampa e dell'informazione, andando ben al di là dei diritti e dei doveri propri dell'informazione, deformando spesso oltre misura, esaltando le ragioni dell'accusa e mettendo di canto quelle della difesa, travolgendo senza alcun rispetto diritti costituzionalmente garantiti con difese divenute praticamente impossibili, creando sovente un clima infame che ha distrutto persone, famiglie e generato tragedie. La criminalizzazione della classe politica, giunta ormai al suo apice, si spinge verso le accuse piu' estreme, formula accuse per i crimini più gravi, più infamanti e più socialmente pericolosi. Un processo che quasi non sembra riguardare più le singole persone, ma insieme ad esse tutto un tratto di storia, marchiato nel suo insieme. Un vero e proprio processo storico e politico ai Partiti che per lungo tempo hanno governato il Paese. Mi chiedo come e quando tutto questo si concili con la verità, che rapporto abbia con la verità storica, con gli avvenimenti e le fasi diverse e travagliate che abbiamo attraversato e nelle quali molti di noi hanno avuto responsabilità politiche di governo di primo piano. Davvero siamo stati protagonisti, testimoni o complici di un dominio criminale? Davvero la politica e le maggioranze politiche si sono imposte ai cittadini attraverso l'attuazione ed il sostegno di disegni criminosi? Davvero gli anni ottanta di cui soprattutto si parla, senza risparmiare i precedenti, sono stati gli anni bui della regressione, della repressione, della malavita politica che scrivono e cantano in prima fila tanti reduci dell'eversione, delle rivoluzioni mancate, delle rotture traumatiche che sono state contrastate ed impedite? Questa non e' altro che una lettura falsa, rovesciata mistificata della realtà e della storia. Chi ha condotto per anni una opposizione democratica ha da far valere in ben altro modo tutte le sue ragioni. Per parte mia, io non dimentico che negli anni Ottanta l'Italia ha rimontato la china della regressione, della stagnazione e dell'inflazione, è uscita dalla crisi economica e produttiva per entrare in un ciclo di espansione e di sviluppo senza precedenti toccando le punte di sviluppo più alte tra i paesi dell'Europa industrializzata. Si è trattato di un progresso forte, intenso, diffuso, che ha ridotto tante disuguaglianze e che poneva le basi per ridurne tante altre che ancora dividevano e dividono la nostra società. Sono gli anni in cui viene posto fine al capitolo dell'eversione militare, del terrorismo e delle sue code sanguinose. Sono anche gli anni di un nuovo prestigio internazionale, con l'Europa comunitaria che si amplia e si consolida e con l'Italia che entra a far parte del club economico ma anche politico delle maggiori Nazioni industrializzate del mondo occidentale. Tutti i cicli, come è naturale passano, entrano in contraddizione, si esauriscono, degenerano. Sono così subentrati gli anni delle difficoltà e della crisi, che stiamo ancora attraversando. Ma gli effetti e le conseguente di un periodo critico sarebbero stati ben diversi e ben più onerosi se non avessimo avuto alle spalle il solido sviluppo realizzato nel corso degli anni ottanta ed un retroterra conquistato con un balzo in avanti poderoso. I finanziamenti illegali ai partiti ed alle attività politiche non sono stati tuttavia una invenzione e una creazione degli anni ottanta. Hanno radici, come si sa, ben più antiche e ben ripartite tra le forze che si contrapponevano, in lotta tra loro, e sovente senza esclusione di colpi. Così come nella vita della società italiana non è nata negli anni ottanta la corruzione nella pubblica amministrazione e nella vita pubblica. La vicenda dei finanziamenti alla politica, dei loro aspetti illegali, dei finanziamenti provenienti attraverso le vie più disparate dell'estero, della ricerca di risorse aggiuntive rispetto poi ad una legge sul finanziamento pubblico ipocrita e ipocritamente accettata e generalmente non rispettata, accompagna la storia della società politica italiana, dei suoi aspri conflitti, delle sue contraddizioni e delle sue ombre, dal dopoguerra sino ad oggi. Non c'e' dubbio che un troppo prolungato esercizio del potere da parte delle più o meno medesime coalizioni di Partiti ha finito con il creare per loro un terreno più facilmente praticabile per abusi e distorsioni che si sono verificate. Ma onestà e verità vorrebbero che in luogo di un processo falsato, forzato, ed esasperato, condotto prevalentemente in una direzione, si desse il via ad una ricostruzione per quanto possibile obiettiva ed appropriata di tutto l'insieme di ciò che è accaduto. Si tratta di una realtà che non si può dividere in due come una mela, tra buoni e cattivi, gli uni appena sfiorati dal sospetto, gli altri responsabili di ogni sorta di errori e nefandezze. Trovo perlomeno singolare che sia stata liquidata con poche battute di circostanza, qualche pretesto e qualche falsa riverenza la proposta di una inchiesta parlamentare che abbracciasse l'arco di almeno un quindicennio della nostra storia politica. Il Parlamento avrebbe il dovere di farlo avendo esso stesso nella sua storia una montagna di dichiarazioni di bilanci di Partiti certamente falsi, di organi di controllo che non hanno controllato, di revisori che non hanno rivisto. Che tutto questo avvenisse senza l'insorgere di clamorose contestazioni e denunce e senza clamorosi conflitti, salvo casi sporadici ed aspetti particolari, significa che il sistema in funzione e le sue irregolarità non solo erano in principio riconosciute, ma erano consensualmente accettate e condivise, almeno dai più. E' d'altro canto un sistema cui hanno partecipato e concorso, in forme varie e diverse, tutti i maggiori gruppi industriali del paese, privati e pubblici. Gruppi e società importanti nel loro settore e nella economia nazionale e in molti casi presenti e influenti anche sui mercati internazionali, gruppi potenti in grado di influire e di condizionare i poteri della politica e dello Stato. Di questi tutto si può dire salvo che siano state vittime di una prepotenza, di una imposizione, di un sistema vessatorio ed oppressivo di cui non vedevano l'ora di liberarsi. Si tratta di tutti i maggiori gruppi del paese, quelli che sono stati chiamati in causa e quelli che ancora possono esservi chiamati, anch'essi fornitori dello stato, tributari dello stato di sostegno di varia natura, tributari di appalti pubblici, esportatori, proprietari di catene giornalistiche, speculatori a vario titolo, se la verità, anche per loro, come c'è da augurarsi, finirà prima o poi per farsi strada. Si tratta di condotte illegali del mondo imprenditoriale attuate con piena consapevolezza e responsabilità e con finalità di molteplice natura, di ordine economico aziendale commerciale ed anche di ordine pubblico a sostegno di un sistema, dei suoi diversi equilibri, della sua stabilità complessiva, ed anche a sostegno più diretto di singoli membri di un personale politico con il quale mantenere rapporti amichevoli più impegnativi. Illegalità nel mondo politico, illegalità nel mondo imprenditoriale. Ad esse si sono venute aggiungendo illegalità nel mondo giudiziario. Una inchiesta giudiziaria è tanto più forte, accettata, rispettata, quanto più forte, rigoroso, lineare è il rispetto della legge ch'essa si impone, senza prevaricazioni, arbitri, forzature ed eccessi di sorta. Si è verificato purtroppo, e in più casi e ripetutamente tutto il contrario. Non c'è fine che possa giustificare il ricorso a mezzi illegali, a violazioni sistematiche, clamorose e persino esaltate della legge, dei diritti dei cittadini, dei diritti umani. Non c'è consenso popolare, sostegno politico, campagna di stampa che possa giustificare un qualsiasi distacco dai principi garantiti dalla Costituzione e fissati dalla legge. Non la giustifica neppure l'assenza, l'insensibilità o il ritardo degli organi di controllo, la debolezza o il disorientamento delle difese, la barriera del pregiudizio negativo. Non lo ha visto e non lo vede, del resto, solo chi non lo vuole e preferisce, per opportunità, per superficialità o per calcolo voltare la testa dall'altra parte. Chi non ha visto le forzature macroscopiche e strumentali nella interpretazione delle leggi per giungere ad usare impropriamente i poteri giudiziari? Sin da quattro secoli in Inghilterra era stato scritto nel Leviatano "Se il giudice usa con arroganza il potere di interpretare le leggi, tutto diventa arbitrio imprevedibile. Di fronte ad un metodo del genere ogni sicurezza viene meno". Chi non ha visto gli arresti illegali, facili, collettivi, spettacolari e financo capricciosi, di fronte ad una civiltà del diritto e ad una normativa di legge che anche nel nostro paese considerava l'arresto una "extrema-ratio". Chi non ha visto le detenzioni illegali che fanno impallidire la civiltà dell'Habeas Corpus. Le detenzioni a scopo di confessione che sono tutto il contrario di ciò che è riconosciuto ed accettato. Chi non ha visto le perquisizioni a scoppio ritardato, quelle in particolare delle sedi di Partito manifestatamente inutili ma utili, per la messinscena predisposta e per lo spettacolo denigratorio assicurato. Sono all'ordine del giorno del resto le sistematiche violazioni del segreto istruttorio, ormai praticamente vanificato e inesistente o esistente solo in ragione di criteri discriminatori o criteri arbitrari dettati da interessi ed opportunità di varia natura ivi comprese quelle politiche. C'è forse qualcuno che non ha visto la esemplare tempistica politica di determinate operazioni? Quando la giustizia funziona ad orologeria politica essa contiene già in se qualcosa di aberrante. Purtroppo c'è anche materia per scrivere un capitolo sui diritti umani, sulla loro mortificazione e sulle loro violazioni. Affacciandosi, già mesi orsono, sulla realtà italiana, una missione internazionale composta di alti magistrati ed esponenti del Foro di Parigi, prudentemente, rispettosamente annotava in un suo primo rapporto :"I magistrati, incaricati delle inchieste sulla corruzione, applicano le disposizioni di legge relative alla detenzione preventiva in modo particolarmente estensivo. Senza arrivare ad espressioni quali tortura o inquisizioni - pur usate da diverse personalità, non sembra si possa dubitare del fatto che la carcerazione preventiva sistematica di numerosi indiziati - molti dei quali presentano evidenti qualifiche di notorietà - e che è ufficialmente motivata dalla preoccupazione di un possibile inquinamento delle prove, ha in realtà lo scopo di esercitare delle pressioni per ottenere confessioni di colpevolezza, o la denuncia di complici. Ciò che numerosi magistrati hanno ammesso pubblicamente sottolineando l'efficacia di tale metodo. Questa pratica, di carattere chiaramente repressivo appare in contraddizione sia con il disposto art. 275 del nuovo codice di procedura penale italiano che indica la detenzione preventiva come una misura coercitiva di natura eccezionale, sia con i testi internazionali esistenti in materia di tutela dei diritti dell'uomo". Nello stesso rapporto si legge che "Gli eccessi constatati nell'applicazione del codice di procedura penale nell'ambito delle inchieste in materia di corruzione sono ancora più preoccupanti perchè a tutt'oggi sembrano sottratti a qualsiasi tipo di controllo. In effetti la maggior parte dei ricorsi al Tribunale delle Libertà sono stati rigettati. L'opinione pubblica italiana che è molto favorevole alla repressione delle tangenti esercita sulla magistratura una notevole pressione, alla quale quest'ultima non è insensibile, e che raggiunge il risultato di rendere alcuni magistrati incaricati delle inchieste dei personaggi protagonisti al riparo da qualsiasi critica pubblica". La stessa delegazione della "Federation Internationale des Droits de l'Homme" ancora osserva :"Il compito di purificatore che taluni magistrati si attribuiscono e che essi pubblicamente proclamano, solleva problemi delicati nel rapporto tra potere giudiziario, potere esecutivo e potere legislativo; e non solo perchè molti politici sono oggetto della maggioranza dei procedimenti in corso, insieme ad industriali e uomini d'affare; ma per la distorsione di tali rapporti, che può andare oltre il caso specifico e determinare una preoccupante inclinatura dell'ordinamento democratico". Spiace doverlo dire ma le ripetute affermazioni di magistrati, talvolta solenni, talvolta sdegnate, che vogliono suonare come una proclamazione di indipendenza e di indifferenza rispetto alla politica, agli effetti politici, agli obiettivi politici, in molti troppi casi non convincono affatto e non possono convincere. Penso agli arresti alla vigilia della formazione di governi locali o dopo la loro formazione, alle retate di interi corpi amministrativi, alle operazioni di marca preelettorale, agli scoops in vista di precise scadenze politiche, alla disparità di trattamento, che meriterebbero un approfondimento a parte, alle oculate selezioni, all'accanimento con il quale ci si e' mossi soprattutto in certe direzioni ma, allo stesso modo, non in altre. Un grande processo politico era preconizzato dagli ideologhi, magistrati e non, della rottura traumatica che sui loro giornali scrivevano :"Il sistema politico e' la culla piu' ospitale ed al tempo stesso la più formidabile difesa del crimine organizzato della violenza mafiosa e camorristica delle lobbies illegali". Leggiamo oggi una pubblicistica che si muove ad un passo financo dai testi della letteratura terroristica quando questa si scagliava contro il "regime politico-mafioso, DC-PSI", e contro "l'amerikano Craxi che si adopera per accelerare il processo di edificazione del SIM (Stato Imperialista delle Multinazionali)", contro il "gangster Craxi che si propone come baricentro dello scenario politico". Contro un demone di questa natura allora tutto era possibile, tutto giustificato, tutto lecito. Può capitare nel corso della storia che la violenza nell'uso di un potere sia necessaria ed inevitabile ma è necessario allora che essa sia chiamata con il suo nome, sia riconosciuta ed esaltata come tale e non mistificata e proclamata in nome delle leggi o degli ordinamenti in vigore. In questo caso sapremo senza possibilità di equivoci di essere di fronte ad una nuova forza, ad una nuova legge e ad un nuovo potere. Una "rivoluzione": così sono stati definiti e così molti concepiscono gli avvenimenti di casa nostra. Può darsi. Però allora è bene essere consapevoli che una rivoluzione è di per se sempre una grande incognita ed una grande avventura, ma soprattutto che una rivoluzione senza un ceto organico di rivoluzionari è destinata solo a distruggere ed a preparare un fallimento certo. C'è stata violenza nell'uso del potere giudiziario, nell'uso dei sempre più potenti mezzi di comunicazione, c'è stato un eccesso di violenza nella polemica politica, nella critica, nel linguaggio, nei comportamenti. E la violenza non può far altro che generare violenza, nei giudizi, nei sentimenti, nelle passioni, negli animi. In quale democrazia del mondo, a memoria del secolo, inchieste giudiziarie, ed il clima esasperato che attorno ad esse è stato creato, hanno potuto provocare tanti suicidi, tentati suicidi e morti improvvise. In quale Paese civile e libero del mondo si sono celebrati in piazza tanti processi sommari, si è assistito a tanti pubblici linciaggi e si sono consacrate tante sentenze di condanna prima ancora che sia stato pronunciato un rinvio a giudizio? Tutto questo non può non far riflettere. Doveva far riflettere, mi auguro che faccia riflettere. Non credo del resto che la moralizzazione della vita pubblica possa esaurirsi con la denuncia ed il superamento dei sistemi di finanziamento illegale dei Partiti e delle attività politiche e con la condanna di tutte le forme degenerative che ne sono derivate. Non credo che solo in questo consista la questione della corruzione della vita pubblica. Non credo che il procedere in modo violento con l'inevitabile inasprimento dei traumi e dei conflitti che ne scaturirà potrà aprire un periodo ordinato e rigoglioso nella vita democratica. Non credo che per queste vie li Paese si incamminerà verso un periodo di rinascita economica,di riequilibrio sociale,di un rinnovamento politico ed istituzionale all'insegna di un grande decentramento dei poteri, nel consolidamento dell'unità della Nazione, e insieme di riconquista di un prestigio internazionale tanto più necessario quanto più aspre si vanno facendo la competizione e la conquista di aree di influenza nel mondo. C'e' un problema democratico di rinnovamento e di ricambio della classe politica dirigente, c'è un problema di alternanza di forze nelle responsabilità di guida e di governo. E' un problema che deve essere risolto democraticamente, nel modo più trasparente e diretto, senza provocare il soffocamento del pluralismo politico e senza fare ricorso alla barbarie della giustizia politica. Una politica che fosse intrisa di demagogia e di ipocrisia, non sarebbe destinata a fare lunga strada. Così come non è destinato a farla chi ancora oggi continua a non usare il linguaggio della verità, per non parlare di chi si presenta di fronte al paese con l'aria smemorata, con i tratti di chi non sapeva anche ciò che avrebbe dovuto inevitabilmente sapere, di chi ha vissuto sino a ieri in preda a superficiali distrazioni, di chi denuncia nomenklature, ignorando la propria di cui continua a portare tutti i caratteri, e dimenticando il proprio ruolo, la propria responsabilità, di chi addirittura giudica dall'alto delle sue frequentazioni malavitose. Il 2 novembre dello scorso anno moriva improvvisamente Vincenzo Balzamo, deputato al Parlamento, Segretario Amministrativo nazionale del PSI. Dopo settimane di angosce e di tensioni un infarto ne aveva stroncato l'esistenza. Solo pochi giorni prima aveva ricevuto un avviso di garanzia per gravi reati. Da quel momento dopo la sua morte nel giudizio degli inquirenti vengo considerato una sorta di successore universale di tutte le condotte addebitate all'On. Balzamo e vengo investito da una raffica di avvisi di garanzia per concorso in fatti veri o presunti attribuiti ai responsabili dell'Amministrazione del PSI. Purtroppo la scomparsa immatura dell'On. Balzamo lasciando un vuoto doloroso ci ha privato di un testimone essenziale e decisivo per tante vicende che costituiscono oggetto di indagine. Sta di fatto che fino alla sua morte gli inquirenti concludono con l'On. Balzamo il rapporto concorsuale nei reati che vengono individuati. Alla sua morte coprono con me il posto rimasto vuoto. In assenza di qualsiasi elemento probatorio che possa legarmi agli atti ritenuti criminalizzabili, la traslazione di condotte altrui sotto la responsabilità mia personale in forza della carica che rivestivo e del vantaggio economico che il Partito ne ha tratto, è un fatto del tutto arbitrario ed inammissibile nel diritto penalprocessualistico. Ammenochè, data la straordinarietà del mio caso, non sia stato sospeso, e soltanto nei miei confronti, il principio di diritto della responsabilità personale, sancito dalla Costituzione. La verità è che sin dall'inizio si è mossa contro di me una azione ispirata da un intento persecutorio evidente che numerosi fatti, che emergono dalla semplice lettura degli atti, provano e confermano in modo chiaro ed inequivocabile. L'obiettivo "Craxi" era un obiettivo politico primario e per tentare di colpirlo si è agito con la più grande determinazione e talvolta anche con la più grande spregiudicatezza, violando ripetutamente la legge e le stesse prerogative della immunità e della inviolabilità del Parlamentare. Di fronte alla Camera la Giunta delle autorizzazioni a procedere ha recentemente dichiarato che ciò che bisogna accertare ai fini della concessione dell'autorizzazione a procedere è "l'esistenza anche di un ombra di volontà di persecuzione". L'esistenza del "fumus persecutionis" per un principio di diritto che non può essere ignorato e cancellato, risulta confermata ogni qualvolta il magistrato giunge a compiere atti di indagine preliminare a carico del deputato prima della informazione di garanzia e prima della concessa autorizzazione a procedere. Ebbene, nel "caso Craxi" i magistrati incaricati dell'indagine senza la spedizione delle informazioni di garanzia e senza la autorizzazione a procedere, hanno con insistenza, con accanimento crescente e anche, a più riprese, con sotteso atteggiamento di coartazione, richiesto e elencato elementi probatori da porre a base delle accuse contro di me, presupposte in un teorema già elaborato e per un obiettivo già ben delineato. Tutto questo è avvenuto sistematicamente a partire dai primi atti dell'inchiesta. Ne è scaturita in questo modo una massa ingente di indagini che sono state svolte su di me, illegittimamente, attraverso interrogatori, perquisizioni, sequestri, accertamenti patrimoniali, deposizioni testimoniali, acquisizione di atti. Si è proceduto ad accertamenti trasversali per violare il divieto di indagine in mancanza di autorizzazione a procedere al fine di costruire una ipotesi accusatoria irrimediabilmente viziata perchè costruita dalla sommatoria di una notizia di reato artefatta e da dati di riscontro formati e selezionati per sorreggerla. Scendendo solo per un attimo nel particolare ricordo che si è giunti persino a sequestrare il conto del mio ufficio di Milano, amministrato dalla mia segretaria che è a tutt'oggi privata della libertà. I giornali ne diedero subito grande notizia e grande risalto gridarono nei titoli "Otto miliardi trovati sul conto della segretaria di Craxi". In realtà quel conto in quel momento era praticamente in rosso, gli otto miliardi riguardavano l'insieme dei movimenti che su quel conto erano stati fatti negli anni precedenti. Si trattava delle spese generali dell'ufficio, di rimborsi spese fatti a collaboratori, di contributi versati a Centri Culturali, Centri politici sociali ed assistenziali, di spese elettorali e personali. Entrate e spese documentabili e perfettamente legittime. Sta di fatto che in questo modo si è andati a spulciare l'attività che era passata per quasi un decennio attraverso il mio ufficio di Milano e la sua amministrazione, nella perfetta consapevolezza che si trattava di attività politiche e personali risalenti alla responsabilità di un Parlamentare contro il quale non si poteva procedere. Del resto il "Lei conosce Craxi?","Quali rapporti ha avuto con Craxi?","Dica che ha versato a Craxi" e ancora "Quale ruolo aveva Craxi","Chi incontrava Craxi?" è una lunga litania che si è snodata a lungo ed insistentemente attraverso gli interrogatori, di indagati ed anche di testi scelti a bella posta tra le persone dichiaratamente e notoriamente ostili. Si è così indagato su di me e sulla mia famiglia, sulle mie proprietà, e si è trovato modo di indagare sui miei figli e sui miei parenti. Ma v'è qualcosa di più e di ancor più grave. Contro il principio generale ed indiscusso, secondo cui la magistratura può indagare su di un cittadino solo in presenza di una notizia di reato che essa apprende direttamente ovvero attraverso denuncia, querela o informativa di polizia giudiziaria, con riferimento alla vicenda che mi riguarda, i pubblici ministeri milanesi hanno pervicacemente fatto ricerca di una pretesa notizia di reato sulla quale poter costruire il teorema evidentemente gia' prescelto. Siffatta metodologia di per se sola la dice lunga sul fumus persecutionis. Già insito nella costruzione di una accusa manifestamente infondata, esso è innegabile allorché, in un contesto minatorio,come quello legato a scarcerazioni anche immediate di chi si fosse reso disponibile a rendere le dichiarazioni desiderate dagli inquirenti,si riesca nel tentativo o semplicemente si tenti di selezionare le notizie di reato e di dotarle di un contenuto piuttosto che un altro. Se in tutto questo non è ravvisabile neppure "l'ombra" di un intento persecutorio allora diciamo pure che il fumus persecutionis è qualcosa di indefinibile,di inaccertabile, di inavvistabile e cioè è un qualcosa che praticamente non esiste. Anche questo naturalmente lo si può decidere per ragioni politiche le più diverse,ma non per ragioni di verità e giustizia. Aggiungo che non saprei dire,almeno allo stato delle cose,che uso sia stato fatto,e se sia stato fatto,delle intercettazioni telefoniche e d'altri metodi d'ascolto. E' ben possibile che tutto sia perfettamente regolare. Tuttavia non sono il solo ad aver avvertito la presenza come di una "mano invisibile", irresponsabile,illegale, che, come spesso avviene nelle situazioni confuse e traumatiche,si è mossa e si muove allo scopo di intorbidire le acque e di rendere più agevole l'organizzazione e lo svolgimento di manovre di varia natura. Sta comunque di fatto che una "mano invisibile" in questi mesi trascorsi, simulando furti, ha provveduto a perquisire il mio ufficio, uffici di mia moglie, di mio figlio, locali della famiglia della mia segretaria , e, nella stessa notte, la casa dove abitava mia figlia a Milano ed il suo ufficio di Roma. Il "fumus persecutionis" ritorna ancora ben visibile quando l'indagine viene sistematicamente sottratta alla riservatezza ed al segreto istruttorio e consegnata, attività per attività, e sempre con grande e singolarissima tempestività e con dovizia di particolari e di indiscrezioni di varia natura, all'informazione e alla stampa, dalla quale sono poi derivate molto spesso ed in molteplici casi deformazioni e distorsioni di portata e di genere vario e variopinto. Questo riguarda non solo i verbali degli interrogatori, o spezzoni dei verbali, subito diffusi,quando contenevano riferimenti ed accuse dirette e indirette contro di me. Riguarda persino le deposizioni testimoniali, la cui lettura è vietata anche al difensore della persona indagata, che, invece, in alcuni casi, sono state integralmente riferite alla stampa e da questa puntualmente pubblicate. E così contro di me sono state deliberatamente alimentate nei mesi scorsi violente campagne denigratorie, di tale brutalità e di tale natura, da non avere precedenti almeno fino a quel momento, in tutta la storia della Nazione. Ho retto le maggiori responsabilità del Partito Socialista per sedici anni guidandolo in dieci campagne elettorali,ed egualmente per un lungo periodo ho partecipato e ne ho sorretto le responsabilità di governo. Delle attività della struttura nazionale del Partito ivi comprese quelle amministrative mi sono assunto tutte le responsabilità politiche e morali di fronte al Parlamento ed al Paese come era mio dovere di fare ma ho respinto e torno a respingere accuse che considero assolutamente infondate,pretestuose e strumentali ed una campagna di aggressione personale e politica che tutti hanno potuto vedere e valutare. Le accuse partono dal presupposto che il Segretario politico del PSI sia, non il "percettore materiale", indicati questi nell'amministratore, in suoi collaboratori o fiduciari, ma uno che, alla fine, leggo testualmente: "riceve". A tutte le attività che vengono descritte,iniziali e finali, e rispetto alle quali vengono elevate gravi imputazioni, il Segretario politico nazionale del Partito Socialista non ha invece mai partecipato in nessuna forma,in nessuna forma né diretta né indiretta è intervenuto e in tutti i casi citati, per favorire l'appalto di lavori, l'assegnazione di forniture, l'acquisto di immobili e quant'altro. Ad un certo punto venivano complessivamente elencati nelle accuse i nomi di quarantuno imprenditori e dirigenti di società private con i quali avrei concorso in azioni esecutive di disegni criminosi. Di questi quarantuno imprenditori e dirigenti di aziende, 38 io non li ho mai nè visti nè conosciuti, e con uno solo di loro ho intrattenuto nel tempo rapporti di amicizia. Vengono poi elencate 44 società di diversi settori produttivi in favore delle quali io sarei intervenuto in concorso di attuazione di disegni criminosi. Non sono mai intervenuto, ed in tutti i casi citati,e in nessuna occasione, in favore di nessuna di queste 44 società nè ho intrattenuto rapporti con alcuna di esse,i loro uffici,le loro strutture e per nessuna ragione, nè, per questo motivo, con i "pubblici ufficiali" citati anche se spesso non nominati. Rispetto alla mia posizione i pubblici ministeri non hanno ricostruito fatti,ma solo presupposto un teorema che hanno tentato di supportare con atti di indagine adempiuti nell'ambito complessivo dell'intera inchiesta. Ma, in tutto l'insieme, non e' stato neppure avvicinato il livello minimo della garanzia di fondatezza. La sostanza delle accuse che mi vengono rivolte si basa solo su congetture e falsi sillogismi. Soprattutto una serie di condotte e di miei comportamenti che il PM si è preoccupato di evidenziare non raggiungono in nessun modo il livello della rilevanza penale come attività di partecipazione e quindi non possono costituire il fondamento di una responsabilità per concorso, ciò che rappresenta l'aspetto essenziale dell'intera impostazione accusatoria. Dei reati per i quali e' stata formulata richiesta di autorizzazione a procedere, io dovrei rispondere non quale autore materiale,ma come concorrente alla stregua dell'art.110 c.p.. L'argomento merita approfondimento, perché, anche a volere tenere ferme le coordinate in fatto postulate dal teorema che viene disegnato, la fattispecie concorsuale non può dirsi realizzata in base a regole di buon senso, ancor prima che giuridiche. La responsabilità penale a titolo di concorso, infatti,è rigorosamente legata al principio della personalità di cui al comma 1 dell'art.27 Cost.. Dal lato del c.d. concorso morale,si ritiene principio univocamente acquisito che non possa essere mai la mera posizione occupata da un soggetto a determinarne il coinvolgimento: il presidente o l'amministratore delegato di una S.p.A., il capo di una amministrazione pubblica, e via dicendo, non possono rispondere penalmente del fatto degli altri organi o persone in cui si articola l'organizzazione,nemmeno in materia contravvenzionale o colposa, secondo l'insegnamento giurisdizionale comunemente ricevuto, quando siano individuabili gli estremi della delega di funzioni. La tesi dei pubblici ministeri, se fondata,dovrebbe di per sè sola infatti giustificare la sistematica chiamata in causa di tanti altri segretari politici dei Partiti, perchè secondo quella tesi, il Segretario politico di quel Partito, in ragione della sua carica, sapeva o doveva supporre che finanziamenti illegali o irregolari erano diventati una fonte consistente di sostegno economico dei Partiti. Quando si tratta di impostare problemi di responsabilità penale, dunque a titolo di concorso morale, per fattispecie di concussione, corruzione, ricettazione od altro,rispetto alle quali l'impianto accusatorio individua in altri, con sicurezza, l'autore materiale o comunque l'attuatore della condotta tipica, è tecnicamente impossibile affermare che, stante la posizione di Segretario politico del Partito e perciò solo, come sostanzialmente dichiarato nella richiesta di autorizzazione a procedere, non possa che in maniera automatica espandersi le responsabilità ai reati presupposti. La verità è che è tecnicamente impraticabile ogni fattispecie concorsuale a mio carico per il titolo morale immaginato dalla magistratura milanese. In punto di diritto giurisprudenza, dottrina e prassi giuridica depongono univocamente in questa direzione. Da essa gli organi giudiziari inquirenti si sono allontanati per dimostrare una volta di più il fumus persecutionis coltivato nei miei confronti, tenuto conto della mia posizione politica ed istituzionale. Prima di compiere il tragico gesto di togliersi la vita Sergio Moroni, deputato socialista, ha dichiarato: "E' indubbio che stiamo vivendo mesi che segneranno un cambiamento radicale sul modo di essere del nostro Paese, della sua democrazia, delle istituzioni che ne sono l'espressione. Al centro sta la crisi dei Partiti (di tutti i Partiti) che devono modificare sostanza e natura del loro ruolo". "Eppure non è giusto che ciò avvenga attraverso un processo sommario e violento per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito di vittime sacrificali. Né mi è estranea la convinzione che forze oscure coltivino disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la "pulizia"". "Un grande velo di ipocrisia condivisa da tutti ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei Partiti e i loro sistemi di finanziamento. C'è una cultura tutta italiana nel definire regole e leggi che si sa non potranno essere rispettate, muovendo dalla tacita intesa che insieme si definiranno solidarietà nel costruire le procedure e i comportamenti che violano queste stesse regole". "Né mi pare giusto - continua Moroni - che una vicenda tanto importante e delicata si consumi quotidianamente sulla base di cronache giornalistiche e televisive, a cui è consentito distruggere immagine e dignità personale di uomini solo riportando dichiarazioni e affermazioni di altri. Mi rendo conto che esiste un diritto all'informazione ma esistono anche i diritti delle persone e delle loro famiglie". "A ciò si aggiunge la propensione allo sciacallaggio di soggetti politici che, ricercando un utile meschino,dimenticano di essere stati per molti versi protagonisti di un sistema rispetto al quale oggi si ergono a censori". "Non credo che questo nostro Paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da "pogrom"nei confronti della classe politica, i cui limiti sono noti ma che pure ha fatto dell'Italia uno dei Paesi più liberi". Quando Sergio Moroni si uccise un magistrato inquirente sentenziò con parole ignobili: "Si può morire anche di vergogna". Dopo aver letto alla Camera la sua lettera-testamento, il Presidente rivolse a tutti un invito alla riflessione. Ebbene penso che questa riflessione dovrebbe ricondurre direttamente ed essenzialmente al valore della giustizia che deve essere rigorosa ma anche e sempre serena, equilibrata, obiettiva, umana. Nel mio caso la Camera può concedere o negare l'autorizzazione a procedere dopo aver accertato se nei miei confronti è stata violata una norma, o sono state violate più norme che proteggono i miei diritti di parlamentare e i miei diritti di cittadino. Mi auguro che gli onorevoli deputati vorranno farlo, nel modo più franco e libero, con tutto il senso di giustizia di cui sono capaci."

LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. SILVIO BERLUSCONI.

Silvio Berlusconi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.  Silvio Berlusconi (Milano, 29 settembre 1936) è un politico e imprenditore italiano, conosciuto anche come il Cavaliere, soprannome assegnatogli dal giornalista sportivo Gianni Brera in ragione dell'onorificenza a cavaliere del lavoro conferitagli nel 1977 dal presidente della Repubblica Giovanni Leone e cui ha rinunciato nel 2014. Ha iniziato la sua attività imprenditoriale nel campo dell'edilizia. Nel 1975 ha costituito la società finanziaria Fininvest e nel 1993 la società di produzione multimediale Mediaset. Nell'ottobre dello stesso anno scende in politica lanciando il movimento politico di centro-destra Forza Italia, strutturatosi nel gennaio successivo, confluito nel 2008 ne Il Popolo della Libertà e poi rifondato nel 2013. Eletto alla Camera dei Deputati nel marzo 1994, è stato confermato nelle successive quattro legislature, mentre nella XVII, a seguito delle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio 2013, è stato eletto per la prima volta senatore a Palazzo Madama. Ha ottenuto quattro incarichi da presidente del Consiglio: il primo nella XII legislatura (1994), due consecutivi nella XIV (2001-2005 e 2005-2006); ed infine nella XVI (2008-2011). Con 3340 giorni complessivi nel ruolo di presidente del Consiglio è il politico che è durato più a lungo nei governi dell'Italia repubblicana, superato in epoche precedenti solo da Benito Mussolini e Giovanni Giolitti; inoltre ha presieduto i due governi più duraturi dalla proclamazione della Repubblica. Secondo la rivista americana Forbes, con un patrimonio personale stimato in 7,6 miliardi di dollari USA (circa 6,7 miliardi di euro) Berlusconi è nel 2015 il quinto uomo più ricco d'Italia e il 179º più ricco del mondo. È stato imputato in oltre venti procedimenti giudiziari. Il 1º agosto 2013 è stato condannato a quattro anni di reclusione (con tre anni condonati dall'indulto del 2006) per frode fiscale con sentenza passata in giudicato nel cosiddetto "processo Mediaset". Il 19 ottobre dello stesso anno gli è stata irrogata la pena accessoria dell'interdizione ai pubblici uffici per due anni a seguito dello stesso processo. A causa della suddetta condanna il 27 novembre 2013 il Senato della Repubblica ha votato a favore della sua decadenza dalla carica di senatore. Berlusconi ha quindi cessato di essere un parlamentare dopo quasi vent'anni di presenza ininterrotta nelle due camere.

Biografia. È il primogenito di una famiglia della piccola borghesia milanese. Ha trascorso la sua infanzia nel Basso Varesotto, in primo luogo a Saronno, poi a Lomazzo durante l'occupazione tedesca mentre suo padre si era rifugiato in Svizzera. Il padre Luigi (Saronno, 1908 – Milano, 1989) era impiegato alla Banca Rasini della quale nel 1957 divenne procuratore generale; la madre Rosa Bossi (Milano, 1911 – 2008) era casalinga e in precedenza aveva lavorato come segretaria alla Pirelli. Oltre a Silvio dal loro matrimonio nacquero Maria Antonietta (Milano, 1943 – 2009) e Paolo (Milano, 1949). Cresciuto nel quartiere Isola, in via Volturno, nel 1954 conseguì la maturità classica al liceo salesiano Sant'Ambrogio di Milano. Si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza presso l'Università Statale dove, nel 1961, si laureò con lode, discutendo una tesi in diritto commerciale con relatore il professor Remo Franceschelli. La tesi, intitolata Il contratto di pubblicità per inserzione, fu premiata con cinquecentomila lire dall'agenzia pubblicitaria Manzoni di Milano. Dopo la laurea, non svolse il servizio militare. Nel 1964 conobbe Carla Elvira Lucia Dall'Oglio (La Spezia, 1940), che sposò il 6 marzo 1965 e dalla quale ebbe in seguito i figli: Maria Elvira detta Marina (Milano, 10 agosto 1966) e Pier Silvio (Milano, 28 aprile 1969). Nel 1980, al Teatro Manzoni di Milano conobbe l'attrice Veronica Lario, nome d'arte di Miriam Bartolini (Bologna, 1956), intraprendendo subito con lei una relazione extraconiugale, facendola trasferire a vivere insieme alla madre di lei nella sede operativa della Fininvest, presso villa Borletti di via Rovani a Milano. Nel 1985 Berlusconi divorziò da Carla Dall'Oglio e ufficializzò la relazione con Veronica, che sposò con rito civile nel 1990, dopo la nascita dei figli: Barbara (1984), Eleonora (1986) e Luigi (1988). Il 2 maggio 2009 Veronica Lario ha annunciato di voler chiedere la separazione. Nel dicembre 2012 la sentenza di separazione non consensuale depositata al tribunale di Milano pone fine al matrimonio con la Lario e fissa a 3 milioni di euro, l'assegno di mantenimento che Berlusconi deve versarle mensilmente. Tuttavia, gli avvocati difensori del Cavaliere presentano ricorso contro la decisione dei giudici sulla sentenza di primo grado e tale richiesta, viene resa nota e formalizzata nel marzo 2013.

Nel 2012 Berlusconi si è fidanzato con Francesca Pascale, showgirl napoletana classe 1984, tra le fondatrici del club "Silvio ci manchi" e candidata alle elezioni provinciali del 2009 (anche se sin dal gennaio 2011 aveva dichiarato di avere una nuova compagna, pur non rivelandone l'identità). Dal 1974 al 2013 Berlusconi ha avuto la sua residenza ufficiale ad Arcore, presso la settecentesca Villa San Martino, acquistata da Annamaria Casati Stampa di Soncino, figlia ed erede dello scomparso marchese Camillo per tramite dell'avvocato Cesare Previti che sino alla emancipazione era stato suo tutore legale. La villa, passata di mano insieme ad alcuni terreni circostanti per 750 milioni di Lire, fu nel 1983 accettata dalla Cariplo come garanzia per un prestito di circa 7 miliardi di Lire. Dal settembre 2013 risiede ufficialmente a Roma, presso Palazzo Grazioli, in Via del Plebiscito.

Attività imprenditoriale. Edilizia. Dopo le prime saltuarie esperienze lavorative giovanili come cantante e intrattenitore sulle navi da crociera insieme all'amico Fedele Confalonieri e come venditore porta a porta di scope elettriche insieme all'amico Guido Possa, iniziò l'attività di agente immobiliare e, nel 1961, fondò la Cantieri Riuniti Milanesi Srl insieme al costruttore Pietro Canali. Il primo acquisto immobiliare fu un terreno in via Alciati a Milano, per 190 milioni di lire, grazie alla fideiussione del banchiere Carlo Rasini (titolare e cofondatore della Banca Rasini, nella quale lavorava il padre di Silvio). Nel 1963 fonda la Edilnord Sas, in cui è socio d'opera accomandatario, mentre Carlo Rasini e il commercialista svizzero Carlo Rezzonico sono soci accomandanti. In quest'azienda, Carlo Rezzonico fornisce i capitali attraverso la finanziaria Finanzierungsgesellschaft für Residenzen AG di Lugano. Gli anonimi capitali della finanziaria svizzera vengono in parte depositati presso l'International Bank di Zurigo e pervengono alla Edilnord attraverso la Banca Rasini. Nel 1964, l'azienda di Berlusconi apre un cantiere a Brugherio per edificare una città modello da 4 000 abitanti. I primi condomìni sono pronti già nel 1965, ma non si vendono con facilità. Nel 1968 nasce la Edilnord Sas di Lidia Borsani e C. (la Borsani è cugina di Berlusconi), generalmente chiamata Edilnord 2, che acquista 712 000 m² di terreni nel comune di Segrate, dove sorgerà Milano Due, a seguito alla dichiarazione del 1971 con cui il consiglio dei Lavori Pubblici dichiara ufficialmente residenziale il suolo ed a seguito della concessione delle licenze edilizie da parte del comune di Segrate. La vicenda con cui ottenne a Roma il cambio di talune rotte aeree dell'aeroporto di Linate — le cui intollerabili onde sonore, superiori a 100 decibel, rendevano arrischiato l'investimento e difficoltosa la vendita degli appartamenti — fu ricostruita da Camilla Cederna come frutto di un'intensa attività di lobbying presso i Ministeri competenti. Nel 1972 viene liquidata la Edilnord e creata la Edilnord Centri Residenziali Sas di Lidia Borsani, quest'ultima socia accomandante, con i finanziamenti della Aktiengesellschaft für Immobilienlagen in Residenzzentren AG di Lugano. Nel 1973 viene fondata la Italcantieri Srl, trasformata poi in SpA nel 1975, con Silvio Berlusconi quale presidente. I capitali sono di due fiduciarie svizzere e precisamente della Cofigen, legata al finanziere Tito Tettamanti e alla Banca della Svizzera Italiana e della Eti AG Holding di Chiasso, il cui amministratore delegato è Ercole Doninelli. Nel 1974 viene costituita a Roma l'Immobiliare San Martino, amministrata da Marcello Dell'Utri (amico di Berlusconi fin dagli anni universitari), con il finanziamento di due fiduciarie della Banca Nazionale del Lavoro, la Servizio Italia Fiduciaria Spa e la Società Azionaria Fiduciaria. Il 2 giugno 1977, a coronamento di questa ampia e riuscita attività edilizia, Silvio Berlusconi viene nominato cavaliere del lavoro dal presidente della Repubblica Giovanni Leone. Nel gennaio 1978, viene liquidata la Edilnord per dare vita alla Milano 2 Spa, costituita a Segrate dalla fusione con l'Immobiliare San Martino Spa. Televisioni. Dopo l'esperienza in campo edilizio Berlusconi allarga il proprio raggio d'affari anche al settore della comunicazione e dei media. Nel 1976, infatti, la sentenza n. 202 della Corte costituzionale apre la strada all'esercizio dell'editoria televisiva, fino ad allora appannaggio esclusivo dello Stato, anche ad emittenti locali. Nel 1978, Berlusconi rileva Telemilano dal fondatore Giacomo Properzj. Si tratta di una televisione via cavo, operante dall'autunno del 1974 nella zona residenziale di Milano 2. A tale società due anni dopo viene dato il nome di Canale 5 ed assume la forma di rete televisiva a livello nazionale, comprendente più emittenti. Sempre nel 1978, Berlusconi fonda Fininvest, una holding che coordina tutte le varie attività dell'imprenditore. Il canale nel 1981 trasmette il Mundialito, un torneo di calcio fra nazionali sudamericane ed europee, compresa quella italiana. Per tale evento, nonostante gli iniziali pareri sfavorevoli da parte di ministri del governo Forlani, ottiene dalla RAI l'uso del satellite e la diretta per la trasmissione in Lombardia, mentre nel resto d'Italia l'evento viene trasmesso in differita. A partire dal 1981, Berlusconi inizia ad utilizzare la propria rete di emittenti locali come se fosse un'unica emittente nazionale: si registra con un giorno d'anticipo il palinsesto e le pubblicità e li si trasmette il giorno seguente in contemporanea in tutta Italia. Nel 1982 il gruppo si allarga con l'acquisto di Italia 1 dall'editore Edilio Rusconi e di Rete 4 nel 1984 dal gruppo editoriale Arnoldo Mondadori Editore (all'epoca controllato dall'editore Mario Formenton). Nel 1984 i pretori di Torino, Pescara e Roma oscurano le reti Fininvest per violazione della legge che proibiva alle reti private di trasmettere su scala nazionale. L'azione giudiziaria viene fermata dopo pochi giorni dal governo guidato da Bettino Craxi che con un apposito decreto legge legalizza la situazione della Fininvest. Il gruppo Fininvest riesce perciò, seppur con strumenti non legali per la legislazione di quegli anni, a spezzare l'allora monopolio televisivo RAI. Nel 1990 fu la Legge Mammì a stabilizzare le situazione presente rendendo definitivamente legale la diffusione a livello nazionale di programmi radiotelevisivi privati. Negli anni seguenti il gruppo si diffonde in Europa: in Francia fonda, nel 1986, La Cinq (chiusa nel 1992), in Germania, nel 1987, Tele 5 (si legge Telefünf; chiuderà nel 1992, per poi riaprire nel 2002), in Spagna Telecinco (fondata nel 1990 e ancora oggi attiva). Editoria e altri media. Nel campo editoriale diventa, ed è, il principale editore italiano nel settore libri e periodici; nel gennaio 1990 acquisisce la maggioranza azionaria di Mondadori (in cui è confluita negli anni novanta la Silvio Berlusconi Editore, fondata dal magnate milanese negli anni ottanta e attiva nella stampa periodica, e che comprò TV Sorrisi e Canzoni) con una manovra che causerà un contenzioso (vedi Lodo Mondadori) e la Giulio Einaudi Editore (comprata dalla prima), e di alcune rilevanti case minori (Elemond, Sperling & Kupfer, Grijalbo, Le Monnier, Pianeta scuola, Frassinelli, Electa Napoli, Riccardo Ricciardi editore, Editrice Poseidona). Nel campo della distribuzione audiovisiva, Berlusconi è stato socio dal 1994 al 2002, attraverso Fininvest, di Blockbuster Italia. Controlla inoltre il gruppo Medusa Film. Nel 2007, Berlusconi, tramite Trefinance (una controllata del gruppo Fininvest), ha finanziato OVO s.r.l., una media company il cui progetto è realizzare un'enciclopedia video formata da centinaia di brevi clip di carattere enciclopedico (storia, fisica, arte, letteratura, biografie, ecc.); uno dei canali della stessa doveva chiamarsi OVOpedia. Il progetto, sebbene non fosse ancora stato reso pubblico (il lancio era previsto nel primo trimestre del 2009), è stato accusato di revisionismo, perché sarebbe stato teso a controbattere la storiografia dominante che secondo Berlusconi sarebbe controllata dalla sinistra; la società è attualmente in liquidazione. Grande distribuzione e assicurazioni. Berlusconi effettua anche investimenti nel settore delle grandi distribuzioni, acquisendo il gruppo Standa dalla Montedison nel 1988 e i Supermercati Brianzoli dalla famiglia Franchini nel 1991. Nel 1995 il gruppo Standa vende Euromercato al gruppo Promodès-GS. Nel 1998 scorpora e vende il gruppo Standa; la parte "non alimentare" al gruppo Coin e la parte "alimentare" a Gianfelice Franchini, ex proprietario dei Supermercati Brianzoli. A tal proposito Berlusconi dichiarerà in seguito di esser stato costretto a vendere la Standa successivamente alla sua entrata in politica, affermando che in comuni gestiti da giunte di centrosinistra non gli concedevano le necessarie autorizzazioni per aprire nuovi punti vendita. Secondo i critici di Berlusconi l'acquisizione e la successiva vendita della Standa sarebbe stata determinata dalla volontà di creare una liquidità per il gruppo Fininvest, che attraversava un difficile periodo tra il 1990 e il 1994 (egli stesso aveva asserito di essere esposto con le banche per una cifra in lire di diverse migliaia di miliardi). Il Gruppo Fininvest, con le partecipazioni nelle società Mediolanum e Programma Italia, ha una forte presenza anche nel settore delle assicurazioni e della vendita di prodotti finanziari. Sport. Dopo un iniziale interessamento all'acquisto dell'Inter, che secondo l'opinione di Sandro Mazzola, del direttore sportivo Giancarlo Beltrami e dell'avvocato Prisco si concretizzò nel tentativo di comprare la società prima da Fraizzoli nel 1978 e poi da Pellegrini nel 1986, dal 20 febbraio 1986 Silvio Berlusconi è proprietario dell'Associazione Calcio Milan, club calcistico del quale resse la presidenza dal giorno dell'acquisto fino al 21 dicembre 2004, quando lasciò la carica a seguito dell'approvazione di una legge disciplinante i conflitti d'interesse. Ha ricoperto di nuovo la carica dal 15 giugno 2006 all'aprile 2008 quando è stato rieletto alla presidenza del Consiglio dei ministri. Sotto la sua gestione il Milan si è laureato 8 volte campione d'Italia, 5 volte campione d'Europa e 3 volte campione del mondo; ha vinto inoltre 6 Supercoppe nazionali e 5 europee nonché una Coppa Italia, per un totale di 28 trofei ufficiali in 28 anni. Nei primi anni novanta, Berlusconi estese l'attività sportiva del Milan, cambiandone il nome in Athletic Club (per mantenere l'acronimo) e trasformandolo in società polisportiva, costituita comprando i titoli sportivi di società lombarde di varie discipline quali baseball, rugby, hockey su ghiaccio, pallavolo, e acquistando per importi mai visti in precedenza i migliori giocatori a disposizione. La polisportiva si sciolse nel 1994, dopo la vittoria elettorale, e le squadre in essa accorpate (Amatori Milano di rugby, Gonzaga Milano, già Mantova, di pallavolo, Devils Milano di hockey e Milano Baseball) seguirono destini diversi.

Assetto societario. All'atto di entrare in politica, Silvio Berlusconi ha lasciato tutte le cariche sociali che ricopriva nelle sue imprese, rimanendo proprietario. Nel 2011 Forbes stima tutto il patrimonio del Cavaliere in 7,8 miliardi di dollari americani, in calo rispetto ai 9 miliardi del 2010. Questa stima è fatta tenendo conto che Silvio Berlusconi risulta in possesso del 99,5% delle azioni della società Dolcedrago S.p.A (il restante 0,5% è diviso in parti uguali tra i figli Marina e Piersilvio). La Dolcedrago possiede e gestisce le principali proprietà immobiliari di Berlusconi, tra cui la Villa San Martino ad Arcore, due ville a Porto Rotondo (le confinanti Villa Certosa e Villa Stephanie), una a Macherio, Lesa, Lesmo e alle Bermuda. La Dolcedrago S.p.A controlla anche le quote di maggioranza di altre piccole e medie società immobiliari italiane e detiene il totale controllo della Videodue S.r.l, società che gestisce i diritti di 106 film. Silvio Berlusconi possiede inoltre il 61% di Fininvest. La quota restante è nelle mani dei cinque figli (7,65% a testa per Marina e Piersilvio e 7,143% a testa a Barbara, Eleonora e Luigi). Fininvest controlla a sua volta Mediaset (38%), Mondadori (50%), A.C. Milan (100%), Mediolanum (35%) e Teatro Manzoni (100%). Intestati alla persona di Silvio Berlusconi risultano inoltre cinque appartamenti a Milano (di cui uno in comproprietà), un terreno in Antigua e Barbuda e tre imbarcazioni.

Attività politica. Le primissime prese di posizione politiche di Berlusconi in pubblico risalgono al luglio 1977, allorché sostenne la necessità che il Partito Comunista Italiano (che l'anno precedente aveva superato il 34% dei voti) "rimanesse confinato all'opposizione dall'azione di una Democrazia Cristiana trasformata in modo da recuperare al governo il Partito Socialista Italiano", alla segreteria del quale era asceso nel luglio del 1976 Bettino Craxi. L'incontro tra i due era stato propiziato a metà anni settanta dall'uomo di fiducia di Craxi, l'architetto milanese Silvano Larini. Craxi e il PSI mostreranno per tutti gli anni successivi una significativa apertura verso le TV private, culminata con il varo del cosiddetto "decreto Berlusconi" del 16 ottobre 1984 e con la sua reiterazione attraverso il "Berlusconi bis" nel successivo 28 novembre. Nel corso degli anni ottanta e fino al 1992, Berlusconi sosterrà sui suoi network con molteplici spot elettorali il PSI e l'amico Bettino. Nel 1984, Craxi è padrino di battesimo di Barbara Berlusconi. Nel 1990, alla celebrazione del matrimonio tra Veronica Lario e Silvio Berlusconi, Anna Craxi (moglie del leader socialista) e Gianni Letta sono i testimoni di nozze per la sposa, mentre Craxi e Fedele Confalonieri lo sono per lo sposo. Come ulteriore testimonianza della vicinanza di Berlusconi a Craxi, va ricordata la realizzazione di uno spot televisivo di ben 12 minuti, girato dalla regista Sally Hunter e presentato nella primavera del 1992 per essere trasmesso sulle emittenti di Berlusconi nel corso della campagna elettorale, nel quale compare lo stesso Berlusconi vicino ad un pianoforte che, commentando l'esperienza dei governi presieduti da Bettino Craxi (1983-1987), dichiara: «Ma c'è un altro aspetto che mi sembra importante, ed è quello della grande credibilità politica di quel governo. La grande credibilità politica sul piano internazionale, che è - per chi da imprenditore opera sui mercati - qualcosa che è necessario per poter svolgere un'azione positiva in ambienti anche politici sempre molto difficili per noi italiani, e qualche volta addirittura ostili». Infine, nell'ultimo periodo politico di Craxi (1993), in occasione dell'ennesima richiesta di autorizzazione a procedere avanzata dalla magistratura contro l'ex leader socialista e respinta dalla Camera, Berlusconi espresse pubblicamente la propria solidale soddisfazione. Nel novembre 1993, in occasione delle elezioni comunali di Roma, intervistato all'uscita dell'Euromercato di Casalecchio di Reno, auspicò la vittoria di Gianfranco Fini, all'epoca segretario del Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale, che correva per la carica di sindaco contro Francesco Rutelli. Nell'inverno del 1993, in seguito al vuoto politico che si era formato dopo lo scandalo di Tangentopoli, Berlusconi decide di scendere direttamente in prima persona nell'arena politica italiana. Dall'esperienza dei club dell'Associazione Nazionale Forza Italia, guidati da Giuliano Urbani e dalla diretta discesa in campo di funzionari delle sue imprese, soprattutto di Publitalia '80, nasce così il nuovo movimento politico Forza Italia, uno schieramento di centrodestra che, nelle intenzioni, deve restituire una rappresentanza agli elettori moderati e contrapporsi ai partiti di centrosinistra. E proprio il 26 gennaio 1994, giorno della sua discesa, rilascia una dichiarazione preregistrata a tutte le televisioni e in cui afferma la sua scelta con queste parole:« L'Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato da mio padre e dalla vita, il mio mestiere d'imprenditore. Qui ho anche appreso, la passione per la libertà. Ho scelto di scendere in campo, e di occuparmi della cosa pubblica, perché non voglio vivere in un Paese illiberale governato da forze immature, e da uomini legati a doppio filo, a un passato politicamente ed economicamente fallimentare.» Allo stesso tempo Berlusconi dà le dimissioni da alcuni incarichi di imprenditore presso il gruppo da lui fondato (affidando la gestione ai figli o a persone di fiducia e mantenendone la proprietà). L'eleggibilità di Berlusconi è anche oggetto di dibattito, in relazione all'articolo 10 del D.P.R. n. 361 del 1957, secondo cui «non sono eleggibili [...] coloro che [...] risultino vincolati con lo Stato [...] per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica». Nel luglio 1994 la Giunta per le elezioni (con la presenza di due terzi dei deputati) respinge a maggioranza tre ricorsi che lamentavano l'illegittimità dell'elezione di Berlusconi. La stessa questione verrà ridiscussa nell'ottobre 1996 dalla Giunta per le elezioni che, a maggioranza, delibererà di archiviare i reclami per "manifesta infondatezza". Sovvertendo le previsioni espresse dai principali quotidiani nazionali, le elezioni politiche del 27 marzo 1994 si concludono con la vittoria elettorale di Forza Italia in corsa con la Lega Nord di Umberto Bossi nelle regioni settentrionali e l'MSI di Gianfranco Fini nel resto d'Italia. Negli ultimi mesi di campagna elettorale, alcuni fra i volti più famosi delle reti Fininvest dichiarano in televisione il loro appoggio politico, all'interno dei programmi di intrattenimento da loro condotti, scatenando reazioni che in seguito determineranno l'emanazione delle regole per la cosiddetta par condicio elettorale. La prima esperienza di governo di Silvio Berlusconi, avviata il 10 maggio 1994, ha però vita dura e breve, e si conclude nel dicembre dello stesso anno, quando la Lega Nord ritira l'appoggio al Governo e avvia una violenta campagna ai danni dell'ex alleato Berlusconi, esplicitamente accusato di appartenere alla mafia. Il 22 dicembre Berlusconi rassegna le proprie dimissioni al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Al suo posto viene formato un governo tecnico guidato dal ministro del Tesoro uscente, Lamberto Dini. Berlusconi, che aveva chiesto invano le elezioni anticipate, non sosterrà il nuovo governo. Negli anni successivi, Berlusconi attribuirà la responsabilità della caduta del suo governo all'inaffidabilità di Bossi. In seguito, anche per il riavvicinamento con la Lega Nord in occasione delle elezioni politiche del 2001, accuserà la magistratura e Scalfaro, il quale, secondo lo stesso Berlusconi, avrebbe indotto Bossi a ritirare l'appoggio all'esecutivo, compiendo «un golpe». Le successive elezioni sono vinte da L'Ulivo (con l'appoggio esterno di Rifondazione Comunista), la coalizione di centrosinistra capeggiata da Romano Prodi. Berlusconi guida l'opposizione di centrodestra fino al 2001. Durante la legislatura collabora con Massimo D'Alema alla Bicamerale, che si occupa principalmente di riforme costituzionali e giudiziarie (per approfondimenti si veda la voce sulle riforme giudiziarie dell'Ulivo). Le elezioni del 2001 portano alla vittoria la Casa delle Libertà, una coalizione capeggiata da Silvio Berlusconi e comprendente, oltre a Forza Italia, i principali partiti di centrodestra (inclusa la Lega Nord), mentre il centrosinistra si presenta diviso. Durante la campagna elettorale Berlusconi sigla, presso la trasmissione Porta a Porta di Bruno Vespa, il cosiddetto Contratto con gli italiani: un accordo fra lui ed i suoi potenziali elettori in cui si impegna, in caso di vittoria, a realizzare ingenti sgravi fiscali, il dimezzamento della disoccupazione, l'avviamento di centinaia di opere pubbliche, l'aumento delle pensioni minime e la riduzione del numero di reati; impegnandosi altresì a non ricandidarsi alle successive elezioni nel caso in cui almeno quattro dei cinque punti principali non fossero stati mantenuti. L'11 giugno Berlusconi viene per la seconda volta nominato presidente del consiglio, dando inizio al Governo Berlusconi II. Durante il secondo semestre del 2003 ricopre la carica di presidente del Consiglio dell'Unione Europea in quanto capo del Governo italiano. Dopo la pesante sconfitta della Casa delle Libertà alle elezioni regionali del 2005, si apre una rapida crisi di governo: Berlusconi si dimette il 20 aprile e dopo due giorni viene varato il Governo Berlusconi III che ricalca in gran parte come composizione e azione politica il precedente Governo Berlusconi II. Il periodo pre-elettorale è infiammato dalla pubblicazione di sondaggi, commissionati prevalentemente dai quotidiani nazionali, che prevedono una vittoria de L'Unione, la coalizione di centrosinistra formatasi a sostegno della ricandidatura di Romano Prodi alla carica di capo del governo, con circa il 5% di vantaggio rispetto alla Casa delle Libertà. Solo tre sondaggi elaborati su commissione di Berlusconi da una società statunitense attribuiscono un lieve vantaggio per la Casa delle Libertà. A marzo 2006, durante la visita ufficiale negli Stati Uniti, è invitato a pronunciare un discorso ai due rami del Congresso degli Stati Uniti riuniti in seduta comune, come era precedentemente accaduto a De Gasperi, Craxi e Andreotti. Durante l'orazione, il presidente del Consiglio ringrazia gli Stati Uniti per la liberazione dell'Italia, durante la seconda guerra mondiale. Nel dicembre 2010 un documento dell'ambasciata americana in Italia, risalente a pochi giorni prima dell'incontro con Bush dell'ottobre 2005 e diffuso da WikiLeaks, ha rivelato che quell'intervento al Congresso era stato esplicitamente chiesto fin dall'autunno da Berlusconi, per fini di campagna elettorale, e che egli avrebbe puntato nella campagna elettorale su una politica estera pro-USA contrapposta a quella europeista di Prodi, soprattutto sulla questione irakena. Silvio Berlusconi e Romano Prodi si incontrano in due dibattiti televisivi molto seguiti, andati in onda su Raiuno. Berlusconi conclude il secondo dibattito il 3 aprile annunciando, a sorpresa, di voler eliminare l'Imposta Comunale sugli Immobili (ICI) sulla prima casa. Nei giorni successivi, durante la trasmissione Radio anch'io su Radio Uno, promette anche l'eliminazione della tassa sui rifiuti. L'esito delle elezioni del 2006 è caratterizzato da una forte incertezza perdurata fino al termine dello scrutinio delle schede e si risolve con una leggera prevalenza della coalizione di centrosinistra capeggiata da Romano Prodi, che vince le elezioni. Dopo l'esito del voto, Berlusconi inizialmente contesta il risultato delle votazioni denunciando brogli e chiedendo il riconteggio dei voti. Successivamente giudica l'esito un «sostanziale pareggio», e suggerisce di formare un governo istituzionale di coalizione ispirato alla "Große Koalition" tedesca, proposta però rifiutata dai partiti del centrosinistra e dalla Lega Nord. Prodi viene quindi nominato presidente del consiglio sostenuto dalla coalizione di centrosinistra. Le Giunte per le elezioni, attivatesi per il riconteggio delle schede bianche e nulle, nel settembre 2007 confermeranno il risultato elettorale. Tuttavia Berlusconi non riconoscerà la vittoria dell'avversario. Nel novembre del 2006, annunciando dal palco di un convegno a Montecatini Terme l'intenzione di "convincere tutte le forze politiche della Casa delle libertà a fondersi in un unico grande partito della libertà", viene colto da improvviso malore e conseguente breve perdita dei sensi. Dal 16 al 18 novembre 2007 Berlusconi ha organizzato una petizione popolare per richiedere elezioni anticipate, con l'obiettivo di raccogliere almeno 5 milioni di firme. Il risultato comunicato da Sandro Bondi è stato di 7.027.734, sebbene ci sia chi ha avanzato dubbi sulla cifra e sulla verifica della regolarità delle adesioni via Internet e via SMS. Con questa cifra alla mano, il 18 novembre durante un comizio in piazza San Babila a Milano Berlusconi ha annunciato lo scioglimento di Forza Italia e la nascita del Popolo della Libertà, un nuovo soggetto politico contro i «parrucconi della politica», che fonderà insieme a Gianfranco Fini. Il giorno successivo, in una conferenza stampa tenuta a Roma in Piazza di Pietra ha sostenuto che «il bipolarismo […] nella presente situazione italiana, con la frammentazione dei partiti che esiste, non è qualcosa che può funzionare per il governo del Paese» e ha dichiarato la sua disponibilità a trattare per la realizzazione di un sistema elettorale proporzionale puro con sbarramento alto per evitare il frazionamento dei partiti. Berlusconi ha affermato che il nuovo partito «intende rovesciare la piramide del potere» e che la scelta del nome, dei valori, dei programmi, dei rappresentanti e del leader del nuovo soggetto politico spetta ai cittadini e non alle segreterie. Una successiva petizione popolare tenutasi il 1º e 2 dicembre 2007 ha stabilito, con il 63,14% delle preferenze, che il nome di tale formazione politica fosse Il Popolo della Libertà. Tale nome era già stato utilizzato per definire i partecipanti alla manifestazione contro il Governo Prodi tenutasi il 2 dicembre 2006 che aveva visto, secondo gli organizzatori, scendere in piazza 2.200.000 persone. Durante la XV Legislatura Berlusconi come deputato è stato l'onorevole più assenteista: 4623 assenze su 4693 votazioni parlamentari. Il 14 aprile 2008 la coalizione formata da Popolo della Libertà, Lega Nord e Movimento per l'Autonomia a sostegno della candidatura di Silvio Berlusconi a presidente del consiglio ha vinto le elezioni politiche con circa il 47% dei voti e ha ottenuto un'ampia maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. Il successivo 8 maggio, con il giuramento nelle mani del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Berlusconi ha inaugurato il suo quarto governo. Il 30 agosto 2008 il leader libico Muammar Gheddafi e Berlusconi hanno firmato un trattato di Amicizia e Cooperazione nella città di Bengasi. Tale trattato offre una cornice di partenariato tra i due paesi e comporta il pagamento da parte dell'Italia di 5 miliardi di dollari (tramite esborso di 250 milioni di dollari all'anno per 20 anni) alla Libia come compensazione per l'occupazione militare. In cambio, la Libia prenderà misure per combattere l'immigrazione clandestina dalle sue coste, e favorirà gli investimenti nelle aziende italiane. Il trattato è stato ratificato dall'Italia il 6 febbraio 2009 e dalla Libia il 2 marzo, durante una visita di Berlusconi a Tripoli. Il 29 marzo 2009 Silvio Berlusconi viene eletto all'unanimità e per alzata di mano presidente del Popolo della Libertà. Il 3 febbraio 2010 il premier Silvio Berlusconi, durante la sua visita in Israele, ha tenuto un discorso alla Knesset, il parlamento israeliano: era la prima volta che un Presidente del Consiglio italiano parlava davanti al Parlamento israeliano. Nel suo intervento, Berlusconi ha definito «un'infamia» le leggi razziali del 1938 e ha assicurato che l'Italia guarda al popolo ebraico come a «un fratello maggiore». La sera del 12 novembre 2011, dopo l'approvazione della Legge di stabilità 2012 in entrambe le camere del Parlamento, Silvio Berlusconi, come aveva precedentemente accordato con il capo dello Stato Giorgio Napolitano, sale al Quirinale per rassegnare le dimissioni da presidente del consiglio dei ministri e quelle del suo Governo, a causa della perdita della maggioranza assoluta alla Camera dei deputati e della crisi economica del paese. Dal 16 novembre gli succederà il Governo Monti. Dopo aver presentato formalmente il passaggio di consegne con quest'ultimo atto politico, Berlusconi partecipa come deputato ad alcune iniziative parlamentari diradando però le sue uscite pubbliche. Nel pomeriggio del 24 ottobre 2012 in un comunicato stampa ufficiale, Berlusconi annuncia di non volersi ricandidare alla Presidenza del Consiglio, dando il benestare alle primarie per la scelta del candidato premier del centro-destra per il 16 dicembre. Tuttavia, nelle settimane successive si rincorrono con sempre maggiore insistenza voci che danno Berlusconi pronto a candidarsi nuovamente, suscitando reazioni contrapposte all'interno del mondo politico. Il 6 dicembre 2012 il segretario del PdL Angelino Alfano annuncia la candidatura di Berlusconi alle elezioni politiche del 2013, aggiungendo contestualmente che non si terranno più le primarie del partito. Due giorni dopo, è lo stesso Berlusconi a confermare la sua decisione di scendere nuovamente in campo. Alle successive elezioni la coalizione di centro-destra viene battuta da quella guidata da Pier Luigi Bersani con un scarto di soli 300 000 voti, mentre Berlusconi viene eletto per la prima volta come senatore. Dopo la sconfitta incassata, seppur minima come distacco nelle politiche, e il pesante tonfo uscito dalle urne nelle ultime amministrative, il 29 giugno 2013, Berlusconi annuncia l'intenzione di rifondare Forza Italia come movimento politico autonomo. Il 16 novembre il Consiglio Nazionale del partito ha poi sancito la rinascita di Forza Italia. Il 1º agosto 2013 Berlusconi viene condannato in via definitiva al terzo grado di giudizio dalla Cassazione nel cosiddetto processo Mediaset, iniziato circa 8 anni prima, con l'accusa di frode fiscale, disponendo tuttavia il rinvio alla Corte d'appello di Milano per la rideterminazione della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici. Il 4 ottobre la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato ha votato a favore della decadenza di Berlusconi da senatore per effetto della legge n.235 del 31/12/2012, cosiddetta legge Severino. Il 19 ottobre la Corte d'Appello condanna Berlusconi a due anni di interdizione dai pubblici uffici, accogliendo le richieste dell'accusa e respingendo le tesi della difesa, che dispone il ricorso in Cassazione. Si legge nelle motivazioni della sentenza che l'evasione è aggravata dalla posizione pubblica che il leader del PdL occupa. Il 27 novembre 2013 il Senato convalida la decadenza da senatore di Berlusconi, respingendo nove odg presentati da Forza Italia in contrapposizione alla delibera della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato, che si era espressa per la mancata convalida dell'elezione dell'ex premier a senatore nella Circoscrizione Molise, per effetto del decreto legislativo n. 235 del 31 dicembre 2012 ("Legge Severino") Al suo posto andrà il primo dei non eletti, Ulisse Di Giacomo, che ha aderito al Nuovo Centrodestra. Dopo la decadenza da senatore, Berlusconi ha affermato di volersi candidare alle Europee, ma il 18 marzo 2014 la Cassazione ha confermato l'interdizione di 2 anni dai pubblici uffici e, di conseguenza, la sua incandidabilità. Il 19 marzo 2014 si autosospende dalla carica di Cavaliere del Lavoro. Il 15 aprile 2014 il Tribunale di sorveglianza di Milano, in esecuzione della condanna definitiva nel processo Mediaset, dispone per Berlusconi l'affidamento in prova al servizio sociale. L'esecuzione della pena ha termine il successivo 8 marzo 2015 e Berlusconi riacquista la piena libertà, pur permanendo la sua incandidabilità sino al 2019 per effetto della legge Severino.

Aspetti controversi dell'attività imprenditoriale. Aspetti controversi dell'attività edilizia: i finanziamenti di origine ignota. Per avviare la sua attività imprenditoriale nel 1961 nel campo dell'edilizia Berlusconi ottenne una fideiussione dalla Banca Rasini, indicata da Michele Sindona e in diversi documenti della magistratura come la principale banca usata dalla mafia nel nord Italia per il riciclaggio di denaro sporco e fra i cui clienti si potevano elencare Totò Riina, Bernardo Provenzano e Pippo Calò. Nella società fondata da lui e Pietro Canali impegnò 30 milioni di lire, provenienti, secondo quanto da lui affermato, dalla liquidazione anticipata di suo padre Luigi, procuratore della Banca Rasini. Il resto venne da una fideiussione fornita dalla stessa banca. Riguardo invece all'origine di alcuni finanziamenti, provenienti da conti svizzeri alla Fininvest negli anni 1975-1978, dalla fondazione all'articolazione in 22 holding (i quali ammontavano a 93,9 miliardi di lire dell'epoca) Berlusconi, interrogato in sede giudiziaria dal pubblico ministero Antonio Ingroia, si avvalse della facoltà di non rispondere; così, anche a causa delle leggi svizzere sul segreto bancario, non è stato possibile accedere alle identità dei possessori dei conti cifrati inerenti al flusso di capitali transitato all'epoca e in piena disponibilità della Fininvest. Nell'agosto 1998 il quotidiano La Padania pubblicò un'inchiesta nella quale si contestava a Berlusconi l'origine di diversi aumenti di capitale di alcune società da lui possedute, avvenuti tra il 1968 ed il 1977. Al tempo in cui Luigi Berlusconi era procuratore generale della Banca Rasini, questa entrò in rapporti d'affari con la Cisalpina Overseas Nassau Bank, nel cui consiglio d'amministrazione figuravano Roberto Calvi, Licio Gelli, Michele Sindona e monsignor Paul Marcinkus, presidente dello IOR), di fatto la banca dello Stato della Città del Vaticano. Tutti questi personaggi hanno poi avuto un grosso rilievo nella cronaca giudiziaria. Secondo Sindona e alcuni collaboratori di giustizia, la Banca Rasini era coinvolta nel riciclaggio di denaro di provenienza mafiosa (il che spiegherebbe la grossa presenza di finanziatori svizzeri nei primi anni di attività di Berlusconi). Nel 1999 Francesco Giuffrida, vicedirettore della Banca d'Italia a Palermo, durante il processo Dell'Utri, sostenne (in una consulenza da lui eseguita per conto della Procura di Palermo riguardante la ricostruzione degli apporti finanziari intervenuti alle origini del gruppo Fininvest tra gli anni 1975-1984) che non era possibile identificare la provenienza di alcuni fondi Fininvest del valore di 113 miliardi di lire dell'epoca, in contanti e assegni circolari (corrispondenti a circa trecento milioni di euro odierni). La questione riguardava i sospetti di presunti contributi di capitali mafiosi all'origine della Fininvest. Querelato per diffamazione da Mediaset, nel 2007 Giuffrida giunse a un accordo transattivo con i legali di questa, per il quale il consulente della Procura ha riconosciuto i limiti delle conclusioni rassegnate nel proprio elaborato e delle dichiarazioni fornite durante il processo (definite incomplete e parziali a causa della scadenza dei termini di indagine, che non gli avevano permesso di approfondire a sufficienza l'origine di otto transazioni dubbie) e la dichiarazione conseguente che le «operazioni oggetto del suo esame consulenziale erano tutte ricostruibili e tali da escludere l'apporto di capitali di provenienza esterna al gruppo Fininvest». I legali di Giuffrida nel processo per diffamazione hanno comunque rilasciato una dichiarazione, riportata dall'ANSA, in cui sostengono di essere stati avvertiti solo pochi giorni prima (il 18 luglio) del fatto che i legali Mediaset avevano proposto una transazione al loro assistito, di non condividere né quel primo documento ("una bozza di accordo che gli stessi non hanno condiviso, ritenendo che quanto affermato nel documento non corrispondesse alle reali acquisizioni processuali"), né la versione definitiva leggermente corretta ("non sottoscriveranno non condividendo la ricostruzione dei fatti e le affermazioni in esso contenute"). La perizia di Giuffrida era stata ritenuta dai giudici già al tempo basata su "una parziale documentazione", ma era stata ritenuta valida anche in virtù del fatto che non aveva "trovato smentita dal consulente della difesa Dell'Utri", in quanto lo stesso professor Paolo Iovenitti (perito della difesa), davanti alle conclusioni di Giuffrida, aveva ammesso che alcune operazioni erano "potenzialmente non trasparenti" e non aveva "fatto chiarezza sulla vicenda in esame, pur avendo il consulente della difesa la disponibilità di tutta la documentazione esistente presso gli archivi della Fininvest". Tale ritrattazione, contenuta nell'accordo transattivo raggiunto dai legali Mediaset ed il professor Giuffrida a composizione della controversia instaurata dalla Mediaset stessa per diffamazione, non consente comunque di fare chiarezza sulla provenienza dei capitali del gruppo societario facente capo a Silvio Berlusconi. Berlusconi, essendo iscritto alla loggia massonica Propaganda 2 di Licio Gelli aveva accesso a finanziamenti altrimenti inottenibili: la Commissione parlamentare d'inchiesta sulla loggia massonica P2, infatti, affermò, nella relazione di maggioranza firmata da Tina Anselmi, che alcuni operatori appartenenti alla Loggia (tra cui Genghini, Fabbri e Berlusconi), trovarono appoggi e finanziamenti presso le banche ai cui vertici risultavano essere personaggi inclusi nelle liste P2 "al di là di ogni merito creditizio". Il 1º febbraio 2010 Massimo Ciancimino ha raccontato, basandosi su informazioni ricevute direttamente dal padre e su appunti dello stesso ritenuti autentici dalla Polizia scientifica, che il generale dei carabinieri Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu, tra la fine degli anni settanta e gli inizi degli anni ottanta, tramite Marcello Dell'Utri e i costruttori Antonino Buscemi e Franco Bonura aveva investito soldi in Milano 2. Il 18 settembre Il Fatto Quotidiano ha pubblicato un appunto di Vito Ciancimino con su scritto: "In piena coscienza oggi posso affermare che sia io, che Marcello Dell'Utri ed anche indirettamente Silvio Berlusconi siamo figli dello stesso sistema ma abbiamo subito trattamenti diversi soltanto ed unicamente per motivi geografici". Giovanni Scilabra, ex-direttore generale della Banca Popolare di Palermo, in un'intervista ha affermato che Vito Ciancimino e Marcello Dell'Utri nel 1986 gli chiesero un finanziamento di circa 20 miliardi di lire per Berlusconi. La difesa: Le ipotesi di riciclaggio non hanno mai trovato conferma, anche a causa del segreto bancario vigente in Svizzera. Stando alle dichiarazioni dello stesso Silvio Berlusconi, fu la liquidazione del padre Luigi Berlusconi, divenuto poi collaboratore del figlio all'Edilnord e in molti altri momenti cruciali della sua vita imprenditoriale, che servì a finanziare gli inizi della sua attività imprenditoriale e a costituire la metà del capitale dei Cantieri Riuniti Milanesi. Silvio Berlusconi si definisce un "uomo che si è fatto da solo" perché il suo successo - stando a queste dichiarazioni - si basa sulle sue "capacità imprenditoriali", sul suo "fiuto per gli affari", sul suo "lavoro indefesso" e su una serie di "fortuite circostanze", che gli avevano garantito la fiducia dei vari finanziatori. Aspetti controversi delle attività nel campo televisivo. La creazione di un gruppo di canali televisivi appariva di fatto in contrasto con la legge in vigore e con le sentenze della Corte costituzionale che, sin dal 1960 (numero 59/1960), aveva mostrato il suo orientamento in materia. Un tema ripreso anche dal più recente pronunciamento del 1981, dove veniva riaffermata la mancanza di costituzionalità nell'ipotesi di permettere ad un soggetto privato il controllo di una televisione nazionale, considerando questa possibilità, visti gli spazi limitati a disposizione, come una lesione al diritto di libertà di manifestazione del proprio pensiero, garantito dall'articolo 21 della Costituzione. Tre pretori da Roma, Milano e Pescara intervennero il 16 ottobre 1984, disponendo - in base al codice postale dell'epoca - il sequestro nelle regioni di loro competenza del sistema che permetteva la trasmissione simultanea nel Paese dei tre canali televisivi. In conseguenza di ciò e per protesta, le emittenti Fininvest interessate dal provvedimento apposero sul video un messaggio, rinunciando a trasmettere la programmazione canonica. Dopo quattro giorni, il 20 ottobre 1984, il governo di Bettino Craxi intervenne direttamente nella questione aperta dalla magistratura, emanando un decreto legge in grado di rimettere in attività il gruppo. Ma il 28 novembre il Parlamento, invece di convertirlo in legge, lo rifiutò, giudicandolo incostituzionale e permettendo alla magistratura di riprendere l'azione penale contro Fininvest. Craxi varò quindi il 6 dicembre 1984 un nuovo decreto, ponendo al Parlamento la questione di fiducia, che ottenne. La Corte Costituzionale esaminò la legge solo tre anni dopo, mantenendola in vigore, ma sottolineandone la dichiarata transitorietà. L'approvazione del provvedimento fu da alcuni giustificata nella stretta e mai celata amicizia tra Bettino Craxi e Silvio Berlusconi. Secondo altri, invece, il disegno di modernizzazione del Paese del segretario socialista passava per lo scardinamento del monopolio culturale che - attraverso la RAI - era esercitato dalla Democrazia Cristiana sulla programmazione radiotelevisiva nazionale; l'oligopolio a cui si giunse, però, probabilmente non corrispondeva alla ratio con cui la Corte costituzionale nel 1976 (invocando l'articolo 21 della Costituzione) aveva ammesso a latere della concessionaria pubblica un sistema plurale di molteplici reti, distribuite sul territorio a livello esclusivamente locale. Il rapporto con Craxi fu documentato nell'archivio dell'ex-presidente del Consiglio, in cui fu trovata anche una lettera a firma di Berlusconi:« Caro Bettino grazie di cuore per quello che hai fatto. So che non è stato facile e che hai dovuto mettere sul tavolo la tua credibilità e la tua autorità. Spero di avere il modo di contraccambiarti. Ho creduto giusto non inserire un riferimento esplicito al tuo nome nei titoli-tv prima della ripresa per non esporti oltre misura. Troveremo insieme al più presto il modo di fare qualcosa di meglio. Ancora grazie, dal profondo del cuore. Con amicizia, tuo Silvio.» Nel 1990 con la legge Mammì si tornò a legiferare in materia e fu stabilito che non si poteva essere proprietari di più di tre canali, non introducendo però limiti che compromettessero l'estensione assunta dalle reti di Berlusconi. L'approvazione della legge rinnovò forti polemiche e cinque ministri del VI Governo Andreotti si dimisero per protesta. Berlusconi, essendo state decise anche norme volte a impedire posizioni dominanti contemporaneamente nell'editoria di quotidiani, venne costretto a cedere le proprie quote della società editrice de Il Giornale, che vendette al fratello Paolo. Nel 1994, una nuova sentenza della Corte (la numero 420) dichiarò incostituzionale parte della legge, richiamando la necessità di porre limiti più stretti nella concentrazione di possedimenti in campo mediatico. Retequattro e il digitale terrestre. Berlusconi continua ad operare nel settore televisivo (tramite l'azienda Mediaset) con concessioni a valenza transitoria. La proprietà di Mediaset da parte di Berlusconi ha suscitato notevoli polemiche a causa del conflitto di interessi. Tale conflitto traspare per esempio nella gestione della concessione di Retequattro. La situazione della rete televisiva è incerta dalla fine degli anni ottanta, quando in seguito all'acquisto della Mondadori da parte di Fininvest iniziò il dibattito sulla concentrazione dei mezzi di informazione. La giurisprudenza si è pronunciata in più occasioni imponendo al canale di migrare dal sistema analogico a quello satellitare. Le sue frequenze analogiche sarebbero dovute passare a Europa 7, emittente televisiva di proprietà del legittimo vincitore della gara d'appalto Francesco Di Stefano. Tale situazione ha potuto perdurare ulteriormente, dopo che, grazie alla legge Gasparri, Retequattro ha potuto continuare a trasmettere in chiaro fino al completo passaggio al digitale terrestre di tutte le emittenti televisive nazionali e locali. Tale sistema, permettendo la trasmissione di un maggior numero di canali, ha consentito il superamento della limitatezza di frequenze, ma ha lasciato irrisolta la questione legale. Anche in merito alla promozione aggressiva del digitale terrestre da parte del secondo governo Berlusconi sono state sollevate accuse analoghe, ed effettivamente Berlusconi non ha mai partecipato a causa del conflitto di interessi alle votazioni su tale materia. Tuttavia, un'inchiesta dell'Antitrust terminata nel 2006 non ha rilevato alcuna violazione della legge sul conflitto di interessi.

Aspetti controversi dell'attività politica. Appartenenza alla loggia massonica P2. L'iscrizione di Berlusconi alla loggia massonica P2 avviene il 26 gennaio 1978 nella sede di via dei Condotti a Roma, all'ultimo piano del palazzo che ospita il gioielliere Bulgari insieme a Roberto Gervaso; la tessera è la n. 1816, codice E. 19.78, gruppo 17, fascicolo 0625, come risulta dai documenti e dalle ricevute sequestrate ai capi della loggia. Berlusconi ha negato la sua partecipazione alla P2, ma ha ammesso in tribunale di essere stato iscritto. Nell'autunno del 1988 (nel corso di un processo contro due giornalisti accusati di averlo diffamato celebrato dal tribunale di Verona), Berlusconi dichiarò: «Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo comunque che è di poco anteriore allo scandalo. [...] Non ho mai pagato una quota di iscrizione, né mai mi è stata chiesta». Per tali dichiarazioni il pretore di Verona Gabriele Nigro ha avviato nei confronti di Berlusconi un procedimento per falsa testimonianza. Al termine il magistrato veronese ha prosciolto in istruttoria l'imprenditore perché il fatto non costituisce reato. Il sostituto procuratore generale Stefano Dragone ha però successivamente impugnato il proscioglimento e la Corte d'appello di Venezia ha avviato un nuovo procedimento in esito al quale ha stabilito che «Berlusconi, deponendo davanti al Tribunale di Verona nella sua qualità di teste-parte offesa, ha dichiarato il falso» ma che «il reato attribuito all'imputato va dichiarato estinto per intervenuta amnistia». Successivamente dichiarò: "Non sono mai stato piduista, mi mandarono la tessera e io la rispedii subito al mittente: comunque i tribunali hanno stabilito che gli iscritti alla P2 non commisero alcun reato, e quindi essere stato piduista non è titolo di demerito". In altra occasione, ha affermato che la P2 "per la verità allora appariva come una normalissima associazione, come se fosse un Rotary, un Lions, e non c'erano motivi, per quello che se ne sapeva, per pensare che la cosa fosse diversa. Io resistetti molto a dare la mia adesione, e poi lo feci perché Gervaso insistette particolarmente dicendomi di rendere una cortesia personale a lui". Secondo le risultanze della Commissione parlamentare d'inchiesta Anselmi la loggia massonica era "eversiva". Essa fu sciolta con un'apposita legge, la n. 17 del 25 gennaio 1982. La P2 era "un'organizzazione che mirava a prendere il possesso delle leve del potere in Italia attraverso il «piano di rinascita democratica», un elaborato a mezza via tra un manifesto e uno «studio di fattibilità». Conteneva una sorta di ruolino di marcia per la penetrazione di esponenti della loggia nei settori chiave dello Stato, indicazioni per l'avvio di opere di selezionato proselitismo e anche un preventivo dei costi per l'acquisizione delle funzioni vitali del potere". Il Piano programmava la dissoluzione dei partiti e la costruzione di due poli organizzati in club territoriali e settoriali; tendeva al monopolio dell'informazione, al controllo della banche, alla Repubblica presidenziale e al controllo della magistratura da parte del potere politico. Secondo il fondatore della P2 Licio Gelli, Berlusconi "ha preso il nostro Piano di rinascita e lo ha copiato quasi tutto". Anche il vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi rimprovera al primo governo Berlusconi, al momento della sua caduta (1995), di essere "l'attuazione fatta e programmata da Berlusconi del Piano di rinascita democratica proposto dalla Loggia P2 già nel 1976". A partire dal 1985, gli archivi di Gelli testimoniano l'intervento della P2 nell'acquisizione da parte di Berlusconi dell'allora più diffuso settimanale popolare italiano, TV Sorrisi e Canzoni. La transazione, se vista come una delle tante compiute all'interno della stessa intricata ragnatela di imprese legate al sistema creditizio vaticano, risulta quasi solo un passaggio di consegna per la realizzazione del programma. È il giugno del 1983 quando la consociata all'estero Ambrosiano Group Banco Comercial di Managua cede a Berlusconi il 52% del pacchetto azionario della rivista. A interessarsi dell'affare sono i finanzieri Roberto Calvi e Umberto Ortolani. A seguito della presentazione delle conclusioni della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla P2, la loggia fu sciolta per legge in ragione dei «fini eversivi» che si prefiggeva. Gelli fu condannato e arrestato, benché al riguardo ancora nel 1988 Berlusconi dichiarasse al Corriere della Sera di essere «sempre in curiosa attesa di conoscere quali fatti o misfatti siano effettivamente addebitati a Licio Gelli». Al momento del suo ingresso ufficiale in politica (1993), Berlusconi presentò un partito la cui struttura e programma parvero ad alcuni simili a quelle prefigurate nel disegno eversivo della P2: «Club dove siano rappresentati... operatori imprenditoriali, esponenti delle professioni liberali, pubblici amministratori» e solo «pochissimi e selezionati» politici di professione. Il 25 gennaio 2006 la maggioranza parlamentare guidata da Berlusconi, nell'ambito della riforma dei reati d'opinione, approvò una modifica dell'articolo 283 del Codice Penale sulla base del quale era stata ritenuta illecita la P2, riducendo la reclusione minima da 12 a 5 anni e ritenendo necessari degli atti violenti. Il testo precedente era questo: Chiunque commette un fatto diretto a mutare la costituzione dello Stato, o la forma del Governo, con mezzi non consentiti dall'ordinamento costituzionale dello Stato, è punito con la reclusione non inferiore a dodici anni.» (Articolo 283 c.p. prima della novella legislativa del 2006). Il testo modificato è invece il seguente: « Chiunque, con atti violenti, commette un fatto diretto e idoneo a mutare la Costituzione dello Stato o la forma di governo, è punito con la reclusione non inferiore a cinque anni. » (Articolo 283 c.p. dopo la novella legislativa del 2006). Un conflitto di interessi emerge in presenza di proprietari di imprese che vengono ad assumere cariche pubbliche. La contemporanea proprietà di società di assicurazione, di colossi dell'editoria, di imprese turistiche, e così via, acuisce questo problema nella figura di Silvio Berlusconi. Conflitto di interessi. Secondo il settimanale britannico The Economist, Berlusconi, nella sua doppia veste di proprietario di Mediaset e Presidente del Consiglio, nel 2001 deteneva il controllo di circa il 90% del panorama televisivo italiano. Questa percentuale include sia le stazioni da lui direttamente controllate, sia quelle su cui il suo controllo può essere esercitato in maniera indiretta attraverso la nomina (o l'influenza sulla nomina) degli organismi dirigenti della televisione pubblica. Questa tesi viene respinta da Berlusconi che nega di controllare la RAI (malgrado l'apparente contenuto di varie intercettazioni, rivelate dalla stampa nel luglio 2011, prefiguri un'azione di concerto, mirante a favorirlo, messa in atto da una parte dei vertici RAI e Mediaset: la cosiddetta struttura riservata "Delta"). Egli sottolinea il fatto che durante il suo governo siano stati nominati presidente della RAI persone facenti riferimento al centrosinistra, in primo luogo Lucia Annunziata. All'epoca del suo ultimo governo, il presidente della RAI è stato Paolo Garimberti, di centrosinistra, mentre il ruolo di direttore generale venne ricoperto da Lorenza Lei; attualmente tali incarichi, dal luglio 2012 sono stati invece affidati rispettivamente ad Anna Maria Tarantola e al manager Luigi Gubitosi, scelti e nominati dal Governo Monti. Il vasto controllo sui media esercitato da Berlusconi è stato collegato da molti osservatori italiani e stranieri alla possibilità che i media italiani siano soggetti ad una reale limitazione delle libertà di espressione. L'Indagine mondiale sulla libertà di stampa del 2004 (Freedom of the Press 2004 Global Survey), uno studio annuale pubblicato dall'organizzazione americana Freedom House, ha retrocesso l'Italia dal grado di "Libera" (Free) a quello di "Parzialmente libera" (Partly Free) sulla base di due principali ragioni, la concentrazione di potere mediatico nelle mani del Presidente del consiglio Berlusconi e della sua famiglia, e il crescente abuso di potere da parte del governo nel controllo della televisione pubblica RAI. L'indagine dell'anno successivo ha confermato questa situazione con l'aggravante di ulteriori perdite di posizione in classifica. Reporter Senza Frontiere dichiara inoltre che nel 2004, «Il conflitto d'interessi che coinvolge il primo ministro Silvio Berlusconi e il suo vasto impero mediatico non è ancora risolto e continua a minacciare la pluralità d'informazione». Nell'aprile 2004, la Federazione internazionale dei giornalisti si unisce alle critiche, obiettando al passaggio della Legge Gasparri. Lo stesso Berlusconi, per rispondere alle critiche su un suo conflitto di interessi, pochi giorni prima delle elezioni politiche del 2001, in un'intervista al Sunday Times annunciò di aver contattato tre esperti stranieri («un americano, un britannico e un tedesco»"), di cui però non fece i nomi, che lo consigliassero nel trovare una soluzione alla questione. Pochi giorni dopo ribadì al TG5 la sua decisione, specificando che: «In cento giorni farò quel che la sinistra non ha fatto in sei anni e mezzo: approverò un disegno di legge che regolamenterà i rapporti tra il Presidente del Consiglio e il gruppo che ha fondato da imprenditore», a cui fecero eco le parole del presidente di AN Gianfranco Fini e di altri politici della CdL, i quali nei giorni seguenti confermarono più volte che, in caso di vittoria alle elezioni, l'intenzione del governo era quella di presentare entro i primi 100 giorni un disegno di legge per risolvere la questione tramite un blind trust. Non vennero mai resi noti i nomi dei tre esperti stranieri che si sarebbero dovuti occupare della questione, ma venne presentato un disegno di legge, poi approvato, che regolamentava il conflitto d'interesse. Il centrosinistra al governo dal 1996 al 2001, non era intervenuto invece sul tema del conflitto d'interessi. Il 28 febbraio 2002 Luciano Violante, allora capogruppo DS alla Camera, dichiarò in Aula che il PDS aveva dato nel 1994 la «garanzia piena» a Berlusconi e Gianni Letta «che non sarebbero state toccate le televisioni» con il cambio di governo. Ricordò inoltre di quando la sua parte politica aveva votato per dichiarare «eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni» e il fatto che durante i governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset fosse aumentato di 25 volte. Il 13 luglio 2004 il Parlamento Italiano varava la Legge n. 215, recante "Norme in materia di risoluzione dei conflitti di interessi", cosiddetta legge Frattini. Tale legge riceveva in seguito le dure critiche della Commissione di Venezia del Consiglio d'Europa. A tutt'oggi il conflitto di interessi non è stato ancora risolto da nessun governo. Accuse di approvazione di leggi ad personam. Con la locuzione legge ad personam si intende un provvedimento legislativo creato di fatto ad hoc a scopi prettamente personali e non erga omnes. Durante i governi presieduti da Berlusconi, succedutisi dal 1994 in poi, il Parlamento ha varato alcuni provvedimenti legislativi aspramente contestati dall'opposizione e da alcuni settori della stampa i quali ritenevano che questi fossero stati emanati appositamente per favorire la posizione dello stesso Berlusconi, per difenderlo dai processi in cui era coinvolto direttamente o indirettamente o per difendere e/o rafforzare il proprio patrimonio. Per gli avvocati e amici di Silvio Berlusconi, almeno i provvedimenti in materia giudiziaria, «servono a dare maggiori garanzie ai cittadini. Perché a nessun altro succeda quello che è accaduto a Silvio Berlusconi» (Niccolò Ghedini), o comunque «per proteggersi. Se non fai la legge ad personam vai dentro» ovvero «sono la risposta a una guerra ad personam contro di lui» (Fedele Confalonieri). Quanto ai presunti benefici per le imprese di famiglia, Marina Berlusconi, presidente di Mondadori e figlia di Silvio, ha fatto notare come «se le leggi (...) sono sacrosante, che cosa si vorrebbe, che le nostre aziende non le utilizzassero solo perché fanno capo alla famiglia Berlusconi? Questo sì che è il vero conflitto di interesse, quello all'incontrario». Durante la campagna elettorale del 2006, lo stesso Berlusconi ha dichiarato che «una legge ad personam è quella che risulta essere giusta solo per un singolo individuo e sbagliata per il resto della popolazione», pertanto, a suo dire, «non c'è una sola legge di questo tipo approvata dal mio governo». Secondo due inchieste de la Repubblica al 24 novembre 2009 le leggi «che hanno prodotto benefici effetti per Berlusconi e le sue società» sarebbero state 19. Fra le leggi contestate, alcune avrebbero fornito a Berlusconi immediati benefici su procedimenti penali in corso contro di lui, altre gli avrebbero garantito vantaggi economici. Tra le prime rientrano le seguenti: Legge sulle rogatorie internazionali (Legge n. 367/2001): limita l'utilizzabilità delle prove acquisite. Con questa legge i movimenti illeciti sui conti svizzeri effettuati da Cesare Previti e Renato Squillante, al centro del processo Sme-Ariosto 1, sono stati coperti. Riforma del diritto societario (D. Lgs. n. 61/2002): depenalizzazione del falso in bilancio che ha consentito a Berlusconi di essere assolto nei processi "All Iberian 2" e "Sme-Ariosto 2" perché "il fatto non è più previsto dalla legge come reato". Legge Cirami sul legittimo sospetto (Legge n. 248/2002): introduzione del "legittimo sospetto" sull'imparzialità del giudice che permette la ricusazione e il trasferimento del processo ad un altro giudice. Lodo Schifani (Legge n. 140/2003): introduzione del divieto di sottomissione a processo delle cinque più alte cariche dello Stato tra le quali il presidente del Consiglio in carica. La legge è dichiarata incostituzionale il 13 gennaio 2004. Fu riapprovato con qualche modifica nel 2008 (vedi punto 8). Segreto di Stato sull'area denominata “Villa La Certosa” di Punta della Volpe (Olbia) (decreto del Ministro dell'Interno 6 maggio 2004 prot. n. 1004/100 – 1158): l'apposizione del segreto di Stato sulla villa di Berlusconi impedì le ispezioni disposte dal Tribunale di Tempio Pausania nell'ambito di un'indagine penale per violazione delle normative in materia edilizia ed ambientale. Legge Pecorella (Legge n. 46/2006), proposta dal parlamentare Gaetano Pecorella, avvocato di Silvio Berlusconi, che sanciva l'inappellabilità da parte del pubblico ministero per le sole sentenze di proscioglimento (DL n. 3600), bocciata quasi integralmente nel 2007 dalla Corte Costituzionale Legge ex-Cirielli (Legge n. 251/2005): riduzione della prescrizione, che ha consentito l'estinzione dei processi "Lodo Mondadori", "Lentini", "Diritti tv Mediaset" per decorrere dei tempi processuali. Lodo Alfano (Legge n. 124/2008), riproposizione del Lodo Schifani, emanato poco prima della conclusione del processo per corruzione dell'avvocato David Mills in cui Berlusconi era coimputato. Dichiarato incostituzionale il 7 ottobre 2009. Legittimo impedimento: per 18 mesi il Presidente del Consiglio è legittimamente impedito a comparire in aula di tribunale se impegnato in attività di governo. Tra le leggi che avrebbero dato vantaggi economici vengono citate le seguenti: Tremonti bis (Legge n. 383/2001, art. 13): abolizione dell'imposta su successioni e donazioni per grandi patrimoni, che in precedenza l'Ulivo aveva abolita per patrimoni fino a 350 milioni di lire. Finanziaria 2003 (Legge n. 289/2002, art. 9): introduzione di un condono fiscale, di cui hanno beneficiato anche le imprese del gruppo Mediaset. Decreto salva-calcio (Legge n. 27/2003, art. 3): concessione alle società sportive della possibilità di diluire le svalutazioni dei giocatori sui bilanci in un arco di dieci anni, con importanti benefici economici in termini fiscali. La norma ha trovato applicazione anche all'A.C. Milan. Lodo Retequattro (Decreto-legge n. 352/2003): ha permesso a Rete 4 di continuare a trasmettere in analogico. Finanziaria 2004 (Legge n. 350/2003, art. 4, comma 153) e Finanziaria 2005 (Legge n. 311/2004, art. 1, comma 246): introduzione di un incentivo statale all'acquisto di un decoder. A beneficiare prevalentemente dell'incentivo è stata la società Solari.com, il principale distributore in Italia dei decoder digitali Amstrad del tipo Mhp, controllata al 51% da Paolo e Alessia Berlusconi. Legge Gasparri (Legge n. 112/2004): introduzione del sistema integrato delle comunicazioni (SIC) e riordino del sistema radiotelevisivo e delle comunicazioni. Nel 2004 il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, ha stimato i vantaggi derivanti dalla legge Gasparri per il gruppo di Silvio Berlusconi fra 1 e 2 miliardi di Euro. Estensione del condono edilizio alle zone protette (Legge n. 308/2004, art. 1 commi 36-39): ammissione delle zone protette tra le aree condonabili, comprese quelle della villa "La Certosa" di proprietà di Berlusconi. Testo unico della previdenza complementare (Decreto Legislativo n. 252/2005): introduzione di una serie di norme che favoriscono fiscalmente la previdenza integrativa individuale, a beneficio anche della società assicurative di proprietà della famiglia Berlusconi. Decreto anticrisi (Decreto-legge n. 185/2008, art. 31): abolizione dell'IVA agevolata del 10% sulla pay tv via satellite (dominata da Sky Italia) che ritorna così all'aliquota standard del 20%. Tale operazione di allineamento delle imposte era stata richiesta dalla Commissione europea in seguito ad un reclamo presentato alla commissione stessa. L'iniziativa legislativa ha suscitato nell'opposizione (principalmente per voce di Antonio di Pietro) diverse polemiche poiché viene visto in questo provvedimento un modo per penalizzare Sky Italia, principale concorrente privato di Mediaset. Acquisto delle proprie azioni (Legge n. 33/2009, art. 7, commi 3-quater e 3-sexies): viene aumentata la soglia di capitale (dal 3% al 5%) che gli azionisti con una partecipazione superiore al 30% possono acquisire senza essere soggetti all'obbligo di promuovere un'offerta pubblica di acquisto totalitaria; e viene incrementato (dal 10% al 20%) il limite massimo previsto dall'art. 2357 cc. nei confronti delle società per azioni in materia di acquisto di azioni proprie con l'intento di prevedere strumenti di difesa delle società rispetto a possibili manovre speculative (OPA). Scudo fiscale (Legge n. 102/2009, art. 13-bis): permette, pagando un'imposta una tantum del 5%, di rimpatriare o regolarizzare le attività finanziarie e patrimoniali frutto di evasione fiscale detenute all'estero. Liti pendenti col fisco (Legge n. 73/2010): la Mondadori ha utilizzato il provvedimento per chiudere un contenzioso col fisco pendente dal 1991 pagando 8 milioni e 653 000 euro al posto dei 173 milioni pretesi dall'erario. Anche se non rientra nel novero delle leggi, possiamo citare a tal proposito il ricorso del governo contro la legge della regione Sardegna al divieto di costruire a meno di due chilometri dalle coste (ricorso n. 15/2005 alla legge regionale 8/2004) (che bloccava, tra l'altro, l'edificazione di "Costa Turchese", insediamento di 250 000 m³ della Edilizia Alta Italia di Marina Berlusconi).

Aspetti controversi delle modificazioni indotte nella società civile. Il regista e drammaturgo Dario Fo, lo scrittore Umberto Eco, il regista Nanni Moretti e il comico Beppe Grillo hanno rilasciato pubbliche dichiarazioni circa le conseguenze che i valori veicolati dai media di Berlusconi potrebbero avere, secondo la loro opinione, alla lunga sulla stessa società civile, indirizzandone gusti e tendenze allo scopo di favorire la sua parte politica. A questo proposito, Dario Franceschini, leader del Partito Democratico, è arrivato a dire: le italiane e agli italiani vorrei rivolgere una semplice domanda: fareste educare i vostri figli da quest'uomo? Chi guida un Paese ha il dovere di dare il buon esempio, di trasmettere valori positivi.» Secondo questa linea di pensiero, la comparsa sulla scena politica di Berlusconi avrebbe causato profonde mutazioni di costume nel tessuto civile del Paese e tra le sue diverse componenti sociali. Essi sostengono che sarebbe improprio, in un sistema democratico, esercitare al contempo azione di governo e di controllo su fonti di informazione a causa dell'influenza che i mass media (tv, radio, stampa, Internet) possono esercitare sulla società. L'opposizione ha chiesto invano a Berlusconi di rinunciare alla proprietà dei mass media giudicando anomala una simile concentrazione in mano al capo di una coalizione politica. La tesi di tale denuncia è che in Italia ci sarebbe uno sbilanciamento mediatico, possibile veicolo di orientamento dell'opinione pubblica attraverso metodi di propaganda più o meno nascosta, e che guidare una coalizione politica e al contempo un gruppo mediatico editoriale risulta contrario ai principi di equilibrio stabiliti dalla Costituzione italiana; tali principi trovano concreta tutela anche per mezzo dell'art. 10 DPR 30 marzo 1957 numero 361, ove si prevede la «ineleggibilità di coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o imprese private risultano vincolati allo Stato per contratti di opere o di somministrazioni oppure per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica».

I rapporti con la mafia, Dell'Utri e Mangano. Nella prima metà degli anni settanta la criminalità organizzata di stanza a Milano organizzava numerosi sequestri di persona a scopo di estorsione. In questo contesto, nel luglio 1974, tramite l'avvocato palermitano Marcello Dell'Utri (all'epoca collaboratore di Berlusconi), Vittorio Mangano fu «chiamato a svolgere la funzione di "garanzia e protezione", a tutela della sicurezza del suo datore di lavoro e dei suoi più stretti familiari, in un momento in cui si era deciso il trasferimento di Berlusconi nella tenuta di Arcore, appena acquistata». Secondo i magistrati, dunque, Berlusconi «temeva che i suoi familiari fossero oggetto di sequestri di persona», e perciò Dell'Utri si adoperò «per l'assunzione di Vittorio Mangano presso la villa di Arcore (...) quale “responsabile” (o “fattore” o “soprastante” che dir si voglia) e non come mero “stalliere”, pur conoscendo lo spessore delinquenziale dello stesso Mangano sin dai tempi di Palermo (ed, anzi, proprio per tale sua “qualità”), ottenendo l'avallo compiaciuto di Stefano Bontate e Teresi Girolamo, all'epoca due degli “uomini d'onore” più importanti di “cosa nostra” a Palermo». Inoltre «è certo che ad Arcore rimase, per tutto il 1975, la famiglia del Mangano [composta da moglie e figlie], il quale conservò ivi la sua residenza anagrafica ancora fino al mese di ottobre del 1976. Risulta ancora che, in data 1º dicembre 1975, Mangano, tratto nuovamente in arresto perché trovato in possesso di un coltello di genere vietato, dichiarò di essere residente ad Arcore e il 6 dicembre 1975, al momento in cui uscì dal carcere, elesse domicilio in via San Martino n. 42, dove è ubicata la villa di Arcore». Al riguardo la Corte fa riferimento anche a un'intervista a Dell'Utri pubblicata sul Corriere della Sera del 21 marzo 1994. Dal processo contro Dell'Utri non sono emersi elementi che «consentono di datare con certezza» l'allontanamento di Mangano da Arcore, e tuttavia «è certo che l'allontanamento avvenne in modo indolore per decisione (autonoma o suggerita da Marcello Dell'Utri) presa da Silvio Berlusconi, il quale continuò ad ospitare presso la propria villa la famiglia del Mangano e non risulta che abbia in alcun modo indirizzato i sospetti degli investigatori sul suo “fattore”, conservando ancora a distanza di molti anni le grate parole del Mangano»; al contrario di Dell'Utri che «non ha mai interrotto i suoi rapporti con il Mangano, pur essendo ben consapevole, alla luce delle sue stesse ammissioni, della caratura criminale del personaggio». Il 26 maggio 1975 una bomba esplose nella villa di Berlusconi in via Rovani a Milano, allora in restauro, «provocando ingenti danni con lo sfondamento dei muri perimetrali e il crollo del pianerottolo del primo piano». Secondo quanto testimoniato da Fedele Confalonieri, subito dopo l'allontanamento di Mangano da Arcore, Berlusconi aveva ricevuto delle lettere con minacce: «Proprio a causa di quelle minacce - dichiarò Confalonieri -, Berlusconi prese la sua famiglia e la portò prima in Svizzera; io mi ricordo che andammo anche a accompagnarlo con Marcello Dell'Utri a Nyon, che è vicino a Ginevra. Credo che poi stettero lì un paio di settimane o tre settimane e poi andarono nel sud della Spagna, a Marbella e stettero lì qualche mese». Nelle indagini dell'epoca gli autori dell'attentato restarono ignoti; «è risultato, invece, dal contenuto di conversazioni telefoniche intercettate circa 11 anni dopo, in occasione di un secondo attentato commesso in data 28 novembre 1986 ancora ai danni della stessa villa di via Rovani, che da parte di Silvio Berlusconi e di Marcello Dell'Utri non vi fossero dubbi in merito alla riconducibilità dell'attentato del 1975 proprio alla persona del Mangano». Il secondo attentato creò danni unicamente alla cancellata esterna. Berlusconi, intercettato, commentò l'esplosione al telefono con Dell'Utri definendola scherzosamente una cosa «fatta con molto rispetto, quasi con affetto (...) perché mi ha incrinato soltanto la parte inferiore della cancellata», aggiungendo che «secondo me, è come una rich... un altro manderebbe una lettera o farebbe una telefonata: lui ha messo la bomba!». La conversazione prosegue, anche con Confalonieri, con riferimenti all'attentato del 1975 e alla persona di Mangano ritenuto appena scarcerato. L'intercettazione del 1986 per la magistratura dimostra «adeguatamente come nessuno dei tre interlocutori nutrisse alcun dubbio nel ricondurre alla persona di Mangano Vittorio la responsabilità dell'attentato commesso ai danni della villa di via Rovani undici anni prima (...). Malgrado non si nutrissero dubbi in merito al responsabile, nessuna utile indicazione all'epoca dei fatti era stata offerta agli investigatori ma, al contrario, si era deciso addirittura di non denunciare direttamente l'attentato». L'attentato, invece, non è attribuibile a Mangano, che all'epoca del fatto era detenuto. Esso è ascrivibile altresì (come risulta dalle dichiarazioni di Antonino Galliano) alla mafia catanese, «evento che Totò Riina aveva voluto furbescamente sfruttare per le ulteriori intimidazioni telefoniche all'imprenditore ordinate a Mimmo Ganci e da costui effettuate poco tempo dopo da Catania. Una volta raccordatosi con il suo sodale Santapaola di Catania, il capo di “cosa nostra” aveva, come si suol dire, “preso in mano la situazione” relativa a Berlusconi e Dell'Utri, che, come si è visto (per concorde dichiarazione di Ganci, Anzelmo e Galliano), sarebbe stata sfruttata non soltanto per fini prettamente estorsivi, ma anche per potere “agganciare” politicamente l'on.le Bettino Craxi». Un rapporto della Criminalpol di Milano (rapporto numero 0500/CAS/Criminalpol del 13 aprile 1981) notava che «l'aver accertato attraverso la citata intercettazione telefonica (del 14 febbraio 1980 su l'utenza telefonica dell'Hotel Duca di York di Milano in uso a Mangano, ndr) il contatto tra Mangano Vittorio, di cui è bene ricordare sempre la sua particolare pericolosità criminale, e Dell'Utri Marcello ne consegue necessariamente che anche la Inim spa e la Raca spa (società per le quali il Dell'Utri svolge la propria attività), operanti in Milano, sono società commerciali gestite anch'esse dalla mafia e di cui la mafia si serve per riciclare il denaro sporco, provento di illeciti». Secondo la Corte, Dell'Utri «“rappresentava” presso i mafiosi gli interessi del gruppo [Fininvest, ndr], per conto di Silvio Berlusconi. «Era un manager dotato di altissima autonomia e di capacità decisionali, non un qualunque sottoposto al quale non restava altro che eseguire le decisioni del proprietario dell'azienda, in ipotesi impostegli. «È significativo che egli, anziché astenersi dal trattare con la mafia (come la sua autonomia decisionale dal proprietario ed il suo livello culturale avrebbero potuto consentirgli, sempre nell'indimostrata ipotesi che fosse stato lo stesso Berlusconi a chiederglielo), ha scelto, nella piena consapevolezza di tutte le possibili conseguenze, di mediare tra gli interessi di “cosa nostra” e gli interessi imprenditoriali di Berlusconi (un industriale, come si è visto, disposto a pagare pur di stare tranquillo). «Dunque, Marcello Dell'Utri ha non solo oggettivamente consentito a “cosa nostra” di percepire un vantaggio, ma questo risultato si è potuto raggiungere grazie e solo grazie a lui». Il boss mafioso Mangano, nuovamente in carcere dal 1995 in regime di 41 bis, morì nel luglio 2000, pochi giorni dopo essere stato condannato all'ergastolo per duplice omicidio. Dell'Utri commentò nell'aprile 2008 che Mangano era «un eroe, a suo modo» perché «sarebbe uscito dal carcere con lauti premi se avesse accusato me e il presidente Berlusconi», e dello stesso avviso si è il giorno dopo detto Berlusconi. La procura di Palermo ha indagato su Silvio Berlusconi e su Marcello Dell'Utri dal 2 gennaio 1996 per concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio di denaro. Nel 1997 la posizione di Berlusconi è stata archiviata al termine delle indagini preliminari, che erano state prorogate per la massima durata prevista dalla legge, mentre Dell'Utri è stato rinviato a giudizio. Nel 2004 Marcello Dell'Utri è stato condannato in primo grado a Palermo a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, pena ridotta in appello a 7 anni, avendo la Corte ritenuto che il fatto non sussiste limitatamente al periodo successivo al 1992. Il 9 marzo 2012 la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza d'appello, accogliendo così il ricorso della difesa avverso alla condanna a sette anni. Al processo di Marcello Dell'Utri per concorso esterno in associazione mafiosa, la Cassazione ritiene pienamente confermato l'incontro tra Berlusconi, Dell'Utri e i capimafia Francesco Di Carlo, Stefano Bontate e Mimmo Teresi, testimoniato dallo stesso Di Carlo, attualmente collaboratore di giustizia, e di cui ha parlato anche Galliano, un altro collaboratore. L'incontro sarebbe avvenuto nel 1974 in foro Bonaparte a Milano, dove venne presa la “contestuale decisione di far seguire l'arrivo di Vittorio Mangano presso l'abitazione di Berlusconi in esecuzione dell'accordo” per la protezione ad Arcore. La Corte parla “senza possibilità di valide alternative di un accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell'Utri che, di quella assunzione, è stato l'artefice grazie anche all'impegno specifico profuso da Cinà”. Il 22 agosto 2013 l'ex boss Totò Riina di Cosa Nostra, in un dialogo durante l'ora d'aria con il co-detenuto Alberto Lorusso ripreso dalle telecamere del carcere di Opera, fa numerose dichiarazioni su Dell'Utri e Berlusconi, rivelando che quest'ultimo dagli anni ottanta pagava il pizzo a Cosa Nostra per ottenere in cambio dei favori reciproci e futuri, 250 milioni di lire ogni sei mesi. Nel 2014 vennero pubblicate alcune conversazioni tra Emilio Fede ed il suo personal trainer, Gaetano Ferri, segretamente registrate da quest'ultimo, in cui l'ex direttore del TG4 rivela particolari importanti sui rapporti illeciti tra Berlusconi e la mafia siciliana, veicolati attraverso Marcello Dell'Utri, che faceva da tramite per Silvio. In questi dialoghi registrati Fede parla anche di Flavio Briatore, che, secondo quanto risulta dalle registrazioni di Ferri, sarebbe stato coinvolto anch'egli in una storia di mafia, ordinando l'assassinio di un industriale di Cuneo.

I rapporti con il mondo dell'informazione. Dichiarazione contro Biagi, Santoro e Luttazzi. Il 18 aprile 2002, durante la visita di Stato a Sofia in Bulgaria Berlusconi, da circa un anno presidente del consiglio rende un'assai discussa dichiarazione (soprannominata dai suoi oppositori il "diktat bulgaro" o l'"editto di Sofia"):« L'uso che Biagi, come si chiama quell'altro...? Santoro, ma l'altro... Luttazzi, hanno fatto della televisione pubblica, pagata coi soldi di tutti, è un uso criminoso. E io credo che sia un preciso dovere da parte della nuova dirigenza di non permettere più che questo avvenga.» I tre non vennero più chiamati a condurre programmi in RAI: di fatto la nuova dirigenza RAI insediatasi all'epoca del governo Berlusconi e da esso spronata a prendere provvedimenti, espulse Biagi, Santoro e Luttazzi da tutte le programmazioni televisive. La situazione perdurò fino al 2006 quando, in seguito ad azioni giudiziarie che li hanno visti vincenti sulla dirigenza RAI, Biagi e Santoro hanno ripreso a condurre programmi giornalistici. Dissapori con la TV pubblica. Berlusconi ha sempre avuto rapporti contrastati con la televisione pubblica, da lui spesso accusata di essere, se non totalmente schierata a sinistra, per gran parte controllata dai partiti dell'opposizione (soprattutto Raitre, definita da Berlusconi «una macchina da guerra contro il Presidente del Consiglio»). Questa visione è ovviamente ribaltata secondo il punto di vista dei suoi oppositori che lo accusano di averla pesantemente occupata nel periodo in cui è stato capo del governo. È del 12 marzo 2006 (durante la campagna elettorale per le elezioni politiche) la polemica, in occasione del programma di Raitre, In mezz'ora, tra Berlusconi che accusava la conduttrice Lucia Annunziata di muoversi sulla base di posizioni di pregiudizio nei suoi confronti e di aperta partigianeria in appoggio della sinistra, e la giornalista stessa che gli rimproverava l'incapacità di trattare con i giornalisti. Silvio Berlusconi lasciò lo studio dopo 17 minuti. Il caso Saccà. Nel 2007 la procura di Napoli apre un'inchiesta su Berlusconi (allora leader dell'opposizione) sospettato di aver corrotto Agostino Saccà, direttore di Rai Fiction. Tra gli atti dell'inchiesta c'è un'intercettazione telefonica tra i due imputati che viene pubblicata in tutti i media quando l'indagine è ancora in corso. Nella telefonata si ascolta Saccà esprimere una posizione di appassionato appoggio politico a Berlusconi e di critica per il comportamento degli alleati. Berlusconi sollecita Saccà a mandare in onda una trasmissione voluta da Umberto Bossi e Saccà si lamenta del fatto che ci sono persone che hanno diffuso voci su questo accordo provocandogli problemi. Berlusconi poi chiede a Saccà di dare una sistemazione in una fiction ad una ragazza spiegando in modo molto esplicito che questo servirebbe per uno scambio di favori con un senatore della maggioranza che lo aiuterebbe a far cadere il governo. Saccà saluta esortando Berlusconi a impadronirsi della maggioranza quanto prima possibile. Berlusconi ha sostenuto in sua difesa: «Lo sanno tutti nel mondo dello spettacolo, in certe situazioni in Rai si lavora soltanto se ti prostituisci oppure se sei di sinistra.[...]In Rai non c'è nessuno che non sia stato raccomandato». L'indagine napoletana è giunta a gennaio alla richiesta di rinvio a giudizio ma, prima che si aprisse il processo, nel luglio 2008 gli avvocati di Berlusconi chiesero ed ottennero dal GIP lo spostamento dell'indagine a Roma per incompetenza territoriale. Nel 2008 i pm romani nuovi titolari dell'inchiesta hanno chiesto l'archiviazione dell'inchiesta e la distruzione delle intercettazioni argomentando che «Non c'è alcuna certezza del "do ut des". Lo stretto legame tra l'onorevole Berlusconi e Saccà, che emerge con evidenza dall'attività investigativa, era tale da consentire al primo di effettuare segnalazioni al secondo senza dover promettere o ottenere nulla in cambio».

Scandali di natura sessuale. Il caso Carfagna. Nel quarto governo Berlusconi, l'onorevole Mara Carfagna, ex showgirl, è stata scelta per ricoprire il ruolo di ministro delle Pari Opportunità. Secondo numerose indiscrezioni, alcune intercettazioni telefoniche effettuate nell'ambito di un'inchiesta per corruzione a carico di Berlusconi avrebbero prodotto materiale non penalmente rilevante riguardante presunti favori sessuali ottenuti dal Presidente del Consiglio dei ministri Berlusconi in cambio dell'incarico da ministro. Oltre alla stampa estera, dell'esistenza delle intercettazioni parlò Sabina Guzzanti durante una manifestazione politica e successivamente il deputato PdL Paolo Guzzanti sul suo blog, ritenendo esistessero «proporzionati motivi per temere che la signorina in questione occupi il posto per motivi che esulano dalla valutazione delle sue capacità di servitore dello Stato, sia pure apprendista». Le dichiarazioni sortirono una citazione in sede civile per Sabina Guzzanti. Il caso Noemi. Il 28 aprile 2009, la moglie di Berlusconi, Veronica Lario, in un'e-mail all'ANSA espresse il suo sdegno riguardo alla possibile scelta del marito di candidare giovani ragazze di bella presenza, alcune delle quali senza esperienza politica, per le vicine elezioni europee. Il 2 maggio seguente, dopo aver saputo che Berlusconi si era recato alla festa del diciottesimo compleanno di Noemi Letizia (una ragazza di Portici), ha poi affidato ad un avvocato l'incarico di presentare richiesta di separazione dal marito. La Lario, a questo punto, ha fatto menzione di una supposta abitudine del marito di frequentare minorenni: «Non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni», «...figure di vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo, la notorietà e la crescita economica», «Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. È stato tutto inutile». Il 14 maggio il quotidiano La Repubblica pubblica un articolo in cui mostra le molte contraddizioni e discordanze della versione di Berlusconi concernente le sue frequentazioni con Noemi Letizia con le dichiarazioni degli altri protagonisti della vicenda, chiedendo al Presidente del Consiglio di rispondere a dieci domande, poi riformulate. Berlusconi non ritiene opportuno rispondere a queste domande, e il 28 agosto dà mandato al suo avvocato, Niccolò Ghedini, di intentare una causa civile di risarcimento contro il quotidiano per il danno di immagine causatogli (lo stesso avviene contestualmente anche nei confronti de L'Unità). Successivamente Berlusconi ha parzialmente risposto alle 10 domande di Repubblica sul libro di Bruno Vespa Donne di Cuori. Il 28 maggio Berlusconi giura sulla testa dei suoi figli di non aver mai avuto relazioni "piccanti" con minorenni, e che se stesse mentendo si dimetterebbe immediatamente. La questione è stata ampiamente trattata dalla stampa estera (per esempio dai quotidiani britannici The Times, Financial Times e dalla BBC). Scatti di Porto Rotondo. L'attenzione dei giornali è stata in seguito attirata da numerose foto che il fotografo Antonello Zappadu aveva scattato in diverse occasioni: alcune documentano una vacanza del maggio 2008 nella residenza estiva di Berlusconi a Porto Rotondo e vi appare l'allora primo ministro della Repubblica Ceca Mirek Topolanek in veste adamitica: durante la festa si vedono giovani ragazze in bikini o in topless. Il 5 giugno 2009 il quotidiano spagnolo El País pubblica 5 delle 700 foto della festa. La Procura di Roma, su segnalazione di Berlusconi, ha sequestrato il materiale fotografico per violazione della privacy. Il caso D'Addario. Nel luglio 2009 il giornale L'Espresso pubblica sul suo sito le registrazioni audio ambientali degli incontri tra Silvio Berlusconi e l'escort Patrizia D'Addario, effettuate da quest'ultima nell'ottobre 2008 a palazzo Grazioli, residenza privata del capo di governo dell'epoca, e ancora depositate dalla stessa persona presso la Procura di Bari che le ha secretate in plichi sigillati collocati in una cassaforte blindata; sono state invece rese pubbliche altre intercettazioni di tipo telefonico acquisite dalla procura nell'ambito del procedimento giudiziario che intendeva far luce sui presunti favoritismi di Berlusconi verso l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini, concretizzàtisi poi in incarichi, affari pubblici ed appalti in cambio di prestazioni di natura sessuale da parte di ragazze appositamente reclutate e indotte alla prostituzione. Poco dopo il Premier dichiarò: "Non sono un santo, spero lo capiscano anche quelli di Repubblica". Al di là dell'interesse di natura scandalistica, le vicende riguardanti i presunti rapporti extraconiugali di Berlusconi con escort e giovani ragazze dello spettacolo hanno attirato l'attenzione dell'opinione pubblica e di parte del mondo politico, in quanto paiono essere in più punti intrecciate con la promessa di candidature politiche nelle liste del PdL e affiliate (La Puglia prima di tutto) in occasione delle elezioni europee e delle amministrative del giugno 2009. Il caso Ruby. A novembre 2010 scoppia il cosiddetto "caso Ruby". La vicenda ruota attorno all'allora minorenne marocchina Karima El Mahroug detta Ruby Rubacuori, fermata per furto nel maggio 2010 a Milano. Accertata la minore età della ragazza, il magistrato dispose l'affidamento secondo le normali procedure. Tuttavia, dopo che Berlusconi ebbe telefonato in questura sostenendo che la giovane fosse la nipote dell'allora presidente egiziano Hosni Mubarak (fatto poi dimostratosi falso), la ragazza venne affidata al consigliere regionale PdL Nicole Minetti. Ruby dichiarò di essere stata più volte ospite di Berlusconi presso la sua residenza di Arcore e d'aver ricevuto denaro in tali occasioni. Ritenendo che quel denaro fosse stato il compenso per prestazioni sessuali, a gennaio 2011 la procura della Repubblica di Milano ha contestato a Berlusconi i reati di concussione e prostituzione minorile. La vicenda ha avuto un grande clamore anche sui media internazionali e ha acceso il dibattito all'interno dell'opinione pubblica italiana. Il 24 giugno 2013 Berlusconi viene condannato in primo grado a sette anni di reclusione per i reati di concussione per costrizione e favoreggiamento della prostituzione minorile, nonché alla perpetua interdizione dai pubblici uffici; tuttavia, al termine del processo d'appello, con la sentenza del 18 luglio 2014, viene assolto dalla concussione perché il fatto non sussiste e dalla prostituzione minorile perché il fatto non costituisce reato. Le motivazioni della sentenza ufficializzeranno infatti che nessuna prova è stata accertata sul fatto che Berlusconi avesse esercitato un atteggiamento intimidatorio o quanto meno un'induzione indebita nei confronti del responsabile della questura milanese affinché rilasciasse la minorenne marocchina, né che fosse a conoscenza dell'età della ragazza all'epoca dei rapporti sessuali.L'assoluzione diventa definitiva il successivo 10 marzo 2015 con la favorevole sentenza della Corte di Cassazione.

Dichiarazioni e comportamenti controversi. In Italia e all'estero grande risalto mediatico hanno ricevuto alcune sue dichiarazioni, battute di spirito e comportamenti irrituali che gli hanno dato una fama di gaffeur, contribuendo nel contempo a caratterizzare la sua immagine pubblica. Secondo Peter Weber questi episodi avrebbero contribuito a far riemergere vecchi pregiudizi nei confronti della politica estera italiana condotta con «ambizione e leggerezza». Nel settembre 2001, in seguito agli attentati terroristici sferrati da al-Qa'ida agli Stati Uniti, dichiarò: «Noi [occidentali] dobbiamo essere consapevoli della superiorità della nostra civiltà, il nostro è un sistema che ha garantito il benessere, il rispetto dei diritti umani e, a differenza dei paesi islamici, il rispetto dei diritti religiosi e politici. Un sistema che ha come valore la comprensione delle diversità e la tolleranza». L'affermazione suscitò le proteste di diverse nazioni islamiche e della Lega araba. Nel 2003, particolarmente controversa fu la polemica che al Parlamento europeo – in occasione del suo esordio come presidente del Consiglio dell'UE – lo vide opposto all'eurodeputato socialista tedesco Martin Schulz, che lo criticò per i suoi problemi giudiziari, per il suo rapporto con l'informazione, e che lo accusò di avere un conflitto d'interessi. Berlusconi replicò all'intervento dell'eurodeputato dicendo: «Signor Schulz, so che in Italia c'è un produttore che sta facendo un film sui campi di concentramento nazisti. La suggerirò per il ruolo di kapò, lei sarebbe perfetto». Alle critiche da parte di alcuni europarlamentari, Berlusconi rispose rivolgendo un «turisti della democrazia» all'ala sinistra del Parlamento che lo contestava. Il presidente Pat Cox lo invitò a scusarsi, ma Berlusconi replicò: «Il signor Schulz mi ha offeso gravemente e personalmente, era solo una battuta ironica e non la ritiro». Accettò poi di scusarsi con il popolo tedesco, ma non con Schulz e l'Europarlamento. La controversia coinvolse anche il cancelliere Schröder, che convocò l'ambasciatore italiano a Berlino spingendo il governo italiano a fare lo stesso con quello tedesco a Roma. Successivamente Berlusconi dichiarò che in Italia «girano da anni storielle sull'Olocausto» perché «gli italiani sanno scherzare su tragedie come quella nel tentativo di superarle», provocando le proteste della comunità ebraica di Roma e dell'ANED. Qualche mese dopo, gli procurò altre critiche dalla comunità israelita, unite a quelle di alcuni familiari delle vittime dello squadrismo fascista, l'intervista concessa al periodico britannico The Spectator in cui disse che Mussolini, a differenza di Saddam Hussein, non avrebbe «mai ammazzato nessuno» e si sarebbe limitato a mandare «la gente a fare vacanza al confino». Della stessa intervista fu contestato anche il giudizio espresso sui giudici, definiti «mentalmente disturbati», che spinse il presidente della Repubblica Ciampi ad intervenire in difesa della magistratura. Ripercussioni sul piano diplomatico ci furono anche in altre occasioni. Nel 2005, quando irritò il governo finlandese dicendo di aver «rispolverato tutte le arti da playboy» con Tarja Halonen, capo di Stato della nazione finnica, per fare in modo che ritirasse la candidatura di Helsinki a sede dell'Autorità europea per la sicurezza alimentare in favore di Parma, non essendoci per lui «alcuna possibilità di confronto tra il culatello di Parma e la renna affumicata». In seguito a quell'episodio la catena di pizzerie Kotipizza chiamò "Pizza Berlusconi" la sua pizza alla renna affumicata. La pizza vinse il primo premio dell'America's Plate International nel marzo 2008. Nel 2006 contrariò il governo cinese dichiarando durante un comizio elettorale: «Leggetevi il libro nero del comunismo e scoprirete che nella Cina di Mao i comunisti non mangiavano i bambini, ma li bollivano per concimare i campi». Nel febbraio 2009, Berlusconi affermò in un comizio: «Di me hanno detto di tutto i signori della sinistra, [...] che sono come quel dittatore argentino che faceva fuori i suoi oppositori portandoli in aereo con un pallone, poi apriva lo sportello e diceva: C'è una bella giornata, andate fuori un po' a giocare. Fa ridere ma è drammatico». Il Ministero degli esteri argentino convocò l'ambasciatore italiano Stefano Ronca per esprimere «la profonda preoccupazione» per le frasi dette sui cosiddetti voli della morte, per il governo italiano si trattò di uno stravolgimento delle parole pronunciate dal Presidente del Consiglio, un «finto caso». Sempre nel 2009, secondo indiscrezioni di un tabloid inglese, durante un vertice di capi di governo dell'Unione Europa a Bruxelles per discutere le questioni relative al cambiamento climatico in vista del summit di Copenaghen, alla presenza di leader quali Gordon Brown, Brian Cowen, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, Berlusconi avrebbe scarabocchiato disegnini di "mutande femminili nel corso della storia" sotto il titolo "Mutandine da donna attraverso i secoli", passando i suoi bozzetti agli altri premier affinché potessero apprezzarli, creando ilarità e imbarazzo fra i presenti. Hanno suscitato clamore anche alcuni comportamenti scherzosi tenuti in presenza di ministri e governanti stranieri. Nel 2002 fece discutere la foto di gruppo dei ministri degli Esteri riuniti a Cáceres, in cui Berlusconi, titolare ad interim della Farnesina, fu immortalato mentre faceva il gesto delle corna alle spalle del suo omologo spagnolo per divertire un gruppo di boy-scout. Nel 2008, durante una conferenza stampa con il presidente russo uscente Vladimir Putin, dopo che una giornalista pose a quest'ultimo una domanda sgradita circa una sua presunta relazione extra-coniugale, Berlusconi mimò un mitra che le sparava. Il gesto fu criticato dalla Federazione Nazionale Stampa Italiana a causa dei numerosi casi di giornalisti assassinati in Russia. La cronista coinvolta successivamente puntualizzò: «Ho visto il gesto del vostro presidente e so che scherza sempre. So che il gesto non avrà alcuna conseguenza». Lo stesso anno, in seguito all'elezione dell'afro-americano Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti, Berlusconi, durante una conferenza stampa congiunta con il nuovo presidente russo Dmitrij Medvedev al Cremlino, affermò: «Ho detto a Medvedev che Obama ha tutto per andare d'accordo con lui: è giovane, bello e anche abbronzato». La frase suscitò polemiche poiché il termine "abbronzato" (in inglese tanned o suntanned) è stato talvolta impiegato in maniera dispregiativa nei confronti delle persone di colore. In seguito Berlusconi affermò che la sua intenzione era quella di rivolgere ad Obama «una carineria assoluta, un grande complimento», e definì «imbecilli» chi aveva criticato la dichiarazione. I media internazionali diedero ampio risalto alla vicenda. Il 27 settembre 2009 tornò sull'argomento dicendo: «Vi porto i saluti di uno che si chiama... uno abbronzato... Ah, Barack Obama. Voi non ci crederete, ma sono andati a prendere il sole in spiaggia in due, perché è abbronzata anche la moglie». L'anno successivo, durante la riunione del G20 a Londra, dopo la foto di rito Berlusconi chiamò il presidente statunitense a voce alta attirando l'attenzione della regina Elisabetta II che, giratasi per capire da dove e da chi provenisse il richiamo, apparentemente irritata esclamò: «Che cos'è? Ma perché deve urlare?» (What is it? Why does he have to shout?). L'episodio ricevé ampia eco mediatica da parte della stampa internazionale. Il giorno successivo Buckingham Palace intervenne puntualizzando che la sovrana non era affatto infastidita dall'irritualità del capo di governo italiano. In Italia hanno sollevato polemiche alcune sue esternazioni rivolte agli avversari politici ed alla magistratura. Nel 2006, in prossimità delle elezioni politiche che lo avrebbero contrapposto al candidato del centro-sinistra Romano Prodi, durante un discorso alla Confcommercio affermò: «Ho troppa stima dell'intelligenza degli italiani per pensare che ci siano in giro così tanti coglioni che possano votare contro i propri interessi». Definì inoltre la magistratura «il cancro del paese». Due anni dopo, alla Confesercenti, ribadì lo stesso concetto definendo «i giudici e i P.M. ideologizzati» una «metastasi della nostra democrazia». L'ANM protestò per la dichiarazione temendo una delegittimazione dell'intera categoria. Nel 2009, fu protagonista di uno scontro istituzionale con il presidente della Repubblica Napolitano, che rifiutò di firmare il decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri che avrebbe vietato l'interruzione dell'alimentazione e dell'idratazione artificiale di Eluana Englaro. Berlusconi, contrariato dalla mancata firma, dichiarò: «si vogliono attribuire dei poteri che secondo l'interpretazione mia e del governo non sono del capo dello Stato ma semmai spettano al governo», quindi sollecitò una riforma della Costituzione, da lui ritenuta necessaria «perché la Carta è una legge fatta molti anni fa sotto l'influenza della fine di una dittatura e con la presenza al tavolo di forze ideologizzate che hanno guardato alla Costituzione russa come a un modello da cui prendere molte indicazioni». La dichiarazione fu accolta da diverse polemiche a cui Berlusconi replicò: «Ho giurato sulla Costituzione. La rispetto. È la prima legge alla base dello Stato. Non ho mai pensato di attaccarla», poi aggiunse: «La Costituzione però non è un Moloch: può evolvere con i tempi», ma ribadì: «Che i valori costituzionali abbiano guardato alla Carta dell'Unione Sovietica è una realtà storica». Hanno suscitato generale sorpresa, in Italia come all'estero, le affermazioni di Berlusconi in una conversazione del 13 luglio 2011, in cui definiva l'Italia un "paese di merda". Stando ad un articolo de Il Fatto Quotidiano del 10 settembre 2011 nel parlamento italiano girava voce di un'intercettazione in cui Berlusconi avrebbe etichettato Angela Merkel con l'epiteto di «culona inchiavabile». L'intercettazione in oggetto non è mai stata pubblicata, ma parte della stampa tedesca, tra cui il Financial Times Deutschland e il Der Spiegel, ha dato ampio risalto alla notizia e si sarebbe rischiato il richiamo dell'ambasciatore a Roma. In occasione della Giornata della Memoria, il 27 gennaio 2013 Berlusconi dichiarò che «per tanti versi Mussolini aveva fatto bene ma il fatto delle leggi razziali è stata la peggiore colpa», suscitando ampie critiche da parte delle comunità ebraiche, dell'Anpi e di molti esponenti politici.

Procedimenti giudiziari a carico di Berlusconi. Silvio Berlusconi è stato oggetto di numerosi procedimenti penali, uno dei quali si è concluso con una sentenza definitiva di condanna passata in giudicato il 1º agosto 2013 nel processo Mediaset; fino ad allora nessuno dei procedimenti penali a suo carico si era concluso con una sentenza definitiva di condanna, per via di assoluzioni, declaratorie di prescrizione e depenalizzazioni dei reati contestati. Alcuni di questi procedimenti sono stati archiviati in fase di indagine; a seguito di altri è stato instaurato un processo nel quale Berlusconi è stato assolto. In altri processi, infine, sono state pronunciate, in primo grado o in appello, sentenze di condanna per reati quali corruzione giudiziaria, finanziamento illecito a partiti e falso in bilancio. In alcuni casi, dopo un esito del primo o del secondo grado di giudizio sfavorevole a Berlusconi, i procedimenti non si sono conclusi con una sentenza di condanna: ciò grazie a sopravvenuta amnistia, al riconoscimento di circostanze attenuanti che, influendo sulla determinazione della pena, hanno comportato il sopravvenire della prescrizione oppure a nuove norme che hanno modificato le pene e la struttura di taluni reati a lui contestati, come nel caso del reato di falso in bilancio. Dette norme, approvate in Parlamento dalla maggioranza di centro-destra mentre Silvio Berlusconi ricopriva la carica di Presidente del consiglio, in taluni casi hanno imposto una valutazione di non rilevanza penale di alcuni dei fatti contestati, poiché il fatto non è più previsto dalla legge come reato; in altri casi la riduzione della pene prevista per le fattispecie di reato contestate ha fatto sì che i termini di prescrizione maturassero prima che fosse pronunciata sentenza definitiva. Di seguito viene fornito uno schema delle sentenze.

Sentenze di condanna passate in giudicato: Processo Mediaset, frode fiscale, falso in bilancio, appropriazione indebita, creazione di fondi neri gestendo i diritti tv di Mediaset. Condannato in via definitiva, con sentenza della Corte di Cassazione del 1 agosto 2013, a 4 anni di reclusione, di cui 3 condonati per effetto dell'indulto disposto dalla legge 241 del 2006.

Sentenze di non doversi procedere passate in giudicato. Reati estinti per prescrizione: Lodo Mondadori, corruzione giudiziaria (attenuanti generiche); Bilanci Fininvest 1988-1992, falso in bilancio e appropriazione indebita relativi ai bilanci Fininvest dal 1988 al 1992; All Iberian 1, 23 miliardi di lire di finanziamenti illeciti al PSI di Bettino Craxi; Consolidato Fininvest, falso in bilancio; Caso Lentini, falso in bilancio; Tangenti a David Mills, corruzione giudiziaria. Reati estinti per intervenuta amnistia: Falsa testimonianza P2 (amnistia applicata in fase dibattimentale); Terreni Macherio, imputazione per uno dei due falsi in bilancio (amnistia applicata in seguito al condono fiscale del 1992).

Sentenze di assoluzione passate in giudicato. Assoluzioni per intervenuta modifica della legge (il fatto non costituisce più reato): All Iberian 2, falso in bilancio (stralciato in base alla riforma degli illeciti penali ed amministrativi delle società commerciali decisa col Dlgs 61/2002 emanato dal governo Berlusconi II); Sme-Ariosto (falso in bilancio) (stralciato in base alla riforma degli illeciti penali ed amministrativi delle società commerciali decisa col Dlgs 61/2002 emanato dal governo Berlusconi II). Altre assoluzioni: Sme-Ariosto (capo A), corruzione in atti giudiziari per due versamenti a Renato Squillante (assolto per non aver commesso il fatto e perché il fatto non sussiste); Sme-Ariosto (capo B), corruzione giudiziaria; Tangenti alla guardia di finanza (assolto per non aver commesso il fatto, anche grazie alla falsa testimonianza dell'avvocato David Mills); Telecinco (in Spagna), violazione della legge antitrust, frode fiscale e reati vari (quali riciclaggio di denaro); Medusa cinematografica, falso in bilancio (assolto in quanto per la sua ricchezza potrebbe non essere stato al corrente dei fatti contestati); Terreni Macherio, imputazione per appropriazione indebita, frode fiscale, e uno dei due falsi in bilancio; Inchiesta Mediatrade di Milano, appropriazione indebita e frode fiscale, Berlusconi insieme ad un socio occulto, l'egiziano Frank Agrama, si sarebbe appropriato illegalmente di fondi della società; Inchiesta Mediatrade di Roma, evasione fiscale e reati tributari compiuti negli anni 2004, 2005; Caso Ruby, concussione e prostituzione minorile. Condannato in primo grado a 7 anni di carcere e interdizione perpetua dai pubblici uffici, viene poi assolto con formula piena in appello il giorno 18 luglio 2014 perché il fatto non sussiste (concussione) e "perché il fatto non costituisce reato" (prostituzione minorile).L'assoluzione diviene definitiva il giorno 10 marzo 2015 con la sentenza favorevole della Corte di Cassazione.

Procedimenti archiviati: Spartizione pubblicitaria Rai-Fininvest (archiviato per insufficienza di prove); Traffico di droga; Tangenti fiscali pay TV; Stragi 1992-1993 (concorso in strage); Caso Saccà, corruzione nei confronti di senatori per far cadere il governo Prodi; Concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio (insieme a Marcello Dell'Utri); Abuso d'ufficio, abuso nell'uso dei voli di Stato; Diffamazione aggravata dall'uso del mezzo televisivo; Caso Trani, abuso d'ufficio; Rivelazione di informazioni coperte da segreto istruttorio relative all'inchiesta Bnl-Unipol. Il 7 marzo 2013 il Tribunale di Milano lo condanna a un anno di reclusione e al risarcimento di 80 000 euro in solido col fratello Paolo Berlusconi. Il 31 marzo 2014 la Seconda Corte d'Appello di Milano ha dichiarato la prescrizione del reato, confermando il risarcimento di 80 000 euro a Piero Fassino. Il ricorso alla Cassazione per il proscioglimento nel merito è respinto ed il 30 marzo 2015 la Cassazione conferma la prescrizione.

Sentenze non passate in giudicato:  Procedimenti in corso: Corruzione e finanziamento illecito ai partiti, Berlusconi è indagato con l'accusa di aver corrotto nel 2006, con 3 milioni di euro, il senatore Sergio De Gregorio per favorire il suo passaggio tra le file della Casa delle Libertà.

Su molti dei procedimenti giudiziari contro Berlusconi, alcuni dei quali ancora in corso, c'è acceso dibattito tra i suoi sostenitori e i suoi detrattori. Berlusconi ed i suoi sostenitori affermano che i processi relativi alla sua attività imprenditoriale sarebbero cominciati dopo la sua "discesa in campo", ed esclusivamente a scopo persecutorio nei suoi confronti. Sostengono che tali processi, che ritengono basati su mere illazioni (spesso definite "teoremi") prive di riscontro probatorio, siano stati istruiti nell'ambito di una persecuzione giudiziaria orchestrata delle "toghe rosse", ossia da magistrati vicini ai partiti e alle ideologie di sinistra (iscritti a Magistratura democratica), che utilizzerebbero illegittimamente la giustizia a fini di lotta politica. I critici di Berlusconi sostengono invece che i processi siano iniziati prima della "discesa in campo" (e precisamente nel 1993), asserendo che se non fosse entrato in politica sarebbe finito in bancarotta e probabilmente in galera, e che, grazie alle cosiddette leggi ad personam varate dal suo governo, avrebbe evitato di essere condannato. A questo proposito Fedele Confalonieri dichiarò che se Berlusconi non fosse entrato in politica sarebbe stato condannato o costretto al fallimento. I critici inoltre sottolineano che svariate pronunce di proscioglimento non ne dichiarano l'assoluzione, ma la sopravvenuta prescrizione del processo: affermano quindi che, se avesse voluto che fosse riconosciuta la propria innocenza anche in tali processi, avrebbe potuto rinunciare espressamente alla prescrizione. Riguardo alle accuse di parzialità dei giudici, infine, essi osservano che Berlusconi, rispetto ad altri imputati, abbia al contrario giovato del vedersi riconoscere dai giudici le attenuanti generiche, anche se le attenuanti generiche, pur rimesse in toto alla discrezionalità del giudice, vengono di regola concesse sempre a chi sia incensurato, così come era incensurato Berlusconi sino al 1º agosto 2013. Silvio Berlusconi ha più volte ribadito che le indagini hanno seguito la sua "discesa in campo", e ha denunciato i magistrati milanesi, presso la procura di Brescia, per il reato di «attentato ad organo costituzionale»; la denuncia è stata archiviata, e nelle motivazioni si legge: « Risulta dall'esame degli atti che, contrariamente a quanto si desume dalle prospettazioni del denunciante, le iniziative giudiziarie [...] avevano preceduto e non seguito la decisione di "scendere in campo" (Carlo Bianchetti, giudice per le udienze preliminari di Brescia, ordinanza di archiviazione della denuncia, 15 maggio 2001).»

Le aggressioni. Il 31 dicembre 2004, in piazza Navona a Roma, Silvio Berlusconi venne colpito con un treppiede da macchina fotografica da Roberto Dal Bosco, un giovane muratore di Marmirolo. Dopo essere stato diciannove ore in arresto, Dal Bosco fu scarcerato e inviò le sue scuse al primo ministro italiano che decise di non sporgere denuncia. Il comitato "L'altrainformazione" e il senatore Mario Luzi ipotizzarono, in seguito, una possibile strumentalizzazione di Silvio Berlusconi dell'aggressione subita. Il 13 dicembre 2009, dopo un comizio in piazza del Duomo a Milano, Silvio Berlusconi venne colpito al volto con una riproduzione del duomo, lanciatagli da distanza ravvicinata, riportando diverse ferite al volto, nonché la frattura del setto nasale e di due denti dell'arcata superiore. L'aggressore, incensurato e precedentemente in cura per problemi psichici, fu subito arrestato e, in seguito, messo agli arresti domiciliari in una comunità terapeutica; il 29 giugno 2010 fu assolto perché incapace di intendere e di volere.

I Riconoscimenti. Il 23 settembre 2003, a New York, gli è stato consegnato il premio "Statista dell'anno" dalla Anti-Defamation League, l'organizzazione ebraica che combatte l'antisemitismo nel mondo. Il 2 marzo 2006, negli Stati Uniti d'America, durante l'annuale celebrazione del "saluto alla Libertà", la Intrepid Foundation, ente privato statunitense, lo ha insignito del premio Libertà Intrepid 2006 per «la coraggiosa leadership contro il terrorismo». Il 27 settembre 2006 gli viene riconosciuto il premio "Madonnina d'oro" offerto dalla Comunità Incontro di Don Gelmini per il contributo personale dato alla ricostruzione di una scuola in Thailandia, dopo lo tsunami, e per l'ampliamento di un ospedale in Bolivia. Laurea honoris causa in ingegneria gestionale dall'Università della Calabria — 27 novembre 1991. Onorificenze. Onorificenze italiane: Cavaliere del lavoro «Dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza con il massimo dei voti, decise di dar vita ad una attività indipendente nel settore dell'industria edile fondando la Società "Cantieri Riuniti Milanesi S.p.A.". Nel 1963 ha costituito la Società "Edilnord" che ha realizzato, tra l'altro, in provincia di Milano, un centro per quattromila abitanti, il primo in Lombardia dotato di centro commerciale, centro sportivo, campi di giuoco, scuole materne ed elementari. Dal 1969 al 1975, in applicazione di una nuova concezione urbanistica, Silvio Berlusconi ha realizzato la costruzione di "Milano 2", una città per diecimila abitanti contigua a Milano, dotata di tutte le più moderne attrezzature pubbliche e sociali, la prima unità urbana in Italia con tre circuiti differenziali per auto, ciclisti e pedoni. È Presidente e Direttore Generale della Edilnord progetti S.p.A. e Presidente della Fininvest S.p.A.» — 2 giugno 1977 (autosospeso il 19 marzo 2014); Cavaliere di Gran Croce di merito con Placca d'Oro del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio — 14 marzo 2003. Onorificenze straniere: Membro di I Classe dell'Ordine del Re Abd al-Aziz (Arabia Saudita)— Jeddah, 22 novembre 2009; Cavaliere di I Classe dell'Ordine della Stara Planina (Bulgaria) — 2009; Grand'Ufficiale dell'Ordine delle Tre Stelle (Lettonia)— 2005; Compagno d'Onore Onorario dell'Ordine Nazionale al Merito (Malta)— 20 gennaio 2004; Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine Reale Norvegese al Merito (Norvegia)— 2001; Gran Croce dell'Ordine al Merito della Repubblica di Polonia (Polonia)— 2002; Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine della Stella di Romania (Romania)— 2002; Cavaliere dell'Ordine Piano (Santa Sede — 2005).

La figura di Silvio Berlusconi è stata rivisitata molto spesso in opere nella cultura di massa da cineasti, cantanti, fumettisti e letterati.

Berlusconi, vent’anni di rapporti con la magistratura. Dalle «toghe rosse» ai ringraziamenti per i giudici della Cassazione che hanno confermato l’assoluzione nel processo Ruby. Dal 22 novembre 1994 - data in cui Berlusconi, capo del governo, riceve un invito a comparire dalla Procura di Milano che sta indagando sulle tangenti alla Guardia di finanza - fino a oggi, sono stati altalenanti e spesso conflittuali i rapporti del leader di Forza Italia con la magistratura, scrive “Il Corriere della Sera”.

1. Il pool «Mani Pulite» e l’avviso di garanzia del 1994. Il primo interessamento della giustizia nei confronti di Berlusconi risale al 1983 quando la Guardia di finanza segnalò un suo presunto coinvolgimento in un traffico di droga con la Sicilia. L’inchiesta venne archiviata. La prima condanna, invece, è del 1990: la Corte d’appello di Venezia, dichiara Berlusconi colpevole di aver giurato il falso davanti ai giudici, a proposito della sua iscrizione alla lista P2. Nel settembre 1988, infatti, in un processo per diffamazione da lui intentato contro alcuni giornalisti, Berlusconi aveva dichiarato al giudice: «Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo che è di poco anteriore allo scandalo». Nonostante la Corte d’appello di Venezia dichiari Berlusconi colpevole (il giudice era Luigi Lanza), il reato è considerato estinto per l’amnistia del 1989.  Il 22 novembre del 1994 Berlusconi, capo del governo, mentre presiede la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità transnazionale, riceve un invito a comparire dalla Procura di Milano che stava indagando sulle tangenti alla Guardia di finanza. Le tangenti servivano per alleggerire le verifiche alle società Mondadori, Mediolanum, Videotime, Telepiù: in primo grado Berlusconi è stato condannato a 2 anni e 9 mesi; in appello, grazie alle attenuanti generiche, è scattata la prescrizione.

2. All Iberian, dalle accuse alla prescrizione. Il 12 luglio 1996 Silvio Berlusconi, l’ex segretario del Psi Bettino Craxi, l’amministratore delegato di Mediaset Ubaldo Livolsi vengono rinviati a giudizio con altre nove persone per l’ inchiesta sul presunto finanziamento illecito della Fininvest, attraverso la società All Iberian, al Psi nel 1991. Il processo inizia il 21 novembre 1996 davanti ai giudici della seconda sezione penale del tribunale di Milano. Il pm Francesco Greco chiede per Berlusconi 5 anni e 6 mesi di reclusione e 12 miliardi di multa poi, dopo lo stralcio del reato di falso in bilancio, riformula la richiesta in due anni e mezzo di reclusione e 12 miliardi di multa. Nel 1998 Berlusconi viene condannato in primo grado (2 anni e 4 mesi). «I giudici hanno riscritto il codice penale per allineare le norme alle esigenze repressive della procura» dichiara Berlusconi. In appello però, nel 2000, sempre per le attenuanti generiche scatta la prescrizione.

3. Colombo, il caso Lentini e la prescrizione. C’e’ anche un capitolo «sportivo»: versamento in nero di una decina di miliardi dalle casse del Milan a quelle del Torino, per l’acquisto di Gianluigi Lentini. Il dibattimento si conclude con la dichiarazione che il reato è prescritto, grazie alla legge che abolisce il falso in bilancio. È lo stesso pubblico ministero Gherardo Colombo a chiedere l’applicazione della prescrizione, dopo che il tribunale respinge la sua eccezione di incostituzionalità della normativa varata nel marzo 2002 in materia di falso in bilancio.

4. Il tribunale civile e il risarcimento a De Benedetti. Berlusconi è poi coinvolto in una lunga serie di processi per la corruzione dei giudici romani in relazione al Lodo Mondadori e al caso Sme. Sono i processi che hanno protagonista Stefania Ariosto, il teste «Omega» e Cesare Previti. Condanne per Cesare Previti e il giudice Metta. Per quanto riguarda il Lodo Mondadori, dopo una guerra durata vent’anni, si stabilisce che Berlusconi deve risarcire De Benedetti. Luigi de Ruggiero, Walter Saresella e Giovan Battista Rollero sono i tre giudici della seconda sezione civile della Corte d’Appello di Milano che emettono la sentenza nell’ambito della vicenda del Lodo Mondadori che condanna Fininvest al pagamento di circa 560 milioni di euro. La cifra diventa 494 milioni dopo la Cassazione.

5. De Pasquale e l’accusa nel caso Mills, ma è prescrizione. Le procure di Caltanissetta e Firenze che hanno indagato sui mandanti a volto coperto delle stragi del 1992 e del 1993 hanno svolto indagini sull’eventuale ruolo che Berlusconi e Dell’Utri possono avere avuto in quelle vicende. L’inchiesta è stata chiusa con l’archiviazioni nel 1998 (Firenze) e nel 2002 (Caltanissetta). La procura di Palermo, inoltre, ha indagato su Berlusconi per mafia: concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio di denaro sporco. Nel 1998 l’indagine e’ stata archiviata per scadenza dei termini massimi concessi per indagare. Definitiva la prescrizione per il caso Mills, l’avvocato inglese che avrebbe ricevuto 600 mila euro da Berlusconi per testimonianze reticenti ai processi per All Iberian e tangenti alla Gdf.  A sostenere l’accusa contro Berlusconi il pm Fabio De Pasquale.

6. Caso Ruby, Boccassini è pubblica accusa. Il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, insieme al pm Antonio Sangermano, rappresenta la pubblica accusa nel processo di primo grado sul caso Ruby. I rapporti di Berlusconi con Boccassini sono conflittuali. L’ex premier respinge le accuse e condanna l’operato dei pm di Milano.

7. Tre donne per la condanna in primo grado. Il 24 giugno 2013, nel processo Ruby, Silvio Berlusconi viene condannato in primo grado a 7 anni per entrambi i reati contestati: concussione per costrizione e prostituzione minorile. Il collegio della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che giudica Berlusconi è composto da donne: la presidente Giulia Turri, che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per il “fotografo dei vip” Fabrizio Corona; Carmen D’Elia, che già nel 2002 aveva fatto parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi; Orsola De Cristofaro, la terza componente del collegio, con un passato da pm e gip, già giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita.

8. L’assoluzione in appello. Il presidente si dimette. Il processo d’appello per il caso Ruby si tiene davanti alla seconda Corte d’Appello: Enrico Tranfa è il presidente, Concetta Lo Curto e Alberto Puccinelli i giudici a latere. Berlusconi viene assolto dal reato di concussione «perché il fatto non sussiste» e dal reato di prostituzione minorile «perché il fatto non costituisce reato». L’ex Cavaliere commenta che «la maggioranza magistrati è ammirevole». Enrico Tranfa, il presidente, si dimette subito dopo aver firmato le motivazioni della sentenza, in dissenso con la sentenza presa a maggioranza con il sì degli altri due giudici. E così, dopo 39 anni di servizio, a 15 mesi dalla pensione, il magistrato lascia anzitempo la toga. Tranfa ha esercitato la professione in gran parte a Milano. Negli anni 90 è stato all’ufficio Gip. Come giudice delle indagini preliminari, nel periodo di Mani Pulite, si era occupato di uno dei filoni dell’inchiesta sugli appalti Anas e di quella sulla centrale dell’Enel a Turbigo per cui dispose l’arresto, tra gli altri, dell’ex assessore lombardo in quota alla Dc Serafino Generoso. Nel 2002 è stato nominato presidente del Tribunale del Riesame sempre di Milano. Come giudice d’appello ha confermato, tra l’altro, la condanna a tre anni di carcere per Ubaldo Livolsi per la bancarotta di Finpart. Concetta Lo Curto, entrata in magistratura nel 1990, è stata giudice al Tribunale di Milano, prima all’ottava sezione penale e poi alla terza dal 1995 al 2013 quando poi è passata in Corte d’Appello. Nel 2010 assolse l’allora deputato del Pdl Massimo Maria Berruti, imputato per la vicenda Mediaset (la sua posizione era stata stralciata da quella di Berlusconi e degli altri). Puccinelli, entrato in magistratura nell’89, è stato il giudice relatore al processo di appello che si è concluso con la prescrizione per Berlusconi, imputato per la vicenda del «nastro Unipol».

9. Processo Ruby, il pg De Petris contro l’assoluzione. La sesta sezione penale della Corte di Cassazione confermato l’assoluzione, che diventa definitiva, di Silvio Berlusconi nel processo Ruby. Il sostituto procuratore della Corte d’Appello Pietro De Petris aveva fatto ricorso in Cassazione contro l’assoluzione.

10. Processo Mediaset, l’accusa di De Pasquale e Spadaro. Il 18 giugno 2012 i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono una condanna a 3 anni e 8 mesi di reclusione per Silvio Berlusconi, imputato di frode fiscale nel processo sulle presunte irregolarità nella compravendita dei diritti tv da parte di Mediaset.  Il 26 ottobre 2012 l’ex premier viene condannato a 4 anni di reclusione, cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e tre anni di interdizione dagli uffici direttivi delle imprese.

11. Pena più severa di quanto richiesto. Il presidente del collegio che condanna Berlusconi in primo grado è Edoardo D’Avossa con i giudici a latere Teresa Guadagnino e Irene Lupo). La pena è maggiore di quanto chiesto dai pm. Berlusconi commenta: «È una condanna politica, incredibile e intollerabile. È senza dubbio una sentenza politica come sono politici i tanti processi inventati a mio riguardo».

12. Il giudice Galli conferma in appello. L’8 maggio 2013, dopo quasi sei ore di camera di consiglio, i giudici della seconda Corte d’Appello di Milano, presieduti da Alessandra Galli (nella foto Brandi/Fotogramma), confermano la condanna a 4 anni di reclusione, di cui tre coperti da indulto, per Silvio Berlusconi, accusato di frode fiscale nell’ambito del processo sulla compravendita dei diritti tv Mediaset. Berlusconi parla di «persecuzione» da parte della magistratura che vuole eliminarlo dalla scena politica.

13. Esposito, la Cassazione e l’intervista contestata. Il primo agosto 2013 la Cassazione conferma la condanna a quattro anni di carcere. A leggere la sentenza sul processo Mediaset è il presidente della sezione feriale della corte di cassazione Antonio Esposito. Nei giorni successivi, il giudice Esposito finisce nella bufera per un’intervista a «Il Mattino» in cui parla della sentenza sul processo Mediaset-Berlusconi. Lo stesso magistrato farà seguire una smentita riguardo ad alcuni passaggi. In particolare, Esposito smentisce anche «di aver pronunziato, nel colloquio avuto con il cronista - rigorosamente circoscritto a temi generali e mai attinenti alla sentenza, debitamente documentato e trascritto dallo stesso cronista e da me approvato - le espressioni riportate virgolettate: “Berlusconi condannato perché sapeva non perché non poteva non sapere».

10 marzo 2015. La Corte di Cassazione assolve. Questa donna (la Boccassini) ha distrutto il Paese Ma resterà impunita. Anche un magistrato come Emiliano si indigna: "Chieda scusa". E nonostante tutto Ilda Boccassini rimarrà al suo posto come sempre, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Per La Repubblica, Berlusconi non è un innocente perseguitato ma un «colpevole salvato», come si evince dal titolo che racconta con stizza dell'assoluzione definitiva in cassazione sul caso Ruby. Il Corriere della Sera affida invece al suo segugio Luigi Ferrarella la difesa senza se e senza ma dell'operato dei pm milanesi. Un ufficio stampa della procura non avrebbe saputo fare di meglio e, ovviamente, Ferrarella tace sul fatto che lui stesso e autorevoli colleghi del suo giornale nel corso di questi anni avevano già emesso la sentenza di colpevolezza in centinaia di articoli nei quali si spacciavano per prove certe i farneticanti teoremi dell'accusa. Non sappiamo invece il commento di Ilda Boccassini, la pm che ha fatto da redattore capo di quella grande messa in scena truffaldina ed esclusivamente mediatica che è stata l'inchiesta Ruby. Una cosa però conosciamo. E cioè che la Boccassini, grazie a questa inchiesta, è stata inclusa dalla rivista statunitense Foreign Policy al 57esimo posto nella lista delle personalità che nel corso del 2011 hanno influenzato l'andamento del mondo nella politica, nell'economia, negli esteri.Non stiamo parlando di un dettaglio. Anche dall'altra parte dell'Oceano erano giunti alla conclusione che le notizie costruite dalla procura di Milano e spacciate da Corriere e Repubblica non costituivano un mero fatto giudiziario ma avevano contribuito in modo determinante a modificare giudizi sull'Italia con ricadute decisive financo sul piano internazionale. Oggi, grazie alla sentenza di Cassazione, sappiamo che si trattò di una iniziativa scellerata, completamente falsa, paragonabile a un complotto per destabilizzare un Paese sovrano. Complotto ordito da magistrati e sostenuto da complici, o almeno utili idioti, nelle redazioni dei giornali nazionali ed esteri, nelle stanze di governi stranieri e in quelle della politica di casa. A partire da quella più prestigiosa del Quirinale, allora abitata da Giorgio Napolitano. Il quale non solo non mosse un dito per fermare il linciaggio del suo primo ministro, ma, proprio sull'onda di quella destabilizzazione, ricevette in segreto banchieri, editori e imprenditori di sinistra per organizzare un controgoverno (Monti, per intenderci) nonostante quello in carica godesse ancora della piena fiducia del Parlamento. Alla luce di tutto questo, e in attesa che la Corte europea faccia giustizia di un'altra bufala giudiziaria (la condanna di Berlusconi per evasione fiscale, avvenuta grazie al trucco di assegnare la sentenza non al giudice naturale, ma a un collegio costruito ad hoc, guarda caso su sollecitazione del Corriere della Sera ), ora si pongono problemi seri che meritano risposte veloci e all'altezza di un Paese libero e democratico. Riguardano la permanenza nelle loro delicate funzioni dei responsabili e la riabilitazione politica della vittima Berlusconi. Nessuno, su questo, può permettersi di fare il pesce in barile.

Il giallo Tranfa e quei Servizi rimasti muti, scrive Giovanni Maria Jacobazzi su “Il Garantista”. Il processo Ruby non è stato un processo come tanti. Molti aspetti, oscuri, hanno connotato questa vicenda penale che ha portato alla caduta di un governo e allo sfascio di un partito. Tralasciando lo sputtanamento internazionale e il ludibrio planetario che hanno investito Silvio Berlusconi e, di riflesso, il Paese. Due, principalmente, sono gli episodi che fanno riflettere e che ad oggi non hanno avuto risposta. Episodi che riguardano proprio l’inizio e la fine dell’inchiesta. Il primo riguarda le modalità con cui sono state condotte le indagini preliminari da parte della Procura della Repubblica di Milano. Il secondo le dimissioni del giudice Enrico Tranfa, il presidente del collegio che in appello ha assolto Silvio Berlusconi dopo la condanna in primo grado a sette anni. Per scoprire cosa accadesse la sera nella residenza di Arcore, la Procura di Milano non ha lesinato energie. Con un dispiegamento di forze senza pari in relazione ai tipo di reato perseguito, una ipotesi di prostituzione minorile e di concussione, i pubblici ministeri milanesi hanno posto in essere un numero elevatissimo di intercettazioni telefoniche. Tranne Silvio Berlusconi che, essendo parlamentare, non poteva essere intercettato, chiunque entrasse in contatto con Villa San Martino si ritrovava il telefono sotto controllo. Decine di ragazze, ma non solo, furono intercettate per mesi. Ogni loro spostamento accuratamente monitorato. Centinaia i servizi di osservazione, controllo e pedinamento come si usa dire in gergo questurile. All’epoca dei fatti, il 2009, Silvio Berlusconi era il presidente del Consiglio. Il suo uomo più fidato, Gianni Letta, sottosegretario di Stato con delega ai Servizi. Come è stato possibile effettuare una attività investigata di queste proporzioni, migliaia le intercettazioni effettuate, senza che nessuno, in maniera ovviamente riservata,  facesse arrivare il  “messaggio” all’indagato eccellente di prestare attenzione alle persone frequentate ed ai comportamenti da tenere? Nessuna indicazione dai gestori telefonici? Nessun dubbio circa questa anomala concentrazione di utenze sotto controllo proprio nella residenza privata del presidente del Consiglio, sottoposta a misure di massima sicurezza secondo la legge 801 che disciplina il segreto di Stato? Ma il rapporto anomalo con gli apparati di sicurezza è anche alla base dell’accusa più grave caduta sulla testa di Berlusconi. Quella di concussione nei confronti del capo di gabinetto della Questura di Milano. Come mai il presidente del Consiglio, residente a Milano, città dove ha il centro dei suoi interessi e dove vive la sua famiglia, non si rivolge, per motivi di opportunità e riservatezza, direttamente al Questore ma passa attraverso il suo capo di gabinetto, peraltro chiamatogli al telefono dal suo capo scorta? Essendo il Consiglio dei ministri preposto alla nomina dei questori delle città, non si può proprio dire che l’allora premier non conoscesse chi fosse al vertice della pubblica sicurezza del capoluogo lombardo. E infine le dimissioni improvvise e inaspettate del giudice Enrico Tranfa, il presidente del collegio di Appello che ha assolto Silvio Berlusconi, subito dopo il deposito delle 330 pagine delle motivazioni della sentenza. Come si ricorderà, dopo aver depositato la sentenza di assoluzione, Enrico Tranfa fece domanda per essere collocato in pensione. Poteva restare in servizio altri quindici mesi. Decise di anticipare l’uscita dalla magistratura. Campano di Ceppaloni, il paese che ha dato i natali anche a Clemente Mastella, collocabile nella corrente di Unicost, Tranfa era dal 2012 a Milano in Corte d’Appello come presidente della seconda sezione penale. Equilibrato, molto preparato, mai una parola fuori posto. Un persona mite. Nulla che potesse far prevedere una reazione del genere. Le sue dichiarazioni, a chi gli chiedeva il perché di una simile decisione, furono soltanto “è una decisione molto meditata, perché in vita mia non ho fatto niente di impulso. Tutti sono utili, nessuno è indispensabile”. Per poi aggiungere: “Il compito di un giudice non è quello di cavillare con i tecnicismi, ma prendere un fatto, valutarlo alla luce delle norme, e poi fare un atto di volontà, decidendo. Altrimenti è la giustizia di Ponzio Pilato”. Sul caso montò la contrapposta lettura politica: “Solidarietà” dal Pd e dure critiche da Forza Italia. Le dimissioni in polemica con l’assoluzione scatenarono anche le ire del presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio. “Se dettate da un personale dissenso per l’assoluzione di Silvio Berlusconi non appaiono coerenti con le regole ordinamentali e deontologiche che impongono l’assoluto riserbo sulle dinamiche della Camera di consiglio”, disse Canzio, “trattasi di un gesto clamoroso e inedito”. Se per ogni disaccordo in un collegio il magistrato dovesse dimettersi, in magistratura rimarrebbero in pochi. Ma quell’anomalia, come la prima, con ogni probabilità rimarrà senza risposta.

Processo Ruby, pool di Milano: le lettere segrete delle toghe rosse alla giudice che assolse Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. Le toghe rosse di Milano si attendevano l'annullamento dell'assoluzione in secondo grado. Volevano Silvio Berlusconi di nuovo alla sbarra nel processo Ruby. Ma così non è andata. Confermata l'assoluzione. E dopo la conferma, oltre al Cav, ci sono state diverse persone che si sono levate dei sassolini dalle scarpe. Una di queste era la giudice Concetta Locurto, toga stimata e progressista, già coordinatrice milanese di Area, il cartello tra le correnti di sinistra di Magistratura Democratica. Una, insomma, che aveva il "pedegree" giusto per condannare Berlusconi in secondo grado. Già, perché la Locurto la scorsa estate era la relatrice della sentenza di assoluzione del Cav nel processo Ruby. L'assoluzione scatenò un vespaio di polemiche in magistratura, culminate con le dimissioni del suo collega e presidente del collegio, Enrico Tranfa, che con il passo indietro volle dissociarsi da un verdetto che non condivideva. La Locurto, al tempo, non volle commentare. E non ha voluto commentare neppure dopo la conferma dell'assoluzione che, nei fatti, ha confermato la bontà del suo operato. E il silenzio le deve essere costato, perché come spiega il Corriere della Sera la toga che ha assolto Berlusconi ha vissuto mesi da incubo, tra "attacchi e implicite insinuazioni di cosa di oscuro potesse essere accaduto attorno al processo" per spingere Tranfa alle dimissioni. Ha taciuto, la Tranfa. Almeno in pubblico. Già, perché secondo quanto scrive sempre il Corsera, la toga avrebbe scritto una piccola lettera ai colleghi (agli stessi colleghi che nei mesi precedenti tempestavano la sua email parlando di "torsione del diritto"). Il Corsera ha provato a chiederle del contenuto della lettera, ma la Tranfa, fedele alla sua riservatezza, ha scelto di non parlare. Eppure qualcosa è emerso. Nonostante il rifiuto della giudice, è stato ricostruito quanto abbia detto interpellando i destinatari della missiva. La Tranfa non giudicava la bontà della sentenza, ma metteva in guardia dai rischi di "una malevola dietrologia faziosa", del "pregiudizio", dei "pensieri in libertà da chiacchiera da bar" della quale è stata vittima per mesi per aver fatto il suo lavoro, che nella fattispecie prevedeva di assolvere Berlusconi. La Tranfa avrebbe scritto dei "magistrati che giudicano senza conoscere, finendo - proprio loro - per partecipare al tiro al piccione senza alcun rispetto per l'Istituzione e le persone". E il piccione, in quel momento, era proprio lei. E il "piccione", ora, si toglie le sue soddisfazioni. Nella missiva avrebbe aggiunto l'invito ai colleghi ad "andarsi a rileggere i provvedimenti redatti nel corso dell'intera carriera, piccoli o grandi che fossero, per avere certezza dell'identità di metro di valutazione utilizzato indifferentemente per extracomunitari e potenti". Quel metro di giudizio imparziale che però, i colleghi, le rimproverano: se c'è il Cav alla sbarra deve essere condannato.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: logica da pm. Se Silvio Berlusconi conosce Noemi Letizia, è colpevole. La Cassazione doveva confermare o non confermare l’assoluzione di Silvio Berlusconi (caso Ruby) per concussione e prostituzione: dopodiché, lo schema era il solito. La Corte che si riunisce nel primo pomeriggio, i giornalisti italiani e stranieri che ciacolano, la consueta assicurazione che la sentenza arriverà «in serata» e che perciò potranno scriverne, hurrà. Ma forse i giudici non erano aggiornati: non sapevano che i quotidiani hanno le chiusure sempre più anticipate, mannaggia: come possono non tener conto delle sacre esigenze mediatiche? Come possono aver saltato i telegiornali della sera? I giudici (presidente Nicola Milo, consiglieri Giorgio Fidelbo, Stefano Mogini e Gaetano De Amicis) dovevano prendere esempio dal procuratore generale Eduardo Scardaccione, che nel pomeriggio aveva esposto una requisitoria mediaticamente perfetta. Niente di strano che abbia chiesto di annullare - con rinvio in Appello - l’assoluzione di Berlusconi per entrambi i reati: è ciò che ci si attendeva da lui, un’apologia di quel processo che in primo grado aveva condannato il Cav a sette anni. Mentre invece le assoluzioni di luglio scorso - pochi mesi fa: la giustizia italiana sa essere velocissima - secondo Scardaccione andavano polverizzate: altro che «il fatto non sussiste» (concussione) e «il fatto non costituisce reato» (prostituzione minorile). Sin qui tutto normale. Ma sono altri argomenti che ha adottato - poi - a farci pensare ancora una volta che taccuini e telecamere andrebbero tenuti lontani dai palazzi di giustizia. Scardaccione ha detto che le accuse sono «pienamente provate» (vabbeh) e che la Corte d’appello non doveva riaprire il processo bensì rideterminare la pena di primo grado: e ci sta anche questo. Poi lo show: «L’episodio nel quale Berlusconi racconta che Ruby è la nipote di Mubarak è degno di un film di Mel Brooks e tutto il mondo ci ha riso dietro». Uhm. Purtroppo «il mondo» non ha testimoniato a processo. E neppure Mel Brooks. A ogni modo il procuratore Scardaccione ha proseguito spiegando che la concussione c’è stata, anzi «c’è stata una violenza irresistibile» per ottenerla. Lo proverebbe il fatto che dal momento in cui ha ricevuto la telefonata di intervento da Berlusconi il capo di gabinetto della Questura di Milano «non capisce più nulla e fa ben 14 telefonate: c’è spazio per ritenere che la pressione fosse resistibile?... No... L’intervento ha avuto una potenza di fuoco tale da annullare le scelte autonome del funzionario». Par di capire che qualsiasi telefonata di Berlusconi in quel periodo - essendo lui premier ed essendo Berlusconi - avesse una potenziale valenza concussoria: chiunque ne riceveva una andava praticamente in palla e veniva annullato nella volontà, una forma di ipnosi. Il procuratore generale non ha contemplato che i dirigenti della Questura fossero banalmente eccitati all’idea di poter fare un favore al presidente del Consiglio: cosa che avrebbe avuto una valenza più che ambigua se solo avessero fatto qualcosa che non dovevano fare. Ma ciò che fecero (identificazione di Ruby, foto segnalazione e ricerca di una comunità per l’affido) corrispondeva alla prassi in vigore. Ma secondo Scardaccione no, c’è stata «una violenza grave, perdurante e irresistibile anche a margine della consegna di Ruby a Nicole Minetti». Il dettaglio è che l’idea di consegnare Ruby alla Minetti non fu un’idea di Berlusconi bensì una soluzione escogitata in questura. Ma - possiamo dirlo? - ci sta anche questo. È passando al reato di prostituzione minorile che si giunge all’incredibile: perché Scardaccione ha tirato in ballo Noemi Letizia, una ragazza che non c’entra un accidente - mai tirata in ballo in nessun processo, in nessun modo - perché la circostanza che Noemi e Ruby fossero due minorenni «non è una coincidenza» e rende «non credibile» che Berlusconi non sapesse della minore età di Ruby. Scardaccione ha ricordato quanto aveva detto Ruby in un’intercettazione: «Noemi è la sua pupilla e io il suo culo». Cioè: il fatto che due amici di Berlusconi avessero una figlia minorenne non poteva essere un caso. E chissà - aggiungiamo noi - quanti milioni di elettori di Forza Italia, negli ultimi vent’anni, hanno avuto figlie minori. Insomma: se Berlusconi sapeva che la figlia di due suoi amici era minorenne, beh, doveva sapere anche l’età di tutta la carovana di signorine che la sera gli portavano a casa con la carriola. Pagandole, certo: perché Franco Coppi, l’avvocato di Berlusconi, ieri non l’ha negato: «La sentenza d’appello ammetteva che ad Arcore avvenivano fatti di prostituzione, cosa che non contestiamo nemmeno noi difensori: ma manca, in fatto, la prova che Berlusconi prima del 27 maggio sapesse che Ruby era minorenne». Sempre che i processi si facciano ancora con le prove.

Il caso Ruby c’è costato mezzo milione. Per i pm le spese ammontano a 65mila euro, ma facendo altri calcoli si sfiorano i 600mila, scrive Simone Di Meo su “Il Tempo”. Quanto è costata l'inchiesta Ruby alle casse dello Stato? La classica domanda da un milione di dollari ha una doppia risposta. La versione minimalista, accreditata dai conti della Procura della Repubblica di Milano contenuti nel faldone 33 del procedimento, parla di appena 65mila euro così suddivisi: in sei mesi sono stati pagati 26mila euro per le intercettazioni e 39mila euro per trascrizioni di interrogatori, traduzioni dall’arabo, per il noleggio auto, la più costosa delle quali - una Golf - è stata pagata 4mila euro, e per l’acquisto di registratori digitali. Pochi spiccioli anche per le trasferte dei poliziotti in alcuni hotel di Rimini: poco meno di 200 euro per tre diversi viaggi. Insomma, per questa scuola di pensiero il procedimento penale del pm Ilda Boccassini non ha prosciugato le casse del ministero della Giustizia ma si è mantenuto addirittura al di sotto dello standard della Direzione distrettuale antimafia. Questione risolta, allora? Mica tanto perché a questa immagine light dell'inchiesta se ne contrappone una più approfondita che zavorra con almeno uno zero la cifra iniziale portandola a oltre mezzo milione di euro. Ci sono alcuni costi che, nel computo del pubblico ministero, non vengono infatti elaborati. Sarà sicuramente una distrazione, ma bisogna fare chiarezza. Stiamo parlando dei cosiddetti costi fissi che riguardano l'utilizzo della polizia giudiziaria per condurre un'indagine fatta a pezzi dalla Corte d'appello e dalla Cassazione dopo una prima condanna a sette anni nei confronti di Silvio Berlusconi. Un'indagine fondata su due capi di imputazione che tecnicamente non hanno retto al vaglio delle toghe. Perché è vero che un poliziotto o un carabiniere viene ugualmente stipendiato dallo Stato (e ci mancherebbe) ma c'è un particolare di cui non tutti si ricordano: il poliziotto o il carabiniere in questione avrebbe potuto essere impiegato su un altro versante giudiziario, magari più interessante e utile. E questo - dal punto di vista aziendalistico - è un costo che non può essere omesso se si vuole davvero fare una descrizione esatta del valore contabile del fascicolo Ruby. Dare per scontate queste voci di costo è un errore. Così come è un errore non calcolare il noleggio dell'apparecchiatura utilizzata per geolocalizzare i cellulari che hanno agganciato la cella di Arcore alla ricerca delle utenze delle partecipanti alle "cene eleganti". Un'attrezzatura che, secondo quanto risulta a Il Tempo costa in media 1000 euro al giorno: è probabile che fosse già in dotazione agli uomini del Servizio centrale operativo cui sono state delegate le attività investigative, ma il suo utilizzo, in termini economici, dev'essere adeguatamente riportato nello schema della Procura. I "target" di intercettazioni e acquisizioni di traffico telefonico e di tabulati sono stati circa trenta per oltre 115mila conversazioni monitorate. Nell'intera operazione è presumibile che siano stati impegnati oltre cento poliziotti che, per la durata delle indagini, sono stati distolti da altri fascicoli, ovviamente. Non sbirri qualunque, ma uomini dello Sco, l'organo investigativo di punta del Viminale che solitamente dà la caccia a mafiosi, narcotrafficanti e serial killer. Per dire: i due superlatitanti del clan dei Casalesi, Antonio Iovine e Michele Zagaria, sono stati presi anche con la collaborazione del Servizio centrale. Che, nel caso in esame, è stato invece sguinzagliato sulle tracce delle olgettine e del ragionieri Spinelli, lauto pagatore ufficiale del Cav. Anche i loro stipendi, anche i loro straordinari, anche i loro ticket sono dei costi a carico dello Stato (e quindi dei cittadini) che devono essere inseriti nel bilancio Ruby. Alla fine, calcoli alla mano, l'indagine di "Ilda la rossa" tra costi fissi (quelli appena descritti, che riguardano l'intera struttura) e costi variabili (i famosi 65mila euro, che dipendono appunto dalle necessità investigative del momento) ha gravato sulle casse dello Stato per circa 600mila euro. È una stima prudenziale ma che ha un suo fondamento considerato che un poliziotto viene pagato in media 100 euro lordi al giorno. Qualcuno ci aggiungerebbe anche i costi dei processi (stipendi dei giudici, dei cancellieri, del personale amministrativo, fotocopie) ma entriamo nel fantastico mondo delle ipotesi e allora tutte le ricostruzioni sono possibili.

Signori del Csm, quell’inchiesta è senza ombre? Scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista. Sono politici, non morali, i motivi per cui è andato in onda per cinque anni il Pornofilm del Bungabunga che ha messo nel tritacarne un presidente del Consiglio, preso a picconate il suo partito, distrutto la sua reputazione nel mondo, insieme alla sua immagine personale e i suoi affetti. Tutto nasce non tanto dal fermo, in una serata di maggio del 2010, di una giovane marocchina. Né dalla successiva telefonata di Berlusconi alla questura di Milano. Casomai dall’uso che dell’episodio venne fatto dalla Procura della Repubblica più famosa e discussa d’Italia. E’ negli uffici del quarto piano del palazzo di giustizia di Milano, già allenati dalla caccia al cinghialone ai tempi di Craxi e di Tangentopoli, che parte la crociata di stampo talebano che prende di mira il presidente del Consiglio per i suoi costumi sessuali. Ma il Pornofilm è solo l’involucro, un uovo di pasqua con sorpresa. La sorpresa è tutta politica. Se il Consiglio superiore della magistratura volesse occuparsene, potrebbe rilevare parecchie anomalie, dentro quell’uovo. Prima cosa: Ruby viene fermata e rilasciata in una notte di fine maggio. Che cosa è successo tra quella data e quella in cui Silvio Berlusconi viene iscritto nel registro degli indagati (21 dicembre 2010) e in seguito raggiunto da un invito a comparire (14 gennaio 2011)? Succede che Ruby viene ripetutamente interrogata, una serie di persone che frequentavano la casa di Arcore viene monitorata e intercettata e si tende la tela del ragno che deve catturare la preda. Che la preda sia un Arcinemico di certa magistratura e certi Pubblici ministeri non è un segreto. Che dalle parti di Milano si usino metodi disinvolti sulle competenze territoriali (un presidente del Consiglio non dovrebbe essere giudicato dal Tribunale dei ministri?) è cosa altrettanto nota. Ma quel che succede a Milano è qualcosa di ben più mostruoso: per sette-otto mesi vengono fatte indagini su un contesto che ha al centro una persona che non è indagata, vengono disposte intercettazioni a persone che parlano al telefono con un parlamentare senza che sia chiesta, come prescrive la legge, l’autorizzazione alla Camera di appartenenza. Nei fatti si indaga su una persona in violazione delle normali procedure di legge. A nulla valgono le proteste degli avvocati, le interrogazioni parlamentari del deputato di Forza Italia Giorgio Stracquadanio, la curiosità che comincia a serpeggiare nella stampa italiana e anche straniera. La Procura di Milano tira dritto. Apparentemente arrogandosi il diritto di moralizzare i costumi altrui, in realtà con obiettivi ben più ambiziosi. Ma un’altra anomalia esplode clamorosa a un certo punto, la rissa da cortile tra il procuratore capo Bruti Liberati e il suo aggiunto Robledo sulle competenze tematiche e le assegnazioni delle inchieste. Perché le indagini su Berlusconi e il “caso Ruby” vengono assegnate a Ilda Boccassini, titolare delle inchieste sulla mafia e non a Robledo che si occupa di Pubblica Amministrazione? Berlusconi non è forse accusato di aver abusato del suo potere di presidente del Consiglio, con quella famosa telefonata in questura che gli costerà la condanna in primo grado per concussione? Questo aspetto della vicenda giace nelle scartoffie (nei fatti archiviate) del Csm sulla querelle Bruti-Robledo, che nessuno pare avere la curiosità di esaminare più. Sarebbe bene, invece, che l’organo di autogoverno di Pm e  giudici riaprisse gli occhi, su questo punto, e si chiedesse “perché” fosse così importante quella sostituzione di Robledo con Boccassini in un’inchiesta dal sapore squisitamente politico. Questo è il succo della vicenda: forzature e anomalie per il raggiungimento di uno scopo. Addirittura il procuratore generale di Milano, pur di fare il ricorso in Cassazione, si è appellato a questioni di merito, trascurando il fatto che il terzo grado di giudizio può riguardare solo questioni di legittimità. Un’altra delle anomalie “lombarde”, che la Cassazione avrebbe dovuto rilevare subito, rigettando il ricorso in dieci minuti. Nove ore di discussione sono un bel tributo alle tricoteuses di tutta Italia. In ogni caso,tutto il resto è contorno, il Pornofilm, il Bungabunga, sparsi a piene pani tramite un ventilatore in funzione permanente con lo scopo dello Sputtanamento. Oggi, con Berlusconi che porta a casa con una certa velocità (quattro anni per tre gradi di giudizio sono un’altra, piacevole, anomalia) l’assoluzione piena da due reati infamanti, resta il reato di Sputtanamento ancora vivo e vegeto nelle immagini del Pornofilm, tanto che gli avvocati sono stati costretti a dire (un po’ andando di fantasia) che, in fondo si, forse un po’ di prostituzione ad Arcore c’è stata, per rafforzare la realtà dei fatti sulla non conoscenza dell’età di una quasi-diciottenne che dimostrava, a detta di tutti, almeno venticinque anni. E che probabilmente era più una mantenuta che una prostituta. Anche in questo il processo Ruby è stato speciale. Ma non può finire qui. Il Csm ci deve spiegare se tutte queste violazioni sono consentite, se anche il nuovo corso “renziano” ha intenzione di chiudere gli occhi, come già si fece 20 anni fa con Tangentopoli, su questi metodi machiavellici, per cui la finalità politica può fare a pezzi le regole dello Stato di diritto e prevale sempre la filosofia del “tipo d’autore” (individuo la tipologia del colpevole, poi colpisco la persona), per cui la responsabilità penale non è più personale ma esplicitamente politica. Alla faccia dell’obbligatorietà dell’azione penale.

«Cittadini impotenti davanti ai magistrati», scrive Daniel Rustici su “Il Garantista”. «Il Csm cominci a fare sul serio il suo lavoro che fino ad oggi ha svolto, per usare un eufemismo, in modo deficitario. Sono stati puniti solo i magistrati fuori dal coro, mai quelli che hanno sbagliato nell’esercizio della professione. Il caso più emblematico è quello del processo Tortora dove i giudici di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia hanno fatto carriera. Il Csm dovrebbe essere meno indulgente e ”perdonista” nei confronti dei magistrati che commettono gravi errori». Chi parla è uno dei giudici più intransigenti e celebri per le sue feroci polemiche contro pezzi del mondo politico, e a difesa della magistratura: Antonio Ingroia. In un’intervista al nostro giornale ha detto che bisogna difendere i cittadini che talvolta sono troppo deboli di fronte ai magistrati e ai loro eventuali errori. Ha parlato anche di carcerazione preventiva, e ha detto che «in un Paese in cui i tempi per arrivare a una sentenza definitiva sono così lunghi, è facile che si arrivi ad utilizzare la carcerazione preventiva come una sorta di anticipazione della pena prevista in caso di condanna dopo i tre gradi di giudizio».

Ingroia, stanno facendo molto rumore le sue dichiarazioni sulla responsabilità civile dei giudici. Ha parlato di cittadini «impotenti» davanti al potere della magistratura. Detto da un’ex toga…

«Voglio precisare prima di tutto che sono contrario alla responsabilità civile dei magistrati. Penso invece che per garantire i diritti dei cittadini bisognerebbe che il Csm cominci a fare sul serio il suo lavoro che fino ad oggi ha svolto, per usare un eufemismo, in modo deficitario. Sono stati puniti solo i magistrati fuori dal coro, mai quelli che hanno sbagliato nell’esercizio della professione. Il caso più emblematico è quello del processo Tortora dove i giudici di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia hanno fatto carriera. La verità è che all’interno della magistratura troppo spesso si va avanti sulla base dell’appartenenza a questa o a quella corrente piuttosto che grazie al merito».

Cosa non la convince del disegno di legge del governo sulla punibilità dei giudici?

«La responsabilità civile non è uno strumento idoneo per difendere i cittadini. In primo luogo non lo è perché può portare il magistrato ad assumere una posizione di soggezione davanti all’imputato, specie se questo è ricco e potente. E non lo è perché moltiplicherebbe il lavoro nei tribunali e quindi, dilatando ancora di più i mostruosi tempi della nostra giustizia, paradossalmente andrebbe contro gli interessi degli imputati stessi. Lo ripeto, il vero problema è il Csm che dovrebbe essere meno indulgente e ”perdonista” nei confronti di chi commette gravi errori».

Sparare sul Consiglio nazionale della magistratura ora che ha smesso i panni di pm,non è troppo facile?

«Queste cose le ho sempre dette. Qualcuno potrebbe anche dire che parli male del Csm per come sono stato tratto io, per le parole contro le mie partecipazioni a manifestazioni pubbliche. Allora non parliamo di me, ma di un altro magistrato: Di Matteo. Perchè il Csm ostacola la sua nomina alla Procura nazionale antimafia e favorisce invece personaggi obiettivamente con meno competenze in materia?»

Perché?

«La risposta è semplice: ci si muove in base a logiche burocratiche e correntistiche invece che di sostanza».

Faceva prima riferimento alle sue contestate partecipazioni a manifestazioni politiche quando era ancora magistrato. È una scelta che rivendica?

«Sì. Mi è capitato di fare il pm nella stagione sbagliata. Trent’anni fa nessuno si scandalizzava se Terranova partecipava ai convegni del Pci e negli anni 70 nessuno si sognava di mettere in discussione la professionalità di Borsellino perché andava a parlare di giustizia nei consessi del Movimento sociale italiano. Resto convinto che un magistrato vada giudicato per quello che fa nell’orario di lavoro e che abbia tutto il diritto di esprimere le proprie opinioni. Io però sono stato subissato da attacchi, sia da parte del mondo politico sia dalla magistratura stessa…»

Nelle scorse settimane si è molto discusso delle ferie dei giudici. Ha ragione Renzi a volerle tagliare?

«Penso si tratti di un falso problema. Effettivamente 45 giorni sono tanti ma io, ad esempio, non ho mai goduto dell’intero periodo di ferie e come me la maggior parte dei giudici. Sostenere che la lentezza della giustizia italiana dipenda dalle toghe fannullone è solo un modo di trovare un capro espiatorio».

Quali sono invece le ragioni di questa lentezza e come si può intervenire per accelerare i tempi dei processi?

«Credo sia arrivata l’ora di mettere in discussione l’esistenza del processo d’appello. Con un grado secco di giudizio e un unico processo che decreti l’innocenza o la colpevolezza di un imputato si risparmierebbero un sacco di soldi e di energie. Ritengo poi necessario mettere fine alla corsa alla prescrizione, limitando l’abuso di questo strumento».

A proposito di abusi, cosa pensa dell’uso molto disinvolto della carcerazione preventiva che spesso viene fatto dai giudici?

«In un Paese in cui i tempi per arrivare a una sentenza definitiva sono così lunghi, è facile che si arrivi ad utilizzare la carcerazione preventiva come una sorta di anticipazione di quella prevista in caso di condanna dopo i tre gradi di giudizi».

Sì, ma è incostituzionale: esiste la presunzione d’innocenza.

«Certo nessuno vuole mettere in discussione la sacralità della presunzione d’innocenza ma ribadisco, finché i tempi della giustizia saranno questi credo che la carcerazione preventiva verrà ancora usata con questa  frequenza».

Ora che esercita la professione di avvocato, come è cambiata la sua prospettiva sul mondo giudiziario?

«Cambiando osservatorio, sono rimasto delle mie opinioni: viviamo in un Paese profondamente ingiusto perché indulgente con i potenti e forte con i deboli».

Cosa significa per lei la parola ” garantismo”?

«Garantismo significa dare la garanzia a tutti i cittadini di un processo giusto e assicurare il diritto di difesa. Chi vede il garantismo come un modo per disarmare i pm però sbaglia. Essere garantisti significa anche fare in modo che la legge sia davvero uguale per tutti e permettere di punire chi ha sbagliato».

Ha dichiarato di essere pronto a tornare in politica e di guardare con attenzione a Landini. Pensa si aprirà davvero un nuovo spazio politico a sinistra del Pd?

«Credo che il nostro Paese abbia bisogno che emerga una nuova soggettività politica progressista, popolare e di sinistra. Mi sento politicamente vicino a Landini e Rodotà, e sono pronto a dare il mio contributo per la costruzione di una coalizione sociale per l’equità, la lotta alla criminalità organizzata e ai reati dei colletti bianchi».

Adesso andiamo a “mettere il naso” in casa dei magistrati: il Csm, Consiglio superiore della magistratura. Il Csm si occupa anche di sanzionare disciplinarmente i magistrati che violano le regole e la legge. Una sorta di “organo interno” per i “colleghi che sbagliano”, scrive “The Frontpage”. Vediamo dal sito del Csm cosa prevede l’azione disciplinare. La legge ha introdotto, infatti, l’applicazione del criterio tale crimen talis poena, come conseguenza doverosa della tipizzazione degli illeciti.

Le varie sanzioni previste dalla legge sono:

a) l’ammonimento, che è un richiamo all’osservanza dei doveri del magistrato;

b) la censura, che è una dichiarazione formale di biasimo;

c) la perdita dell’anzianità, che non può essere inferiore a due mesi e non superiore a due anni;

d) l’incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo, che non può essere inferiore a sei mesi e non superiore a due anni;

e) la sospensione dalle funzioni, che consiste nell’allontanamento dalla funzioni con la sospensione dello stipendio ed il collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura;

f) la rimozione, che determina la cessazione del rapporto di servizio.

Vi è poi la sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio che il giudice disciplinare può adottare quando infligge una sanzione più grave dell’ammonimento, mentre tale sanzione ulteriore è sempre adottata in taluni casi specificamente individuati dalla legge. Il trasferimento d’ufficio può anche essere adottato come misura cautelare e provvisoria, ove sussistano gravi elementi di fondatezza dell’azione disciplinare e ricorrano motivi di particolare urgenza. Secondo l’Anm, l’Associazione nazionale magistrati, l’Italia sarebbe tra i primi posti a livello europeo in termini quantitativi di provvedimenti disciplinari, con 981 casi in nove anni dal 1999 al 2008. Il dato viene confortato dalla ricerca del CEPEJ che dice che il numero delle sanzioni disciplinari applicate ogni 1000 magistrati in Italia è 7,5. Al secondo posto dopo l’Austria con un fattore 8. A parte che questo significa che i nostri magistrati sono quelli che a questo punto sbagliano più di tutti, il CEPEJ non dice il resto. Così come furbescamente non lo dice l’Anm. E noi adesso lo diremo. Siamo cattivelli. Lo stesso rapporto dell’Anm dice all’interno (badando bene da non riportare il dato nei comunicati stampa) che sì, è vero che il Csm ha vagliato 981 posizioni in nove anni, ma di queste le condanne sono state solo 267 (il solo 27%). Praticamente solo tre magistrati su dieci sono stati “condannati” dal Csm. Già questo dovrebbe far ridere o piangere a secondo il punto di vista. Ma non finisce qui.

Di quei 267 condannati dal Csm:

a) 157, quasi il 59%, sono stati condannati alla sanzione minima dell’ammonimento (vedi capo a dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

b) 53, il 20% circa, alla censura (vedi capo b dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

c) 1 solo, lo 0,4 % circa, alla incapacità (temporanea) delle funzioni direttive (vedi capo d dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);
d) 9 soltanto, il 3% circa, sono stati rimossi (vedi capi e-f dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

Il resto sono al capo c o semplicemente trasferiti d’ufficio. Ma l’Anm, anche se i dati sono sconfortanti, non la dice tutta. Dagli studi di Bianconi e Ferrarella sui dati del 2007 e del 2008 esce un dato a dir poco “offensivo” per il comune senso della giustizia. Prima di giungere sul tavolo di Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, la “pratica disciplinare” passa per altre vie. L’esposto di chi vi ricorre viene presentato alla Procura generale presso la Corte di Cassazione che vaglia la posizione e se ravvisa fondati motivi nell’esposto passa la pratica al Csm, che poi prende l’eventuale provvedimento. Bene, anzi male: nel 2007 la Cassazione ha ricevuto 1.479 esposti e ne ha passati al Csm solo 103, poco meno del 7%. Stessa musica nel 2008. Dei 1.475 fascicoli presentati in Cassazione, solo 99 passano al Csm, circa il 7%. Quindi prendere ad esempio i dati del CEPEJ sic et simpliciter è improprio, per due motivi: se i dati fossero analizzati (e non lo sono) sulla base del rapporto tra fascicoli aperti e condanne, il risultato sarebbe impietoso per l’Italia; secondo: all’estero non esistono sanzioni disciplinari come l’ammonimento o la censura, bensì si passa dalla sanzione di rimozione in alcuni paesi (inclusa una sanzione pecuniaria rilevante e il pagamento dei danni morali e materiali alle vittime) sino alla condanna in carcere in alcuni altri. Ma non è ancora finita. Il periodo 1999-2008 è stato un periodo “di comodo” perchè il meno peggiore, e inoltre i numeri non sarebbero veritieri per come riportati dall’Anm. Secondo un’analisi di Zurlo, mai contraddetta, i casi vagliati dal Csm dal 1999 al 2006 sono stati 1.010, di cui 812 sono finiti con l’assoluzione e solo 192 con la condanna (il 19% circa).

Di queste “condanne”:

- 126 sono stati condannati con l’ammonimento (circa il 66%!);

- 38 sono stati condannati con la censura (circa il 20%);

- 22 sono stati condannati con la perdita da 2 mesi a due anni di anzianità (circa l’11%);

- 6 sono stati espulsi dall’ordine giudiziario (il 3%);

- 2 sono stati  i rimossi (l’1%);

Ora, che cosa si evince? Una cosa semplice. Un magistrato, specie inquirente, può consentirsi quello che vuole e commettere ogni tipo di errore o abuso, tanto cosa rischia? Vediamolo in numeri semplici:

- oltre 9 volte su 10 può contare sul fatto che l’esposto presentato contro di lui presso la Procura generale della Cassazione non venga passato al Csm;

- qualora anche passasse al vaglio del Csm può contare sul fatto che dalle 7 alle 8 volte su 10 verrà assolto dal Csm stesso;

- qualora anche venisse condannato dal Csm rischierebbe 9 volte su 10 solo un “tirata d’orecchie” o “una lavata di capo”.

Insomma ha solo dalle 7 alle 8 possibilità su mille di venire cacciato dalla magistratura, senza contare che per lui le porte del carcere non si apriranno mai. Potremmo dire: ho visto giudici trattati con così tanto riguardo che voi normali cittadini non potreste nemmeno immaginarvi.

Quelle balle in Procura che il Csm vuol insabbiare. Incongruenze nella guerra tra toghe: qualcuno ha mentito. Ma il Consiglio superiore della magistratura starebbe pensando di archiviare tutto, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. C'è ormai solo una prospettiva peggiore del disastro in corso alla Procura della Repubblica di Milano, straziata da contrapposizioni, veleni, accuse frontali. Ed è che il Consiglio superiore della magistratura, chiamato a sciogliere questo nodo, a stabilire chi ha ragione e chi torto in questo scontro passato rapidamente dal fioretto alla clava, scelga di non decidere. Di insabbiare. Di chiudere senza vincitori né vinti, lasciando all'infinito uno degli uffici giudiziari più delicati del paese nel clima avvelenato di questi giorni. È un tentativo che serpeggia dentro al Csm, sempre in nome di quegli equilibri di corrente che sono in buona parte gli stessi colpevoli del degrado del tempio di Mani Pulite. Ma è chiaro che in queste settimane qualcuno ha mentito, e continua a farlo. E il Csm non potrà rinunciare a capire. Nelle ultime ore, il fuoco dell'indagine del Csm sembra concentrarsi su un dettaglio dello scontro tra Edmondo Bruti Liberati, procuratore della Repubblica, e il suo vice Alfredo Robledo: il pedinamento in contemporanea di un indagato del caso Expo da parte della Guardia di finanza, su incarico di Robledo, e di un'altra pattuglia, sempre delle Fiamme gialle, su ordine di Ilda Boccassini. La dottoressa sostiene che i «suoi» finanzieri dovettero sospendere l'attività per non andare a sbattere su quelli di Robledo («hanno fatto tremila passi indietro»); Robledo sostiene, forte di una dichiarazione dei vertici della Gdf, che l'episodio non è mai accaduto; Bruti ribadisce che è tutto vero, e che Robledo non l'aveva avvisato dell'indagine in corso; Robledo si prepara a mandare altri documenti al Csm per dimostrare il contrario. E in tutto questo, i magistrati qualunque, quelli che ogni giorno sgobbano lontano dai riflettori, si domandano come sia possibile che si sia arrivati a questo punto. In questi giorni Ilda Boccassini sta facendo sentire tutta la sua potenza - di immagine, di esperienza, di carattere - per portare il Csm a archiviare il caso e a lasciare Bruti al suo posto. Ha rivelato, quando il Csm l'ha interrogata, dettagli inediti: come quando ha raccontato di avere ricevuto una busta con dei proiettili dopo che Silvio Berlusconi è finito in affidamento ai servizi sociali, o di essersi dimessa da capo dell'Antimafia quando venne messa in discussione la sua puntualità nel rispetto delle regole dell'ufficio (poi ci ripensò, su richiesta del suo pool). E ha minacciato di querelare, quando questa storia sarà finita, «chi ha detto il falso». Robledo, ovviamente, che l'accusa di avergli scippato l'inchiesta Expo con la complicità di Bruti. Ma bugiardo è, per la Boccassini, anche un altro collega, il pm nazionale antimafia Filippo Spiezia, che al Csm ha ribadito che la Boccassini non rispetta le regole, non fa circolare le notizie, e che tra i suoi pm c'è malumore. «Assolutamente falso», dice Ilda. Certo, se finirà a querele e a processi, anche questo sarà una novità impensabile. La Boccassini difende Bruti anche per difendere se stessa: se il capo dovesse saltare, e al suo posto arrivare un nuovo procuratore, magari non milanese, la scelta di azzerare tutti i dipartimenti per fare piazza pulita di ruggini e rivalità sarebbe quasi inevitabile. Oltretutto, agli atti del Csm c'è un documento a sua firma, che sembra smentire quanto la dottoressa ha sempre sostenuto, cioè di avere tenuto in mano a tutti i costi l'indagine Expo perché contigua a indagini sulla 'ndrangheta. Invece il 16 aprile 2012 la Boccassini scrive a Bruti dicendo, parlando dell'inchiesta Expo che «allo stato non risultano contatti con esponenti della criminalità organizzata». Eppure non si spoglia dell'inchiesta, si limita a proporre un coordinamento con il pool di Robledo, che di fatto verrà poi estromesso dall'indagine. La Boccassini adesso rivolge un «accorato appello» contro «le delegittimazioni della Procura di Milano che non le merita». E invita il Csm a fare in fretta. Ma non tutti, nel Csm, pensano che la fretta sia il modo migliore per capire che diavolo stia accadendo.

Vi ricordate di Antonio Esposito, uno dei giudici della Corte di Cassazione che condannò Silvio Berlusconi per il processo “Mediaset”? «Chist'è na stupotaggine». Ormai la battuta gira irrefrenabile. Il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, ha dato mandato all'ispettorato del ministero per approfondire la vicenda relativa all'intervista del giudice Antonio Esposito, presidente del collegio della Cassazione che ha emesso la sentenza Mediaset, e ha nominato come consulente Felice Caccamo, scrive Aldo Grasso su “Il Corriere della Sera”.  Il direttore e fondatore del giornale 'O Vicolo è l'unico in grado di interpretare lo spirito di quella famosa intervista passata alla storia come «Vabbuò, chill' nun poteva nun sapere». Quando si ascolta la registrazione della telefonata del presidente Esposito al giornalista del Mattino viene spontaneo immaginarselo nelle vesti di Felice Caccamo: giacca azzurra, cravatta con nodo esagerato, gli occhiali dalle lenti spesse e il Vesuvio sullo sfondo: «Tengo 'o mare n' fronte, 'o cielo n' ccoppa». Il tormentone su Caccamo (forse il più riuscito personaggio di Teo Teocoli) è partito da un articolo di Annalisa Chirico su Panorama.it e ha fatto in fretta a diffondersi, come succede a quelle battute che diventano subito una spia di consenso. Persino la senatrice Alessandra Mussolini si è esibita in un'imitazione della telefonata. Certo, tra un esimio presidente della Corte di Cassazione e un giornalista, un po' cialtrone, intento più alle sue singolari abitudini alimentari ('o struzzo di mare oppure 'a frittura globale), che a scovare notizie, la differenza è abissale. Ma sono bastati una telefonata in dialetto («Tiziu, Caiu e Semproniu an tit che te l'hanno riferito. E allora è nu pocu divers»), un momento di eccesso di confidenza, uno stato di rilassamento familiare per avvicinarli in maniera incredibile. Caccamo vive con la moglie Innominata (che prende puntualmente a «mazzate in faccia») e i figli Tancredi, Boranga e Ielpo. I suoi inseparabili amici sono Pesaola, Bruscolotti e l'ex presidente del Napoli Ferlaino, suo vicino di casa. Ormai è una maschera napoletana, come Pulcinella, Tartaglia (il vecchio cancelliere balbuziente, astuto e pedante, dai grossi occhiali verdi), 'O Pazzariello («Attenzione... battaglione... è asciuto pazzo 'o padrone...»).  Caccamo sa bene che i magistrati parlano attraverso le sentenze, ma sa anche che qualche volta parlano al telefono.

Certo non era una verginella riguardo ai suoi trascorsi. I guai disciplinari di Esposito: già due processi davanti al Csm.Il magistrato è stato imputato a fine anni '90 per "protagonismo", minacce a un cancelliere e per il doppio lavoro all'Ispi. Ma si è salvato, scrive Emanuela Fontana  su “Il Giornale”. Non è la prima volta che il Consiglio superiore della magistratura deve occuparsi del caso Esposito. Il giudice della Cassazione che ha presieduto il collegio che ha condannato Silvio Berlusconi, e che in un'intervista bomba al Mattino ha spiegato le ragioni della sentenza prima che ne siano state depositate le motivazioni, era stato interrogato per ben due volte in qualità di «imputato» in altrettanti procedimenti disciplinari a suo carico. Vicende finite con l'assoluzione, ma che hanno visto comunque il magistrato ora nell'occhio del ciclone nella scomoda posizione di difendersi di fronte all'organo di controllo delle toghe. In uno dei due procedimenti, ricorda adesso con Il Giornale uno dei membri della sezione che si era occupata di questo caso, la posizione del giudice fu «in bilico e la sentenza molto combattuta». Le accuse si chiusero comunque, va ribadito, con un nulla di fatto. Furono rivolte tutte a Esposito alla fine degli anni 90, quando era pretore a Sala Consilina, e riguardavano una serie di questioni, da un incarico extra-lavorativo del magistrato, con un presunto utilizzo improprio degli uffici giudiziari, a una presunta minaccia nei confronti di un cancelliere, passando per accuse di «protagonismo». Le tracce di questo percorso che si è incrociato più volte con il giudizio del Csm sono ora decriptabili grazie alla raccolta di file audio e video di Radio Radicale. Il 18 settembre del '98, dunque, Antonio Esposito viene ascoltato in qualità di imputato al Csm per rispondere di tre questioni. Il segretario magistrato lo accusava di aver «gravemente mancato ai propri doveri rendendosi immeritevole della fiducia di cui il magistrato dovrebbe godere». Prima di tutto perché in qualità di consigliere pretore dirigente della pretura circondariale di Sala Consilina aveva celebrato nel '91 un procedimento penale contro Maria Pia Moro per interruzione di pubblico servizio «senza che tale procedimento fosse compreso tra quelli a lui assegnabili». I colleghi lo accusavano del desiderio di «coltivare la propria immagine» attraverso un processo celebre che avrebbe attirato «gli organi di informazione». Nella relazione si parla anche di «spirito di protagonismo» («Non protagonismo, ma assunzione di responsabilità», era stata la replica di Esposito). La seconda accusa riguardava la concessione a «un messo comunale di frequentare gli uffici della sede distaccata di Sapri», e di avere le chiavi di ingresso come «uomo di fiducia» di Esposito, per il quale effettuava «vari servizi», come il «trasporto suo e dei familiari», consegna di spese e recapito della corrispondenza. La terza accusa era la meno facile da controbattere: il Csm chiedeva conto a Esposito della sua attività e del suo ruolo «di estremo rilievo» divenendo il «gestore di fatto», dell'Istituto superiore di studi socio-pedagogici di Sapri. Il «dottor Esposito», proseguiva il segretario magistrato, era stato autorizzato a «svolgere un incarico gratuito» di docente in materie giuridico che invece «veniva retribuito». Non solo: «Utilizzava il personale della sezione distaccata di Sapri per la battitura di tesi attinenti al corso». Il capitano della compagnia dei carabinieri di Sapri, Ferdinando Fedi, testimoniò al Csm che «il dottor Esposito era quasi sempre reperibile presso la sede dell'Ispi». Altro appunto: Esposito era intervenuto varie volte sulle tv locali «per reclamizzare l'istituto di cui fino a poco tempo addietro era presidente sua moglie». Dell'altro procedimento disciplinare il Csm si è occupato nel 99. In questo caso Esposito era stato accusato dai collaboratori di Sala Consilina di aver pronunciato nel 94 «espressioni minacciose». Questa la frase oggetto del processo: «Se mi va bene una certa cosa vi devo spezzare le gambe a tutti quanti» all'indirizzo di un cancelliere. Parlando così, Esposito «violava i doveri professionali di correttezza e di rispetto». Il processo era partito dopo gli accertamenti del presidente del tribunale di Sala Consilina.

La rete di affari di Esposito: ecco perché fu trasferito. Il Csm lo spostò: "Con la sua scuola guadagna centinaia di milioni che gli  permettono di avere una Jaguar, una villa a Roma e un motoscafo". Nelle carte i favori ricevuti. E spuntano una Mercedes gratis e le cene a sbafo, scrivono Massimo Malpica e Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Tutta colpa di una scuola e di affari milionari. A far traslocare da Sala Consilina Antonio Esposito, dopo un quarto di secolo nel quale il magistrato era rimasto affezionatissimo a questa piccola perla del Tirreno, è stato il plenum del Csm, il 7 aprile del 1994. In poco meno di cinque ore, l'organo di autogoverno della magistratura votò a maggioranza la proposta di trasferimento per incompatibilità ambientale. Le 32 pagine di verbale di quella seduta raccontano il dibattito serrato dei consiglieri che dovevano decidere del suo futuro. Forse con una certa apprensione, visto che in apertura venne ricordata l'ispezione ministeriale condotta da Vincenzo Maimone, con lo 007 portato in tribunale da Esposito e «prima condannato per calunnia e poi assolto in appello», a maggio del 1992, perché il fatto non costituiva reato. Così il consigliere togato Gianfranco Viglietta rilevò «come il dottor Esposito si rivolga in modo pesantemente critico nei confronti di tutti coloro i quali esprimano riserve sul suo operato», osservando che «ciò è certamente indice di non particolare equilibrio». Una sindrome del complotto, insomma. Che toccava anche uno dei presenti nel plenum, Alfonso Amatucci, il quale infatti mise a verbale di essere «a giudizio di Esposito (...) una sorta di quinta colonna di quel complotto presso il Csm». Ruolo che Amatucci, va da sé, negò con forza. Spiegando di aver appreso frequentando Sapri dei «molti giudizi negativi» sul giudice, ai quali non aveva dato peso. A far cambiare approccio ad Amatucci era stato un primo episodio «significativo», quando «dopo aver cenato in un ristorante», a Sapri, il consigliere «ricevette i complimenti del ristoratore per il fatto che egli, a differenza di altri magistrati del luogo, era intenzionato a pagare il conto». «Da quel momento» Amatucci «prese a considerare con maggior attenzione le voci sul conto di Esposito». Lo stesso consigliere rivelò anche un'altra «vicenda emblematica: sarebbe stata portata, per conto della ditta Palumbo (un costruttore attivo all'epoca nell'area del golfo di Policastro, ndr), una vettura Mercedes di colore beige, gli pare di ricordare a benzina, acquistata» da un direttore romano di banca «con chiavi nel cruscotto, sotto l'abitazione del dottor Esposito». Ancora Amatucci rispolverò la fresca assoluzione dell'avvocato Francesco Vallone (che aveva dato il via con un esposto al procedimento disciplinare contro Esposito) nel processo per calunnia e falsa testimonianza intentato contro di lui proprio dall'ex pretore, e Vallone aveva parlato proprio di presunti favoritismi della pretura di Sapri nei confronti del costruttore che avrebbe «recapitato» la lussuosa berlina tedesca. Il plenum sostenne che Amatucci, che aveva parlato di episodi non presenti negli atti dell'istruttoria, avrebbe dovuto «comunicare per tempo elementi così gravi e rilevanti». Alcuni consiglieri cominciarono a valutare l'ipotesi di un rinvio della pratica in commissione, altri, come Laudi, consideravano invece «paradossale rinviare la decisione in ragione del fatto che sono stati presentati elementi aggravanti». Si decise di votare per il rinvio, ma la proposta venne respinta. Il coinvolgimento di Esposito nella «scuola» di famiglia, l'Ispi, ebbe un forte peso nella decisione, e il relatore spiegò che quell'elemento, insieme alla presenza «ultraventennale», avevano «accresciuto il potere» di Esposito, dando luogo «qualcosa di diverso e incompatibile con la funzione di pretore dirigente». Anche perché il contributo che il pretore dava alla scuola non era solo per passione. Ecco cosa scrivono i consiglieri del Csm quando definiscono il trasferimento. Sulla scuola di formazione si soffermano a lungo, e un po' si stupiscono davanti al tenore di vita del magistrato, «proprietario di un villino a Roma, di una Jaguar e di un motoscafo». Avallano così «l'ipotesi che l'Ispi abbia consentito la realizzazione di guadagni nell'ordine di centinaia di milioni, come sembrerebbe potersi evincere dai costi di iscrizione e dalle rette di frequenza». Insomma, toglierlo da Sapri è un gesto «di buon governo». Al voto, 14 consiglieri sono per il trasferimento, 11 votano contro, 4 si astengono. Non è finita. Esposito a gennaio '97 cita in giudizio davanti al Tribunale di Roma, chiedendo un risarcimento danni per 4 miliardi di lire, due componenti del Csm - Amatucci e il relatore, Franco Coccia - insieme all'avvocato Vallone e a Ermanno Marino, «reo» d'aver raccontato ad Amatucci di aver guidato la famosa Mercedes. Ma il tribunale di Roma respinse la sua richiesta. Far pagare i consiglieri per le opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni era davvero troppo.

E il giudice querela il Giornale ma non chiarisce il caso Ispi. Esposito si fa scudo dell'associazione Caponnetto e denuncia Il Giornale per lo scoop sul doppio lavoro. Il colloquio col Mattino è lungo 40 minuti: al Csm l'audio integrale, scrivono Massimo Malpica e Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il giudice Antonio Esposito si sente diffamato. Quello che ancora non conosciamo è invece l'umore del dottor Antonio Esposito, il tuttofare della scuola Ispi, quello che mette il suo numero di telefono tra i contatti per chi vuole fare master o esami nella sede locale dell'università telematica. Non si sa, insomma, cosa pensano l'uno dell'altro. L'unica cosa certa è che sono la stessa persona e di fatto il giudice fa un doppio lavoro. La domanda allora è: si può fare? Esposito promette querela. L'annuncio non lo fa di persona, ma si nasconde dietro l'associazione Antonino Caponnetto di cui è presidente onorario (e che sulla pagina Facebook «si stringe intorno al suo presidente e ai suoi familiari vittime di una campagna vergognosa e diffamatoria dopo la sentenza di condanna emessa a carico di Berlusconi»). In pratica tira in ballo una colonna della lotta alla mafia per ribadire quello che il Giornale in realtà non ha mai nascosto, e cioè che la sezione disciplinare del Csm lo ha sempre ritenuto estraneo a tutte le accuse. O meglio, a quasi tutte, visto che il 7 aprile del '94 il plenum del Csm approvava a maggioranza la proposta di trasferimento d'ufficio dell'allora pretore di Sala Consilina, che venne destinato alla Corte d'Appello di Napoli nonostante lui avesse fatto presente che l'adozione del provvedimento gli avrebbe causato danni incalcolabili, ledendo irreversibilmente il suo onore e il suo prestigio professionale e denunciando che la relativa procedura sarebbe stata condotta con spirito persecutorio e diffamatorio nei suoi confronti, in esecuzione di un disegno comune ai convenuti». I suoi colleghi, insomma, conoscevano l'intreccio di interessi tra il pretore e la vita sociale ed economica di Sapri. E per questo lo hanno trasferito. Nell'ultima seduta del Csm i consiglieri ne hanno parlato a lungo, anche scontrandosi sulle diverse interpretazione di certi episodi. Ma alla fine sono stati d'accordo sul fatto che «la presenza ultraventennale di Esposito nella pretura di Sala Consilina e il suo coinvolgimento nella gestione dell'Ispi hanno determinato una situazione particolare che ha accresciuto il suo potere fino a dar luogo a qualcosa di diverso e di incompatibile con la funzione di pretore dirigente». Sulla scuola di formazione i consiglieri si soffermano a lungo, ipotizzando che il particolare tenore di vita del magistrato che risultava «proprietario di un villino a Roma, di una Jaguar e di un motoscafo avallassero l'ipotesi che l'Ispi avesse consentito la realizzazione di guadagni nell'ordine di centinaia di milioni, come sembrerebbe potersi evincere dai costi di iscrizione e dalle rette di frequenza». Alla fine è stata proprio la gestione dell'Ispi a determinare il trasferimento. «Dovrebbe essere provato - si legge nel provvedimento - che Esposito svolga attività ulteriori rispetto a quella dell'insegnamento per il quale è stato autorizzato dal Csm». E come emerge dagli accertamenti del capitano dei carabinieri Ferdinando Fedi. «Esposito - scrivono i consiglieri - poteva essere reperito sistematicamente presso i locali della scuola e i collegamenti con l'Ispi venivano tenuti anche in pretura. Pure i carabinieri a volte dovevano attendere perché nello studio del pretore erano a colloquio delle studentesse della scuola stessa». Ora, invece, Antonio Esposito deve chiarire il pasticciaccio della sua intervista al Mattino di Napoli. Qualche domanda se la sta facendo anche il ministro Cancellieri, che ha messo in campo gli ispettori di via Arenula per indagare sulla vicenda. Qualcosa non torna neppure al Csm, dove il presidente della prima commissione Annibale Marini e il vicepresidente Michele Vietti si sono affrettati ad acquisire l'audio integrale del colloquio. Il Mattino ne ha pubblicato on line solo una manciata di minuti. Il resto, quasi 40 minuti, non è irrilevante. Forse il primo a dover pretendere trasparenza è proprio il giudice Esposito. Chieda al suo amico giornalista di farci ascoltare tutto.

Il buonsenso vorrebbe che le dichiarazioni di Esposito fossero considerate gravi. Invece non è così, anche se danno a Berlusconi un ottimo alibi per fare ricorso alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, scrive Alessandro Tantussi su “Imola Oggi”. Gli “ermellini” sono basiti: ora si aprono nuovi scenari. Ubi maior minor cessat, però mi vanto di averlo detto prima. La gravità della sortita del magistrato non può e non deve sfuggire alla gente di buon senso, anche a chi non mastica tutti i giorni diritto. Esposito ha smentito di aver pronunciato quelle frasi, ma il sonoro dell’intervista registrata lo inchioda alle sue responsabilità. Il direttore del quotidiano napoletano lo ha ribadito: il magistrato voleva proprio dire quello, ha anticipato ad un organo d’informazione le motivazioni della sentenza, non ancora rese note per le vie ufficiali. Alla faccia della terzietà, della sobrietà, dello stile di vita specchiato e della limpidezza operativa che dovrebbe contraddistinguere chi fa la professione di Esposito. Si è verificato l’ennesimo cortocircuito tra settori politicizzati della magistratura e alcuni media che puntano ad esasperare il conflitto tra poteri. In Cassazione tutti sono basiti. Con le sue dichiarazioni, che di fatto anticipano i contenuti di una sentenza impostata sul principio che Berlusconi “sapeva” della frode fiscale, Esposito apre inevitabilmente (e inconsapevolmente) nuovi scenari. Quelle parole, seppure ritrattate dal diretto interessato inchiodato dal sonoro della registrazione che quindi si è beccato del bugiardo a ragione veduta, sono un assist sia per la difesa, che ora avrà ulteriori motivi per tentare la strada del ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

E anche Wanna Marchi fa ricorso a Strasburgo.

Il magistrato svelò la condanna prima della sentenza. La difesa: "Diritti violati", scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. L'intervista show di Antonio Esposito invade ancora giornali e tv come un'onda anomala. E lui, il giudice del Cavaliere, si ritrova sempre più al centro dell'attenzione. Ora, e pare incredibile, anche Wanna Marchi, l'urlatrice di Castel Guelfo, ha deciso di portare Esposito, o meglio la claudicante giustizia italiana, a Strasburgo, davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Il motivo è molto semplice: anche la Marchi ha letto sul Giornale il documentatissimo articolo firmato da Stefano Lorenzetto, giornalista e scrittore con un passato nella redazione di via Negri. Ricordate? In quel pezzo Lorenzetto rievocava una cena avvenuta a Verona, in occasione della consegna del premio «Fair play», il 2 marzo 2009. Nel corso della festa Lorenzetto aveva conosciuto proprio lui, Antonio Esposito. E il magistrato, fra una portata e un brindisi, l'aveva deliziato descrivendo le presunte performance a luci rosse del Cavaliere, lo stesso Cavaliere che Esposito ha condannato la scorsa settimana con sentenza definitiva. Non solo: già che c'era, gli aveva preannunciato un altro verdetto importante: quello che di lì a un paio di giorni avrebbe travolto proprio Wanna Marchi, la regina delle teletruffatrici, e la figlia Stefania. Affondate, rispettivamente con 9 anni e 6 mesi e 9 anni e 4 mesi di carcere. Quella sera, a sentire Lorenzetto, Esposito era stato perentorio: la Marchi che gli stava, per usare un eufemismo, antipatica, era colpevole. Senza se e senza ma. E puntualmente di lì a poche ore arrivò la condanna, irrevocabile, come si dice in questi casi, per madre e figlia. Giù il sipario, dunque. Le Marchi erano scomparse dai nostri radar. Peccato che le sentenze non possano però essere anticipate, così come non si dovevano bruciare sul tempo le motivazioni del processo Mediaset che il relatore deve ancora vergare. Ma Esposito corre in avanti. Troppo. Con Silvio Berlusconi e con Wanna Marchi, senza aspettare quel momento burocratico e noioso, ravvivato da chissà quali sbadigli, chiamato camera di consiglio. Così le Marchi, dopo aver digerito la clamorosa sorpresa, hanno deciso di giocare la carta del ricorso a Strasburgo: se le rivelazioni a posteriori sono esatte, il presidente del collegio non era imparziale. «Attenzione - spiega l'avvocato Liborio Cataliotti - Wanna Marchi non intende negare le proprie responsabilità e neppure cerca una qualche scorciatoia rispetto alla pena, in gran parte già scontata, e al successivo percorso di reinserimento nella società insieme alla figlia. Wanna ha avuto prima il lavoro esterno, poi la sospensione della pena; Stefania ha lasciato la cella per motivi di salute ed è detenuta ai domiciliari. Però le Marchi chiedono come tutti che i loro diritti fondamentali siano rispettati». Dunque, a Strasburgo si cercherà di capire se la Suprema corte abbia agito in modo canonico oppure se quelle confidenze spifferate nel bel mezzo di un banchetto conviviale costituiscano una ferita che oggi deve essere sanata. Il viaggio a Strasburgo non sarà una passeggiata: ci vorrà tempo e certo un'eventuale condanna non riabiliterebbe la Marchi, a capo di una vera e propria associazione a delinquere pensata per spolpare migliaia e migliaia di creduloni sparsi su tutto il territorio nazionale, ma sarebbe uno schiaffo per l'alto magistrato e soprattutto per la credibilità della nostra giustizia sulla vetrina internazionale. Cataliotti, l'avvocato di Reggio Emilia che i lettori del Giornale conoscono bene perché a lui è affidata la maxi-causa civile, una sorta di class action, contro Antonio Ingroia, è pronto alla battaglia. E questa volta è lui a suggerire il possibile finale: «Se otterremo un risarcimento i soldi andranno dritti alle parti civili». Sì, alle vittime dei raggiri della teleimbonitrice. Senza trucco e senza inganno.

PROCESSO MEDIASET. LA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.

I tratti giovanili e insieme antichi del sostituto procuratore generale della Cassazione Antonello Mura non si scompongono nel momento del successo, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Professionale, s'intende. Quando il presidente della Corte Antonio Esposito la sera del 1 agosto 2013 legge nel dispositivo le parole «annulla limitatamente alla statuizione della condanna accessoria» e subito dopo «rigetta nel resto», è chiaro che ha vinto il rappresentante dell'accusa. Ma lui non lo dà a vedere. Non tradisce emozioni. Davanti a cinque giudici chiamati «supremi» perché oltre loro la giustizia umana non è previsto che vada, ha prevalso la tesi che Mura - per conto del suo intero ufficio, come ha ripetuto più volte nella requisitoria - ha sostenuto nella causa numero 27884/13 iscritta al ruolo con il numero 8, contro «Berlusconi Silvio +3». «Nessuno dei motivi di ricorso sulla configurazione del reato e sulla colpevolezza degli imputati ha fondamento giuridico» aveva detto con tono pacato in quattro ore di intervento, dopo l'ormai famosa premessa sulle «passioni e le aspettative di vario genere» che dovevano rimanere fuori dall'aula del «palazzaccio». Le ha lasciate fuori lui e le hanno lasciate fuori i giudici della sezione feriale della Cassazione, un collegio di magistrati istituito con criteri casuali nel mese di maggio, ancor prima che arrivasse il ricorso di Berlusconi contro la condanna a 4 anni di carcere nel processo chiamato «Mediaset». Dopodiché, di fronte alle carte di quella causa e alle ragioni esposte da accusa e difesa, i giudici hanno preso la loro decisione. Sulla base del dispositivo letto ieri sera dal presidente Esposito si può ben dire che hanno aderito quasi per intero all'impostazione della Procura generale. Tranne che su un punto: la rideterminazione dell'interdizione dai pubblici uffici, stabilita in cinque anni dalla Corte d'appello. Dovevano essere tre, aveva detto la Procura generale, perché deve applicarsi la legge speciale del 2000 anziché la norma generale; un ricalcolo che poteva fare direttamente la Cassazione, secondo il pg Mura, mentre la Corte ha ritenuto di non averne il potere. Perciò rispedirà il fascicolo a Milano, insieme alle motivazioni, affinché una nuova sezione della Corte d'appello si pronunci «limitatamente alla statuizione della pena accessoria». Per il resto le sentenze di primo e secondo grado, da considerarsi nel loro insieme, non presentavano vizi tali da farle annullare; l'aveva sostenuto l'accusa e l'ha ribadito la Corte, a dispetto dei 47 motivi di presunta nullità presentati dagli avvocati Franco Coppi e Niccolò Ghedini. Non sul piano della procedura, che è stata rispettata; non sul piano della efficacia probatoria, ché gli elementi a fondamento della condanna si sono rivelati coerenti e ben motivati; non sul piano del diritto, dal momento che i reati contestati erano quelli che bisognava contestare. Ogni altra valutazione non competeva ai giudici di legittimità. Il nocciolo del giudizio riguardava il secondo gruppo di lamentele avanzate dalla difesa: sotto il presunto «vizio di motivazioni» gli avvocati avevano ribadito che non c'era la prova che Berlusconi fosse colpevole di frode fiscale, poiché dal 1994 non riveste più cariche all'interno della Fininvest e di Mediaset e non si poteva condannarlo col criterio del «non poteva non sapere» ciò che facevano i suoi sottoposti. Anche il professor Coppi, aggregato dall'ex premier per quest'ultimo passaggio giudiziario, aveva insistito sulle «prove travisate» e mancanti, sul diritto di difesa negato, prima di immaginare un diverso tipo di reato. Ebbene, secondo i giudici tutto questo non è vero. I dibattimenti di primo e secondo grado si sono svolti nel rispetto delle regole del «giusto processo» e la responsabilità del proprietario di Fininvest e Mediaset non è legata al «non poteva non sapere», bensì al riscontro di una partecipazione diretta al sistema illecito individuato nelle sentenze di condanna. «Vi è la piena prova, orale e documentale che Berlusconi abbia direttamente gestito la fase iniziale dell'enorme evasione fiscale realizzata con le società off shore» aveva decretato la Corte d'appello. E dopo la cessazione dalle cariche sociali aveva affidato il sistema di cui continuava ad essere dominus, persone di sua stretta fiducia, che rispondevano solo a lui. Ora la Cassazione ha stabilito che i giudici di merito sono giunti a queste conclusioni senza violare alcuna norma di legge, senza contraddizioni o illogicità. Con «motivazioni solide», aveva detto il pg. Nemmeno il fatto che altri due giudici, a Roma e Milano, su questioni simili avessero prosciolto l'ex premier con sentenze confermate in Cassazione significa che in questo processo si dovesse giungere alle stesse conclusioni. «Sono decisioni che non toccavano la questione centrale di questo processo» secondo il pg e così deve aver ritenuto la corte. che non poteva sconfinare nella rivalutazione dei fatti. La sentenza è arrivata dopo oltre sette ore di discussione, nelle quali i cinque giudici «feriali» si sono confrontati per giungere a una conclusione che - vista con gli occhi della premessa condivisa anche dagli avvocati difensori, tranne Ghedini che non riusciva a staccarsi dalle «passioni» - sembra sancire una volta di più l a cosiddetta «autonomia della giurisdizione». E considerato chi l'ha pronunciata, si presta poco alle abituali letture sulla magistratura politicizzata, condizionata da questo o quel colore.

«Non farò la fine di Bettino Craxi». «Non mi faranno finire come Giulio Andreotti». Negli ultimi mesi, con frequenza significativa, Silvio Berlusconi esorcizzava il pantheon tragico dei suoi predecessori della Prima Repubblica tritati dalla macchina della giustizia, scrive Massimo Franco, sempre su “Il Corriere della Sera”. E senza volerlo, né saperlo, accostava la propria sorte alla loro. Il primo, ex premier socialista, morto contumace o esule, secondo i punti di vista, in Tunisia; il secondo, democristiano, assolto per alcuni reati e prescritto per altri dopo processi lunghi e tormentati. Ma comunque liquidato politicamente. Il ventennio berlusconiano cominciò all'inizio della loro fine. E adesso può essere archiviato da una sentenza della Corte di cassazione che conferma una condanna per frode fiscale e dilata il vuoto del sistema politico: un cratere di incertezza più profondo di quello lasciato dalla fine della Guerra Fredda. Puntellare la tregua politica sarà meno facile. Anche se tutti sanno che i problemi rimangono intatti e non esiste un'alternativa al governo di larghe intese di Enrico Letta. Il tentativo di stabilizzazione dell'Italia vacilla dopo un verdetto che riconsegna, irrisolto, il problema dei rapporti fra politica e magistratura. Mostra entrambe impantanate in una lotta che ha sfibrato il Paese; e che si conclude con una vittoria dei giudici dal sapore amaro: se non altro perché allunga un'ombra di precarietà su un'Italia bisognosa di normalità. E poi, una parte dell'opinione pubblica tende a percepire Berlusconi come una vittima e la sentenza rischia di accentuare questa sensazione: il tono del videomessaggio di ieri sera a «Porta a porta» è studiato e esemplare, in proposito. Certamente, non si tratta più del Cavaliere in auge che sugli attacchi e sugli errori altrui mieteva consensi e potere; che risorgeva da ogni sconfitta e sentenza sfavorevole per riemergere più agguerrito di prima, a farsi beffe della sinistra e dei «magistrati comunisti». Non è il Berlusconi del contratto con gli italiani stipulato davanti alle telecamere né il leader colpito in faccia da una statuetta scagliata da un fanatico nel dicembre del 2009 dopo un comizio in piazza Duomo, a Milano, che si issava sanguinante sul predellino dell'auto come per gridare: «Sono invincibile». Stavolta c'è un signore appesantito dagli anni, che ha perso oltre sei milioni di voti alle elezioni di febbraio e che lotta per la sopravvivenza. Continuando a inanellare sbagli, la sinistra gli ha dato un altro vantaggio nelle elezioni per il Quirinale. E non è escluso che la sentenza della Cassazione gli regali un ultimo, involontario aiuto. Ma la corsa è diventata affannosa da tempo. Da un paio d'anni, da quando l'illusione del berlusconismo «col sole in tasca» si è trasformato nell'incubo di un'Italia immersa nella crisi finanziaria e economica, la sua lotta ha velato il tentativo di salvarsi dai processi; e l'incapacità di liberarsi del passato e di preparare una nuova classe dirigente. Le immagini di Palazzo Grazioli, la sua residenza romana, ieri sera davano l'idea del bunker nel quale si discuteva l'ultima battaglia. Un'offensiva segnata stavolta dalla disperazione e dall'esasperazione, però, senza più certezze di vittoria. Il governo e la sua maggioranza anomala sono in attesa di sapere che cosa succederà: sebbene Berlusconi sappia che difficilmente potrebbe nascere una coalizione meno ostile al centrodestra; anzi, forse non ne potrebbe nascere nessuna. Fosse stato il 2008, anno della vittoria più trionfale, avrebbe messo in riga tutti in un amen. Ora non più: le tribù berlusconiane sono in lotta e lui fatica a tenerle unite. A frenare l'impatto della sentenza non basta l'annullamento della parte che riguarda la sua interdizione dai pubblici uffici, sulla quale dovrà pronunciarsi di nuovo la Corte d'appello di Milano. Né è stato sufficiente il capovolgimento della strategia processuale, attuato dal professor Franco Coppi: il tentativo tardivo di difendere Berlusconi nel processo e non dal processo, come avevano fatto i suoi legali eletti in Parlamento. L'impressione è che, accusando la magistratura di perseguitarlo, il Cavaliere abbia alimentato senza volerlo quello che chiama «l'accanimento» della Procura; e spinto la Cassazione a confermare le sue responsabilità senza grandi margini di interpretazione. Il contraccolpo che si teme è quello di radicalizzare le posizioni nel Pdl e nel Pd, nonostante i richiami del Quirinale a guardare avanti. Le opposizioni urlano di gioia, pregustando la destabilizzazione. Ma bisogna capire se nel centrodestra l'urto di chi vuole una crisi prevarrà davvero sul tentativo dell'ex premier di «tenere» su una linea di responsabilità. E, sul versante opposto, se il Pd resisterà o no alla pressione di quella sinistra che non ha mai digerito un'alleanza in nome dell'emergenza. Il videomessaggio diffuso da Berlusconi fornisce scarsi indizi. Sembra il sussulto drammatico di un leader che lega le vicende di Tangentopoli del 1992-93 alle proprie, additando una parte della magistratura come «soggetto irresponsabile». I fantasmi del passato lo tallonano, mettendogli in tasca non raggi di sole ma presagi di umiliazione. Lui reagisce promettendo il miracolo dell'ultima rivincita. Evoca Forza Italia e la ripropone per le elezioni europee del 2014. Ma è un ritorno al 1994: la parabola di un ventennio.

Vent'anni di persecuzione continua.

Cambiano accuse e processi, ma l'obiettivo della Procura di Milano è sempre lo stesso: il berlusconismo e l'impero del Cav, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. E pensare che sarebbe bastato poco. Forse un po' di pazienza in più da parte di Silvio Berlusconi. Forse qualche oscillazione nei misteriosi, delicati equilibri di potere che governano la Procura milanese. Quattordici anni fa, la pace che avrebbe cambiato la storia del paese era a portata di mano: e non si sarebbe arrivati alla sentenza di oggi. Una domenica di maggio del 1999 Berlusconi salì nell'ufficio del pubblico ministero Francesco Greco e ci rimase tre ore. Con Greco e il suo collega Paolo Ielo si parlò ufficialmente di una accusa di falso in bilancio. Ma era chiaro a tutti - e il procuratore capo Gerardo D'Ambrosio lo rese esplicito - che quell'incontro era il segno di un tentativo di dialogo. Berlusconi faceva alcune ammissioni, concedeva - e lo mise per iscritto in una memoria - che l'«espansione impetuosa» del suo gruppo poteva avere creato «percorsi finanziari intricati». La Procura si impegnava ad evitare accanimenti, e a trattare Berlusconi alla stregua di qualunque altro imprenditore: con la possibilità di fuoriuscite soft come quelle concesse al gruppo Fiat. Sarebbe interessante capire ora, a distanza di tanti anni, dove si andò a intoppare il dialogo. Sta di fatto che rapida come era emersa, la strada si arenò. Il partito della trattativa si arrese. E riprese, violento come prima e più di prima, lo scontro senza quartiere. Da una parte un gruppo inquirente che ha dimostrato di considerare Berlusconi, nelle multiformi incarnazioni dei suoi reati, all'interno di quello che può in fondo essere letto come un unico grande processo, come la sintesi dei vizi peggiori dell'italiano irrispettoso delle leggi: il berlusconismo, insomma, come autobiografia giudiziaria della nazione. Dall'altra, il Cavaliere sempre più convinto di avere di fronte un potere fuori dalle regole, dalla cui riduzione ai binari della normalità dipende la sua stessa sopravvivenza. Da vent'anni Berlusconi e la Procura di Milano pensano che l'Italia sia troppo piccola per tutti e due. Ma da dove nasce, come nasce, questa contrapposizione insanabile? L'apertura formale delle ostilità ha, come è noto, una data precisa: 22 novembre 1994, data del primo avviso di garanzia a Berlusconi. Ma la marcia di avvicinamento inizia prima. Inizia fin dalla prima fase di Mani Pulite, quando il bersaglio grosso della Procura milanese è Bettino Craxi. E, passo dopo passo, i pm si convincono che Berlusconi - che pure con le sue televisioni tira la volata all'inchiesta - è la vera sponda del «Cinghialone», il suo finanziatore e beneficiario. Chi c'è dietro All Iberian, la misteriosa società che nell'ottobre 1991 versa quindici miliardi di lire a Craxi, e riesce anche a farsene restituire cinque? Dietro questa domanda, che diventa strada facendo una domanda retorica, i pm lavorano a dimostrare la saldatura tra Craxi e Berlusconi. Quando nell'aprile 1994 Berlusconi diventa presidente del Consiglio, per il pool la vicinanza Craxi-Berlusconi diventa anche continuità politica, perché da subito la battaglia craxiana contro il potere (o strapotere) giudiziario diventa uno dei cavalli di battaglia del nuovo premier. Dal Quirinale viene messo il veto alla nomina di Cesare Previti a ministro della Giustizia. Ma al ministero va Alfredo Biondi, che di lì a poco vara il decreto subito etichettato come «salva ladri», ritirato a furor di popolo dopo il pronunciamento del pool in diretta tv. È da quel momento che lo scontro compie il salto di qualità. Per la Procura milanese non c'è differenza sostanziale tra il Berlusconi imputato e il Berlusconi politico, perché il secondo è funzionale al primo: come dimostreranno poi le leggi ad personam, e, più di recente, la telefonata salva-Ruby alla questura di Milano. Le inchieste che si susseguono in questi vent'anni stanno tutte in questo solco, dentro la teoria della «capacità a delinquere» che diverrà uno dei passaggi chiave della sentenza per i diritti tv. Sotto l'avanzare degli avvisi di garanzia, Berlusconi si irrigidisce sempre di più, come ben racconta l'evoluzione delle strategie difensive: da un professore pacato come Ennio Amodio si passa all'ex sessantottardo Gaetano Pecorella, poi si approda alla coppia da ring, Niccolò Ghedini e Piero Longo. Le dichiarazioni di sfiducia di Berlusconi verso la serenità della giustizia milanese si fanno sempre più esplicite. Per due volte, nel 2003 e nel 2013, il Cavaliere chiede che i suoi processi siano spostati a Brescia, sotto un clima meno ostile. Per due volte la Cassazione gli dà torto. Eppure, fino alla condanna definitiva di oggi, nessuno dei processi era arrivato ad affossare Berlusconi. Assoluzioni con formula piena, prescrizioni, proscioglimenti. Il catalogo dei modi in cui l'asse Ghedini-Longo riesce a tenere l'eterno imputato al riparo da condanne definitive è ricco. Una parte nasce da leggi varate per l'occasione, ma altre assoluzioni danno atto dell'inconsistenza di accuse che la Procura riteneva granitiche. La si potrebbe leggere come una prova della tenuta di fondo del sistema giudiziario, dei contrappesi tra pubblici ministeri e giudici? Berlusconi non la pensa così. E la severità delle ultime sentenze, i giudizi sferzanti dei tribunali del caso Unipol, la batosta del risarcimento a De Benedetti, la decisione dei giudici del processo Ruby 2 di candidarlo a una nuova incriminazione per corruzione in atti giudiziari lo avevano già convinto definitivamente che la contiguità tra pm e giudici era arrivata livelli intollerabili. Guardia di finanza, All Iberian, Mills, Sme, Lodo Mondadori, diritti tv, Mediatrade, Ruby, il rosario delle pene giudiziarie del Cavaliere a Milano sembra interminabile. Cambiano i procuratori, cambiano alcuni dei pubblici ministeri, ma la linea non cambia. Eppure questa è la Procura dove due magistrati di spicco del pool, Antonio Di Pietro e Gerardo D'Ambrosio, hanno detto a posteriori di non avere condiviso la decisione dell'avviso di garanzia del 1994 (il procuratore Borrelli replicò a Di Pietro pacatamente, «Ha detto così? Beh, se si presenta in Procura lo butto giù dalle scale»). È la Procura dove, con Romano Prodi al governo, Francesco Greco andò a un convegno di Micromega ad accusare il centrosinistra, «questi fanno quello che neanche Forza Italia ha osato fare». È insomma la Procura dove la parte più pensante si rende conto che l'insofferenza di Berlusconi verso la magistratura è in fondo l'insofferenza di tutta la politica verso il potere giudiziario, e che non è affatto sicuro che il dopo Berlusconi porti alle toghe spazio e prebende. Ma per adesso lo scontro è con lui, con il Cavaliere. E i pochi giudici che in questi anni hanno disertato, in corridoio venivano guardati storto.

BERLUSCONI: CONFLITTO INTERESSI; INELEGGIBILITA’; ABITUALITA’ A DELINQUERE. MA IN CHE ITALIA VIVIAMO?

"Ci è stato negato il diritto di difenderci". L'avvocato Ghedini che assiste Berlusconi da 16 anni: "Superato ogni limite Ascoltati soltanto i testi dei pm, a noi ne hanno concessi appena 6", scrive Patricia Tagliaferri  su “Il Giornale”. Avrebbe voluto parlare di più, almeno tre o quattro ore, ma l'invito del presidente Antonio Esposito a stringere i tempi lo ha spinto ad essere più breve. Veloce ma ugualmente efficace nel cercare di convincere i giudici della Cassazione che nel tessuto della sentenza della Corte d'Appello di Milano sui diritti Tv Mediaset «manca la prova che Berlusconi abbia partecipato al reato». Comincia da qui l'arringa dell'avvocato Niccolò Ghedini. Un processo che è diventato il «suo incubo notturno», senza un solo elemento probatorio contro il Cavaliere, condizionato dai tempi della prescrizione e dove sarebbero stati violati i diritti della difesa. E al pg Antonio Mura che martedì aveva chiesto di lasciare fuori dall'aula le passioni replica che è d'accordo con lui, ma che per gli avvocati non vale: «Nel nostro mestiere le passioni ci devono accompagnare». «Ci stato negato il diritto alla prova - attacca Ghedini - c'è un limite all'applicazione del codice ma in questa storia è stato ampiamente superato. Sono 16 anni che difendo il Cavaliere, sicuramente troppi, e da sempre sento dire che dobbiamo difenderci nel processo e non dal processo. Ma come facciamo a difenderci nel processo con il Tribunale che mi dice di concordare con il pm le domande per i testi?». Si sofferma a lungo sui testimoni negati, ridotti dai 171 richiesti inizialmente ai 6 effettivamente sentiti in 100 udienze, per di più comuni alle altre difese, mentre quelli della Procura sono stati citati dal primo all'ultimo. Ghedini ammette che inizialmente la loro lista testi fosse effettivamente «un po' entusiastica», ma poi quei nomi sono stati ridotti su invito dei giudici a 76. Eppure non è bastato. «Ce ne hanno concessi prima 22 - spiega il legale - poi 14, salvo dirci che erano lontani dal nucleo essenziale della questione. Ma come si fa a dire che David Mills o i dirigenti Mediaset che nel 2003 e nel 2004 si erano occupati degli ammortamenti fossero lontani dal nucleo dell'imputazione? E come è possibile non voler sentire i dirigenti della major? Gli unici testimoni ascoltati sulle asserite società fittizie hanno detto di aver sempre operato con il gruppo, quindi hanno smontato la tesi accusatoria e infatti non vengono neppure citati nelle sentenze». C'è poi il capitolo sulla responsabilità soggettiva di Berlusconi e qui la memoria deve tornare a quelle due sentenze «dimenticate», una proprio della Cassazione, in cui si esclude che l'ex premier avesse responsabilità nella gestione di Mediaset negli anni '90 e si afferma che fosse l'azienda a decidere gli ammortamenti. «Stavolta il concetto usato dall'accusa è stato più raffinato del non poteva non sapere - sostiene Ghedini - è stato detto che un buon imprenditore come Berlusconi non poteva non avvedersi che i ricavi erano gonfiati». La ricostruzione del Pg («Efficace e fantasiosa in alcune soluzioni tecnico giuridiche») viene contestata punto per punto. «Il pg - sostiene Ghedini - ha detto che per Berlusconi ci sarebbero state attività ulteriori oltre alla fatturazione. Quindi mi sarei aspettato delle integrazioni rispetto alle motivazioni della Corte d'Appello, in cui non c'è nulla a riguardo. Integrazioni che non ci sono state perché non ci sono attività ulteriori oltre la fatturazione». Le ultime parole sono per il ruolo di International Media Service, una delle società considerate scatole vuote. «Il pg non ha affrontato questo tema perché era il più debole. Ims era una società consolidata, che ha versato fino all'ultimo centesimo gli utili alla capogruppo e che aveva costi bassissimi. Faccio fatica a capire come possa essere considerata fittizia».

I fatti, così come li racconta Franco Coppi nell'aula Brancaccio della Cassazione, sono di una semplicità disarmante, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Silvio Berlusconi non è colpevole di frode fiscale: il reato non c'è com'è stato configurato nelle due sentenze che lo hanno portato all'ultimo grado di giudizio, perché riguardano un comportamento «non penalmente rilevante». Con un'arringa che fa capire, anche ai più digiuni di diritto, perché merita appieno il titolo di principe dei cassazionisti, il legale del Cavaliere chiede l'annullamento della pronuncia d'appello, «frutto di un pregiudizio cementato dal collante del cui prodest» e di un «abnorme travisamento della prova», per descrivere il leader del Pdl come «il dominus di una catena truffaldina», mentre non gestiva più il suo impero dalla discesa in politica del '94 ( come dimostrerebbero altre sentenze, Mills e Mediatrade, mai acquisite). Solo in subordine, Coppi chiede l'annullamento con rinvio alla Corte d'appello: se la sua tesi non venisse accolta il reato di frode fiscale andrebbe derubricato in quello di false fatturazioni. La pena sarebbe più bassa e, per i termini ridotti di prescrizione, sarebbe già estinto o a rischio di estinzione. «Berlusconi doveva essere assolto già in primo grado - dice l'avvocato - le prove sono state travisate e i fatti che gli vengono contestati non sono di rilevanza penale». Il professore parla con uno tono sempre misurato e più che rispettoso della corte, spesso si scusa per le ripetizioni di tesi già espresse dagli altri legali. Comincia a parlare alle 17 e 30, dopo Niccolò Ghedini e per oltre due ore inaugura, nella difesa di Berlusconi, uno stile tutto nuovo: spiega con garbo, argomenta con rigore, analizza, documenta e smonta le accuse con motivazioni che appaiono più che convincenti. Premette, citando il giurista Francesco Carrara, che «quando la politica entra dalla porta del tempio, la giustizia fugge impaurita dalla finestra». È solo con le ragioni del diritto che Coppi vuole vincere. Così, se nella prima parte dell'arringa entra nel merito delle sentenze, sempre sul piano della legittimità, nella seconda tira fuori l'asso nella manica e, con il sorriso sulle labbra, distrugge alla radice la ragione stessa del processo. In punta di diritto, il professore afferma che per questi fatti si poteva parlare semmai di «abuso di diritto» con finalità di «elusione» delle tasse, cioè solo di un illecito amministrativo e tributario. Che potrebbe avere conseguenze penali in una precisa circostanza qui assente: il contrasto con una disposizione antielusiva. Per Coppi, della legge 74 del 2000 sui reati tributari, va preso in considerazione l'articolo 2 (dichiarazione infedele) e non il 4 ( dichiarazione fraudolenta), com'è stato fatto per la condanna di Berlusconi. «Siamo fuori - spiega - dall'ambito di applicazione dell'articolo 2 e della frode fiscale, che comporta fatture per operazioni inesistenti». Quelle per l'acquisto di diritti tv, sono invece operazioni reali, di società «non fittizie», con pagamenti «fatturati» e un rincaro di prezzo «giustificato». Cambia, dunque, la loro stessa «fisionomia». L'avvocato cita diverse sentenze della Cassazione civile, sezione tributaria, oltre a pronunce delle Sezioni Unite e verdetti come quello per gli stilisti Dolce e Gabbana. Alla sezione feriale, presieduta da Antonio Esposito che come gli altri segue con massima attenzione ogni sua parola, offre la possibilità di scrivere una pagina nuova nella giurisprudenza della Suprema Corte traendo conclusioni già implicite negli altri pronunciamenti.

L'avvertimento di Craxi a Berlusconi ai primi tempi dell'esilio ad Hammamet: "La macchina giudiziaria agirà anche contro di te", scrive Stefania Craxi su “Il Giornale”. L'avvertimento di mio padre a Berlusconi («La macchina giudiziaria agirà anche contro di te») risale ai primi tempi del suo esilio ad Hammamet. Craxi era rimasto molto impressionato dall'avviso di garanzia recapitato a Berlusconi, allora presidente del Consiglio, direttamente a Napoli dove stava presiedendo una conferenza internazionale sulla criminalità. Assurda l'accusa, ma ancora più straordinarie le modalità della consegna. L'avviso di garanzia fu infatti pubblicato a tutta pagina dal Corriere della Sera, e portato a conoscenza dell'allora capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, prima ancora di essere consegnato all'interessato. Craxi voleva capire. Voleva capire chi avesse dato il via alla Procura di Milano per l'attacco al Psi e agli altri partiti storici della democrazia italiana. Che Mani Pulite fosse una iniziativa del procuratore Borrelli, non lo credeva, e non lo avrebbe creduto nemmeno un bambino. Pensava che dietro alla Procura di Milano ci fossero i soldi che sempre accompagnano i sommovimenti politici. C'erano i soldi dietro Guglielmo Giannini e l'Uomo Qualunque, fin quando De Gasperi persuase l'allora presidente della Confindustria Cicogna a tagliare i finanziamenti; c'erano i soldi dietro Tambroni; recentemente, chissà se c'erano i soldi dietro il tentativo di Gianfranco Fini di disarcionare Berlusconi? Mio padre si arrovellava per capire l'origine dello tsunami che aveva distrutto la democrazia in Italia, e ora che la giustizia politicizzata si era rimessa in moto, avvertiva Berlusconi, facile profeta, dei guai che lo attendevano: «C'è un vero e proprio piano al massacro che procede con gradualità e per linee convergenti ma che ha al fondo un obiettivo, uno e uno solo, e cioè Silvio Berlusconi». È un vero scandalo che a più di vent'anni dai fasti di Mani Pulite non esista ancora non dico un libro, ma almeno un saggio che scavi a fondo la verità di Tangentopoli; è un vero scandalo che la giustizia politica imperversi ancora fino a condizionare lo svolgimento della vita politica del paese. È avvilente che la democrazia italiana debba ancora attendere con trepidazione un verdetto di giudici ormai impossibilitati ad essere imparziali. Ma io sono convinta che qualsiasi sia il verdetto della Cassazione, Berlusconi saprà dimostrarsi più forte dei suoi persecutori, un soggetto politico di primo piano pronto a mettere gli interessi della Nazione davanti ai suoi interessi personali.

Il Pd, prima Pci-Pds-Ds, che in questo ventennio ha fatto dell’antiberlusconismo il suo unico vero programma per tenere unite le anime più disparate. "Non si può pensare di eliminare l'avversario attraverso una legge": per battere Grillo e Berlusconi, il Partito democratico deve "tirare fuori le idee e non gli avvocati". Lo ha detto il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, a margine della cerimonia di chiusura dell'anno accademico della "Johns Hopkins University" di Bologna. "Pensare come ha fatto qualche parlamentare del mio partito che si possa sconfiggere Beppe Grillo facendo una legge per dire che il M5s non può partecipare alle elezioni è ridicolo - ha ribadito Renzi -. Non si può pensare di eliminare l'avversario attraverso una legge; puoi sconfiggerlo con le idee e le proposte". Questo, secondo il sindaco, "vale per Berlusconi esattamente allo stesso modo" pensando di sconfiggerlo "attraverso l'interpretazione di una norma". Per Renzi "non si può pensare dopo 19 anni di dire che Berlusconi è ineleggibile, perché se lo era, lo era anche prima. Per battere e mandare a casa Berlusconi e per battere Grillo il Pd deve tirare fuori le idee, non gli avvocati". Infine un riferimento all'Esecutivo. "Non si può sapere quanto durerà il governo Letta perché non è uno yogurt che ha indicata la scadenza sulla confezione. Se fa le cose va avanti, se non le fa va a casa" ha evidenziato Renzi. Renzi aveva già detto e riconferma: la speranza di sconfiggere il Cavaliere per via giudiziaria è «un errore» che la sinistra ha alimentato troppo a lungo. Detto questo, l'eventuale condanna di Berlusconi a quattro anni, tre coperti dall'indulto, rappresenta un unicum nella storia italiana per l'indiscutibile rilievo politico del personaggio. Ex premier per quattro volte, leader del Pdl, fama internazionale, si ritroverà a fare i conti con una pena che, anche se solo di un anno, cambierà profondamente la sua vita personale e pubblica. Né, per lui, potranno essere sovvertite le regole che valgono per i normali cittadini. Se alla pena si aggiungerà anche l'interdizione - 3 o 5 anni poco cambia - Berlusconi rischia di trovarsi anche senza la copertura parlamentare che comunque gli garantisce spazi più ampi di movimento.

BERLUSCONI E CRAXI: DUE CONDANNATI SENZA PASSAPORTO.

I due condannati, senza passaporto. Analogie e differenze delle storie di Berlusconi e Craxi dopo la sentenza della Cassazione, scrive Paolo Sacchi su “Panorama”. «La vede, signora, la fine che avrebbero voluto farmi fare…». 21 gennaio 2000, giorno dei funerali di Bettino Craxi. Cinque della sera, Hammamet, cimitero cristiano, lapidi bianche, tra la Medina e il mare, che guarda l’Italia. La famiglia Craxi volle che «Bettino» fosse sepolto così: con la bara rivolta verso l’Italia negata. Per alcuni minuti il Cavaliere, allora spodestato da Palazzo Chigi, ma già in rimonta dopo una lunga traversata nel deserto, e senza il thè del fim di Bernardo Bertolucci, girato proprio in Tunisia, si apparta. Si nasconde e piange a dirotto dietro a una tomba del cimitero cristiano di Hammamet. Chi scrive lo raggiunge. Ha gli occhi ancora umidi. Lui si riprende e scolpisce in via riservata con la cronista la frase ( «Lo vede che fine avrebbero voluto farmi fare») che probabilmente  avrà accompagnato, come una sfida ma al tempo stesso una minaccia, le sue tre volte tre di presidente del Consiglio, negli ultimi vent’anni di politica italiana. Era sinceramente commosso e profondamente addolorato quel giorno il Cavaliere per la morte dell’amico Bettino, e già presagiva che per lui sarebbe stata dura. Anzi, durissima. Invitò a pranzo all’Abou Nawas di Tunisi i socialisti superstiti, allora guidati da Enrico Boselli. Li chiamò a una battaglia di libertà, ma loro, che avevano all’epoca ministri nel governo di Massimo D’Alema , nicchiarono. Fino a scomparire. In molti in questi vent’anni hanno tirato per la giacca, e da morto, Bettino Craxi. Sarebbe stato con la destra o la sinistra? Di certo lui non sarebbe stato con quelli che nei momenti più drammatici degli ultimi giorni all’ Hopital Militaire di Tunisi, definì «i miei assassini», ovvero gli eredi del Pci. Non sarebbe stato neppure con Forza Italia.  Ma forse un po’ più vicino a Forza Italia sì, se proprio avesse dovuto scegliere. La sua ultima idea era quella di fare un federazione liberalsocialista con un ritorno al sistema proporzionale. Di certo, Berlusconi per lui era un vero e sincero amico. Tant’è che Craxi confidò a chi scrive: «Vedrai proveranno a farlo fuori con l’arma giudiziaria». E ancora: «Non è vero che fui io a consigliargli di entrare in politica, gli dissi semplicemente: se te la senti, fallo. Mi sono sempre chiesto come ha fatto a prendere tutti quei voti, io mi sono fermato alla soglia del 12 o 13 per cento….». Craxi-Berlusconi: ora  c’è  anche il ritiro di un passaporto che li accomuna. Ma Craxi, come ha ricordato Berlusconi a «Libero», fu costretto all’esilio (aveva una richiesta di condanne di oltre 20 anni e il suo partito lo abbandonò). Berlusconi consegnerà il suo passaporto, ma gli resterà quello datogli da  quasi dieci milioni di elettori. Anche questo l’ex premier e leader socialista, politico a tutto tondo, sulla cui tomba continuano ad andare scolaresche e turisti italiani in pellegrinaggio, all'epoca divisi tra craxiani e anticraxiani,  a suo modo, da statista e leader visionario, aveva previsto.

DA ALMIRANTE A CRAXI CHI TOCCA LA SINISTRA MUORE.

Da Almirante a Craxi chi tocca la sinistra muore, scrive Marcello Veneziani  su “Il Giornale”. Vorrei conoscere la segreta legge in base alla quale chi si oppone alla sinistra è sempre un delinquente. Cito tre esempi principali, diversi per stile ed epoca, più altri casi paralleli. Quarant'anni fa il delinquente si chiamava Giorgio Almirante. Aveva ottenuto un gran successo elettorale, riempiva le piazze, spopolava in tv. Perciò si decise che era un criminale, e dunque andava messo fuori legge col suo partito. Badate bene, il Msi in quella fase era meno fascista di prima, era in doppiopetto, era diventato destra nazionale, apriva a liberali e monarchici, aveva perfino (...) (...) partigiani. Ma allora risorse il fronte antifascista. La stessa criminalizzazione era avvenuta nel '60 quando l'Msi aveva svoltato in senso moderato, appoggiando un governo centrista, presto rovesciato da un'insurrezione violenta di piazza. L'antifascismo veniva sfoderato non quando si sentiva odore di fasci ma quando si sentiva odore di voti e di governo. Su Almirante piovvero stragi e accuse tremende, si creò un cordone sanitario per isolare la destra, la sua stampa e le sue idee, si favorì una scissione. La persecuzione finì quando il Msi tornò piccolo e innocuo. Le accuse di fascismo non risparmiarono neanche due combattenti antifascisti come Sogno e Pacciardi che erano però militanti anticomunisti. La campagna infame si accanì col Quirinale: Leone, eletto con i voti del Msi e senza quelli del Pci, fu massacrato e costretto a dimettersi, con accuse poi rivelatesi infondate. Vent'anni fa il delinquente si chiamava Bettino Craxi, e la sua associazione a delinquere era non solo il Psi, ma il Caf, che comprendeva Andreotti e Fanfani vituperato anticomunista (poi sostituito da Forlani). Craxi aveva inchiodato il Pci all'opposizione, aveva conquistato la centralità del sistema politico, voleva modernizzare lo Stato. Eliminato. Parallelamente Cossiga, da quando si emancipò dall'intesa consociativa che lo aveva eletto al Quirinale e cominciò a esternare contro i partiti, fu linciato, minacciato di impeachment, accusato di stragi e delitti. Fino a che Cossiga depose ogni progetto gollista e si limitò a esercitare l'arte del paradosso. Andreotti è un caso contorto ma anche lui diventò un delinquente solo quando smise di presiedere i governi consociativi. Ora il delinquente si chiama Berlusconi, dopo un ventennio di caccia all'uomo. Vi risparmio di farvi la storia del berluschicidio, vi esce ormai dalle orecchie. Dirò solo che rispetto agli altri lui ha l'aggravante tripla di essere ricco, di non essere un politico e di avere un grande elettorato. Con lui ci sono altri casi annessi (anche extrapolitici, come Bertolaso e don Verzè). Esempio? Il modello Lombardia di Formigoni&Cl, un sistema di potere analogo a quello delle coop rosse in Emilia, con le stesse ombre, ma con risultati di eccellenza in termini di amministrazione. Massacrato mentre le coop rosse furono risparmiate. Per la sanità la Lombardia fu indagata di pari passo con la Puglia di Vendola, ma con una differenza: la prima funzionava bene, la seconda no. Risultato: la prima fu sfasciata a norma di legge, la seconda no. Anche lì l'aggravante era il largo consenso recidivo a Formigoni. Cos'hanno in comune i casi citati? Erano antagonisti della sinistra. E poi un'altra peculiarità: da Almirante a Pacciardi e Sogno, da Fanfani a Cossiga, a Craxi e a Berlusconi, volevano una repubblica presidenziale, bestia nera del Partito-Principe. Il mistero resta: come mai tutti coloro che si oppongono alla sinistra sono delinquenti, chi per eversione, chi per golpismo, chi per malaffare? C'è una spiegazione logica, scientifica a questa curiosa coincidenza? Cosa c'era di vero nelle accuse? Almirante era fascista, è vero, ed è pure vero che alcuni neofascisti erano violenti; ma Almirante e il suo partito non c'entravano nulla con stragi, assassini e violenze, di cui furono più vittime che artefici. Craxi navigò alla grande nel sistema delle tangenti, è vero, usò modi illeciti per finanziare la politica, ma la tangente fu inventata storicamente dalla sinistra dc parastatale e i finanziamenti illeciti, prima di Craxi riguardò la Dc, il Psi antecraxi, gli alleati, più i soldi che arrivavano da Mosca al Pci e le tangenti sull'import-export con l'est. Anche Berlusconi non è uno stinco di santo, ma se qualunque grande azienda italiana o qualunque grande partito italiano fosse setacciato, intercettato e perquisito con la stessa meticolosità, avrebbero trovato reati analoghi, anzi delitti peggiori e pure arricchimenti illeciti a spese del denaro pubblico. Appena si è scoperchiato l'affare Monte dei Paschi vedete cosa ne è venuto fuori, suicidi inclusi. Se avessero poi applicato il criterio usato per Berlusconi - il capo è colpevole degli illeciti compiuti nel suo regno - avremmo avuto in galera i due terzi del capitalismo nostrano e della partitocrazia. A questo punto la conclusione è netta: o avete il coraggio di teorizzare l'iniquità razziale di chiunque si opponga alla sinistra, e dunque il nesso etico e genetico tra antisinistra e criminalità, o c'è qualcosa di turpe nella sistematica criminalizzazione del nemico. Certo, non tutti i giudici che si sono occupati di Berlusconi e dei casi precedenti erano di parte. Alcuni decisamente sì, erano di parte; altri invece erano solo nella parte, ovvero accettate quelle premesse non puoi che avere quelle conseguenze; si crea un meccanismo a cascata, una coazione a ripetere e a non contraddire le sentenze dei colleghi di casta. Il punto era ridiscutere i presupposti dell'indagine, a partire dall'accanimento selettivo; e poi, a valle, porsi il problema della responsabilità, cioè considerare le conseguenze per l'Italia. I giudici non sono una vil razza dannata, sono nella media degli italiani: l'unica differenza è che solo loro dispongono di un potere assoluto, inconfutabile, irresponsabile. Che non risponde di sé né dei danni pubblici che arreca. La serra in cui fioriscono le sentenze è una Cupola editoriale-giudiziaria-finanziaria, benedetta da alcuni poteri transnazionali. Un allineamento di fatto, non un complotto premeditato; non è una congiura ma una congiuntura. La sinistra politica ne è solo il terminale periferico.  Non sono affatto innocentista, ma l'esperienza mi conduce a una conclusione: ogni potere ha la sua fogna, in forme e misure diverse; ma alcune vengono portate alla luce e altre no. Usciamo in fretta dalla seconda repubblica: non quella nata nel '94, ma quella abortita dal '68.

BERLUSCONIANI CONTRO ANTIBERLUSCONIANI.

Berlusconiani Vs Antiberlusconiani: solito spettacolo penoso, scrive Diego Fusaro su “Lo Spiffero”. Si è per l’ennesima volta riproposto l’osceno spettacolo che tiene da vent’anni prigioniera la politica italiana: quel penoso conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani che continua a ottundere le menti, illudendole che il solo vero problema del nostro Paese sia l’incarcerazione del Cavaliere o, alternativamente, la sua santificazione in terra. Uno spettacolo patetico e, insieme, disgustoso. Se mai è possibile, per i motivi che subito dirò, l’antiberlusconismo è più spregevole dello stesso berlusconismo. Il berlusconismo non è un fenomeno politico. È, semplicemente, l’economia che aspira a neutralizzare la politica, riconfigurandola – avrebbe detto von Clausewitz– come la continuazione stessa dell’economia con altri mezzi. Non ha nulla a che vedere con il fascismo, con buona pace della sinistra perennemente antifascista in assenza integrale di fascismo. Il berlusconismo è osceno, perché è di per sé oscena la dinamica, oggi dilagante, della reductio ad unum operata dalla teologia economica, ossia di quell’integralismo economico che aspira a ridurre tutto all’economia, alla produzione e allo scambio delle merci. Il berlusconismo ne rappresenta l’apice, aggiungendo a questa oscenità pittoreschi elementi da commedia all’italiana su cui è pleonastico insistere in questa sede. Ma l’antiberlusconismo è ancora più osceno. Nella sua intima logica, l’antiberlusconismo si regge su un’esasperazione patologica della personalizzazione dei problemi. Quest’ultima si rivela sempre funzionale all’abbandono dell’analisi strutturale delle contraddizioni: ed è solo in questa prospettiva che si spiega in che senso per vent’anni l’antiberlusconismo sia stato, per sua essenza, un fenomeno di oscuramento integrale della comprensione dei rapporti sociali. Questi ultimi sono stati moralizzati o, alternativamente, estetizzati, e dunque privati della loro socialità, inducendo l’opinione pubblica a pensare che il vero problema fossero sempre e solo il “conflitto di interessi” e le volgarità esistenziali di un singolo individuo e non l’inflessibile erosione dei diritti sociali e la subordinazione geopolitica, militare e culturale dell’Italia agli Stati Uniti. Grazie all’antiberlusconismo, la sinistra ha potuto indecorosamente mutare la propria identità, passando dall’anticapitalismo alla legalità, dalla lotta per l’emancipazione di tutti al potere dei magistrati e dei giudici, dalla questione sociale a quella morale, da Carlo Marx a Serena Dandini, da Antonio Gramsci alla Gabbanelli. La sinistra, muta e cieca al cospetto della contraddizione capitalistica, ha fatto convergere le sue attenzioni critiche su una persona concreta (il Cavaliere), presentandola come la contraddizione vivente. In tal maniera, ha potuto cessare di farsi carico dei problemi sociali e della miseria prodotta dal sistema della produzione, illudendo l’elettorato e inducendolo a pensare che il sistema, di per sé buono, fosse inficiato dall’agire immorale e irresponsabile di un’unica persona. Quest’ultima, lungi dall’essere – nonostante i deliri di onnipotenza del caso – la causa della reificazione globale, ne è un effetto: più precisamente, si presenta come l’esempio vivente dell’illimitatezza del godimento gravido di capitale, che travolge apertamente ogni limite e ogni barriera, ogni legge e ogni istituzione che non riconosca il plus ultra desiderativo come unica autorità e come sola legge. L’antiberlusconismo ha permesso alla sinistra di occultare la propria adesione supina al capitale dietro l’opposizione alla contraddizione falsamente identificata nella figura di un’unica persona, secondo il tragicomico transito dal socialismo in un solo paese alla contraddizione in un solo uomo. Come l’antifascismo in assenza integrale di fascismo, così l’antiberlusconismo ha svolto il ruolo di fondazione e di mantenimento dell’identità di una sinistra ormai conciliata con l’ordine neoliberale (si pensi alle penose rassicurazioni di Bersani circa l’alleanza del PD con i mercati e con il folle sogno dell’eurocrazia indecorosamente chiamata Europa). Ingiustizia, miseria e storture d’ogni sorta hanno così cessato di essere intese per quello che effettivamente sono, ossia per fisiologici prodotti dell’ordo capitalistico, e hanno preso a essere concepite come conseguenze dell’agire irresponsabile di un singolo individuo. Per la sinistra oggi essere antiberlusconiani è l’alibi per non essere anticapitalisti. Permettendo di riconvertire la passione anticapitalistica in indignazione morale, l’avversione per le regole sistemiche ingiuste in loro difesa a oltranza, l’antiberlusconismo ha, pertanto, svolto una funzione di primo piano nella celere e performativa sostituzione dell’identità precedente della sinistra con una nuova e indecorosa fisionomia, quella dell’adesione cadaverica alle leggi del mercato e del capitale. Se la sinistra smette di interessarsi alla questione sociale e, più in generale, alla galassia di problemi che, con diritto, potrebbero compendiarsi nell’espressione programmatica “ripartire da Marx”, con il ricco arsenale di passioni politiche che in tale figura si cristallizzano, è opportuno smettere di interessarsi alla sinistra. I recenti fenomeni di piazza ne sono l’esempio più tragico: mentre il popolo dei berlusconiani si scontrava con quello degli antiberlusconiani, le sacre leggi del mercato facevano il loro corso, sconvolgendo, ancora una volta, le nostre vite, erodendo i diritti sociali. La situazione è, una volta di più, tragica ma non seria. La prima mossa da compiere per tornare a pensare e a praticare la politica è uscire dal vicolo cieco del conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani.

I ROSSI BRINDANO ALLA CONDANNA.

La stampa rossa cavalca l'odio e brinda alla nuova Liberazione. Piovono insulti e sberleffi dai giornali di sinistra: 1º agosto come il 25 aprile. Le offese di Repubblica: "Vecchio attore che fa pena", scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Gran fermento nelle redazioni di tanti giornali, da Repubblica al Fatto, dal Manifesto all'Unità. È scattata l'operazione sbianchettamento sui calendari: la festa della Liberazione non è più il 25 aprile, ma il 1° agosto, giorno fausto della condanna di Silvio Berlusconi. Basta con le anticaglie del secolo scorso, c'è un nuovo piazzale Loreto: è la piazza Cavour di Roma dove s'affaccia il Palazzaccio della Cassazione, il luogo dell'esecuzione, del ludibrio, dello sbeffeggio di «Al Tappone», come ha scritto con la consueta eleganza Marco Travaglio sul Fatto quotidiano, al quale non è bastato scrivere che «Al Capone è il suo spirito guida». Suo, di Berlusconi. La gioia è esplosa incontenibile come i tappi di champagne nelle ricorrenze più importanti. «Condannato». «Condannato il delinquente». «Cassato». «Il pregiudicato costituente». Un «proclama eversivo». Un irrefrenabile sentimento di «Vittoria alata», come ha titolato il Manifesto. Sì, vittoria, come in una gara tra buoni e cattivi, anzi tra i buoni e il Cattivo. «Certo in un Paese normale sarebbe stata auspicabile una sconfitta politica», ammette Giuseppe Di Lello. Ma che vuoi farci, bisogna accontentarsi: non si va troppo per il sottile pur di fare fuori il Cavaliere (e naturalmente tutti chiedono che gli venga tolta l'onorificenza assieme alla libertà). Dove non arriva la politica soccorre la magistratura: «In uno stato di diritto anche le sentenze svolgono il loro ruolo di controllo della legalità e da esse non si può prescindere», si legge sul quotidiano che ha Toni Negri tra i collaboratori. A Repubblica è tutto un fuoco d'artificio. Altro che la Resistenza partigiana: le truppe di Carlo De Benedetti si sentono il Cln del ventunesimo secolo, le nuove Brigate Garibaldi, i veri liberatori dal Nemico. Ebbro di esultanza, Francesco Merlo abbandona i toni raffinati del passato e scende nel volgare. Per lui Berlusconi è «un vecchio attore che per non subire la pena faceva pena». Il suo videomessaggio «una sceneggiata con la lacrima, come il gorgonzola e i fichi». Nel Pantheon del Cav, un «delinquente comune» e «mattatore nel baraccone della finta pietà», si trovano «solo gli evasori truffatori». E quando la dose di volgarità è finita subentra la violenza: «Davvero Berlusconi - arriva a scrivere Merlo - preferirebbe che dei forsennati lo trascinassero per strada e gli infliggessero qualche atroce supplizio». L'ex premier si è già preso nei denti una non metaforica statuetta del duomo di Milano: poca roba, per gli intellettuali chic di Repubblica. Anche Filippo Ceccarelli tira un sospiro di sollievo: «Si può dire che se l'è voluta, cercata e trovata - e adesso si spera che un po' si metta tranquillo». Ma, riconosce, «non sarà facile» liberarsi di questo «imputato permanente e privilegiatissimo»: «Troppe visioni, troppi processi, troppo di Berlusconi è stato sparso nella società perché lo si possa bruciare, liquidare, o sradicare nel tempo breve di un'estate», come sarebbe augurabile. Mai contenti, a Repubblica. Dove si definisce il videomessaggio «un proclama eversivo». E dove il direttore Ezio Mauro trasforma l'intera parabola del Cavaliere in un vortice di malaffare: «Il falso miracolo imprenditoriale che nella leggenda di comodo aveva generato e continuamente rigenerava l'avventura politica di Silvio Berlusconi ieri ha rivelato la sua natura fraudolenta». Berlusconi è stato condannato per aver evaso, nel 2002 e 2003, 7,3 milioni di euro a fronte di 709 milioni dichiarati: l'1 per cento in soli due anni. Che per Repubblica è sufficiente per gettare nel fango una vita intera. Nel calendario del Fatto - dove Travaglio si crogiola tra «fuorilegge», «delinquente matricolato», «pregiudicato costituente» - oltre alla nuova data della Liberazione appare anche un nuovo santo: è Fabio De Pasquale, il pubblico ministero che ha ottenuto la prima condanna definitiva per Berlusconi e, prima di lui, fu il primo a incastrare Bettino Craxi. Santo subito, più della beata Ilda Boccassini. Curiosità: il Fatto e il Manifesto hanno messo in prima pagina la stessa foto di Berlusconi corrucciato. Come insegnava la buonanima rossa di Mao, marciare divisi per colpire uniti.

QUANDO IL PCI RICATTO' IL COLLE: GRAZIA ALL'ERGASTOLANO.

Quando il Pci ricattò il Colle: grazia all'ergastolano. Moranino era fuggito a Praga e rientrò in Italia dopo l'atto di clemenza di Saragat, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La storia non si ripete, però ci sorprende e ci spiazza. La storia, se si rileggono certi passaggi, può scombussolare le fondamenta dei ragionamenti che si ripetono in questi giorni surriscaldati di mezza estate. Si dice che la grazia non può essere un quarto grado di giudizio e che il condannato non può riceverla se non ha cominciato ad espiare la pena. Si ammucchiano tanti concetti, tutti politically correct, poi t'imbatti nella vicenda tragica e drammatica di Francesco Moranino, il comandante «Gemisto», comunista doc, partigiano, deputato e tante altre cose ancora e sei costretto a rivedere quei giudizi affrettati. Il caso Moranino è per certi aspetti ancora aperto come tante pagine controverse del nostro passato, ma alcuni elementi sono chiari. Il primo: nel 1955 il Parlamento concesse l'autorizzazione a procedere, la prima nel Dopoguerra, e Moranino fu condannato all'ergastolo per l'uccisione di cinque partigiani bianchi e di due delle loro mogli; il secondo: non rimase in Italia a scontare mestamente la condanna. No, fu aiutato dal Pci a scappare. Riparò a Praga e là attese gli eventi. Attenzione: Praga era la capitale di un paese nemico nell'Europa sull'orlo del conflitto degli anni Cinquanta e Sessanta. Da Praga Moranino portò a casa due risultati clamorosi; prima, nel '58, il presidente Giovanni Gronchi commutò la sua pena: dal carcere a vita a 10 anni. Poi nel '65 il suo successore Giuseppe Saragat gli concesse la grazia. Sì, avete letto bene. Il presidente della Repubblica cancellò con un colpo di spugna la pena. Saragat non si preoccupò del fatto che la grazia potesse sconfessare l'opera della magistratura e suonare appunto come un quarto grado di giudizio. Anzi, il presidente non si fermò neppure quando il procuratore generale di Firenze, chiamato ad esprimersi, diede un parere negativo. La grazia fu firmata lo stesso, anche se Moranino era latitante, in fuga oltre la Cortina di ferro. E, insomma, la sorprendente conclusione poteva essere interpretata come una resa dello Stato ad una parte. Per piantare la bandierina della grazia, Saragat scalò una parete di sesto grado, altro che la frode e l'evasione fiscale di cui si parla in questi giorni. Moranino naturalmente si proclamava innocente e poi tutto quel periodo storico convulso, la stagione della Resistenza e la sua coda nelle settimane successive al 25 aprile, era ed è oggetto di una grande disputa: le esecuzioni senza pietà dovevano essere coperte dallo scudo della Resistenza che tutto giustificava e assorbiva. La querelle, come è noto, si è trascinata nel tempo: il sangue dei vinti, come l'ha chiamato Giampaolo Pansa, non ha ancora trovato pace. Ma Saragat non si soffermò sulle conseguenze giuridiche di quell'atto e puntò dritto all'obiettivo della pacificazione. La politica, con i suoi accordi sotterranei, vinse su tutto il resto, anche sull'indecenza di un atto che, pur se bilanciato da misure di clemenza verso i neri della Repubblica sociale, sconcertò molti italiani. L'ha spiegato molto bene Sergio Romano rispondendo ad un lettore dalla colonne del Corriere della sera: «Credo che Giuseppe Saragat abbia pagato un debito di riconoscenza al partito che aveva contribuito ad eleggerlo». Saragat era diventato capo dello Stato il 28 dicembre 1964, con il contributo determinante del Pci. La grazia arrivò a tamburo battente il 27 aprile 1965. Ci fu probabilmente un baratto: l'elezione in cambio della chiusura di quel capitolo orrendo. Moranino rientrò con comodo, nel '68, e il Pci non ebbe alcun imbarazzo a ricandidarlo e a farlo rieleggere. A Palazzo Madama. L'Italia usciva così definitivamente dal clima avvelenato della guerra, ma il prezzo pagato allo stato di diritto fu altissimo. Era il ”Re del Grano”, l´inventore di Zemanlandia, il fautore del miracolo del Foggia in serie A e dell´Avellino in serie B, ma per tredici anni Pasquale Casillo, noto a tutti come “Don Pasquale” da San Giuseppe Vesuviano, pesava l´accusa del famigerato articolo 110 - 416bis, concorso esterno in associazione di stampo mafioso: un reato grave da cui Casillo, soltanto in tarda mattina del 16 febbraio 2007, è stato assolto dai giudici del tribunale di Nola, in provincia di Napoli, che hanno accolto le richieste del pubblico ministero Vincenzo D´Onofrio. Per Don Pasquale, dunque, assistito dall´avvocato Ettore Stravino e da Bruno Von Arx, è giunta l´assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto. Casillo fu arrestato il 21 aprile del 1994 non solo per associazione mafiosa, ma anche per truffa e peculato. Era stato accusato, insieme ad altri, infatti, di aver frodato l’Aima, l´Azienda di Stato per gli interventi nel mercato agricolo. Per questi ultimi reati è scattata la prescrizione, ma per Pasquale Casillo restava in piedi la ben più grave macchia, il 416bis, che da ieri non ha più nulla a che fare con l´ex Re del Grano. Un “impero”, quello di Casillo, che valeva milioni e milioni di euro e che gli deve essere restituito poiché sono stati revocati i provvedimenti di sequestro cautelare sulle aziende e sui beni personali. «In questa brutta storia, potevo perdere tutto ma non la dignità» ha dichiarato l´imprenditore. Nei primi anni ´90 l’industriale campano, presidente dell´Assindustria di Foggia, era il gotha dell´imprenditoria nazionale: il suo “impero” era impegnato in tutti i campi, dal commercio allo stoccaggio del grano, dai trasporti navali al mondo del calcio. E che calcio. Ma Casillo aveva anche partecipazioni importanti in istituti di credito (Banca Mediterranea e Caripuglia) e società immobiliari e turistiche. E poi, oltre al Foggia di Zeman, era proprietario anche di Salernitana e Bologna e voleva “mettere le mani” sulla Roma di Ciarrapico. Poi, quel 21 aprile, l´arresto a Foggia: a far emettere le ordinanze dai giudici di Napoli le deposizioni di un pentito della camorra, il boss Pasquale Galasso. Nonostante un pool di primarie banche, coordinate dall´ABI, avesse offerto un cospicuo finanziamento ponte di 100 miliardi di vecchie lire, rifiutato dal neoamministratore giudiziario del gruppo, scatta la molla dell´istanza di fallimento, richiesta dai creditori del gruppo Casillo. Nel maggio del 1994, su istanza del Banco di Napoli, finiscono in tribunale i libri della capogruppo, la “Casillo Grani Snc”, società in nome collettivo. E incomincia il pellegrinaggio dell´inchiesta principale. Casillo si è sempre dichiarato innocente, anzi «perseguitato dai giudici», e ha sempre richiesto di essere processato subito. Con gli anni vengono prescritti tutti gli eventuali reati fiscali. Restava, fino a ieri, solo il 416bis. E per Casillo il fantasma della mafia, anzi della camorra campana, svanisce, così come era svanito, qualche anno prima, per l´ex ministro dell´Interno Antonio Gava, che è stato assolto - come molti altri imputati eccellenti - in tutti i gradi nel processo per camorra basato in massima parte sulle dichiarazioni del medesimo pentito Pasquale Galasso, lo stesso accusatore di Casillo.

I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.

In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media  di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.

113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.

E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».

Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La  sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio». 

A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.

Quando la disinformazione è l’oppio dei popoli, che li rincoglionisce. I giornalisti corrotti ed incapaci ti riempiono la mente di merda. Anziché essere testimoni veritieri del loro tempo, si concentrano ad influenzare l’elettorato manovrati dal potere giudiziario, astio  ad ogni riforma che li possa coinvolgere e che obbliga i pennivendoli a tacere le malefatte delle toghe.

Silvio Berlusconi: ossessione dei giornalisti di destra e di sinistra.

Il Caimano in prima pagina: vent'anni di copertine dell'Espresso. 88. La prima, il 5 ottobre del 1993. L'ultima, ma non ultima, il 25 novembre 2013. Ecco come l'Espresso ha sbattuto il Cavaliere in prima pagina.

5 ottobre 1993. Berlusconi a destra. Nuove Rivelazioni: QUI MI FANNO NERO! Dietro la svolta: Le ossessioni, la megalomania, la crisi Fininvest….

17 ottobre 1993. Esclusivo. I piani Fininvest per evitare il crac. A ME I SOLDI! Rischio Berlusconi. Rivelazioni. Il debutto in politica e l’accordo con segni. A ME I VOTI!

21 novembre 1993. Elezioni. Esclusivo: tutti gli uomini del partito di Berlusconi. L’ACCHIAPPAVOTI.

7 gennaio 1994. BERLUSCONI: LE VERITA’ CHE NESSUNO DICE. Perché entra in politica? Forse per risolvere i guai delle sue aziende? Che senso ha definirlo imprenditore di successo? Quali sono i suoi rapporti oggi con Crazxi? Cosa combina se si impadronisse del Governo? Quali banchieri lo vedono già a Palazzo Chigi? Esistono cosi occulti nella Fininvest? Chi sono? Insomma: questo partito-azienda è una barzelletta o una cosa seria?

4 marzo 1994. Speciale elezioni. CENTO NOMI DA NON VOTARE. Dossier su: buoni a nulla, dinosauri, inquisiti, riciclati, voltagabbana.

11 marzo 1994. DIECI BUONE RAGIONI PER NON FIDARSI DI BERLUSCONI. Documenti esclusivi da: commissione P2, magistratura milanese, Corte costituzionale.

29 luglio 1994. Troppe guerre inutili. Troppi giochetti d’azzardo. Troppe promesse a vuoto. Troppo disprezzo degli altri. Troppe docce fredde per lira e borsa….LA FANTASTICA CANTONATA DEGLI ITALIANI CHE SI SONO FIDATI DI BERLUSCONI.

26 agosto 1994. Tema del giorno. Atroce dubbio su Berlusconi: ci sa fare o è un…ASINO?

18 novembre 1994. Dossier Arcore: LA REGGIA. Storia di un Cavaliere furbo, di un avvocato, di un’ereditiera. Dossier alluvione. LA PALUDE. Storia di un governo ottimista e di una catastrofe.

14 aprile 1995. L’incubo di pasqua. Ma davvero la destra vince? VENDETTA!

9 giugno 1995. L’AFFARE PUBBLITALIA. Tre documenti eccezionali. 1. Dell’Utri. Viaggio tra i fondi neri. Della società che voleva conquistare un paese. 2. Berlusconi. Le prove in mano ai giudici: dal caso Berruti alla pista estera. 3. Letta. I verbali dei summit di Arcore. Con i big di giornali e televisioni Fininvest.

10 settembre 1995. Case d’oro/ esclusivo. L’ALTRA FACCIA DELLO SCANDALO. Rapporto sui raccomandati di sinistra. Rivelazioni: manovre ed imbrogli della destra.

17 settembre 1995. L’ALTRA FACCIA DI AFFITTOPOLI/NUOVE RIVELAZIONI. 745.888.800.000! Come, dove e quanto hanno incassato i fratelli Berlusconi rifilando palazzi e capannoni agli enti previdenziali.

25 ottobre 1995. SHOWMAN. Berlusconi ultimo grido. L’attacco a Dini e Scalfaro: astuzie, bugie, sceneggiate.

2 febbraio 1996. L’uomo dell’inciucio. Segreti, imbrogli, stramberie, pericoli…. SAN SILVIO VERGINE.

5 aprile 1996. Dall’album di Stefania Ariosto: festa con il cavaliere. C’ERAVAMO TANTO AMATI. Nuove strepitose foto/La dolce vita di Berlusconi & C. Caso Squillante/Tutto sui pedinamenti. E sui gioielli Fininvest. Se vince il Polo delle Vanità/Poveri soldi nostri…

24 ottobre 1996. D’Alema e Berlusconi: il nuovo compromesso. Origini, retroscena, pericoli. DALEMONI.

18 dicembre 1996. FORZA BUFALE. Rivelazioni. Chi e come alimenta la campagna contro Di Pietro. Qual è la fabbrica delle false notizie agghiaccianti sul Pool Mani Pulite. Che cosa fa acqua nei rapporti della Guardia di Finanza. I segreti dell’agenda di Pacini Battaglia. Le grandi manovre per l’impunità. E il ritorno di fiamma dell’amnistia….C’è in Italia un partito antigiudici. Ha capi, quadri, ha compagni di strada. Per vincere deve spararle sempre più grosse. Inchiesta su un malessere che non passa. E che nessuna riforma risolve.

3 maggio 1996. THE END.

10 aprile 1997. ALBANIA SHOW. Speciale/tragedie e polemiche, sceneggiate e pericoli.

3 agosto 2000. Esclusivo. Un rapporto dei tecnici della Banca d’Italia. COSI’ HA FATTO I SOLDI BERLUSCONI.

22 marzo 2001. LA CARICA DEI 121. Fedelissimi, folgorati e riciclati. Con loro Berlusconi vorrebbe governare l’Italia.

16 maggio 2001. L’AFFONDO. Berlusconi si gioca il tutto per tutto. Ma la partita è ancora aperta. Le urne diranno se sarà alba o tramonto.

24 magio 2001. E ORA MI CONSENTA. L’Italia alle prese con il Cavaliere pigliatutto.

19 dicembre 2001. GIUSTIZIA FAI DA ME. Sondaggio choc: i giudici, gli italiani e Berlusconi.

7 febbraio 2002. L’importante è separare la carriera degli imputati da quella dei giudici. L’ILLUSIONE DI MANI PULITE.

15 MAGGIO 2003. COMPARI. Negli affari, nella politica, nei processi. Berlusconi e Previti pronti a tutto. A riscrivere le leggi e a sconvolgere le istituzioni.

11 settembre 2003. Esclusivo. GLI ZAR DELLA COSTA SMERALDA. Le foto segrete dell’incontro Berlusconi-Putin.

29 gennaio 2004. RISILVIO. Vuole rifare il governo, rifondare Forza Italia, riformare lo Stato. E per cominciare si è rifatto.

13 maggio 2004. LE 1000 BUGIE DI BERLUSCONI. Il suo governo ha stabilito il record di durata. E anche quello delle promesse non mantenute. Ecco il bilancio.

24 giugno 2004. – 4.000.000. Ha perso voti e credibilità. Ora gli alleati gli presentano il conto. L’estate torrida del cavalier Silvio Berlusconi.

3 marzo 2005. AFFARI SUOI. Società e fiduciarie nei paradisi fiscali. Falsi in bilancio. Così Silvio Berlusconi dirottava i proventi del gruppo Mediaset sui diritti Tv.

7 aprile 2005. RISCHIATUTTO. Il voto delle regionali segnerà il destino dei duellanti. Romano Prodi e Silvio Berlusconi? Ecco che cosa ci aspetta dopo il verdetto delle urne.

21 aprile 2005. FARE A MENO DI BERLUSCONI. L’ennesima sconfitta ha chiuso un ciclo. Gli alleati del Cavaliere pensano al dopo. E a chi potrà prendere il suo posto.

2 febbraio 2006. PSYCHO SILVIO. Impaurito dai sondaggi tenta di rinviare la campagna elettorale. Occupa radio e tv. Promuove gli amici nei ministeri. Distribuisce una pioggia di finanziamenti clientelari. Così Berlusconi le prova tutte per evitare la sconfitta.

6 aprile 2006. DECIDONO GLI INDECISI. Identikit degli italiani che ancora non hanno scelto. Ma che determineranno l’esito del voto del 9 aprile.

9 novembre 2006. LA CASA DEI DOSSIER. Da Telecom-Serbia alle incursioni informatiche. Ecco il filo che lega le trame degli ultimi anni. Con un obbiettivo: delegittimare Prodi e la sinistra.

29 novembre 2007. Retroscena. VOLPE SILVIO. Il piano segreto di Berlusconi per far cadere Prodi e tornare al Governo. Fini e Casini azzerati. L’Unione sorpresa. Ma Veltroni è tranquillo. Non mi fanno paura.

24 aprile 2008. Elezioni. L’ITALIA DI B&B. Il ciclone Berlusconi. Il trionfo di Bossi. Lo scacco a Veltroni. E l’apocalisse della sinistra radicale rimasta fuori dal Parlamento.

15 maggio 2008. Inchiesta. LA MARCIA SU NAPOLI. Silvio Berlusconi arriva in città con il nuovo governo. Per liberarla dai rifiuti ma anche per spazzare via la sinistra da Comune e Regione.

25 giugno 2008. DOPPIO GIOCO. Si propone come statista. Aperto al dialogo. Ma poi Berlusconi vuole fermare i suoi processi. Ricusa i giudici. Vieta le intercettazioni. Manda l’esercito nelle città. Ed è solo l’inizio.

3 luglio 2008. Esclusivo. PRONTO RAI. Raccomandazioni. Pressioni politiche. Affari. Le telefonate di Berlusconi, Saccà, Confalonieri, Moratti, Letta, Landolfi, Urbani, Minoli, Bordon, Barbareschi, Costanzo….

19 febbraio 2009. Berlusconi. L’ORGIA DEL POTERE. L’attacco al Quirinale e alla Costituzione. Il caso Englaro. La giustizia. Gli immigrati. L’offensiva a tutto campo del premier.

19 marzo 2009. Inchiesta. PIER6SILVIO SPOT. Le reti Mediaset perdono ascolto. Ma fanno il pieno di pubblicità a scapito della Rai. Da quando Berlusconi è tornato al governo, i grandi inserzionisti hanno aumentato gli investimenti sulle tivù del cavaliere.

14 maggio 2009. SCACCO AL RE. Il divorzio chiesto da Veronica Lario a Berlusconi. Tutte le donne e gli amori del Cavaliere. La contesa sull’eredità. Le possibili conseguenze sulla politica.

11 giugno 2009. SILVIO CIRCUS. Per l’Italia la fiction: tra promesse fasulle e clamorose assenze come nel caso Fiat-Opel. Per sé il reality: le feste in villa e i voli di Stato per gli amici.

17 giugno 2009. Governo. ORA GUIDO IO. Umberto Bossi è il vero vincitore delle elezioni. E già mette sotto ricatto Berlusconi e la maggioranza. Nell’opposizione Di Pietro si prepara a contendere la leadership al PD, reduce da una pesante sconfitta.

25 giugno 2009. ESTATE DA PAPI. Esclusivo. Le foto di un gruppo di ragazze all’arrivo a Villa Certosa. Agosto 2008.

9 luglio 2009. Il vertice dell’Aquila. G7 E MEZZO. Berlusconi screditato dalle inchieste e dagli scandali cerca di rifarsi l’immagine. Con la passerella dei leader della terra sulle macerie. L’attesa per un summit che conferma la sua inutilità.

16 luglio 2009. SILVIO SI STAMPI. Tenta di intimidire e limitare la libertà dei giornalisti. Ma Napolitano stoppa la legge bavaglio. E i giornali stranieri non gli danno tregua. Umberto eco: “E’ a rischio la democrazia”.

23 luglio 2009. TELESFIDA. Tra Berlusconi e Murdoch è il corso una contesa senza esclusione di colpi. Per il predominio nella Tv del futuro. Ecco cosa succederà e chi vincerà.

30 luglio 2009. Esclusivo. SEX AND THE SILVIO. Tutte le bugie di Berlusconi smascherate dai nastri di Patrizia D’Addario. Notti insonni, giochi erotici, promesse mancate, E ora la politica si interroga: può ancora governare il paese?

12 agosto 2009. Governo. SILVIO: BOCCIATO. Bugie ed escort. Conflitti con il Quirinale. Assalti al CSM. Debito Pubblico. Decreti di urgenza. Soldi al Sud. Clandestini e badanti. Bilancio del premier Berlusconi. E, ministro per ministro, a ciascuno la sua pagella.

3 settembre 2009. DOPPIO GIOCO. Montagne di armi per le guerre africane. Vendute da trafficanti italiani a suon di tangenti. Ecco la Libia di Gheddafi cui Berlusconi renderà omaggio. Mentre l’Europa chiede di conoscere il patto anti immigrati.

10 settembre 2009. SE QUESTO E’ UN PREMIER. Si scontra con la chiesa. Litiga con l’Europa. Denuncia i giornali italiani e stranieri non allineati. E, non contento, vuol metter le mani su Rai 3 e La7.

1 ottobre 2009. GHEDINI MI ROVINI. Oggi è il consigliere più ascoltato del premier. Autore di leggi ad personam e di gaffe memorabili. Storia dell’onorevole-avvocato, dai camerati al lodo Alfano.

8 ottobre 2009. SUA LIBERTA’ DI STAMPA. Attacchi ai giornali. Querele. Bavaglio alle trasmissioni scomode della tv. Così Berlusconi vuole il controllo totale dell’informazione.

15 ottobre 2009. KO LODO. La Consulta boccia l’immunità, Berlusconi torna imputato. E rischia un’ondata di nuove accuse. Ma la sua maggioranza si rivolge alla piazza. E apre una fase di grande tensione istituzionale.

19 novembre 2009. LA LEGGE DI SILVIO. Impunità: è l’obbiettivo di Berlusconi. Con misure che annullano migliaia di processi. E con il ripristino dell’immunità parlamentare. Mentre Cosentino resta al governo dopo la richiesta di arresto.

16 dicembre 2009. SCADUTO. I rapporti con i clan mafiosi. Lo scontro con Fini. I guai con la moglie Veronica e con le escort. L’impero conteso con i figli. L’anno orribile di Silvio Berlusconi.

21 gennaio 2010. Palazzo Chigi. SILVIO QUANTO CI COSTI. 4.500 dipendenti. Spese fuori controllo per oltre 4 miliardi di euro l’anno. Sono i conti della Presidenza del Consiglio. Tra sprechi, consulenze ed eventi mediatici.

4 marzo 2010. UN G8 DA 500 MILIONI DI EURO. Quanto ci è costato il vertice tra la Maddalena e l’Aquila. Ecco il rendiconto voce per voce, tra sprechi e raccomandazioni: dal buffet d’oro ai posacenere, dalle bandierine ai cd celebrativi.

18 marzo 2010. SENZA REGOLE. Disprezzo della legalità. Conflitti con il Quirinale. Attacchi ai magistrati e all’opposizione. Scandali. E ora per la sfida elettorale Berlusconi mobilita la piazza. Con il risultato di portare il paese nel caos.

31 marzo 2010. STOP A SILVIO. Le elezioni regionali possono fermare la deriva populista di Berlusconi. Bersani: “Pronti al dialogo con chi, anche a destra, vuole cambiare”.

13 maggio 2010. IL CASINO DELLE LIBERTA’. Le inchieste giudiziarie. Gli scontri interni al partito. La paralisi del Governo. Dopo le dimissioni di Scajola, Berlusconi nella bufera.

27 maggio 2010. STANGATA DOPPIA. Prima il blocco degli stipendi degli statali, i tagli sulla sanità, la caccia agli evasori e un nuovo condono. Poi la scure sulle pensioni e un ritorno alla tassa sulla casa.

8 luglio 2010. I DOLORI DEL VECCHIO SILVIO. La condanna di Dell’Utri per mafia e il caso Brancher. La rivolta delle Regioni contro i tagli e l’immobilismo del governo. Le faide nel Pdl e i sospetti della Lega. Il Cavaliere alla deriva.

15 luglio 2010. SENZA PAROLE.

11 novembre 2010. BASTA CON ‘STO BUNGA BUNGA. BASTA LO DICO IO.

18 novembre 2010. QUI CROLLA TUTTO. Le macerie di Pompei. L’alluvione annunciata in Veneto. L’agonia della maggioranza. L’economia in panne. Per non dire di escort e bunga bunga. Fotografia di un paese da ricostruire.

16 dicembre 2010. La resa dei conti tra Berlusconi e Fini è all’atto finale. Chi perde rischia di uscire di scena. FUORI UNO.

22 dicembre 2010. FINALE DI PARTITA. Voti comprati. Tradimenti. Regalie…Berlusconi evita a stento la sfiducia, ma ora è senza maggioranza e deve ricominciare daccapo. Anche se resisterà, una stagione s’è chiusa. Eccola, in 40 pagine, di foto e ricordi d’autore.

27 gennaio 2011. ARCORE BY NIGHT. Un harem di giovanissime ragazze pronte a tutto. Festini, orge, esibizioni erotiche, sesso. L’incredibile spaccato delle serate di Berlusconi nelle sue ville. Tra ricatti e relazioni pericolose.

10 febbraio 2011. PRETTY MINETTI. Vita di Nicole, ragazza chiave dello scandalo Ruby. Intima di Berlusconi, sa tutto sul suo harem. Se ora parlasse.

26 maggio 2011. MADUNINA CHE BOTTA! Milano gli volta le spalle, Bossi è una mina vagante, il PDL spaccato già pensa al dopo. Stavolta Berlusconi ha perso davvero. Analisi di una disfatta. Che, Moratti o non Moratti, peserà anche sul governo.

21 giugno 2011. Esclusivo. VOI QUORUM IO PAPI. Domenica 12 giugno l’Italia cambia, lui no. Domenica 12 giugno l’Italia corre a votare, lui a villa Certosa a occuparsi d’altro. In queste foto, la wonderland del cavaliere. Lontana anni luce dal paese reale.

7 luglio 2011. Sprechi di Stato. IO VOLO BLU MA PAGHI TU. Il governo brucia centinaia di milioni per i suoi viaggi. E Berlusconi si regala due super elicotteri. A spese nostre.

21 luglio 2011. MISTER CRACK. La tempesta economica. La borsa in bilico. La paura del default. E un premier sempre isolato. Il varo della manovra è solo una tregua. Prima della resa dei conti. E spunta l’ipotesi di un governo guidato da Mario Monti.

25 agosto 2011. LACRIME E SANGUE. Diceva: ,meno tasse per tutti. Ma la pressione fiscale non è mai stata così alta. Chiamava Dracula gli altri. Ma ora è lui a mordere i soliti. Processo all’iniqua manovra d’agosto. Che ci cambia la vita e non tocca gli evasori.

15 settembre 2011. E SILVIO SI TAGLIO’ 300 MILIONI DI TASSE. Il Premier impone il rigore agli italiani. Ma gli atti sulla P3 svelano le trame per evitare la causa fiscale sulla Mondadori. Dal presidente della Cassazione al sottosegretario Caliendo, ecco chi si è mosso per salvarlo dalla maximulta.

29 settembre 2011. SERIE B.

13 ottobre 2011. SQUALIFICATO. Condannato dalla Chiesa, mollato dagli imprenditori, bocciato dalle agenzie di rating. E’ l’agonia di un leader né serio né credibile che non si decide a lasciare. Denuncia Romano Prodi a “L’Espresso”: Qualsiasi governo sarebbe meglio del suo.

17 novembre 2011. THE END. Berlusconi tenterà di sopravvivere, ma ha dovuto prendere atto della fine del suo governo. Intanto la crisi economica si fa sempre più drammatica e la credibilità dell’Italia è ridotta a zero. Non c’è più tempo da perdere.

19 gennaio 2012. I GATTOPARDI. Crescita, liberalizzazioni, lotta all’evasione e alla casta…Monti è atteso alla prova più dura. Ma i partiti frenano. Come se avessero voluto cambiare tutto per non cambiare niente.

5 luglio 2012. RIECCOLO. Attacco euro e Merkel. Destabilizza il governo Monti. Blocca la Rai. E rivendica la leadership del suo partito. Così Berlusconi prova ancora una volta a farsi largo.

14 febbraio 2013. VI AFFONDO IO. Pur di risalire al china Silvio Berlusconi sfascia tutto accende la campagna elettorale con promesse da marinaio e terrorizza i mercati. Davvero può farcela? Chi lo fermerà? E come dovrebbe reagire il PD? L’Espresso lo ha chiesto a due guru.

19 settembre 2013. BOIA CHI MOLLA. Accettare il silenzio la decadenza o l’interdizione. O fare un passo indietro prima del voto. Berlusconi ha pronta una via d’uscita. Per restare il capo della destra.

29 novembre 2013. EXTRA PARLAMENTARE. Per Berlusconi si chiude un ventennio e comincia lo scontro finale: fuori dal Senato e in piazza, dalle larghe intese all’opposizione dura. Contro il governo, contro Napolitano, contro l’Europa…..

1977: quell'articolo premonitore di Camilla Cederna su Silvio Berlusconi. Uno splendido pezzo di una grande firma de "L'Espresso". Che aveva già capito tutto dell'ex Cavaliere, agli albori della sua ascesa. Il 9 maggio 2014 Silvio Berlusconi ha cominciato a scontare la pena per frode fiscale con il “servizio sociale” per gli anziani della Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Ma continua a dominare le tribune elettorali, convinto di un destino da «padre della patria» e dei risultati di Forza Italia. Inarrestabile, come è sempre stato. Ecco gli albori della sua ascesa descritti da Camilla Cederna sul numero de “l’Espresso” del 10 aprile 1977: un articolo in cui del personaggio si capiva già tutto e pubblicato proprio dal “L’Espresso” il 12 maggio 2014. In un ambiente di lusso, saloni uno via l’altro, prati di moquette, sculture che si muovono, pelle, mogano e palissandro, continua a parlare un uomo non tanto alto, con un faccino tondo da bambino coi baffi, nemmeno una ruga, e un nasetto da bambola. Completo da grande sarto, leggero profumo maschio al limone. Mentre il suo aspetto curato, i suoi modini gentili, la sua continua esplosione di idee piacerebbero a un organizzatore di festini e congressi, il suo nome sarebbe piaciuto molto a C.E. Gadda. Si chiama infatti Silvio Berlusconi. Un milanese che vale miliardi, costruttore di smisurati centri residenziali, ora proprietario della stupenda villa di Arcore dove vissero Gabrio Casati e Teresa Confalonieri (con collezione di pittori lombardi del ’500, e mai nessun nudo per non offendere la moglie, religiosissima), quindi della villa ex Borletti ai margini del parco di Milano. Allergico alle fotografie («magari anche per via dei rapimenti», spiega con un sorriso ironico solo a metà) è soddisfattissimo che nessuno lo riconosca né a Milano né in quella sua gemma che considera Milano 2. Siccome è la sua prima intervista, è felice di raccontarmi la sua vita felice. Media borghesia, il papà direttore di banca che, a liceo finito, non gli dà più la mancia settimanale; ma lui non si dispera, perché, mentre studia legge, lavora in vari modi: suonando Gershwin o cantando le canzoni francesi alle feste studentesche. Non solo, ma fra un trenta e lode e l’altro, fa il venditore di elettrodomestici, e la sua strada è in salita: da venditore a venditore capo a direttore commerciale. Dopo la sua tesi di laurea sulla pubblicità (il massimo dei voti) inizia la sua vera attività entrando successivamente in due importanti imprese di costruzione. A venticinque anni crea un complesso di case intorno a piazza Piemonte, ecco quindi la fortunatissima operazione di Brugherio, una lottizzazione destinata al ceto medio basso, mille appartamenti che van via subito; e preso dal piacere di raccontare, ogni tanto va nel difficile, dice “congesto”, macrourbanistica, architettura corale, la connotazione del mio carattere è la positività, “natura non facit saltus”. Il suo sogno sarebbe esser ricercato in tutto il mondo per fare città, e “chiamiamo il Berlusconi” dovrebbe essere l’invocazione di terre desiderose di espandersi. Di Milano 2, l’enorme quartiere residenziale nel Comune di Segrate, parla come di una donna che ama, completa com’è di ogni bellezza e comfort, e centomila abitanti, che a dir che sono soddisfatti è dir poco. Lui legge tutte le novità di architettura e urbanistica, qualche best-seller ogni tanto, rilegge spesso “L’utopia” di Tommaso Moro, sul quale vorrebbe scrivere un saggio. Si ritiene l’antitesi del palazzinaro, si ritiene un progressista, è cattolico e praticante, ha votato Dc; e «se l’urbanistica è quella che si contratta fra costruttori e potere politico, la mia allora non è urbanistica». Grazie, e vediamo cosa dicono gli altri di lui. Lo considerano uno dei maggiori speculatori edilizi del nostro tempo che, valendosi di grosse protezioni vaticane e bancarie, vende le case e prende i soldi prima ancora di costruirle, lucrando in proprio miliardi di interessi. Si lega prima con la base dc (Marcora e Bassetti), poi col centro, così che il segretario provinciale Mazzotta è il suo uomo. Altro suo punto di riferimento è il Psi, cioè Craxi, che vuoi dire Tognoli, cioè il sindaco. E qui viene contraddetta la sua avversione verso l’urbanistica come compromesso tra politici e costruttori. La società di Berlusconi è la Edilnord, fondata nel ’63 da lui e da Renzo Rezzonico, direttore di una società finanziaria con base a Lugano, liquidata nel ’71 per segrete ragioni. Viene fondata allora la Edilnord centri residenziali con le stesse condizioni della compagnia di prima: lo stesso capitale sociale (circa 10 mila dollari), la stessa banca svizzera che fa i prestiti (la International Bank di Zurigo), ed ecco Berlusconi procuratore generale per l’Italia. Nel ’71 il consiglio dei Lavori Pubblici dichiara ufficialmente residenziale la terra di Berlusconi (comprata per 500 lire al metro quadralo nel ’63 e venduta all’Edilnord per 4.250). Da Segrate (amministrazione di sinistra prima, poi socialista e dc) vengono concesse all’Edilnord licenze edilizie in cambio di sostanziose somme di danaro. Umberto Dragone, allora capo del gruppo socialista nel consiglio di Milano, pensa che l’Edilnord abbia pagato ai partiti coinvolti il 5-10 per cento dei profitti (18-19 miliardi) che si aspettava da Milano 2. (Qualche appartamento arredato pare sia stato dato gratis ad assessori e tecnici dc e socialisti. Certo è che questo regalo lo ha avuto un tecnico socialista che vive lì con una fotomodella). «II silenzio non ha prezzo, ecco il paradiso del silenzio », era scritto sulla pubblicità di questa residenza per alta e media borghesia. Ma il silenzio da principio non c’era. L’aeroporto di Linate è lì a un passo, ogni 90 secondi decollava un aereo, intollerabili le onde sonore, superiori a 100 decibel. Così l’Edilnord si muove a Roma, manovrando i ministeri, per ottenere il cambio delle rotte degli aerei. Approfittando della vicinanza di un ospedale, il San Raffaele, diretto da un prete trafficone e sospeso a divinis, don Luigi Maria Verzé, manda ai vari ministeri una piantina in cui la sua Milano 2 risulta zona ospedaliera e la cartina falsa verrà distribuita ai piloti (con su la croce, simbolo internazionale della zona di rispetto), così le rotte vengono cambiate spostando l’odioso inquinamento da rumore da Milano 2 alla sezione nord-est di Segrate che per anni protesterà invano: e il prezzo degli appartamenti viene subito triplicato. Altre notizie. Berlusconi sta mettendo in cantiere la sua nuova Milano 3 nel Comune di Basiglio a sud della città, con appartamenti di tipo “flessibile”, cioè con pareti che si spostano secondo le esigenze familiari. In settembre comincerà a trasmettere dal grattacielo Pirelli la sua Telemilano, una televisione locale con dibattiti sui problemi della città, un’ora al giorno offerta ai giornali (egli possiede il 15 per cento del “Giornale” di Montanelli). «Troppi sono oggi i fattori ansiogeni», dice, «la mia sarà una tv ottimista». Staff di otto redattori, più tecnici e cameramen, quaranta persone in tutto. E pare che in questo suo progetto sia stato aiutato dall’amico Vittorino Colombo, ministro delle Poste e della Tv. Berlusconi aveva anche pensato di fondare un circolo di cultura diretto da Roberto Gervaso; la sua idea preferita però era quella di creare un movimento interpartitico puntato sui giovani emergenti, ma per adesso vi ha soprasseduto. Gli sarebbe piaciuto anche diventare presidente del Milan, ma la paura della pubblicità lo ha trattenuto. Massima sua aspirazione sarebbe infine quella di candidarsi al Parlamento europeo. Ci tiene anche a coltivare al meglio la sua figura di padre, cercando di avere frequenti contatti coi suoi figlioletti. Quel che deplora è che dalle elementari di adesso sia stato esiliato il nozionismo: a lui le nozioni, in qualsiasi campo, hanno giovato moltissimo. Camilla Cederna.

1977: Berlusconi e la pistola. Il fotografo Alberto Roveri decide di trasferire il suo archivio in formato digitale. E riscopre così i ritratti del primo servizio sul Cavaliere. Immagini inedite che raccontano l'anno in cui è nato il suo progetto mediatico. Con al fianco Dell'Utri. E un revolver sul tavolo per difendersi dai rapimenti, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Formidabile quell'anno. È il 1977 quando il Dottore, come l'hanno continuato a chiamare i suoi collaboratori più intimi, diventa per tutti gli italiani il Cavaliere: il cavaliere del Lavoro Silvio Berlusconi. L'onorificenza viene concessa dal presidente Giovanni Leone all'imprenditore quarantenne che ha tirato su una città satellite, sta comprando la maggioranza del "Giornale" di Indro Montanelli e promette di rompere il monopolio della tv di Stato. È l'anno in cui il neocavaliere stabilisce rapporti fin troppo cordiali con il vertice del "Corriere della Sera" e in un'intervista a Mario Pirani di "Repubblica" annuncia di volere schierare la sua televisione al fianco dei politici anticomunisti. Fino ad allora lo conoscevano in pochi e soltanto in Lombardia: era il costruttore che aveva inventato Milano Due, la prima new town che magnificava lusso, verde e protezione a prova di criminalità. Il segno di quanto in quella stagione di terrorismo e rapine, ma soprattutto di sequestri di persona, la sicurezza fosse il bene più prezioso. E lui, nella prima di queste foto riscoperte dopo trentatre anni, si mostra come un uomo d'affari che sa difendersi: in evidenza sulla scrivania c'è un revolver. Un'immagine che riporta a film popolari in quel periodo di piombo, dai polizieschi all'italiana sui cittadini che si fanno giustizia da soli agli esordi pistoleri di Clint Eastwood. "Con una Magnum ci si sente felici", garantiva l'ispettore Callaghan e anche il Cavaliere si era adeguato, infilando nella fondina una piccola e potente 357 Magnum. È stato proprio quel revolver a colpire oggi il fotografo Alberto Roveri mentre trasferiva la sua collezione di pellicole in un archivio digitale: "Le stavo ingrandendo per ripulirle dalle imperfezioni quando è spuntata quell'arma che avevo dimenticato". Come in "Blow Up" di Antonioni, a forza di ingrandire il negativo appare la pistola: "All'epoca quello scatto preso da lontano non mi era piaciuto e l'avevo scartato". Roveri era un fotoreporter di strada, che nel 1983 venne assunto dalla Mondadori e negli anni Settanta lavorava anche per "Prima Comunicazione", la rivista specializzata sul mondo dei media: "Quando nel 1977 il direttore mi disse che dovevo fare un servizio su Berlusconi, replicai: "E chi è?". Lui rispose: "Sta per comprare il "Giornale" e aprire una tv. Vedrai che se ne parlerà a lungo"". Quella che Roveri realizza è forse la prima serie di ritratti ufficiali, a cui il giovane costruttore volle affidare la sua immagine di vincente. L'incontro avvenne negli uffici Edilnord: "Fu di una cordialità unica, ordinò di non disturbarlo e si mise in posa. Con mio stupore, rifiutò persino una telefonata del sindaco Tognoli". Il solo a cui permise di interromperlo fu Marcello Dell'Utri, immortalato in un altro scatto inedito che evidenzia il look comune: colletti inamidati e bianchi, gemelli ai polsini, pettinature simili. Sono una coppia in sintonia, insieme hanno creato una città dal nulla, con un intreccio di fondi che alimentano sospetti e inchieste. Una coppia che solo pochi mesi dopo si dividerà, perché Dell'Utri seguirà un magnate molto meno fortunato: Filippo Alberto Rapisarda, in familiarità con Vito Ciancimino. Tornerà indietro nel 1982, organizzando prima il colosso degli spot, Publitalia, e poi quello della politica, Forza Italia. La loro storia era cominciata nel 1974, trasformandosi da rapporto professionale in amicizia. Dell'Utri è anche l'amministratore di Villa San Martino, la residenza di Arcore. E dopo pochi mesi vi accoglie uno stalliere conosciuto a Palermo che fa ancora discutere: Vittorio Mangano, poi arrestato come assassino di Cosa nostra. Una presenza inquietante, che per la Procura di Palermo suggella le intese economiche con la mafia in cambio di tutela contro i sequestri. Nel 1977 però Mangano è già tornato in Sicilia. E Berlusconi tanto sereno non doveva sentirsi, come testimonia il revolver nella fondina. Ricorda il fotografo Roveri: "Dopo più di due ore di scatti mi invitò a pranzo ma prima di uscire tirò fuori da un cassetto due pistole, una per sé e una per l'autista. Di fronte alla mia sorpresa, si giustificò: "Ha idea di quanti industriali vengono rapiti?". Poi siamo saliti su una Mercedes che lui definì "blindatissima" per raggiungere un ristorante a soli 200 metri da lì". Sì, quelli in Lombardia erano anni cupi, prima che, grazie anche a Canale 5, alla nebbia di paura si sostituisse il mito luccicante della Milano da bere. Dall'archivio di Roveri ricompare il momento della svolta, quando si cominciano a materializzare i pilastri dell'impero del Biscione tra partiti, media e relazioni molto particolari. È la festa del 1978 che trasforma il Cavaliere in Sua Emittenza, con l'esordio di Telemilano nelle trasmissioni via etere. La politica ha il volto di Carlo Tognoli, sindaco socialista che per un decennio guida la metropoli mentre passa dagli scontri di piazza al jet set danzante della moda. Un personaggio defilato rispetto alla statura del grande sponsor di Berlusconi, quel Bettino Craxi che ne ha sorretto la crescita con decreti su misura, ricevendo in cambio spot e finanziamenti. Li univa la stessa cultura del fare che dà scarso peso alle regole, la stessa visione di una politica sempre più spettacolo, fino a plasmare la società italiana di oggi. In questa metamorfosi tutta televisiva la carta stampata ha avuto un ruolo secondario. All'epoca però l'attenzione era ancora concentrata sul "Corriere della Sera", la voce della borghesia lombarda. In questi scatti il direttore Franco Di Bella ammira soddisfatto il giovane Silvio. Rapporti letti in un'ottica molto più ambigua dopo la scoperta della P2: negli elenchi di Licio Gelli c'erano Di Bella, il direttore generale della Rizzoli Bruno Tassan Din e l'editore Angelo Rizzoli. E c'era pure il nome di Berlusconi, data di affiliazione gennaio 1978, anche se lui ha sempre negato l'iscrizione alla loggia delle trame. Sin da allora le smentite a qualunque costo sono un vizio del Cavaliere a cui gli italiani si sono abituati. Come i divorzi, che segnano la sua carriera professionale, quella politica e la vita privata. Nelle foto del party al fianco di Silvio c'è Mike Bongiorno, il testimonial della sua ascesa mediatica. Resteranno insieme tra alti e bassi fino al 2009: un altro legame chiuso con una rottura burrascosa. E c'è anche Carla Dall'Oglio che si offre ai flash sorridente, afferrando per il braccio un marito dall'aria distaccata. Lei ha 37 anni e da dodici è la signora Berlusconi: poco dopo, nel 1980, quella scena di ostentata felicità sarà spazzata via dal colpo di fulmine per Veronica Lario. Il divorzio è arrivato nel 1985, consolidato da una manciata di miliardi e da una decina di immobili: da allora Carla Dall'Oglio è scomparsa dalla ribalta, dove però sono sempre più protagonisti i suoi figli Marina e Piersilvio, i nuovi Berlusconi.

Contro Berlusconi la sinistra contrappone i suoi miti.

San Berlinguer martire e apostolo. È in atto la costruzione di un Mito, l'invenzione di un Grande. Serve a nobilitare il comunismo passato. A deprecare il presente renziano, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. San Berlinguer, il Terzo Santo. Dopo i film, i libri, gli inserti, ora un largo Berlinguer al centro di Roma e la canonizzazione proclamata da Napolitano in un libro-intervista, Quando c'era Berlinguer, curato da Veltroni. È in atto la costruzione di un Mito, l'invenzione di un Grande. A cosa serve? A nobilitare il comunismo passato. A deprecare il presente renziano. A rianimare un partito spaesato. A cercare nel vintage un titolo di nobiltà. A rifarsi le labbra col silicone moralista. A lanciare qualcuno per il Quirinale. Berlinguer non aveva la statura di Togliatti e, quanto a svolte, fu più ardito Occhetto, seppur col favore dei muri crollati. Berlinguer era modesto, per lunghi anni allineato anche ai più sordidi eventi, mestamente comunista, non lasciò tracce importanti, si oppose alla socialdemocrazia e la storia gli dette torto, considerò il Partito come l'Assoluto. Fu una persona onesta, per bene, ma basta la sua decorosa mediocrità per farne un santo con relativa agiografia? In realtà, tramite la copiosa apologetica su di lui, si vuol celebrare il popolo di sinistra. Berlinguer è un pretesto narrativo per santificare gli eredi. L'industria del santino che abbina il leader del Pci a Papa Francesco (Scalfari dixit) è all'opera. Rischiamo un pantheon di fuffa, tra finti eroi e finti geni, finti grand'uomini e palloni gonfiati, sfornati dalla Ditta Tarocco che produce falsi d'autore. Il P.C. oggi si traduce con Politically Correct. Finite le sciagurate illusioni, la sinistra passò all'illusionismo.

Perché Berlinguer sì e Togliatti no!

Lo stalinista Togliatti che non disse mai: "Compagni, ci siamo sbagliati". Il segretario del Pci appoggiò l’eliminazione politica e fisica di molti comunisti dissidenti. Non per paura di Mosca ma per "coerenza" ideologica, scrive Piero Ostellino su “Il Giornale”. Molti anni fa, in un libro diventato famoso (Togliatti 1937, Rizzoli 1964) Renato Mieli si chiedeva perché anche i comunisti italiani - dopo le rivelazioni di Kruscev sui crimini di Stalin - non sentissero la necessità di «stabilire la verità sulla fine di quei dirigenti comunisti europei che scomparvero nell'Unione Sovietica durante quel periodo». Commentava Mieli: «Il silenzio dei comunisti europei su questo doloroso passato è veramente sconcertante». Ma, scomparso Togliatti, l'ultimo dei grandi superstiti del Comintern e anche l'unico che avrebbe potuto parlare e rifiutò di farlo, la verità resta sepolta sotto la pesante coltre delle complicità e dell'omertà. «Il tempo - scriveva allora Mieli - cancellerà le tracce e gli uomini dimenticheranno ciò che è stato. È questo che si vuole? Un delitto perfetto insomma». Palmiro Togliatti era, nel 1937, col bulgaro Dimitrov, il finlandese Kuusinen e il sovietico Manuilski, uno dei membri della segreteria del Comintern. Furono loro ad avallare lo sterminio di tutti i dirigenti del partito comunista polacco (con l'eccezione di Gomulka) a opera della polizia staliniana con una sentenza di condanna politica. Quali fossero le ragioni che potevano aver indotto Stalin a liberarsi del partito comunista polacco appare evidente dal particolare momento in cui si svolsero quegli avvenimenti. Mosca stava per accordarsi con Hitler attraverso il Patto del 1939 che avrebbe portato alla spartizione della Polonia e allo scoppio della guerra. Il Pc polacco rappresentava un ostacolo a tale spartizione e perciò Stalin lo eliminò per spianarsi la strada all'eliminazione della stessa Polonia come Stato indipendente. A spiegare l'atteggiamento dei dirigenti del Comintern c'è invece una sola ragione, e cioè, come scrive Mieli, «la loro fedeltà al comunismo e quindi la loro totale sottomissione al tiranno e la conseguente loro impotenza ad opporsi». Ma avrebbero potuto Togliatti e i suoi compagni opporsi a Stalin? Lo stesso Mieli riconosce che «c'era poco da scegliere in quelle condizioni: o si collaborava con il regime o si finiva in galera. Togliatti, come tanti altri, è riuscito a sopravvivere appunto perché non ha scelto la galera». Il clima di terrore instaurato da Stalin in Urss e all'interno del movimento comunista internazionale non è sufficiente, però, a giustificare la remissività e persino la complicità di cui si resero responsabili gli uomini come il segretario del Pci. Alle radici più profonde dei loro comportamenti c'era una ragione sostanziale: che essi erano intimamente stalinisti e che in quel momento essere comunisti e militare nella Terza internazionale equivaleva a essere dalla parte di Stalin e condividerne i metodi. Togliatti non solo approvò ed esaltò, a titolo personale e a nome del suo stesso partito, gli eccidi di Zinoviev e di Kamenev, di Bukharin e di Rykov, del maresciallo Tukacevski e degli altri ufficiali dell'Armata rossa, ma adottò del sanguinario dittatore al servizio del quale si era messo e aveva messo il suo partito anche e soprattutto l'ideologia. Mieli ce ne fornisce intelligentemente un esempio, riferendo dell'atteggiamento tenuto dal segretario del Pci sulla questione polacca anche dopo le rivelazioni di Kruscev al XX congresso del Pcus. Togliatti, da quel momento, non sostenne più, come in precedenza, che la lotta di frazione all'interno del Pc polacco fosse una prova sufficiente a dimostrare che il partito era stato infiltrato dalla polizia di Pilsudski. Ma non smise, solo per questo, di affermare che all'epoca in cui si erano svolti i fatti ciò poteva essere ritenuto verosimile, cioè che il frazionismo bastava da solo a rendere responsabili i dirigenti di quel partito delle colpe di cui li si accusava ingiustamente. «Questo - concludeva Mieli - è esattamente il pensiero di Stalin che fu all'origine del periodo del terrore». In altre parole il segretario del Pci, pur riconoscendo di essere stato indotto in errore dalla falsa teoria staliniana sull'inasprimento della lotta di classe e dalle prove fornite dalla polizia sovietica, non ammise mai di essere stato egli stesso uno degli artefici della condanna politica del Pc polacco che giustificò l'annientamento fisico dei suoi dirigenti. E soprattutto non riconobbe mai di non aver neppure cercato di appurare se le accuse a loro carico fossero false, in base all'assunzione che le motivazioni di Stalin erano «in sé» sufficienti a giustificare il comportamento di un buon comunista in quella circostanza. «Che questa scelta fosse coerente con l'ideologia originaria - scriveva Mieli - è ovvio. Ma come si coniuga al presente, tenendo conto della pretesa del Pci di essere considerato come democratico? Come può un partito sedicente democratico riconoscersi in un passato che è una negazione brutale della democrazia?» Scriveva Mieli che, per i comunisti, «non si tratta di processare questo o quel dirigente di altri tempi, bensì di condannare il sistema che essi tentarono di instaurare, in ossequio a una ideologia totalitaria, che non sembra del tutto scomparsa nelle loro file». In altre parole, il Pci avrebbe dovuto riprendere il grido disperato a suo tempo inascoltato di una delle vittime italiane del terrore staliniano, Emilio Guarnaschelli: «Compagni, ci siamo sbagliati». Ma poteva un'organizzazione di massa, un grande partito come il partito comunista proclamare formalmente il fallimento degli ideali per i quali è nato e si è battuto nel corso di tutta la sua esistenza? Personalmente ne dubito. Del resto, è proprio questa la ragione per la quale le generose sollecitazioni di Mieli al Pci affinché facesse luce sul proprio passato sono cadute nel vuoto: perché ciò che per lui era un imperativo morale, per il Pci era un impedimento politico. I comunisti italiani sono sempre stati inchiodati alla loro storia come a una croce, perché è la parola stessa «comunismo» che la storia ha condannato senza appello. Il fatto poi che molti di loro, presi individualmente, lo sapessero non significa che tale consapevolezza dovesse tradursi in comportamenti politici concreti a livello di coscienza collettiva, cioè di partito. È a quest'ultimo che ieri furono immolate tante vittime innocenti e oggi è sacrificata la ricerca della verità sulla loro tragica sorte. Come membro autorevole del Comintern, Togliatti ne divenne uno dei massimi dirigenti, contribuendo all'eliminazione, politica ma anche fisica, di molti comunisti la cui sola colpa era di non condividere, nei confronti dei propri Paesi, i brutali metodi di Stalin. Ciò non di meno fu, in questo caso, ortodossamente machiavelliano, un grande realista sia escludendo, con la «svolta di Salerno» e l'adesione alla democrazia parlamentare e monarchica ormai nell'orbita degli Usa - che sarebbero intervenuti militarmente in caso di pericolo rivoluzionario - sia in occasione dell'attentato subito, quando raccomandò ai compagni di «non perdere la testa» e di non abbandonarsi a tentativi rivoluzionari, un'avventura impraticabile che avrebbe portato il Partito comunista, del quale era segretario pur non essendo mai stato eletto da un Congresso, alla rovina.

Peccato però che davanti ai soldi, così come al pelo, tutti si arrendono alle tentazioni.

Ci sono giornalisti che forse Tangentopoli la rimpiangono, del resto segnò la loro giovinezza, la travolgente eccitazione di un periodo rivoluzionario, fatto di personaggi straordinari, copie alle stelle, carriere in decollo: vien da pensarlo, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Facciamo due esempi: 1) Il pm di Reggio Calabria voleva contestare a Scajola e agli altri arrestati anche l’aggravante mafiosa, ma il gip l’ha negata perché mancavano prove e anche solo indizi. L’ha confermato lo stesso pm su Libero di sabato, dunque era noto. Bene, ecco l’apertura di prima pagina del Corriere di domenica: «Scajola indagato per mafia»; testo di prima pagina: «La stessa ipotesi di reato sarà contestata a tutte le persone sospettate di aver favorito la latitanza di Amedeo Matacena». Un falso. Una notizia manipolata, nella migliore delle ipotesi. 2) Secondo esempio. Questa è l’apertura di prima pagina del Messaggero di domenica: «Appalto Expo, c’è la ’ndrangheta»; sottotitolo: «I pm di Milano: legami tra gli arrestati e le cosche"; testo di prima pagina: «La cupola di Frigerio, Greganti e Grillo avrebbe avuto legami anche con la ’ndrangheta». Ah sì? E allora perché l’aggravante non è stata neppure contestata? Risposta: perché non importa, l’aggravante mafiosa ormai è come una spezia per insaporire inchieste e resoconti. E poi scrivere, una tantum: uh, torna tangentopoli, magari.

Montanelli stronca Travaglio. In materia di giustizia Montanelli smentisce il capofila dei giornalisti forcaioli anche dall'oltretomba, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Il tintinnio di manette riaccende gli entusiasmi di Marco Travaglio, capofila dei giornalisti forcaioli tanto cari alle procure. Si è autonominato erede unico del pensiero di Indro Montanelli, del quale millanta (sapendo di non poter essere smentito) l'amicizia e la stima. Sarà, ma il vecchio Indro, che non ha mai amato presunti portavoce, lo smentisce anche dall'oltretomba. E che smentita. È contenuta in un articolo scritto su Il Giornale il 13 luglio dell'81. Il giorno prima Spadolini aveva ottenuto la fiducia del suo primo governo ma il Pci annunciava sfaceli perché il neopremier aveva posto con forza la questione della riforma di una giustizia già malata allora. Ecco come commentava l'accaduto Montanelli: «Riduciamo i termini all'osso. Ci sono state, per eccesso di garantismo istruttorie svogliatamente durate anni e concluse con assoluzioni poco meno che scandalose; mentre ci sono le manette per reati che non le comportano obbligatoriamente, seguiti da procedimenti penali che, anche quando si concludono col proscioglimento da ogni accusa, segnano la rovina materiale e morale di chi ne è stato bersaglio». E ancora: «Non è possibile andare avanti con queste invasioni di campo della magistratura che sono arrivate a tal punto da rendere plausibile il sospetto che certi magistrati le pratichino non per ristabilire l'ordine ma per sovvertirlo, scatenando caccia alle streghe e colpendo all'impazzata». Aggiungeva Montanelli: «Questi magistrati sono inamovibili, impunibili, promossi automaticamente, pagati meglio di qualsiasi altro dipendente pubblico, incensati dai giornali di sinistra (cioè dalla maggioranza) e molto spesso malati di protagonismo». E ancora: «I comunisti non possono rinunciare alla magistratura com'è. Essa costituisce la più potente arma di scardinamento e di sfascio di cui il Pci dispone». E chiudeva: «Questa non è la magistratura, è solo il cancro della magistratura. Ma che è già arrivato allo stadio di metastasi». Trent'anni dopo siamo ancora lì. I giornali di sinistra (più Travaglio) a fare da addetti stampa a magistrati eversivi ed esibizionisti, noi de Il Giornale a puntare il dito sul «cancro della magistratura» che sta distruggendo il Paese. E siamo fermi anche nel puntare il dito contro ladri e mascalzoni. Ma contro tutti i mascalzoni (anche se di sinistra, anche se magistrati) e soprattutto se davvero ladri oltre ogni ragionevole dubbio.

Chissà qual è la verità tra tutte quelle propinate dai pennivendoli.

Le strane relazioni del giudice che ha condannato Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. C'è una famiglia di imprenditori di Cassino, in provincia di Frosinone, in guerra con la magistratura da trent'anni. Loro, come spiega Giacomo Amadori su Libero in edicola oggi, sono Vincenzo Gabriele Terenzio, 62 anni, e il figlio Luigi, 41 anni. Sono stati arrestati e processati diverse volte. Tra prescrizioni ed assoluzioni hanno sempre evitato la galera. "Sono vicini alla camorra", dicono i magistrati. I reati? Truffa, evasione fiscale, bancarotta. Ma soprattutto l'accusa di rapporti con la criminalità organizzata. Nel luglio 2013, la Corte d'Appello di Roma ha confermato la confisca dei beni del 2009 e del 2011: un tesoro da circa 150 milioni di euro. Ora si attende la conferma del sequestro da parte della Suprema Corte. Tra i beni confiscati diversi immobili, terreni, imbarcazioni, auto e rapporti bancari. Secondo la Dia, i Terenzio, nel corso degli anni hanno movimentato la bellezza di "76 milioni di euro a fronte di redditi minimi". Il figlio Luigi, il membro più facoltoso, risulta dipendente della società svizzera Az Fashion: stipendio di 10mila euro lordi. Insomma, la storia dei Terenzio è costellata da guai giudiziari, e sulla stessa storia si allunga l'ombra lunga della criminalità organizzata. La famiglia, oggi, si è stabilita sulle rive del lago di Lugano. La Svizzera, dunque, da cui comunque continuano ad intessere la loro rete di rapporti. Ed è proprio spulciando tra le relazioni dei Terenzio che spunta il nome di Claudio D'Isa, 65 anni, di Piano di Sorrento: nel 2013 fece parte della sezione feriale che condannò Silvio Berlusconi nel processo Mediaset (per inciso, D'Isa fu più volte corteggiato dal Pd per candidarsi a sindaco di Sorrento). Claudio D'Isa avrebbe conosciuto i Terenzio tramite il figlio Dario, avvocato e imprenditore. Da quella che era una vicenda giudiziaria nacque un'amicizia, tanto che Luigi Terenzio e Dario D'Isa, dopo la sentenza Mediaset, trascorsero insieme le vacanze estive. Un legame scivoloso, insomma, quello tra la famiglia del giudice D'Isa e una famiglia di pluriinquisiti e arrestati, sospettati di rapporti con la criminalità organizzata. Un rapporto che Claudio D'Isa - intervistato da Libero in edicola oggi - cerca di ridimensionare. Eppure sul nostro quotidiano riportiamo testimonianze che raccontano di un quadro ben differente. Un rapporto difficile da giustificare, per D'Isa, sempre in prima linea contro la criminalità organizzata, tra presentazioni dei libri di Antonio Ingroia a e lezioni nei licei sorrentini. A una di quelle lezioni, nel 2013, attaccò Berlusconi poiché aveva criticato Roberto Saviano. Durante quella lezione, al fianco di Claudio D'Isa, era seduto Antonio Esposito, il presidente di quella sezione feriale di Cassazione che pochi giorni prima aveva condannato Berlusconi. Proprio quell'Esposito finito al centro delle polemiche per aver anticipato le motivazioni della condanna al quotidiano Il Mattino.

Esposito, da Antonio a Vitaliano: una famiglia di toghe tra gaffe e scivoloni, scrive “Libero Quotidiano”. Una famiglia spesso in prima pagina, e non sempre in buona luce. Quella degli Esposito è una storia fatta di toghe, giustizia, scivoloni e gossip. Il più famoso è ormai Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione (nonché alla guida dell'Ispi) che lo scorso agosto condannò Silvio Berlusconi al processo sui diritti tv Mediaset e che, pochi giorni dopo, anticipò le motivazioni di quella sentenza in una improvvida conversazione con un abile cronista del Mattino. Inevitabili il polverone delle polemiche e le accuse di parzialità del collegio giudicante, anche perché un testimone riferì di presunti commenti contro Berlusconi rilasciati in libertà dal giudice durante una cena. Pare probabile che il Csm voglia archiviare il caso senza procedere a sanzioni disciplinari. La figuraccia, in ogni caso, resta, con tanto di richiamo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in quelle caldissime settimane di fine estate 2013, alla "continenza" per chi di mestiere fa il giudice. Le bucce di banana per la Esposito family non finiscono qui: l'ultimo a inciamparci è il figlio di Antonio, Ferdinando Esposito. Pubblico ministero a Milano, risulta indagato a Brescia e a Milano in seguito alle accuse di un suo amico avvocato, che sostiene di avergli prestato soldi e di essere stato "pressato" per pagargli l'affitto di casa. Prima ancora, era finito al centro del gossip per un incontro con Nicole Minetti (sotto processo per il Rubygate) avvenuto in un prestigioso ristorante milanese nel 2012. L'altro ramo della famiglia è altrettanto prestigioso: Vitaliano Esposito, fratello di Antonio, è stato Procuratore generale della Cassazione. Sempre sul finire dello scorso agosto è stato "paparazzato" in spiaggia nel suo stabilimento abituale ad Agropoli, nel Cilento. Piccolo particolare: lo stabilimento era abusivo. Foto imbarazzante, invece, per sua figlia Andreana Esposito, giudice alla Corte europea dei diritti dell'Uomo. Un po' di clamore aveva suscitato lo scatto da lei pubblicato sui social network (e poi cancellato in fretta e furia) in cui esibiva una maglietta decisamente inappropriata per una toga: "Beato chi crede nella giustizia perché verrà... giustiziato", slogan che aveva messo in allarme lo stesso Cavaliere, che di lì a qualche mese si sarebbe rivolto proprio alla Corte europea per vedere ribaltata la sentenza stabilita dallo zio di Andreana. Un corto circuito da barzelletta.

Quando gli attacchi al governo italiano vengono da fuori.

Caso Geithner, ira Berlusconi: “Fu un complotto contro di me”. La ricostruzione dell’ex segretario Usa del Tesoro anticipata da La Stampa: “Funzionari dell’Ue chiesero a Obama di far cadere Silvio”. Brunetta: s’indaghi. Bruxelles: erano gli americani a volere l’Italia sotto tutela. Kerry: io non so nulla, scrive “La Stampa”. La ricostruzione di Timothy Geithner in merito alla caduta di Silvio Berlusconi irrompe nella campagna elettorale. Il leader di Forza Italia è furioso: «Questa è la mia rivincita. La conferma che nel 2011 c’è stato un Colpo di Stato», dice. Mentre i suoi parlamentari chiedono un’inchiesta per fare luce sull’accaduto. Nell’autunno del 2011, quando la drammatica crisi economica aveva portato l’euro ad un passo dal baratro, alcuni funzionari europei avvicinarono il ministro Geithner, proponendo un piano per far cadere il premier italiano Berlusconi. Lui lo rifiutò, come scrive nel suo libro di memorie appena pubblicato “Stress Test”.  La ricostruzione di Geithner, anticipata da La Stampa, fa discutere. Berlusconi si butta in un nuovo tour mediatico (intervista al Corriere.it, al Tg5, e poi al quotidiano il Foglio). È incontenibile: sono stato vittima di un «complotto» e con me «è stata messa in discussione anche la sovranità dell’Italia». Berlusconi non fa trasparire in pubblico tutta la rabbia che ha dentro per quanto trapelato dagli Stati Uniti. Anzi, si affretta a ribadire più e più volte di «non essere per nulla sorpreso » da quanto detto dall’ex ministro dell’economia americano: «Già nel giugno del 2011, quando ancora non era scoppiato l’imbroglio degli spread, il Presidente della Repubblica Napolitano riceveva Monti e Passera, come è stato scritto, per scegliere i tecnici di un nuovo governo tecnico». In privato però la reazione è bene diversa. L’ex premier con i suoi si dice consapevole che questa storia non sposterà un voto, ma chiede comunque ai vertice azzurro di alzare il polverone. Da Forza Italia parte il fuoco di fila con la richiesta di una commissione d’inchiesta parlamentare sui fatti del 2011 ed un chiarimento da parte del governo: «Renzi venga a riferire in Parlamento», dice Renato Brunetta pronto a chiamare in causa anche Giorgio Napolitano: «Gli ho scritto una lettera - fa sapere - proprio per sapere cosa intenda fare». Già perché è proprio il Capo dello Stato che l’ex capo del governo ha sempre chiamato in causa bollandolo come «regista» dell’operazione che portò alle sue dimissioni. Dal Quirinale non trapela nessuna replica, così come dalla Casa Bianca: no comment, è il massimo che fanno sapere dallo staff del presidente americano. Sulle barricate è invece Bruxelles che non ci sta a passare come parte in causa di un complotto: «Erano gli americani a volere l’Italia sotto tutela», è la replica delle fonti europee alle rivelazioni di Geithner. A parlare ufficialmente è il presidente della Commissione Barroso sostenendo che ai tempi del G20 del 2011 «l’Italia era vicinissima all’abisso e alcuni tentarono di metterla sotto la supervisione del Fmi, mente noi siamo stati quasi soli a dire che questo non doveva succedere». Anche la linea del governo italiano è quella di non intervenire sulla questione: «Abbiamo voltato pagina, non è utile tornare su questi eventi», si limita a dire il ministro degli Esteri Federica Mogherini. A palazzo Grazioli però la pensano diversamente, tanto che il Cavaliere coglie ogni occasione per ricordare come sono andati i fatti: «I magistrati che mi hanno perseguitato una vita senza prove li chiamerebbero “riscontri” del colpo di Stato». L’idea però che la vicenda possa avere dei riscontri positivi sui sondaggi non sembra convincere Berlusconi, pronto però a «sfruttare» in termini di voti a Forza Italia la «delusione degli elettori verso Matteo Renzi». L’ex capo del governo non nasconde lo scetticismo per il governo guidato dal leader del Pd tanto, raccontano da Forza Italia, da averne parlato nei giorni scorsi con il Colle. Il leader di Fi è sempre più convinto che le elezioni politiche si avvicinano perché il presidente del Consiglio è sempre più impantanato, anche sul fronte del rilancio dell’economia: Le persone iniziano ad essere stanche degli annunci - è stato il ragionamento fatto a via del Plebiscito - e le riforme non sono certo un tema che Matteo può giocarsi per coprire l’aumento delle tasse. Dagli Usa, invece, il segretario di Stato Usa John Kerry dice (in italiano): «Io non so niente». «Assolutamente è la prima volta che ne sento parlare», ha aggiunto Kerry che aveva accanto a se il ministro degli Esteri Federica Mogherini al termine dell’incontro al dipartimento di Stato a a Washington. Rispondendo alla domanda se avesse letto il libro ha detto: «No , non l’ho letto».  

L’ex ministro Usa: funzionari europei ci proposero di far cadere Silvio. Geithner: ovviamente dissi a Obama che non potevamo starci, scrive Paolo Mastrolilli su “La Stampa”. Nell’autunno del 2011, quando la drammatica crisi economica aveva portato l’euro ad un passo dal baratro, alcuni funzionari europei avvicinarono il ministro del Tesoro americano Geithner, proponendo un piano per far cadere il premier italiano Berlusconi. Lui lo rifiutò, come scrive nel suo libro di memorie appena pubblicato, e puntò invece sull’asse col presidente della Bce Draghi per salvare l’Unione e l’economia globale. «Ad un certo punto, in quell’autunno, alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere; volevano che noi rifiutassimo di sostenere i presti dell’Fmi all’Italia, fino a quando non se ne fosse andato». Geithner, allora segretario al Tesoro Usa, rivela il complotto nel suo saggio «Stress Test», uscito ieri. Una testimonianza diretta dei mesi in cui l’euro rischiò di saltare, ma fu salvato dall’impegno del presidente della Bce Mario Draghi a fare «tutto il necessario», dopo diverse conversazioni riservate con lo stesso Geithner. I ricordi più drammatici cominciano con l’estate del 2010, quando «i mercati stavano scappando dall’Italia e la Spagna, settima e nona economia più grande al mondo». L’ex segretario scrive che aveva consigliato ai colleghi europei di essere prudenti: «Se volevano tenere gli stivali sul collo della Grecia, dovevano anche assicurare i mercati che non avrebbero permesso il default dei paesi e dell’intero sistema bancario». Ma all’epoca Germania e Francia «rimproveravano ancora al nostro West selvaggio la crisi del 2008», e non accettavano i consigli americani di mobilitare più risorse per prevenire il crollo europeo. Nell’estate del 2011 la situazione era peggiorata, però «la cancelliera Merkel insisteva sul fatto che il libretto degli assegni della Germania era chiuso», anche perché «non le piaceva come i ricettori dell’assistenza europea - Spagna, Italia e Grecia - stavano facendo marcia indietro sulle riforme promesse». A settembre Geithner fu invitato all’Ecofin in Polonia, e suggerì l’adozione di un piano come il Talf americano, cioè un muro di protezione finanziato dal governo e soprattutto dalla banca centrale, per impedire insieme il default dei paesi e delle banche. Fu quasi insultato. Gli americani, però, ricevevano spesso richieste per «fare pressioni sulla Merkel affinché fosse meno tirchia, o sugli italiani e spagnoli affinché fossero più responsabili». Così arrivò anche la proposta del piano per far cadere Berlusconi: «Parlammo al presidente Obama di questo invito sorprendente, ma per quanto sarebbe stato utile avere una leadership migliore in Europa, non potevamo coinvolgerci in un complotto come quello. “Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani”, io dissi». A novembre si tenne il G20 a Cannes, dove secondo il Financial Times l’Fmi aveva proposto all’Italia un piano di salvataggio da 80 miliardi, che però fu rifiutato. «Non facemmo progressi sul firewall europeo o le riforme della periferia, ma ebbi colloqui promettenti con Draghi sull’uso di una forza schiacciante». Poco dopo cadde il premier greco Papandreu, Berlusconi fu sostituito da Monti, «un economista che proiettava competenza tecnocratica», e la Spagna elesse Rajoy. A dicembre Draghi annunciò un massiccio programma di finanziamento per le banche, e gli europei iniziarono a dichiarare che la crisi era finita: «Io non la pensavo così». Infatti nel giugno del 2012 il continente era di nuovo in fiamme, perché i suoi leader non erano riusciti a convincere i mercati. «Io avevo una lunga storia di un buon rapporto con Draghi, e continuavo ad incoraggiarlo ad usare il potere della Bce per alleggerire i rischi. “Temo che l’Europa e il mondo guarderanno ancora a te per un’altra dose di forza bancaria intelligente e creativa”, gli scrissi a giugno. Draghi sapeva che doveva fare di più, ma aveva bisogno del supporto dei tedeschi, e i rappresentanti della Bundesbank lo combattevano. Quel luglio, io e lui avemmo molte conversazioni. Gli dissi che non esisteva un piano capace di funzionare, che potesse ricevere il supporto della Bundesbank. Doveva decidere se era disponibile a consentire il collasso del’Europa. “Li devi mollare”, gli dissi». Così, il 26 luglio, arrivò l’impegno di Draghi a fare «whatever it takes» per salvare l’euro. «Lui non aveva pianificato di dirlo», non aveva un piano pronto e non aveva consultato la Merkel. A settembre, però, Angela appoggiò il «Draghi Put», cioè il programma per sostenere i bond europei, che evitò il collasso. 

Usa, l'ex ministro del Tesoro: "Nel 2011 complotto contro il Cav". Le rivelazioni choc di Geithner, ex ministro del Tesoro Usa, nel saggio Stress test: "Alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per costringere Berlusconi a cedere il potere". Ma a Obama disse: "Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani", scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. Al G20 del 2011 funzionari europei chiesero agli Stati Uniti di aderire a un "complotto" per far cadere l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Nel memoir Stress test, anticipato oggi dalla Stampa e dal Daily Beast, Timothy Geithner, ex ministro del Tesoro americano, aggiunge nuovi, inquietanti tasselli al golpe ordito contro il Cavaliere per cacciarlo da Palazzo Chigi e mettere al suo posto Mario Monti, un tecnico scelto ad hoc per far passare le misure lacrime e sangue imposte da Bruxelles e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. "Ma a Obama dissi: 'Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani'", racconta ancora Geithner nel volume che ripercorre la disastrosa situazione finanziaria che spinse quei funzionari a progettare il "complotto". Le prime indiscrezioni su un golpe ai danni di Berlusconi sono state appena sussurrate. E, inevitabilmente, i media progressisti hanno fatto a gara per distruggerle. Oggi, invece, Geithner spazza via qualunque dubbio sul drammatico piano che il 12 novembre del 2011, con lo spread tra i Btp decennali e i Bund tedeschi artificiosamente pompato sopra i 470 punti, Berlusconi si dimise dopo l'approvazione della legge della stabilità alla Camera. Ebbene, dietro a quelle dimissioni c'è un vero e proprio piano ordito a Bruxelles per far cadere un governo eletto democraticamente e piazzarne uno tecnico e asservito ai diktat dell'Unione europea. "Ad un certo punto, in quell'autunno, alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere - svela oggi Geithner - volevano che noi rifiutassimo di sostenere i prestiti dell’Fmi all’Italia, fino a quando non se ne fosse andato". Dal 26 gennaio 2009 al 28 febbraio 2013 Timothy Geithner ricopre, infatti, l'incarico di segretario al Tesoro degli Stati Uniti durante il primo governo presieduto da Barack Obama. L'obiettivo degli innominati "funzionari europei" è quello di accerchiare Berlusconi, anche attraverso i ricatti del Fondo monetario internazionale, pur di farlo uscire di scena. Il golpe non viene organizzato su due piedi, ma iniziò a essere tessuto nell'estate del 2010, quando "i mercati stavano scappando dall'Italia e la Spagna, settima e nona economia più grande al mondo". Nel saggio Stress test Geithner scrive di aver consigliato più volte ai colleghi europei di essere prudenti: "Se volevano tenere gli stivali sul collo della Grecia, dovevano anche assicurare i mercati che non avrebbero permesso il default dei paesi e dell’intero sistema bancario". Ma all’epoca Germania e Francia "rimproveravano ancora al nostro West selvaggio la crisi del 2008" e rifiutavano i consigli del Tesoro statunitense che chiedeva di mobilitare più risorse per prevenire il crollo economico del Vecchio Continente. Nell’estate del 2011 la situazione precipita. "La cancelliera Angela Merkel insisteva sul fatto che il libretto degli assegni della Germania era chiuso - racconta l'ex segretario del Tesoro - non le piaceva come i paesi che ricevevano assistenza europea (Spagna, Italia e Grecia) stavano facendo marcia indietro sulle riforme promesse". Quando a settembre Geithner arriva in Polonia per partecipare all'Ecofin, propone ai Paesi dell'Eurozona di adottare un piano simile al Term asset-backed securities loan facility (Talf), il muro di protezione creato dalla Federal reserve e finanziato dal governo e soprattutto dalla banca centrale per impedire insieme il default dei Paesi e delle banche. Viene quasi insultato. "Gli americani, però - continua Geithner - ricevevano spesso richieste per fare pressioni sulla Merkel affinchè fosse meno tirchia, o sugli italiani e spagnoli affinchè fossero più responsabili". È proprio in questo quadro inquietante di supponenza tedesca e incompetenza europea che arrivano le prime pressioni per cambiare il governo italiano. A G20 di Cannes lo stesso governatore della Bce, Mario Draghi, gli promette "l'uso di una forza schiacciante". "Parlammo al presidente Obama di questo invito sorprendente - racconta Geithner - ma per quanto sarebbe stato utile avere una leadership migliore in Europa, non potevamo coinvolgerci in un complotto come quello". Nonostante il niet degli Stati Uniti, i "funzionari europei" riescono nell'intento: nel giro di poche settimane si dimette il premier greco George Papandreou, Berlusconi viene sostituito con Monti ("un economista che proiettava competenza tecnocratica") e in Spagna viene eletto Mariano Rajoy. A dicembre la Bce approva il piano per finanziare per le banche. Piano che viene accolto con euforia da Bruxelles che si fionda a dichiarare che l'Europa è uscita dal tunnel della crisi. "Io non la pensavo così", sottolinea l'ex segretario del Tesoro. E, infatti, nel giugno del 2012 la minaccia del default tornerà a mettere in ginocchio i mercati del Vecchio Continente.

Gli Stati Uniti: "Funzionari Ue ci chiesero di far cadere Silvio Berlusconi", scrive “Libero Quotidiano”. Non solo Monti. Non solo Napolitano. Non solo Prodi. Anche a Barack Obama fu chiesto da alcuni funzionari europei di prendere al complotto per far cadere Silvio Berlusconi. A fare pressioni sul presidente Usa furono alcuni funzionari europei, che proposero ad Obama un piano per far crollare l'esecutivo, nell'infuocato 2011. Gli Stati Uniti, però, si sottrassero al complotto: "Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani". La fonte di tali rivelazioni? Niente meno che l'ex ministro del Tesoro, Timothy Geithner, che spiega quanto accaduto in un libro di memorie uscito lunedì, Stress Test, e anticipata dalla stampa. Dopo il il libro-rivelazione di Alan Friedman, Ammazziamo il gattopardo, che svelava le indebite e (troppo) preventive pressioni di Giorgio Napolitano su Mario Monti, ecco un nuovo pamphlet destinato a fare molto rumore politico. Geithner, uno degli uomini più potenti degli States, scrive: "Ad un certo punto in quell'autunno, alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere; volevano che noi rifiutassimo di sostenere i prestiti del Fmi all'Italia, fino a quando non se ne fosse andato". L'ennesima prova al fatto che l'Europa berlinocentrica voleva far fuori lo Stivale e il suo presidente del Consiglio. Geithener si riferisce ai mesi più difficili per l'Italia, alle prese con le bizze dello spread, nell'autunno 2011. In particolare le richieste agli Stati Uniti furono avanzate già a settembre 2011, prima che lo spread raggiungesse i massimi, quando in Polonia all'Ecofin ricevette richieste per "fare pressioni sulla Merkel affinché fosse meno tirchia, o sugli italiani e gli spagnoli affinché fossero più responsabili". Contestualmente, come detto, arriva anche la proposta di far cadere Berlusconi. Ma Geighner precisa che, per quanto gli Usa avrebbero preferito un altro leader, gli Stati Uniti preferirono evitare il complotto.

Angela Merkel pianse con Barack Obama: "Obbedisco alla Bundesbank", scrive Martino Cervo su “Libero Quotidiano”. Sul Financial Times è apparso uno degli articoli di giornale più appassionanti degli ultimi anni. L’intero testo si trova all’indirizzo goo.gl/p11UOo (necessaria una registrazione gratuita). È un lunghissimo retroscena sulla notte dell’euro, a firma Peter Spiegel, che della testata è corrispondente da Bruxelles. Un romanzo breve (5 mila parole), primo di una serie che il quotidiano dedica alla ricostruzione delle giornate che cambiarono per sempre l’Europa. L’interesse per il lettore italiano è doppio: il nostro Paese è, nel novembre 2011, lo spartiacque per la sopravvivenza dell’euro, e manca una ricostruzione non strumentale di cosa accadde in ore che costarono la caduta di due governi (Papandreou e Berlusconi), sotto il rischio concreto di una catastrofe finanziaria. Il racconto si apre con una scena difficile da immaginare: Angela Merkel è in una stanza di hotel con Obama, Barroso, Sarkozy, e piange. «Non è giusto», stritola tra i denti con le lacrime agli occhi, «Io non mi posso suicidare». Perché la signora d’Europa è ridotta così? Libero riassume l’articolo di Spiegel per i suoi lettori. Siamo, come detto, a inizio novembre 2011. L’estate si è conclusa avvolta dalle fiamme dello spread. La Grecia è sul filo della permanenza nell’euro. L’Italia è la prossima preda di chi scommette sull’implosione della moneta unica, lo spread vola a quota 500, il governo traballa sulle pencolanti stampelle dei «responsabili», Merkel e Sarko hanno appena sghignazzato in mondovisione alla domanda sull’affidabilità di Berlusconi. Il G20 di Cannes del 3-4 novembre diventa un appuntamento carico di tensione. Il premier greco Papandreou ha annunciato un referendum sull’uscita dall’euro. L’eventualità manda letteralmente nel panico soprattutto i paesi creditori. A 48 ore dall’inizio del vertice Sarkozy raduna tutti i protagonisti del redde rationem: il premier greco, la Merkel, il capo dell’eurogruppo Juncker (oggi candidato del Ppe alla guida della Commissione Ue), il capo del Fondo monetario Christine Lagarde, i capi dell’Unione José Barroso e Herman van Rompuy. Il dramma greco è affiancato a quello italiano. Roma, rispetto ad Atene, è «too big to bail». La Lagarde è durissima: «L’Italia non ha credibilità». Quel che si fa con la Grecia avrà una ricaduta immediata, ed esponenziale, sul nostro Paese. Con Papandreou c’è Venizelos, ministro delle Finanze. Sarkozy mette spalle al muro il premier ateniese, per evitare il referendum e costringerlo a prendere una decisione lì, sul posto: dentro o fuori. Qui si apre un retroscena nel retroscena: il Ft racconta che Barroso poche ora prima, all’insaputa di Merkel e Sarko (padrone di casa del G20), incontra il capo dell’opposizione greca Samaras, offrendogli sostegno istituzionale a un governo di unità nazionale a patto di abbattere il referendum. Poi inizia il vertice «vero». Senza che i premier sappiano dell’accordo Barroso-Samaras, il capo della Commissione Ue fa il nome di Lucas Papademos, vicepresidente della Bce, come possibile guida di un esecutivo di larghe intese ad Atene. «Dobbiamo ammazzare questo referendum», dice Barroso. Venizelos soppianta il suo premier e cancella il referendum con una dichiarazione ufficiale. Papademos diventerà premier sette giorni più tardi. La Grecia è «sistemata». A questo punto bisogna sollevare una barriera contro l’assedio dei mercati all’euro. La trincea si chiama Italia. Molti delegati sono sconcertati dalla presenza al tavolo di Obama, che in teoria non ha titoli per sedersi a una riunione informale sull’eurozona. Segno di debolezza delle istituzioni comunitarie? Della gravità globale di un possibile tracollo che rischia di far saltare un mercato decisivo per i prodotti Usa? Il nodo cruciale è il ruolo del Fondo monetario. Come più volte raccontato da Giulio Tremonti, l’Italia declina l’offerta di una linea di credito da 80 miliardi di dollari, accettando solo il monitoraggio del Fmi. «I think Silvio is right», dice Obama, buttando sul tavolo una carta nuova, che assegna a Berlino una posizione cruciale. Per aggirare i veti dei trattati che impediscono alla Bce di finanziare direttamente gli Stati, il presidente Usa - in accordo coi francesi, alla faccia del tanto sbandierato asse Merkozy raccontato in quei giorni - propone l’utilizzo del «bazooka» con un’ennesima sigla: SDR. Che sta per «special drawing rights» (diritti speciali di prelievo), un particolare tipo di valuta che il Fmi stesso usa come unità di conto della partecipazione finanziaria dei singoli Stati. Una strategia simile (usare la potenza di fuoco degli SDR contro la crisi) era stata usato nel post-Lehman. Qui si tratterebbe di riversare quelle risorse nel fondo salvaStati europeo in via di formazione. Quel che segue è il miglior esempio possibile per raffigurare il nodo della democrazia ai tempi della crisi, e investe in pieno il tema della famosa «indipendenza» delle Banche centrali. La gestione degli SDR è infatti in capo a queste ultime. E il capo della Bundesbank è Jens Weidmann, custode dell’ortodossia dell’austerity tedesca. Appena si diffonde il piano Obama-Sarko, il «falco» apre le ali e dice «nein» al telefono con i delegati tedeschi: la Germania non paga. La Merkel scoppia in pianto e pronuncia il suo: «Non è giusto, non posso suicidarmi. Non posso decidere io al posto della Bundesbank». Il dramma dell’euro è qui: quattro tra i più potenti governi democraticamente eletti del mondo si fermano davanti al veto (legittimo) di un banchiere. Obama vuole che la Germania alzi la quota degli SDR. La Merkel apre, purché l’Italia accetti di farsi commissariare dal Fondo. Tremonti e Berlusconi non mollano, Angela neppure, a causa di Weidmann. La tensione è totale. La riunione si scioglie con un nulla di fatto, salvo la richiesta al governo di Berlino di provare a smussare la Buba . «Non mi prendo un rischio simile se non ottengo in cambio nulla dall’Italia». Alla conferenza stampa dopo il G8 Berlusconi rivela l’offerta del Fmi e il «no» italiano. Pochi giorni dopo, il governo cade. Al supervertice non è successo nulla. Toccherà a Draghi tenere in piedi l’euro, e (anche) a noi pagare per il fondo salvastati.

Gli attacchi vengono anche dal'interno. L'accordo tra Fini e Napolitano per "eliminare" Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. "Il golpe contro Silvio Berlusconi non è cominciato nell’estate del 2011 come scrive Friedman. Ma molto prima, nel 2009. E a muovere i fili furono il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e quello della Camera Gianfranco Fini". A tirare in ballo altri protagonisti del complotto anti Cav è Amedeo Labboccetta. In una intervista al Tempo, l'allora braccio destro di Fini, racconta le ambizioni dell'ex presidente della Camera che ha giocato di sponda con il Quirinale per fare le scarpe al leader azzurro con l'obiettivo di prendere il suo posto a Palazzo Chigi. "Fini me lo disse in più circostanze. 'Ma tu credi che io porterei avanti un’operazione del genere se non avessi un accordo forte con Napolitano?!", rivela Labboccetta a Carlantonio Solimene che racconta anche di come nacqua il feeling tra Fini e il Colle: "Quando nel 2008 Berlusconi diventa premier e il leader di An va alla presidenza della Camera, i rapporti con Napolitano diventano strettissimi. Si sentono al telefono praticamente ogni giorno". E lui, dice, di essere testimone di quelle chiamate essendo in quel periodo in una posizione privilegiata. All'inizio, prosegue l'ex deputato del Pdl, Fini giustificò il suo controcanto al Cavaliere come normali reazioni agli attacchi de Il Giornale. Lui e Dell'Utri tentarono più volte di fargli cambiare idea. Berlusconi, secondo il racconto di Labboccetta, arrivò perfino ad offrirgli la segreteria del partito. Ma niente, Fini, non smetteva e alzava la posta chiedendo la testa dei ministri La Russa e Matteoli e del capogruppo al Senato Gasparri. "Mi disse che non avrebbe mai lasciato la terza carica dello Stato perché da lì poteva tenere per le palle Berlusconi', continua Laboccetta secondo il quale l'obiettivo di Fini era di "eliminare politicamente Berlusconi". "Quando lo costrinsi a spiegarmi con quali numeri e appoggi voleva farlo", rivela, "mi confessò che Napolitano era della partita. Usò proprio queste parole. Aggiunse che presto si sarebbero create le condizioni per un ribaltone e che aveva notizie certe che la magistratura avrebbe massacrato il Cavaliere. "Varie procure sono al lavoro", mi svelò, "Berlusconi è finito, te ne devi fare una ragione". E aggiunse che come premio per il killeraggio del premier sarebbe nato un governo di "salvezza nazionale" da lui presieduto con la benedizione del Colle. Quando parlava di Silvio, Gianfranco era accecato dall’odio, sembrava un invasato. Una volta mi disse: "Non avrò pace fino a quando non vedrò ruzzolare la testa di Berlusconi ai miei piedi"». Labboccetta non raccontò mai a Berlusconi quello che Fini stava ordendo alle sue spalle, ma si giustifica sostenendo che si diede da fare perché quel piano saltasse: "Cercai di fargli capire che Fini era solo l’esecutore, ma i disegnatori erano altri. Magari con una regia extranazionale". "Me lo fece capire lo stesso Gianfranco, parlando tra le righe. Non va dimenticato che in passato era stato ministro degli Esteri, ed era stato bravo a tessere le giuste relazioni". Alla domanda di Solimente: "Ma perché dice queste cose solo oggi?" Labboccetta risponde: "All’epoca ho fatto di tutto per favorire una ricomposizione. In seguito, ho ritenuto che era meglio lasciare queste cose alle miserie umane. Ma adesso che la verità sta venendo a galla, è giusto che si sappia tutto di quegli anni".

Sallusti: "Dietro al complotto per far fuori Berlusconi c'è Clio Napolitano", scrive “Libero Quotidiano”. “Dietro al golpe del 2011 c'è Clio Napolitano". Alessandro Sallusti ai microfoni de La Zanzara su Radio 24 aggiunge nuove elementi alle rivelazioni di Alan Friedman che parlano di una strategia chiara da parte del Colle per destabilizzare il governo Berlusconi nel 2011 e sostituire il Cav a palazzo Chigi con Mario Monti. Il direttore de Il Giornale punta il dito contro la moglie del Capo dello Stato e afferma: "Mi dicono che la moglie di Napolitano, la comunista Clio, odia Silvio, e ha molto peso sulle scelte del Quirinale. Dietro al complotto politico finanziario che ha fatto cadere Berlusconi, c'è Clio Napolitano". Insomma secondo Sallusti la mano occulta che guidò la caduta di Berlusconi nel 2011 appartiene a Clio Napolitano. Il direttore de Il Giornale però non risparmia critiche nemmeno agli ex alleati del Cav: "Sia Fini che Alfano sono stati cooptati da Napolitano per uccidere Berlusconi". Sallusti parla anche dello spread: "Fu creato ad arte ed il complotto contro Berlusconi ci fu". Infine l'annuncio poi confermato nel suo editoriale di oggi su il Giornale: "Se siamo in un Paese libero, mettiamo in stato d'accusa Napolitano".

Berlusconi: «Complotto contro di me? Obama si comportò bene». «Non mi sorprende che l’uomo del presidente Usa abbia confermato le manovre nei miei confronti… Ma lui si comportò bene durante tutto il G20 e mi diede ragione», scrive Alan Friedman su “Il Corriere della Sera”. Seduto nel giardino di Villa San Martino a Arcore, Silvio Berlusconi è più che soddisfatto. Le anticipazioni del libro di memorie di Timothy Geithner (Stress Test) confermano quello che il Cavaliere dice di sapere da tempo, e cioè, che la Casa Bianca bocciò una richiesta da parte di alcuni europei di far cadere il suo governo nell’autunno del 2011. «Non sono sorpreso. Ho sempre dichiarato che nel 2011 nei confronti del mio governo, ma anche nei confronti del mio Paese, c’è stato tutto un movimento che era partito dal nostro interno ma poi si è esteso anche all’esterno per tentare di sostituire il mio governo, eletto dai cittadini, con un altro governo», dice Berlusconi. «Già nel giugno del 2011, quando ancora non era scoppiato l’imbroglio degli spread, il Presidente della Repubblica Napolitano riceveva Monti e Passera, come è stato scritto, per scegliere i tecnici di un nuovo governo tecnico e addirittura per stilare il documento programmatico. E poi abbiamo saputo anche che ci sono state quattro successive tappe di scrittura, con l’ultima addirittura di 196 pagine». Berlusconi è in grande forma e viene fuori un ricordo preciso. «Io avevo la contezza che stesse accadendo qualcosa e avevo anche ad un certo punto ritenuto che ci fosse una precisa regia. Al G-20 di Cannes, addirittura, amici e colleghi di altri paesi mi dissero: "Ma hai deciso di dare le dimissioni? Perché sappiamo che tra una settimana ci sarà il governo Monti…". E l’ha rivelato per esempio Zapatero in un suo libro che riguardava quel periodo». Non è sorpreso che queste nuove rivelazioni vengano da un uomo di Obama. «Io devo dire che Obama si comportò bene durante tutto il G20. Noi fummo chiamati dalla Merkel e Sarkozy a due riunioni in due giorni consecutivi e in queste riunioni si tentò di farmi accettare un intervento dal Fondo Monetario Internazionale. Io garantii che i nostri conti erano in ordine e non avevamo nessun bisogno di aiuti dall’esterno e rifiutai di accedere a questa offerta, che avrebbe significato colonizzare l’Italia come è stata colonizzata la Grecia, con la Troika».

Eppure son tutti uguali.

Expo, appalti e tangenti: la sinistra spunta ovunque. Nelle carte ci sono dozzine di nomi dell'area Pd tirati in ballo dagli arrestati. Da Bersani fino al sottosegretario Delrio e al portavoce del partito Guerini, scrive Enrico Lagattolla su “Il Giornale”. Lo dicevano spesso, quelli della cupola. «Copriamoci a sinistra». Nel Paese degli appalti truccati servono santi bipartisan. Di qua e di là. Ma di là - a sinistra - ce n'erano davvero parecchi. Realtà o millanterie, sta di fatto che nelle carte dell'inchiesta milanese su Expo e non solo ci sono dozzine di nomi dell'area Pd. Non è un caso, secondo una teoria dell'ex senatore Luigi Grillo. «L'ho visto anche ieri Pier Luigi (Bersani, che ha già smentito, ndr), io tengo sempre i rapporti - dice a Giuseppe Nucci, ex ad della Sogin - lo informo degli sviluppi. Sai, loro, i post-comunisti non sono diversi dai comunisti, cioè il dialogo lo accettano, sono anche garbati e sono simpatici. Poi quando c'è da stringere per questioni di potere preferiscono sempre il cerchio stretto». Ecco, gli affari sono affari. E per ogni torta sul grande tavolo degli appalti pubblici, sostengono i pm, una fetta doveva andare a sinistra. Attraverso le cooperative, che si aggiudicano i lavori. Attraverso Primo Greganti, che avrebbe fatto da tramite tra il partito, le coop e i manager di Stato, e che ieri è stato sospeso in via cautelare dalla sezione del Pd di Torino a cui era iscritto («Ma qui non l'abbiamo mai visto», racconta il segretario della sezione). E attraverso i mille canali - più o meno reali - che ciascuno degli interessati sostiene di poter smuovere per passare all'incasso. Greganti, per rendersi credibile, si «vende» anche il nome di Gianni Pittella, vicepresidente del Parlamento europeo ed ex candidato alle primarie del Pd, il quale ha smentito un suo interessamento su Expo. «Io sono andato giù a Roma - dice Greganti il 6 marzo - ho incontrato anche Gianni Pittella... è il presidente del Consiglio europeo (Greganti si sbaglia, ndr)... grande... potere enorme... al posto di parlamentare europeo... nel Pd è considerato potente ecco...». Poi qualcuno bussa anche al ministero. Così, proprio Nucci racconta di aver incontrato Claudio De Vincenti, viceministro allo Sviluppo economico nel Governo Renzi. «Mi ha detto - racconta Nucci a Grillo - “io sono a disposizione per tutte le cose che voi c'avete da fare”, e dico “io voglio lavorare per il mio Paese”, lui ha detto “Ne parlerò col Gabinetto, col ministro, questa cosa mi piace molto”». Ma a lambire il governo Renzi c'è anche un riferimento - assai fumoso - a Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. A parlare è l'ex Dc Gianstefano Frigerio. «Però Guerini è un buon... adesso non so se lo porta al governo ... forse lo lascia ... al partito i suoi giri ... uno è Delrio e l'altro Guerini». Decisamente più significativi altri passaggi che riguardano proprio Lorenzo Guerini, portavoce del Pd. Ancora Frigerio al telefono, parla con Sergio Cattozzo della Città della salute e degli appalti Sogin. «Devo parlarne a Guerini... a Lorenzo, devo parlarne... ». «Bisogno organizzare un incontro - suggerisce Cattozzo - io te e Guerini, così lo tiriamo dentro il Guerini. Stiamo parlando di sette miliardi di lavoro, ragazzi!». Tanti, tantissimi soldi. E gli appalti Sogin portano la cupola a cercare più sponde possibili. È in questo contesto che spuntano i nomi di Giovanni Battista Raggi, tesoriere del Pd in Liguria, e di Claudio Burlando, già ministro dei Trasporti e ora governatore ligure. Greganti avrebbe dovuto avvicinare Raggi e attraverso questi Burlando, per ottenere - si legge in un sms di Cattozzo del settembre scorso - «un po' di sponsorizzazione forte nazionale». Ma la cupola, secondo la Procura di Milano, era «glocal». Oltre alle coperture nazionali, infatti, cercava appoggi sul territorio. Ovunque c'era una gara milionaria, c'era da muoversi. Ed è così che si arriva in Sicilia, dove la cricca sta seguendo i lavori per l'ospedale di Siracusa. Frigerio, al telefono con Cattozzo, ragiona. «Sei amico di Enrico Maltauro (uno degli imprenditori arrestati, ndr) tieni conto che stiamo seguendo per lui un ospedale a Siracusa che dobbiamo parlare con Crocetta (Rosario Crocetta, governatore siciliano, ndr) per l'autorizzazione compagnia bella ma tu sei d'accordo... mah aspetta adesso ne parlo al mio consulente poi vediamo venerdì quando viene da me glielo dirà a Enrico, mi ha chiamato Foti (Luigi Foti ex parlamentare della Dc ora ritenuto vicino al Pd, ndr) vuole la mia copertura sulla Sicilia per l'ospedale di Siracusa». Ma alla fine, erano ganci reali o solo chiacchiere? Altro che balle, a sentire Stefano Boeri. Per l'ex assessore comunale Pd di Milano, era tutto vero. «Sono stato fatto fuori dalla partita Expo dalle lobby economiche, compresa la Lega delle Cooperative. Io costituivo un ostacolo», ha spiegato in un'intervista. A Boeri ha replicato l'assessore milanese Pierfrancesco Majorino. «Di Boeri si può pensare tutto e il suo contrario, ma il nesso è totalmente inventato». Al netto delle faide interne al partito, il dubbio resta.

Quelle larghe intese Cl-Coop per spartirsi affari e poltrone. Nelle carte della Procura le prove dell'asse tra cooperative rosse e aziende cielline. L'indagato Frigerio: "Anche Lupi è amico loro", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Altro che Peppone e don Camillo. Oggi i vecchi nemici fanno affari insieme. Nascosta nelle carte dell'indagine sugli appalti dell'Expo 2015 c'è una traccia che costringe a rivedere antiche certezze. E a prendere atto che quando oggi si parla dei colossi delle coop, lanciati alla conquista di fette sempre più grosse degli appalti pubblici, si parla di qualcosa di assai diverso dalle vecchie cooperative emiliane, tutte business e ideologia, che fanno parte della storia del Novecento italiano. Il grosso delle aziende aderenti alla Lega nazionale cooperative e mutue continua, ovviamente, a stare nell'orbita del Pd. Ma dentro la Legacoop cresce un nuovo partito di tutt'altra estrazione: uomini e aziende che vengono dalla storia di Comunione e liberazione, e dal suo braccio nell'imprenditoria, la Compagnia delle opere. Ex comunisti e ciellini convivono e collaborano. E si ritrovano, nelle carte dell'indagine, a godere di protezioni bipartisan. A spiegarlo chiaramente, tranquillizzando un interlocutore è Gianstefano Frigerio, l'ex parlamentare della Dc e di Forza Italia, arrestato mercoledì. Scrive la Guardia di finanza: «Frigerio dice che quelli che gli presenterà della Manutencoop (alti dirigenti) non sono di sinistra ma sono dei loro». Non è chiaro a chi si riferisca Frigerio. Ma il vecchio democristiano torna sul tema in un'altra conversazione: «Ieri ho parlato con Pellissero e gli ho raccomandato, guarda che la cosa migliore è Manutencoop e anche qualche sua azienda... “sì sì lo so anche se hanno fatto un po' di alleanze eccessive con i ciellini”». Un asse che può apparire singolare, quello tra i due mondi: ma che si basa su due pilastri comuni, la vocazione sociale e il pragmatismo imprenditoriale. Di fatto, Cdo e Legacoop si ritrovano da tempo alleate in un'opera di lobbismo comune e trasversale per ottenere leggi che tutelino l'imprenditoria sociale. Questo ha generato contiguità e alleanze. E anche intrecci di poltrone: il caso più noto è quello di Massimo Ferlini, ex assessore comunista a Milano, che oggi è uno dei principali esponenti della Compagnia delle opere ma siede anche nel consiglio di amministrazione di Manutencoop. Così, in nome di un comune sentire, si saldano intese un tempo impensabili. Ancora Frigerio: «Anche Maurizio Lupi (ministro delle Infrastrutture, ciellino doc) è amico di quelli di Manutencoop». Scrive la Finanza: «Frigerio sostiene di conoscere bene i legami che ci sono tra Manutencoop e i ciellini tanto che negli ultimi anni, con Formigoni, sempre a dire dell'indagato Manutencoop avrebbe già ottenuto importanti lavori». E d'altronde in Lombardia non è un mistero che dopo la caduta di Formigoni le aziende della Cdo, rimaste orfane di protezione politica, si stiano ulteriormente avvicinando alle coop rosse. «Parlando con Levorato lui è un vecchio comunista, io un vecchio democristiano, quindi sappiamo come si parla tra noi», dice Frigerio di Claudio Levorato, il manager di Manutencoop per cui la Procura aveva chiesto l'arresto: e in questa frase c'è dentro un bel ritratto di storie simili cresciute su sponde diverse. D'altronde, dice sempre Frigerio, «ti manderò il capo delle coop (...) copriamoci perché sono le coop rosse e corrono meno incidenti. Prendeteveli perché sono rossi» . E fin qui potrebbe sembrare un semplice calcolo di opportunità o un preaccordo di spartizione. Ma quello che raccontano le carte è qualcosa di più, una sorta si compenetrazione tra mondi solo apparentemente distanti. C'è una matrice forse cattocomunista: basta guardare il profilo Linkedin di Fernando Turri, altro manager coop che compare nell'inchiesta, a capo della Viridia: studi dai salesiani, ma alle spalle il Quarto Stato di Pellizza. E c'è soprattutto una consapevolezza che i tempi sono duri, la spending review ha tagliato gli appalti, e così se si vuole sopravvivere bisogna abbattere vecchi steccati. Frigerio: «Manutencoop, aldilà di quello che pensa Rognoni, è “così” con Cl».

Il ministero della Giustizia, attraverso il capo degli ispettori Arcibaldo Miller, ha chiesto alla Corte d'appello di Milano copia della sentenza relativa al Lodo Mondadori e dei motivi del ricorso in Appello di Fininvest. L'iniziativa è una diretta conseguenza dell'esposto presentato da Marina Berlusconi per conto di Fininvest sia al ministero della giustizia sia al procuratore generale della Cassazione, entrambi titolari dell'azione disciplinare a carico dei magistrati.

Arcibaldo Miller che mai si è mosso su istanza del dr Antonio Giangrande, Presidente dell'Associazione Contro tutte le Mafie, che ha avuto il coraggio di denunciare i magistrati, senza conseguire calunnia.

Arcibaldo Miller, del quale “La Repubblica” delinea le caratteristiche a firma di Liana Milella. "Di mattina compone la squadra degli ispettori pronti a fare le pulci ai colleghi di Napoli e di Bari che hanno indagato su Tarantini, e quindi anche su Berlusconi. Di sera Arcibaldo Miller, il magistrato che dal 2001 guida i segugi di via Arenula attraverso i ministri Castelli, Mastella, Alfano, Palma, si ritrova a sua volta sotto inchiesta per il suo coinvolgimento nell'inchiesta sulla P3, in cui è stato indagato. Il collegio dei probiviri dell'Anm apre una pratica per espellerlo dall'associazione. Il Csm sta verificando i presupposti per revocare lo stato di "fuori ruolo" di Miller. Il Pd, con Donatella Ferranti chiede che lasci immediatamente il posto di capo degli ispettori. È lapidario il ministro della Giustizia: «Miller non è stato toccato da alcuna indagine penale, il procuratore generale della Cassazione ha archiviato il suo caso». Non ha letto le carte. Quelle che hanno spinto il Csm ad occuparsi di nuovo di lui dopo aver archiviato, il 27 giugno 2011, l'ipotesi di un procedimento disciplinare. Un'archiviazione che suona come una condanna. Dove è scritto: «Appare pacifico che Miller ha partecipato alla riunione del 23 settembre 2009, presso l'abitazione romana di Denis Verdini, dov'erano presenti Flavio Carboni, Arcangelo Martino, Pasquale Lombardi, Marcello Dell'Utri, Giacomo Caliendo, Antonio Martone. In questa riunione si è discussa la candidatura a presidente della Regione Campania di Nicola Cosentino e si è concordata una condotta di illecita interferenza presso i componenti della Corte costituzionale». Miller la sfanga per la terza volta nella sua vita. Come quando finì - erano gli anni Novanta - nell'elenco dei frequentatori della casa d'appuntamenti di via Palizzi a Napoli. O come quando i pentiti Alfieri e Galasso parlarono di suoi rapporti con la camorra. Tutto finì archiviato. Davanti al Csm, quando gli contestarono i rapporti con i Sorrentino, imprenditori legati ai boss, lui si scusò: «È uno sbaglio che ammetto di aver fatto e ne pagherò le conseguenze». Da pm di punta della procura di Cordova, ebbe come suo uditore Woodcock. Adesso, di lui e degli altri che indagano su Berlusconi, per ordine di Berlusconi e Palma, vuole scoprire le deviazioni."

«La democrazia non si può piegare alle trame di qualche Procura e di qualche redazione». Lo afferma la presidente di Fininvest, Marina Berlusconi, in una lunga intervista al Corriere della Sera, in cui parla anche dell’esposto presentato dal Biscione avverso alla sentenza della Corte d’appello per il lodo Mondadori, che ha condannato la holding a risarcire la Cir con 564 milioni di euro. «Abbiamo scoperto un tarlo, una falla clamorosa che mina dalle fondamenta un castello di ingiustizie. Altro che leggi ad personam, qui siamo alle sentenze ad personam, al diritto cucito su misura: quando ci sono di mezzo mio padre o le nostre aziende, spuntano addirittura principi giurisprudenziali inediti e totalmente innovativi. Peccato che siano principi inesistenti, nati dal "taglio" di una frase addirittura sostituita da puntini di sospensione e dalla mancata citazione di altre».

Un conto sono le sentenze, un conto le interpretazioni, come la vostra. «Qui non si tratta di interpretazioni, questi sono dati di fatto. Sono scomparse frasi intere di una sentenza della Cassazione».

Sia esplicita, che cosa è successo, cosa hanno fatto i giudici? «Con il taglio e l'omissione di alcune frasi questa pronuncia della Cassazione, che ha un ruolo fondamentale ai fini della condanna, è stata letteralmente stravolta, ed è stato in questo modo creato un precedente giuridico ad hoc».

Sta dicendo che la sentenza è stata manipolata. Accusa i giudici di un falso? «Me ne guardo bene, l'esposto si limita a segnalare alle autorità competenti quanto è accaduto. È un fatto talmente evidente e grave che abbiamo non soltanto il diritto, ma addirittura il dovere di renderlo noto, al di là del ricorso in Cassazione che seguirà la sua strada. Il taglio e l'omissione di alcuni passaggi ribalta totalmente la tesi della Cassazione con la conseguenza che noi dobbiamo firmare un assegno da 564.248.108,66 euro. Incredibile? Assolutamente sì, è quello che ho pensato quando i legali me ne hanno parlato. Però, ripeto, le carte sono lì, basta confrontare i testi sul sito della Fininvest. Incredibile, ma vero».

Senta, a me paiono scaramucce giudiziarie, costose quanto vuole ... «Altro che scaramucce, stiamo parlando di più di mezzo miliardo».

Sì, ma è sempre la stessa storia. «Eh no. Partiamo dalla sentenza del 1991 della Corte d'Appello di Roma, quella che dava torto a De Benedetti, dalla quale tutto è cominciato. Dopo che uno, uno solo badi bene, dei tre giudici romani era stato condannato per corruzione, per cancellare gli effetti di quella sentenza d'Appello le norme davano a De Benedetti una sola possibilità: rivolgersi al giudice della revocazione. Non è una formalità, ma un istituto fondamentale, previsto dall' articolo 395 del Codice di procedura civile. La Cir però la revocazione, che le regole avrebbero peraltro imposto di discutere a Roma e non a Milano, non l'ha mai chiesta. I termini sono scaduti nel settembre 2007. Morale: azione improponibile, fine della storia».

Altro che fine della storia, poi il giudice Mesiano vi condanna a un risarcimento di 750 milioni. «Esatto. Questa è la dimostrazione che trovano sempre il modo per superare ostacoli che dovrebbero essere insuperabili. Mesiano punta sulla chance: non ci sono certezze, ma è molto probabile che un giudizio non viziato da corruzione nel '91 avrebbe dato ragione alla Cir. Un escamotage così poco sostenibile che la stessa Corte d' Appello lo "boccia" e cambia strada. Stabilisce che la sentenza che ci aveva dato ragione era nulla. Si arroga il diritto di rifare il processo e la Cir vince. Si sostituisce, quindi, al giudice della revocazione. E per farlo utilizza, nel modo sconcertante che le ho detto, la pronuncia 35325/07 della Cassazione».

Capisco che tutto ciò vi crei problemi. Insisto: questioni giuridiche, procedurali, da tribunali ... «Non ci sono solo procedure, ci sono anche i fatti. Eccoli: la Cir non ha avuto alcun danno da parte nostra; noi, che non avremmo dovuto pagare neppure un euro, abbiamo subito un esproprio di 564 milioni, un danno gravissimo per un gruppo che, non mi stancherò mai di sottolinearlo, è uno dei grandi protagonisti dell' economia del Paese, e che solo per dare una cifra, negli ultimi 10 anni ha versato nelle casse dello Stato la bellezza di oltre 5 miliardi di euro, più di 2 milioni al giorno».

Veramente è De Benedetti che lamenta un danno. «Ma quale danno? La vicenda si concluse con una transazione impostaci dalla politica che De Benedetti accettò entusiasticamente, come dimostrano le sue dichiarazioni di allora, senza neppure ricorrere in Cassazione e ci credo che fosse soddisfatto: si prendeva Repubblica, l'Espresso e i quotidiani locali di Finegil, una parte rilevantissima della Mondadori, politicamente ed economicamente».

Lascio a lei la responsabilità di quello che afferma su Cir e magistratura. Ma a me pare l'ennesima versione della persecuzione contro suo padre. «Persecuzione? Non avevo dubbi sul fatto che si trattasse di una sentenza politica, ora si scopre su che cosa si basa! Non tiro conclusioni, ma veda lei... Purtroppo la verità è che parlare di persecuzione non è più sufficiente. Ormai contro mio padre siamo alla barbarie quotidiana legalizzata».

Addirittura barbarie... «Certo, mi ha molto turbato leggere articoli di informatissimi notisti politici in cui si considera come un dato scontato che questa aggressione furibonda possa mettere in discussione la sua libertà personale, il futuro delle sue aziende e addirittura la sua incolumità. E nessuno fa un salto sulla sedia? Sì, barbarie quotidiana legalizzata, ma assolutamente illegale».

Illegale cosa? E allora tutte le inchieste aperte da Napoli a Bari, da Roma a Milano? «Si inventano inchieste a ripetizione su reati inesistenti e senza vittime solo per fabbricare fango. Poi il fango fabbricato viene palleggiato tra una Procura e l' altra e infine riciclato. Il processo, con relativa, inevitabile condanna, lo si celebra sui media. Quello in aula, se si farà e come finirà non interessa più a nessuno. So bene, e ci tengo a ripeterlo, che dietro tutto questo c' è solo una minoranza di toghe, che la magistratura come istituzione merita il massimo rispetto. Ma il risultato non cambia. E mi chiedo che cosa tutto ciò abbia a che fare con la giustizia, con l' informazione, con un Paese che si considera civile».

Me l'aspettavo, il problema sono i magistrati che intercettano e i giornali che pubblicano. «Stiamo parlando di centinaia di migliaia di intercettazioni, un numero spropositato, di cui si è fatto un uso fuori da ogni regola, mi riesce perfino difficile trovare le parole per definirlo, la verità è che se ci penso mi viene la nausea. Credo che raramente si sia assistito ad un tale spettacolo di inciviltà. Altro che bavagli: ma davvero qualcuno può credere e sostenere che si possa continuare così?»

Da Panorama l’elenco dei procedimenti penali a carico di Silvio Berlusconi aggiornati al 19 aprile 2012:

1. Proc. Pen n. 5746/93 R.G.N.R. “Viganò Verzellesi” (si segnala che il dott. Berlusconi è stato iscritto nel registro degli indagati il 28/01/1995) Reati contestati: corruzione archiviato l’8/08/2000;

2. Proc. Pen. n. 842/95 R.G.N.R. “Falso in bilancio Fininvest libretti al portatore” Reati contestati: falso in bilancio archiviato il 21/09/2004;

3. Proc. Pen. n. 6081/95 R.G.N.R. “Edilnord Commerciale” Reati contestati: falso in bilancio archiviato il 21/09/2004;

4. Proc. Pen. n. 6031/94 R.G.N.R. “Palermo riciclaggio” Reati contestati: concorso esterno in associazione mafiosa – riciclaggio concorso esterno in associazione mafiosa: archiviato il 19/02/1997 riciclaggio: archiviato il 25 – 27/11/1998;

5. Proc. Pen. n. 1370/98 “Stragi Caltanissetta” Reati contestati: concorso in stragi archiviato il 3/05/2002;

6. Proc. Pen. n. 3197/96 R.G.N.R. “Stragi Firenze” Reati contestati: concorso in stragi archiviato il 14/11/1998;

7. Proc. Pen. n. 3000/96 R.G.N.R. “Progetto Botticelli” Reati contestati: falso in bilancio – frode fiscale archiviato il 16/02/1998;

8. Proc. Pen. n. 11343/99 R.G.N.R. “Lodo Mondadori” Reati contestati: corruzione giudiziaria assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 12/05/2001 ha dichiarato di “non doversi procedere perché il reato si è estinto per intervenuta prescrizione” (concesse le attenuanti generiche), sentenza confermata in Cassazione;

9. Proc. Pen. n. 11262/94 R.G.N.R. “Tangenti GDF” Reati contestati: corruzione assolto. La sentenza della Corte di Cassazione del 19/10/2001 ha “assolto in ordine a tutti i capi di imputazione per non aver commesso il fatto”. Solo per il capo D) l’assoluzione è ai sensi dell’art. 530 co 2 (insufficienza probatoria), dichiarata dalla Corte d’Appello e confermata dalla Cassazione;

10. Proc. Pen. n. 9811/93 R.G.N.R. “All Iberian 1” (si segnala che il dott. Berlusconi è stato iscritto nel registro degli indagati il 23/11/1995) Reati contestati: finanziamento illecito ai partiti assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 26/10/1999 ha dichiarato di “non doversi procedere perché i reati si sono estinti per prescrizione”, sentenza confermata in Cassazione;

11. Proc. Pen. n. 10594/95 R.G.N.R. “Medusa” Reati contestati: falso in bilancio – appropriazione indebita assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 13/06/2000 ha “assolto dal reato ascritto per non aver commesso il fatto”, sentenza confermata in Cassazione;

12. Proc. Pen. n. 4262/95 R.G.N.R. “Macherio” Reati contestati: falso in bilancio – appropriazione indebita – frode fiscale assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 28/10/1999 (sentenza definitiva) ha “assolto dal reato di falso in bilancio perchè il fatto non sussiste, dichiarato non doversi procedere per il reato di appropriazione indebita per intervenuta amnistia e confermata la sentenza del Tribunale per la frode fiscale perché il fatto non sussiste”;

13. Proc. Pen. n. 11749/97 + 12193/98 R.G.N.R. “Corruzione Ariosto SME” Reati contestati: corruzione assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 27/04/2007 ha “assolto dal reato per l’episodio di cui al capo A) per non aver commesso il fatto ai sensi dell’art. 530 co 2 cpp e per l’episodio di cui al capo B) perchè il fatto non sussiste ai sensi dell’art. 530 co 1 cpp” sentenza confermata in Cassazione;

14. Proc. Pen. n. 5888/02 R.G.Trib.(stralcio del n. 11749/97 + 12193/98) “Falso in bilancio Ariosto SME” Reati contestati: falso in bilancio assolto. La sentenza del Tribunale del 30/01/2008 (sentenza definitiva) ha “dichiarato il non doversi procedere in ordine al reato ascrittogli perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”;

15. Proc. Pen. n. 735/96 R.G.N.R. “Consolidato” Reati contestati: falso in bilancio assolto. La sentenza del GIP del 13/02/2003 ha “dichiarato il non doversi procedere in ordine al reato di falso in bilancio ascritto perché gli stessi sono estinti per prescrizione”, sentenza confermata in Cassazione;

16. Proc. Pen. n. 2569/99 R.G.N.R. (stralcio del n. 9811/93) “All Iberian 2” Reati contestati: falso in bilancio assolto. La sentenza del Tribunale del 26/09/2005 ha “assolto perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”;

17. Proc. Pen. n. 2601/94 R.G.N.R. “Lentini” Reati contestati: falso in bilancio assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 13/12/2005 ha confermato la sentenza del Tribunale “di non doversi procedere perché il reato si è estinto per prescrizione”;

18. Proc. Pen. n. 262/97Y R.G.N.R. - Tribunale di Madrid “Telecinco” Reati contestati: reati societari – reati contro la Pubblica Amministrazione (diritto spagnolo) archiviato il 13/10/2008;

19. Proc. Pen. n. 22694/01 R.G.N.R. “Diritti” Reati contestati: falso in bilancio – appropriazione indebita – frode fiscale con sentenze del 7/07/2006 e 28/05/2007 il Tribunale di Milano ha dichiarato il non doversi procedere per i reati di falso in bilancio e di appropriazione indebita in quanto estinti per prescrizione. Per il reato di frode fiscale è in corso il dibattimento;

20. Proc. Pen. n. 6859/05 R.G.N.R. “Mills” Reati contestati: corruzione giudiziaria Assolto: 25/02/2012 il Tribunale ha dichiarato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione;

21. Proc. Pen. n. 40382/05 R.G.N.R. “Mediatrade Milano” Reati contestati: appropriazione indebita – frode fiscale Prosciolto: Il GUP di Milano ha “prosciolto per non aver commesso il fatto”; in data 01/12/2011 il PM ha depositato ricorso in Cassazione;

22. Proc. Pen. n. 31358/10 R.G.N.R. “Mediatrade Roma” Reati contestati: frode fiscale In corso l’udienza preliminare;

23. Proc. Pen. “Santa Margherita Alitalia (convegno del giugno 2009)” Reati contestati: aggiotaggio e insider trading Archiviato il 18/11/2011;

24. (*) Proc. Pen. n. 58833/07 R.G.N.R. “Intercettazioni Saccà” Reati contestati: corruzione archiviato il 17/04/2009;

25. (*) Proc. Pen. n. 1349/08 R.G.N.R. “Corruzione Senatori” Reati contestati: corruzione archiviato;

26. (*) Proc. Pen. Trib. Ministri “Saint Just” archiviato il 26/01/2009;

27. (*) Proc. Pen. Trib. Ministri “Voli di Stato” archiviato l’8/10/2009;

28. (*) Proc. Pen. n. 41895/09 “UNIPOL - Intercettazioni Fassino Consorte” Reati contestati: rivelazioni segreto d’ufficio. Disposto il rinvio a giudizio il 7/02/2012. In corso il dibattimento(richiesta di archiviazione del 16/12/2010 - 15/09/2011 il G.i.p. ha disposto l’imputazione coatta per Berlusconi - 22/09/2011 chiesto il rinvio a giudizio);

29. (*) Proc. Pen. n. 55781/2010 + 5657/11 R.G.N.R. “Caso Ruby” Reati contestati: concussione – favoreggiamento prostituzione minorile il 15/02/2011 il g.i.p. ha disposto con decreto il giudizio immediato (prima udienza dibattimentale: 6/4/2011);

30. (*) Proc. Pen. “Innocenzi – Anno Zero” Reati contestati: abuso d’ufficio Chiesta l’archiviazione;

31. (*) Proc. Pen. “Minzolini – De Scalzi” Reati contestati: abuso d’ufficio. In corso le indagini preliminari;

32. (*) Proc. Pen. “vilipendio alla magistratura” Reati contestati: vilipendio all’ordine giudiziario. In corso le indagini preliminari;

33. (*) Proc. Pen. Tribunale di Bari Reati contestati: induzione a rendere false dichiarazioni all’Autorità Giudiziaria
In corso le indagini preliminari.

(*) trattasi di procedimenti personali e quindi non riguardanti il Gruppo Fininvest. I dati relativi non rientrano tra quelli della c.d. “sintesi”.

Indagini per stragi a Firenze, Palermo e Caltanissetta: si tratta di tre indagini riguardanti le stragi di mafia degli anni 1992/1993, indagini già archiviate in passato (v. n. 5 e 6). Ad oggi non disponiamo di dati ufficiali, ma solo di notizie di stampa. Negli ultimi mesi ci sono state sia smentite (Firenze), sia conferme (Palermo), circa l’iscrizione di Silvio Berlusconi nel registro degli indagati.

Stefania Craxi: "Ora l'Italia chieda scusa a mio padre". La figlia dello statista socialista accusa i metodi da «Mani pulite»: "Una vergogna le modalità dell'arresto di Scajola e i processi aperti sulla stampa per Expo 2015", scrive Paola Sacchi su “Panorama”. «In questo paese sarebbe venuta l’ora di chiedere scusa a Bettino Craxi….». Dopo l’ondata di arresti di giovedì 8 maggio 2014, che hanno resuscitato stili e metodi spettacolari da «Mani pulite» e che hanno fatto parlare di «una nuova Tangentopoli», Stefania Craxi in questa intervista a Panorama.it invita ad andare a rileggersi il celebre e inascoltato intervento dello statista socialista alla Camera nel luglio 1992.

Ora quelle parole cadute nel vuoto perché tornano secondo lei più che mai attuali?

"In un coraggiosissimo discorso di fronte al parlamento e alla nazione Craxi denunciò la degenerazione alla quale era arrivata la società italiana e chiamò la politica del tempo a porvi un rimedio. Ma seguì un vile silenzio. In questi vent’anni hanno fatto come le scimmiette: non vedo, non parlo, non sento.  Il degrado è andato avanti di pari passo con una Giustizia che utilizza spesso due pesi e due misure. Due fenomeni che sono andati a braccetto.  Certi magistrati dalla tentazione golpista, favoriti anche da una politica imbelle, hanno fatto avanzare la corruzione. Se prima c’era qualche corrotto, ma la politica era forte, ora non conta  più la politica, contano solo le lobby e gli affari.  L’Italia somiglia sempre più a un paese del Sudamerica che non  a un paese moderno e occidentale".

Che effetto le ha fatto rivedere le stesse scene di vent’anni fa e le paginate dei giornali che ricalcano gli stessi schemi del processo mediatico? Da una lato, l’ex ministro Claudio Scajola, arrestato di fronte a una marea di telecamere e fotografi, si dice avvisati per tempo, dall’altro ondate di verbali di intercettazioni riversate sulla stampa, da Scajola all’inchiesta Expo 2015…

"Il metodo dell’arresto di Scajola è una vera vergogna. E la vergogna  di processi che avvengono prima sulla stampa che nell’aula di tribunale continua. Anche un colpevole ha diritto a non avere la gogna. E poi i contorni dell’inchiesta Expo sono pochi chiari perché tutto avviene all’interno di uno scontro di potere dentro la mitica  Procura di Milano".

Che opinione si è fatta?

"I tempi e i modi di questi nuovi arresti non sono estranei a  questo scontro dove c’entrano protezioni, coni d’ombra. Tutto si consuma in una contrapposizione dove è emersa con molta chiarezza la voglia da parte di certi magistrati di protagonismo e di avere assegnate le inchieste di grido. Questa è la novità".

Gli arresti dell’8 maggio avvengono a meno di due settimane dal voto europeo. La tempistica fa sempre riflettere?

"Avvengono come al solito a pochi giorni dalla elezioni. C’è un uso improprio della custodia cautelare, che è anche un costo sociale abnorme per le nostre carceri e i cittadini.  A leggere i giornali italiani sembra la sceneggiatura della stessa telenovela,  con le medesime formule giornalistiche, tipo la cupola, la cupola massonica internazionale…Ma dove è?".

Che impatto politico avranno questi nuovi arresti?

"Questo spettacolo indecente è chiaro che favorirà Beppe Grillo che è un sintomo anche grave di un sistema malato.  La sinistra ha sparso il morbo giustizialista che è entrato nelle vene dell’elettorato italiano mischiandosi a un impasto di invidia sociale e odio verso i potenti, aggravato da una politica che non ha saputo dare risposte. Nella Prima Repubblica i difetti c’erano, non a caso mio padre parlò di Grande Riforma già nel 1979, ma c’erano anche le regole, a cominciare dall’articolo 68 della Costituzione sull’immunità parlamentare,  ora invece sono rimasti i difetti ma sono saltate le regole".

È un fatto che la giornata degli arresti avviene dopo che Silvio Berlusconi è tornato centrale per fare le riforme, non a caso è stata Forza Italia a salvare Matteo Renzi al Senato. Che ne pensa?

"Da un lato c’è un giustizialismo che ha offuscato le menti e generato mostri, e poi c’è sempre una regia da parte di poteri neppure tanto dichiarati. Quelle di Renzi sono riformicchie, riforme fatte un tanto al chilo, ma è chiaro che quello che è successo è volto a far saltare il banco. Questo premier che sembra uscito dalla penna di Collodi elude la riforma della Giustizia. E intanto il Pd l’altro giorno in commissione ha votato contro la responsabilità civile dei magistrati".

LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. PASQUALE CASILLO.

PASQUALE CASILLO E BERLUSCONI.

Era il ”Re del Grano”, l´inventore di Zemanlandia, il fautore del miracolo del Foggia in serie A e dell´Avellino in serie B, ma per tredici anni Pasquale Casillo, noto a tutti come “Don Pasquale” da San Giuseppe Vesuviano, pesava l´accusa del famigerato articolo 110 - 416bis, concorso esterno in associazione di stampo mafioso: un reato grave da cui Casillo, soltanto in tarda mattina del 16 febbraio 2007, è stato assolto dai giudici del tribunale di Nola, in provincia di Napoli, che hanno accolto le richieste del pubblico ministero Vincenzo D´Onofrio. Per Don Pasquale, dunque, assistito dall´avvocato Ettore Stravino e da Bruno Von Arx, è giunta l´assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto. Casillo fu arrestato il 21 aprile del 1994 non solo per associazione mafiosa, ma anche per truffa e peculato. Era stato accusato, insieme ad altri, infatti, di aver frodato l’Aima, l´Azienda di Stato per gli interventi nel mercato agricolo. Per questi ultimi reati è scattata la prescrizione, ma per Pasquale Casillo restava in piedi la ben più grave macchia, il 416bis, che da ieri non ha più nulla a che fare con l´ex Re del Grano. Un “impero”, quello di Casillo, che valeva milioni e milioni di euro e che gli deve essere restituito poiché sono stati revocati i provvedimenti di sequestro cautelare sulle aziende e sui beni personali. «In questa brutta storia, potevo perdere tutto ma non la dignità» ha dichiarato l´imprenditore. Nei primi anni ´90 l’industriale campano, presidente dell´Assindustria di Foggia, era il gotha dell´imprenditoria nazionale: il suo “impero” era impegnato in tutti i campi, dal commercio allo stoccaggio del grano, dai trasporti navali al mondo del calcio. E che calcio. Ma Casillo aveva anche partecipazioni importanti in istituti di credito (Banca Mediterranea e Caripuglia ndr) e società immobiliari e turistiche. E poi, oltre al Foggia di Zeman, era proprietario anche di Salernitana e Bologna e voleva “mettere le mani” sulla Roma di Ciarrapico. Poi, quel 21 aprile, l´arresto a Foggia: a far emettere le ordinanze dai giudici di Napoli le deposizioni di un pentito della camorra, il boss Pasquale Galasso. Nonostante un pool di primarie banche, coordinate dall´ABI, avesse offerto un cospicuo finanziamento ponte di 100 miliardi di vecchie lire, rifiutato dal neoamministratore giudiziario del gruppo, scatta la molla dell´istanza di fallimento, richiesta dai creditori del gruppo Casillo. Nel maggio del 1994, su istanza del Banco di Napoli, finiscono in tribunale i libri della capogruppo, la “Casillo Grani Snc”, società in nome collettivo. E incomincia il pellegrinaggio dell´inchiesta principale. Casillo si è sempre dichiarato innocente, anzi «perseguitato dai giudici», e ha sempre richiesto di essere processato subito. Con gli anni vengono prescritti tutti gli eventuali reati fiscali. Restava, fino a ieri, solo il 416bis. E per Casillo il fantasma della mafia, anzi della camorra campana, svanisce, così come era svanito, qualche anno prima, per l´ex ministro dell´Interno Antonio Gava, che è stato assolto - come molti altri imputati eccellenti - in tutti i gradi nel processo per camorra basato in massima parte sulle dichiarazioni del medesimo pentito Pasquale Galasso, lo stesso accusatore di Casillo.

Casillo: il candidato ideale contro certe toghe rosse, scrive Ruggiero Capone su “L’Opinione”. «Presidente Berlusconi, dica a Pier Ferdinando Casini, dato che si dice cattolico: memento homo! Visto l’atteggiamento ostile che l’onorevole Casini ha assunto nei Suoi personali confronti, gli ricordi ciò che accadde la mattina dell’8 febbraio 1994, ultimo giorno utile per l’apparentamento delle liste delle famose elezioni che La videro entrare nell’orbita politica. Lei accettò che Mastella, Casini e D’Onofrio rientrassero in gioco (precedentemente rifiutati per la pretesa di avere ministero del Lavoro e Istruzione) solo per le pressioni che Le feci prima mediante Domenico Mennitti, mio ex direttore del “Roma”, poi attraverso Adriano Galliani e, infine, per l’intervento risolutivo di Marcello Dell’Utri alle 7:30, mentre la pietosa delegazione dei mendicanti avevano preso comunque l’aereo verso Milano, speranzosi in un miracoloso ultimo mio intervento presso di Lei. Ricordi a Casini che li fece prelevare in extremis all’aeroporto di Linate con una vostra macchina. Rammenti anche a Casini che intervenni dopo le ossessive e continue telefonate del giorno precedente continuate al mattino dell’onorevole Mastella, il quale mi riferì che in macchina (in taxi verso Fiumicino) con lui c’era anche Casini e D’Onofrio. Peccato, che non esistano tracce registrate! Eppure, essendo il sottoscritto, già dall’anno precedente, nel mirino dell’Antimafia di Napoli e, di lì a poco arrestato, mercoledì 21 aprile ’94, mi fa meraviglia che un “camorrista” della mio livello, e, a dire degli inquirenti, socio in malaffari di Alfieri e Galasso, non avesse il telefono sotto controllo! Di tutto questo, me ne se sono lamentato anche in un pubblico processo. Le pare verosimile? O non, piuttosto, che sia stato tutto messo a tacere? Poiché, delle due una: o il mio telefono non era sotto controllo, e sarebbe roba da inetti oppure è stato tutto dolosamente insabbiato. Le scrivo questo solo per ricordare a Lei chi ero, a Casini la sua ingratitudine (senza di Lei, politicamente, sarebbe già defunto) e allo Stato... qualche ridicola inadempienza! Saluti. Roma, 17 gennaio 2013, Pasquale Casillo». Questo il contenuto della missiva che Pasquale Casillo (all’epoca imprenditore agroalimentare di rilievo mondiale, editore del quotidiano Roma e proprietario di club calcistici) ha inviato a Silvio Berlusconi. «Attualmente ho la fedina penale integra! - precisa Casillo - Sono stato assolto, dopo ben 13 anni, su richiesta della stessa Procura che mi aveva arrestato, sequestrato l’intero patrimonio e conseguentemente fatto fallire tutte le aziende del mio Gruppo (56 aziende in tutto il mondo) che all’epoca fatturavano ben 2.000 miliardi, a causa di un amministratore giudiziario (il mio Bondi) la cui segretaria era una “segreteria telefonica”. Questo signore da me denunciato, e da ben quattro anni attendo un Ctu dalla procura di Napoli». Le persecuzioni giudiziarie nei riguardi di Pasquale Casillo sono durate 29 anni (iniziavano nel 1984). Ma l’imprenditore è poi risultato assolto in tutti i processi. Dopo decine di assoluzioni nessun giornale ha mai provveduto a riabilitare l’uomo dinnanzi all’opinione pubblica. Casillo ci rammenta i due casi più recenti in ordine di tempo. «Il fallimento della società capogruppo - spiega Casillo - la Casillo Grani snc, per una presunta accusa di bancarotta fraudolenta aggravata (un caso simile a Cirio e Parmalat che si consumava 10 anni prima) che si sarebbe prescritta dopo 18 anni e 6 mesi, ma che a 17 anni, guardo un po’! - rimarca l’imprenditore - essendo ancora allo stato indiziario (solo iscritta al modello 21) quindi senza neppure aver fatto un’udienza o un interrogatorio, è stata archiviata (12 marzo 2012) con motivazione “il fatto non sussiste”. È più grave assolvere col fatto non sussiste o che oggi comunque si sarebbe prescritta senza iniziare. Si sarebbe prescritta a febbraio 2013, non penso esista caso simile in Europa». L’episodio che ancora turba Pasquale Casillo è come sia stato costruito in suo danno il processo per “concorso in associazione camorristica”. «Processo per concorso in associazione camorristica - ci ripete Casillo con tono indignato - dopo quasi 13 anni unico imputato… in quaranta minuti (di cui 10 di camera di consiglio), senza contraddittorio dei pentiti, senza i testi di accusa e di difesa (ho rinunciato ai mie 70 testi): sono stato assolto con formula piena su richiesta della Procura. Non ho avuto il piacere di avere come testi d’accusa né il capo dei Ros di allora né quello della Dia, eppure avevano firmato i verbali. E pensare che i signori dell’antimafia avevano confuso l’ambasciatore Usa Peter Secchia con un camorrista...». Pasquale Casillo è ancora una persona solare, sorridente, alla mano. La persecuzione non ha nemmeno scalfito il suo carattere mite, pacioso. «Era un vero amico del calcio!», ci rammentava un signore incontrato in un bar di Foggia. Fu Casillo ad ingaggiare Zdenek Zeman per il Foggia calcio scivolato in C1: Casillo contribuiva di fatto alla costruzione d’una città per allenare i giovani, i giornali l’appellarono subito “Zemanlandia”, intanto svettava il “Foggia dei miracoli”. Così Zeman, dopo una stagione alla guida del Messina, non resisteva al nuovo ingaggio di Casillo, sempre nel Foggia, neopromosso in Serie B. Nel 1989 al “Foggia dei miracoli” fa solo ombra la Foggia che scende di tre punti nelle statistiche della disoccupazione, grazie alle assunzioni nella Casillo grani. 1993-1994, ultima stagione prima dell’addio di Zeman, il Foggia sfiora l’ingresso in Coppa Uefa, sconfitto (0-1) da un Napoli all’ultima giornata di campionato. Nonostante la persecuzione giudiziaria, Casillo non abbandona il campo. Nella stagione 2003-2004 all’Avellino calcio, Zeman ritrova il presidente Pasquale Casillo. Ed arriviamo al 20 luglio 2010, quando la famiglia dell’ormai storico presidente degli anni della ribalta (Pasquale Casillo) riacquista ufficialmente il Foggia, e naturalmente richiama come allenatore Zeman. «Il Foggia dei miracoli è tornato», urlano i tifosi per strada. Ma dopo aver continuato a pensare in grande, con l’approvazione di un accordo di programma per realizzare un nuovo stadio comunale e 1000 appartamenti a Foggia, la lobby dei costruttori mette in piedi mille paletti per far abortire il sogno. Oggi chi restituirà i posti di lavoro nella Casillo grani? Soprattutto chi risarcirà la famiglia Casillo di quasi 30 anni di malagiustizia? Oggi Foggia è l’ultima città d’Italia per Pil, ai tempi della Casillo grani se la batteva con le ridenti cittadine del centro-nord.

La provocazione di Casillo: "Io, sempre assolto, voglio Libera al mio fianco". Alla presentazione del libro di cui chiede il sequestro, scrive “Foggia città aperta”. E’ arrivato alla fine della presentazione. Si è seduto tra il pubblico. Tra i tanti accorsi per sentir parlare di ‘Criminali di Puglia. 1973-1994: dalla criminalità negata a quella organizzata’, il libro scritto da Nisio Palmieri ed edito dalle edizioni la meridiana. Completo scuro e aria di chi sta per sbottare. Per gridare tutto il suo disappunto nei confronti dell’autore che parla. Perché quello scritto da Nisio Palmieri è un libro che l’ha fatto arrabbiare, che ha risvegliato un passato che voleva dimenticare. Pasquale Casillo ieri sera non ha resistito. Del resto, la sua presenza nella Sala Marcone della Biblioteca Provinciale ‘La Magna Capitana’ di Foggia, era nell’aria. E alla fine si è materializzato. E’ apparso a tutti. Ed ha parlato. “Penso che mi abbiate riconosciuto" ha esordito l’ex re del grano. E dopo essersi alzato in piedi, ha preso la parola e davanti a tutti ha esposto il suo pensiero. “Ho chiesto alla procura di Trani il sequestro del libro perché Criminali di Puglia è un libro diffamatore, in cui mi vengono attribuiti delitti gravissimi che non ho mai commesso”. Poi, l’affondo verso l’autore, che nel suo libro ripercorre l’evolversi, l’insediarsi e l'espandersi della criminalità organizzata pugliese. “Non stimo affatto Nisio Palmieri, ma il suo libro mi ha dato l’occasione per raccontare nuovamente la mia vicenda personale, la vicenda giudiziaria di cui sono vittima e da cui sono sempre stato assolto”.  Difficile togliergli la parola. Più facile, come farà Elvira Zaccagnino qualche ora dopo, affidare allo scritto il proprio commento. La presidente delle edizioni La meridiana racconta: “Non sono di Foggia. Non conosco Casillo - scrive la Zaccagnino - se non dai giornali di oltre 30 anni di cronaca pugliese e nazionale. Sempre assolto. E' vero. Ma ieri il suo fare, il suo dire, il suo ammiccare erano tipici di un modus inquietante. Il suo minacciare e dichiarare amicizia, il suo chiedere a Libera di essere al suo fianco a testimoniare la sua innocenza toglievano il respiro. La cappa sulla città l'ho respirata in quella sala“. Non manca un riferimento a Daniela Marcone.  “A Daniela – evidenzia la Zaccagnino – Casillo dice anche di una lettera inviata da un sacerdote a don Luigi Ciotti che ha firmato la prefazione del libro. Noi lo sapevamo già. Daniela no. Quel prete in quella lettera scagiona Casillo da tutto, anche da ciò a cui non si fa riferimento nel libro e rimprovera Ciotti di essersi prestato a scrivere la Prefazione di un libro simile". E poi: “Casillo conclude dicendo che farà una conferenza stampa dove vuole accanto Daniela Marcone, che è referente di Libera ed è la figlia di Francesco Marcone, funzionario dello Stato ammazzato a Foggia, a testimoniare la sola verità: la sua".

"Mi chiedo da ieri sera - conclude la Zaccagnino - la ragione per cui 2 pagine di un libro fanno paura di fronte ai 56 e oltre processi da cui si è stati assolti. E mi chiedo come si faccia a fare di una città condominio una città comunità. La sfida è questa per aggrapparsi alla speranza. Condividere la cronaca di un momento forse è un modo per cominciare".

SE SGARRI A PARLARE, I MANETTARI TI QUERELANO.

Facci massacra Travaglio: querela tutti (pure un morto) e perde, scrive “Libero Quotidiano”. Mettetevi seduti. Il collega Marco Travaglio e il suo avvocato Caterina Malavenda hanno querelato la bellezza di 49 articoli del Giornale tutti insieme, più altri dei siti Dagospia e Macchianera: e cioè 27 articoli miei, 3 di Gian Marco Chiocci, 3 di Maria Giovanna Maglie, 2 di Alessandro Sallusti, 2 di Mario Giordano, 2 di Paolo Bracalini, 2 di Paolo Granzotto, più 1 a cranio scritti da Vittorio Feltri, Vittorio Sgarbi, Alessandro Caprettini, Francesco Cramer, Renato Farina, Cristiano Gatti, Gianni Pennacchi (che al momento della querela era morto da due anni) più la missiva di un lettore, Renato Niccodemo. Ho scritto «querelato» per comodità, ma era una causa civile (che punta direttamente ai soldi) la quale il 14 febbraio 2011 è stata intentata principalmente al Giornale e che mirava a 400mila euro di risarcimento più la pubblicazione della sentenza su tre quotidiani, a caratteri doppi del normale. I soldi dovevano ristorare la sofferenza di Marco Travaglio in quanto da marzo 2008 a dicembre 2009 - si legge - «con cadenza giornaliera è stato oggetto di attacchi diffamatori, insulti personali e notizie false e denigratorie». La causa-querela per diffamazione vantava 57 allegati e citava il sottoscritto quale «giornalista che si è distinto per numero e gratuità degli attacchi nei confronti di Travaglio... Una vera e propria campagna di stampa, della quale Facci rappresenta la punta di diamante, ma che trova in editorialisti e giornalisti il necessario compendio». In altre parole io avrei rivolto «epiteti offensivi» nonché «false informazioni circa vacanze trascorse con persona indicata come favoreggiatore di mafiosi», oltre ad averlo indicato «quale portavoce di uomini politici e magistrati». Com’è finita? Ci limitiamo ai dati secchi e ci asteniamo dal commentare: anche se la tentazione sarebbe forte. La sentenza ha negato un risarcimento e ha stabilito che anche «la richiesta di pubblicazione della sentenza deve essere rigettata», mentre le spese processuali s’intendono «integralmente compensate tra le parti». La sentenza è passata in giudicato perché sono scaduti i termini per l’impugnazione, ma questo dopo che le parti (gli avvocati) hanno raggiunto un accordo affinché ai querelanti siano rifuse le spese legali. Il giudice Serena Baccolini, il 5 marzo 2014, ha infatti deciso che «la domanda risarcitoria deve essere rigettata» in quanto Travaglio & Malavenda hanno chiesto soldi «senza argomentare in ordine alla sussistenza del pregiudizio patito», giacché «spetta a colui che chiede il risarcimento offrire la prova dell’evento dannoso e dei pregiudizi conseguenti». Cioè: fare una causa semplicemente ammassando articoli scritti contro Travaglio («introdurre un contenzioso caratterizzato da una pluralità di condotte») comportava perlomeno che il giornalista allegasse «l’incidenza lesiva dei singoli scritti...». Insomma, Travaglio doveva anche spiegarli, questi danni patiti, ergo descriverli al giudice: altrimenti qualcuno potrebbe pensare che volesse soltanto lucrare querelando dei suoi colleghi, gente che, oltretutto, non ha mai querelato lui, nonostante il linguaggio che adotta regolarmente. I legali dei querelati, su questo, si sono anche permessi di fare dei chiari esempi «di come Travaglio si rivolge a terzi», in particolare contro Facci, Feltri e Belpietro. Non dispiacerà se omettiamo. Va detto che, tra i 49 articoli descritti nella citazione, il giudice ha intravisto solo tre casi (3) in cui a suo dire è stato «violato il principio della continenza formale»: due sono miei (12 maggio 2008 e 1° maggio 2009) e uno è di Renato Farina (15 dicembre 2009). Eviteremo di ripetere le tre espressioni che il giudice ha ritenuto diffamatorie. Per signorilità, tuttavia, eviteremo di ripetere anche tutte quante le espressioni che, in 46 articoli su 49, non sono state ritenute diffamatorie. Poco importa che sostantivi all’apparenza innocui («fighetta», «scarabeo», «becchino») siano state giudicate «legittimo esercizio del diritto di critica». Altri contenuti però riportano a fatti accaduti o a questioni ricorrenti, e il contenuto della sentenza va comunque registrato: se non altro, anche qui, per legittimo esercizio del diritto di cronaca e di critica, e fermo restando che le sentenze non possono essere, al di là delle abitudini di Travaglio, gli unici parametri a cui guardare. In vari articoli dello scrivente, per esempio, si citava la vacanza trascorsa da Marco Travaglio con il maresciallo della Dia Giuseppe Ciuro, inquisito per favoreggiamento di un mafioso: secondo la sentenza, «il fatto è vero per pacifica ammissione anche dell’attore, e non è controverso che Ciuro sia stato arrestato nel novembre 2003 per favoreggiamento nei termini indicati. L’articolo nasce come risposta alle dichiarazioni di Travaglio sulle dedotte frequentazioni dell’on. Schifani... La circostanza riferita da Facci, sempre relativamente alla vacanza trascorsa da Travaglio in una struttura sottoposta ad amministrazione con sottrazione alla proprietà, è vera». E su questo non ci piove. Secondo il giudice, poi, si può scrivere che Travaglio è un «pregiudicato» (16 ottobre 2008: «Facci, accostando genericamente il termine “pregiudicato” a condanne penali e a condanne in sede civile, e con il ricorso del virgolettato, ne fa intendere ai lettori l’uso non tecnico, mentre del tutto irrilevanti risultano le dedotte inesattezze sulla prescrizione del reato in cui avrebbe potuto incorrere Travaglio»). Ma su questo, paradossalmente, non siamo neppure completamente d’accordo col giudice, anche se ci dà ragione: vero è che la sentenza non fa giurisprudenza - perché non ha il sigillo della Cassazione - ma ci lascia perplessi che un giudice possa valutare come meramente «non tecnica» l’adozione del termine «pregiudicato» per un condannato in sede civile, quale era Travaglio. Le condanne di Travaglio in sede penale sono un altro discorso. Ci sono poi, ancora, varie espressioni ritenute lecite dal giudice e che attengono soltanto a «un giudizio di Facci sull’attività di Travaglio nel mondo del giornalismo». Ripetere queste espressioni, ora, sarebbe stucchevole. In futuro, ci si limiterà a riusarle.

TOGHE ROSSE…E TOGHE BIANCHE.

Successe  più  o  meno  la  stessa  cosa  ai  tempi  di  monsieur  de Robespierre  e  dei  giacobini.  Fatto  fuori  il  re,  si  illusero  di  avere  la Francia  in  pugno.  Manco  per  niente.  Iniziarono  a  scannarsi  l’un l’altro.  Fin  quando  un  giorno  accompagnarono  Robespierre,  l’Incorruttibile, al  patibolo.  Gli  gridavano  dietro:  «Morte  al  tiranno». Avete  capito  la  storia?

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.

Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.

L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.

A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».

"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non  candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".

LA SINISTRA E LE TOGHE D’ASSALTO.

La sinistra e le toghe d'assalto: la vera storia del patto di ferro. La ricostruzione nel saggio di Cerasa: dalla nascita di Magistratura democratica a Mani pulite, gli eredi del Pci hanno reclutato le Procure. Diventandone succubi, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Ha cominciato a chiamarmi l'Anm. «Non sappiamo con chi parlare al Pd. Per favore, abbiamo bisogno della Ferranti alla Giustizia». E io ho risposto obbedisco ai magistrati, mica al Pd». La richiesta dell'Associazione nazionale magistrati, rivelata (e poi smentita, come da prassi) dal catto-dem Beppe Fioroni nei primi giorni del governo Letta, è stata accontentata. Alla presidenza della commissione Giustizia della Camera siede proprio lei, Donatella Ferranti, ex magistrato, e di una corrente non a caso, Md (Magistratura democratica), le toghe di sinistra. L'interlocutore più gradito all'Anm, a costo di un'invasione di campo plateale. Che però non sorprende perché conferma un dato storico, l'alleanza tra sinistra e magistratura italiana. Un «ammanettamento» che ha radici lontane, dalla nascita di Md - nel clima del '68 - che nella sua assemblea nazionale si assegna il compito di «costruire un rapporto costante e articolato con le forze politiche di sinistra», alla «questione morale» come bandiera del Pci di Berlinguer (delegata poi alle Procure), al pool di Mani pulite che opera già come un'unità politica. Un processo ricostruito da Claudio Cerasa nel suo Le catene della sinistra, facendo parlare i testimoni di questa mutazione genetica (doppia: dei giudici e della sinistra). Racconta Sergio D'Angelo, ex magistrato schierato con Pci e poi Ds, a lungo in Md da cui poi ha preso le distanze: «Dopo Tangentopoli la politica ha iniziato a guardare al magistrato come ad una guida spirituale. E i magistrati di sinistra, che esercitano un'egemonia culturale nel mondo delle procure, hanno sposato la causa della rivoluzione politica». Una minoranza («un settimo sui 9mila magistrati in servizio», dice D'Angelo) diventata maggioranza culturale dentro la corporazione, al punto da dominarla e influenzarne anche le sentenze. Ammette un altro magistrato, Francesco Misiani: «Non posso negare che nelle mie decisioni da giudice non abbia influito, e molto, la mia ideologia». Ma quando scatta l'ammanettamento tra sinistra e toghe? Cerasa lo domanda a due magistrati di un'importante Procura, che per riservatezza non si svelano. Ma rispondono e indicano due tappe. La prima, Tangentopoli: «Lì molti di noi si sono convinti di avere una missione salvifica, di dover non solo combattere la corruzione ma di redimere l'Italia. E la sinistra si illude di poter prendere il potere con la magistratura». Il secondo, Berlusconi: «Assegnare alla magistratura il compito di eliminare Berlusconi - racconta uno dei due pm - ha dato alla magistratura un potere enorme che forse neanche la magistratura intendeva ottenere. Ma di fatto, da quando Berlusconi è in campo, bisogna riconoscere che la magistratura di sinistra è diventata un azionista importante, per non dire prioritario, dell'universo del centrosinistra». La saldatura è visibile dappertutto. Nelle carriere politiche di molti pm d'assalto, a cominciare da quelli del famoso pool. Di Pietro ministro del governo Prodi, Gerardo D'Ambrosio senatore del Pd, Borrelli supporter della segreteria Veltroni. «Ma il mondo di centrosinistra è pieno di magistrati che una volta poggiata la toga all'attaccapanni si sono buttati in politica» ricorda Cerasa. I nomi più noti: Anna Finocchiaro, Luciano Violante, Michele Emiliano, Pietro Grasso, ma pure i senatori Casson, Carofiglio e Maritati, la deputata Pd Lo Moro e poi la Ferranti. Magistrato è anche un consigliere Rai indicato dal Pd, Gherardo Colombo, anche lui ex pool. Proprio il Colombo che anni fa sulla rivista Questione Giustizia teorizzò la missione politica della magistratura. «Ritengo - scriveva l'ex pm - impraticabile una prospettiva di ritorno alla terzietà (per la magistratura, ndr), che risulterebbe soltanto apparente». Il giudice insomma, riassume Cerasa «ha il compito, quando necessario, di sostituirsi all'opposizione parlamentare». Il magistrato diventa militante, e la sinistra si consegna - manette ai polsi - alla sudditanza verso le Procure. Chi ha analizzato a fondo questo fenomeno è Violante, che da ex magistrato ha conosciuto entrambi i percorsi e il loro intreccio pericoloso. Il margine di libertà che i pm più schierati politicamente hanno per orientare un'inchiesta è enorme, dice Violante intervistato nel libro. I cardini sono due: l'obbligatorietà dell'azione penale (che diventa «uno scudo per giustificare indagini spericolate, fragili, ma efficaci sul piano politico») e poi «il controllo di legalità», cioè la funzione di ricerca del reato, di controllo della legalità, che spetta «alla polizia, allo Stato, alla politica». L'effetto è la sinistra che si ammanetta da sola al giustizialismo, la politica che si consegna alle Procure. Ai magistrati, aggiunge l'ex presidente della Camera, che «non ne rispondono a nessuno».

Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 -  che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Francesco Caringella: "Troppi pm si sentono divi", scrive Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. Oggi nelle librerie di tutta Italia esce un nuovo romanzo. «Dove è la notizia?» vi chiederete. Eccola: questo intrigante legal thriller intitolato Non sono un assassino (Newton Compton Editori) è scritto da un giudice che con gli occhi disincantati del tecnico del diritto analizza il processo penale e redige una sentenza definitiva: tale rito in Italia  è fallito. Non solo per colpa dei magistrati. L'autore si chiama Francesco Caringella, ha 49 anni, è barese ed è un membro del Consiglio di Stato. Ha vinto ogni genere di concorso (da commissario di polizia, da magistrato, da consigliere di Stato) e ha scritto manuali per insegnare ai ragazzi a emularlo. Intervistare Caringella consente di rileggere alcune pagine della nostra storia recente. A 26 anni è diventato giudice della settima sezione penale di Milano negli stessi giorni in cui esplodeva Mani pulite. Lui si insediava e il «mariuolo» Mario Chiesa veniva arrestato. Caringella a 29 anni fu il giudice estensore del mandato di cattura nei confronti di Bettino Craxi. Ed ecco la prima sorpresa.

«Dopo vent’anni mi chiedo se quella decisione sia stata giusta. E ho qualche rimorso. Non intendo dire che Craxi fosse innocente. La Cassazione ha confermato la sentenza di condanna. Ma mi chiedo se non ci potesse essere più umanità nei confronti di un uomo sconfitto. Se il legislatore e il potere giudiziario non potessero trovare una soluzione per consentirgli di curarsi in Italia e di affrontare il processo da uomo libero. O quanto meno da uomo sano. Averlo costretto a rimare in Tunisia gli ha probabilmente accorciato la vita».

Beh, sembra l'epitaffio di Mani Pulite.

«No. L’inchiesta era sacrosanta, ma ci sono state alcune forzature. Forse i magistrati non potevano prevedere il consenso popolare che accompagnò il loro lavoro e alcuni sono stati ubriacati da quell’improvviso successo».

Ritiene che l'indagine avesse fini politici? Tre dei pm di Mani pulite sono poi diventati parlamentari o ministri, due con la sinistra e una con Forza Italia. 

«Non penso. Credo che la lettura giusta sia quella psicologica. Alcuni pm si sono trovati nei panni dei divi e hanno dovuto fare i conti con la loro vanità e le loro ambizioni personali». 

Lei ha conosciuto tutti i pm di Mani pulite. Da chi non avrebbe voluto essere inquisito?

«Da Antonio Di Pietro. Ho letto i suoi interrogatori e ho capito che con quel suo fare poliziesco avrebbe fatto confessare pure un innocente, persino un santo. Ma era anche simpatico. Mi ricordo che una volta si rivolse alla corte con un saluto militare, battendo i tacchi».

Nel suo libro mi ha colpito la citazione dal libro di Dante Troisi, Diario di un giudice. Leggo: "Sono la sentinella e l'aula di udienza è la torretta da cui prendo la mira per colpire chi mi capita a tiro. Proverò così il piacere nel falciare le vite delle persone senza trascurare di lasciare indenne qualcuno per goderne la meraviglia".

Ha incontrato colleghi del genere?

«Per fortuna pochissimi. Forse uno solo. Era pugliese ed entrava in aula con il cipiglio di chi dovesse stanare gli ultimi giapponesi nell’arcipelago delle Okinawa. Per lui l’imputato era un nemico da sconfiggere».

Il potere che ha in mano un giudice non rischia di dare alla testa?

«Sicuramente. E per capire se i miei colleghi siano stabili psicologicamente ci sono i mesi di uditorato. Ma rarissimamente viene chiesta la decadenza di un neo magistrato. Con conseguente pregiudizio per la credibilità del sistema».

Ci sono toghe in cura psichiatrica che continuano a esercitare la propria funzione.

«Sarebbero necessari controlli periodici non solo sulla professionalità, ma anche sull’equilibrio dei magistrati».

Non svelerò il finale, ma di certo il suo giallo non fa una buona pubblicità al processo penale.

«Purtroppo la riforma del 1989 in Italia è fallita. Si pensava che grazie ai riti alternativi pochi processi sarebbero arrivati a dibattimento, snellendo i tempi della giustizia. È successo il contrario. Quasi tutti gli imputati scelgono di andare in aula e così invece di avere processi brevi con testimoni caldi, che ricordano bene i fatti su cui vengono interrogati, abbiamo processi lunghi con testimoni freddi».

Lei scrive che il "giudice conosce fatti impalliditi dal tempo nei pochi giorni d’udienza a disposizione".

«In Italia, per un eccesso di garantismo, abbiamo un secondo grado che è la replica del primo. A cosa serve? Allunga i tempi e ribaltando le sentenze crea sconcerto nei cittadini. Siamo l’unico paese con tre gradi di giudizio e due diversi collegi che fanno lo stesso lavoro non avvicinano alla verità, ma allontanano. Dopo la condanna in appello per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, mi ha telefonato persino mia madre per chiedermene conto».

Che cosa pensa dei processi mediatici?

«Il peggio possibile. Non immagina quanto possano condizionare un magistrato che si trova a decidere su un fatto già giudicato mille volte in tv da colleghi togati, giornalisti, esperti vari. L’animo umano ha la tendenza a uniformarsi e una sentenza già scritta dai media è dannosissima».

Torniamo alla questione del giudizio d'appello. Quando una decisione viene ribaltata si ha la sensazione che la verità giudiziaria non esista…

«Purtroppo è così. Nel libro scrivo che tale verità è solo una bugia raccontata meglio. Forse sarebbe meglio dire che è la verità più verosimile. Duque da Rivas diceva che “in questo mondo traditore non c'è verità né menzogna. Tutto dipende dal colore del vetro attraverso cui si guarda”».

Dunque ammette l'esistenza di una magistratura politicizzata.

«Il colore del vetro per me dipende anche da bugie, pregiudizi ed errori, non solo dalle ideologie. Mi domando sono giuste le sentenze, per parlare solo delle ultime, che hanno assassinato politicamente Silvio Berlusconi e Luigi De Magistris? Rispondo che non esiste la sentenza giusta o sbagliata in senso assoluto. Ogni giudizio è opinabile. Resta solo la speranza che sia corretto».

Nel romanzo sostiene che un processo è una specie di partita di poker in cui tutti gli attori mentono e il giudice deve saper cogliere la verità in mezzo a tanti bluff.

«È vero. Non fanno eccezione l’imputato innocente e il testimone sincero che mentono, per dirla con il libro, “perché desiderano essere creduti e pensano che la menzogna sia più seducente della verità”. La verità per essere verosimile deve essere mescolata a un po’ di menzogna».

Un giudice, in mezzo a tutti questi inganni, come si districa?

«Quando ha un dubbio non aspetta altro che essere sedotto da una bella bugia, da quella di un pm avvenente o di un avvocato particolarmente eloquente. Anche per noi è difficile resistere a un'oratoria convincente o a una bellezza sconvolgente».

Sta dicendo che in un processo conta anche l'aspetto esteriore?

«Certo. Pure i giudici sono uomini e per di più fallibili. Io nel romanzo descrivo una pm seducente e il suo profumo di sandalo».

Il personaggio è ispirato a un magistrato esistente?

«Mi ricordava una collega di Milano, ma non posso dirle altro (sorride, ndr) se non che chiedeva sempre la condanna degli imputati…»

Il lettore sarà sconcertato da questa alea nel giudizio…

«Ma io sto parlando di quei pochi processi da fascia grigia, in cui le prove non sono schiaccianti».

In questi casi come ha giudicato?

«Nel 50% ho assolto e nell’altro 50 ho condannato».

Lei scrive anche che per un innocente è meglio essere giudicati da una donna e per un colpevole da un uomo. Perché?

«Le signore in toga quando esprimo questa mia teoria si offendono. In realtà è un complimento. Le colleghe mediamente sono più preparate e puntigliose e per questo è più difficile che sbaglino. Ma quando ritengono di aver le prove della colpevolezza non fanno sconti».

La sua tesi che le donne difficilmente puniscono un innocente sembrerebbe contraddetta dal processo Ruby…

«Ha ragione: in questo caso Berlusconi è stato condannato da tre donne e poi assolto in secondo grado. Ma questa potrebbe essere l’eccezione che conferma la regola».

Ha mai dovuto giudicare Berlusconi?

«Una volta, anche se ho lasciato la corte prima della fine del processo. Mi ricordo che venne in aula e la sua presenza fu molto teatrale. Passò l’intera udienza a sfogliare il codice penale».

Lei è il terzo magistrato pugliese che si cimenta nel noir, dopo Gianrico Carofiglio e Giancarlo De Cataldo. Tra voi chi è il più bravo come scrittore?

«Se devo scegliere uno solo, voto per me».

E come magistrato?

«Uguale, ma di questo sono più sicuro».

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

DA MANI PULITE A TOGHE PULITE.

Denunce e faide: i magistrati peggio dei politici, scrive Alessandro Da Rold su “L’Inkiesta”. Da Mani Pulite a Toghe Pulite. A distanza di vent’anni da Tangentopoli, quando notorietà e consensi erano agli apici, la magistratura italiana vive uno dei momenti più difficili della sua storia, spaccata tra le correnti, mal digerita agli occhi dell’opinione pubblica per la lungaggine dei processi e per i costi, in una guerra senza esclusione di colpi tra articoli sui giornali e persino indagini della stessa magistratura. Tra due settimane, il 25, 26 e 27 marzo, ci saranno le primarie per nominare i candidati al rinnovo del Consiglio Superiore della Magistratura. La campagna elettorale è in corso, tra spamming via mail, aperitivi e comizi nei vari tribunali, nello stile perfetto della nostra politica. C’è chi a bassa voce se ne lamenta, cercando di evitare di essere coinvolto. E a quanto pare sono tanti a cestinare missive di ogni tipo, dove si tengono «diari» della campagna elettorale o si citano frasi a effetto per conquistare qualche voto in più. Tre le correnti in campo: Unicost (sorta di Democrazia Cristiana delle toghe), Magistratura Indipendente (più vicina alla destra) e Area (zona centrosinistra). C'è poi il comitato Altra Proposta che in pratica si oppone a tutte le correnti e vorrebbe nuove regole di rappresentanza dell'autogoverno dei magistrati. Nel mentre l’attuale Csm deve nominare il nuovi procuratori capo di Torino, Bari, Salerno e Firenze. Alcune sedi sono vacanti da mesi, ma l’incrocio elettorale è talmente micidiale, tra logiche correntizie e di potere, che è stato tutto spostato a data da destinarsi. Si parla di inizio aprile, ma lo stesso vicepresidente del Csm Michele Vietti non ha ancora dato un data precisa. Ad aggiungere benzina sul fuoco, in questi giorni, si è messo Alfredo Robledo (vicino a Magistratura Indipendente), procuratore capo del pool contro i reati della pubblica amministrazione di Milano, che ha denunciato al Csm il Capo della Procura Edmondo Bruti Liberati perché avrebbe «turbato» e «turba la regolarità e la normale conduzione dell'ufficio»: una bomba atomica, scagliata contro uno degli storici leader di Magistratura Democratica, ora confluita in Area, ma soprattutto contro Francesco Greco capo del pool per reati finanziari e protagonista proprio di Tangentopoli con l'ex pm Antonio Di Pietro. Il fascicolo non è ancora arrivato sulle scrivanie di palazzo dei Marescialli, ma molti consiglieri hanno letto la notizia sul Corriere della Sera. Nei prossimi giorni la denuncia sarà girata con tutta probabilità alla prima commissione, quella addetta appunto a «rapporti, esposti, ricorsi e doglianze concernenti magistrati».  Al tribunale di Milano parlano già di guerra senza esclusioni di colpi. Il clima è irrespirabile, considerando che l’ufficio di Robledo è a pochi metri da quello di Bruti Liberati. Quest’ultimo, intercettato dai cronisti, ha preferito non commentare, idem per Greco, storico pm di Mani Pulite, adesso nel calderone della denuncia, già accusato di non aver indagato su diversi reati fiscali e in particolare su Sea. Del resto, Robledo, in questo documento di 12 pagine, parla di violazione dei «criteri organizzativi» e racconta nel dettaglio diversi punti di rottura con il resto della procura. Come quando nel 2011, in seguito allo scoppio dell’indagine sull’Ospedale San Raffaele che avrebbe poi travolto la giunta lombarda di Roberto Formigoni, fu proprio Bruti Liberati, secondo Robledo, a sottolineare «che si trattava di una situazione molto delicata, essendo in corso trattative sulle quali non avrebbe voluto che le indagini influissero in qualunque modo». È un attacco pesante che avviene nel cuore di quel Palazzaccio che vent’anni fa si forgiava dei galloni per aver debellato la corruzione nella politica italiana, indagando sul Psi di Bettino Craxi e la Dc di Arnaldo Forlani. Ma da allora pare quasi che l’incantesimo della magistratura con i cittadini si sia spezzato. I sondaggi degli ultimi anni, spesso molto sporadici, sono in picchiata. Più del 50% degli italiani sostiene di non credere più nella giustizia. Non solo. I dati europei non sono confortanti. La giustizia civile italiana è la più lenta d’Europa dopo quella maltese e la prima per casi pendenti che attendono ancora una sentenza definitiva. È il risultato che emerge dal Quadro di valutazione Ue della giustizia 2014. «Sono preoccupata per quei Paesi che sono in fondo alla lista”, e dove magari “non ci sono progressi ma regressi”, ha affermato la commissaria alla Giustizia, Viviane Reding. Non solo. Per finanziare il sistema giudiziario in Europa si spendono 57,4 euro pro capite, in Italia la spesa arriva a 73 euro, soltanto in Svizzera e nel Nord Europa si spende di più, per un sistema più snello che pare funzionare. La nostra nazione ha il maggior numero di casi civili pendenti, ben 4 milioni e 986 mila. I tempi sono lunghissimi: in media circa 600 giorni per una sentenza solo di primo grado. Il quadro, in sostanza, non è per nulla confortante. E questo si aggiunge a faide su faide, in particolare proprio a Milano, dove i magistrati continuano a darsele di santa ragione. A ottobre, prima di Bruti Liberati e Greco, è stato il turno della Boccassini. «I giudici di provincia non capiscono nulla di mafia» disse durante un convegno alla Bocconi l’11 ottobre. Apriti cielo. Le toghe di provincia decisero di intervenire con un esposto sempre al Csm chiedendo all'organo di autogoverno delle toghe, di valutare le affermazioni a loro avviso «gratuite», «denigratorie» e «generiche» pronunciate da Ilda la Rossa. Da Milano a Torino fino a Firenze e Napoli è un brulicare di veleni e sospetti. Sotto la Mole Antonelliana ha da poco lasciato il posto Giancarlo Caselli, non senza polemiche. A novembre lasciò Magistratura Democratica dopo averla fondata e dopo anni di militanza. Il motivo fu un contributo dello scrittore Erri De Luca al giornale della corrente togata cosiddetta «rossa». In modo velato si parlava della rivoluzione degli anni ’70 e si dava solidarietà ai No Tav della Val Susa, che sono stati indagati e arrestati proprio dalla procura allora guidata da Caselli (oggi in pensione) lo scorso anno per le violenze al cantiere e, per alcuni, atti di terrorismo. Il magistrato di Alessandria se ne andò sbattendo la porta. A tutto questo si aggiungano pure le inchieste piovute sullo stesso Vietti e sugli ex magistrati che sono stati coinvolti nello scandalo Finmeccanica, con al centro una commessa da 550 milioni di euro per 12 elicotteri in India. L’ex presidente della corte d’Appello di Milano Giuseppe Grechi e l’ex presidente della corte d’Appello di Venezia Manuela Romei Pasetti, diventati consulenti di piazza Montegrappa, finirono nel tritacarne, indagati in un procedimento connesso. Il giudice per le indagini preliminari di Busto Arsizio, Bruno Labianca, scrisse: «Gli indagati, informati dell’esistenza di una indagine giudiziaria si sono attivati a porre in essere condotte di sovvertimento della genuinità delle prove, anche con tentativi di pretesa modifica della linea operativa dell’ufficio inquirente che procede e con l’asservimento o, quanto meno la compiacenza presso i maggiori organi di stampa». L'ennesima faida di una magistratura ormai allo sbando.

CHI CONTROLLA I CONTROLLORI?

Fiamme Gialle travolte dagli arresti ai vertici. Riemerge il caso: chi controlla i controllori? Alti ufficiali della Guardia di Finanza fermati, perquisiti e indagati che gettano ombre sull'impegno dei militari onesti. E, come venti anni fa, si ripropone il problema della prevenzione: come impedire che i funzionari corrotti facciano carriera, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Chi controlla i controllori? Per la seconda volta in pochi giorni, le istruttoria coinvolgono ufficiali di alto livello della Guardia di Finanza. Ieri è stato arrestato per corruzione il colonnello Fabio Massimo Mendella, attualmente comandante delle Fiamme Gialle a Livorno, ma soprattutto è stato perquisito l'ufficio del numero due del Corpo, il generale Vito Bardi, anche lui indagato. Non era mai successo prima. Il comando generale della Finanza non era stato perquisito nemmeno nella tempesta del 1994, quando Mani Pulite coinvolse decine di graduati e ufficiali che in Lombardia avevano alimentato un sistema di bustarelle. La scorsa settimana, la piena del Mose aveva investito con violenza l'istituzione. L'ex generale Emilio Spaziante è stato arrestato, con un'accusa ancora più grave delle bustarelle per chiudere un occhio sulle verifiche fiscali: secondo i magistrati avrebbe ottenuto oltre due milioni di euro per garantire alla macchina di quattrini veneziana la protezione dalle inchieste penali. Una circostanza mai accaduta durante la vecchia Tangentopoli. Con lui sono stati perquisiti Mario Forchetti, ex generale a tre stelle nominato garante per la trasparenza degli appalti Expo, e il colonnello Walter Manzon, ex comandante di Venezia: entrambi non risultano indagati. Spaziante è stata fino a pochi mesi fa una figura di primissimo piano, arrivata fino alla carica di capo di stato maggiore e comandante dell'Italia Centrale. Un ufficiale a dir poco discusso. Le intercettazioni del faccendiere Valter Lavitola avevano rivelato le pressioni nel 2009 su Silvio Berlusconi per farlo arrivare al vertice del Corpo. «No, non per fare il numero uno. Per fare una mediazione e lui fare il numero due», diceva Lavitola al premier: «La mediazione la sta facendo il ministro (dell'Economia Giulio Tremonti, ndr) ed è quasi fatta. Lei mi autorizzò a parlargliene. Lui mi ha detto che teneva tutto fermo fino a quando lei non si muoveva e noi si rischia il caso che da persone proprio amiche amiche amiche rischiamo insomma quanto meno che gli diventiamo antipatici». Il generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di finanza indagato per corruzione, intervistato a Bari nel 2012 spiega i principi del finanziere modello: ''Un cittadino non avulso dal contesto che lo circonda, di sani principi e pronto ad affrontare le difficoltà'' (immagini da AntennaSud). Nonostante questo, Spaziante è riuscito nel 2013 ad arrivare alla poltrona caldeggiata da Lavitola, grazie agli automatismi che regolano le carriere. Poco dopo è esplosa un'altra inchiesta, questa volta della procura antimafia di Roma, che ha registrato gli interventi sull'ufficiale di un'industriale di Ostia per ottenere un documento, con cui realizzare un falso e farsi assegnare un bene demaniale. Una vicenda in cui compariva anche un ruolo dello studio professionale di Giulio Tremonti, chiamato a mediare su un finanziamento da 100 milioni di euro che doveva essere stanziato da Unipol. Guarda caso, la stessa società da cui pochi mesi fa Spaziante ha ottenuto una consulenza dopo avere lasciato l'uniforme. Adesso l'ex generale è agli arresti. Secondo gli accertamenti, condotti dalle stesse Fiamme Gialle, Spaziante e la sua convivente hanno complessivamente dichiarato entrate per poco più di 2 milioni di euro, mentre sono state scoperte uscite pari a quasi 3,8 milioni. Scrivono i pm: «In questo caso emerge inequivocabile l’elevatissimo tenore di vita. Dalla scheda patrimoniale risultano auto sportive, barche di lusso, villa con piscina, prestigiosi immobili, nonché la frequentazione di costosissimi alberghi per i suoi spostamenti in Italia. Soggiorni settimanali a Milano in hotel da mille euro a notte». E durante le perquisizioni nella residenza della sua convivente, gli investigatori hanno trovato 200 mila euro con banconote sporche di terra che sembravano essere state appena dissepolte. La correttezza dell'istituzione non viene messa in discussione. Sono i militari delle Fiamme Gialle a condurre le istruttorie più delicate del momento. Ed è stato proprio un ufficiale, il colonnello Renato Nisi, a impedire che Spaziante venisse a conoscenza della rete di microspie che hanno smascherato la ragnatela di tangenti dell'Expo. Anche il procuratore capo di Napoli, Giovanni Colangelo, che ha ordinato la perquisizione nel comando generale, ha detto: «Confermiamo l'assoluta fiducia nel lavoro della Guardia di Finanza, ovviamente a partire dai suoi vertici». Gli ultimi sviluppi mostrano però con chiarezza l'esistenza di un problema di prevenzione, che riguarda tutta la pubblica amministrazione. Quali strumenti esistono per impedire che la corruzione dilaghi? La questione era stata posta venti anni fa, quando Mani Pulite aveva fatto finire in carcere decine di militari e di funzionari degli uffici fiscali. Allora erano stati proposti organismi di controllo, banche dati sui beni e altre iniziative, rimaste lettera morta. E adesso tutto si ripropone. Uno dei punti chiave, che anche in questo caso riguarda l'intera pubblica amministrazione, è l'assenza di efficaci meccanismi disciplinari per valutare il comportamento dei funzionari. Prima delle sentenza definitiva, non vengono quasi mai presi provvedimenti. Ma il verdetto della Cassazione arriva dopo parecchi anni e la prescrizione cancella quasi sempre le ipotesi di reato per i colletti bianchi. Come ha evidenziato due mesi fa un'inchiesta de “l'Espresso”, in Italia l'impunità per la corruzione è praticamente garantita. E nel frattempo le carriere proseguono, fino ai piani più alti delle istituzioni. Figure come Spaziante o come Bardi erano già state segnalate a vario titolo in diverse istruttorie: nell'estate 2011 entrambi erano citati nelle intercettazioni sulla cosiddetta P4. All'epoca i pm avevano ricostruito una fuga di notizie sulle indagini, che aveva permesso di mettere in guardia Gianni Bisignani, uomo chiave del potere romano. Ma non c'erano state ripercussioni. Così come nulla è stato fatto per arginare le frequentazioni molto interessate tra ufficiali e politici, in quella commistione tra affari e nomine che è diventata il pilastro della nuova Tangentopoli, da Milano a Venezia. Ora è necessario che questa nuova lezione si trasformi in misure concrete, per evitare che accada ancora. E per impedire che la corruzione di pochi getti ombre sull'attività di centinaia di militari delle Fiamme Gialle, che tutti i giorni si impegnano con rigore e onestà per difendere quel che resta della legalità nel nostro Paese.

Expo all’italiana: tangenti, pizzini e liti in procura. Scrive Tommaso Caldarelli su “Giornalettismo”. Caos totale a Milano: spuntano nuovi appalti truccati. E in Tribunale i pm litigano. Expo Milano 2015, il lavoro per i magistrati sembra non avere fine: spuntano nuovi guai giudiziari, nuovi appalti truccati e nuove tangenti. Come se non bastasse, davanti al Consiglio superiore della Magistratura è compiutamente uscita fuori la frattura all’interno della Procura di Milano, con il Procuratore Generale Edmondo Bruti Liberati che replica alle accuse del suo vice Alfredo Robledo, sostenendo che egli abbia intralciato il corso delle indagini. Insomma, veleni in procura: ne abbiamo parlato ieri raccontando della guerra di note inviate al Csm che in qualche modo dovrà dirimere la patata bollente. Lo scontro fra i due cavalli di razza, Bruti Liberati e Robledo, con il primo che accusa il secondo di intralcio alle indagini (ricorda Paolo Colonnello sulla Stampa: “Robledo pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un’attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati, ha disposto analogo servizio delegando ad altra struttura della Guardia di Finanza” con il rischio che il pedinato scoprisse di esserlo. Solo l’abilità del personale operativo ha scongiurato questo rischio) e il secondo che accusa il primo di tenerlo fuori dall’indagine, attraverso un esposto al Csm che ha fatto finire, però, tutte le carte dell’inchiesta Expo sui giornali e sui settimanali come Panorama ben prima che fosse opportuno. Intanto i pubblici ministeri scoprono nuovi appalti truccati. Ancora il giornalista della Stampa racconta che l’imprenditore Enrico Maltauro da Vicenza, il principe delle tangenti della vicenda Expo Milano avrebbe versato a Giuseppe Cattozzo, esponente dell’UdC ligure, qualcosa come un milione di euro complessivamente, in più forme: contanti, fatture false, una bella Audi da 60mila euro. La domanda è: “Se Maltauro per un paio di appalti aveva versato quasi un milione e promessi altri 600mila euro, gli altri imprenditori per gli appalti sulal Sanità lombarda che rappresentano oltre il 90% di questa inchiesta, quanto hanno pagato?”. Sembra, moltissimi soldi, ed è per questo che una rogatoria con la Svizzera è già stata avviata. E con ogni probabilità si aprirà anche una “fase due dell’inchiesta”, con “file di imprenditori schierate in procura per confessare corruzioni e tangenti”. Secondo il sondaggio della Stampa “si è aperta una nuova tangentopoli”; ma non è tutto. Dall’ordine di arresto del manager Expo Angelo Paris risulta che la cupola degli appalti (i magnifici tre: Frigerio, Grillo, Greganti) aveva accesso libero ad Arcore, da Silvio Berlusconi, e buoni agganci a Palazzo Lombardia da Roberto Maroni: con sempre nelle mani i famosi “pizzini” sui quali sono annotati gli uomini delle tangenti e le percentuali da esigere. L’uomo del contatto è Gianni Rodighiero, collaboratore di Sergio Frigerio, che in più occasioni è ricevuto ad Arcore – e in un caso, lo stesso Frigerio è con lui: principalmente “di lunedì e di venerdì”, dicono i protagonisti dell’inchiesta; solo che, in tempi più recenti, bisogna stare più attenti, si dicono al telefono, per scansare “il cerchio magico di Silvio Berlusconi”. Per quanto riguarda Roberto Maroni e la regione, le carte riportate da Pietro Colaprico ed Emilio Randacio su Repubblica sembrano dimostrare che Roberto Maroni è stato agganciato una volta “per caso” e sarebbe stato proprio il presidente a sollecitare Frigerio “per il lavoro sulle vie d’Acqua”, aggancio che poi lo stesso Frigerio si rivendica, al telefono. Il figlio, Frigerio Gianluigi, “risulta essere un funzionario di Regione Lombardia”: insomma, Frigerio, in regione, possiede “maniglie solide” di cui non esita a vantarsi ogni volta che è possibile.

Una nuova tangentopoli su Expo 2015. Il blitz, scattato alle prime luci dell'alba del 8 maggio 2014, ha portato all'arresto di sette persone, tra cui il top manager Paris e l'ex parlamentare Grillo ma anche vecchie conoscenze come Greganti e l'ex dc Frigerio. L'accusa è di aver pilotato e gonfiato gli appalti dell'Esposizione universale, scrive “Panorama”. Primo Greganti, Gianstefano Frigerio, nomi che riportano indietro di oltre vent'anni le lancette dell'orologio della cronaca giudiziaria e, in parte anche di quello del Paese. C'è poi quello di Luigi Grillo, ex parlamentare ligure che i suoi guai giudiziari (per poi essere assolto in appello) li ebbe in tempi più recenti, con la scalata della Banca popolare italiana ad Antonveneta nel 2005, quella dei "furbetti del quartierino".  Greganti, Frigerio e Grillo ora sono in carcere per una complicata vicenda di appalti, legata anche ad Expo: Frigerio quale "capo, promotore ed organizzatore dell'associazione, con funzioni direttive e di coordinamento degli altri associati". Greganti e Grillo quali "organizzatori incaricati dell'attività di raccordo con il mondo politico, sia con finalità di copertura e protezione in favore dell'imprese di riferimento, sia con finalità di appoggio ai pubblici ufficiali coinvolti nelle procedure di appalto allo scopo di assicurare agli stessi sviluppi di carriera nell'ambito degli enti e delle società pubbliche quale corrispettivo del trattamento preferenziale riservato alle imprese". Tradotto: associazione a delinquere, turbativa d'asta, corruzione. Il blitz, imponente, che ha coinvolto oltre 200 finanzieri,  è scattato a Milano, alle prime luci dell'alba. Gli ordini di cattura sono sette. L'accusa, sostanziata anche da alcune intercettazioni definite clamorose dai pm milanesi, è quella di turbativa d'asta e associazione per delinquere per pilotare e gonfiare i prezzi degli appalti pubblici, tra cui quelli di Expo 2015. Tra coloro che sono stati raggiunti dall'ordine di custodia cautelare ci sono nomi pesantissimi. C'è Angelo Paris, 48 anni, il top manager di Expo. C'è l'ex dc ed ex parlamentare di Forza Italia, Luigi Grillo, passato armi e bagagli nelle fila dell'Ncd di Angelino Alfano.  Ci sono  vecchie conoscenze di Mani Pulite che avevamo dimenticato, come Primo Greganti,  il compagno G, l'ex cassiere del Pci che rifiutò ogni collaborazione con i magistrati nei primi anni 90. O Gianstefano Frigerio, l'ex segretario regionale della Democrazia cristiana, finito già allora in carcere con un passato anche come parlamentare di Forza Italia, arrestato insieme al suo collaboratore Sergio Cattozzo, ex segretario Udc Liguria. E ancora, il costruttore di riferimento del gruppo, il vicentino Enrico Maltauro (che versava secondo i pm «30-40mila euro al mese» in contanti o come fatturazione di consulenze alla «cupola degli appalti»);  Antonio Rognoni, di Infrastrutture Lombarde, la stazione appaltante voluta da Roberto Formigoni, già accusato - nell'ambito della stessa inchiesta - di aver pilotato appalti a favore di aziende amiche e gonfiato di almeno due milioni di euro di spese ingiustificate (mascherate come consulenze) i lavori di ristrutturazione dell'ospedale San Gerardo di Monza. Un gruppo di immobiliaristi, politici e faccendieri, secondo la ricostruzione dei pm  Claudio Gittardi (pool antimafia) e Antonio D’Alessio (anticorruzione), che - muovendosi per tempo sulla base delle informazioni riservate cui non avevano accesso i concorrenti - si intascavano percentuali di tangenti, si aggiudicavano grazie alle loro amicizie appalti pubblici chiave (come quello di Expo per l'assegnazione delle case per le delegazioni straniere o il progetto definito 'Le vie d’acqua') gonfiandone i prezzi e azzerando la concorrenza pulita. Avevano anche una sede, il circolo culturale «Tommaso Moro», che per dirla con Bruti Liberati «nemmeno la più fervida immaginazione avrebbe immaginato». L'inchiesta (un faldone di 600 pagine in cui compaiono anche i nomi, ma non sono indagati, di Maurizio Lupi, Silvio Berlusconi, Pierluigi Bersani e Cesare Previti) su cui i pm lavoravano da mesi ha subito un'accelerazione dopo che sono state registrate alcune intercettazioni compromettenti che sarebbero giunte fino ai primi mesi del 2014. "Io vi do tutti gli appalti che volete se favorite la mia carriera" avrebbe detto Angelo Paris, il direttore pianificazione e acquisti di Expo 2015 parlando con alcuni componenti dell’associazione per delinquere finiti agli arresti. Ne emerge, dagli incartamenti, una «cupola degli appalti» in Lombardia, con un meccanismo operativo definito dai pm molto semplice che puntava a intascarsi percentuali di guadagno sugli appalti pubblici chiave non solo di Expo ma anche di altri grandi lavori pubblici: quando c’era una gara d’appalto giudicata interessante, l’associazione diretta da Frigerio avvicinava il pubblico ufficiale competente, utilizzando gli appoggi e le amicizie politiche che poteva vantare. Al sodalizio criminale venivano comunicati in anticipo i bandi di gara interessanti, con le caratteristiche utili da presentare per poterseli aggiudicare rispetto a eventuali concorrenti. La squadra operava insomma «in modo coordinato», coinvolgendo aziende legate a diversi partiti politici nei quali trovavano protezione. La promessa di carriera e promozione  - secondo i pm - diventava la leva fondamentale per coinvolgere i nuovi adepti. Tra i lavori pubblici su cui il gruppo aveva rivolto le sue mire ci sono anche  (per un valore di bandi di gara di 323 milioni) i lavori della Città della Salute di Sesto San Giovanni, gli appalti e le presunte finte consulenze gonfiate per i lavori di ristrutturazione dell'ospedale San Gerardo di Monza, la Pedemontana  e la gestione dei servizi di supporto non sanitari rivolti alle due Fondazioni IRCCS Carlo Besta e Istituto Nazionale dei Tumori. «La politica non metta becco sulle indagini»  ha dichiarato Matteo Renzi a Genova, nell'ambito di un'iniziativa di Ansaldo Energia. 

La confessione di mister Expo. «Appalti in cambio di protezioni». Prime ammissioni di Paris, il manager chiave dell'inchiesta: «E' vero, ho favorito Frigerio e Greganti, perché ero isolato e mi servivano appoggi politici per la carriera. Ho sbagliato, ora mi dimetto». Oggi due interrogatori paralleli per l'industriale Maltauro e il politico Udc Cattozzo, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Prima svolta nell'inchiesta sugli appalti dell'Expo. Angelo Paris, il direttore tecnico arrestato per associazione per delinquere, ha confessato già nel primo interrogatorio i fatti fondamentali che gli vengono contestati dai pm milanesi: ha ammesso di aver fornito informazioni riservate sugli appalti dell'Expo alla cosiddetta “cupola” politica guidata dall'ex democristiano poi berlusconiano Gianstefano Frigerio e dall'ex comunista poi democratico Primo Greganti, entrambi ora in carcere. Paris ha anche confermato di aver chiesto, in cambio, l'appoggio dei due faccendieri politici per la sua futura carriera di manager pubblico, candidato in particolare a guidare la società regionale Infrastrutture Lombarde dopo il duplice arresto dell'ex numero uno ciellino Antonio Rognoni. In questo primo interrogatorio, molto sofferto, Paris ha ammesso di aver fatto questi «errori» e di volersene assumere la «responsabilità» presentando subito le dimissioni. L'ex manager, inoltre, ha cominciato anche a spiegare a grandi linee le ragioni che lo avevano spinto a mettersi a disposizione dei faccendieri della “cupola degli appalti”: Paris ha detto che si sentiva sempre più «isolato» nella struttura dell'Expo e di aver concluso che proprio personaggi come Frigerio e Greganti potevano garantirgli quelle «protezioni politiche» che gli sembravano necessarie. Dopo queste prime ammissioni, Paris verrà nuovamente interrogato lunedì prossimo, questa volta dai magistrati dell'accusa, per chiarire e approfondire tutti i fatti e spiegare meglio i motivi per cui un tecnico dell'Expo possa pensare di dover chiedere «protezione politica» a due noti pregiudicati per corruzione, concussione e finanziamenti illeciti come Frigerio e Greganti, entrambi condannati con sentenza definitiva come tesorieri delle mazzette nella storica Tangentopoli esplosa nel 1992-1994. Le ammissioni di Paris, che occupava il ruolo chiave di responsabile del settore costruzioni e dell'ufficio contratti, rappresentano un'importante conferma della solidità dell'inchiesta coordinata dai pm Ilda Boccassini, Claudio Gittardi e Antonio D'Alessio. Una svolta, arrivata già nel primo interrogatorio di garanzia davanti al gip Fabio Antezza, che contraddice i dubbi sollevati invece dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo, che nel suo durissimo scontro con il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati aveva segnalato al Csm di non aver condiviso né firmato proprio le accuse rivolte a Paris. Per oggi sono fissati altri due nuovi interrogatori importanti: i pm, divisi in due squadre, sentiranno contemporaneamente Enrico Maltauro, l'industriale vicentino che ha già ammesso le prime tangenti, e Vito Cattozzo, il politico dell'Udc ligure che faceva da tramite tra Frigerio e l'ex parlamentare di Forza Italia Luigi Grillo, curando i rapporti con il centrodestra e con le banche. Gli interrogatori contemporanei serviranno ad impedire ai due arrestati di poter concordare versioni di comodo, mentre i pm potranno contestare subito all'uno le eventuali ammissioni dell'altro, favorendo così dichiarazioni meno reticenti. Maltauro è il re degli appalti che è stato videoregistrato dagli investigatori della Dia mentre concordava e pagava tangenti, fino a consegnare di persona l'ultima bustarella con 15 mila euro pochissimi giorni prima degli arresti.

Expo, Bruti Liberati: "Robledo è stato d'intralcio alle indagini", scrive “Libero Quotidiano”. Nuovo atto nella violenta guerra tra toghe che sta sconvolgendo il pool di Milano. A riferire davanti al Consiglio superiore della Magistratura tocca a Edmondo Bruti Liberati, procuratore capo della procura meneghina, il "grande accusato" dal collega Alfredo Robledo. Bruti Liberati, in riferimento alla vicenda Expo, ha affermato che "le iniziative del procuratore aggiunto Robledo hanno determinato un reiterato intralcio alle indagini". La vicenda affonda le sue radici allo scorso marzo, quando Robledo aveva denunciato al Csm "fatti e comportamenti in essere dal procuratore della Repubblica, Edmondo Brunti Liberati, che non ritengo possano essere più valutati come episodici e che, in considerazione del loro ripetersi, hanno turbato e turbano il regolare svolgimento della funzione nell'Ufficio e la sua normale conduzione". Le ragioni - In soldoni si tratta di un caso clamoroso che sta turbando la presunta armonia del pool di Milano: il magistrato (Robledo) denuncia il suo capo (Bruti Liberati). Perché? Perché Robledo si sente scavalcato a causa del fatto che, afferma, il capo assegnerebbe i fascicoli che riguardano reati contro la pubblica amministrazione (di cui sarebbe competente il suo ufficio) al pool reati finanziari, guidato dall'altro procuratore aggiunto, Francesco Greco, vecchia conoscenza di Mani Pulite. Oppure a Ilda Boccassini, la pm anti-Cav per eccellenza (la Boccassini è stata accusata dal pg di Milano, Manlio Minale, di non avere la titolarità dell'inchiesta Ruby; l'accusa è piovuta sempre nell'ambito dell'inchiesta avviata dopo l'esposto di Robledo). La battaglia - Lo scontro, in atto da mesi, è deflagrato nuovamente lo scorso giovedì, in parallelo all'esplosione dello scandalo Expo. Si è scoperto che Robledo non aveva firmato gli atti dell'inchiesta. Bruti Liberati, in una conferenza stampa in cui si era notata proprio l'assenza di Robledo, aveva spiegato che il collega "non ne condivide l'impostazione" e dunque "non ha vistato" gli atti dell'inchiesta Expo che non ha portato all'arresto di sette nomi di rilievo, e all'iscrizione nel registro degli indagati di altre dodici persone, nonché a perquisizioni a Milano, Roma, Torino, Vercelli, Alessandria, Pavia, Lecco, Vicenza e Bologna. Ultimo atto - Ora, dunque, l'ultimo atto di questa vera e propria battaglia che tiene banco tra i corridoi dei tribunali di Milano, ossia l'accusa del capo (Bruti Liberati) al suo magistrato (Robledo) di aver "ostacolato" l'inchiesta Expo che sta mettendo a repentaglio l'organizzazione dell'evento e sta facendo tremare la politica italiana. Un'accusa pesantissima, e che non farà altro che dilatare il conflitto. Bruti Liberati e Ilda Boccassini da un lato, Alfredo Robledo dall'altro.

Bruti Liberati, Robledo e il doppio pedinamento. La querelle tra magistrati al vertice della Procura di Milano finisce in guerra. Ma un po' anche in farsa: perché è stato chiesto un pedinamento che era già stato disposto, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Lo scontro al vertice della Procura di Milano si alza improvvisamente di livello e diventa guerra guerreggiata. Il procuratore Edmondo Bruti Liberati, in una nota destinata al Consiglio superiore della magistratura che da oltre un mese sta affrontando la querelle aperta dal suo procuratore aggiunto Alfredo Robledo, ha scritto che le  iniziative di quest'ultimo "hanno determinato un reiterato intralcio alle indagini" sugli appalti dell'Expo, appena scoppiate con la retata dei mercoledì 7 maggio. Nella nota Bruti aggiunge che l'invio da parte di Robledo al Csm di copie di atti del procedimento ha anche "posto a grave rischio il segreto delle indagini". Ma qui, purtroppo, lo scontro scade in farsa. Perché Bruti cita un "doppio pedinamento" che avrebbe potuto compromettere l'inchiesta. Ecco che cosa annota il procuratore: "Robledo, pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un'attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati, svolta da personale della polizia giudiziaria, ha disposto, analogo servizio delegando ad altra struttura della stessa Guardia di finanza". Il procuratore aggiunge che "solo la reciproca conoscenza del personale Gdf che si è incontrato sul terreno ha consentito di evitare gravi danni alle indagini". Si attendono ora altri "capitoli" dello scontro tra Bruti Liberati e Robledo, e forse qualche conseguenza di tipo direttamente giudiziario. Robledo, qualche giorno fa, aveva spiegato al Csm le ragioni del suo mancato "visto" alle misure cautelari richieste per l’inchiesta sull'Expo: il numero 2 della procura aveva lamentato di non essere stato messo in condizioni dal procuratore Bruti Liberati, «in violazione della normativa», di fare una valutazione sulla posizione di uno degli indagati. In precedenza, Robledo aveva accusato il capo dell’ufficio Bruti Liberati di una serie di presunte irregolarità. Come il ritardo «di un anno» con cui era stato indagato Roberto Formigoni nell’inchiesta San Raffaele-Fondazione Maugeri e l'affidamento dell’inchiesta sul cosiddetto Rubygate, segnato a suo dire da gravi violazioni delle regole: l’assegnazione indebito del procedimento a Ilda Boccassini, procuratore aggiunto dell’antimafia di Milano, che secondo Robledo non avrebbe avuto la competenza per occuparsi di quel procedimento. Bruti Liberati si è difeso davanti al Csm sostenendo che tutte le accuse erano prive di fondamento.

Expo, ecco tutte le beghe fra Boccassini, Robledo e Bruti Liberati, scrive Edoardo Petti su “Formiche”. La ricostruzione dei dissidi fra i magistrati milanesi secondo i cronisti giudiziari dei principali quotidiani. Una lettura non troppo commendevole, come d'altronde quella sulle intercettazioni...Il terremoto giudiziario che si è abbattuto su Expo 2015 con la scoperta di una “cupola” trasversale finalizzata ad assegnare gli appalti in cambio di tangenti ha portato alla luce una ragnatela capillare di protezioni e intrecci affaristici tra manager, pubblici funzionari, politici e imprenditori, secondo le accuse dei pm. Ma ha fatto affiorare al contempo un conflitto radicale e reiterato fra le mura del Palazzo di Giustizia di Milano. A partire dallo scontro fra il capo della Procura Edmondo Bruti Liberati e il procuratore aggiunto Alfredo Robledo, che ha vissuto un crescendo di accuse incrociate risalenti all’attribuzione a Ilda Boccassini del fascicolo investigativo e processuale sul Rubygate. E dall’accusa, rivolta al massimo responsabile dell’ufficio giudiziario milanese, di aver rinviato di un anno gli accertamenti per i presunti pagamenti di mazzette dei vertici dell’ospedale San Raffaele a favore dell’ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni. Tensione che ha assunto una rappresentazione plastica nella conferenza stampa sui fenomeni di corruzione legati a Expo. E che non è rimasta inosservata da parte dei giornali più attenti alle dinamiche della magistratura ambrosiana. È il Corriere della Sera a mettere in rilievo una frase emblematica pronunciata da Bruti Liberati nella giornata di ieri. Ai cronisti giudiziari che gli ricordavano come l’inchiesta sulle illegalità relative agli appalti per Expo 2015 fosse uno dei filoni investigativi citati dal procuratore aggiunto Robledo nell’esposto presentato contro di lui al Consiglio superiore della magistratura per irregolarità nella gestione e assegnazione dei fascicoli di indagine, il capo dei pm milanesi ha così risposto: “Robledo non ha condiviso l’impostazione dell’inchiesta e non ha vistato gli atti. Ma prima vi erano state numerose riunioni”. Argomentazioni che hanno provocato una risposta repentina e sdegnata da parte del numero due della Procura. Il quale ha spiegato come il dissenso riguardasse la posizione di un indagato, su cui non vi erano a suo avviso gli elementi per una misura cautelare rispetto ai reati di corruzione e turbativa d’asta. Ragionamento di cui “mise a conoscenza Bruti Liberati e Ilda Boccassini, senza ricevere risposta”. A tutto ciò Robledo ha fatto riferimento nell’esposto trasmesso a Palazzo dei Marescialli. Un documento nel quale ha puntato il dito contro il comportamento centralizzatore del procuratore capo, “che frena ogni autonoma iniziativa di inchiesta, intercettazione e pedinamento”. Ma l’accusa va ben oltre. Bruti avrebbe gestito i dossier giudiziari penalizzando il suo ufficio specializzato nei reati contro la pubblica amministrazione, a vantaggio della Direzione distrettuale anti-mafia guidata da Boccassini. Le cui competenze, osserva il magistrato, non rientrano nelle indagini sulle tangenti correlate a Expo. La risposta della pm già appartenente al pool Mani Pulite giunge sulle pagine di Repubblica. L’inchiesta, rileva Boccassini, rappresenta “una delle numerose costole” di un filone investigativo risalente al luglio 2010 e concernente le relazioni nel territorio lombardo tra cosche della ‘ndrangheta, personaggi politici e manager di ospedali. Fattispecie criminose che spetta ai magistrati anti-mafia appurare. Soltanto più tardi, precisa la pm, vennero alla luce ipotesi di reati contro la pubblica amministrazione: “Elementi che segnalai a Bruti per una sinergia con il dipartimento coordinato da Robledo”. A fornire una spiegazione sulle ragioni profonde della spaccatura nel Palazzo di Giustizia è un articolo apparso sul Giornale a firma Luca Fazzo. L’assenza fisica del procuratore aggiunto nella conferenza stampa dei magistrati milanesi, scrive il cronista, è legata agli orientamenti politico-ideologici dell’universo togato. Robledo, in breve, è estraneo all’entourage dei pm progressisti di Magistratura Democratica legati al capo della Procura. Figure tra le quali spicca la principale responsabile del pool anti-mafia, “capace di assumere la guida dell’indagine su Expo 2015 esattamente come fece nella vicenda Ruby. Un’inchiesta di cui non aveva la titolarità e che riguardava reati commessi da pubblici funzionari”. Ma vi è un dissenso più remoto, connesso al metodo di lavoro adottato dai capi dei due dipartimenti giudiziari: la scelta dell’organo di polizia giudiziaria cui affidare le indagini. L’ex pm del pool Mani Pulite, evidenzia Il Giornale, ha sempre  utilizzato una squadra assai ristretta di militari della Guardia di finanza in servizio alla Procura. Nell’inchiesta in corso la pm vuole in tutti i modi ricorrere a questo gruppo di propria fiducia. L’obiezione avanzata da Robledo riguarda il numero esiguo del personale investigativo. Poiché il materiale giudiziario è sterminato, i magistrati inquirenti rischiano di perdere il controllo su tutti gli spunti dell’inchiesta: “E sarebbero gli uomini delle Fiamme Gialle a stabilire con ampio margine di discrezionalità le intercettazioni da trascrivere”.

LA COERENZA ED IL BUON ESEMPIO DEI FORCAIOLI.

Gli arresti esaltano i manettari: "Nuova Mani pulite". M5S processa Scajola, la Lega chiede pulizia. Pd spiazzato, Forza Italia garantista, scrive Fabrizio De Feo su “Il Giornale”. C'è chi prova a salire sulla tigre giustizialista e a cavalcarla (probabilmente incrociando le dita, nella speranza di non trovarsi mai al posto degli indagati). E chi prova a far notare che c'è qualcosa che non va, che ci si trova di fronte a un canovaccio già visto, con una serie di eventi giudiziari a orologeria, dall'ampia eco mediatica, scoppiati a due settimane dal voto. Nel giorno del doppio affondo giudiziario - tra inchiesta Expo e arresto di Claudio Scajola - la politica si muove secondo schemi in qualche modo «identitari». I grillini partono subito all'attacco e in un post sul blog di Beppe Grillo, il capogruppo del Movimento 5 Stelle al Senato, Maurizio Buccarella, chiede l'approvazione «di una nuova e seria legge anti-corruzione». «Dopo Scajola», recita il post, «ecco la nuova Tangentopoli delle larghe intese sugli appalti Expo 2015. Il Movimento 5 Stelle in tempi non sospetti aveva denunciato con forza come l'Expo fosse un tangentificio a forte rischio corruzione e infiltrazioni mafiose: grandi opere... grandi tangenti!». Il Pd, invece, si muove in modo disordinato. C'è chi riflette sul clima dominante che oggi regna nel Paese e dice a mezza bocca: «Meno male che in giunta per le autorizzazioni a procedere abbiamo votato per l'arresto di Genovese, altrimenti oggi saremmo nel mirino». Nel partito, però, c'è anche chi teme che il voto in aula, che probabilmente ci sarà martedì o mercoledì, possa riservare qualche sorpresa. Matteo Renzi, comunque, invia un messaggio chiaro e invita tutti a stare alla larga dalla materia. «Massima fiducia nella magistratura e massima severità se sono stati commessi reati», chiarisce il presidente del Consiglio. «I politici facciano il loro lavoro e non commentino il lavoro della magistratura». Toni duri imbraccia, invece, la Lega con Matteo Salvini. «Su Expo vogliamo assoluta pulizia, spiace che certe facce del vecchio mondo siano ancora in giro». Chi non si tira indietro dal sollevare perplessità su modalità e tempistica degli eventi è Forza Italia. Una protesta che va al di là dei calcoli sull'opportunità tattica della presa di posizione e del timore che le manette possano tramutarsi in benzina versata sul fuoco grillino. «Il copione si ripete, non appena sono vicine le elezioni scatta la giustizia a orologeria quasi sempre verso esponenti di centrodestra anche quando, come nel caso di Scajola, non fanno parte di questa competizione elettorale. Forza Italia resta un partito garantista, Scajola dimostrerà la sua estraneità» dice Giovanni Toti. «Noi - prosegue - continueremo nell'azione di rinnovamento delle liste e dei quadri dirigenti del partito in modo totalmente indipendente dall'azione della magistratura». Gianfranco Rotondi invita ad approfondire e verificare dal punto di vista giuridico davvero la detenzione di Scajola sia una fattispecie contemplata dal codice, o non si sia esagerato con questa misura. Infine, Elisabetta Gardini, capolista nel Nord Est, non ha dubbi: «Non dico che ci sia un complotto, ma avvenimenti come l'arresto di Scajola impediscono di parlare di ciò che preme alla gente. Possiamo dire che c'è un cronoprogramma, un affollamento di questi avvenimenti sempre intorno alle campagne elettorali».

Quella barbarie delle manette facili. Indagare su Scajola è lecito ma metterlo dentro è barbarie, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. Era scontato che la Cassazione confermasse la condanna a 7 anni per Marcello Dell'Utri, attualmente a Beirut, piantonato in un ospedale. Certi verdetti, anche se non si possono sapere in anticipo, si annusano. Evidentemente lo stesso Dell'Utri aveva subodorato che gli avrebbero inflitto una pena pesante, tant'è che, in attesa di conoscere il proprio destino, si era trasferito in Libano, le cui autorità ora decideranno se concedere l'estradizione. Il che non è automatico, poiché in quel Paese il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non c'è e sarebbe una forzatura se esse, nonostante ciò, si piegassero alla richiesta italiana di rimandare in patria l'ex senatore del Pdl. In questi casi può succedere di tutto. Non siamo in grado di stabilire se Dell'Utri sia colpevole o innocente: la sua vicenda è talmente complicata anche per gli esperti di diritto, figuriamoci per noi semplici orecchianti. Se però consideriamo che i magistrati per arrivare alla sentenza definitiva hanno impiegato la bellezza di 20 anni, sorge il sospetto che i giudici abbiano faticato a capirci qualcosa. Insomma, la sensazione è che le accuse rivolte all'imputato non fossero poi così nette e sostenute da prove inoppugnabili. Pare che un processo durato quattro lustri meriti una citazione nel Guinness dei primati, essendo peraltro dimostrativo dell'inaffidabilità della nostra Giustizia, notoriamente bisognosa di urgente riforma, non solo perché lenta, ma pure incapace di apparire credibile. Il problema va oltre la tardiva e controversa condanna del cofondatore di Forza Italia. Come si fa a ostinarsi a tenere in piedi un sistema giudiziario barocco e farraginoso quale il nostro, che per giudicare una persona cui si attribuisce un reato le ruba preventivamente 20 anni di vita, costringendola a saltabeccare da un tribunale all'altro, a campare col cuore in gola per il terrore di essere imprigionata, a pagare parcelle su parcelle agli avvocati, ammesso che abbia i mezzi per saldarle? Non è già questa una pena dolorosa? Nossignori. A un certo punto, quando tale persona è stata distrutta nel morale e nel fisico, si trova a dover scontare 7 anni di galera. E ci si stupisce se taglia la corda e si rifugia in Medio Oriente allo scopo di non trascorrere gli ultimi sgoccioli di esistenza dietro le sbarre? È più scandalosa la fuga o la lungaggine mostruosa dei procedimenti che l'ha provocata? Domanda: se un giudizio si trascina per 20 anni, quanti secoli ci vorranno ancora per correggere i vizi e le storture della cosiddetta giustizia? In questi giorni campeggia sui giornali un'altra notizia di genere affine a quella che abbiamo esaminato sopra: l'arresto dell'ex ministro Claudio Scajola, accusato di aver ordito un piano finalizzato a consentire ad Amedeo Matacena di nascondersi all'estero, infischiandosene di una condanna definitiva (5 anni di carcere) per il solito concorso esterno in associazione mafiosa. Scajola, passato alla storia per la famosa casa ricevuta in dono a «sua insaputa» (assolto), sarebbe stato inchiodato da intercettazioni telefoniche (più ambigue che schiaccianti). Ovvio. Occorre fare chiarezza. Ed è ciò che i Pm tentano lodevolmente di fare. Ma qualcuno ci spiega dove sia la necessità di trattenere in cella uno le cui malefatte non sono ancora state verificate? In circostanze simili, la risposta è la seguente: pericolo di fuga, di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato. Scusate. Il pericolo di fuga, come insegna l'esperienza, si presenta nel momento in cui scatta la sentenza definitiva, non durante l'indagine, altrimenti l'ex ministro sarebbe scappato anche quando era in corso l'inchiesta sulla casa. L'inquinamento delle prove è impossibile se è vero che esse sono contenute nelle intercettazioni telefoniche acquisite dal Pm. Infine, la reiterazione del reato, nella fattispecie, è improbabile a meno che Scajola non abbia cambiato mestiere e aperto un ufficio per l'espatrio dei pregiudicati. Altamente improbabile. Pertanto, i domiciliari sarebbero stati più che sufficienti. Senza contare che se il nostro tornasse a piede libero non avrebbe molte opportunità per intralciare le investigazioni. Non sarà che inconsciamente alcuni magistrati siano animati da una volontà punitiva insopprimibile per cui in dubbio pro manette? C'è di che turbarsi.

Ed ancora. Il caso Garlasco e l'inesauribile voglia di mostro. A sette anni o poco meno dal delitto, se ne torna a parlare in un'aula di giustizia. Il clima in cui si celebrerà il processo non promette nulla di buono, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. A sette anni o poco meno dal delitto di Garlasco, se ne torna a parlare in un'aula di giustizia, quella della terza Corte d'assise di Milano. Non sono bastate due assoluzioni a scagionare il fidanzato della vittima, Chiara Poggi, dall'accusa di esserne stato l'assassino. Incredibile la lunghezza del giudizio definitivo. L'imputato, Alberto Stasi, vive in un incubo ogni dì rinnovabile. Domani egli sarà di nuovo alla sbarra, come si dice, per difendersi, poiché la Cassazione, qualche tempo fa, nell'esaminare la sentenza d'appello che lo sollevava da ogni responsabilità, ha ordinato una sorta di riesame. In altri termini, l'appello è da rifare perché i giudici di terzo grado sono convinti che non tutti gli indizi siano stati valutati appieno. Cosicché, nonostante Stasi sia stato processato con rito abbreviato una prima volta (assolto) e una seconda (assolto) con tutti i crismi della legalità, è ancora ai nastri di partenza, come se fino adesso le toghe avessero scherzato. Sette anni sono lunghi da passare. Ma non conta. Il nostro sistema farraginoso prevede sempre la possibilità di rifare tutto. In effetti, si ricomincia. Le torture non finiscono mai. Ricostruire tutti i passaggi processuali, con i vari dettagli, sarebbe per noi un'operazione troppo complicata, noiosa e forse inutile giacché i lettori puntano al sodo. E il sodo è che Chiara Poggi è stata ammazzata in casa sua con un'arma contundente (mai ritrovata). Da chi? Da una persona che conosceva bene, tanto che la mattina di buon'ora le aprì la porta. Che cosa sia accaduto poi in quella villetta non è dato sapere: lite, colluttazione, fuga e inseguimento? Chi può dirlo. È un dato che la ragazza è stata trovata morta al piano terra. Macchie di sangue dappertutto. L'indagine si svolge nel raggio di mezzo chilometro. Chi può essere stato se non il fidanzato? Gli inquirenti puntano su di lui. Come al solito, in vicende di questo tipo, si guarda nell'ambito familiare. Stasi finisce subito in galera gravato da pesanti sospetti. Perché la sera precedente l'aveva trascorsa con lei. Perché qui perché là. Perché lui quella mattina si recò a casa di lei e la scorse morta in fondo alla scala. Perché Alberto telefonò ai carabinieri e la sua voce non tradiva emozione. Insomma, i racconti divulgati dalla stampa e dalle tivù sono interpretati quali indici di colpevolezza. Pochi giorni dopo l'arresto, tuttavia, Stasi viene rimesso in libertà in mancanza di prove. Andiamo veloci. Seguono decine di programmi televisivi che sviscerano ogni dettaglio del giallo; l'opinione pubblica, tanto per cambiare, si divide in colpevolisti e innocentisti. Personalmente, difendo il ragazzo non perché sia simpatico; anzi, è odioso. Ma contro di lui ci sono solamente pregiudizi: ha gli occhi di ghiaccio (in realtà è solo miope), è un tipo strano, ha trascorso un mese a Londra mentre la morosa aveva principiato a lavorare a Milano (uno stage), gli piaceva compulsare il computer laddove c'è del porno. Un sacco di stupidaggini che non c'entrano nulla con l'assassinio. Tra la coppia non vi sono state telefonate in cui si percepiscano liti, non si rintracciano mail in cui emergano liti o battibecchi. Tutto normale, piatto, piattissimo. Non è finita. Lui non si è sporcato le scarpe sulla scena del delitto. Però vi sono sue impronte sul sapone del bagno. Capirai. Uno che frequenta abitualmente la casa della fidanzata si sarà talvolta, suppongo, lavato le mani nel gabinetto. Avete capito? Tutta robetta. Manco una prova. Che dico, una prova, nemmeno mezza. Il movente eventuale? Gli inquirenti si arrampicano sui vetri. Dicono: lei ha scoperto che lui osservava le schifezze sul computer, ecco la causa della lite che ha scatenato la furia omicida di Alberto. Congetture. Se contrasti fra i due ci fossero, non sono stati appurati. E allora? Stasi dal presunto reato di pedopornografia web è stato scagionato. Quindi le porcherie non possono essere state il movente: tra l'altro piacevano anche a lei. Non mancano le elucubrazioni degli avvocati di parte civile che vorrebbero incastrare il giovane, ma sono inconsistenti e, quando si arriva davanti al giudice del rito abbreviato, il professor Angelo Giarda non fatica a far risaltare l'innocenza del suo assistito, Stasi, che viene assolto. Il verdetto di secondo grado è la fotocopia del primo. Basta? Nossignori. La Cassazione rimette tutto in discussione: bisogna approfondire questo e quell'elemento. Le toghe indicano sette od otto punti da verificare. Nel frattempo sono trascorsi sette anni (sette). Siamo al delirio. Ovvio che i genitori di Chiara pretendano che l'omicida sia inchiodato e condannato. Anch'io sono dalla loro parte. Concordo. S'identifichi l'assassino; non ci si accontenti però di punire uno qualsiasi cui addossare a casaccio la colpa di aver ucciso. Come si fa ad accanirsi su un tizio contro il quale non vi sono che oscuri presentimenti e dubbi? Il clima in cui si celebrerà l'ennesimo processo non promette nulla di buono. Trasformare pallidi indizi - mezzi indizi - in elementi probatori è tecnicamente un gioco da bambini per magistrati esperti. Una sentenza di condanna spesso placa le coscienze anziché tormentarle. Questo è il costume italiota. Fossi in Alberto, sarei terrorizzato. Sento puzzo di verdetto pesante. Spero di sbagliare. Il suo destino è nelle mani del professor Giarda, che è un fuoriclasse, ma non un padreterno. Auguri.

Ma a proposito di Pubblici Ministeri. Parliamo di loro. Per esempio quelli di Milano.

Liti e denunce, scoppiano i pm anti-Cav. Dall’inchiesta sull’Expo a Ruby, i vertici regolano i conti al Csm. Il pm Robledo si affida alla Gdf, scrive Matteo Di Paolo Antonio su “Il Tempo”. Lui, lei, l’altro. Non è un triangolo sentimentale, quello che sta andando in scena alla procura di Milano, ma ci assomiglia per tanti aspetti. Le corna, qui, sono professionali, forse anche con coloriture politiche. E anche in questo caso, come in quello di Mani Pulite e tanti altri, una faccenda diciamo così «domestica», rischia di scoperchiare il famoso "vaso di Pandora" in salsa meneghina. Lui, lei e l’altro sono il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati, l’aggiunto di fiducia Ilda Boccassini e quello che si sente scavalcato e messo da parte, l’aggiunto Alfredo Robledo, anche lui tra gli otto «vice» del capo. L’esposto di quest’ultimo al Consiglio superiore della magistratura, a metà aprile, è l’atto che ha aperto ufficialmente la guerra, provocando la dura reazione di Bruti Liberati, secondo cui Robledo sarebbe stato d’«intralcio» in molte indagini importanti, a cominciare da quella sull’Expo. Ma Robledo, che ha già denunciato gravi irregolarità, manifeste violazioni e colpevoli ritardi nell’assegnazione delle indagini da parte del procuratore Capo, ieri è ripassato all’attacco producendo atti che proverebbero come Bruti Liberati, sull’ormai noto caso del doppio pedinamento, abbia dichiarato il falso. Ma torniamo alle «corna». Secondo le denunce di Robledo al Csm, Bruti Liberati avrebbe ignorato le competenze e le regole interne, preferendo pm fidati e magari della sua corrente, cioè Magistratura democratica, soprattutto per vicende dal forte impatto politico-mediatico. Mentre Robledo non è certo di sinistra, è un «cane sciolto», semmai più vicino ai moderati: si è candidato (senza successo) anni fa per Magistratura indipendente alle elezioni dell’Anm milanese, pur non essendo iscritto alla corrente. La delicatissima inchiesta sul caso Ruby sarebbe l’esempio principe di questi favoritismi: Bruti l’ha assegnata all’aggiunto responsabile dell’antimafia Boccassini, mentre Robledo, che guida il dipartimento sui reati contro la pubblica amministrazione, ne rivendica la competenza. Al Csm anche Ferdinando Pomarici conferma «l’anomalia» di quella decisione. Bruti Liberati, dunque, volle che fosse proprio Ilda a condurre l’inchiesta che portò alla condanna a 7 anni di Berlusconi, per corruzione e prostituzione minorile. E poi ce ne sono altre di inchieste, finite sempre nelle mani dei pochi pm del «cerchio magico» del capo: quella sul San Raffaele, quella Sea-Gamberale. Fino all’ultima, la più esplosiva, quella che rischia di essere la nuova Tangentopoli per l’Epxo 2015 e sarebbe stata «scippata» a Robledo per finire anch’essa nelle mani di «Ilda la rossa». Robledo non ha voluto firmare le sette richieste di misure cautelari per altrettanti indagati, sostenendo di non essere stato informato dal procuratore e di non aver potuto compiere le sue valutazioni, «in violazione della normativa». E c’è anche, per altri versi, il caso-Sallusti, che avrebbe portato a una decisione «unicum» sui domiciliari (non richiesti) al direttore de Il Giornale , condannato per diffamazione. Una scelta in deroga alla prassi corrente e contestata dai pm: solo per questo diventata poi norma per tutti i casi analoghi, in seguito a una circolare che Bruti Liberati dovette firmare per placare la polemica interna. Il quadro è grave e può avere conseguenze pesanti non solo per i singoli, ma per la stessa procura. Il capo rischia quantomeno la mancata conferma alla scadenza dell’incarico, a luglio, se non un’indagine disciplinare. Il suo accusatore, Robledo, potrebbe essere invece trasferito ad altra sede per incompatibilità ambientale. La denuncia dell’aggiunto Robledo al Csm in queste settimane ha portato alle audizioni di tutti i protagonisti dello scontro e ognuno racconta la sua verità, rivelando scenari contraddittori. Del «cerchio magico» attorno a Bruti Liberati, per Robledo, fa parte anche l’aggiunto Francesco Greco, responsabile del pool sui reati finanziari. In questo caso, conteso è uno dei filoni dell’inchiesta San Raffaele, che per il grande accusatore ha portato a un ritardo di un anno nell’iscrizione dell’ex governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, nel registro degli indagati. Per Bruti Liberati e Greco, invece, nessun ritardo: Robledo avrebbe voluto una sorta di spacchettamento dell’indagine, mentre il fascicolo era assegnato al pm Orsi che si era trasferito in quel periodo dal pool di Greco a quello di Robledo. Nell’audizione di Greco si è parlato di una vicenda molto delicata, quella che più di altri potrebbe prevedere sviluppi disciplinari per Bruti Liberati. É l’inchiesta Sea-Gamberale e il fatto che il procuratore Capo, come poi da lui stesso ammesso, avesse dimenticato il fascicolo in cassaforte. Per Greco, che difende Bruti Liberati, si è trattato di un episodio «incolpevole», ma Robledo insiste sul contrario. E al Csm la cosa viene valutata comunque come molto preoccupante. L’ultimo atto dello scontro interno è la controffensiva di Bruti nei riguardi di Robledo. In una lettera al Csm, che integra le sue dichiarazioni rilasciate a palazzo de’ Marescialli il 15 aprile, scrive che le iniziative dell’aggiunto «hanno determinato un reiterato intralcio alle indagini» sull’Expo. In particolare, racconta che proprio per colpa del collega si è arrivati alla situazione «surreale» di un doppio pedinamento di un indagato, che avrebbe rischiato di compromettere l’inchiesta. Tesi accusatoria che Robledo ha smentito, accusando il Capo di falso: l’episodio del doppio pedinamento - spiega Robledo in una nota inviata al Csm, a cui ha chiesto anche di essere ascoltato - non è mai avvenuto. E a sostegno della sua tesi avrebbe fornito una prova documentale.

Nuovi scandali e luoghi comuni, scrive Enzo Carra su “Il Tempo”. Non c’è soltanto una rappresentazione di ordinaria, odiosa criminalità nelle vicende dell’Expo e in quelle della direttrice Roma-Beirut via Reggio Calabria. C’è purtroppo anche una nuova ondata di luoghi comuni. Tutto quello che serve a coprire le responsabilità di quanti, in oltre vent’anni da Mani Pulite, non hanno fatto abbastanza per bonificare i rapporti tra politica e affari e imporre sobrietà alla politica. L’elenco ha inizio con la ridicola domanda: questa è, o no, una nuova Tangentopoli? Ovvio che chi, come Di Pietro, allora era un magistrato rampante e oggi è un politico declinante rimpianga quel periodo. Altri tempi. C’è chi, invece, opta per un desolante giudizio sulla perversione dei nostri tempi: allora si rubava per i partiti, adesso si ruba per sé. I confronti, per nostra fortuna, non hanno ancora fatto imboccare agli spericolati opinionisti la scriteriata conclusione che si stava meglio quando si stava peggio. In attesa di arrivarci (non si sa mai) c’è chi invoca un’altra Mani Pulite. Come se le Procure italiane avessero ogni tanto bisogno di un evento speciale per dimostrare la propria efficienza anziché lavorare ogni giorno dell’anno. L’elenco comprende con il segnalato ritorno dei soliti noti, anche quello dei partiti che non ci sono più. Così, dirigenti locali della Dc come Frigerio vengono innalzati al ruolo di parlamentari di quel partito, mentre lo sono divenuti molti anni dopo, a Dc liquidata da tempo. Dietro il compagno G., come Greganti, si intravede lo scavo della vecchia talpa leninista ormai in letargo. Mancavano i socialisti, è vero. La loro assenza è stata tuttavia parzialmente riscattata dall’apprendere che la signora Matacena è figlia di un esponente socialista. In tanto discutere si fa però poca attenzione alla domanda più importante: chi ha rimesso in giro, e soprattutto perché, questi signori?

Inchieste e scontri di potere, scrive Stefania Craxi, figlia dell’ex premier Bettino, su “Il Tempo”. Caro direttore. Cui prodest? È questo il quesito che ci poniamo ogni qualvolta, nel pieno svolgimento di una competizione elettorale, assistiamo all’ormai abituale catena di arresti eccellenti. La risposta, questa volta, non solo è di più difficile individuazione ma è meno scontata del previsto. Se il caso Scajola dimostra ancora una volta l’uso selvaggio e improprio delle misure cautelari, le vicende che interessano il redivivo "Compagno G" e il mondo di "Infrastrutture Lombarde" vanno inquadrate in un contesto più ampio e articolato. Un’attenta lettura di questa vicenda è molto utile per comprendere in pieno le degenerazioni che interessano una parte della Magistratura da cui non è certo esente la Procura di Milano. Non bisogna essere dotati di grande intuito o fantasia per comprendere che talune indagini hanno subito un’accelerazione fulminea dopo l’esposto al Csm di Alfredo Robledo con il quale il procuratore aggiunto di Milano accusa senza mezzi termini il capo della Procura milanese, Edmondo Bruti Liberati, d’irregolarità nell’assegnazione e nella gestione dei fascicoli, denunciando, di fatto, un’ampia area di discrezionalità sui casi da perseguire e seguire. Non è questa una banale contesa sull’organizzazione interna. È uno scontro di potere tra «gruppi» dal quale emergono fatti inquietanti e si rivelano verità inconfessabili. Uno scontro in cui cadono i protetti e si spezzano gli equilibri di un sistema che fa scempio del diritto e della ragione in cui a farne le spese sono sempre e comunque i cittadini italiani. Un caso isolato? Affatto. Vi sono ormai fin troppi precedenti di conflitti interni il cui unico fine è l’accrescimento del potere personale. Eppure, nulla cambia. La riforma della giustizia continua a essere rinviata a un futuro futuribile senza che nessuno si interroghi sullo stato e la qualità del nostro sistema democratico, molto più simile ai modelli sudamericani che non alle liberal democrazie occidentali. Serve invertire la rotta. E subito. L’ordinamento giudiziario ha bisogno di mutamenti profondi e radicali. Se non ora, quando? Stefania Craxi.

Robledo vs Bruti Liberati: le tappe della guerra. Giorno per giorno, frase per frase, tutte le puntate della guerra interna a Palazzo di Giustizia di Milano, scrive “Panorama”. Da una parte Alfredo Robledo, classe 1950, procuratore aggiunto di Milano, massimo esperto di inchieste su politica e corruzione e legato a Magistratura indipendente (corrente di centrodestra). Dall’altra, Edmondo Bruti Liberati, classe 1944, Procuratore capo del tribunale di Milano vicino a Magistratura Democratica (corrente di centrosinistra). Al centro il Tribunale di Milano e le sue inchieste. ecco, passo dopo passo, le tappe della vicenda e della guerra tra i due:

- venerdì 14 marzo  2014. Robledo invia una lettera (11 pagine) al vicepresidente del Csm, Vietti. al presidente del Consiglio distrettuale milanese, Giovanni Canzio e al Capo della Procura generale di Milano, Manlio Minale, nella quale accusa il procuratore capo del Tribunale di Milano di  aver turbato“la regolarità e la normale conduzione dell’ufficio”nella gestione delle inchieste più scottanti. Robledo va giù pesante contro il suo capo ritenendolo responsabile di “violazione dei criteri di organizzazione vigenti nell’ufficio sulla competenza interna” e lo definisce “garante di una serie di equilibri politici” favorendo i colleghi Ilda Boccassini e Francesco Greco.

- mercoledì 19 marzo 2014. Viene alla luce una lettera del protocollo riservato nella quale Bruti Liberati ammette che un fascicolo del 2011 sull’inchiesta che vedeva Vito Gamberale accusato di turbativa d’asta, era rimasto in un cassetto“per sua deplorevole dimenticanza”. Non solo, l’inchiesta, invece di finire per competenza sulla scrivania di Robledo, viene assegnata al capo del pool dei reati finanziari, Francesco Greco che lo gira al pm Fusco e che, a sua volta, fa notare a Bruti Liberati che sarebbe stato meglio assegnarlo a Robledo.

- giovedì 20 marzo 2014. Robledo apre il coperchio alla nuova Tangentopoli milanese legata all’Expo. A finire in manette sono Antonio Giulio Rognoni, direttore generale di Infrastrutture Lombarde, e molto vicino al Roberto Formigoni, e altre sette persone. Era questa una delle inchieste a cui faceva riferimento Robledo nella lettera con la quale accusava Bruti Liberati. Lo scontro tra i due magistrati sembra passare in secondo piano vista l’importanza della vicenda o addirittura rientrare e per qualche giorno i due si ignorano.

- venerdì 28 marzo 2014. La procura di Brescia decide di aprire un fascicolo per calunnia ipotizzando una manovra “orchestrata” per screditare Robledo.

- martedì 15 aprile 2014. I due magistrati vengono ascoltati al Palazzo dei Marescialli a Roma. Le due audizioni sono un susseguirsi di accuse e contro accuse senza esclusione di colpi. Robledo: “Non ho nessun motivo personale nei suoi confronti, ma siamo arrivati a un punto limite, oltre il quale non è più possibile andare”. Bruti Liberati: “Sia ben chiaro che io lezioni sull'obbligatorietà dell'azione penale non le prendo”. Nel corso dell’audizione davanti al Csm emerge che anche l’assegnazione dell’inchiesta di Ruby non doveva essere affidata alla Boccassini e a sostenerlo è il presidente del Tribunale di Milano, Manlio Minale: “Il procuratore aggiunto del pool antimafia cosa c'entra? Non aveva titolarità”.

- mercoledì 7 maggio 2014. Robledo non si presenta alla conferenza stampa, nonostante un suo magistrato abbia seguito le indagini. Bruti Liberati dichiara: “l'indagine non è firmata anche da lui in quanto non ha condiviso l'impostazione: per questa ragione non è qui con noi”. Robledo risponde che Bruti Liberati non lo ha messo nella condizione di fare una valutazione sulla posizione di un indagato: “Ogni volta che bisogna prendere un'iniziativa di indagine bisogna avvertirlo prima e lui deve dare il consenso di tutto, anche di stralci e così via”.

- lunedì 12 maggio 2014. Bruti Liberati invia un esposto al Csm accusando Robledo di aver “determinato un reiterato intralcio alle indagini sull’Expo”. Al centro dell’accusa c’è un doppio pedinamento nei confronti di un indagato: “Robledo pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un'attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati svolta da personale della polizia giudiziaria, ha disposto, analogo servizio delegando ad altra struttura della stessa Guardia di Finanza”.

- mercoledì 14 maggio 2014. Robledo che controattacca rispondendo al Csm: “Bruti Liberati dice il falso, ne ho le prove”. In effetti la Guardia di Finanza con un rapporto ufficiale conferma la tesi di Robledo spiegando che "non si sono registrati episodi di sovrapposizione operativa con altro personale di Polizia Giudiziaria presso la Procura di Milano".

Procura Milano, tutti contro tutti. Guerra Bruti Liberati-Robledo. Nuovo clamoroso scontro nella Procura di Milano. Il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati al Csm: da Robledo reiterato intralcio alle indagini. La risposta del pm: tutto falso, voglio essere sentito. Intanto l'Antimafia attacca Ilda Boccassini: "Con il suo arrivo i rapporti sono peggiorati", scrive “Affari Italiani”. "Le iniziative del procuratore aggiunto Robledo hanno determinato un reiterato intralcio alle indagini" sull'Expo. Lo scrive il procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati in una nota trasmessa ieri al Csm. Bruti Liberati, in particolare, ricorda la "prospettazione di stralcio", avanzata da Robledo e da lui esclusa, che "non solo avrebbe fatto perdere la unitarietà di visione in questa vicenda specifica, ma avrebbe comportato sicuro intralcio e ritardo alle indagini". Inoltre, la trasmissione, da parte di Robledo, al Csm "di copie di corrispondenza interna riservata e di copie di atti del procedimento in delicatissima fase di indagine, con assunzione arbitraria della decisione delle parti da segretare, ha posto - scrive Bruti a Palazzo dei Marescialli - a grave rischio il segreto delle indagini". Il capo della Procura di Milano riferisce anche un'"ultima surreale situazione" avvenuta nell'ambito dell'inchiesta Expo: "Robledo - spiega Bruti - pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso una attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati", svolta da "personale della sezione di Polizia giudiziaria", ha "disposto analogo servizio delegando ad altra struttura della stessa Gdf". Solo "la reciproca conoscenza del personale Gdf che si è incontrato sul terreno - osserva Bruti - ha consentito di evitare gravi danni alle indagini". Con la sua nota inviata a Palazzo dei Marescialli, Bruti Liberati integra quanto esposto nell'audizione al Csm dell'aprile 2014 scorso. Dopo gli arresti avvenuti negli scorsi giorni, sono infatti venuti meno i segreti istruttori che non avevano permesso al capo della procura milanese di essere più preciso davanti all'organo di autogoverno della magistratura. La richiesta di misura cautelare diretta al gip nell'ambito dell'inchiesta Expo "fu vistata dal procuratore aggiunto Boccassini", ricorda Bruti, e Robledo "da me personalmente interpellato - aggiunge il procuratore capo - mi disse che dissentiva in ordine ad alcune contestazioni di reato relative all'indagato Paris e che non intendeva apporre il visto". Dunque, "ritenevo - spiega Bruti Liberati - anche ad evitare una delegittimazione dei sostituti, di apporre anche il mio visto sulla richiesta" che poi è stata "accolta dal gip sui punti non condivisi dal procuratore aggiunto Robledo". Quest'ultimo, "pur continuando ad essere costantemente informato di tutti gli sviluppi ulteriori delle indagini ai fini del coordinamento in atto - conclude Bruti - si era sottratto alla fase del procedimento cautelare e pertanto non gli fu sottoposto al visto la successiva integrazione della richiesta al gip". Bruti Liberati, infine, auspica una "sollecita definizione della vicenda" scaturita dall'esposto di Robledo, "consentendo alla Procura della Repubblica di Milano di svolgere il suo difficile compito in un clima di normalità, fuori dai riflettori sul preteso scontro nella Procura di Milano". Con una nota inviata al Csm, il procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo risponde alle accuse del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati secondo il quale avrebbe "determinato un reiterato intralcio alle indagini" sull'Expo. Nella nota, Robledo afferma che l'episodio del doppio pedinamento, di cui ha parlato Bruti, non è mai avvenuto e, a sostegno della sua tesi, fornisce una prova documentale all'organo di autogoverno della magistratura. Alfredo Robledo chiede di essere sentito dal Csm in merito alle accuse che gli ha rivolto il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati in una nota inviata all'organo di autogoverno della magistratura, nella quale lo accusa di avere intralciato le indagini su Expo. Bruti Liberati aveva citato anche l'episodio di un presunto doppio pedinamento che avrebbe potuto compromettere l'inchiesta. E' stata "anomala" l'assegnazione dell'inchiesta Ruby al procuratore aggiunto Ilda Boccassini, "palesemente estranea" a quel tipo di inchiesta. Questo, secondo quanto si è appreso, è uno dei passaggi dell'audizione del pm di Milano, Ferdinando Pomarici, sentito oggi al Csm nell'ambito della pratica avviata dalla prima e dalla settima commissione a seguito dell'esposto con cui l'aggiunto Alfredo Robledo ha denunciato presunte irregolarità nell'assegnazione dei fascicoli da parte del capo della Procura, Edmondo Bruti Liberati. Pomarici è stato sentito per circa un'ora a palazzo dei Marescialli: davanti alle commissioni, riunite in seduta congiunta, ha ricordato di aver segnalato questi punti critici già in una lettera che aveva indirizzato proprio a Bruti Liberati. "Di tutto ha bisogno il sistema giudiziario, tranne che di delegittimazioni". Lo ha dichiarato il vicepresidente del Csm, Michele Vietti, poco prima del plenum con il guardasigilli Orlando, affrontando la questione dello scontro alla Procura di Milano. "Il Csm se ne sta occupando - ha aggiunto - quindi non entro nel merito, ma mi auguro che le commissioni arrivino ad una conclusione rapidissima dell'istruttoria e che si possa arrivare al plenum con una decisione definitiva". C'è una "tradizione di difficili rapporti tra la Dna e la Dda" di Milano, e con l'arrivo del procuratore aggiunto, Ilda Boccassini, alla guida del pool antimafia milanese, c'è stato un "arretramento". E' quanto emerge dall'audizione svolta la scorsa settimana al Csm del pm della Direzione Nazionale Antimafia, Filippo Spiezia, che fino all'ottobre 2013 è stato magistrato di collegamento tra la Dna e la Direzione Distrettuale Antimafia milanese. "Col passaggio di consegne - ha detto Spiezia al Csm - la dottoressa Canepa (il magistrato che prima di Spiezia svolgeva il coordinamento con la Dda milanese, e che oggi è tornata a svolgere tale ruolo, ndr) mi mette a disposizione tutto il suo patrimonio conoscitivo riguardante i rapporti con Milano, scrive nel suo resoconto che la dottoressa Boccassini ha manifestato perplessità connesse a ragioni di sicurezza e riservatezza in relazione all'implementazione della banca dati nazionali, quindi in questo la collega Canepa rilevava un arretramento rispetto alla posizione del dottor Pomarici (l'aggiunto che era a capo della Dda di Milano prima di Ilda Boccassini, ndr) che invece riteneva che la Banca Dati Nazionale venisse implementata con gli atti dei procedimenti in corso". Tale dato, aggiunge Spiezia, "io poi l'ho riscontrato nella pratica" e "si è riflesso poi nel livello qualitativo e quantitativo degli atti trasfusi nella Banca dati nazionale". Nel corso del suo mandato come magistrato di collegamento con la Dda di Milano, Spiezia afferma di non aver registrato alcun "cambiamento di rotta", ma "addirittura c'è stato un aggravamento rispetto ai dati che aveva registrato la dottoressa Canepa". Un "bilancio assolutamente negativo", sottolinea Spiezia nelle sue audizioni, riguarda il rilevamento della situazione sulle cosiddette "iscrizioni multiple": "nel 2013 - osserva il magistrato della Dna - sono state inviate fino all'epoca in cui mi sono occupato di questi rapporti, 49 segnalazioni di iscrizioni multiple ricevendo zero risposte". "Ci sono difficoltà che il Csm sta affrontando. Attendo il lavoro del Csm". Così il guardasigilli Andrea Orlando, al termine del plenum al Palazzo dei Marescialli, ha risposto ai cronisti in merito alla richiesta, avanzata dal togato Antonello Racanelli, di valutare l'invio degli ispettori alla Procura di Milano.  E poi: "Non considero che diverse opinioni nella Procura di Milano abbiano compromesso l'imparzialità". "I fatti vanno analizzati - ha aggiunto il ministro - il sistema prescinde da potenziali conflittualità. Anche alla luce dell'inchiesta Expo, non bisogna pensare che venga meno il ruolo e la funzione che la Procura di Milano ha effettuato e continua a svolgere".

Procura di Milano, alla fine per lo scontro pagherà solo Robledo. La Procura generale della Cassazione chiede al Csm di rimuovere il procuratore aggiunto: contro di lui le intercettazioni con l'avvocato della Lega Nord, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Poteva finire con un nulla di fatto, con entrambi i contendenti lasciati in qualche modo al loro posto; poteva finire con la cacciata di entrambi i contendenti, e con l'azzeramento di fatto del gruppo dirigente della Procura; e invece con un colpo di scena la faida interna al palazzo di giustizia milanese sembra avviata a risolversi con la sconfitta piena solo di Alfredo Robledo, il procuratore aggiunto che con il suo esposto al Consiglio superiore della magistratura aveva sollevato nel marzo dello scorso anno il caso delle presunte irregolarità nella gestione da parte del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati praticamente di tutte le inchieste più delicate. Nei confronti di Robledo, il procuratore generale della Cassazione ha fatto partire nei giorni scorsi una richiesta eccezionale: trasferimento immediato in via cautelare, di fatto l'allontanamento dall'ufficio e il trasferimento a un altro incarico. Tecnicamente, le accuse che potrebbero portare al defenestramento di Robledo non sono collegate ai temi sollevati nel suo esposto, e di cui si è molto discusso in questi mesi. La richiesta di rimozione del magistrato viene motivata dal pg con una serie di intercettazioni che arrivano dall'altro capo d'Italia, ovvero dalla indagine che la procura di Reggio Calabria sta svolgendo sui contatti tra alcuni esponenti della Lega Nord e il mondo della criminalità organizzata: è l'indagine che ha portato all'incriminazione dell'ex tesoriere del Carroccio, Belsito, accusato di avere utilizzato canali contigui alla 'ndrangheta per spostare e investire all'estero parte dei fondi del partito. Nell'ambito di quella inchiesta è stato intercettato anche l'avvocato di fiducia dei vertici leghisti, Domenico Aiello, e così la Dia ha registrato una serie di contatti telefonici tra il legale e Robledo, all'epoca titolare delle indagini sui finanziamenti pubblici al partito di Bossi. Contatti che indicano una certa confidenza tra i due, e nei quali Robledo sembra garantire a Aiello che l'inchiesta sarebbe stata condotta anche a carico di esponenti di altri partiti. Ma è evidente che le notizie provenienti da Reggio Calabria hanno finito col fare parte a pieno titolo dello scontro senza precedenti in corso alla Procura di Milano, dove Robledo accusava Bruti di avere forzato la mano per affidare tutte le inchieste con risvolti politici (dal San Raffaele a Ruby alla Serravalle a Expo) solo a pm di sua fiducia, aggirando le norme interne all'ufficio e le competenze dei diversi dipartimenti. Lo stesso consiglio giudiziario di Milano, l'organismo locale di autogoverno della magistratura, ha stigmatizzato questo comportamento di Bruti. Ma sia il procuratore capo che Robledo (accusato da Bruti di interferenze e comportamenti irregolari) erano usciti incolumi dalle azioni disciplinari avviate dal Csm. E la settimana scorsa aveva preso quota la ipotesi di una soluzione ponte, con Robledo parcheggiato in un'altra procura in attesa del pensionamento di Bruti. Invece stamane a sorpresa dal Csm arriva la notizia della richiesta di rimozione immediata di Robledo avanzat dal pg della Cassazione, Ciani. Una richiesta che verrà esaminata dal Csm in tempi brevissimi, e che se dovesse venire accolta segnerebbe una vittoria per ko di Bruti e del suo schieramento nello scontro con Robledo.

Milano, altri guai per il pm Alfredo Robledo: "Ha favorito l'avvocato della Lega Nord". Il pg della Cassazione contro l'aggiunto di Milano, già al centro di uno scontro con il procuratore capo Bruti Liberati. Il motivo sono le intercettazioni di un'inchiesta antimafia rivelate da l'Espresso. Secondo l'accusa il legale girava a Roberto Maroni e Matteo Salvini le notizie ottenute dal magistrato che indagava su Belsito, scrive Paolo Biondani “L’Espresso”. Alfredo Robledo Il procuratore aggiunto di Milano, Alfredo Robledo, rischia il posto per i suoi rapporti telefonici con l'avvocato della Lega, Domenico Aiello. Un caso giudiziario nato da una serie di intercettazioni della procura antimafia di Reggio Calabria e rivelato per la prima volta il 25 ottobre scorso da un articolo de “l'Espresso” . Robledo è il magistrato che da mesi è protagonista di uno scontro senza precedenti con il suo procuratore capo, Edmondo Bruti Liberati. Oggi il procuratore generale della Cassazione, Gianfranco Ciani, titolare dell'azione disciplinare, ha depositato al Csm una richiesta di trasferimento d'ufficio a carico di Robledo, chiedendo che venga decisa d'urgenza, come misura cautelare. Secondo l'accusa, Robledo dovrebbe non solo cambiare città, ma addirittura perdere le funzioni di pubblico ministero. Il vice-presidente del Csm, Giovanni Legnini, ha già fissato un'apposita udienza della sezione disciplinare, che è chiamata a pronunciarsi il 5 febbraio. Il trasferimento forzato di Robledo consacrerebbe la vittoria di Bruti Liberati nella scontro con il suo aggiunto, che è già stato rimosso dall'incarico di coordinatore delle indagini milanesi sui reati collegati alla corruzione. Il Csm e lo stesso pg della Cassazione, però, devono ancora pronunciarsi sugli altri capitoli ancora aperti della disfida tra toghe che ha spaccato la procura di Milano. A Robledo vengono contestati i rapporti amichevoli con Domenico Aiello, il penalista di fiducia di Roberto Maroni, diventato l'avvocato della Lega dopo lo scandalo dei finanziamenti pubblici sottratti dall'ex tesoriere Belsito, che ha coinvolto anche Umberto Bossi favorendo il cambio della guardia al vertice del partito. Quell'inchiesta era diretta proprio da Robledo. Tra il 2012 e il 2013, mentre era ancora in corso l'indagine milanese sui soldi della Lega, la procura reggina ha intercettato l'avvocato Aiello per tutt'altri motivi: il professionista, che è di origine calabrese, risultava in contatto con imprenditori sospettati di collusioni con la 'ndrangheta. Quella procura antimafia ha così intercettato anche Robledo, ma solo indirettamente, perché era in contatto con l'avvocato Aiello. Anche i parlamentari leghisti sono stati intercettati solo indirettamente: sotto controllo c'era solo il telefonino Aiello. Nella primavera del 2013 la procura di Reggio Calabria ha trasmesso un faldone di intercettazioni ai pm di Brescia, competenti a indagare sui magistrati di Milano, ipotizzando che Robledo avesse rivelato all'avvocato della Lega notizie riservate sulle proprie indagini. Dopo un anno di accertamenti, i pm bresciani Fabio Salamone e Paolo Savio hanno chiesto l'archiviazione di tutte le accuse a carico di Robledo. Secondo i due magistrati competenti, quelle comunicazioni tra Robledo e Aiello non hanno rilevanza penale: non ci sono i presupposti per accusare il pm milanese, in particolare, di ipotetiche violazioni del segreto istruttorio. Nelle motivazioni della loro richiesta, gli stessi pm bresciani precisano però che l'archiviazione riguarda solo la vicenda penale, «al di là di ogni valutazione sull'opportunità di frequenti contatti» tra magistrato e avvocato «per ragioni non sempre strettamente correlate con le rispettive qualità». Ora il pg della Cassazione, che invece rappresenta l'accusa nei procedimenti disciplinari e può occuparsi anche di vicende personali che non costituiscono reato, ha riletto gli stessi atti dell'indagine bresciana ipotizzando, come precisa l'agenzia Ansa, uno «scambio di favori»: un comportamento penalmente irrilevante, ma considerato inopportuno per un magistrato. Sotto accusa, in particolare, ci sono alcuni sms inviati da Robledo ad Aiello, e da quest'ultimo a parlamentari della Lega come Maroni, Salvini e Speroni, mentre era ancora in corso l'inchiesta milanese sul caso Belsito. Il 28 dicembre 2012, ad esempio, Aiello manda a Maroni un sms che allude a una riunione dei pm milanesi: «Finita riunione in Procura con capo e agg. Domani sera mi daranno altri nominativi ns consiglieri indagati. Hanno intercettazioni gravi contro Pdl, mentre su di noi pare ci sia una impiegata gola profonda». Nello stesso periodo l'avvocato Aiello telefona anche all'attuale leader leghista Matteo Salvini, sostenendo che Robledo gli avrebbe promesso di spedire, prima delle elezioni del 2013, «gli stessi avvisi a Pd, Idv e Pensionati. (…) Mi ha detto: “Domenico, te lo garantisco, ci puoi spendere la tua credibilità”». Quando l'inchiesta milanese sui rimborsi-truffa coinvolge effettivamente anche gli altri partiti, l'avvocato della Lega scrive un sms di ringraziamento al pm milanese: «Uomo di parola! Poi grande magistrato!». E Robledo gli risponde con una citazione in latino che sembra confermare una promessa: «Caro avvocato, promissio boni viri est obligatio!». Esaminate tutte le intercettazioni, i magistrati bresciani hanno concluso che va giudicato «assolutamente comprensibile» che l'avvocato della Lega si preoccupi di informarsi sulla posizione degli indagati della proprio parte politica. Quanto alle notizie sugli altri partiti, Robledo si sarebbe limitato a fornirgli una «generica informazione che l'indagine avrebbe riguardato in tempi brevi anche l'opposizione», senza però rivelargli segreti investigativi. Ora però il pg della Cassazione rilancia l'accusa, sostenendo che Robledo, il 18 dicembre 2012, avrebbe anticipato ad Aiello almeno una notizia molto precisa, e cioè che la sua inchiesta stava per coinvolgere altri 7-8 consiglieri regionali. Cosa effettivamente successa il giorno dopo. Sotto accusa, sempre sul piano disciplinare, c'è anche una serie di telefonate in cui Robledo avrebbe suggerito ad Aiello di chiedere copia di una consulenza tecnica a carico della Lega, che era stata anticipata nel febbraio 2013 da “l'Espresso”. Quando poi Aiello si vide negare quei documenti integrali, Robledo, sempre secondo il pg della Cassazione, avrebbe scaricato la colpa sul procuratore capo, Bruti Liberati. Da altre telefonate, sempre secondo la ricostruzione dei pm bresciani, risulta «evidente che Robledo si sia avvalso dell'aiuto del legale per intervenire nella procedura dinanzi la Commissione europea» che lo vedeva contrapposto all'ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini, mentre quest'ultimo si era candidato alle regionali in Lombardia contro Maroni. Nei mesi precedenti, Albertini aveva accusato il pm milanese di aver condotto indagini illegali sui derivati finanziari acquistati dal Comune di Milano. Contro-denunciato da Robledo, l'ex sindaco, che rivestiva la carica di europarlamentare di Forza Italia, aveva chiesto l'immunità politica, che però gli è stata negata. Di questo caso si era occupata la stessa procura di Brescia, che alla fine ha chiesto di processare proprio Albertini per calunnia ai danni di Robledo. In quel contesto, nelle sue conversazioni con l'avvocato Aiello, Robledo chiedeva «solo che la mia lettera vada alla Commissione, che prenda atto che questo ha detto balle totali». Ora però il pg della Cassazione sostiene che Robledo, per poter preparare la sua lettera, avrebbe ricevuto dall'avvocato Aiello una serie di documenti, presentati da Albertini al Parlamento europeo per ottenere l'immunità, che andrebbero considerati «non pubblici». Aiello glieli avrebbe fatti arrivare per email. Nell'indagine bresciana erano finite anche alcune intercettazioni, registrate sempre dai pm antimafia calabresi, delle telefonate tra Aiello e il pm milanese Eugenio Fusco, titolare di un'inchiesta sul gruppo Finmeccanica che sembrava poter coinvolgere anche la Lega. Ma i magistrati bresciani hanno concluso che queste conversazioni, oltre a essere penalmente irrilevanti, «rientrano nella prassi comune dei contatti tra pm e difensori». Sull'archiviazione dell'inchiesta penale su Robledo, l'ultima parola spetterà ai giudici bresciani. Ma ora il procuratore aggiunto rischia di essere allontanato da Milano con un trasferimento disciplinare che potrebbe segnare la fine della lunga stagione dei veleni in procura.

Quel filo segreto tra la Lega e Robledo. Il pm di Milano intercettato al telefono con l’avvocato di Maroni. L’antimafia lo denuncia. E l’indagine finisce a Brescia, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Da una parte c’è il procuratore aggiunto di Milano, Alfredo Robledo, che in quei giorni sta indagando sui presunti ladroni del cerchio magico di Umberto Bossi. All’altro capo del telefono c’è l’avvocato Domenico Aiello, che dopo aver difeso Roberto Maroni sta diventando, proprio per effetto di quel terremoto giudiziario, il penalista di fiducia dell’intero partito padano. E in mezzo, ad ascoltare tutto, ci sono i carabinieri di una procura antimafia del Sud Italia. Che non si aspettavano certo di dover registrare dei colloqui riservati tra il pm anti-Lega e l’avvocato della Lega. Su questo strano cortocircuito tra giustizia e politica sta indagando da circa un anno la Procura di Brescia. Un’inchiesta riservatissima, che per il pm Robledo era iniziata molto male. L’alto magistrato, almeno fino a pochi giorni fa, risultava ancora indagato, a quanto pare per un’ipotetica violazione del segreto istruttorio. Ma in questi mesi i pubblici ministeri bresciani hanno ormai approfondito il caso, che sembra essersi ridimensionato. E ora a Brescia, dove nel frattempo il nuovo procuratore Tommaso Buonanno ha scalzato lo storico pm Fabio Salamone, i magistrati sarebbero orientati a chiedere l’archiviazione. Il verdetto finale comunque spetterà ai giudici delle indagini e fino ad allora Robledo resterà, suo malgrado, formalmente inquisito. Proprio come il suo grande nemico, il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati, a sua volta sospettato di omissione di atti d’ufficio, per un’inchiesta sulla Sea dimenticata in cassaforte e rivendicata da Robledo dopo un articolo de “l’Espresso”. La nuova indagine bresciana non c’entra nulla con il feroce scontro tra Robledo e Bruti: è invece uno spezzone di un’istruttoria altrui, molto più ampia e ancora segreta. Si sa soltanto che una procura antimafia, per ricostruire le trame di un colletto bianco, ha intercettato (come sempre) tutti i suoi interlocutori, imbattendosi per caso in Aiello. E così, tra il 2012 e il 2013, per qualche tempo finisce sotto controllo pure il telefonino dell’avvocato. Che, a sorpresa, si sente più volte con Robledo. I carabinieri annotano. E nella primavera 2013 la loro procura manda a Brescia due denunce di reato. Il tenore delle intercettazioni ha convinto quella procura antimafia che il pm Robledo e l’avvocato Aiello stiano orchestrando manovre per colpire l’ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini. Che è un rivale politico: proprio in quei mesi si è candidato contro Maroni in Lombardia. Altre telefonate fanno temere che il magistrato possa avere anticipato all’avvocato qualche notizia riservata della sua inchiesta sui presunti rimborsi-truffa incassati da altri partiti. Di qui la trasmissione al Nord delle intercettazioni. A Brescia però, per fortuna di Robledo, i pm sono in grado di ricostruire un quadro più completo. Albertini, infatti, è già indagato (e oggi rischia il processo) con l’accusa di calunnia proprio ai danni del magistrato milanese: era lui che tentava di screditarlo. Denunciato da Robledo, l’ex sindaco cercava di avere l’immunità dal parlamento europeo, che poi lo ha bocciato. In quelle telefonate Robledo non nasconde l’antipatia per Albertini, ma cerca solo di d’informarsi se la Lega a Bruxelles voterà a suo favore. Mentre per i rimborsi, all’avvocato che gli contesta di perseguitare solo la Lega, il pm ribatte che indagherà su tutti i partiti, come poi succederà, ma senza fornirgli particolari segreti. In attesa che i giudici bresciani tirino le somme, certo è che il pm e l’avvocato non parlavano di altre indagini che avrebbero potuto interessare entrambi. Nel 2010, quando è diventato il difensore di Maroni, Aiello guidava il ramo penale dello studio internazionale “Dla Piper”, dove a gestire il settore degli appalti era l’avvocata Giorgia Romitelli. Che nel marzo 2014, su richiesta di Robledo, è finita agli arresti domiciliari nell’inchiesta che ha decapitato Infrastrutture Lombarde, la centrale regionale delle grandi opere. 

Robledo chiede alla Finanza di aiutarlo a incastrare Bruti. Caos a Milano, l'aggiunto scrive al Csm e controaccusa il suo capo: "Su Expo dice il falso, ho le prove". E allega una relazione della GdF, scrive Anna Maria Greco su  “Il Giornale”. Alfredo Robledo non ci sta. Reagisce con durezza alle controaccuse del procuratore di Milano, Bruti Liberati, e scrive una nota al Csm, accusandolo di aver detto il «falso» e chiedendo di essere ascoltato per replicare. «Sono radicalmente inventate e prive di qualunque fondamento - tuona - le affermazioni su Expo». E da Magistratura indipendente arriva l'appello al Guardasigilli Andrea Orlando: si mandino gli ispettori alla Procura di Milano. Raccontano che l'aggiunto abbia dato in escandescenze martedì, quando ha saputo che nella lettera mandata al Csm il suo capo denunciasse l'episodio, definito «surreale», del doppio pedinamento di un indagato, che l'aggiunto avrebbe disposto rischiando di far saltare le indagini sull'Expo 2015. No, Robledo non ci sta e ha richiesto urgentemente alla Guardia di finanza una dettagliata relazione, allegata alla nota di due pagine inviata al Csm, per confutare la ricostruzione del suo capo. Una ricostruzione che tenta di presentare lui, il grande accusatore di irregolarità e violazioni nel Palazzo di giustizia milanese, come il colpevole di iniziative che hanno portato «grave intralcio» ad importanti inchieste. Ma Robledo fa una smentita a tutto campo. E con toni durissimi: «Le inveritiere affermazioni del procuratore» di Milano Edmondo Bruti Liberati - scrive - sul presunto "doppio pedinamento" (nelle indagini su Expo, ndr) appaiono altamente lesive della dignità della funzione di procuratore aggiunto, coordinatore del dipartimento dei reati contro la pubblica amministrazione che attualmente svolgo, e turba «il regolare svolgimento della funzione». Uno scontro senza precedenti. Nella sua lettera al Csm, resa nota martedì, Bruti contesta il fatto che l'aggiunto (il quale polemicamente non ha firmato le 7 richieste d'arresto per l'inchiesta Expo, sostenendo che gli sarebbe stato impedito di valutare compiutamente i fatti, «in violazione della normativa») non sia stato tenuto al corrente delle indagini. Nate, secondo il capo, nella Direzione antimafia guidata da Ilda Boccassini e coassegnate al Dipartimento sui reati contro la pubblica amministrazione, di cui Robledo è responsabile. Come esempio dei danni che l'aggiunto avrebbe causato, mettendosi di traverso alla sua gestione della procura, il capo parla della vicenda del doppio pedinamento. Contro il suo aggiunto ribelle Bruti denuncia molto altro, sostenendo di non aver potuto dire tutto nell'audizione a Roma del 15 aprile, perché allora l'indagine sull'Expo era ancora coperta dal segreto. Il procuratore sostiene infatti che, inviando il mese scorso al Csm copie di atti di questo procedimento, ancora «in delicatissima fase di indagine», Robledo «ha posto a grave rischio il segreto delle indagini». Ma l'aggiunto controbatte, su tutta la linea. Palazzo de' Marescialli deve ora valutare la fondatezza delle accuse di Robledo e delle controaccuse di Bruti Liberati. Per il primo, il procuratore avrebbe affidato troppe inchieste politicamente delicate (a cominciare da quella Ruby) a pm come la Boccassini e Francesco Greco, non per competenza ma perché li riteneva più fidati. Da notare, che Bruti Liberati è uno degli storici esponenti della corrente di sinistra Magistratura democratica, mentre Robledo è vicino a Magistratura indipendente. E proprio da Magistratura indipendente è arrivata la richiesta di un'ispezione. A farla il togato Antonello Racanelli, nel corso del plenum del Csm alla presenza del Guardasigilli Andrea Orlando. Il ministro ha replicato dicendo di attendere le decisioni del Csm per decidere. «Il quadro ormai è chiaro - racconta un consigliere di una delle commissioni interessate, la prima (incompatibilità ambientale e funzionale) e la settima (organizzazione degli uffici) - non ci dovrebbero essere altre audizioni». Il procuratore capo Bruti, che a luglio termina il suo incarico, dopo questo scontro clamoroso difficilmente potrà essere confermato alla guida dell'ufficio di Milano. Ma per lui, anche se la vicenda al Csm si chiude senza conseguenze, potrebbe profilarsi un'indagine disciplinare. In particolare, sulla vicenda del fascicolo Sea-Gamberale, dimenticato dal procuratore in cassaforte, come lui stesso ha ammesso. Ma anche per il suo vice Robledo potrebbero esserci conseguenze, perché anche se il suo comportamento fosse ritenuto «incolpevole», ci potrebbe essere all'orizzonte un trasferimento per incompatibilità con i colleghi dell'ufficio.

Ed ancora. «Incompatibilità ambientale» Via da Milano il pm Esposito, scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. Stop come pm e via dalla Procura di Milano: la sezione disciplinare del Csm ha deciso in via cautelare il trasferimento a Torino di Ferdinando Esposito per «incompatibilità ambientale» (con la sede giudiziaria di Milano) e «funzionale» (con il ruolo inquirente) del pm della Procura di Milano, nipote dell?ex procuratore generale della Cassazione (Vitaliano) e figlio del magistrato (Antonio) che in Cassazione nell?estate 2013 presiedette il collegio di 5 giudici che condannarono Silvio Berlusconi per frode fiscale Mediaset. Tra i capi di «incolpazione» disciplinare (per cui ora proseguirà il procedimento di merito) c?erano la disponibilità per quasi 4 anni di un attico per il quale circa 150.000 euro di affitto furono saldati dalla società di un manager e da un banchiere all?epoca inquisito dalla Procura di Milano; i rapporti con l?avvocato ed ex amico Michele Morenghi, per i quali il pm è al momento indagato a Brescia; prestiti di denaro da più persone, tra le quali un consulente proposto a un collega pm; e la storia del bigliettino dato durante le indagini a questo collega pm per chiedergli «inventiamoci qualcosa?è una cazzata ma è importante che le versioni coincidano». Esposito impugnerà il trasferimento cautelare disciplinare alle Sezioni Unite civili della Cassazione.

«Non si può fare l’ayatollah dell’Antimafia», scrive “Tempi”. «A vent’anni di distanza si deve prendere atto che è una vera illusione affidare alla magistratura le leve del cambiamento». Parola di Giovanni Fiandaca, giurista, candidato Pd alle Europee 2014. «Non si può fare l’ayatollah dell’Antimafia», dice oggi al Corriere della Sera Giovanni Fiandaca. Giurista palermitano, celebrato trai maggiori esperti di diritto penale, Fiandaca correrà nelle liste del Pd per le Europee. Il fatto è di straordinario interesse, soprattutto perché segnala che, anche a sinistra, qualcosa si muove nel campo di chi non ne può più di una politica asservita alla magistratura. Il fatto che poi Fiandaca sia un ex membro del Csm, maestro di Antonio Ingroia, uno dei penalisti di riferimento della sinistra, non fa altro che aumentare l’interesse per questa candidatura (molto osteggiata infatti dalle parti di Travaglio e manettari affini). Nei mesi scorsi, l’ordinario di Diritto Penale all’università palermitana ha avuto parole molto nette sia sulla trattativa Stato-Mafia sia sul suo allievo Ingroia che ha pesantemente criticato. Ma Fiandaca ha fatto anche un discorso di più ampio respiro sulla situazione della giustizia in Italia, coinvolgendo nelle critiche anche il mondo dell’informazione per la “drammatizzazione” eccessiva con cui si sofferma su indagini e processi solo per attizzare gli istinti più bassi e forcaioli. Al Corriere, dunque, Fiandaca spiega che l’Antimafia oggi va ripensata perché «nessuno può arrogarsi il diritto di decretare cosa è Antimafia autentica o fasulla». Così come un ripensamento va fatto sulla stagione che ha seguito Tangentopoli: «A vent’anni di distanza si deve prendere atto che è una vera illusione affidare alla magistratura le leve del cambiamento». Anche a Repubblica il professore dice: «La sinistra, per 20 anni, ha coltivato l’idea dell’intoccabilità dei magistrati. Da intellettuale non posso che criticare con forza questo appiattimento fideistico e dogmatico».

E poi c’è la coerenza, scrive “Lettera 43”. Grillo, spettacolo nel teatro sponsorizzato da Monte Paschi di Siena. Per lo show Beppe ha affittato il Mandela Forum di Firenze. Struttura sostenuta da Mps e Unicoop. Chi è senza peccato, scagli la prima pietra. E anche l'integerrimo Beppe Grillo, in prima linea nella crociata contro lo strapotere delle banche, ha fatto un passo falso. Quando il leader M5s ha fatto irruzione all'assemblea dei soci della Monte Paschi di Siena il 29 aprile, non ha certo usato i guanti di velluto. «Questa è la mafia del capitalismo, non la Sicilia», ha sbottato il comico. «Qui siamo nel cuore della peste rossa e del voto di scambio. Mps è in tutti gli appalti». Concetto ribadito anche nel comizio di Piombino di sabato 26: «Noi siamo qui nel regno schifoso di questa peste rossa. Il Pd è la peste rossa e voi continuate e votarlo... Se credete ancora nei sindacati e nella politica io non voglio il vostro voto». Una «peste» della quale evidentemente Grillo non teme il contagio, visto che la tappa fiorentina del suo tour Te la do io l'Europa è stata organizzata il 12 aprile al Mandela Forum. La struttura è in gestione dell'associazione Palasport di Firenze, costituita da Claudio Bertini, Rosetta Buchetti e Massimo Gramigni, si legge nel sito. Ed è sponsorizzata tra gli altri anche da Monte dei Paschi e Unicoop Firenze. E anche sulle coop Grillo non ci è mai andato giù leggero: già nel 2009 quando in un post le definì «rosse sì, ma di vergogna». Nel 2012, a Budrio, in provincia di Bologna, il capo pentastellato in un comizio disse pure che il M5s non avrebbe vinto perché «stanno comprandosi i voti, stanno comprandoseli le cooperative». Certo è che né Mps né Unicoop hanno finanziato in alcun modo lo show. E che la struttura, a quanto risulta a Lettera43.it, è stata noleggiata dall'agenzia Ad Arte di Firenze al «solito costo e cioè l'8% dell'incasso netto», cifra che nessuno ha voluto dichiarare. Fatto sta che un affitto dagli «appestati» Beppe non l'ha disdegnato.

Codice di comportamento grillino: incoerenza a cinque stelle. Oggi tuona contro l'assenza del vincolo di mandato e minaccia una multa di 250 mila euro per i parlamentari grillini a Strasburgo che vengano sfiduciati dalla rete. Ieri difendeva l'articolo 67 della Costituzione con toni altrettanto accesi: ma qual è il vero Grillo? Scrive Paolo Papi  su “Panorama”. Il codice di comportamento per i futuri parlamentari europei (con annessa penalità da 250mila euro per quei dissidenti che rifiutano di dimettersi a seguito di una espulsione decretata dagli iscritti certificati del M5S) che Beppe Grillo ha pubblicato ieri sul suo blog (Comunicato pubblico numero 54 ) ripropone il tema, caro al MoVimento, dell'assenza del vincolo di mandato previsto da un articolo della Costituzione contro il quale il comico ha spesso polemizzato con toni infuocati e barricaderi: «L'articolo 67 della Costituzione della Repubblica italiana - tuonava Grillo in un recente post dal titolo Circonvenzione di elettoreconsente la libertà più assoluta ai parlamentari che non sono vincolati né verso il partito in cui si sono candidati, né verso il programma elettorale, né verso gli elettori. Insomma, l'eletto può fare, usando un eufemismo, il cazzo che gli pare senza rispondere a nessuno». Ora lasciamo perdere per un attimo la questione della palese illegalità di una norma tutta interna al Movimento  che obbligherebbe i parlamentari grillini a versare 250 mila euro qualora fossero espulsi e rifiutassero di dimettersi, sulla quale scrive oggi Pietro Salvatori dell'Huffington Post . Il punto è un altro e riguarda, come anche sostiene Grillo, l'omniscente memoria della rete, capace di conservare  dichiarazioni imbarazzanti in palese contraddizione con le nuove parole dei politici della Kasta, come la chiama, di cui a farne le spese sono stati negli anni quasi tutti i politici, da Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Peccato che in questo caso, a pagare pegno all'incoerenza, sia proprio Grillo   che, fino a qualche anno fa, difendeva l'articolo 67 della Costituzione sull'assenza del vincolo di mandato con toni tanto accesi quanto quelli che usa ora per chiederne l'abolizione. Il primo post è del 2010, ai tempi della furibonda polemica tra l'ex presidente della Camera Gianfranco Fini (di cui Berlusconi chiedeva le dimissioni) e il premier allora in carica. Scriveva Grillo: «L'articolo 67 della Costituzione è molto chiaro. Chi è eletto risponde ai cittadini, non al suo partito». Ancora più chiaro fu nel 2005 quando polemizzò in un altro post contro l'ex ministro Giovanardi, reo di avere dichiarato quello che oggi sostiene Grillo, e cioé che «Io non sono dipendente di nessuno se non dei miei elettori» e ancora «in democrazia ognuno risponde delle sue idee e degli elettori che lo hanno votato». Chiosava allora Beppe Grillo, nelle vesti allora di difensore dell'articolo 67 della Costituzione: «Se ne deduce che chi ha votato l’ex dipendente Giovanardi (ma come fa a sapere chi è se il voto è segreto?) deve pagargli lui solo lo stipendio, non tutti i cittadini italiani». Oggi, la nuova capriola. In nome di una coerenza che dura, come gran parte della classe dirigente, il tempo di un battito di ciglio.

C’è un passaggio della solenne cerimonia del 2015 che traccia un bilancio crudo, amaro. Giorgio Santacroce, primo presidente della Cassazione, parla a un certo punto di «parabola discendente». Si riferisce ai suoi colleghi magistrati, scrive Errico Novi su “Il Garantista”. E se pure parte dalla «campagna irresponsabile di discredito» condotta «per anni» contro le toghe, e dà così la colpa anche alla politica, poi fa una diagnosi assai brutale: siamo davanti a «una situazione di crescente disaffezione verso la magistratura, dopo l’alto consenso dei tempi di Mani pulite è iniziata», appunto, «una parabola discendente».soprattutto, «i magistrati appaiono, anche quando non lo sono, conservatori dell’esistente e portatori di interessi corporativi». Di più: devono superare i loro «arroccamenti », e il richiamo pronunciato «davanti al Csm dal presidente Giorgio Napolitano» deve costituire per loro «un monito perché non ostacolino il rinnovamento, ma anzi si rinnovino essi stessi».

Alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario le toghe finiscono dunque sul banco degli imputati, quanto meno al pari della politica. Le parole di Santacroce sono nette, ancora di più quando parla delle «tensioni» e delle «cadute di stile» che si registrano soprattutto fra i pm. Non è da meno il pg di Cassazione Gianfranco Ciani, che una mezz’ora più tardi interviene a sua volta nell’aula magna del Palazzaccio romano e si scaglia contro quei pm «troppo deboli alle lusinghe della politica». Due relazioni (di cui riportiamo ampi stralci nelle due pagine successive, ndr) che lasciano almeno intravedere una svolta. I riferimenti dei due più alti magistrati della Suprema Corte alle mancanze dei colleghi, ai limiti e alle storture del Csm, al vizio del correntismo in toga, sono numerosissimi.

Si sentono stretti nella morsa. E reagiscono, scrive “Il Garantista”. Dopo le scudisciate della cerimonia in Cassazione, i magistrati delle Corti d’Appello di tutta Italia tentano di replicare ai massimi vertici della Suprema Corte. Venerdì il primo presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani avevano parlato di toghe arroccate nel corporativismo, di pm cedevoli alle lusinghe dei media, di sacche d’inefficienza che il Csm spesso non riconosce.  Insomma l’avevano fatta nera. E così nel day after, cioè nella giornata di ieri dominata dalle cerimonie inaugurali nei singoli distretti giudiziari, si è sentito di tutto. Non su Santacroce e Ciani, ma contro l’altro polo del potere: la politica. Si va dalla riforma di Renzi giudicata «ben misera cosa» a Milano al presidente di Reggio Calabria Macrì secondo cui «l’assenza di iniziative legislative di vasta portata» farà affondare «la giustizia nella palude». E poi si contano gli anatemi contro la corruzione che soffoca Roma da parte del presidente capitolino Antonio Marini, il quadro apocalittico delle collusioni tra camorra e e malapolitica di Antonio Buonajuto a Napoli, e insomma una batteria di denunce che stavolta si spostano dai vizi di giudici e pm a quelli delle altre, corrotte istituzioni.

Da Torino è partita la bordata più pesante, scrive “La Stampa”. Il procuratore generale Marcello Maddalena usa l’arma del sarcasmo per affrontare uno dei temi più controversi del piano del governo: «Il presidente del Consiglio non ha trovato niente di meglio che ispirarsi al personaggio di Napoleone della Fattoria degli animali di orwelliana memoria, che aveva scoperto il grande rimedio per tutti i problemi della vita: far lavorare gli altri fino a farli crepare dalla fatica, come il cavallo Gondrano». 

Dottor Maddalena, perché questo affondo rivolto al presidente del Consiglio?  

«Adottare un decreto di quel tipo, ammissibile solo in casi di necessità e urgenza, significa additare un’intera categoria di fronte all’opinione pubblica considerandola responsabile del cattivo funzionamento della Giustizia. Sono convinto che ciascuno possa dare di più, ma in questo caso i contenuti sono discutibili. E il modo offende». 

Eppure aumentano i processi che cadono in prescrizione.  

«Appunto. In un panorama segnato da migliaia di processi finiti in prescrizione sostenere che i problemi da affrontare sono le ferie dei magistrati e la responsabilità civile mi pare difficilmente tollerabile». 

Durissimo affondo da Maurizio Carbone, segretario nazionale dell'Anm: "Respingiamo fortemente questa idea demagogica che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti". La proposta di riforma dell’Anm è quella sulla prescrizione. "Non ci possiamo più permettere una prescrizione, soprattutto per i reati di corruzione, che parta dal momento in cui si commette il fatto per tutti e tre i gradi di giudizio. Questo significa non avere una risposta di giustizia. Noi chiediamo - ha concluso Carbone - che i termini di prescrizione vengano sospesi con l’inizio del processo di primo grado o almeno dopo la sentenza di primo grado".

«I Tribunali non sono proprietà dei giudici», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Vogliono rovinare la “festa”. Oggi sarebbe la giornata della giustizia, proclamata dall’Anm per protestare contro la riforma del ministro Orlando e in particolare contro il taglio delle ferie. I penalisti intervengono con una certa, brutale franchezza e mettono in discussione i dati che oggi i magistrati proporranno ai cittadini, per l’occasione liberi di entrare nei Palazzi di giustizia. Intanto, dice il presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci, l’iniziativa del sindacato delle toghe è «la dimostrazione, come se ce ne fosse bisogno, di una concezione proprietaria della giustizia e dei luoghi in cui essa si celebra, da parte dei magistrati». I cittadini, dice, «non hanno bisogno di alcun invito per accedere al Tribunale, luogo sacro in cui si svolgono i processi in nome del popolo italiano». Dopodiché «i numeri forniti dall’Associazione magistrati rischiano di offrire una visione autoreferenziale e alterata della situazione in cui versa la giustizia italiana, nella quale si enfatizza la loro efficienza a tutto discapito di una realtà che ci vede fra i primi paesi in Europa per numero di condanne dalla Corte di Strasburgo». I numeri sono altri, secondo il presidente dei penalisti, «a cominciare dalla sostanziale inattuazione del sistema di controllo sulla responsabilità dei magistrati, dalle frequentissime sentenze di riforma dei giudizi di primo grado, per passare al cospicuo importo dei risarcimenti che lo Stato è costretto ogni anno a pagare per indennizzare le vittime degli errori giudiziari, all’inevitabile ricorso, da parte della magistratura togata, all’ausilio di magistrati onorari, il cui apporto è determinante per il raggiungimento di quegli obiettivi di produttività che la Anm enfatizza». Su una delle “contro-statistiche” proposte da Migliucci interviene anche il cahier de doleance del viceministro della Giustizia Enrico Costa, che dà notizia del boom di risarcimenti per ingiusta detenzione ed errori giudiziari pagati dallo Stato nel 2014. «L’incremento rispetto all’anno precedente è del 41,3%: 995 domande liquidate per un totale di 35 milioni e 255mila euro». Dal 1992, osserva Costa, «l’ammontare delle riparazioni raggiunge così i 580 milioni: sono numeri che devono far riflettere, si tratta di persone che si sono viste private della libertà personale ingiustamente e per le quali lo Stato ha riconosciuto l’errore. Dietro c’è una storia personale, ci sono trepidazioni, ansie, che un assegno, anche di migliaia di euro, non può cancellare». Le contromisure di Parlamento e governo sono note: da una parte la legge sulla custodia cautelare, che naviga ancora in acque incerte, dall’altra quella sulla responsabilità civile dei giudici, prossima all’approvazione della Camera. Sui problemi più generali del processo penale è ora all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio l’atteso ddl del governo, che si accoda al testo base adottato proprio ieri dai deputati sulla prescrizione. «Sono soddisfatta, abbiamo avviato tutti e due i provvedimenti, coerenti tra loro», dice la presidente Donatella Ferranti. Su un altro capitolo della riforma, la soppressione di alcuni Tribunali, arriva dalla Consulta la bocciatura del referendum con cui alcune regioni avevano impugnato le chiusure. Tra queste, c’erano anche le sedi delle zone terremotate dell’Abruzzo.

Eppure c’è ancora un’altra verità che si tace nella liturgia laica giudiziaria.

Sono Procure o nidi di vipere? Si chiede Piero Sansonetti su “Il Garantista”. In un giorno solo tre casi che dovrebbero scuotere la credibilità della magistratura (ma in Italia è difficile scuoterla…). Il più clamoroso è l’atto di accusa dell’architetto Sarno, che è il testimone chiave del processo contro l’ex presidente della Provincia Filippo Penati (Pd). Sarno ha dichiarato: «Lo ho accusato, ingiustamente, perché la Procura mi ha fatto capire che se non lo accusavo non uscivo più di cella». Il secondo caso viene dalla Calabria: una Pm (la dottoressa Ronchi) accusata di abuso di ufficio e falso ideologico per avere provato a incastrare un collega (Alberto Cisterna, all’epoca numero due dell’antimafia nazionale). Il terzo caso è quello del sostituto Procuratore di Milano, Robledo, intercettato (abusivamente?) e affondato giornali se ne occupano poco di queste cose, cioè delle lotte di potere, violentissime, che scuotono la magistratura italiana e lasciano molte vittime sul terreno. Se ne occupano poco non perché le notizie non abbiano un buon interesse giornalistico, semplicemente perché il patto tra giornali e magistratura, che vige da molti anni, ha creato un sistema di assoluta omertà. Vediamo: un sindaco indagato per abuso di ufficio fa un bello scandalo, e sulla base delle leggi vigenti – se condannato in primo grado – porta pressoché automaticamente alla rimozione del sindaco stesso e a elezioni anticipate. 

I capi della Cassazione sgridano (un po’) i Pm, scrive Errico Novi su  “Il Garantista”. C’è un passaggio della solenne cerimonia che traccia un bilancio crudo, amaro. Giorgio Santacroce, primo presidente della Cassazione, parla a un certo punto di «parabola discendente». Si riferisce ai suoi colleghi magistrati. E se pure parte dalla «campagna irresponsabile di discredito» condotta «per anni» contro le toghe, e dà così la colpa anche alla politica, poi fa una diagnosi assai brutale: siamo davanti a «una situazione di crescente disaffezione verso la magistratura, dopo l’alto consenso dei tempi di Mani pulite è iniziata», appunto, «una parabola discendente».soprattutto, «i magistrati appaiono, anche quando non lo sono, conservatori dell’esistente e portatori di interessi corporativi». Di più: devono superare i loro «arroccamenti », e il richiamo pronunciato «davanti al Csm dal presidente Giorgio Napolitano» deve costituire per loro «un monito perché non ostacolino il rinnovamento, ma anzi si rinnovino essi stessi». Alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario le toghe finiscono dunque sul banco degli imputati, quanto meno al pari della politica. Le parole di Santacroce sono nette, ancora di più quando parla delle «tensioni» e delle «cadute di stile» che si registrano soprattutto fra i pm. Non è da meno il pg di Cassazione Gianfranco Ciani, che una mezz’ora più tardi interviene a sua volta nell’aula magna del Palazzaccio romano e si scaglia contro quei pm «troppo deboli alle lusinghe della politica». Due relazioni (di cui riportiamo ampi stralci nelle due pagine successive, ndr) che lasciano almeno intravedere una svolta. I riferimenti dei due più alti magistrati della Suprema Corte alle mancanze dei colleghi, ai limiti e alle storture del Csm, al vizio del correntismo in toga, sono numerosissimi. Più che in altre occasioni l’inaugurazione dell’anno giudiziario vede la magistratura indicata tra le componenti responsabili della crisi della giustizia. Alla fine, mentre il primo presidente Santacroce e il pg Ciani sono piuttosto severi con i colleghi, deve provvedere il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, che è un politico e non un giudice, a una difesa d’ufficio delle toghe. Dice che «una magistratura compressa dalle inefficienze del sistema, suo malgrado non viene percepita come autorevole». Certo, dopo di lui, e su bito prima di Ciani, ci prova anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando a sussurrare qualche parola dolce. Oltre a definire i giudici «protagonisti del cambiamento» promette loro una mano un po’ più delicata sulla spinosa questione dei pensionamenti: «Il governo si riserva un’ulteriore riflessione sull’applicazione della nuova disciplina» che abbassa a 70 anni l’età pensionabile dei magistrati, spiega il Guardasigilli. Ma cambia poco. Continuerà a percepirsi assai più l’eco delle parole di Ciani a proposito della «magistratura requirente» che «nell’anno appena decorso», in taluni dei suoi appartenenti, ha dimostrato «un eccesso di debolezza nei confronti delle lusinghe dell’immagine, della popolarità, e soprattutto della politica ». E qui per giunta arriva un’altra stoccatina allo stesso Csm: sulla questione, dice ancora il procuratore generale della Cassazione, «è necessario un tempestivo intervento del legislatore per una più adeguata regolamentazione della materia: quella secondaria del Consiglio superiore si è rivelata insufficiente». Viceversa sia il pg che il primo presidente Santacroce promuovono seppur con riserva la riforma di Orlando. Plaudono soprattutto ad alcuni degli interventi sul civile, in particolare alla negoziazione assistita che dovrebbe aiutare ad alleggerire il carico dei tribunali. Un motivo di sollievo, per il ministro della Giustizia, in una fase in cui sul suo ruolo si allunga l’ombra di Nicola Gratteri, che pochi giorni fa ha annunciato la ”sua” riforma del processo penale. Ma l’altro tema forte nel Palazzo di giustizia capitolino è quello delle carceri, e della condizione dei detenuti in particolare. «C’è ancora molto da fare», avverte Santacroce, «le misure prese vanno senz’altro nella direzione giusta ma non sono risolutive. Anche se il numero dei detenuti tende a diminuire, l’emergenza sovraffollamento, suicidi e tensioni nelle strutture penitenziarie non è ancora rientrata e non può protrarsi ulteriormente». Bisogna assicurare, ricorda il primo presidente della Suprema Corte, «il rispetto della dignità della persona nella fase dell’esecuzione della pena: le carceri sono lo specchio della civiltà di un Paese, sono la carta di identità dello Stato costituzionale di diritto. Se è legittimo toglier a un uomo la libertà, non è legittimo togliergli la dignità». Persino qui non mancano critiche alla magistratura: «Il problema dell’eccesso di carcerazione chiama in causa anche i giudici, che non possono limitarsi a sollecitare sempre e comunque l’intervento della politica e del legislatore », avverte Santacroce, «è necessario che assumano anche su di loro la responsabilità di rendere effettivo il principio del minimo sacrificio possibile, che deve governare ogni intervento, specie giurisdizionale, in tema di libertà personale». Un passaggio che riscuote il plauso dell’associazione Antigone («Santacroce ha totalmente ragione, anche sull’illegittimità della pena per chi non se l’è ancora vista rideterminare dopo la bocciatura della Fini-Giovanardi da parte della Consulta») e dell’Unione Camere penali. «Siamo d’accordo sulla visione delle sanzioni penali e del carcere come extrema ratio» e sul «richiamo ad approvare il reato di tortura», dice il presidente Beniamino Migliucci. Una svolta c’è. Almeno sui limiti della magistratura e sul tema delle carceri. E un po’ di merito, su questo, a Napolitano andrà dato.

Desirèe Di Geronimo vittima dei corvi o della politica? Alta tensione, chi tocca i fili muore; in sostanza, quando si mettono le mani su vicende che scottano e che hanno tutta l’aria di essere poco pulite, succede che si rischia di turbare certi equilibri tra politica e malaffare. I giornali esprimono differenti opinioni sul comportamento del sostituto procuratore della Repubblica che ha avuto l’ardire di osare di dubitare della buona fede di personaggi legati al Presidente della Giunta Regionale, il comunista Nicola Vendola. La Di Geronimo, da inquirente a inquisita e questo su sollecitazione di togati di “area” per punire la loro collega, rea di aver espresso perplessità sul comportamento del giudice barese Susanna De Felice che aveva assolto Vendola. Al Tribunale di Bari comandano forse i togati di “area”? Significa che sono politicamente schierati? Sarebbe questa la Giustizia uguale per tutti? E il CSM non è anche espressione della politica? Il pesce come si è soliti dire, puzza dalla testa, e se nei tribunali tra corvi e  veleni si è scatenata una rivolta, i cittadini possono ancora credere in una Giustizia giusta a due binari? Il Parlamento deve urgentemente predisporre una commissione d’inchiesta finalizzata a riportare serenità tra i magistrati il cui compito è quello di essere imparziale e di non ritenersi padroni di vita e di morte. E’ urgente la riforma della Giustizia e la separazione delle carriere. Basta con l’accanimento giudiziario nei confronti di nemici politici da eliminare. Abbiamo compreso poco nella vicenda Di Geronimo-Bretone contro Susanna De Felice difesa dai togati di “area”, ed avendo come motivo della contesa l’assoluzione di Vendola da una pesante accusa. Ricordo solo per la cronaca che in questi tempi recenti nel tribunale di Bari non si è respirata aria salubre. In attesa che le vicende si chiariscano esprimiamo la nostra convinta solidarietà alla Dott.ssa Desirèe Di Geronimo  autrice di tante inchieste coraggiose, scrive Lucio Marengo su Made in Italy.

La Pm che ha indagato sull’ex assessore alla Sanità della Regione Puglia Alberto Tedesco si sentiva isolata dai suoi stessi colleghi, scrivono Giovanni Longo e Massimiliano Scagliarini su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. E oggi che a Lecce appare come parte offesa, è interessante leggere le dichiarazioni di Desirèe Digeronimo agli ispettori del ministero della Giustizia: gli stessi che hanno ritenuto «non sussistente» l’ipotesi di dissapori in Procura a Bari. E che l’accusano di non essersi astenuta, visti i suoi rapporti con una delle amiche più strette di Lea Cosentino, ex manager della Asl Bari indagata. Ma il procuratore di Lecce Motta e l’aggiunto De Donno la vedono in modo diverso, tanto da contestare al Pm Giuseppe Scelsi l’abuso d’ufficio: avrebbe intercettato Paola D’Aprile proprio per «incastrare» la Digeronimo. Il racconto parte nell’estate 2009, quando inizia un «bombardamento mediatico» anche nei suoi confronti: «Infuriava una campagna di stampa sulla vicenda Tarantini che mi preoccupò non poco per il clima di sovraesposizione, e ritenni pertanto opportuno (...) avvertire il procuratore delle intercettazioni tra il Tedesco e il fratello di Pino Scelsi, poiché emergeva dalla mia indagine un conflitto acceso tra i Tarantini e Tedesco, e che il dottor Michele Scelsi, fratello del collega, si lamentava con Tedesco di alcune scelte in materia sanitaria effettuate dalla Cosentino, all'epoca direttore generale dell'Asl Bari, indagata dal collega e da me unitamente al Tedesco». Dicevamo dell’isolamento. «Dall'estate del 2009 e sino a quando ho iniziato a collaborare con i colleghi Bretone e Quercia (...) sono stata completamente isolata dagli altri colleghi e pertanto, non ho avuto più rapporti con loro, come ad esempio con Scelsi, la Pirrelli, la Iodice, persone con le quali maggiormente mi confrontavo in merito a questioni lavorative, perché eravamo amici, anche per la comunanza correntizia («Magistratura democratica). A un certo punto ho capito che l'indagine sull'assessorato alla Sanità, che coinvolgeva il Tedesco, esponente del centrosinistra, verosimilmente aveva inciso sui miei rapporti con loro. Ho chiesto formalmente, anche a seguito di ciò, la cancellazione dalla mia corrente». E come esempio del clima la Digeronimo ricorda l’episodio in cui la collega Iodice le negò l’accesso ad alcune intercettazioni «con allegato il parere dei due procuratori aggiunti Drago e Di Napoli». «Molto spesso apprendevo dalla stampa dell'esistenza di elementi utili per le indagini in corso su Tedesco». E poi le intercettazioni della D’Aprile. Dopo una cena con la Gdf, Laudati «mi fece ascoltare la registrazione di una conversazione tra me e la D'Aprile e mi chiese di chiarire alcune circostanze rilevabili dal colloquio». E così in Procura cominciano i veleni: «Nella stessa circostanza in cui Laudati mi fece ascoltare la conversazione di cui sopra, mi disse, sempre informalmente, che Scelsi aveva diffuso in ufficio pettegolezzi sul mio conto dicendo che io e Marzano lo avevamo pressato per archiviare il procedimento a carico della Cosentino (...). Inoltre, gli evidenziai che la Cosentino era ancora indagata nel mio procedimento». Poi, dice la Digeronimo, ne parlò con Scelsi: «Gli dissi come mai gli era venuto in mente di mettere in giro voci del genere sul mio conto, prive del tutto di fondamento. Lui ha farfugliato che “si era dovuto difendere perché, dopo l'arrivo di Laudati, gli erano stati contestati errori nelle indagini”».

C'è la prova: le toghe rosse hanno in mano la politica. Fioroni rivela: l'Anm ha premuto perché ritirassi la candidatura in commissione Giustizia della Camera per far posto alla Ferranti. Poi le strane smentite, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. La legge del contrappasso colpisce l'Anm. Mentre protesta a gran voce contro il Pdl che «delegittima» i magistrati sulle vicende giudiziarie di Berlusconi, ecco che le scoppia in casa la bomba Fioroni. A dimostrazione delle sue logiche di potere e delle pretese di condizionare la politica. La nota dell'Anm critica le «espressioni violente e offensive, estranee a ogni legittimo esercizio del diritto di critica» contro i magistrati e richiama gli inviti di Giorgio Napolitano ad evitare conflitti. Nella stessa giornata Beppe rivela (ma poi in serata smentisce) di telefonate avute dal sindacato delle toghe per garantire un posto chiave in parlamento a un'esponente di Magistratura democratica: Donatella Ferranti, ex segretario generale del Csm. Nel caos che regna nel Pd sul dopo-Bersani, Fioroni doveva fare il presidente di commissione ma è costretto al passo indietro. «Mi hanno detto - racconta a Repubblica- o ci sei tu o c'è la Ferranti. Ha cominciato a chiamarmi l'Anm. "Non sappiamo con chi parlare al Pd. Per favore, abbiamo bisogno della Ferranti alla Giustizia. Sa, con Nitto Palma al Senato...". E io ho risposto obbedisco ai magistrati, mica al Pd». Segue scambio di sms, sempre rivelato dall'esponente Pd, con il premier Enrico Letta che gli chiede se è «contrariato» e l'ex-Ppi che gli promette di contrariarlo sabato all'assemblea del partito. La storia suscita una sfilza di domande inquietanti. Perché dall'Anm chiamano un Pd per una questione di posti? Perché hanno bisogno della Ferranti in commissione Giustizia della Camera? Perché, poi, Fioroni dovrebbe «obbedire» ai magistrati? In serata arriva la smentita dell'ex ministro, ieri a colloquio, sembra, col Guardasigilli Cancellieri: «Tutte le ricostruzioni sono fantasiose e infondate. Nessuna associazione, tantomeno di magistrati, ha mai parlato con me, ho condiviso la presidenza della commissione Giustizia all'onorevole Ferranti». Anche l'Anm in serata smentisce: «Mai intervenuta per condizionare l'elezione del presidente della commissione Giustizia della Camera». Dietrofront a parte, sembra che la Ferranti pensasse di avere in tasca il sottosegretariato alla Giustizia e per lei sia stato un colpo vederselo scippare da Giuseppe Berretta. Tanto più che in quota Pdl è stato scelto Cosimo Ferri, leader della corrente d'opposizione all'Anm, Magistratura indipendente. Una nomina andata di traverso al sindacato delle toghe e contestata da Md. Come quella di Palma, presentata come uno scandalo. Tutto questo dimostra quanto l'Anm pretenda di essere forza politica, pur lanciando appelli all'indipendenza e autonomia della magistratura, e pretenda di condizionare le scelte del Palazzo. Collateralismo, lo chiamano. «Se fosse vero quello che dice Fioroni - commenta al Giornale Lorenzo Pontecorvo, vicepresidente di Mi e membro del direttivo dell'Anm - sarebbe molto grave. L'associazione dovrebbe occuparsi dello svolgimento dell'attività giudiziaria, non intromettersi nelle questioni della politica, tantomeno se si tratta delle commissioni Giustizia del parlamento». Il fatto è che l'Anm, guidata dal cartello di sinistra e da Unicost, vive una crisi storica. Rappresenta forse la metà dei 9mila magistrati, se gli iscritti sono ben sotto gli 8mila, 3mila votano Mi, 300 Proposta B e tanti non partecipano. La base è in subbuglio, insofferente per il correntismo e un vertice troppo orientato a sinistra che si preoccupa di politica e non di questioni sindacali, si moltiplicano i movimenti indipendenti e Mi, uscita vittoriosa dalle urne, si trova all'opposizione.

Altro che "toghe rosse": ecco la pattuglia di magistrati che difende Berlusconi. Sin dal 1994 il leader indiscusso del centrodestra accusa i pubblici ministeri "comunisti". Un articolo dell'Espresso racconta come al suo fianco in realtà ci sia una vera e propria pattuglia di magistrati. E' uno dei cavalli di battaglia di Silvio Berlusconi, e non certo da oggi. Sin dal 1994 il leader indiscusso del centrodestra accusa i pubblici ministeri 'comunisti'. Un articolo dell'Espresso racconta come al suo fianco in realtà ci sia una vera e propria pattuglia di magistrati di peso, scesa in campo con il centrodestra per salvare il Cavaliere da guai. Da Nitto Palma a Giacomo Caliendo. Dopo l'ultima tornata elettorale la pattuglia dei giudici diventati parlamentari si è dimezzata: tra Camera e Senato sono nove (cinque del Pd, tre del Pdl, uno di Scelta Civica), mentre erano diciassette nella precedente legislatura. Il partito di Berlusconi non ha mai smesso di portare in parlamento toghe di livello come l'ex ministro Francesco Nitto Palma e l'ex sottosegretario alla giustizia Giacomo Caliendo, che sono stati appena rieletti al Senato. Caliendo si è messo in luce come teorico della riforma che punta a dimezzare le pene per il concorso esterno in associazione mafiosa: una leggina ribattezzata dai critici "salva-Dell'Utri" (e per ora accantonata) per il suo sicuro effetto di evitare la galera al manager fondatore di Forza Italia, ricondannato in appello a sette anni proprio per quel reato. Nel frattempo Nitto Palma, numero uno del Pdl in Campania, si è fatto notare prima per la scelta di visitare in carcere l'ex sottosegretario Nicola Cosentino, arrestato per camorra. Ancora più preziosi per Berlusconi, scrive il settimanale, sono quei magistrati che entrano nei palazzi come tecnici, come il giudice Augusta Iannini, chiamata dal 2001 a dirigere il ministero della Giustizia e ora nominata vicepresidente dell'Autorità garante della privacy. "Nemica" dei pm milanesi ha aperto un sito (augustaiannini.it) dove taccia di "maschilismo" chi la etichetta solo come moglie di Bruno Vespa e rivendica i suoi 35 anni di lavoro come "giudice imparziale". Il corteggiamento delle toghe ad Arcore, del resto, precede addirittura la nascita di Forza Italia. Correva l'anno 1993, quando Berlusconi riuscì a sfilare al pool Mani Pulite l'allora pm Tiziana Parenti: eletta dopo mille utilissime polemiche sulle tangenti rosse, ora fa l'avvocata ed è vicina al nuovo Psi. E dopo il trionfo di Forza Italia nel '94 perfino Di Pietro e Piercamillo Davigo si videro offrire poltrone da ministri nel primo governo Berlusconi, che tre mesi dopo, al culmine delle indagini sulla Fininvest, varò il famoso decreto Biondi (niente carcere per le tangenti).

Alla faccia delle toghe rosse, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Berlusconi accusa i pm 'comunisti' ma al suo fianco c'è una vera e propria pattuglia di magistrati di peso, scesa in campo con il centrodestra per salvare il Cavaliere da guai. Da Nitto Palma a Giacomo Caliendo. Toghe rosse? No, azzurre. Vent'anni di bombardamenti della propaganda berlusconiana su fantomatici complotti dei giudici al servizio dei comunisti (o viceversa) rischiano di far dimenticare il ruolo e l'importanza dei magistrati che sono invece scesi in campo con il centrodestra. Con le ultime elezioni la pattuglia dei giudici diventati parlamentari si è dimezzata: tra Camera e Senato, l'associazione Openpolis ne ha contati nove (cinque del Pd, tre del Pdl, uno di Scelta Civica), contro i diciassette della precedente legislatura. Eppure prima e dopo la campagna elettorale si è parlato moltissimo di loro. Non di tutti, però, solo di alcuni: da Piero Grasso, l'ex procuratore antimafia eletto presidente del Senato con il Pd, ad Antonio Ingroia, il pm di Palermo che dopo la bocciatura politica ora si oppone al trasferimento alla procura di Aosta. Ma anche il partito di Berlusconi non ha mai smesso di candidare e continua tutt'oggi a portare in parlamento toghe di grande esperienza come l'ex ministro Francesco Nitto Palma e l'ex sottosegretario alla giustizia Giacomo Caliendo. Rieletti al Senato, hanno già sfornato disegni di legge assai contestati, soprattutto dai magistrati rimasti nei tribunali. Caliendo si è messo in luce come teorico della riforma che punta a dimezzare le pene per il concorso esterno in associazione mafiosa: una leggina ribattezzata dai critici "salva-Dell'Utri" (e per ora accantonata) per il suo sicuro effetto di evitare la galera al manager fondatore di Forza Italia, ricondannato in appello a sette anni proprio per quel reato. Nel frattempo Nitto Palma, numero uno del Pdl in Campania, si è fatto notare prima per la scelta di visitare in carcere l'ex sottosegretario Nicola Cosentino, arrestato per camorra, e poi per una raffica di progetti di legge (al momento nove, ma di altri sette è cofirmatario) che hanno fatto rumore: dal rilancio del condono per l'abusivismo edilizio, ai nuovi illeciti disciplinari a geometria variabile per colpire i pm ritenuti politicizzati. Il bello è che nessuno ha mai accusato loro, i due ex magistrati berlusconiani, di aver fatto politica con indagini e processi, nonostante la delicatezza dei tanti fascicoli trattati. Caliendo, napoletano d'origine, è stato per più di trent'anni giudice e sostituto procuratore generale a Milano e poi in Cassazione, diventando anche capocorrente al Csm: un magistrato ascoltatissimo dal centrodestra (grazie ai buoni rapporti con ex dc come Giuseppe Gargani) ancor prima di entrare in parlamento nel 2008. Mentre Nitto Palma è stato uno dei pm di punta della procura di Roma, prima di diventare amico di Cesare Previti (l'ex ministro oggi pregiudicato) e sbarcare in parlamento nel 2001, segnalandosi subito per un tentativo di resuscitare l'immunità parlamentare totale. Oggi è il presidente della commissione giustizia del Senato. Nel lustro 2008-2013, tra i magistrati in aspettativa perché eletti, il Pd ne schierava 9, il Pdl 7 e i centristi uno. Oggi alla Camera, stando alle autocertificazioni dei diretti interessati, resistono tre giudici, equamente divisi: Donatella Ferrante del Pd, Stefano Dambruoso di Scelta Civica, Ignazio Abrignani del Pdl. A ben guardare, però, quest'ultimo non è un magistrato, ma un avvocato civilista siciliano, fedele all'ex ministro Scajola, che faceva anche il giudice tributario. Al Senato invece il Pd batte il Pdl per quattro a due, con l'ex pm Felice Casson, Anna Finocchiaro, Doris Lo Moro e Piero Grasso, che peraltro si è dimesso dalla magistratura appena candidato. Le due toghe azzurre in compenso pesano molto: Caliendo e Nitto Palma sono tra i pochissimi in grado di influenzare la linea di Berlusconi sulla giustizia, tema tornato urgente dopo la condanna anche in appello per le maxi-frodi fiscali sui diritti tv di Mediaset. Preziosissimo, per il miliardario di Arcore, è anche il lavoro dei magistrati che entrano nei palazzi come tecnici. Tra i più in vista c'è il giudice romano in aspettativa Augusta Iannini, chiamata dal 2001 a dirigere il ministero della Giustizia e ora nominata vicepresidente dell'Autorità garante della privacy. Da sempre ostile ai pm milanesi, per replicare a una puntata di "Report" ha aperto un sito (augustaiannini.it) dove taccia di «maschilismo» chi la etichetta come «moglie di Bruno Vespa» e rivendica i suoi 35 anni di lavoro, portati benissimo, come «giudice imparziale». Qualità dimostrata, per altro, già ai tempi di Tangentopoli, quando chiese di astenersi sulla richiesta di arresto per Gianni Letta e Adriano Galliani, spiegando: «Siamo amici di famiglia». Ora, nel governissimo di Enrico Letta, brilla la stella di Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia e capocorrente di Magistratura Indipendente, capace di farsi eleggere al Csm da ben 553 magistrati benché chiacchierato (ma non indagato) per le intercettazioni di Calciopoli, del caso Santoro-Mills e della cosiddetta P3. Con la nuova legislatura, intanto, il centrosinistra ha detto addio a ex magistrati del livello di Gerardo D'Ambrosio, l'ex procuratore Silvia Della Monica o il giudice-scrittore Gianrico Carofiglio, senza contare gli ex pm che avevano lasciato la toga più di vent'anni fa, come Antonio Di Pietro o Luciano Violante. Ma anche il centrodestra ha rinunciato a ex magistrati di governo come Franco Frattini e Alfredo Mantovano, avvicinatisi a Monti e non ricandidati. Per non parlare di uomini di legge come Melchiorre Cirami, l'ex giudice di Agrigento entrato in Parlamento nel '96 con l'Udc, passato nel '98 al centrosinistra con l'Udeur e rieletto nel 2001 con il centrodestra dopo il patto Cuffaro-Berlusconi: portano ancora il suo nome la versione originale del "legittimo sospetto" (per fermare i processi, bastava chiederne il trasferimento) e il comma "super-513" (per annientare i verbali d'accusa, bastava far tacere il complice), subito dichiarato incostituzionale. La fede nel Grande Sud del sottosegretario Gianfranco Miccichè (meno dell'1 per cento a Siracusa) ha tradito anche Roberto Centaro, altra toga azzurra in missione parlamentare dal 1996 al 2013: un presidente della commissione antimafia capace di polemizzare con tutte le procure, oltre che relatore della legge-bavaglio contro le intercettazioni. Incolmabile, poi, il vuoto lasciato da Alfonso Papa, ex pm di Napoli e Roma eletto nel 2008 con il Pdl: nel 2011 è diventato il primo parlamentare, dai tempi dell'esplosivista missino Massimo Abbatangelo, a entrare in carcere perdendo l'immunità. Tornato libero, Papa ha chiesto di riprendere il lavoro di magistrato, ma per ora resta imputato: in teoria dovrebbe preoccuparlo la condanna patteggiata dal suo coindagato, il piduista per sempre Luigi Bisignani, ma a suo favore gioca ancora il privilegio politico che gli ha garantito la distruzione delle prove più insidiose, le famigerate intercettazioni. Il corteggiamento delle toghe ad Arcore, del resto, precede addirittura la nascita di Forza Italia. Correva l'anno 1993, quando Berlusconi riuscì a sfilare al pool Mani Pulite l'allora pm Tiziana Parenti: eletta dopo mille utilissime polemiche sulle tangenti rosse, ora fa l'avvocata ed è vicina al nuovo Psi. E dopo il trionfo di Forza Italia nel '94 perfino Di Pietro e Piercamillo Davigo si videro offrire poltrone da ministri nel primo governo Berlusconi, che tre mesi dopo, al culmine delle indagini sulla Fininvest, varò il famoso decreto Biondi (niente carcere per le tangenti). Da allora Berlusconi gioca soprattutto in difesa: oggi il Pdl schiera 17 avvocati al Senato e 21 alla Camera. Ma su questo fronte il Pd post-giustizialista non teme i rivali-alleati: ha 9 legali tra i senatori e 37 tra i deputati. In totale nel nuovo parlamento, secondo i dati di Openpolis, si contano ben 105 avvocati, che a differenza dei magistrati possono continuare a fare processi (e incassare parcelle dai clienti) anche mentre hanno il potere di cambiare le leggi.

Lo abbiamo visto partecipare ai convegni di partito, stringere la mano al presidente della Camera Gianfranco Fini, intervenire alla manifestazione dell'Idv di Di Pietro e Travaglio contro il bunga bunga per sbeffeggiare Berlusconi, sedersi sullo scranno di Annozero insieme con Ciancimino, parlare dal palco delle festa bolognese della Fiom. E il dubbio che il sostituto procuratore di Palermo Antonio Ingroia fosse, diciamo così, "di parte" era balenato nella mente. Ma poi questo dubbio si scontrava con le rassicurazioni e le dichiarazioni dello stesso pm che ha più volte sottolineato come “agli occhi del cittadino il magistrato non soltanto deve essere imparziale ma deve anche apparirlo”.

Ma quando poi sempre lo stesso pm ammette la sua vera inclinazione politica, ecco che ogni dubbio viene spazzato. Il palco dal quale arriva la confessione è quello di Rimini, precisamente quello del VI Congresso nazionale del comunisti italiani. E’ il 30 ottobre 2011.

Ingroia fa il suo comizio. Dichiara che «siamo in una fase critica. Le parti migliori della società devono impegnarsi dentro e fuori le istituzioni per realizzare un’Italia migliore. La magistratura deve essere autonoma e indipendente. La politica deve essere ambiziosa: deve fare la sua parte. C’è tanta stanchezza fra gli italiani. La politica con la ’p’ minuscola chiede alla magistratura di fare un passo indietro. C’è bisogno invece di una politica con la ’p’ maiuscola. Senza verità non c’è democrazia. Fino a quando avremo verità negate avremo una democrazia incompiuta. Legalità senza sconti per nessuno, in armonia con i principi costituzionali. Abbiamo bisogno di eguaglianza. Un’Italia di eguali contro un’Italia di diseguali. - E poi ancora parole in difesa della Costituzione - La Costituzione è sotto assedio. Che fare? Resistere non basta. I magistrati non possono essere trasformati in esecutori materiali di leggi ingiuste.- Infine viene fuori il vero Ingroia - Un magistrato deve essere imparziale quando esercita le sue funzioni, e non sempre certa magistratura che frequenta troppo certi salotti e certe stanze del potere lo è, ma io confesso non mi sento del tutto imparziale, anzi, mi sento partigiano. Partigiano non solo perché sono socio onorario dell’Anpi, ma sopratutto perché sono un partigiano della Costituzione. E fra chi difende la Costituzione e chi quotidianamente cerca di violarla, violentarla, stravolgere, so da che parte stare».

Insomma, parole destinate a far scalpore, ma pronunciate comunque, nonostante il pm fosse consapevole di ciò che avrebbero provocato. «Ho accettato l’invito di Oliviero Diliberto pur prevedendo le polemiche che potrebbero investirmi per il solo fatto di essere qui - ha infatti esordito il magistrato di Palermo dal palco dell’assise del Pdci - ma io ho giurato sulla Costituzione democratica, la difendo e sempre la difenderò anche a costo di essere investito dalle polemiche».

La previsione sulle critiche è stata azzeccata. Infatti, dal Pdl sono giunte affermazioni di biasimo nei confronti del reo confesso. Il capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchito, ha ringraziato ironicamente il «dottor Ingroia per la sua chiarezza. Sappiamo che le vicende più delicate riguardanti i rapporti tra mafia e politica stanno a Palermo nelle mani di pm contrassegnati dalla massima imparzialità».

Più dure le parole del presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri. «Sono gravi e inquietanti le parole di Ingroia che confermano l’animo militante di alcuni settori della magistratura. Da persone così invece che comizi politici ci saremmo attesi le scuse per aver fatto di Ciancimino jr una icona antimafia quando invece organizzava traffici illeciti e nascondeva tritolo in casa. Ingroia conferma i nostri dubbi. E sul caso Ciancimino dovrebbe spiegare molte cose. Porteremo questo scandalo e il suo comizio odierno all’attenzione del Parlamento dove sarà anche il caso di discutere della nostra mozione sul 41 bis che fu cancellato per centinaia di boss al tempo di Ciampi e Scalfaro e che anche ora il partito di Vendola vorrebbe abolire».

«Non era mai accaduto che un magistrato in servizio, già esposto mediaticamente su più di un fronte, prendesse la parola a un congresso di partito per attaccare maggioranza parlamentare e governo. Oggi il dottor Ingroia lo ha fatto con il suo intervento al congresso dell’ultimo partito comunista rimasto,congresso che naturalmente lo ha applaudito in sfregio a qualsiasi principio di separazione dei poteri», sottolinea Giorgio Stracquadanio, deputato del Pdl. Insomma, Ingroia se lo aspettava: le sue parole avrebbe suscitato un vespaio. E così è stato.

Ma non c'è da stupirsi della partigianeria di Ingroia. Qualunque magistrato è partigiano a favore di una Costituzione "catto-comunista" che ha elevato a "dio in terra" la figura del magistrato e che l'andazzo istituzionale ha legittimato la magistratura da organo costituzionale a "Potere costituzionale", pur non avendo alcuna delega rappresentativa del potere del popolo sovrano.

La stampa ha coniato l’epiteto “Toghe Rosse” per definire il cartello di magistrati riconducibili allo schieramento del centrosinistra, organizzati in correnti e sindacati di categoria, influentissimi, determinanti e ben rappresentati in Parlamento. A loro è addebitato il tentativo si sovvertire il sistema democratico, quindi controllare il potere legislativo, attraverso l’uso politico ed illegale del potere giudiziario. In un libro («L'uso politico della giustizia», ed. Mondadori, pag.320), tutti gli aspetti dell'anomalia italiana sono descritti analiticamente da Fabrizio Cicchitto: l'anomalia italiana e il sistema Tangentopoli, la Prima Repubblica e il finanziamento irregolare dei partiti, la mafia, Andreotti, Falcone, Violante e le cooperative rosse e bianche, Magistratura democratica, l'uso politico della giustizia e Berlusconi, Marcello Dell'Utri e la mafia, l'establishment finanziario-editoriale e i furbetti del quartierino e la Banca d'Italia. A cominciare dalla scelta fatta da Palmiro Togliatti di fare il ministro di Grazia e Giustizia nel primo governo di unità nazionale: «Il segno di un'attenzione, poi risultata crescente, del Pci nei confronti degli apparati dello Stato (magistratura, polizia, carabinieri, esercito, Guardia di finanza, servizi segreti), che doveva fare il suo salto di qualità negli anni Settanta con l'azione condotta da Ugo Pecchioli e successivamente da Luciano Violante». Mentre «nella magistratura emergeva progressivamente la tendenza a una crescente conquista di influenza, di potere, di immagine nella società italiana», spinte favorite dall'ordinamento giuridico italiano che consente alla magistratura un'autonomia assoluta, e finché nel 1964 sorge Magistratura democratica, un'associazione di magistrati dichiaratamente di sinistra e che diventa un vero e proprio soggetto politico e si collega al Partito comunista dando un colpo mortale allo Stato di diritto, fondato sulla divisione dei poteri e sulla terzietà del giudice.

È in questo quadro che Cicchitto passa in rassegna la vicenda di Tangentopoli e di Mani pulite, con l'interpretazione dominante e paradossale di opporre politici colpevoli ad imprenditori vittime, mentre le grandi imprese italiane erano tutt'altro che concusse e dal sistema di Tangentopoli traevano tutti gli utili possibili: «C'è ancora da spiegare - e Cicchitto cita Francesco Cossiga - perché la classe politica fu decimata mentre la classe imprenditoriale fu risparmiata, considerando i corrotti più colpevoli dei corruttori». Sicchè i nomi di Craxi, Forlani, Andreotti vengono cancellati dalla nomenclatura del paese, mentre Agnelli, De Benedetti, Ligresti neppure vengono sfiorati, «un colpo di Stato legale, nel senso che un ordine autonomo dello Stato, indipendente ma non sovrano, ha surrogato il potere sovrano del Parlamento, ha prevaricato gli altri poteri, ha modificato gli equilibri della vita politica democratica, ha decretato la morte di passati storici, usando come arma di giudizio storico e politico l'indagine giudiziaria».

Il Ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto, replica sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 1 aprile 2009, contrattaccando, alla interrogazione al Ministro della Giustizia, Alfano, presentata dai senatori Pd sul suo conto, segnalando la "coincidenza" con iniziative e decisioni del Csm.

Il Ministro Alfano ha disposto un’ispezione Ministeriale presso la Procura di Bari per verificare il suo modus operandi, mentre il CSM ha respinto un esposto di Fitto contro la stessa Procura. "In Spagna - scrive Fitto in una nota - un ministro della giustizia socialista si dimette per essere stato fotografato a caccia con un magistrato che indaga sul partito popolare. Da noi alla fine ci si mette anche una "casta" togata che siede "pro tempore" sui banchi del Senato a interrogare il Ministro Alfano. Sei pubblici ministeri su nove firme. Nomi celebri: Finocchiaro, Casson, D'Ambrosio, Della Monica ma anche: Gianrico Carofiglio, fino all'altro giorno pubblico ministero presso la Procura della Repubblica di Bari, dove la moglie, Francesca Romana Pirrelli esercita la stessa attività nel pool che indaga sui reati contro la Pubblica Amministrazione, competente quindi sul Comune di Bari del quale è sindaco l'ex collega magistrato e compagno di partito del marito, Michele Emiliano. Competente anche sulla Regione Puglia. Tra l'altro dello stesso magistrato e della moglie magistrata circolano nella Rete foto in atteggiamenti di grandi familiarità con parenti stretti del Presidente Vendola. Firmatario anche Alberto Maritati, già sostituto procuratore presso la Procura di Bari e successivamente applicato a Bari dalla Direzione Nazionale Antimafia. Celebre per avere suscitato un immenso clamore con la cosiddetta "Operazione Speranza", alla metà degli anni novanta, che vide decine di persone tra arrestate e variamente imputate in una serie di procedimenti che, dopo ben più di un decennio, si sono conclusi tutti con assoluzioni in tutti i gradi di giudizio. Ma ebbe di che consolarsi con un patteggiamento. Né va dimenticato che nella stessa indagine Maritati si imbatté in esponenti politici dai quali, senza difficoltà, in seguito ottenne la candidatura nel medesimo partito".

Secondo Fitto, poi, "non va dimenticato che è sindaco di Bari Michele Emiliano, magistrato presso la Procura della stessa città e che a lungo indagò sulla cosiddetta Missione Arcobaleno, ipotizzando reati gravissimi a carico di tutta una serie di alti esponenti di quello che, con nuova denominazione, è diventato il partito del quale è segretario regionale e che, a suo tempo lo candidò a sindaco del Comune di Bari". E "che sono stato definito "mafioso" in un`intervista al giornale La Repubblica da Marco Di Napoli, magistrato impegnato in un`indagine sulla mia persona. Segue in proposito una denuncia penale e un procedimento civile". Così come "un altro magistrato, Roberto Rossi, analogamente impegnato in un`indagine sulla mia persona si lasciava fotografare in ridente condivisione con una assessore comunale di Bari dei Verdi, nel corso del cosiddetto Vaffa Day in svolgimento nella stessa città nella quale esercita il suo delicato ufficio. Peraltro compiendo eloquente gesto".

Inoltre, "un altro firmatario non magistrato, Nicola Latorre ha sicuramente minuziosa conoscenza di tutte queste vicende". "Per il resto - prosegue il ministro- vale il criterio opinabilissimo dell'opportunità che una serie tanto nutrita di magistrati si impegni in politica e che alcuni lo facciano all'indomani di indagini delicatissime a carico di esponenti dello stesso partito che finisce con il candidarli? Va da sé: liberi tutti.... E mi si vuole negare la libertà di un esposto, più volte integrato in questi mesi con ulteriori elementi, peraltro nel più rigoroso rispetto delle regole e che riguardano, per ciò che mi concerne, intercettazioni ambientali tra avvocati e indagati in colloqui precedenti all'interrogatorio, iscrizione nel registro degli indagati e successiva autorizzazione alle intercettazioni a distanza di 23 mesi dalla notizia di reato e senza che ci fossero fatti nuovi e in coincidenza con la mia campagna elettorale, indagini preliminari che durano 7 anni. Telefonate intercettate e riportate in brogliacci come "non inerenti" e il cui contenuto è invece totalmente riferibile alla vicenda. Telefonate riportate con degli omissis, contenenti invece brani che attribuiscono diverso significato. Tentativo con diversi ostacoli durato 2 anni per poter esercitare il mio legittimo diritto, previsto dal Codice di ascoltare tutte le telefonate e non solo quelle scelte dai P.m.. E potrei continuare".

"Peraltro - conclude Fitto- vedo che con una velocità del tutto inusitata, non solo si mobilitano le associazioni dei magistrati locale e nazionale, ma lo stesso CSM non archivia, come si è detto, ma eccepisce la sua non competenza, a tempo di record, sul mio esposto e, sempre a tempo di record, si dispone a intervenire sul caso dell'ispezione come ci informa, per agenzia, il Consigliere del CSM, Ciro Riviezzo, che appartiene alla stessa corrente di alcuni pubblici ministeri titolari delle indagini a mio carico. Sicuramente tutte strane coincidenze".

«Riteniamo gravissime e degne di attenzione da parte del ministro della Giustizia le dichiarazioni del Capo della Procura di Bari, Emilio Marzano, in merito ad una delle inchieste in corso sulla sanità pugliese». Lo sostengono in una interrogazione parlamentare dell’8 luglio 2009 i deputati pugliesi del Pdl (primo firmatario Luigi Vitali), in relazione alle indagini sulle tangenti, festini, appalti truccati, intercettazioni, il cui scandalo ha coinvolto la Giunta regionale pugliese di sinistra presieduta da Niki Vendola, che aggiungono: «Il procuratore Marzano incredibilmente giustifica l'operato di un pm, Roberto Rossi, che tiene aperta fino ad oggi una inchiesta per fatti commessi tra il 2001 e il 2004, causando probabilmente, e per stessa ammissione del Procuratore Capo, la prescrizione dei reati, piuttosto che chiedergliene conto. Ma quel che è più grave è che sulla Gazzetta del Mezzogiorno di oggi il procuratore Marzano aggiunge anche che ad alcuni degli indagati in questa inchiesta sarebbe stato contestato il reato di associazione a delinquere solo per "questioni di metodo legate al potenziale coordinamento con inchieste sorelle"».

«Insomma – dicono i deputati – non solo il procuratore giustifica un pm che tiene aperta una inchiesta per 5 anni, arrivando forse a far prescrivere i reati, ma ammette candidamente che un reato gravissimo come l’associazione a delinquere viene contestato solo per questioni di metodo… Peccato che nel frattempo, nonostante reati prescritti e questioni di metodo, quelle persone siano finite in prima pagina su tutti i giornali accusate di associazione a delinquere. Quel che accade alla Procura di Bari è vergognoso: alcune inchieste, su cui pure sembrano emergere fatti gravissimi e a quanto pare riscontrati, vengono condotte con i guanti bianchi, quasi giustificando l’esigenza di interrogare persone informate dei fatti, altre invece vengono direttamente sbattute in prima pagina con foto e nomi di persone a cui, a quanto dice il Procuratore, vengono ascritti contestati reati o prescritti o contestati solo per "metodo". Riteniamo che ci siano tutti gli elementi affinchè il Ministro della Giustizia valuti se avviare iniziative ispettive, al fine della individuazione delle responsabilità in ordine a questi gravissimi comportamenti».

“Il giornale” del 25 giugno 2009 riporta una notizia. C’è un’inchiesta, a Bari, che anziché restare riservata finisce sui giornali, perché riguarda indirettamente un premier e/o persone a lui vicine presumibilmente in contatto con alcune prostitute. E c’è un’altra inchiesta, a Roma, che invece resta «sconosciuta» per quasi dieci anni e che riguarda l’entourage di un altro premier in contatto sicuramente con una scuderia di prostitute d’alto bordo. Il doppiopesismo mediatico-giudiziario cui si fa riferimento concerne un’inchiesta avviata nel 1999 dal pm capitolino Felicetta Marinelli e conclusasi il 4 ottobre 2000 con il patteggiamento a un anno della maîtresse R.F. che secondo l’accusa inviava sue «squillo» ai fedelissimi dell’allora presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, per ottenere ritorni economici di vario genere.

A giocar troppo col fuoco si rischia di rimaner bruciati: quelli che a sinistra puntavano il dito contro Silvio Berlusconi, storcendo il naso per la “politica priva di morale” del Cavaliere, avrebbero dovuto ricordarlo questo proverbio della saggezza popolare. Perché il ritornello si è ritorto contro.

L’inchiesta pugliese alla base della “scossa di Bari” si è, infatti, allargata con nuove “ragazze” pronte a testimoniare e nuovi festini: incredibilmente non più solo a Palazzo Grazioli, come preferirebbero quelli del partito del dito puntato, ma anche a Cortina, Milano e nella stessa Bari. Festini che coinvolgerebbero numerosi altri nomi noti fra imprenditori, professionisti e politici, fra cui - appunto - alcuni esponenti baresi del PD.

Articolo che parla di prostitute d’alto bordo coinvolte con uomini importanti e di ingressi “confidenziali” alla Camera dei Deputati, che non ha reso per nulla contento l’ex Presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, che ha dato mandato ai suoi legali di querelare il quotidiano. In quell’articolo viene tirato in ballo anche l’on. Cesa dell’UDC.

In relazione alla querela annunciata dall’On. Massimo D’Alema e dall’onorevole Lorenzo Cesa, Il Giornale ribadisce che la notizia pubblicata si fonda su un dato di fatto incontrovertibile: Cesa era socio, nella Global Media Srl, di R.F., la maitresse che aveva organizzato un giro di squillo per ottenere favori da un gran numero di politici, tra i quali alcuni stretti collaboratori di Massimo D’Alema. In quella società Cesa era intestatario di quote per 11 milioni, R.F per otto.

Sui corsi e ricorsi storici, inutile dirlo: la Rete ha buona memoria.

Correva l’anno 1994. Il pubblico ministero pugliese, Alberto Maritati, stava indagando su un finanziamento illecito erogato - tramite assegno - dal patron delle Cliniche Riunite di Bari a Massimo D'Alema.

Nel giugno del 1995, quel processo fu archiviato per decorrenza dei termini di prescrizione, su richiesta dello stesso pm Maritati. Il gip Concetta Russi, con queste parole dispose l’archiviazione: “Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti, e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci. Con riferimento all’episodio riguardante l’illecito finanziamento al Pci, l’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato”.

D’Alema, dunque, confessò di aver percepito un finanziamento illecito per il Partito comunista. E tuttavia, non venne condannato e non finì in gattabuia grazie alla prescrizione del reato da lui compiuto. Destino diverso toccò agli indagati di Di Pietro.

Va aggiunto, inoltre, che il pubblico ministero di questo processo, Alberto Maritati, fu candidato - per volontà di D’Alema - alle elezioni suppletive del giugno 1999 (si era liberato un seggio senatoriale, dopo la morte di Antonio Lisi). E divenne sottosegretario all’Interno del governo presieduto dallo stesso D’Alema. Ancora oggi, Maritati, siede al Senato nelle fila del Partito democratico.

Dalle mie parti si dice: una parola è poca, e due sono troppe.

PARLIAMO DI “TOGHE BIANCHE”?

Di seguito si riporta il testo integrale della lettera del 7 agosto 2009 di Niki Vendola, Presidente della giunta regionale pugliese di centro sinistra, alla Desiree Digeronimo, P.M. antimafia di Bari. Da premettere che Vendola, a causa delle inchieste sulla “sanitopoli pugliese”  aveva già ritenuto opportuno azzerare la sua giunta, designando nuovi assessori.

Gent.ma Dott.ssa Digeronimo, l’amore per la verità non mi consente più di tacere.

Ho l’impressione di assistere ad un paradossale capovolgimento logico per il quale i briganti prendono il posto dei galantuomini e viceversa. Io ho la buona e piena coscienza non solo di non aver mai commesso alcun illecito nella mia vita, ma viceversa di aver dedicato tutte le mie energie a battaglie di giustizia e legalità. “Nichi il puro” titola “Panorama” per stigmatizzare le mie presunte relazioni con un imprenditore che non conosco e a cui ho chiuso, dopo trent’anni, una discarica considerata un autentico eco-mostro (stupefacente notare che “L’Espresso” pubblica un articolo fotocopia del rotocalco rivale: sarebbe carino indagare sul calco diffamatorio che origina questa singolare sintonia di scrittura!). In effetti mi considero un puro: e non rinuncio ad aver fiducia nel genere umano e a credere che la giustizia debba alla fine trionfare. In questi anni di governo ogni volta che ne ho ravvisato la necessità ho adottato provvedimenti tanto tempestivi quanto drastici a tutela delle istituzioni: sono fatti noti, che fanno la differenza tra il presente e il passato.

Ma la sua indagine, dott.ssa Degironimo, sta diventando, suo malgrado, lo strumento di una campagna politica e mediatica che mira a colpire la mia persona pur non essendo io accusato di nulla. Per antico rispetto verso la magistratura e verso di lei ho evitato, in queste settimane, di reagire alla girandola di anomalie con le quali si coltiva un’inchiesta la cui efficacia si può misurare esclusivamente sui Tg.

La prima anomalia è che lei non abbia sentito il dovere di astenersi, per la ovvia e nota considerazione che la sua rete di amici e parenti le impedisce di svolgere con obiettività questa specifica inchiesta.

La seconda anomalia riguarda l’aver trattenuto sotto la competenza della Procura Antimafia una mole di carte che hanno attinenza con eventuali profili di illiceità nella Pubblica Amministrazione.

La terza riguarda l’acquisizione di atti che costituiscono il processo di gestazione di alcune leggi, come se le leggi fossero sindacabili dall’autorità inquirente.

La quarta riguarda la incredibile e permanente spettacolarizzazione dell’inchiesta: che si svolge, in ogni suo momento, a microfoni aperti e sotto i riflettori. Così per la mia convocazione in Procura. Così per l’inaudita acquisizione dei bilanci di alcuni partiti e addirittura di alcune liste elettorali. Il polverone si è mangiato i fatti: quelli circostanziati legati al cosiddetto sistema Tarantini: e nella festosa scena abitata da questo imprenditore io, a differenza persino di alcuni magistrati, non ho mai messo piede.

Lei è così presa dalla sua inchiesta che forse non si è accorta di come essa clamorosamente precipita fuori dal recinto della giurisdizione: sono diventato io, la mia immagine, la mia storia, la posta in gioco di questa ignobile partita. Non dico altro. Il dolore lo può intuire. Qualcuno sta costruendo scientificamente la mia morte. Per me che amo disperatamente la vita è difficile non reagire. Le chiedo solo di riflettere su queste scarne parole. Nichi Vendola”.

Nel riportare i fatti, non ci possiamo esimere di eccepire sul comportamento delle parti. Quando, nelle alte sfere, qualcuno è toccato dalle grinfie della magistratura, si accusa la medesima di adoperarsi per protagonismo o nell’interesse di una parte politica: mai per la giustizia.

Certo nessuno fa bella figura: non il politico danneggiato, né il magistrato accusato, né i media che si prestano a dare voce solo al potente pizzicato e non a migliaia di innocenti in carcere.

In questo stato di cose, però, quando siamo noi ad essere fogocitati dalla Giustizia, con quale spirito ci possiamo affidare nelle mani di questi signori ?? E chi ascolta le nostre grida di sofferenza??

Toghe rosse, toghe nere, toghe rotte. I giudici come le seppie e i polpi: cambiano colore a seconda degli imputati? Si chiede “Pocavista”. Vi ricordate le toghe rosse, celebrate dalla stampa e dalla TV berlusconiana? Ebbene si è scoperto che le toghe indossate dai magistrati sono dotate di particolari cellule, i cromatofori, come le seppie, i polpi e i camaleonti. Per un fenomeno non ancora chiarito, i magistrati sarebbero in grado di cambiare il colore delle proprie toghe a seconda dell’imputato che si trovano di fronte: se l’imputato è di destra, la toga presenta pigmenti porpora; se di sinistra, la toga vira al nero. Quando l’imputato è di centro, come nel caso di Totò Cuffaro in carcere per mafia, le toghe assumono di nuovo un colore rossastro. Il fenomeno è stato scoperto recentemente da Libero con l’articolo “La toga rossa che inchioda i compagni”, dedicato a quel PM di Monza – esponente di Magistratura Democratica, la corrente di sinistra della magistratura – che indaga su Penati e la tangentopoli rossa. Finora i mezzi di informazione vicini a Berlusconi sembravano ignorare che c’erano magistrati – rossi o neri che fossero – che mandavano in galera il presidente democratico della Regione Abruzzo, l’ex-socialista Del Turco; che mettevano sotto inchiesta il Sindaco di Bologna, Del Bono; il PD Bassolino; la famiglia Mastella; il verde Pecoraro Scanio; l’assessore alla sanità della Regione Puglia e così via. Era molto più comodo definire “rossi” tutti i magistrati, per preparare il terreno a una riforma che mettesse la giustizia di fatto sotto il controllo dell’esecutivo. Dopo aver diffuso per anni la bufala che la magistratura è tutta di sinistra, che il pool di Mani Pulite ha voluto salvare l’allora PCI dalle inchieste e che perseguita Berlusconi solo da quando è entrato in politica, adesso i giornalisti di destra tessono elogi di un PM “rosso” che diventa “nero” mettendo nei guai il PD. Una parentesi : il Pool di Mani Pulite ha salvato l’allora PCI? Ricordiamo che tra i primi arresti di tangentopoli ci furono Soave e Li Calzi del PCI; la direzione del PCI di Milano, con Barbara Pollastrini & co (la Pollastrini venne poi assolta dalle accuse pochi anni dopo) fu totalmente decapitata; mentre il compagno Greganti, tesoriere del PCI, si fece diversi mesi di galera.

Altri esempi di trasformazione cromatica dei magistrati. La potenza dei mezzi di informazione, specie TV, è tale da colorare di rosso o di nero magistrati di volta in volta scomodi o che invece portano acqua al proprio mulino. Gerardo D’Ambrosio, definito “nero” negli anni 70 dopo aver scagionato sia il commissario Calabresi per la morte dell’anarchico Pinelli, sia Pino Rauti per la strage di Piazza Fontana, appena membro del Pool di Mani Pulite divenne improvvisamente una “toga rossa” perché colpiva i corrotti di Tangentopoli. Pierluigi Davigo, esponente della corrente conservatrice della magistratura e considerato la mente giuridica del Pool di Mani Pulite, diviene improvvisamente per la stampa berlusconiana un pericoloso rivoluzionario di sinistra. Stessa sorte per Antonio Di Pietro, allora assai vicino a esponenti del MSI. Pochi ricorderanno che Berlusconi, nel formare il suo primo governo nel 94, lodava l’operato di Mani Pulite (che allora andava di moda e che gli aveva spalancato le porte del governo) e aveva chiesto invano a Davigo e Di Pietro di entrare al governo come Ministri della Giustizia e dell’Interno. Circostanza poi negata successivamente da Berlusconi. Ilda Bocassini, divenuta rossa per aver incriminato Previti e le toghe sporche da lui corrotte per consegnare la Mondadori a Berlusconi, poi definita da alcuni “nera” quando indagava sulle nuove BR, sventando tra l’altro un attentato a Paolo Berlusconi e a “Libero”. Oggi è di nuovo” rossa”, da quando si occupa del caso Ruby. Paolo Ielo, il magistrato “rosso” accusato di avere insabbiato le indagini di Titti Parenti sul PCI, oggi sembra virare al nero, perché indaga sullo scandalo ENAV di esponenti vicini a Bersani e D’Alema. Il giudice Mesiano, quello che ha condannato La Fininvest a risarcire De Benedetti per averlo scippato della Mondadori, ha i cromatofori perfino nei calzini, che diventano pervinca all’occorrenza. E si potrebbe continuare.

Se Sparta piange, Atene non ride. Notiamo solo che ogni volta che un esponente del PDL o della Lega passa dei guai giudiziari, gli organi di informazione berlusconiani e leghisti parlano di “persecuzione delle toghe rosse”, si fanno approvare leggi ad personam e si punta alla prescrizione. Quando a finire nei guai è invece uno di centrosinistra, si usa esprimere una rituale“fiducia nella magistratura” e talvolta si fa dimettere l’indagato: ma per chi ha posto al centro della propria azione politica la “questione morale” e ha rivendicato una propria “superiorità morale” non rimane che l’imbarazzo. Imbarazzo che è ormai della maggioranza degli italiani. Tuttavia tra chi a destra ha fatto della protervia e del vittimismo il proprio stile di potere e chi a sinistra manifesta imbarazzo quando viene colto con le mani nella marmellata, preferiamo chi è ancora capace di arrossire.

Il problema forse non è tanto nel colore delle toghe ma nella loro insita incapacità di cogliere la verità storica nelle vicende umane. La loro presunta superiorità morale e culturale rispetto alla massa, avallata dal concorso truccato che li abilita, li pone talmente in alto che miseri loro non riescono a leggere bene la realtà che li circonda. Insomma loro son loro e noi “non siamo un cazzo”.

Le strade italiane, oramai, sono diventate molto più transitabili, quasi deserte, non perché le persone son diventate improvvisamente più casalinghe e pantofolaie, ma semplicemente perché certuni PM e Giudici di casa nostra amano sbattere nelle patrie galere chiunque gli giri intorno: quindi, tutti dentro appassionatamente! Così scrive Massimo Melani su “Totalità”. La Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo accusa ad alta voce il nostro Paese, che viene giustamente condannato per il trattamento inumano e degradante dei carcerati detenuti nelle infernali galere italiche. Pensate che tale richiamo abbia minimamente scosso gli uomini dalla galera facile? I pubblici ministeri, i Gip, i Gup e i Procuratori Capo? Neanche per idea! Al minimo dubbio, al fresco, nei Grand Hotel Italiani a -7 stelle; le cui stanze di meno di 3 metri quadrati possono contenere anche tre o quattro detenuti. Ma, a loro cosa può interessare; per le tenebrose toghe nere ciò che conta è apporre tacche su tacche alle loro pistole fumanti. Tanto chi paga quest’ammasso di carne sovrapposta in loculi invivibili è il cittadino italiano, i tantissimi processi, indagini, rinvii a giudizio per chi non ha fatto un emerito c…., e i tantissimi suicidi che si verificano settimanalmente in tali luoghi di tortura, non contano niente. L’importante è che di fronte a una ridottissima controversia ci si copra le spalle, ammanettando coloro che -di fatto- potrebbero a tutti gli effetti, e molti lo sono, essere innocenti. Tanto i Giudici, i PM e compagnia bella non verranno mai toccati, né verranno mai chiamati a rispondere in solido ( pecuniariamente, moralmente, penalmente) dei misfatti compiuti. Solo nei casi eclatanti di magistrati pedofili, di giudici che usano il proprio ufficio per ricattare sessualmente viados o donne della mala, o di quelli conniventi con le varie mafie, si arriva a arrestarli, sed post breve tempus tutto viene subdolamente fatto passare nel dimenticatoio. Questa, purtroppo, è la disperata situazione della legge italiana, a voler continuare a non separare le carriere, a rimandare da tempo immemore la riforma della giustizia, e all’equiparare reati inferiori, quello, per esempio, di Fabrizio Corona, a reati gravissimi come l’omicidio, altro esempio la sentenza vergognosa del macellaio Jucker che si è fatto solo 10 anni per aver trucidato la fidanzata. In campagna elettorale si parla di tutto, meno della libertà del cittadino italiano che sta scomparendo, terrorizzato dalle cupe toghe nere.

Il rischio della rappresentanza politica è sbagliare il rappresentante, perché questi signori nominati dall’alto si presentano in un modo e poi si comportano al contrario. Uno strano decreto sui magistrati fuori ruolo. Nel decreto del governo, la possibilità di aggirare i limiti di tempi e di assumere incarichi nell'esecutivo scrive Milena Gabanelli, Luca Chianca su “Il Corriere della Sera”.

Prima di esalare l’ultimo respiro il Governo Monti deve completare l’approvazione delle norme che riguardano il famoso decreto anticorruzione. Nell’ambito di questo decreto ce n’è una che riguarda i magistrati fuori ruolo, ovvero quei magistrati chiamati a ricoprire temporaneamente un incarico presso l’ufficio legislativo dei vari ministeri, Capo gabinetto, le Autorità indipendenti, la Presidenza del Consiglio, ecc.

Nella maggior parte dei casi questi incarichi prevedono un nuovo stipendio senza perdere quello originario, fermo restando l’obbligo a ritornare al loro posto dopo 5 anni.

Cosa significa? Che dopo l’approvazione della norma il magistrato potrà fare il Direttore delle Agenzie, per esempio l’Agenzia delle Entrate, delle Dogane, oppure il capo dipartimento dei Ministeri, per esempio dell’Agricoltura o dello Sviluppo Economico, aprendo così la strada ad una possibile situazione di conflitto permanente di interessi fra organi dello Stato.

Ma perché un magistrato dovrebbe poter gestire il portafoglio dell’industria italiana? Non dovrebbe essergli consentito poiché appartiene alla funzione giurisdizionale, che per sua natura è super partes e per definizione è organo terzo rispetto agli interessi pubblici da gestire. La legge non dovrebbe pertanto consentire al magistrato di assumere ruoli di gestione che spettano all’esecutivo! Dovrebbe prima dimettersi, e poi, da libero cittadini, va a fare quello che vuole.

E come viene superato il limite massimo dei 10 anni in fuori ruolo? Scrivendo nella norma: “i magistrati ordinari contabili, amministrativi, militari, gli avvocati e i procuratori dello Stato che ricoprono cariche apicali o semiapicali presso organi o enti partecipati o controllati dallo Stato sono comunque collocati obbligatoriamente in aspettativa senza assegni”.

Un linguaggio ambiguo e furbo che permette di superare ogni vincolo temporale, poiché sull’“aspettativa senza assegni” la legge anticorruzione non ha apposto nessun limite. In altre parole: se oggi il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Antonio Catricalà, sarebbe costretto a tornare a fare il giudice perché ormai sono passati 10 anni da quando è in fuori ruolo, con questa norma potrebbe fare il Presidente di Eni o Finmeccanica, o all’Enel, o alla Rai, senza tagliare il cordone ombelicale con la magistratura.

Ma chi in Presidenza del Consiglio ha predisposto il decreto legislativo in corso di approvazione? Sappiamo che Catricalà “filtra” le carte da portare a Monti, sappiamo che il ministro della Funzione Pubblica (Filippo Patroni Griffi), che annovera tra le sue competenze quelle di carattere ordinamentale come la norma in esame, è lui stesso un Consigliere di Stato in fuori ruolo, come lo è il suo capo gabinetto (consigliere Garofoli), ma chi abbia “cucinato” questo piattino, e in quali stanze .. impossibile saperlo.

Se poi si considera che i magistrati in fuori ruolo sono 227, e che gli uffici di provenienza sono il Tar, il Consiglio di Stato, la Corte dei Conti, non si può eludere la domanda: con quale indipendenza verranno giudicati i ricorsi contro gli atti di gestione approvati da magistrati che saranno al contempo Capi dipartimento di Ministeri o Presidenti di Società a partecipazione pubblica? Magistrati in palese conflitto di interessi e che abdicano alla loro funzione di terzietà. Siamo sicuri che lo spirito che animava il decreto anticorruzione era questo?

Monti si è rivelato un tecnocrate, un amministratore ante litteram che nulla ha a che fare con l’innovazione e la progettualità necessaria ad uno Stato moderno. Un tecnico fuori luogo che si è comportato come farebbe un medico che infierisse con una cura da cavallo ad un paziente che non ne ha bisogno. Un burocrate alla corte della signora Merkel, poco interessata all’Unione Politica Europea e molto presa, di contro, dall’imporre la leadership economica e finanziaria della sua Germania su tutti. Fatta questa premessa, scrive Francesco Saverio Di Lorenzo su “Mondo Libero On Line”, senza pregiudizio alcuno e per essere il più possibile asettico mi sono voluto togliere lo scrupolo di esaminare da vicino le svariate iniziative parlamentari presentate dal Governo Monti. Così facendo mi sono imbattuto, con un’autentica sorpresa, nella “propina”. Un termine nuovo che ho abbinato immediatamente ad un medicinale od a qualcosa di simile. No, non lo è. E’ un emolumento, manco a dirlo un’indennità particolare percepita solo da pochi eletti. Vi chiederete: possibile? E chi sono i fortunati? Presto detto, sono gli ottomila della Magistratura Ordinaria, ma anche quelli in organico dell’Avvocatura dello Stato, del Tar, della Corte dei Conti, del Consiglio di Stato. E quindi, si va dal rigorosissimo Giuseppe Esposito, magistrato del Tar di Napoli, che partecipa a incontri con le scolaresche di Vico Equense e devolve gli 800 euro di compenso alla biblioteca scolastica. Al ben diverso caso del Consigliere di Stato Gabriele Carlotti che, oltre allo stipendio regolare, riceve dall’Autorità per l’Energia 100 mila euro l’anno, in quanto responsabile della Direzione degli Affari Giuridici. Dalla lettura degli atti si evince che nell’ultimo anno il CSM ha autorizzato 1423 incarichi a tempo parziale. Nella gran parte si tratta di incarichi di docenza, per lo più lezioni universitarie di Magistrati che incassano poche migliaia di euro, ma li incassano. Di ben altro tenore e spessore sono gli incarichi dei 516 Giudici della Magistratura Amministrativa, dei 456 della Contabile e dei 360 dell’Avvocatura dello Stato. Gli emolumenti incassati da questi ultimi ammontano a 54 milioni di euro, decurtati per le misure di solidarietà a 53 milioni (grazie!). A questi vanno aggiunti altri 55 milioni di euro per un’indennità particolare detta “propina”. Per fare dei casi esplicativi, il Capo Ufficio dell’Avvocatura Generale dello Stato, sua eccellenza Filippo Ignazio Caramazza, gode di un trattamento fondamentale di 289 mila euro a cui va aggiunta la “propina” di altri 324 mila euro. Caramazza risulta avere un incarico extragiudiziale in quanto membro della commissione di accesso ai documenti amministrativi. Pierluigi Di Palma, Vicesegretario Generale della Difesa, Giudice dell’Avvocatura di Stato incassa 179 mila euro di trattamento fondamentale e 186 mila di “propina” e nel corso del 2011 anche 70 mila euro come consulente giuridico dell’Agenzia Spaziale Italiana. Non basta, risulta essere anche presidente del collegio arbitrale per una vertenza tra Anas e Asfalti Sintex, ma qui non sappiamo l’ammontare dell’emolumento. La categoria dei Giudici Amministrativi, provenienti dal Tar e dal Consiglio di Stato, rappresenta la spina dorsale dei ministeri. Sono moltissimi quelli che hanno il doppio incarico di Giudice e di Capo Ufficio Legislativo o Capo di Gabinetto. Il più noto è forse Filippo Patroni Griffi, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato. In quanto Ministro alla Pubblica Amministrazione è colui che ha portato questi dati in Parlamento e doverosamente ha inserito anche i dati che lo riguardano. Patroni Griffi comunica quindi di essere fuori ruolo dal momento della nomina nell’Esecutivo. Da quella data guadagna 17 mila euro al mese in quanto Ministro. Ha appena esaurito anche l’incarico extragiudiziario di Presidente del Consiglio arbitrale in una vertenza tra Fiat e Tav, percependo 76.950 euro netti. Vi sono poi, una raffica di doppi incarichi: Michele Buonauro cumula l’incarico di Giudice del Tar con la consulenza giuridica all’Autorità per le Comunicazioni e che per due giorni a settimana di impegno incassa 35 mila euro lordi; Paolo Carpentieri ottiene 60 mila lordi come Capo dell’Ufficio Legislativo del Ministero per i Beni Culturali; Giuseppe Caruso prende 58 mila lordi in quanto membro della Commissione di Valutazione dell’Impatto Ambientale al Ministero dell’Ambiente; il Sottosegretario alla Presidenza Antonio Catricalà è fuori ruolo e incassa 25 mila euro netti dalle funzioni di Segretario del Consiglio dei Ministri; Claudio Contessa incassa 73 mila euro per l’Ufficio Legislativo del Ministero del Lavoro; Roberto Garofoli ottiene 70 mila euro lordi in quanto Capo di Gabinetto del Ministro per la Pubblica Amministrazione. I dati sugli emolumenti, sulla “propina”, di moltissimi altri alti funzionari non sono ancora giunti, perché il Ministero si è riservato di comunicarli. Eccovi serviti. Non viene l’amaro in bocca e la rabbia nel verificare quanti sperperi ci siano ancora in giro e quanti altri ancora probabilmente esistono? Perché, Monti nel provvedimento “Salva Italia”, non ha inserito ed annullato la “propina”, anzi che tassare e propinare a noi sacrifici e balzelli? Il Professore in loden, il Senatore della Repubblica, l’uomo che ha la presunzione di aver risollevato le sorti del Paese, forte con i deboli e debole con i forti, ha adoperato due pesi e due misure. Peccato, la sua poteva essere un’operazione di glasnost senza precedenti. Per la prima volta nella storia si era creata la concreta possibilità di incidere profondamente sui mali della politica ed in ciò che ha ingenerato, Si poteva riformare seriamente lo Stato tranciando le sue cancrene ed offrire al Paese delle riforme profonde, stabilendo un giusto freno ad alcuni titolati, già di per se privilegiati ed intoccabili. Invece? Nulla. La strategia è stata banale, tipica del “Centolaqualunque”. Nelle Aule Parlamentari presentava provvedimenti chiedendo il voto di fiducia con la formula del decreto di necessità ed urgenza, come la famigerata IMU, il taglio alla spesa pubblica, la riforma delle pensioni, quella sul lavoro e le tasse che hanno vessato le famiglie ed i ceti medio bassi. Mentre le liberalizzazioni, l’abolizione degli Ordini Professionali, i tagli alle caste (tra queste quella della politica), l’abolizione delle Province (ridotte, poi, a semplice accorpamento di alcune di esse) faceva seguire un iter più complesso ed usuale attraverso il disegno di legge. Ecco, in estrema sintesi la realtà. Potrà sempre dire il buon Monti che non ha avuto tempo a sufficienza per condurre a termine il proprio lavoro, perché nel frattempo è stato sfiduciato. Non ci rimane che attendere la prossima puntata ed “incazzatura”, trasparenza e Movimento 5 Stelle permettendo!

TOGHE COLLUSE.

Punta sul rosso, bluffa con una doppia coppia..., scrive Enzo D’Errico su “Il Corriere della Sera”.  C'è una serata che fila per il verso giusto e altre, tante altre, in cui va tutto storto: le carte non entrano, i numeri non escono... E alla fine, quando si tratta di tirare i conti, t'accorgi che in rosso ci sei finito tu. E' capitato così anche a Nicola Boccassini, procuratore della Repubblica di Vallo della Lucania, un paesino dell'entroterra salernitano. Aveva trovato il modo di turare le falle, il magistrato: quel che perdeva al gioco, lo riguadagnava vendendo processi, condoni edilizi e provvedimenti d'ogni tipo. Si faceva addirittura pagare soggiorno e scommesse a Saint Vincent, dove era cliente fisso del casinò. E, come se non bastasse, in cambio dei suoi servigi chiedeva favori: un posto di lavoro per una figlia, una perizia tecnica da assegnare al genero, un appalto per qualche parente. Però, gli agenti della Dia di Napoli l'hanno arrestato su mandato del Gip Luigi Esposito. Le accuse: corruzione, concussione, favoreggiamento e abuso d'ufficio. Con lui sono finite in galera altre 6 persone, coinvolte a vario titolo nel giro d'affari del procuratore. Sarebbero stati emessi anche 7 avvisi di garanzia, uno dei quali riguarderebbe Anacleto Dolce, procuratore aggiunto a Vallo della Lucania e fratello di un altro magistrato, Romano Dolce, arrestato a Como nelle scorse settimane. Il sospetto è che il numero due della procura abbia spalleggiato gli imbrogli di Boccassini. Nella rete degli investigatori, comunque, è caduto l'avvocato Mario Siniscalco, ex consigliere comunale socialista di Salerno: era lui, secondo gli inquirenti, a fare da mediatore fra il magistrato e i suoi "clienti". Avevano messo in piedi una piccola ma efficiente società del malaffare. Siniscalco, tra l'altro, è stato a lungo presidente della commissione edilizia di Salerno, organismo di cui ha fatto parte anche Boccassini. E lì dentro i due hanno concesso più di un condono sospetto. L'inchiesta prende il via dalle dichiarazioni di Mario Pepe, un pentito della camorra, e dell'imprenditore Elio Graziano, ex presidente dell' Avellino, coinvolto tempo fa nello scandalo delle "lenzuola d'oro". L'industriale ha raccontato che, sborsando una trentina di milioni, ottenne dal procuratore il condono edilizio per la sua villa. E che Boccassini, all'epoca sostituto a Salerno, aggiustò un processo d'appello in cui Graziano era imputato di omicidio colposo per la morte in fabbrica di un operaio: condannato in primo grado, assolto in seconda istanza. L'imprenditore pagò l'intercessione assumendo una figlia del magistrato e scucendo altri milioni. "C'erano giorni in cui Siniscalco mi chiamava e mi diceva: "Prenotaci una stanza a Saint Vincent" ed io ero costretto a pagare albergo e casinò", ha detto in sostanza Graziano. Manette anche per i faccendieri Franco Ferolla e Antonio Sabia. Si vantavano di poter condizionare i processi e furono messi sott'inchiesta da Boccassini per millantato credito. Sembra, però, che quell' indagine servì solo ad accordarsi coi due e coinvolgerli nel giro d'affari. Arrestate, infine, Laura e Liliana Clarizia, titolari dell' agenzia pubblicitaria "First Agency", di cui era socia un' altra figlia del procuratore. L'azienda, grazie a Boccassini, ricevette dalla comunità montana Lambro Mingardo la fornitura di 20 mila depliant pubblicitari. Non a caso, in cella è finito pure il sindaco di Ascea, Angelo Criscuolo, ex presidente della comunità montana.

Ottavio Ragone, "La Repubblica", 15 giugno 1994. Ai tavoli verdi di Saint Vincent, Nicola Boccassini era un volto conosciuto. Tra un poker e uno chemin de fer, il procuratore della Repubblica di Vallo della Lucania, grosso centro del Salernitano, trascorreva intere notti al casinò. Amava giocare d'azzardo Boccassini, ma era un perdente, sperperava milioni, accumulava debiti su debiti. Per pagarli - sostiene l'accusa - il giudice vendeva i processi, garantiva assoluzioni a archiviazioni al miglior offerente. Oppure chiedeva un posto di lavoro per le figlie. Ieri Boccassini è stato arrestato in casa, a Salerno, in un'operazione che ha portato in carcere altre sei persone. I detective della Dia gli hanno mostrato un ordine di custodia cautelare per corruzione, concussione, abuso d'ufficio, favoreggiamento. Si è scoperto che quel giudice sempre elegante, frequentatore dei salotti buoni di Salerno, era stato per dieci anni il temutissimo ras della procura di Vallo della Lucania. "Boccassini andava al casinò e io dovevo pagargli la stanza d' albergo", ha raccontato l'industriale Elio Graziano, ex presidente dell' Avellino calcio, che dopo l'arresto di tre mesi fa ha scelto di collaborare. "Una sera gli consegnai un milione, lo perse in mezz' ora con puntate sballate". Boccassini apriva inchieste a suo piacimento, le usava come armi di ricatto per rastrellare denaro. E assegnava perizie d'ufficio al suo futuro genero Attilio Roscia pagandogli di persona le consulenze, affinché mettesse qualcosa da parte in vista del matrimonio con la figlia. Mesi fa, dopo le prime accuse dei pentiti tra cui il camorrista Mario Pepe, il Csm aveva sospeso Boccassini dalle funzioni e dallo stipendio, ordinando il trasferimento d'ufficio. Cionostante il giudice frequentava ancora loschi personaggi, come provano le foto scattate dalla Dia. Ma i sospetti investono pure un'altra toga di Vallo della Lucania, il sostituto procuratore Anacleto Dolce, fratello di Romano Dolce, il magistrato di Como arrestato settimane fa nell'inchiesta su un traffico di armi e scorie nucleari. Dolce ha ricevuto un'informazione di garanzia per abuso d'ufficio: anche lui avrebbe affidato perizie a Roscia e liquidato le parcelle. Si parla di un terzo giudice inquisito, ma sul nome c'è riserbo. Oltre a Boccassini, che oggi sarà interrogato dal gip Luigi Esposito, la procura di Napoli ha arrestato l'avvocato Marco Siniscalco, ex consigliere comunale psi a Salerno, amico e "socio" di Boccassini con cui spendeva un patrimonio al casinò; Angelo Criscuolo, presidente della Comunità Montana Lambro e Mingardo e sindaco di Ascea, nel Cilento; i faccendieri Franco Ferolla e Antonio Sabia; le sorelle Laura e Liliana Clarizia, titolari della "First Agency" di cui era socia una figlia di Boccassini e dove si vedeva spesso anche la moglie del giudice. Si è scoperto che la "First Agency" ottenne un lucroso appalto dalla Comunità Montana, la fornitura di 20 mila depliant turistici, un "omaggio" del presidente Criscuolo ai familiari di Boccassini. Ferolla e Sabia chiesero venti milioni ad una coppia per "aggiustare" un processo nel tribunale di Vallo, si sospetta con la regìa del procuratore. L' avvocato Siniscalco faceva parte della commissione comunale per il condono edilizio, di cui era membro pure Boccassini. Si misero d' accordo e dietro compenso fecero in modo che non fosse demolita la villa abusiva di Elio Graziano, imprenditore, anni fa coinvolto nello scandalo delle "lenzuola d' oro" delle Ferrovie. Proprio Graziano ha raccontato i segreti di Boccassini. I due si conobbero quando il giudice era sostituto procuratore generale a Salerno. Graziano, condannato per omicidio colposo per la morte sul lavoro di un suo operaio, fu assolto in appello grazie all'intervento del magistrato. Dopo la sentenza Boccassini avvicinò l'imprenditore: "Mia figlia cerca lavoro", disse. E Graziano, pronto: "Eccellenza, sono a disposizione". La ragazza fu assunta ma secondo l'industriale intascava lo stipendio senza presentarsi in ufficio: "In pratica le pagavo gli studi", ha spiegato l'ex presidente dell'Avellino, aggiungendo che Siniscalco e Boccassini pretesero un mutuo di settanta milioni per l'acquisto di una casa. Il giudice volle un altro prestito di trenta milioni dalla Cassa rurale di Omignano Scalo, presieduta fa Fernando Cioffi: l'istituto era sotto inchiesta, ma il solerte Boccassini chiese l'archiviazione del fascicolo.

Luca Fazzo, "La Repubblica", 14 novembre 1993. Il magistrato Alberto Nobili è uno dei quattro pm sui quali, secondo le dichiarazioni del pentito, i giudici fiorentini starebbero indagando. Sarebbe accusato di non aver arrestato Giovanni Salesi in occasione dell'inchiesta sulla morte di un pregiudicato gelese. Nobili coordinò la recente operazione. "Nord-sud" che coinvolse il generale dei carabinieri Delfino. Tre paginette di verbale, dettate da un mafioso catanese, mettono una contro l'altra due tra le Procure più importanti d'Italia, quella di Milano e quella di Firenze, portando in piazza storie vere o inventate di giudici corrotti, di inchieste nascoste, di contatti inconfessabili tra gli uomini dello Stato e i suoi nemici. Otto giorni fa, il 6 novembre, il "pentito" catanese - sconvolto, quasi in lacrime - si presenta dai giudici lombardi con cui collabora da tempo e dice: mi hanno chiamato i giudici di Firenze Pierluigi Vigna e Giuseppe Nicolosi, quelli che indagano sull'autoparco milanese in mano alla mafia. Loro, e i loro amici della Guardia di finanza, mi hanno detto che sanno che i giudici di Milano sono corrotti. Mi hanno chiesto conferme, altre rivelazioni, particolari. Non hanno messo niente a verbale. Ma mi hanno fatto dei nomi: Antonio Di Pietro, Armando Spataro, Alberto Nobili, Francesco Di Maggio. Scoppia il finimondo Ieri le affermazioni del pentito vengono riportate dal Corriere e dal Giornale. E scoppia il finimondo. Francesco Saverio Borrelli, il capo della Procura, parla a nome di tutti: "Reagiremo - dice - con la massima fermezza. Da sempre, e in particolare da qualche anno, la Procura di Milano è impegnata su più fronti nell'accertamento di fatti gravissimi di criminalità mafiosa, la recente brillante operazione guidata da Alberto Nobili ne è la riprova, e nel campo della pubblica amministrazione. Essendo questo impegno evidente, ed essendo evidente anche l'esistenza di interessi assai cospicui che vengono posti a repentaglio dall'attività dei magistrati di Milano, era prevedibile ma non perciò meno deplorevole che si sarebbero infittiti i tentativi di gettare discredito. Noi contro questo tentativo, che non sappiamo ancora da quale direzione provenga, reagiremo con la massima fermezza ma anche con la massima serenità perché siamo certi, graniticamente certi, della nostra assoluta trasparenza e aggiungo, quale responsabile dell' ufficio, che ben conosco la professionalità altissima dei miei aggiunti e dei miei sostituti. In questa situazione, come sempre, i miei sostituti avranno da me la massima copertura". Del pentito che ha incontrato i giudici di Firenze dice: "E' un collaboratore della Procura e non si discute la sua credibilità verso quello che dice a noi nell' ambito delle nostre indagini. Questa vicenda invece è tutta da accertare". Borrelli conferma di avere partecipato personalmente all' interrogatorio del pentito e di avere chiesto per iscritto chiarimenti al collega Pierluigi Vigna: una lettera rimasta, finora, senza risposta. Passano le ore, senza che si riesca ad afferrare il bandolo della vicenda. I contatti tra i magistrati intanto continuano frenetici. Ma l'impressione è che un tentativo di chiarimento sia in corso. Alle otto di sera, al termine di questa giornata campale, Francesco Saverio Borrelli appare più rilassato che durante il briefing di mezzogiorno. Signor procuratore, molte cose non quadrano. Lei ha spiegato di avere scritto a Vigna per chiedere spiegazioni, il suo collega di Firenze dice invece di avere appreso delle rivelazioni del pentito solo dai giornali. "Ho parlato al telefono con Pierluigi Vigna all'inizio del pomeriggio. Mi ha detto di non avere ancora ricevuto la mia lettera, e questo è comprensibile visti i tempi delle poste italiane. Mi ha confermato che mi risponderà immediatamente. Io attendo per martedì o mercoledì prossimi i chiarimenti che gli abbiamo chiesto nello spirito di correttezza che contraddistingue i nostri rapporti". Le affermazioni del pentito, per la verità, non descrivono un quadro di grande correttezza. "Nel merito di queste dichiarazioni preferirei non entrare. Voi pretendete valutazioni immediate, invece vi sono delle circostanze in cui è necessario approfondire". Però lei stamane ha rivendicato l' attendibilità di questo personaggio. "Attenzione, io ho semplicemente fatto presente che il contributo dato da questo collaboratore alle inchieste della Procura di Milano si è rivelato n contributo serio. Non ho detto, né potevo dire, che questo signore dice la verità qualunque argomento tratti. Voglio dirle anche che io penso da sempre che la comunicazione è qualcosa di complicato, a volte le parole invece che veicolare il pensiero lo confondono. Vi è stato un incontro, e bisogna capire chi ha detto e cosa ha detto, e l' altro come ha recepito questo messaggio. E' difficile, ed anche per questo io non vorrei drammatizzare". Stamane lei sembrava molto preoccupato. "Certo, perché in un passaggio periglioso per le istituzioni, in cui la magistratura, e non solo quella milanese, ha assunto tanta importanza bisogna tenere gli occhi bene aperti per evitare di cadere in trappola. Bisogna però anche evitare ogni precipitazione, perché potrebbe essere segno di debolezza mentre noi siamo molto tranquilli". Vigna le scriverà, spiegherà cosa è accaduto quel giorno durante l' interrogatorio. Ma se alla fine, come è possibile, la situazione fosse del tipo: la parola del pentito contro la parola di Vigna, voi a chi credete? "Mi sembra un paragone improponibile. E' chiaro che non possono esistere dubbi". Il clima creato nel tribunale milanese dall' esplodere della vicenda è molto pesante, anche perché i nomi che compaiono nei verbali sono quattro dei nomi più noti e rispettati del palazzaccio di corso di Porta Vittoria. Uno, Francesco Di Maggio, è diventato quest' anno vicedirettore generale delle carceri. Gli altri tre sono ancora in Procura: Antonio Di Pietro è il simbolo dell' Italia che cambia, Alberto Nobili e Armando Spataro sono due tra i magistrati di punta della Direzione distrettuale antimafia, autori delle più importanti inchieste degli ultimi tempi contro il crimine organizzato in Lombardia. Dall' ufficio del procuratore capo Saverio Borrelli partono telefonate a raffica verso tutti i protagonisti della vicenda. Ma, con il passare delle ore, la situazione invece di chiarirsi si complica sempre di più. Giulio Catelani, procuratore generale a Milano, durante un convegno conferma integralmente le anticipazioni dei due quotidiani. "Mi scappa da ridere", dice (ma senza nemmeno l' ombra di un sorriso) Armando Spataro. "Mi aspettavo il tritolo o le calunnie - commenta Alberto Nobili - e per adesso sono arrivate le calunnie". Antonio Di Pietro e Francesco Di Maggio si chiudono nel silenzio. Ma ormai anche le forme, che di solito racchiudono le polemiche tra giudici, sono saltate. Molto preciso I magistrati di Milano fanno sapere che il racconto del "pentito" sul suo incontro con i giudici fiorentini è preciso in modo impressionante, che la sua attendibilità è considerata altissima, e accusano senza mezzi termini i colleghi fiorentini di indagare su di loro in modo clandestino, fuori da ogni regola del codice e con ipotesi di reato gravissime. Si viene a sapere che uno dei magistrati chiamati in causa ha chiesto al procuratore Borrelli che l' interrogatorio del "pentito" sia trasmesso subito alla procura di Bologna, competente per i reati commessi dai giudici di Firenze: l' ipotesi di reato sarebbe, nel migliore dei casi, quella di abuso d' ufficio, per avere interrogato il catanese senza metterne a verbale le dichiarazioni. I fiorentini ribattono facendo capire che è in corso una manovra per screditarli, per togliere attendibilità alle scoperte compiute in questi mesi dal Pm Nicolosi sulla penetrazione della mafia a Milano e sui suoi contatti - attraverso una loggia massonica - con gli apparati dello Stato. E' l' inchiesta sull' autoparco milanese di via Salomone, la stessa che ha portato poche settimane fa Vigna e Nicolosi a fare arrestare cinque poliziotti milanesi tra cui un vicequestore, Carlo Iacovelli, indagato per associazione mafiosa.

Cinzia Sasso, "La Repubblica" del 16 novembre 1996. Ruota intorno al costruttore Antonio D'Adamo, ai rapporti con il suo difensore Giuseppe Lucibello e con il cliente più famoso di quest' ultimo, Francesco Pacini Battaglia, l'ultima trincea dell' inchiesta su Antonio Di Pietro. I magistrati di Brescia avevano già ricevuto dai colleghi di La Spezia i pacchi di intercettazioni telefoniche, i rapporti del Gico e pure i riscontri dei rapporti patrimoniali fra il banchiere e D'Adamo. Rapporti di denaro, molto denaro, transitato estero su estero, da società di Pacini a società di D'Adamo. E D'Adamo è, dai vecchi tempi, un buon amico di Di Pietro. Tanto amico da aver dato in uso a Susanna Mazzoleni, moglie dell'ex pm, un telefono cellulare nell'epoca in cui il portatile era uno status symbol per pochi. Ma a Brescia è stata riaperta nei giorni scorsi anche un'altra vicenda che rischia di provocare un nuovo terremoto: quella sull' Autoparco di via Salamone a Milano, l'autoparco della mafia scoperto dal Gico di Firenze e all' origine del rancore tra la Procura di quella città e quella di Milano. Da Bologna, dov'era finito protocollato a modello 45, è arrivato a Brescia il nuovo rapporto del colonnello Giuseppe Autuori (sollevato dall'incarico di comandante del gruppo Gico di Firenze e trasferito a Bologna), compilato nel '95 e incentrato sui sospetti di coperture da parte degli ambienti investigativi e giudiziari milanesi a quella che è stata ritenuta una base della mafia al nord. Sono passati due anni dalla chiusura di un' altra inchiesta, a Brescia, su alcuni aspetti di quella vicenda. Un pentito aveva accusato - e poi ritrattato le accuse - un pm al di sopra di ogni sospetto, Alberto Nobili, della Dda milanese. L'indagine si era chiusa con un'archiviazione per Nobili e l'apertura di un procedimento per calunnia contro il pentito che l' aveva accusato. Ma nel rapporto di Autuori non si parla solo di Nobili: si parla anche di Di Pietro, ai tempi commissario al quarto distretto di polizia, nella competenza del quale rientrava l'Autoparco, e di altri magistrati e investigatori milanesi. Per Giancarlo Tarquini, da poco arrivato a dirigere la Procura di Brescia, i grattacapi non finiscono qui: i primi giorni di ottobre, dal gip di Roma Maurizio Pacioni, è arrivata una relazione su presunte irregolarità compiute dal pool milanese di Mani pulite quasi al completo più l'ex gip Italo Ghitti a proposito di un' inchiesta - cominciata a Milano e finita a Roma con un'archiviazione - su un appartamento-tangente dato dalla Fiat al senatore democristiano Giorgio Moschetti. A Roma era stato il pm Francesco Misiani a occuparsene e aveva avuto non poche difficoltà a ottenere le carte dai colleghi di Milano. In questo caso i magistrati di Milano sono stati iscritti al registro degli indagati per abuso d' ufficio. La vicenda è molto complessa e riguarda anche Filippo Dinacci, figlio dell'ex capo degli ispettori ministeriali Ugo Dinacci (sotto processo a Brescia per la presunta concussione ai danni di Di Pietro). Quell'appartamento della Fiat - valore 2 miliardi e 400 milioni - sarebbe poi stato messo a disposizione, secondo il dirigente della Fiat Ugo Montevecchi che denunciò il caso, del figlio di Dinacci (che ha sempre smentito). Oggi, a Brescia, si ricomincia. "Il confronto con i colleghi di La Spezia - ha detto alle 20.15 il procuratore Tarquini rientrato in Procura - è stato utile, come lo sono sempre i confronti con i colleghi". E si ricomincia da Antonio D' Adamo, dal suo ruolo che a Brescia era già stato al centro dell' attenzione. Già secondo il pm Fabio Salamone c'era D'Adamo dietro molti misteri del caso Di Pietro. Le carte di La Spezia pare gli stiano dando ragione.

Virus su rai 2 condotto da Nicola Porro. 22:33 va in onda un servizio dedicato al caso del magistrato Antonio Lollo di Latina. Gomez: "C'è un problema in Italia riguardo i tribunali fallimentari. Non è la prima volta che un magistrato divide i soldi con il consulente. Nelle fallimentari, è noto che c'è la cosiddetta mano nera. Sulle aste, succedono cose strane. E se lo dice Peter Gomez, direttore de "Il Fatto Quotidiano", notoriamente giustizialista e manettaro oltre che asservito alla magistratura, è tutto dire.

"Tangenti e cricche si possono sconfiggere ma ci sono anche giudici riluttanti". "La magistratura in qualche caso ha dato l’impressione d’essere dura e pura davanti a questioni banali e di non saper affrontare con fermezza i problemi più gravi. E qualche collega non ha voglia di impegnarsi in inchieste difficili". Intervista a Raffaele Cantone, presidente dell'Anticorruzione, tratta dal nuovo libro scritto con Gianluca Di Feo.

«Non voglio creare illusioni, ma neppure lasciare alibi. La guerra alla corruzione si può fare. L’Autorità che guido non può arrestare né intercettare: non può bloccare le tangenti. Ma ha altri poteri, che cominciano a dare qualche risultato».

Raffaele Cantone è il presidente della prima struttura creata in Italia per cercare di prevenire la corruzione. Un modo nuovo di affrontare il problema, insistendo sulla trasparenza, sul merito, sulla fiducia nella capacità di riscatto del Paese. In un solo anno ha dovuto misurarsi con gli scandali dell’Expo, del Mose e di Mafia Capitale. E adesso affida a un libro intervista scritto con Gianluca Di Feo de “l’Espresso” l’analisi de “Il male italiano” più grave: un morbo più profondo delle tangenti, che ha contaminato l’intera società. Cantone discute delle colpe della politica, degli imprenditori e della burocrazia. Senza risparmiare critiche alla magistratura, a cui è orgoglioso di appartenere. Come in queste pagine che anticipiamo.

Raffaele Cantone, lei sostiene che per domare la corruzione è necessario puntare su tre pilastri: repressione, prevenzione e una battaglia culturale per cambiare l’atteggiamento degli italiani. Partiamo dalla repressione: cosa bisogna fare?

«Prima di tutto, bisogna porre l’attenzione su una questione organizzativa, ossia la capacità della magistratura di mettere in campo il meglio. Ancora oggi esistono realtà in cui non si aprono indagini per tangenti, nonostante nel Paese non esistano zone franche. Questo male si manifesta ovunque, seppure con diversi livelli di intensità. Se la corruzione non viene scoperta, significa che c’è un problema, nelle procure o negli inquirenti, e questo è anche specchio dell’inefficienza della magistratura nell’affrontare questioni complesse. Credo che sia necessaria un’autocritica sull’organizzazione giudiziaria e sull’importanza che viene riconosciuta alla lotta alla corruzione. Per esempio, non tutti gli uffici investigativi hanno pool specializzati per i reati di questo tipo. Che richiedono grande impegno e professionalità: quando le inchieste vengono fatte bene, i risultati arrivano sempre».

Ma se la giustizia non funziona, come si può fermare la corruzione? Oggi l’impunità per i colletti bianchi è praticamente certa: la maggioranza dei procedimenti per corruzione si chiude con la prescrizione o con pene irrisorie. Quasi sempre i protagonisti degli scandali riescono a tornare al loro posto.

«La repressione giudiziaria è il momento chiave della lotta, senza il quale la prevenzione non ha alcun senso. Inutile mettere in campo strumenti per impedire la corruzione, se i reati non vengono puniti. Anche negli anni di Mani Pulite le inchieste sono state a macchia di leopardo. In quel periodo c’è stato il più alto livello di incriminazioni, ma studiando le statistiche giudiziarie ci si rende conto che esistono vuoti assoluti in alcune zone d’Italia: perché quelle procure non hanno indagato? Di sicuro non perché in quei territori non ci fossero tangenti o finanziamenti illeciti. La legge Cirielli del 2005 è stata devastante, perché ha reso la prescrizione di questi reati più rapida, ma anche prima di allora tanti processi venivano buttati via perché si perdeva troppo tempo. Ricordo la prima indagine sulle ecomafie in Italia, che ha fatto finire alla sbarra l’alleanza tra boss casalesi, politici e funzionari campani: una vicenda fondamentale, l’origine dell’avvelenamento di un’intera regione. L’assessore della Provincia – che aveva intascato tangenti per autorizzare il trasporto di rifiuti illeciti – venne condannato, in primo grado, poi in appello ci sono stati talmente tanti rinvii che si è arrivati alla prescrizione. E di casi come questi ce ne sono moltissimi. Oggi ci sono istruttorie che vengono cancellate dal tempo prima ancora che sia pronunciato qualunque giudizio: l’inchiesta finisce nel cestino senza neppure l’incriminazione. Questo ha un effetto disastroso: oltre a non dare un colpo al malaffare, trasmetti la certezza dell’impunità. Una parte della magistratura compie il proprio dovere e difende i processi. Ma bisogna riconoscere che un’altra parte, sicuramente minoritaria, non sempre ha fatto tutto quello che poteva».

Nel 1992 i risultati delle indagini milanesi e il sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno cementato il consenso degli italiani verso i giudici. Piercamillo Davigo ha detto che la magistratura non ha fatto una rivoluzione, ma ha salvato la credibilità delle istituzioni, impedendo che la crisi economica e politica di quegli anni degenerasse nel caos. Adesso la fiducia nella categoria è ai minimi e la paralisi della giustizia insostenibile. Ma non sembra che la magistratura tenti di trovare soluzioni.

«Nella magistratura convivono varie anime. Lei ha citato il 1992, ma anche allora era divisa. Mentre Falcone, Borsellino, Livatino venivano uccisi, c’era un pezzo di magistratura che faceva in modo molto più burocratico la sua parte. Nel 1980, l’assassinio del procuratore di Palermo Gaetano Costa, una figura la cui probità dovrebbe essere d’esempio a tanti, venne collegato al fatto che alcuni colleghi avevano preso le distanze dalle sue decisioni, rifiutandosi di firmare l’ordine d’arresto per i capi di Cosa nostra. Oggi come allora, tra le toghe c’è chi fa il suo dovere con abnegazione, correndo rischi altissimi, e chi non lo fa: numericamente questi ultimi sono molti di meno, una percentuale inferiore alla media riscontrata negli altri settori della pubblica amministrazione. E non è un caso che nel 1988 si sia preferito insediare Antonino Meli e non Falcone alla guida degli inquirenti di Palermo. Perché? Falcone era antipatico a molti, veniva considerato un «supergiudice» e tra i colleghi c’era invidia nei suoi confronti. Ma anche perché con il suo lavoro metteva in discussione la figura del magistrato che si limita a fare il minimo indispensabile. Negli ultimi anni questa fascia della magistratura si è ridotta, ma esiste ancora».

Ci sono importanti magistrati che hanno fatto l’apologia del «giudice senza qualità», che si limita ad applicare la legge senza protagonismi. Ma così si rischia di avallare la débâcle della giustizia. Perché le regole processuali favoriscono chi ha le risorse economiche per sfruttare in pieno la prassi dei ricorsi fino al traguardo della prescrizione.

«La magistratura è per certi versi schizofrenica. In qualche caso abbiamo dato l’impressione d’essere duri e puri davanti a questioni banali e di non saper affrontare con fermezza i problemi più gravi. Somigliamo per certi versi alla tela del ragno: più grossa è la vittima che cade nella nostra rete, più è facile che le sue maglie cedano e la lascino scappare indenne. Per il ragno, è una dimostrazione di intelligenza: a che serve affannarsi a imprigionare un animale troppo grande per le sue forze? Meglio concentrarsi sugli insettini inermi che si impigliano nella sua trappola. Per la magistratura, invece, questa diventa una dichiarazione di impotenza».

I pezzi grossi, infatti, beneficiano della situazione. E non solo grazie al colpo di spugna della prescrizione. Ci sono tribunali di provincia dove raramente si dà fastidio ai potenti, senza contare che la procura di Roma, per decenni, è stata «il porto delle nebbie» in cui tutte le indagini scomparivano nel nulla. Se si tratta di punire emarginati e piccoli delinquenti, però, gli stessi giudici sanno essere inflessibili.

«L’impressione è che spesso sia così. E questo consolida il potere dei forti. Basta vedere quanto spesso i processi ai colletti bianchi finiscono nel nulla rispetto ai giudizi contro cittadini comuni. Certo, sono processi più complessi, ma questo giustifica solo in parte le disparità negli esiti. La verità è che molti non hanno voglia di impegnarsi in inchieste difficili, e il fatto che i meccanismi di valutazione della produttività siano spesso oggetto di valutazioni meramente burocratiche peggiora le cose: se tu condanni uno scippatore che ha rubato venti euro, o un concussore che ha intascato milioni con metodi sofisticati, non fa differenza. Nelle statistiche possono valere entrambi uno, anche se l’impegno richiesto per assicurarli alla giustizia è molto diverso».

IL PARTITO DEI GIUDICI.

La caduta (parziale) degli Dei, scrive Piero Sansonetti su "Il Garantista". Il segretario dell’Anm, il dottor Maurizio Carbone, dice che la riforma delle norme sulla responsabilità civile dei magistrati, approvata l’altro ieri dal Parlamento, «è un tentativo di normalizzare la magistratura». Lo ha dichiarato ieri, durante la conferenza stampa dell’ Anm, che è su tutte le furie per questa piccola riforma. Già: «normalizzare». Cioè rendere normale. Oggi la magistratura non è normale: è l’unica istituzione dello Stato ad essere al di sopra dello Stato, della legge, ad essere – nell’esercizio delle sue funzioni – immune dalla legge, e insindacabile, e non dipendente dallo Stato ma sovraordinata allo Stato. «Normalizzare» la magistratura, cioè toglierle la sua caratteristica di ”deità” (che non è la ”terzietà” di cui spesso l’Anm parla) non sarebbe una cosa cattiva. Libererebbe forse l’Italia da un sovrappeso ”feudale” che ancora ne condiziona profondamente la struttura democratica, e che probabilmente è in contrasto con lo spirito della Costituzione, che è una Costituzione Repubblicana e che prevede l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Alcuni magistrati dicono: ma noi siamo magistrati, non cittadini. E su questa base pretendono di non dover sottostare alla legge. Ritengono – temo in buona fede – che la saldezza di una società, e la sua moralità, e il suo essere ”società etica” (successivamente si passa all’idea dello ”Stato Etico”) non possono che essere affidati ad una entità e ad un gruppo di persone migliori degli altri (”aristoi”) i quali siano in grado di ”sapere” la vita degli altri, valutarla, giudicarla, punirla. Non è questa una funzione – pensano – che possa essere affidata alla democrazia, o al libero svolgimento delle relazioni umane e sociali, perché la democrazia è un buon sistema di governo ma è viziato da corruzione. E l’eccesso della libertà, della deregolamentazione, sono pericolose per la collettività. La democrazia deve essere ”corretta”, o comunque controllata, e anche la società, da qualcosa di superiore e di ”certamente morale”: e cioè da i giudici. Contestare questa funzione dei giudici vuol dire contestare la loro indipendenza. E mettere in discussione l’indipendenza dei giudici vuol dire correre il rischio che la magistratura finisca per non essere più autonoma dalla politica. L’autonomia dalla politica non è vista come una condizione di funzionamento della magistratura, o come un elemento necessario nell’equilibrio dei poteri, ma come un valore assoluto al quale una società ”morale” deve sottomettersi, e in assenza del quale la società diventa ”immorale” e la democrazia, e le istituzioni, scendono in una condizione di subalternità alla politica. La politica è ”il male” , la giustizia (lo dice la parola stessa) è il bene, e il bene può governare il male, e può redimerlo, correggerlo, sottometterlo. Il male non solo non può governare il bene, ma non può aspirare ad essere alla pari col bene. Ecco, questo ragionamento è alla base delle molte dichiarazioni rilasciate ieri dal dottor Carbone, e anche dal presidente dell’Anm Sabelli. Il quale ha rimproverato al governo di avere promesso una riforma della Giustizia in 12 punti, e di avere realizzato invece l’unico punto che non va bene, e cioè la riforma della responsabilità dei giudici. I magistrati invece – ha spiegato – vogliono cose diverse: per esempio la riduzione della prescrizione, l’estensione dei poteri speciali ”antimafia” anche ad altri reati, il processo telematico (cioè la cancellazione del diritto dell’imputato ad essere presente al suo processo), la riduzione dei gradi di giudizio, eccetera. In sostanza, la proposta dell’Anm (che più o meno è stata organicamente strutturata nella proposta di riforma del dottor Nicola Gratteri) è quella di escludere norme che riportino alla normalità la magistratura, ristabilendo la legittimità dello Stato liberale e dell’equilibrio dei poteri, ma, viceversa, decidere un forte aumento dei poteri della magistratura, un ridimensionamento drastico dei diritti dell’imputato, e un rafforzamento della condizione di preminenza e di insindacabilità dei pubblici ministeri. Sabelli ha anche annunciato che l’Anm ha chiesto un incontro al Presidente della Repubblica. Per dirgli cosa? Per esprimere le proprie rimostranze contro il Parlamento. Già nella richiesta dell’incontro c’è un elemento di scavalcamento dell’idea (puramente platonica in Italia) dell’indipendenza dei poteri. La magistratura ritiene che il suo compito non sia quello semplicemente di applicare le leggi, ma di condizionarne il progetto e la realizzazione. L’associazione magistrati chiede al Presidente della Repubblica di frenare, o condizionare, o rimproverare il Parlamento. E vuole discutere nel merito delle leggi. La magistratura considera inviolabile la propria indipendenza dagli altri poteri, e inaccettabile la pretesa di indipendenza degli altri poteri dalla magistratura. Devo dire che la passione con la quale i magistrati hanno reagito alla miniriforma della responsabilità civile mi ha colpito soprattutto per una ragione: questa riforma è quasi esclusivamente simbolica. La responsabilità dei giudici resta limitatissima. L’unica vera novità è la rimozione del filtro che in questi vent’anni aveva permesso solo a 4 cittadini di ottenere un risarcimento per la mala-giustizia (nello stesso periodo sono stati processati e condannati 600.000 medici). Tutte le altre barriere restano. I magistrati saranno giudicati solo in caso che sia accertata una colpa grave, o addirittura un dolo nel loro comportamento, saranno giudicati non da una autorità esterna ma dai loro colleghi (visto che oltretutto non esiste una divisione delle carriere) e se alla fine saranno ritenuti colpevoli pagheranno con una sanzione che in nessun caso potrà superare la metà dell’ammontare di un anno di stipendio. Voi conoscete qualche altra categoria professionale protetta fino a questo punto? La probabilità di essere condannati per i magistrati è così bassa, e l’esiguità della pena così forte, che chiunque può mettersi al riparo pagando una assicurazione con poche decine di euro. Cosa che non vale per i medici, o gli ingegneri (non parliamo dei giornalisti) che essendo espostissimi al rischio di condanna (anche senza dolo e senza colpa grave) se vogliono sottoscrivere una assicurazione devono pagare migliaia e migliaia di euro. Diciamo che il privilegio non è affatto toccato da questa riformetta. Appena appena scalfito. E allora? Il fatto è che comunque la riforma ha un valore ideale, è una specie di metafora. Il Parlamento, per una volta, non si è inginocchiato davanti alla magistratura. E’ questa la novità che ha messo in allarme i settori più corporativi della magistratura. Il timore è che davvero possa cambiare il clima politico e possa essere aperta una via alle riforme vere, e al ridimensionamento della ”Divina Giustizia”. No, la riforma non comporterà la caduta degli Dei. Solo che gli Dei non sopportano gli oltraggi. Sono permalosi. E’ sempre stato così, dai tempi di Omero. E questa legge è uno sberleffo inaccettabile, anche se innocuo.

Esiste in Italia il partito dei giudici? Certo che sì, risponde “Il Messaggero”. Potremmo definirlo così: il partito dei giudici è quel fronte trasversale che, con l’alibi di una emergenza che cambia faccia a seconda delle stagioni (terrorismo, mafia, corruzione, malapolitica), sostiene la necessità che la magistratura svolga un ruolo di supplenza, quando non di vera e propria sostituzione, rispetto alla politica. Chi fa parte del partito dei giudici? Magistrati, ovviamente. Ma non solo: a loro si sono sempre affiancati partiti e associazioni, giornali e riviste, più quella magmatica forma di opinione pubblica che nella mitologia amica ha assunto di volta in volta la definizione di popolo dei fax, popolo della Rete, popolo viola e altre improbabili declinazioni di popolo. Il partito dei giudici non nasce con Tangentopoli, a differenza di quanto pensano i più, bensì alla fine degli Settanta, quando si sperimenta il primo laboratorio del giustizialismo e si creano alcuni dei circoli viziosi che hanno portato alla situazione attuale. E nasce a sinistra, il che spiega in parte perché è diventato egemonico in un pezzo rilevante dell’elettorato di quel versante, quando i vertici del Pci decidono che occorre aprire un canale diretto con alcuni magistrati per orientare le indagini contro il terrorismo e massimizzare i risultati della repressione giudiziaria. È in questa fase che in nome dell’obiettivo di fondo - la difesa della democrazia e dell’agibilità politica - si comincia a sorvolare sulla liceità degli strumenti messi in campo: si forza il diritto (arresti preventivi di massa, cambio in corsa dei capi di imputazione, sforamento dei tempi d'indagine e di fermo), si perseguono i fenomeni anziché i singoli reati, si usano i mezzi di stampa amici per enfatizzare le inchieste e mitizzare l’azione dei pm, si promulgano leggi speciali e altre se ne invocano, in una rincorsa all’emergenzialità nella quale la politica sceglie di farsi ancella delle richieste che arrivano dalle Procure. D’altra parte, questo collateralismo finisce per orientare politicamente molte inchieste. Lo sconfinamento dei poteri giudiziari prodotto negli anni della lotta al terrorismo viene quindi trasferito in blocco negli anni Ottanta verso la nuova emergenza e per un’altra causa in sé nobilissima: la lotta alla mafia. Sono gli anni in cui si estremizza l’uso barbaro del pentitismo (non occorre citare il caso Tortora), brandito come una clava e con la pretesa di utilizzare i collaboratori senza alcuna garanzia in tutte le fasi dell’azione giudiziaria. I giudici cominciano a diffidare pubblicamente la politica dal mettere mano a riforme che ripristinino le condizioni dello Stato di diritto. La situazione esplode poi con Tangentopoli, quando la molla della nuova emergenza, la sacrosanta lotta alla corruzione, unita all’indebolimento del collante sociale dei partiti, proietta i magistrati nella lotta politica senza più mediazioni e dissimulazioni. Si ripropone il solito catalogo di svarioni giuridici ma ormai sdoganato, con la teorizzazione esplicita della carcerazione preventiva come mezzo di pressione per estorcere confessioni, della gogna per gli imputati, delle condanne mediatiche come alternativa rapida alle condanne giudiziarie. Non è un trattamento che colpisce solo potenti e famosi (come se poi, in una società liberale, fosse lecito accanirsi su alcune categorie), e casomai il torto di molti garantisti part time è di accorgersi di questo stato di cose solo quando colpisce i più noti. E così, mentre i pm vanno in tv a chiedere di bloccare questo o quel provvedimento governativo, si comincia a vaneggiare di governo dei giudici (una proposta cui è dedicato un famigerato numero monografico di Micromega). Quindi, con l’arrivo delle intercettazioni e della loro allegrissima trascrizione in tempo reale sui quotidiani la magistratura diventa soggetto politico a tutto tondo, anzi di più: capace di imporre l’agenda politica, distruggere carriere, orientare scalate di Borsa. Intendiamoci, questo non è il ritratto della magistratura italiana. È il ritratto di un suo pezzo che ha completamente smarrito il senso della propria missione, appoggiandosi a sponde politiche e sociali sempre più aggressive nelle loro crociate di presunta moralizzazione. In un’Italia segnata da scandali e malaffare, il partito dei giudici ha potuto avanzare e rafforzarsi, ha miscelato umori reazionari e insoddisfazione democratica, ha reso primitivo il dibattito pubblico sulla giustizia. Argomentare contro il partito dei giudici non è difficile. È inutile. Vuoi regolamentare l’uso dei pentiti? Sei colluso con la mafia. Critichi Mani pulite? Vuoi difendere la politica corrotta. Sei a favore di una legge che limiti la pubblicazione delle intercettazioni? Vuoi proteggere Berlusconi e i criminali. Fino all’ultimo caso: se difendi Napolitano dai vergognosi attacchi di cui è oggetto è perché non vuoi la verità sulla trattativa Stato-mafia. Né vale ricordare agli ultras delle manette i molti flop dei lori beniamini. Se un’inchiesta del partito dei giudici fa flop, questo viene negato o comunque giustificato con lo scatenarsi di forze ostili. Nessuna buona causa può diventare una ragione per pretendere che uno dei poteri dello Stato invada il campo degli altri o per giustificare comportamenti totalmente fuori dal dettato costituzionale, oltre che dal codice di procedura penale. Purtroppo l’idea che questo sconfinamento sia non solo necessario ma addirittura auspicabile ha trovato invece terreno fertile, proliferando in una opinione pubblica che si considera ultrademocratica nonostante sostenga tesi che spingono in direzione esattamente opposta.

La provocazione di Vittorio Feltri - «Silvio, diventa compagno se vuoi salvarti!» - è certamente fondata, ma Berlusconi, prima deve recitare il “mea culpa” per non essere riuscito a riformare l’ordinamento giudiziario, che è la causa principale non solo dei suoi guai ma dei guai di tutti i cittadini, spiega Titta Sgromo su “L’Opinione”. La giustificazione, “non ci sono riuscito per colpa di Fini e di Casini”, lascia il tempo che trova, posto che quando si da luogo ad un partito che coinvolge altri due partiti che in proposito hanno idee diverse e due leader ambiziosi quali erano Fini e Casini, si deve andare avanti con i piedi di piombo. Invero i risultati sono stati quelli che sono evidenti a tutti. Il partito dei giudici, che si chiama Anm, sotto la guida di magistrati appartenenti a varie correnti, ma con egemonia di quella di estrema sinistra, determina e condiziona la carriera dei magistrati, a seconda non del valore dimostrato degli stessi, ma dell’appartenenza ad una corrente anziché ad un'altra. Tutto ciò, lo ripeto per l’ennesima volta, a causa della sciagurata riforma dell’ordinamento giudiziario approvata dalle Camere a maggioranza catto-comunista nel 1973, e che porta il nome di un deputato democristiano, il cui nome, Breganze è ignoto a tutti anche agli attuali politici, a qualsivoglia schieramento appartengano. I magistrati, prima del 1973, per fare carriera dovevano affrontare prove durissime contraddistinte dalla eccelsa preparazione giuridica e non solo, anche dalla solerzia nel lavoro che dava luogo a pronunciamenti rapidi e giusti. Di quei magistrati ormai si è conservato solo il ricordo, ragione per cui per avere una sentenza in primo grado non sono sufficienti cinque anni, per un giudizio di appello non ne bastano nove e per una pronuncia di legittimità ne passano quattro se non cinque. In questo contesto il Csm, composto come noi addetti ai lavori sappiamo, sotto la Presidenza di fatto del vice Presidente Vietti, lo ricordo per l’ennesima volta voluto dal Cavaliere, per far piacere a Casini, difende le toghe, ed avalla una dichiarazione che definire sconcertante è poco, per una carica istituzionale:«Scellerato attaccare le toghe». Ma non è più che scellerato che alcuni magistrati, sull’esempio nefasto dell’inimitabile Di Pietro, si giovino dell’arma letale delle indagini, condotte per lo più con le intercettazioni telefoniche, per intervenire nell’agone politico condizionando in modo pestante l’esercizio del potere legislativo e del potere esecutivo. Cosa ha fatto il Csm, quando il Dott. Ingroia, indossando ancora la toga, partecipava a congressi e convegni di partito, violando chiaramente i principi cardine della funzione del magistrato, sia inquirente che giudicante, l’autonomia e l’indipendenza. Nulla se non un timido richiamo. Vigente il vecchio ma incisivo ordinamento giudiziario, Ingroia sarebbe stato allontanato dalla magistratura.

Un’associazione a delinquere di stampo massomafioso, finalizzata a sovvertire l’Ordinamento democratico e la legalità, è in grado di condizionare l’attività giudiziaria da nord a sud del Paese, attraverso la collusione di intranei ai centri di comando delle istituzioni, sino alla Corte di Cassazione, al C.S.M. e alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo che, ignorando svariate migliaia di denunce inviate ogni anno da cittadini e imprenditori italiani, garantiscono l’impunità di magistrati corrotti, collusi con banche, finanziarie, usurai, speculatori, partiti, logge massoniche e criminalità organizzata, scrive “Avvocati senza frontiere”. Dopo oltre 25 anni di attività abbiamo compreso che il sistema delle aste è strutturalmente marcio e privo di dialettica interna e controlli esterni: solo una rivoluzione civile dal basso potrà cambiarlo, trattandosi di un sistema autoreferenziale, dove ogni rimedio giurisdizionale interno è vanificato, a causa dell’assoluta discrezionalità nell’interpretazione ed applicazione delle leggi. A partire dal caso eclatante del Tribunale di Milano, i media già 10 anni fa diedero grande risalto alla dilagante corruzione giudiziaria legata alle vendite giudiziarie e ai fallimenti. Lo stesso Tribunale di Milano fece pubblicare varie pagine a pagamento sui maggiori quotidiani nazionali, facendoci credere che con gli arresti di alcuni avvocati e pubblici funzionari di quella che fu definita la “compagnia della morte“, si sarebbe posto fine al cartello di speculatori, in grado di condizionare le gare d’asta per l’acquisto degli immobili pignorati e svenduti a valori vili “agli amici degli amici”. Istituzioni e media di regime si affannarono a spiegare ai cittadini che per svariati anni una banda di “professionisti” aveva potuto agire impunemente, scoraggiando la partecipazione alle aste del pubblico, che veniva intimidito e minacciato, imponendo il pagamento di una tangente (o “pizzo”) pari al 10-15% del valore dell’immobile pignorato, ovvero pilotando l’assegnazione su prestanomi, professionisti e società, i cui interessi, ci veniva però sottaciuto, risultavano spesso riferibili agli stessi magistrati o loro parenti, come nei casi da noi vanamente denunciati, tra quello dell’allora Presidente della Sezione Esecuzioni immobiliari, dr.ssa Gabriella D’Orsi, tuttora applicata presso altra sezione del Tribunale di Milano, senza che il CSM e la Procura di Brescia abbiano adottato alcun provvedimento a quanto risulta neanche di carattere disciplinare. Si trattò infatti solo di un’operazione di maquilllage per cercare di ridare credibilità al volto corrotto della giustizia italiana e del sistema delle aste, solo a fini di marketing. Lo dimostrano l’alto numero di denunce che interessano pressoché tutti i tribunali italiani, senza trovare risposta e soluzione da parte degli organi giurisdizionali interni e sovranazionali. Gli immobili per lo più pignorati dalle banche continuano a venire svenduti a valori infimi a società vicine o soggetti privati legati a doppio filo agli interessi degli stessi istituti di credito e alle loro clientele politico-affaristiche dedite alla speculazione e allo strozzinaggio, come insegna il caso eclatante dell’associazione a delinquere denominata Monte dei Paschi di Siena, anello di congiunzione tra il malaffare berlusconiano e quello delle cooperative rosse, su cui si arenò anche “mani pulite”. Attraverso gli sportelli MPS, come di altri Istituti bancari accreditati ad aprire agenzie all’interno dei tribunali italiani, passano, tra l’altro, senza alcun controllo, il riciclaggio e l’autoriciclaggio di ingenti capitali di illecita provenienza, con il beneplacito degli stessi magistrati che dispongono la vendita e l’assegnazione degli immobili pignorati, grazie a una legislazione costruita ad hoc che, dopo le recenti riforme, nonostante la crisi economica, ha ristretto sempre più le possibilità e gli strumenti di difesa dei cittadini esecutati, lasciati in balia delle mafie locali che controllano i tribunali, seppure spesso risultino oberati da pretese illegittime e tassi usurari. I casi da noi raccolti e in parte pubblicati nella mappa della malagiustizia vedono tra i tribunali più corrotti Milano, Treviso, Alessandria, Brescia, Firenze, Lucca, Roma, Perugia, Napoli, Palermo, etc. Lo stesso dicasi per quanto attiene l’ambito delle procedure fallimentari controllate da un vero e proprio racket di professionisti delle estorsioni, che con il caso del maxi-ammanco negli uffici giudiziari del Tribunale di Milano (Radio 101), da cui furono sottratti in 10 anni da una cinquantina di fallimenti, circa 35 milioni di euro, mietendo oltre 7000 vittime, misero a nudo una ultradecennale capacità di delinquere interna agli uffici istituzionali, in grado di resistere ad ogni denuncia-querela, forma di controllo ed ispezione ministeriale. Fatti per i quali si è cercato, anche in questo caso, di farci credere che tutto sarebbe avvenuto all’insaputa dei magistrati, dei vertici del Tribunale di Milano e degli organismi di controllo preposti (CSM, Ministero di Giustizia, Procura di Brescia, Procura Nazionale Antimafia), i quali, invero, seppure edotti di tutto, dagli anni ’80, hanno sistematicamente insabbiato anche le stesse segnalazioni di magistrati onesti, come la dr.ssa Gandolfi, occultando svariate decine di migliaia di esposti a carico di avvocati, magistrati e curatori fallimentari, nei cui confronti sono rimasti del tutto inerti, giungendo, persino, a tollerare la dolosa elusione del tassativo obbligo di registrazione delle denunce nel Registro delle notizie di reato. A riguardo, basti ricordare i ben 26.000 procedimenti mai registrati e occultati in soffitta, sotto la reggenza dell’ex Procuratore di Brescia, Francesco Lisciotto, che anche dopo il ritrovamento, dietro nostra denuncia, sono rimasti inesaminati, portando al mero trasferimento-promozione del magistrato con tessera P2, salito, per dirla come Monti, alla Corte di Cassazione. Analoghi insabbiamenti sono toccati alle denunce di onesti magistrati fallimentari romani, come nel caso del Dott. Paolo Adinolfi, il quale è stato addirittura fatto sparire fisicamente.

Un caso di lupara bianca insabbiato dalla Procura di Perugia ad alta densità massonica, trattato anche dalla trasmissione televisiva “Chi l’ha visto”. Secondo quanto riferito dal magistrato Giacomo De Tommaso, Adinolfi gli confidò il timore di essere seguito e spiato. La moglie di Adinolfi, Nicoletta Grimaldi, rivelò che il marito aveva acquisito prove e documenti che avrebbero potuto far affondare l’intero Tribunale di Roma. Inoltre Adinolfi pochi giorni prima della sua scomparsa aveva chiesto ed ottenuto un appuntamento con il P.M. di Milano Carlo Nocerino, davanti al quale avrebbe voluto testimoniare come persona informata sui fatti. Le uniche indagini possibili in questo Paese sono solo quelle rivolte nei confronti di coloro che denunciano con prove alla mano i misfatti del potere, accusandoli a scopo eminentemente persuasivo e dissuasivo, come ai tempi del fascismo, di reati ideologici, quali “diffamazione, calunnia, oltraggio a magistrato in udienza, resistenza a pubblico ufficiale…”, molto spesso in relazione agli stessi scritti difensivi e alle denunce mai esaminate delle incolpevoli vittime delle mafie. La vastità e gravità del fenomeno che non riguarda le sole zone del sud a forte concentrazione criminale ci ha portati a coniare la definizione di “mafia giudiziaria”, in quanto abbiamo rilevato trattarsi di una condizione connaturata all’esercizio stesso della giurisdizione e alle modalità di gestire le funzioni giurisdizionali, a tutela di interessi particolaristici, corporativi e lobbistici, ovvero al modo di intendere le stesse finalità del diritto, secondo una visione deviata rispetto ai principi dello stato di diritto, ad esclusivo appannaggio di partiti e gruppi affaristici trasversali, corporazioni, logge massoniche, che della giustizia e del suo capillare controllo hanno fatto strumento di indebito arricchimento e fonte di finanziamento illecito, in base ad un “codice non scritto“, secondo cui vince chi ha le giuste aderenze e si sottomette alle logiche dominante, che hanno messo in ginocchio l’intera nazione, entrando a fare parte del “giro” dei vari comitati d’affari. Un codice criminale e perverso imposto dalla politica e dalla cultura del potere che lega larghi settori della magistratura di regime alla criminalità organizzata, dando luogo ad un fenomeno di elevatissima pericolosità e allarme sociale, che possiamo definire come “mafia giudiziaria”, il cui fine è quello di arricchirsi indebitamente, fare carriera negli apparati della burocrazia statale e attingere, consenso, protezione, scambio di favori e illeciti vantaggi, grazie ai legami con la massoneria e la criminalità organizzata. Non crediate, dunque, di essere gli unici ad avere subito un’ingiustizia dallo svolgimento delle aste giudiziarie o da anomale procedure fallimentari. Si tratta di un sistema criminale istituzionalizzato, da nord a sud del Paese, voluto ed alimentato da banche, partiti, colletti bianchi e mafie locali che controllano il territorio. Un malaffare legalizzato e tollerato dallo Stato-mafia, che pur cercando di mostrare il volto legale dei propri tribunali, non riesce a celare, alla prova dei fatti, il largo coinvolgimento nel racket delle aste e dei fallimenti da parte di magistrati ed infedeli funzionari. A riguardo, basti dire che l’ex Presidente della sezione esecuzioni immobiliari del Tribunale di Milano, dr.ssa Gabriella D’Orsi, indicata nel succitato articolo del quotidiano “La Repubblica”, come una sorta di eroina, che avrebbe denunciato il controllo delle aste giudiziarie da parte della “compagnia della morte”, risultava essa stessa indagata dalla Procura di Brescia per avere favorito la vendita di un appartamento, a prezzo irrisorio, in favore della figlia, quando è notoriamente vietato dall’Ordinamento Giudiziario a magistrati e pubblici funzionari di partecipare, anche tramite terzi, alle aste giudiziarie….

"Nessuno contesta il diritto di manifestare e di manifestare anche in materia di giustizia. Ma se si sollecita una manifestazione contro la magistratura o volta a condizionarne l'azione, è inaccettabile". Così l'Anm replica alle parole di Silvio Berlusconi sulla manifestazione contro le toghe del 23 marzo 2013, annunciata dal Tribunale di Milano, dove si trovava per rilasciare le dichiarazioni spontanee nel processo d'appello Mediaset. Continua l'Associazione nazionale magistrati: "Invocare la piazza in un momento come questo è molto pericoloso, vuol dire screditare l'istituzione magistratura in un sistema complesso e unitario come lo Stato, significa indebolire lo Stato stesso e le istituzioni tutte". Berlusconi ha ripetuto quanto detto più volte negli attacchi alla magistratura: "Parte della magistratura - ha detto - è una patologia e un cancro per la democrazia". E proprio in risposta alle parole dell'ex premier Berlusconi, i vertici dell'Anm hanno spiegato: "Oggi la magistratura, o una parte di essa, viene equiparata al cancro, sabato scorso eravamo peggio della mafia, ma non abbiamo replicato perché il giorno prima delle elezioni. Sono parole che andrebbero liquidate come sciocchezze, ma sono molto offensive per chi ha pagato il prezzo della criminalità mafiosa e per i malati". Così i vertici dell'Anm in risposta alle parole dell'ex premier Berlusconi. Favorevole alla manifestazione, Augusto Minzolini, giornalista e senatore Pdl. "C'è un problema giustizia che è collegato strettamente al problema di informazione: quello che ti tolgono non te lo ridà nessuno. Andrò in piazza non per la vicenda ma perché in questo Paese c'è un problema giustizia".

Se l’ANM replica a Berlusconi il CSM va oltre. A scatenare il Csm è la volontà del Cavaliere di portare in piazza il popolo di centrodestra contro «sinistra e magistrati». Tanto basta per scatenare le toghe, riunite in plenum il 6 marzo 2013. A dar fuoco alle polveri, Paolo Carfì, magistrato di sinistra ed ex giudice del processo a Cesare Previti. «Berlusconi ha superato il limite con una escalation di disprezzo di un'istituzione che può avere conseguenze gravi sulla tenuta sociale e morale del Paese - mette in guardia la toga - Tacere di fronte a questo sarebbe colpevole». A seguire, l'intervento del laico di centrosinistra Glauco Giostra: «Evocare la piazza contro i magistrati è agli antipodi della democrazia, si tratta di attacchi scellerati». C'è chi, poi, come il togato di Area (schieramento di cui fanno parte Magistratura democratica e il Movimento per la Giustizia, ovvero le due correnti di sinistra delle toghe) Francesco Vigorito, chiede di «reagire a una barbarie, con una risposta forte a tutela di uno dei valori fondanti del sistema democratico, cioè l'autorità e l'indipendenza dei magistrati». E il collega Roberto Rossi: «I magistrati di Napoli e di Milano sono colpevoli soltanto di fare il loro dovere. Non si può accostare il lavoro dei magistrati a quel terribile male che è il cancro». Fuori dal coro il togato di centrodestra, Bartolomeo Romano: «Forse non tutti i magistrati hanno avuto nel loro comportamento una serietà tale da ottenere rispetto». Naturalmente dal Pdl parte la controffensiva. Il primo è Andrea Costa: «Il Csm è talmente avvolto dalla nebbia delle correnti e dei loro traffici d'influenza che invece di occuparsi di chi usa i tribunali a fini politici, censura chi richiama l'attenzione a questa triste realtà. Questo fa perdere credibilità alla giustizia. Non altro». A seguire Capezzone: «I comizi di numerosi consiglieri del Csm contro Berlusconi hanno due soli effetti: danno la sensazione di una supercasta che si autoprotegge, e minano agli occhi dell'opinione pubblica l'imparzialità della magistratura».

IL PARTITO DELLE TASSE E DELLE MANETTE…PER GLI ALTRI.

Partito di tasse e di manette. L'accanimento contro Berlusconi ecco dove e come ricorda quanto avvenuto con Bettino Craxi, scrive Paola Sacchi su “Panorama”. Ha ragione Paolo Guzzanti su «Il Giornale». Gli insulti a Silvio Berlusconi, che viene messo ancora una volta al bando solo per aver detto una frase forte, paradossale, ma che rende efficacemente l’idea della persecuzione alla quale è sottoposto lui e la sua famiglia, hanno radici nel lontano 1976. Dalle ingiurie del Pci e della sinistra estrema contro Bettino Craxi. Perché reo di aver portato al potere la sinistra anticomunista e di aver dominato un decennio di politica italiana, negli anni ’80, facendo ballare la Dc e il Pci, pur con il suo magro 12 per cento. Ma, come dice Gianni De Michelis nel libro «Il crollo del Psi» (Marsilio editore): «Bettino era dotato di una intelligenza politica laser, che travolgeva e stupiva ogni volta anche i più stretti e fedeli collaboratori (lo stesso ex potente e autorevole ministro degli Esteri compreso ndr)». Denunciò Stefania Craxi a chi scrive poche ore dopo la morte del padre tra le sue braccia (Hammamet, cinque della sera del 19 gennaio 2000): «Papà è stato ammazzato da un odio devastante». Disse suo fratello Bobo, tra le lacrime che scorrevano come una fontana, il giorno dopo nella Chiesa cristiana di Tunisi: «Caro papà, caro Monsieur le President, come tutti qui ti chiamavano, in segno di rispetto, tu te ne vai, vittima di una campagna d’odio senza precedenti!». Peccato, Bobo, poi prese altra strada, accompagnandosi con quella sinistra i cui esponenti suo padre, negli ultimi giorni di calvario all’Hopital Militare di Tunisi definì lucidamente: «I miei assassini». Chi scrive, da ex inviata speciale dell’«Unità», inviata speciale, in quei mesi tra il finire del 1999 e il 2000, in Tunisia per seguire il «Caso C», lo sa per certo. Il mio allora direttore (ultimo direttore in quel giornale dove non lavoro più dal 2000) Peppino Caldarola, uomo di sinistra ma intelligente, di vaste letture, dalemiano ma capace anche di riattaccare la cornetta del telefono al medesimo Massimo D’Alema, allora premier, su mia sollecitazione e soprattutto dietro mie informazioni esclusive sul grave stato di salute dello statista socialista, mi diede il via per un’intervista a Craxi. Rompendo un tabù, anzi abbattendo in quel giornale il muro di Bettino. Inviai le domande concordate con Caldarola, dove ad un certo punto mettemmo la parola «tecnicamente latitante» per i Pm (era l’unica forma di mediazione per far passare quell’intervista e non esere cacciati il giorno dopo). Craxi lesse, si rigirò sul suo letto d’ospedale e davanti a Bobo e al direttore di  «Critica sociale» ( la rivista fondata da Turati) Stefano Carluccio urlò: «Io non dò interviste al giornale dei miei assassini, anche se lei (la sottoscritta) è una brava e coraggiosa donna». Aggiunse Stefania: «E Caldarola è una persona intellettualmente onesta». L’intervista non ci fu. Nonostante arditamente «Peppino» e la sottoscritta inviarono domande, dalle quali scomparì la parola «latitante».  Ma ci fu un editoriale di «Peppino» che coraggiosamente diceva: fate tornare in Italia quell’uomo per essere curato e senza essere piantonato». D’Alema fu informato a Palazzo Chigi da «Peppino» a editoriale fatto, ma non ancora pubblicato. E dette il là con un sostanziale silenzio. Da Botteghe Oscure l’allora leader dei Ds, Walter Veltroni, non approvò. Ma non licenziò, forse per miracolo, Caldarola e la sottoscritta. Pochi mesi dopo, «L’Unità» venne chiusa, perché certamente gravata da ingenti debiti. Ma è un fatto che Caldarola non rientrò più come la sottoscritta e per nostra esclusiva volontà. Ognuno ovviamente per ragioni diverse e non solo per il caso Craxi, ma accomunati dal no al tunnel giustizialista. Questo forse fu l’ultimo piccolo tentativo (fatto più da due giornalisti che da D’Alema) di una sinistra riformista, antigiustizialista, di uscire dal tunnell nel quale si è cacciata con il fallimento del Pd, Matteo Renzi o non Matteo Renzi. Forse questo fu l’ultimo piccolo concreto tentativo di salvare la sinistra dal cancro dell’odio nei confronti dei suoi avversari. Quello per «Bettino»  fu tale che il portavoce di Enrico Berlinguer, Antonio Tatò lo definì: «Un bandito, un avventuriero». L’epiteto più gentile quando Craxi era premier fu «il ciccione, il ladro, il cinghialone». Ci fu poi «il foruncolone», di cui secondo Antonio Di Pietro Craxi era malato (sic!). Era talmente un «foruncolone» che gli tagliarono, a causa del diabete, in una clinica tunisina alcune dita dei piedi.  Il suo calvario non solo lo ha portato alla tomba del cimitero cristiano di Hammamet, ma ha messo a serio repentaglio l’Italia. Craxi in Tunisia era protettissimo dalla polizia di Ben Alì. E per muoversi ogni volta doveva viaggiare accompagnato da una sorta di discreto corteo di auto. Mi sono sempre chiesta: se un commando di un’altra nazionalità un bel giorno lo avesse rapito, allora sì che l’Italia sarebbe stata messa a rischio, essendo stato Craxi negli anni a Palazzo Chigi depositario di tutti i rapporti dei nostri servizi segreti. Doveva andare a S. Vittore? Aveva 59 anni quando scattò la campagna d’odio per via giudiziaria contro di lui. E in quegli anni in carcere ci si suicidava sotto i colpi di «Mani pulite».  Prima di andare a Hammamet, Craxi passò per Parigi, dove, ricordò, «mi si aprì una ferita che mi spaccò il piede». Aveva un carico di condanne di oltre 20 anni. Ci sarebbe ancora da vergognarsi di essere italiani per la sorte che toccò a lui, proprio allo statista che l’Italia la fece entrare nel G7. E c’è purtroppo ancora da vergognarsi di essere italiani per la sorte che sta toccando al tre volte tre presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Vittima anche lui di una campagna d’odio senza precedenti. E senza che il Colle anche questa volta intervenga a difesa, neppure dalle ingiurie, di un leader che ha rappresentato l’Italia nel mondo, ha presieduto un G7 e un G8. Comparse una volta un manifesto del Pd che lo sfotteva per i capelli ripiantati. La nuca era ben messa in evidenza. Immagine inquietante. «Ma il Pd ormai è il Ptt». Cioè? Spiega un parlamentare che di centrodestra non è e Berlusconi non lo ha mai votato: «Partito di tasse e di manette».

Il Paese del garantismo immaginario. Le vanterie sull'Italia patria di Beccaria? Sono sciocchezze: la cultura manettara è egemone, scrive Alessandro Gnocchi  su “Il Giornale”. Viviamo in una società garantista? Il garantismo è pensiero corrente, se non egemone? No, è la risposta secca di Non giudicate, il saggio di Guido Vitiello edito da Liberilibri. Un giro in libreria, scrive Vitiello, a caccia di tomi che propugnino ideali garantisti, si risolverebbe in una ricerca senza frutto. Al contrario, gli scaffali sono ben riforniti di libri firmati da «magistrati-sceriffo impegnati sulla frontiera delle mille emergenze nazionali» o da «reduci gallonati di Mani pulite» o da giudici «scomodi» ma non al punto da non trovare frequente ospitalità nei vari talk show serali. La tivù è la tribuna da cui levano doglianze sui paletti alle indagini posti dai politici in nome del «garantismo» (quasi sempre «peloso», nota Vitiello). Basta dare un'occhiata alle cronache dei quotidiani per rendersi conto che gli avvisi di garanzia sono percepiti come sentenze della Cassazione; e che spesso l'odio (ma anche l'amore) per l'inquisito o il condannato di turno fa velo alla valutazione dei fatti. Il pensiero supposto egemone si rivela «solitario», e paga il conto anche ai «falsi garantisti» che si sono mescolati ai veri, «finché la moneta cattiva ha scacciato la buona e reso sospetti tutti i commerci». Insomma, la reputazione «ben poco commendevole» del garantismo in parte, ma solo in parte, è meritata: c'è stata poca chiarezza nel distinguere casi personali e questioni di principio. La tesi di Vitiello comunque è limpida: «L'imbarbarimento giudiziario italiano è sotto gli occhi di chiunque abbia voglia di vederlo, e non abbia interessi di bottega tali da suggerirgli una cecità deliberata. Basta gettare uno sguardo, anche distratto, sul punto di caduta o di capitolazione - le carceri di un sistema che è in disfacimento fin dalla testa, per arrossire quando sentiamo ripetere quelle insulse vanterie sul Paese di Beccaria». L'originalità del saggio consiste nel farci vedere i principi incarnati in quattro ritratti di garantisti doc: Mauro Mellini, Domenico Marafioti, Corrado Carnevale, Giuseppe Di Federico. Sono pagine nate sulle colonne del Foglio (l'introduzione è di Giuliano Ferrara) ampliate e arricchite da un carteggio fra Mellini ed Enzo Tortora. E proprio la vicenda di Tortora, insieme con Marco Pannella e le battaglie dei Radicali, lega tutti i protagonisti di Non giudicate. Tocca a Mellini, avvocato di conio liberale, leader radicale e deputato per svariate legislature, introdurre il lettore all'abbecedario garantista, cioè alle parole di cui diffidare perché sventolate al fine di giustificare l'indebito allargamento dei poteri della magistratura. Emergenza: «cela il proposito di passar sopra a certe fisime per instaurare una giustizia di guerra»; giustizia d'assalto: «ha dato la stura a innumerevoli interventi di magistrati ritenuti o autodefinitisi provvidenziali, di cosiddette supplenze e vicarianze di altri poteri»; esemplare: è una sentenza «che punisce con esagerata severità in un determinato momento, quindi una sentenza esemplarmente ingiusta». Domenico Marafioti, avvocato e letterato, è l'uomo delle profezie inascoltate: nel 1983 pubblicò La Repubblica dei procuratori. Sottolineava, scrive Vitiello, «i prodromi dell'integralismo giudiziario, dell'esondare della magistratura, specie di certe sue avanguardie, dalle dighe che legge e Costituzione le assegnano»; criticava il modello inquisitorio del processo; segnalava la nascita del giudice pedagogo, che vuole redimere il prossimo. Corrado Carnevale, presidente della Prima sezione penale della Cassazione dal 1985, è noto come l'ammazzasentenze, nomignolo affibbiatogli da una campagna stampa denigratoria iniziata dopo l'annullamento dell'ergastolo ai mandanti dell'omicidio di Rocco Chinnici. La corporazione non si levò certo in sua difesa (lo fece Pannella). Più volte finito sotto processo, sempre assolto, Carnevale illustra cos'è «l'astratto formalismo» che gli veniva imputato: osservanza scrupolosa della legge scritta. «Quando il giudice si considera legibus solutus e piega le leggi al suo fine, foss'anche per intenti nobili, mette lo Stato sullo stesso piano delle organizzazioni criminali». Carnevale rifiuta l'appellativo di garantista: «E nel fare giustizia il garantismo che c'entra? Non esiste per il giudice qualcosa di diverso dall'applicazione corretta, intelligente della legge». Giuseppe Di Federico ha fondato il Centro studi sull'ordinamento giudiziario dell'università di Bologna. È lui a sollevare un altro insieme di questioni: la separazione delle carriere, l'assenza di un valido sistema di valutazione dell'operato dei giudici, il tabù dell'obbligatorietà dell'azione penale. Questi sono i limiti non solo, per così dire, ideologici del sistema ma anche gli ostacoli all'efficienza della macchina. Se vi sembra che queste idee siano moneta corrente nel nostro Paese «garantista»...

I GIOVANI VERGINELLI ATTRATTI DAL GIUSTIZIALISMO.

Come è possibile che i giovani siano attratti dal pensiero giustizialista? Cronaca della presentazione del libro “Non giudicate” di Guido Vitiello su “Zenit”. L’opera, con la prefazione di Giuliano Ferrara, raccoglie le voci di alcuni “veterani del garantismo” italiano, scrive Antonio D’Angiò.  Sabato 27 ottobre 2012 è stato presentato alla Camera dei deputati, in occasione della quarta edizione delle “Giornate del libro politico a Montecitorio”, il “libretto” (così definito dallo stesso autore) di Guido Vitiello intitolato “Non giudicate” edito da liberilibri. Vitiello, nato trentasette anni fa a Napoli, è docente all’Università di Roma La Sapienza e collabora, tra gli altri, con il “Corriere della Sera” e “Il Foglio”. Per una fortuita coincidenza temporale, all’interno dell’opera è raccontato quanto avvenuto precisamente dieci anni fa, cioè il 30 ottobre 2002, quando il Presidente di Cassazione Corrado Carnevale è stato assolto, con formula piena, dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa (accusato di aver “aggiustato” alcuni processi di mafia e da alcuni pentiti di essere un referente dei boss) dopo circa un decennio di vicende processuali. Iniziamo da questa “ricorrenza temporale” per parlare del libro di Guido Vitiello, perché Corrado Carnevale, con Mauro Mellini, Domenico Marafioti e Giuseppe Di Federico è uno dei quattro veterani (tutti ultraottantenni all’epoca dell’intervista e, peraltro, tutti meridionali) che l’autore  ha incontrato per discutere del garantismo in Italia e successivamente dare vita a questa pubblicazione. Ma soprattutto perché Carnevale è l’unico dei quattro che oltre a discutere, descrivere, documentare, applicare i temi e i commi della legislazione, è stato sia giudice che imputato e come recita la terza di copertina, è stato “esemplare garante del giusto processo, per questo ha subìto una persecuzione mediatico-giudiziaria, uscendone vittorioso”. Una serata (nell’affollata sala Aldo Moro del Parlamento) dove le riflessioni di giovani come Guido Vitiello e Serena Sileoni (Direttore Editoriale di liberilibri, coordinatrice dell’evento) si sono ben integrate nei toni e nei contenuti con quelle di tre maestri del giornalismo italiano: Pierluigi Battista, Massimo Bordin e Giuliano Ferrara, quest’ultimo autore della introduzione all’opera. Scrivendo e parlando della giustizia, non poteva non essere posta in relazione la giustizia degli uomini con quella di Dio (o amministrata per conto di Dio), in particolare nelle assonanze con alcune ritualità tra inaugurazione degli anni giudiziari e i “riti basilicali”; in alcune forme sceniche dei processi che ricordano in Italia più i tribunali dell’inquisizione in confronto con quelle della legge britannica (dove l’imputato è al centro e in alto rispetto alla corte giudicante); nonché con quel “non giudicate” che fa proprio uno dei passaggi del discorso della Montagna di Gesù Cristo o, infine, nel riferimento a Ponzio Pilato o al bacio di Giuda. Così come è stata più volte ripresa, per i cultori del diritto, la conseguenza che comporta sui processi la combinazione, tipicamente italiana, tra l’obbligatorietà dell’azione penale, la carcerazione preventiva, la limitata responsabilità civile dei magistrati e l’assenza della separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici. Oppure, per gli appassionati di vicende processuali, i racconti su alcuni processi, come quelli nei confronti di Enzo Tortora o di Scattone e Ferraro (questi ultimi accusati dell’omicidio della studentessa Marta Russo) che fanno emergere quanto, questi processi, abbiano rappresentato un’occasione mancata per una più ampia riflessione sul sistema giudiziario, prima che il termine garantismo fosse abbandonato da chi lo aveva nel suo patrimonio culturale e politico e fosse acquisito (l’autore dice “sputtanato”) da neofiti in virtù di un’interpretazione forzatamente privata, “ad personam”, di questioni comunque universali. Infine, i riferimenti letterari a Sciascia, Borges, Kafka, Pasolini, Dostoevskij, Gide, Anatole France, Gadda, Dante Trosi, rappresentano un vero e proprio elenco di consigli per la costruzione di una biblioteca del garantismo nella quale cercare le motivazioni più profonde sull’essenza del giudicare. L’avvocato e politico radicale (e anticlericale) Mellini, lo scrittore e avvocato Marafioti (di formazione repubblicana, deceduto pochi mesi dopo l’intervista), il professore di diritto Di Federico, il cattolico magistrato di Cassazione  Carnevale, aiutati dalla prefazione di Giuliano Ferrara, tendono a spiegare quello che Vitiello rende immediatamente percepibile con una domanda. Come è stato possibile che i giovani, gli studenti (che peraltro lui incontra nelle aule universitarie) siano stati attratti dal pensiero giustizialista con quell’incarognimento che li ha portati a parlare di legalità, manette, intercettazioni con sillogismi feroci? E allora, per chiudere, pensiamo che le parole finali della conversazione con Corrado Carnevale in un certo qual modo possano spiegare il senso più profondo del libro e lasciare a credenti e non credenti il cercare di comprendere se e quanto ampio, in tema di giustizia, sia oggi la distanza tra cultura radicale, liberale e cristiana, per provare a indicare una nuova direzione alle giovani generazioni. “Ecco, ho sempre cercato di giudicare il mio simile nel modo più umano possibile, senza eccessi di moralismo. Non mi sono sentito diverso e migliore anche dal peggior delinquente che talvolta mi è capitato di dover giudicare.” Suona come una variante del precetto evangelico che abbiamo scelto come titolo per questo libro, “Non giudicate”, nel quale Sciascia credeva dovesse radicarsi la missione stessa del giudice. Qualcosa di non troppo diverso intende Carnevale: “Benedetto Croce diceva che non possiamo non dirci cristiani, e aveva ragione. Il Cristianesimo ha degli aspetti che non dovrebbero essere trascurati. Io sono credente. Ma grazie al cielo il Cristianesimo non è una corrente associativa.”

Mose, incredibile difesa del Pd: gli arrestati non sono del Pd, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Scusate, ci siamo sbagliati. Il Pd non c’entra nulla con il malaffare di Venezia. Hanno arrestato 35 persone, tra cui il sindaco della città, e un altro centinaio di signori è stato indagato con le peggiori accuse, ma il Partito democratico ha le mani pulite. Così almeno informa un comunicato della segreteria regionale del suddetto gruppo. In una nota diffusa dalle agenzia di stampa nella mattinata di ieri, dunque a botta ancora calda per i provvedimenti della magistratura, i vertici del partito di Renzi non recitano il mea culpa per non aver vigilato sulle tangenti che hanno preso il largo insieme al Mose, ma ci informano che, pur essendo stato eletto con i voti del Pd e pur guidando un giunta a forte impronta Pd, il primo cittadino Giorgio Orsoni non è del Pd, perché non ha mai chiesto la tessera. (...)Dietro le manette c'è la guerra totale per il futuro del Pd. Dopo aver negato di conoscere il sindaco tangentista di Venezia, sostenendo che Giorgio Orsoni non è del partito nonostante il partito lo avesse candidato e fatto eleggere alla guida della giunta di sinistra che regna sulla laguna, ieri il Pd si è superato. Questa volta non c’entrano le calli e neppure il Mose né ci sono di mezzo appalti e fatture milionarie. Però c’è quella che doveva essere una delle amministrazioni locali da portare ad esempio di buona amministrazione e soprattutto di cambiamento di verso. Ci riferiamo alla Città eterna, la Capitale della svolta. Da un anno ai vertici del Campidoglio c’è Ignazio Marino, un allegro chirurgo che dopo aver messo da parte il bisturi si è scoperto una passione per la politica. Prima come parlamentare, poi come primo cittadino di Roma. Nel marzo dell’anno scorso Marino si sottopose alle primarie per la scelta del candidato di centrosinistra e, vinta piuttosto facilmente la sfida, non fece fatica a battere Gianni Alemanno, che di Roma era stato a sorpresa sindaco per cinque anni. Sorpresa perché da un ventennio e più la Capitale era a guida sinistra e dunque un primo cittadino post-missino non era tra le ipotesi contemplate. All’errore di aver affidato la città a uno di destra, Marino pose rimedio con l’appoggio di tutte le forze antifasciste e democratiche e sulla base di un programma che prevedeva un radicale cambiamento di rotta.

I moralisti delle mazzette, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Eccoci di nuovo a commentare storie di arresti e mazzette. L’ultima in ordine di tempo è la diga di Venezia, quella che avrebbe dovuto evitare l’acqua alta. La chiamano il Mose, ma con l’accento sbagliato. Il pubblico ministero che ha indagato e chiesto gli arresti (Carlo Nordio) è un signore che, a differenza dei suoi simili, prima di arrestare un povero cristo si farebbe tagliare le mani. Odia la giustizia spettacolo. Ieri ha subito detto: «In Italia la corruzione continua perché le leggi sono troppo complesse e farraginose. A nulla serve aumentare le pene e inventarsi nuovi reati». I contribuenti sono gabbati più volte. Prima dai propri rappresentanti, che abusano delle tasse incassate. Poi dal fatto che queste benedette opere pubbliche, se mai si realizzano, non si chiudono mai nei tempi e nei modi promessi. Chi ancora pensa che l’Expo possa avere il fascino scintillante che ci avevano raccontato agli esordi? Arrivano infine i nuovi politici che, cavalcando l’indignazione, gridano allo scandalo (che c’è) e chiedono subito di bloccare tutto, nuove leggi, nuove commissioni e maggiori pene (come dice Nordio). Il 31 marzo 2010, all’indomani delle amministrative, Travaglio-porta-iella, rivolto al Pd di Bersani, scriveva: «Bastava candidare gente seria e normale, fuori dal solito lombrosario, come a Venezia, dove il professor Orsoni è riuscito addirittura a rimpicciolire Brunetta». Con 400mila euro di finanziamento illecito, sostiene oggi l’accusa. Vogliamo dire che dalla palude in cui siamo non se ne esce con i moralisti e le morali. Siamo un Paese in cui non si può fare nulla. Un bar non può mettere un’insegna, un artigiano non può assumere un apprendista, un ragazzo non può fare un lavoretto, un’impresa un capannone. O meglio, tutto si può fare: ma dopo una giungla burocratica e autorizzativa. In un sistema come questo è tutto corrotto. Il Mose è corrotto perché a prendere i soldi sono i politici. Ma nelle sue fondamenta diventa corrotta, marcia, la nostra economia. Essa non è più volta a raggiungere cospicui e sani profitti, ma a sfuggire le sanzioni previste da norme, codici, regolamenti. Le interpretazioni giudiziarie sono poi talmente divergenti che il diritto diventa arbitrio e i Tribunali ruote della fortuna. È inevitabile dunque che gli investimenti dei privati nell’ultimo triennio siano diminuiti del 15 per cento e del doppio circa quelli pubblici. Ieri abbiamo scoperto che anche il Brasile ci ha superato nella produzione industriale. Con la propensione ad investire così in calo, c’è da attendersi che il futuro ci riserverà una classifica ancora più inclemente. Il lavoro, poi, lo creeremo per legge. Sulla carta. Su questo siamo i numeri uno.

L’EXPO, il Mose & The Italian Job. Per capire che quello della mazzetta è un male storico del paese ecco cosa successe negli anni '50 e '60 per l'aeroporto di Fiumicino, scrive Sabino Labia su “Panorama”. La vicenda del Mose è il classico scandalo all’italiana con tutti gli interpreti al posto giusto come nel film The Italian Job. Una grande opera da realizzare, i miliardi inviati a pioggia da gestire, i politici (locali e nazionali, di destra e di sinistra) a gestire il flusso di denaro, e una pletora di senza nome e, soprattutto, prestanome che organizzano società occulte, scatole cinesi, false fatturazioni e passaggi di denaro. A fare da spettatori a questo enorme circo di malaffare ci sono loro, gli italiani che ogni volta sperano che questa sia l’ultima. Per capire come funziona lo Scandalo all’italiana nelle grandi opere (tralasciando volutamente gli scandali legati alle ricostruzioni post disastri naturali: Vajont, Belice, Irpinia, L’Aquila etc. etc.), torniamo indietro di mezzo secolo, e più precisamente al 1961. E’ il Gennaio del 1961 e Giulio Andreotti parla dal banco del governo del Senato: “Io rispetto di più le persone della camorra perché Pupetta Maresca (la donna che uccise l’assassino di suo marito) con le sue revolverate rischia di andare in galera e ci va. Noi abbiamo nella camorra politica di certi ambienti qualche cosa di meno nobile, perché si lanciano sassi e colpi di pugnale senza rischiare niente e non mostrando mai il proprio volto”. A cosa si riferiva il Divo Giulio nel ritenere la politica peggiore della camorra? In Aula si discuteva dello Scandalo dell’Aeroporto di Fiumicino. Lo scalo romano comincia la sua storia con la posa della prima pietra avvenuta il 10 dicembre 1950. Costo previsto: 29 miliardi di lire; fine dei lavori: 1° gennaio 1960 (giusto in tempo per accogliere atleti e turisti della XVII Olimpiade). Inaugurazioni effettuate: diverse, l’ultima il 13 agosto 1974, in occasione dell’apertura della terza pista costata altri 25 miliardi di lire. Spesa complessiva finale oltre 130 miliardi. I primi problemi cominciano con la scelta del terreno. In principio era stata preferita la zona di Casal Palocco, nell’area sud-ovest molto vicina a Roma e, particolare non di poco conto, non paludosa. Troppo bello per essere vero e, infatti, così non è. L’area è di proprietà della Società Generale Immobiliare che riesce a evitare l’esproprio, evitando un notevole danno economico. A questo punto si decide di optare per la palude di Fiumicino, 1088 ettari di proprietà dei principi di Torlonia, i quali vengono generosamente ricompensati con 45 lire al metro quadro. Tanto per capire com’era il mercato nella stessa zona, sempre i Torlonia, vendevano i loro terreni ai privati a 3 lire al metro quadro e l’amministrazione statale espropriava altre aree circostanti e di proprietà di un’opera pia, a 7 lire al metro quadro. Un vero e proprio regalo. Veniamo ai finanziamenti. Inizialmente furono stanziati 4 miliardi e 450 milioni; Dopo cinque anni, nel 1955, si aggiungono altri 14 miliardi per la costruzione della pista e per tutte le opere accessorie, compresa l’aerostazione. L’8 aprile del 1959 servono ulteriori 4 miliardi e 150 milioni per completare l’opera. Trascorrono pochi mesi e, nel luglio 1959, vengono stanziati altri 4 miliardi. Anche questi soldi non bastano e, intanto, i giochi si avvicinano. Il Ministero della Difesa, guidato da Andreotti, riesce a racimolare altri 800 milioni per consentire almeno un’approssimativa apertura al traffico. A gestire questa enorme mole di denaro viene incaricato, su suggerimento dello stesso Andreotti, il colonnello Giuseppe Amici. Il cognome è tutto un programma, verranno coinvolti parenti, amici e amici degli amici. Il 20 agosto, a cinque giorni dalla cerimonia inaugurale dei XVII Olimpiade, i ministri Zaccagnini, Lavori Pubblici, e Andreotti riescono ad aprire una minima parte dello scalo dell’Urbe “Leonardo da Vinci”. La vera inaugurazione è rinviata a novembre dello stesso anno. La stampa dell’epoca comincia a svolgere alcune inchieste per cercare di capire che cosa si cela dietro i continui ritardi dei lavori. Il 5 maggio del 1961 il governo istituisce una commissione d’inchiesta che accerta le numerose irregolarità della gestione dell’opera e come il colonnello Amici, pur essendo in servizio, possedeva alcune società, delle quali facevano parte la moglie, il figlio e parenti della moglie, e che avevano un ruolo di rilievo nella costruzione dello scalo. Il 23 dicembre 1961, nella relazione conclusiva, la commissione d’inchiesta accerta ufficialmente l’utilizzo“di iniziative e procedure criticabili non sempre rispettose del pubblico denaro”. Il 14 giugno 1963 la magistratura ordinaria decide per l’archiviazione del caso. Conclusione nessun colpevole. Nelle casseforti di Montecitorio esistono numerosi documenti che accertano le colpe dei politici e che non sono mai state rese pubbliche. Il presidente del Consiglio Renzi, dopo il caso EXPO e il caso MOSE ha chiesto il Daspo a vita per i politici corrotti. La domanda sorge spontanea: visto come funziona negli stadi, siamo sicuri che possa funzionare in politica? Ai posteri l’ardua sentenza.

Ecco dove nasce la corruzione, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Le tangenti sul Mose non dicono nulla di nuovo. E' un male che parte dalla testa, la nostra. L’altro giorno mi sono messo in fila al bar per pagare un caffè e cornetto quando è arrivato un tale ben vestito che dando l’impressione di non aver visto che c’era una fila (ma non vederci era impossibile) ha elencato alla cassiera, spiccioli alla mano, quello che aveva consumato. Il tutto con un sorriso a occhi bassi di conciliazione col mondo. La cassiera ha iniziato a farlo pagare, e siccome ho protestato, è stata lei a dire subito: “Scusate, è colpa mia”. Dopo qualche secondo, il tale pretendeva anche di non aver fatto brutta figura: “Non penserà che non volevo fare la fila, mi manderà mica il cornetto di traverso...”. E la cassiera, complice: “Eh, il signore è sempre corretto”… Come il caffè. Perché racconto questo episodio minimo e così diffuso? Perché risiede qui, in questa disinvolta trasgressione delle regole in nome di qualche potere, dell’amicizia e della convenienza, il terreno fertile della corruzione piccola e grande. L’hanno scritto in tanti: non sarà certo l’inasprimento delle pene o l’aggiunta di nuove regole a sconfiggere le mazzette. La complessità del sistema aiuta i furbi, non gli onesti. Il problema è nelle nostre teste. E dico “nostre” comprendendo la mia. Anch’io ho trasgredito a qualche regola, anch’io ho approfittato di qualche vantaggio personale, non importa se su scala piccola o grande e con quali giustificazioni. Sono anch’io andato alla ricerca di qualche corsia preferenziale. Quanti di noi possono dirsi puri? Sarà il sistema, la necessità di difendersi dalle ingiustizie, il merito che in Italia conta meno di zero e “non c’è altro modo”. Sta il fatto che la società italiana è corrotta, il “magna magna” che va in scena a ogni grande evento (praticamente nessuno escluso) è solo la finale del campionato italiano della corruzione che si gioca ovunque, ogni giorno, su ogni campo e campetto. E non c’è argine o diga che tenga, per restare al Mose. La collocazione dell’Italia nella classifica della corruzione tra i paesi del G7, della UE, e del mondo, è solo lo specchio di una realtà che ha invaso il quotidiano. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Perché non c’è poi una differenza concettuale tra il piccolo favoritismo, la piccola scorrettezza o scortesia, e la grande corruzione. Soltanto dal mea culpa può scaturire la necessaria rivoluzione culturale: il disgusto per i comportamenti scorretti e l’intolleranza verso chi trasgredisce. Solo così sarà possibile riconquistare un senso della comunità. E il primato del merito. La corruzione si combatte anche come fanno in America, recitando ogni mattina il giuramento alla bandiera.

Quando si dimostra che si è tutti uguali, per i manettari tira brutta aria.

Marco Travaglio, scontro con Elisa ad AnnoUno. Elisa: "Disfattista e manettaro". Travaglio: "Non dire cretinate". Una protagonista di "Announo" si scaglia contro il vice direttore de "Il Fatto Quotidiano", accusandolo di vivere solo di critiche: "Se vince Grillo io cambio paese, ma lei deve cambiare mestiere perché non avrebbe nessuno cui andare contro". Siamo nello studio di AnnoUno, il programma di Giulia Innocenzi. Ospite d'onore è Marco Travaglio, che si produce nella sua consueta filippica manettara. Lo spunto, come ovvio, arriva dalla scandalo Mose: sul Fatto Quotidiano si è spinto ad affermare che la presunzione di innocenza è ridicola. Una presa di posizione che non è piaciuta ad Elisa, una delle ragazze protagoniste della puntata di AnnoUno. "Ma la smetta di attaccare tutti, di dire che rubano sempre tutti. Se in questo paese vince Beppe Grillo io vado all'estero, ma lei che cosa fa? Di che cosa scrive?". Marco Manetta, come sempre quando viene punto, perde le staffe: "Ti piace che rubino? Ti piace che rubino i tuoi soldi?". Elisa ribatte: "Glielo dico come direbbe Sgarbi: presunzione di innocenza, presunzione di innocenza, presunzione di innocenza". Marco Manetta si contorce, e sbotta: "Per favore, ma per favore. La presunzione d'innocenza - ribadisce - è un inutile gargarismo. Se vuoi dopo te lo spiego cosa intendo, magari capisci il labiale". Poi però prende parola Silvia, un'altra delle ragazze, e continua nel solco di Elisa: continua a demolire Travaglio per la sua clamorosa inclinazione manettara. Il vicedirettore è all'angolo. E in parallelo anche su Twitter si scatena il dibattito con una pioggia di cinguetti: "#Travaglio strapazzato da due biondine", scrive Nicola di Maio. "Voglio sposare la biondina che, limpida e divertita, ridicolizza Travaglio. Non che ci voglia molto, però è sempre un piacere", rincara Massimiliano Mannino. Infine, giusto per pescare un tris di commenti dal mazzo ecco Terry: "Lo stanno distruggendo le ragazze...Travaglio hai stancato". Nello studio di AnnoUno, insomma, si viene a creare una situazione paradossale. Nel regno di Michele Santoro e di Giulia Innocenzi, sul banco degli imputati, assediato dalla giuria popolare, ci finisce proprio lui, ci finisce proprio Marco Travaglio con un vivace scambio di battute ad "Announo" del 5 giugno 2014 tra Marco Travaglio ed Elisa Serafini, una delle protagoniste del programma in onda su La7. La 26enne milanese attacca il vice direttore de "Il Fatto Quotidiano": "Lei vive di antagonismo da troppi anni, prima perché c’era Berlusconi, adesso non va niente bene perché c’è Renzi. Se vince Grillo io cambio paese, ma lei deve cambiare mestiere perché non avrebbe nessuno cui andare contro. Perché bisogna misurare la qualità di un paese sul numero di persone che vanno in galera?...Basta fare i manettari”. “Non si può essere così disfattisti…lo capisco che lui ha creato una carriera - prosegue Elisa - ma se va Grillo al governo lei deve cambiare lavoro perché non può andare contro una persona che sostiene…Ma lei vive solo di critiche?”. La risposta di Travaglio non si fa attendere: "E’ la cronaca che è disfattista, non sono io purtroppo…Secondo te il giornalista è uno che lecca il c*** ai politici? E’ uno che dice che va tutto bene quando va tutto male? Io racconto quello che succede”. Ma è quando la giovane cita Vittorio Sgarbi che il giornalista sbotta: "Ma non dire cretinate. Almeno leggi il labiale”.

Il Manifesto del Forcaiolo, scrive Filippo Facci. Marco Travaglio ha finalmente scritto il Manifesto del forcaiolo – in parte recitato ad Announo – ossia un articolo che cerca di fiancheggiare la comprensibile rabbia legata ai vari scandali, così da evidenziare i suoi autentici desideri in tema di giustizia. Darne conto è interessante, perché sintetizza che paese diventeremmo se certe soluzioni venissero effettivamente adottate: una sorta di Germania Est, coi Cinque Stelle al posto della Stasi. Intanto va segnalato che il pentastelluto Mario Giarrusso ha proposto seriamente il ripristino della ghigliottina – lo ha detto alla Zanzara, su Radio24 – spiegando pure che gli arresti domiciliari andrebbero aboliti. Diceva sul serio. Ma veniamo alle analisi e alle proposte di Travaglio.

1) Travaglio fornisce una disamina della seguente profondità: «Destra, sinistra e centro rubavano. Rubavano e rubano tutti, e insieme, sempre, regolarmente, scientificamente, indefessamente… Esiste soltanto una gigantesca, trasversale, post-ideologica associazione per delinquere che si avventa famelica su ogni occasione per rubare». Tutti. Insieme. Sempre. Quindi anche il governo delle larghe intese: «Continuano a rubare, secondo un sistema oliato e collaudato di larghe intese del furto che precede e spiega le larghe intese di governo». Il governo Pd-Ncd, dunque, serve a rispecchiare l’amicizia trasversale tra Frigerio e Greganti (Expo) o tra Galan e Orsoni (Expo). E Renzi? Ruba anche lui? No, «i suoi fedelissimi sono lì da troppo poco tempo. Ma rischia di diventare il belletto per mascherare un partito marcio». Renzi, quindi, è la copertura della gigantesca associazione per delinquere. Va rilevato che il Travaglio-pensiero – si fa per dire – è un’evoluzione recente: nel 2010, sul Fatto, elogiava il piddino Giorgio Orsoni (ora arrestato) definendolo «persona seria e normale».

2) Adesso però è cambiato tutto, e le garanzie democratiche e costituzionali andrebbero sospese. Lo scrive Travaglio, e tra le righe non si scorge alcun tono satirico: «L’art. 27 della Costituzione, quello della presunzione di non colpevolezza, diventa una barzelletta se si leggono le carte delle indagini… non c’è bisogno della Cassazione, e nemmeno della sentenza di primo grado, per capire che rubavano davvero». Basta Il Fatto Quotidiano che legga per noi le carte: carte infallibili scritte da pm infallibili, come dimostra la storia giudiziaria italiana. C’è da sentirsi tranquilli.

3) La terza proposta è di conseguenza: «Cacciare ogni inquisito dai governi locali e nazionali». È sufficiente essere inquisiti e non importa per che cosa: anche per atto dovuto, anche per una qualsiasi delle scemenze per le quali in Italia non esiste politico che non sia stato inquisito almeno una volta: o condannato, come Grillo, o come Travaglio. Del resto «a certi livelli non esistono innocenti, solo colpevoli non ancora presi», scrive il nostro. Bene. Si allarga il clima di fiducia.

4) Anche la quarta proposta è di conseguenza: «Radiare dai contratti pubblici tutte le imprese coinvolte in storie di tangenti». E siccome «in storie di tangenti» sono state coinvolte praticamente tutte le più importanti aziende italiane ed estere (comprese Eni, Finmeccanica, Fiat, Autostrade, Coop) i lavori della Salerno-Reggio Calabria saranno conclusi da Casaleggio via internet.

5) Ma è un falso problema, perché prima c’è altro da fare: «Cancellare le grandi opere inutili ancora in fase embrionale, dal Tav Torino-Lione al Terzo Valico». C’è uno scandalo a Venezia e allora rinunciamo alla Torino-Lione, che è in fase embrionale come può esserlo un ragazzino di 14 anni. Non è un discorso pretestuoso, no.

6) Ma restiamo allo stato di polizia che piacerebbe a Travaglio. Che cosa servirebbe? Questo: «Introdurre gli agenti provocatori per saggiare la correttezza dei pubblici amministratori… imporre a chi vuole concorrere ad appalti una dichiarazione in cui accettano di essere intercettati, a prescindere da ipotesi di reato». Viene il sospetto che Travaglio abbia visto «Americam Hustle» o, più indietro nel tempo, «Le vite degli altri». E resta la curiosità di sapere che cosa accadrebbe nel nostro Paese se, oltre alle mazzette vere, ci fossero anche quelle false offerte da agenti provocatori e cioè corruttori: questo nello stesso Paese post-sovietico in cui chiunque partecipasse a un appalto (anche quello per la fontana del paesello) dovrebbe mettere a disposizione del maresciallo tutte le proprie conversazioni e dunque quelle dei suoi amici e familiari. Molto bello.

7) Il problema è che in galera c’è poca gente: occorre «piantarla con le “svuotacarceri”, costruire nuovi penitenziari e, nell’attesa, riattare caserme dismesse per ospitare i delinquenti che devono stare dentro». È così semplice. È la scuola dell’amico Piercamillo Davigo, già ispiratore anche della battuta sui colpevoli non ancora scoperti: in Italia ci sono pochi detenuti in rapporto alla popolazione, diversamente dagli Stati Uniti. Ma segnaliamo un problema: Usa e Italia adottano sistemi diversi. Comunque tutto si può fare: ma bisognerebbe, anche qui, cambiare la Costituzione.

7) Nell’attesa, si possono «radere al suolo tutte le leggi contro la giustizia targate destra, centro e sinistra degli ultimi 20 anni». Tutte. Proprio tutte. Soprattutto quella che bruciò di più alla magistratura, cioè la riforma dell’articolo 513 che costrinse a cambiare la Costituzione nel 1999: si tornerebbe, cioè, a quando un accusatore poteva tranquillamente denunciare chicchessia, patteggiare una pena simbolica e quindi uscire dal processo senza neanche presentarsi in aula per confrontarsi con la persona che aveva accusato. Very Germania Est.

8) «Tutto il resto non è inutile: è complice».

9) Per qualche misteriosa ragione – scrive infine, cioè: in realtà lo scrive all’inizio – dopo lo scandalo di Venezia dovremmo tutti chiedere scusa a Beppe Grillo: «Milioni di persone perbene – elettori, giornalisti, intellettuali, eventuali politici e imprenditori – dovrebbero leggersi l’ordinanza dei giudici di Venezia e poi chiedere umilmente scusa a Beppe Grillo e ai suoi ragazzi». Perché? Travaglio non lo spiega, se non deplorando gli «anni e anni sprecati ad analizzare il suo linguaggio, a spaccare in quattro ogni sua battuta, a deplorare il suo populismo, autoritarismo, giustizialismo… intanto destra e sinistra e centro rubavano» Tutti. Insieme. Sempre. Travaglio ne approfitta per correggere la rotta sull’alleanza grillesca con Nigel Farage: «L’abbiamo denunciata anche noi, ed era giusto farlo, ma in un paese normale: dunque non in Italia». Traduzione: c’è stato lo scandalo del Mose e allora Grillo potrebbe anche allearsi con Farage. Travaglio l’ha deciso mercoledì. Martedì aveva scritto il contrario.

Grillo rischia di far scoppiare la coppia Santoro-Travaglio. Santoro: "Beppe senza autorità morale per dire chi è buono e chi è cattivo", scrive Maurizio Caverzan su “Il Giornale”. I giornalisti sono stati convocati per parlare di Announo, il nuovo programma di approfondimento condotto da Giulia Innocenzi, che da giovedì, ospite Matteo Renzi, prenderà il posto di Servizio pubblico. A ben guardare, però, tira aria di rifondazione anche per il talk show di Michele Santoro: un nuovo inizio, una ripartenza, forse anche con un nuovo nome e qualche novità nella squadra. Del resto, Todo cambia: in politica, nell'informazione, nel rapporto con i leader, con Grillo, Renzi, la sinistra. Un cambiamento che potrebbe comportare anche la separazione tra l'ammiraglio e il suo bombardiere più agguerrito. «Fino a qualche tempo fa era tutto chiaro, il cattivo era riconosciuto», spiega Santoro. «Di fronte a Berlusconi, io e Travaglio eravamo uniti, anche se io ero su posizioni più liberali... Ora chi è il cattivo?». Travaglio sta con Grillo, Santoro no. Inoltre, anche sul piano televisivo assistiamo a un cambiamento profondo: «E io pensavo che Servizio Pubblico fosse un ciclo finito. Ma Cairo, con cui c'è stato un confronto serrato, ci ha chiesto di continuare anche per l'anno prossimo. Sono stato contagiato dalla sua voglia e ho deciso di accettare». Tanto più che «La7 è il vertice dell'indipendenza e sono onorato di lavorare in una rete in cui nessuno mi dice che cosa devo fare». E la Rai? «Se mi offrisse di fare un programma, anche simbolico, tipo Trasmissione zero, lo farei, perché no? È un lungo pezzo di storia professionale...». Ma di ritorni, per ora non si parla. Della necessità di cambiare Servizio pubblico invece sì. La riflessione era già in atto. E l'attacco di Grillo ha fatto da detonatore. «Mi auguro che dismetta i toni illiberali. Che impari a rispettare il lavoro dei giornalisti», afferma Santoro. «Contro Vauro ci sono stati toni inaccettabili, fino alle minacce, innescate da una forza politica che avrebbe il dovere di dissociarsi. Il mio amico Travaglio dice che la Rete si esprime così. Io temo che si trasformi in una grande Piazza Tahrir, anti-istituzionale a prescindere. Grillo è il Berlusconi del web», dice al Giornale il conduttore che con il Cav ospite ha fatto il record storico: «Ti restituisce quello che prende da lì, sull'immigrazione, sulla Tav... Fa il suo mestiere, ma non ha l'autorità morale per dire chi sono i buoni e i cattivi. Usa anche il gossip per colpire i presunti avversari... Si è creata una combinazione mostruosa Casaleggio-Dagospia. Ora non voglio disturbare la sua campagna elettorale, ma una volta terminata, potrei andare anch'io nelle piazze a raccontare come stanno le cose. Sarebbe un'operazione di legittima difesa e per la libertà di stampa». In difesa, Santoro gioca anche a proposito di crisi «dei cosiddetti talk show». È la tv generalista a essere in crisi, dieci anni fa Rai e Mediaset facevano il 90 per cento di share ora arrivano al 60. E poi, mostrando uno studio dell'istituto di ricerche Barometro, sottolinea che «nella storia di La7 Servizio pubblico compare in 4 posizioni della top 5, in 6 della top 10 e in 15 tra le prime 20 (in share, ndr), mentre nell'ultima stagione ricopre le prime sedici posizioni (in valori assoluti, ndr)». Se quest'anno c'è stato un calo è perché «ora lo spettatore ha un rapporto diverso con la politica». Alla maggioranza del pubblico interessa capire se Renzi ce la fa o no. Per il resto «siamo invasi da replicanti della politica. Ma anche i big hanno un richiamo limitato: Grillo da Mentana non ha fatto il botto... Lo stesso Berlusconi forse non ha piacere a tornare da noi, perché dovrebbe misurarsi con il 34 per cento dell'anno scorso. Magari avrà più interesse ad andare nel programma di Giulia. Certo, è stato invitato; come pure Grillo». Che però andrà da Vespa. «C'è la campagna elettorale e se gli serve fa bene... Ma mi pare una sconfitta, un'incoerenza. Tra dire che la tv è morta e poi andare da Vespa...», punge Santoro, dribblato dallo Sciamano pentastellato. «In realtà, la tv si mostra centrale anche quando nei blog si parla per una settimana dell'operaio ospite di Servizio pubblico e per prendere i voti di Berlusconi si attacca il Pd e la nuova peste rossa». Insomma, tutta colpa di Grillo e dei politici se i talk vanno così così. E un po' di autocritica di voi televisivi? «Ci siamo adagiati sul fatto che la temperatura esterna garantiva il successo delle nostre trasmissioni. Ma adesso si riparte...». Auguri.

Michele Santoro: "Travaglio? Occhio al fondamentalismo...scrive " Libero Quotidiano”. Su Il Fatto Quotdiano viene intervistato Michele Santoro. Si parte da AnnoUno, la trasmissione della santorina Giulia Innocenzi che ha sbancato in termini di share. Il teletribuno fa i complimenti alla sua creatura, afferma di essere sempre stato sicuro del fatto che avrebbe bucato lo schermo e si spinge ad affermare che "la tv cambia", e dunque "AnnoUno è già il futuro". Ma il piatto forte arriva quando nell'intervista Santoro parla di Beppe Grillo e, soprattutto, di Marco Travaglio. Si parte da una riflessione sul guitto ligure: "Non possiamo continuare a pensare che Grillo sia una specie di Masaniello che urla per dire qualunque sciocchezza. Dobbiamo valutarlo per quello che è: un leader politico, che deve avere una visione". E da queste considerazioni il discorso passa in scioltezza al leader grillino su carta stampata, Marco Travaglio appunto, il vicedirettore del Fatto Quotidiano che è il primo megafono del leader pentastellato. Un'adorazione, quella di Travaglio per Grillo, che Michele non riesce a digerire, tanto che negli ultimi giorni, dopo alcune parole sibilline del conduttore di Servizio Pubblico, si è cominciato a parlare del possibile divorzio tra Santoro e Marco Manetta. Così, parlando proprio con Il Fatto, in un significativo cortocircuito, Santoro dice la sua sul vicedirettore della testata. Il rapporto con Travaglio? "Un rapporto di grandissima amicizia prima di tutto, di stima smisurata sotto il profilo professionale. Ma il vero punto - si chiede Santoro - è cosa dobbiamo fare? Agire per il crollo del sistema o per la rigenerazione?". Il teletribuno mostra di non avere particolari dubbi: "Non possiamo sposare quello che fa Renzi, ma neanche quello che fa Grillo. No, non dico Marco abbia perso la sua indipendenza. Sarebbe una banalizzazione. Penso semplicemente che Marco sia portato a vedere tutto quello che sta fuori da questa piazza Tahrir come un'elemento che non contenga tanti spunti positivi. La sua è una visione pessimistica sul mondo politico organizzato. Lui - prosegue nella tirata - è come se pensasse che non è che si può stare in mezzo, bisogna stare dentro quella piazza. Però - attacca Michelone - stando dentro piazza Tahir il rischio è il fondamentalismo al governo. E' una differenza di analisi, non è una cosa banale che contrappone Santoro e Travaglio". Dunque, continua il conduttore di Servizio Pubblico, "nel momento in cui, quando andremo a disegnare un nuovo programma, questa differenza di valutazione di approccio è giusto che venga fuori, si confronti, insieme tracciamo la strada di come deve essere fatto un programma diverso da quello che stiamo facendo tutti e due". La domanda si fa poi più esplicita: "Marco - chiede Peter Gomez - quindi se ha voglia parteciperà al tuo programma il prossimo anno?". La risposta: "E' possibilissimo, ma potrebbe anche essere possibile per esempio che avendo io delle carte in mano da giocare, diverse da quelle del programma, perché non pensare che ci possa essere un programma di Marco. Magari con il mio aiuto". O magari no. Ma questo Santoro non lo dice. Quello che ha detto, al contrario, sembra un po' un benservito di lusso al "fido" Travaglio. Il divorzio è stato ormai consumato?

Santoro non nasconde il comunista che è in lui.

Santoro: "Resto un vecchio comunista". Il conduttore parla della Rai e del taglio di 150 milioni paventato da Renzi, scrive Franco Grilli su “Il Giornale”. Michele Santoro si scaglia contro Matteo Renzi. Il tema del contendere è quello della Rai e del taglio voluto dal premier. E se viale Mazzini indicesse uno sciopero, il conduttore di Servizio Pubblico non esiterebbe ad aderirvi: "Perché sono un vecchio comunista e se il mio sindacato me lo chiede io non faccio il crumiro", spiega Santoro in una intervista a Repubblica. Sul taglio di 150 milioni dice: "Significa imporre tagli lineari, costringere l'azienda a ridimensionare il prodotto. Ma Renzi, che ha nell'intuito la sua più grande dote, ha capito che la Rai è l'ultima sopravvissuta del vecchio sistema politico e i tagli sono un modo per destabilizzare tutto. Nel senso che Grillo si è messo a difendere lo sciopero passando così come l'alfiere del passato, col "vecchio" Pd e Forza Italia che hanno fatto alleanza mentre lui li osserva dall'altra parte. Un capolavoro politico". Infine, sul taglio agli stipendi di Vespa e Floris spiega: "Pura demagogia, se non hai Maradona, lo stadio non lo riempi, così senza Celentano non fai audience".

Un libro ricostruisce Tangentopoli con retroscena e aneddoti.

«Berlusconi? Onestamente non posso dire che sia un mascalzone». Così parlò Carlo De Benedetti, il nemico pubblico numero uno del Cav. Parole dal sen fuggite? Tutt'altro. Ogni singola parola attribuita all'Ingegnere e contenuta nel libro di Paolo Guzzanti, «Guzzanti vs De Benedetti» (368 pp, Aliberti editore) è stata letta, ponderata e confermata dallo stesso editore di Repubblica ed Espresso. Dalla biografia scritta dall'ex vicedirettore del Giornale emerge il ritratto di un imprenditore che ammette di essere come Berlusconi: «È un autocrate come tutti noi imprenditori, ma come persona non è affatto cattiva ed è anzi sicuro di fare il bene. Il motivo per cui io lo combatto è che, essendo un imprenditore al comando del Paese, è per definizione un rischio per la democrazia. Anch'io, se mi mettessi a fare il politico, sarei un pericolo per la democrazia». Con Silvio siamo al rapporto di amore-odio. Anzi: «Io non lo odio, lo disapprovavo, è l'uomo che incarna un intero popolo in modo passionale, sentimentale, persino affettuoso. Lo dico da suo avversario: non è assolutamente una carogna». 

Roba da far drizzare le orecchie ai colonnelli democratici. Anche perché di fianco all'elogio come imprenditore all'avversario Silvio, le accuse contro i vertici del Pd sono spietate. I primi a cadere sono D'Alema e Bersani: «Il segretario è inadeguato, lui e D'Alema stanno ammazzando il Pd». E su Baffino: «Credo che abbia fatto tantissimi errori e non capisca più la sua gente, come il caso Puglia insegna. Su Berlusconi come uomo politico il giudizio è estremamente negativo, ma almeno Silvio ha fatto qualcosa. D'Alema e quelli come lui non hanno fatto niente». Il De Benedetti che ne esce fuori sembra il prigioniero politico della sua stessa armata, da sempre schierata col centrosinistra. Come quando è lo stesso De Benedetti ad ammettere che «Ezio Mauro talvolta si fa un po' prendere la mano da certi suoi giornalisti...». Insomma, è l'Ingegnere la vera vittima del mostro politico che ha contribuito a creare: «Mi odiano, ci odiano e adesso si sono messi in testa che Ezio Mauro voglia diventare il leader del Pd e questo li fa impazzire. Sono ridotti così male che hanno inventato questa leggenda». Un po' di vetriolo c'è anche per l'ex premier Romano Prodi, regista della mancata acquisizione della Sme da parte di De Benedetti a vantaggio della cordata voluta da Bettino Craxi e guidata da Berlusconi, i cui strascichi giudiziari hanno portato alla sentenza di risarcimento monstre da 600 milioni di euro. È tutta colpa del Professore: «Io detestavo Craxi, la cosa è nota, ma in quel caso aveva perfettamente ragione: era il presidente del Consiglio e Prodi compiva un'operazione di quella portata dando via aziende statali senza nemmeno fargli una telefonata. Prodi così fece incazzare Craxi come una belva». C'è ancora il tempo per ricordare quando stava per restare una notte in galera per «colpa» della moglie di Bruno Vespa, l'allora gip romano Augusta Iannini, dopo aver ammesso di aver pagato tangenti ai politici («C'eravamo dentro tutti - dice De Benedetti - questa è la verità e questo era il metodo...»). Quel giorno del lontano 1993 l'editore di Repubblica li ricorda così: «La gip Iannini mi fece un interrogatorio nel pomeriggio a Regina Coeli, presente la pm Cordova. Poi a un certo punto la Iannini se ne andò e con la Cordova finimmo l'interrogatorio. A quel punto chiesi di andare via, ma la Pm disse: “Per me lei può uscire, pero c'è da firmare e siccome a quest'ora non c'è più il gip lei stanotte sta qui”. Allora io prendo il mio avvocato, lo mando a casa della Iannini, perché non voglio passare la notte a Regina Coeli e, con il parere favorevole del Pm, la Iannini ha firmato. E quindi alle dieci di sera sono uscito dalla prigione».

Da quanto detto si riporta il commento di Tiziana Maiolo su “Il Giornale”.

L'abilità di un finanziere come Carlo De Benedetti si coglie da mille particolari. I soldi. La rete di relazioni. Il cinismo. La capacità di lasciare una poltrona al momento giusto e con sostanziose liquidazioni. La forza di ripartire dopo un rovescio. E anche la fortuna di uscire sempre immacolato dalle vicende giudiziarie in cui finisce coinvolto.

Sarà una coincidenza, una combinazione singolare, una concomitanza casuale; sarà semplicemente che l'imprenditore che si è sempre proclamato «diverso» dai colleghi non aveva commesso quanto gli era stato addebitato. Ma il tarlo di un maligno interrogativo resta: essere l'editore più giustizialista d'Italia, difendere a oltranza i magistrati che indagano su Silvio Berlusconi, è un'assicurazione sulla vita?

Il caso più lontano nel tempo è quello del Banco Ambrosiano, tempio della P2. 

Siamo negli Anni 80: De Benedetti entrò nell'istituto di credito con il 2 per cento del capitale e la carica di vicepresidente (il numero uno era Roberto Calvi) e ne uscì 65 giorni dopo, alla vigilia del crac, intascando una plusvalenza di 40 miliardi di lire. Fu accusato di concorso in bancarotta fraudolenta ed ebbe una condanna a 6 anni e 4 mesi di reclusione in primo grado, ridotta in appello a 4 anni e 6 mesi, e annullata senza rinvio dalla Cassazione.

Nei primi Anni 90 De Benedetti e altri sette manager furono assolti dall'accusa di elusione fiscale: il pm aveva chiesto per il presidente Olivetti la condanna a due anni e quattro mesi di reclusione e al pagamento di 15 milioni di multa per una presunta evasione di complessivi 37 miliardi di lire. Il sofisticato meccanismo si chiamava «dividend stripping» e consentiva, a certe condizioni, di usare i dividendi azionari come credito d'imposta. Inoltre, come ricordano Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio in «Mani sporche», De Benedetti «ha chiuso con due oblazioni da 50 milioni di lire ciascuna altrettanti processi per le manovre in Borsa sui titoli Olivetti (insider trading) e per i bilanci del gruppo di Ivrea (false comunicazioni sociali)». Sentenza, quest'ultima, revocata dopo la riforma del falso in bilancio voluta dal governo Berlusconi nel 2002.

Ma la vicenda più clamorosa fu il coinvolgimento di De Benedetti in Tangentopoli dopo l'arresto del direttore generale delle Poste, Giuseppe Parrella, e del suo segretario Giuseppe Lo Moro, il quale parlò di mazzette ricevute dalla Olivetti per la fornitura di telescriventi al ministero. Era il 1993, qualche anno dopo la battaglia per il controllo di Segrate sfociata nella sentenza. In maggio il finanziere anticipò i pubblici ministeri consegnando ad Antonio Di Pietro una memoria in cui ammetteva vari giri di tangenti perché «vittima del sistema»: in particolare oltre 10 miliardi di lire a Dc e Psi per l'appalto postale.

A novembre fu emesso un mandato di cattura a suo carico. De Benedetti si costituì, fu trasferito al carcere di Regina Coeli, interrogato nella notte dal pm Maria Cordova e dal gip Augusta Iannini, ottenendo gli arresti domiciliari e quindi la scarcerazione. Un trattamento di assoluto riguardo: mentre i manager di tante aziende aspettavano giorni prima di essere ascoltati da un magistrato e mesi prima di lasciare il carcere dopo aver vuotato il sacco, all'Ingegnere la rara tempestività della giustizia italiana consentì di evitare la cella. Da questo processo (l'accusa era corruzione) De Benedetti uscì in parte assolto e in parte prescritto.

Chi invece riuscì pienamente a trattare con i magistrati milanesi fu l’ingegner Carlo De Benedetti, che un bel giorno si presentò a un incontro concordato, raccontò la sua e tornò a casa con le sue gambe. Corse qualche rischio per la sua libertà invece al Palazzo di giustizia di Roma, dove non vigeva il «rito ambrosiano» e dove fu arrestato per un giorno, nello stupore dei suoi avvocati, che trovarono nella capitale due magistrati (non a caso due donne) poco inclini alla trattativa alla milanese. Il che può apparire stupefacente, vista la pessima immagine del tribunale di Roma, da sempre chiamato «porto delle nebbie», e la cui reputazione fu strumentalmente usata dai magistrati del pool ogni volta che si profilava un conflitto di competenza tra Milano e la capitale. (...). Il 30 aprile 1993 l’ingegner De Benedetti dichiara a la Repubblica, quotidiano con cui aveva qualche confidenza, di «non aver mai corrisposto finanziamenti ai partiti politici o a entità a essi collegate». Ma il Corriere della Sera del 17 maggio scriverà che «L’Ingegnere ha incontrato i giudici consegnando loro un memoriale sulle tangenti pagate dalla Olivetti». Stranamente due giorni dopo, il 19 maggio, esce una dichiarazione sul Wall street journal in cui l’uomo di Ivrea afferma con sincerità: «Se dovessi rifare tutto di nuovo lo rifarei: pagherei le tangenti ai politici per ottenere le commesse pubbliche». Il re della coerenza. La voce circolava in quei giorni. E De Benedetti aveva buoni avvocati e buoni orecchi. Così mise insieme un dossier e il 16 maggio 1993, di domenica, lontano da occhi indiscreti, nella caserma dei carabinieri di via Moscova a Milano, si incontrò con i pubblici ministeri Di Pietro, Colombo e Jelo. (...). De Benedetti conosce bene la lezione, e racconta di esser stato sistematicamente concusso dalle Poste italiane e dai partiti di governo. Ha speso in tutto tra i 15 e i 20 miliardi di lire, di cui 10 miliardi e 24 milioni solo alle Poste. La frase che detterà alle agenzie sembra fotocopiata dallo schema fisso gradito alla Procura: «In Italia negli ultimi quindici anni c’è stato un regime politico che ha prevaricato e taglieggiato l’economia. Grazie all’opera di pulizia fatta dai giudici è diventato possibile sconfiggere la tangentocrazia». Due giorni dopo, forse pensando, giustamente, che i magistrati non leggano la stampa estera, dirà al Wall street journal che l’avrebbe rifatto. Nessuno glielo contesterà, nessuno dei suoi collaboratori verrà indagato e nei suoi confronti non verrà richiesta nessuna rogatoria estera. (...).

A Roma Carlo De Benedetti ha a che fare con due donne magistrato piuttosto agguerrite, la pm Maria Cordova e la gip Augusta Iannini. Giovanni Maria Flick, che sarà in seguito il ministro alla Giustizia del primo governo Prodi nel 1996, è il difensore di De Benedetti ed è sconcertato davanti a una richiesta di arresto che a Milano non c’è mai stata. Ma il Palazzo di giustizia di Roma, nonostante la cattiva fama, è più «normale». Come dirà ai giornalisti la gip Augusta Iannini: Per me, la legge è uguale per tutti. L’ingegner Carlo De Benedetti è uguale al signor Mario Rossi, al signor Paolo Bianchi. E se i signori Mario Rossi o Paolo Bianchi fossero accusati degli stessi fatti contestati nell’ordine di custodia cautelare all’ingegner Carlo De Benedetti, sarebbero stati arrestati. La situazione è imbarazzante per il presidente dell’Olivetti, che riteneva di aver pagato pegno a Milano, dove è solo indagato, e invece si ritrova con un mandato di cattura a Roma per lo stesso reato. La verità, a quanto pare, è che a Milano si sarebbero accontentati del memoriale e non hanno approfondito lo scandalo di tutte quelle apparecchiature obsolete, stampanti e telescriventi, vendute dall’Olivetti al ministero delle Poste, costate parecchio, mentre dieci miliardi di lire finivano in tangenti. Naturalmente nel memoriale De Benedetti scriveva che queste tangenti gli erano state «estorte», ma questo è quel che dicevano tutti gli imprenditori. Se Milano si era accontentata, i magistrati romani erano piuttosto seccati, avevano raccolto una gran quantità di documenti e avevano cominciato a fare due conti. Si era creato anche un piccolo incidente diplomatico interno al Palazzo di giustizia, perché il procuratore capo Mele si era molto irritato nello scoprire che la dottoressa Cordova, sua sostituta, aveva chiesto la misura cautelare per De Benedetti senza consultarlo. Ne seguì un parapiglia di dichiarazioni, in cui si inserì anche il pm milanese Gherardo Colombo, e che alla fine giovò al presidente della Olivetti, che fu «un pochino» arrestato per un giorno e anche in seguito, tra archiviazioni e reati caduti in prescrizione, se la cavò.

Parlamento italiano: pomeriggio del 20 luglio 2011. Già è mortificante il fatto che in quei luoghi non si votino le leggi, ma le autorizzazioni alla custodia cautelare in carcere per alcuni dei suoi membri. Ma già li è chiaro: in Italia la legge, come l’etica e la morale, non è uguale per tutti. Se sei del centrodestra sono tutti d'accordo a sbatterti in galera, se sei del centrosinistra invece ti graziano. E' questa la triste verità che emerge dai voti che hanno spalancato le porte del carcere di Poggioreale per il deputato Pdl Alfonso Papa e hanno salvato il senatore Pd Alberto tedesco. Ed è la stessa triste verità che ispira il diverso trattamento concesso a Piergianni Prosperini, l'ex assessore lumbard finito ai domiciliari perché accusato di aver ricevuto delle tangenti per favorire un imprenditore in una gara d’appalto per la promozione di eventi in Valtellina, e Filippo Penati del Pd, capo della segreteria politica di Bersani e consigliere regionale lombardo con incarico di vice presidente del Consiglio, ex sindaco di Sesto San Giovanni e Presidente della provincia di Milano, indagato perché avrebbe preso mazzette fino a 4 miliardi di lire. Questa è la giustizia all'italiana.

"Ho dimostrato a tutti di essere un uomo, chiedendo di votare per il mio arresto. Ma ora ho il dovere di restare al mio posto, in Senato". A Tedesco non lo sfiora nemmeno l'idea di lasciare la poltrona a Palazzo Madama. Assicura che andrà avanti, puntualizza che aspetterà che la magistratura faccia il suo lavoro e fa sapere che in futuro si batterà per l'abolizione della custodia cautelare. E, mentre il senatore piddì resta in parlamento, Papa ha già passato una notte in carcere. Eppure, come spiega il vicepresidente della Camera Antonio Leone, "a carico di Tedesco sussiste un impianto accusatorio ben più pesante di quello messo insieme per Papa dai pm napoletani". Finito nell'inchiesta che ha sconvolto la sanità in Puglia, l'ex assessore di Vendola è accusato di corruzione, concussione, turbativa d’asta, abuso d’ufficio e falso. Nel mirino dei pm di Bari ci sono i presunti appalti truccati e le nomine dei vertici dell'Asl: dal 2005 al 2009 la sinistra pugliese avrebbe, infatti, imposto i primari e gli imprenditori che avrebbero poi dovuto vincere le gare d’appalto. "La prassi politica dello spoil system - si legge nell'ordinanza del gip Giuseppe de Benedictis - era talmente imperante nella sanità regionale da indurre Vendola, pur di sostenere alla nomina a direttore generale di un suo protetto, addirittura a pretendere il cambiamento della legge per superare, con una nuova legge a usum delphini, gli ostacoli che la norma frapponeva alla nomina della persona da lui fortemente voluta".

Di tutt'altro spessore le accuse rivolte a Papa, finito nell'inchiesta P4 portata avanti dai pm Henry Woodcock e Francesco Curcio della procura partenopea. I reati contestati sono: corruzione, concussione, estorsione e favoreggiamento personale. Secondo il gip di Napoli, Papa, Luigi Bisignani, Enrico La Monica e Giuseppe Nuzzo "promuovevano, costituivano e prendevano parte a una associazione per delinquere, organizzata e mantenuta in vita allo scopo di commettere un numero indeterminato di reati contro la pubblica amministrazione e contro l'amministrazione della giustizia". Insomma, per la procura di Napoli Papa avrebbe fatto parte di "un sistema informativo parallelo" al fine di acquisire informazioni sulle indagini e usarle per avanzare "indebite pretese e indebite richieste" sugli indagati.

Per i due politici indagati sono state usate due pesi e due misure diverse. Mentre il Pdl si è dimostrato garantista con entrambi i parlamentari, a Palazzo Madama i numeri ci dicono che tutti i 34 suffragi necessari a negare i domiciliari provengono dalle fila della sinistra....

Insomma, l'opposizione ha usato, come al solito, due pesi e due misure. Proprio come viene fatto dalla magistratura. Risulta infatti emblematico le indagini che, in questi giorni, hanno investito la Lombardia. Filippo Penati ieri, Piergianni Prosperini oggi. Il capo della segreteria politica di Bersani ed ex presidente della Provincia di Milano è indagato per corruzione, concussione e finanziamento illecito ai partiti. L'accusa è di aver preso tangenti per circa 4 miliardi di lire tra il 2001 e il 2002 per la riqualificazione di due ex aree industriali e per i servizi di trasporto dei comuni dell'Alto milanese. Un illecito che Penati avrebbe proseguito fino a dicembre dell'anno scorso. Il decreto di perquisizione firmato dai pm di Monza Walter Mapelli e Franca Macchia parla di "gravi indizi di colpevolezza", eppure su Penati non grava alcuna misura di custodia cautelare. Gli arresti domiciliari, invece, sono stati dati per la seconda volta all'ex assessore lombardo Prosperini, accusato di corruzione e false fatturazioni in relazione alle tangenti "incassate" per favorire un imprenditore in una gara d’appalto per la promozione di eventi in Valtellina.

"Il voto di ieri ha dato la conferma della doppia morale della sinistra che vota contro gli avversari politici e salva i suoi sodali". Con queste parole il viceministro Roberto Castelli ha sintetizzato il film andato in scena ieri in parlamento. "Ora si capisce perché i capigruppo Pd si sono lamentati del voto segreto: temevano giustamente che in tanti disobbedissero agli ordini - fa eco il Pdl Lucio Malan - sempre che non fosse tutta una sceneggiata finalizzata a salvare l’ex assessore alla Sanità". D'altra parte, a questo punto, è solo il leader Idv Antonio Di Pietro a chiedere a Tedesco di dimostrare un po' di coerenza e dimettersi. Il Pd tace.

Uno scandalo da “Il Corriere della Sera” e “Libero” e “Il Giornale” :«Soldi anche al partito di Penati».

L'imprenditore Di Caterina accusa il dirigente Pd: «Spremuto come un limone».

Non c'è soltanto il costruttore, consigliere comunale ed ex candidato sindaco del centrodestra Giuseppe Pasini ad accusare il big del Pd lombardo Filippo Penati di avergli chiesto 20 miliardi di lire nel 2000-2001 per il via libera ai progetti urbanistici di Pasini sull'area ex Falck, e di essere poi stato destinatario di più di cinque miliardi tramite due intermediari che sono stati pagati in Lussemburgo (Piero Di Caterina) e in Svizzera (Giordano Vimercati): a parlare con i pm, infatti, è proprio anche Di Caterina, imprenditore del trasporto pubblico con la sua «Caronte».

Pasini raccontava che Di Caterina era stato il collettore indicatogli da Penati per le erogazioni pretese (a suo dire) dall'allora sindaco ds di Sesto San Giovanni, autosospesosi da vicepresidente del Consiglio regionale lombardo dopo essere stato indagato dai pm monzesi Walter Mapelli e Franca Macchia per le ipotesi di concussione, corruzione e finanziamento illecito ai partiti. E affermava di aver dato in contanti a Di Caterina due miliardi di vecchie lire in Lussemburgo. E Di Caterina? Conferma che è vero. Nei mesi scorsi ha reso anche lui molti interrogatori, inquadrando questa ricezione di soldi in una sorta di compensazione tra favori alla politica e recriminazioni imprenditoriali, ai quali ricollega tutta una serie di finanziamenti che afferma di aver fatto nella seconda metà degli anni 90 e fino al 2000 per le esigenze del partito di Penati, in alcuni periodi anche cento milioni di lire al mese. Come quelli di Pasini, anche i suoi verbali sono «segretati» ed è dunque arduo definirne i contenuti esatti. Ma il senso lo si afferra anche solo dalla scarna risposta di Di Caterina a chi lo ha interpellato: «Sono stato spremuto come un limone. Non se ne poteva più di questo convivere gomito a gomito con i dinieghi immotivati, con i ritardi, con gli ostacoli della politica e della dirigenza dell'alta amministrazione. Adesso ho grande fiducia nei magistrati».

Che davvero Pasini abbia pagato Di Caterina, ai suoi occhi fiduciario di Penati, è del resto provato da un documento acquisito dalla rogatoria in Lussemburgo (facilitata da Pasini) presso la banca alla quale bonificò a se stesso 4 miliardi di lire nel 2001. Parte di essi rimbalzarono in Svizzera e, a detta di Pasini, furono poi consegnati in contanti in strada a Chiasso a Giordano Vimercati, in seguito capo di gabinetto del Penati presidente della Provincia di Milano e anche rappresentante designato dalla Provincia in molte società partecipate (come la Serravalle). L'altra parte della provvista di denaro, invece, ebbe la destinazione dettata appunto dall'istruzione data da Pasini alla banca il 16 marzo 2001 e ora in mano agli inquirenti: «A debito del conto Pinocchio, vogliate mettere a disposizione per contanti L. 2.500.000 a favore di Di Caterina Piero. Alla sua presenza, attendere mia conferma telefonica».

Il monte-tangenti svelato da Pasini, intanto, sale ancora e si attesta sugli 8 miliardi di lire. Ai 4 o 4,5 miliardi per l'area ex Falck consegnati in Lussemburgo e Svizzera, e ai 1.250 milioni di lire per l'area ex Ercole Marelli (anch'essa di Pasini) «mascherati» dietro il saldo negativo di una permuta tra terreni con Di Caterina, il costruttore aggiunge un'altra tangente che colloca prima, nel 2000, addirittura al momento di comprare dai Falck l'area dove sorgevano le acciaierie. A suo dire, gli sarebbe stato fatto capire che l'acquisto dell'area gli sarebbe stato consentito o comunque facilitato dalla politica se avesse ingaggiato come consulenti due professionisti asseritamente vicini alle coop rosse emiliane, indicati in Francesco Agnello e Giampaolo Salami, ai quali Pasini paga compensi per 2 miliardi e 400 milioni di lire e che ora sono anch'essi indagati per l'ipotesi di concussione.

Filippo Penati continua a mostrarsi tranquillo. Indagato dalla Procura di Monza per concussione e corruzione e finanziamento illecito dei partiti, ribadisce la sua "totale estraneità ai fatti». E "per rispetto dell’istituzione" si autosospende da vicepresidente del Consiglio regionale lombardo, ribadendo "fiducia nella magistratura". Nega, Penati, la versione dell'imprenditore 82enne Giuseppe Pasini. Colui che ha innescato la slavina denunciando il malaffare che, a suo dire, caratterizzava i rapporti politico-affaristici a Sesto San Giovanni, importante centro della periferia milanese di cui l’esponente del Pd è stato sindaco per due mandati, fino al marzo 2002 - allora, naturalmente, era Ds. Peraltro, gli avvisi di garanzia - una quindicina - hanno coinvolto un assessore e svariati funzionari comunali. E proprio al 2001 risalgono tre dei numerosi episodi denunciati da Pasini, con tangenti per cinque miliardi e 750 milioni di lire. Soldi che, attraverso intermediari o operazioni coperte, sarebbero stati poi da recapitare proprio a Penati. In un caso, due miliardi e mezzo consegnati in contanti da una banca lussemburghese, istruita da Pasini, a Piero Di Caterina, titolare di un’azienda di trasporti e a quel tempo considerato molto vicino all’allora sindaco di Sesto. E poi la classica valigetta piena di soldi, allungata da Pasini e dal figlio Luca a Giordano Vimercati, strettissimo collaboratore dello stesso Penati, durante una trasferta a Chiasso - per strada, come nei film. Infine, una sorta di mazzetta mascherata: Pasini che scambia un suo terreno di valore con un altro di Di Caterina, però molto meno fruttuoso, con un saldo negativo per il primo di un miliardo e 250 milioni di lire. Vimercati e Di Caterina sono anch'essi indagati nell’inchiesta. Ma l’elemento importante è che Di Caterina avrebbe sostanzialmente confermato il racconto di Pasini.

In ogni caso, questi episodi configurano più che altro il reato di concussione - Pasini spinto a pagare per ottenere vantaggi nello sfruttamento urbanistico della grande area dismessa in cui sorgeva l'acciaieria Falck, vantaggi che poi non si sarebbero concretizzati, costringendo l’imprenditore a svendere l’enorme lotto. Le altre due ipotesi d’accusa - corruzione e finanziamento illecito dei partiti - si riferiscono invece a circostanze successive. Anche risalenti a quando Penati era presidente della Provincia di Milano - dal 2004 al 2009.

In questo senso, gli inquirenti stanno indagando anche su vicende legate al Sitam, il Sistema integrato trasporti area milanese, cui aderiscono la maggior parte degli operatori delle linee di trasporto pubblico su gomma della provincia milanese e che in sostanza ne gestisce le tariffe - biglietti, abbonamenti e quant'altro. Peraltro, proprio all'interno del Sitam ha lavorato per anni la società di Di Caterina, Caronte srl. Cui poi, a seguito di accordi istituzionali con l'Atm - azienda municipale del trasporto milanese -, è stato tolto l'appalto. Con conseguenti polemiche scatenate dallo stesso Di Caterina, che tra l'altro reclamava un pagamento inevaso da parte di Atm di 8 milioni e mezzo di euro. L'imprenditore, un anno fa, aveva così indirizzato una lettera alle autorità locali - sindaci e questore e Carabinieri e Guardia di Finanza e anche Provincia. Con un passaggio che, letto alla luce degli episodi a lui stesso contestati, quasi suona come una minacciosa allusione: "Si è creata una situazione che impone di muoversi in una palude di relazioni di concussione indiretta, che si alterna, ovviamente, a momenti di aria di relazioni corruttive, che rendono il clima asfissiante in un brodo di complicità". Nello scritto veniva esplicitamente citato anche l'attuale sindaco di Sesto San Giovanni, Giorgio Oldrini.

Anche un altro grosso imprenditore di Sesto ha segnalato episodi da approfondire. Così come i magistrati stanno investigando su questioni indirettamente legate alla vicenda Serravalle, l'autostrada Milano-Genova di cui la Provincia di Milano deteneva la maggioranza insieme con il Comune, e nonostante questo acquistò nel 2005 un altro 15 per cento di quote dall’imprenditore Gavio, per di più a cifre superiori al prezzo di mercato. Con un'operazione censurata dalla Corte dei Conti perché "onerosa e priva di qualsiasi utilità".

Per farla franca il vice presidente della Regione Lombardia Filippo Penati (Pd) coinvolto in un’indagine per mazzette, inventa «l’autosospensione». Una «cosa che nemmeno esiste», spiega un tecnico. «Sensibilità istituzionale», applaudono ovviamente quelli della sinistra. Ma sempre con molta attenzione al portafoglio. Questione di termini e di sostanza, perché c’è una bella differenza tra dimettersi e autosospendersi. Come sa bene Penati, l’illustre esponente lombardo del Pd, ormai sempre più chiaramente il partito della calce e martello. Pronto a fare un passo indietro, ma non certo a rinunciare a nemmeno un euro del suo pingue stipendio da 15.500 euro al mese (il 5 per cento in più di un parlamentare). Più benefit vari. Perché il beau geste di rinunciare alla funzione di vice presidente del consiglio regionale della Lombardia, non sfiorerà nemmeno il suo portafoglio. Con la beffa ulteriore che Penati non sarà nemmeno tenuto a partecipare alle riunioni dell’ufficio di presidenza. Limitandosi semplicemente a incassare stipendio e indennità di funzione per 11.500 euro. A cui ne vanno aggiunti 4.000 di diaria, più gettoni e rimborsi spese. Oltre allo staff personale (tra cui un dirigente da lui stesso scelto), segretaria, uffici e benefit. E i 51.600 euro all’anno che gli sono dovuti per aver rinunciato (bontà sua) all’auto blu. In quanto membro di un ufficio di presidenza di cui fa parte, ma a cui non partecipa più. In attesa di indennità di fine mandato e assegno vitalizio che spetta anche a chi partecipi a una sola legislatura. E che nel suo caso saranno maggiorati dai gradi di vice presidente. Ormai solo virtuali.

E così assume tutto un altro sapore la lettera inviata al governatore Roberto Formigoni e al presidente del Consiglio, il leghista Davide Boni. «A seguito del mio coinvolgimento nella vicenda giudiziaria relativa all’area Falck di Sesto San Giovanni - scrive Penati annunciando l’autosospensione - desidero ribadire la mia totale estraneità ai fatti. In merito anche alle notizie apparse sulla stampa voglio precisare che non ho mai chiesto e ricevuto denaro da imprenditori». Da subito, aggiunge, «non parteciperò più all’ufficio di presidenza e già dal prossimo consiglio siederò tra i banchi dei consiglieri di minoranza». Prefigurando così la sua pensione dorata all’ombra del Pirellone. Detto dell’indennità di Penati, resta quello appare sempre più come un regolamento dei conti all’interno del Pd. Non solo lombardo, visto che Penati ha ricoperto anche il prestigioso incarico di capo della segreteria di Pier Luigi Bersani. Col neo assessore della giunta Pisapia Pierfrancesco Majorino che gli manda via Facebook, ormai la nuova frontiera della sinistra, un messaggio al veleno. «Io, se fossi in Filippo Penati, anche per essere più forte nei confronti dell’opinione pubblica nel voler dimostrare la mia innocenza, mi autosospenderei dal Partito democratico». E Penati che si autosospende mettendo nei guai il Pd che ora resta senza un uomo di peso nell’ufficio di presidenza. Guerra di correnti che si incrocia agli affari delle cooperative rosse. Mazzette milionarie per la procura di Monza, circolate tra Sesto san Giovanni, l’ex Stalingrado d’Italia amministrata per anni da sindaco, e Milano dove Penati sbarcò tra i velluti della Provincia guidata con una certa passione per le scatole societarie e i travasi azionari. «Penati è innocente fino a prova contraria - attacca l’europarlamentare Matteo Salvini - Ma in Lombardia spesso la “sinistra degli ex onesti” è molto amica di palazzinari e cementificatori».

... Questione morale? «Non c’è una questione morale», s’indigna il segretario regionale del Pd Maurizio Martina anche se tra gli indagati per il Pd c’è pure l’assessore di Sesto Pasqualino Di Leva. Perché alla fine è sempre questione di termini.

Duro botta e risposta tra Massimo D'Alema e il vicedirettore del Giornale, Alessandro Sallusti, durante la trasmissione Ballarò. Lo scontro ha visto tra l'altro D'Alema mandare il giornalista "a farsi fottere". Sallusti ha accusato D'Alema di "moralismo" facendo poi un paragone con la cosiddetta "affittopoli" dei primi anni '90, quando alcuni politici, tra cui lo stesso D'Alema, furono criticati perché abitavano in affitto in case di enti previdenziali pagando l'equo canone. Da allora nulla è cambiato. A Milano prima il Comune, poi il Policlinico, poi il Pio Albergo Trivulzio. La battaglia di “Libero”  per portare alla luce l'Affittopoli milanese sta portando i suoi frutti. A "cedere" sulla trasparenza ha iniziato Palazzo Marino, dopo 18 giorni di campagna stampa. Sul sito web del Comune sono stati pubblicati indirizzi e intestatari degli affitti a prezzo stracciato in immobili di pregio. Quindi ha seguito l'esempio anche il Policlinico, con una lista-monstre online sul portale della Fondazione Ca' Granda. Tutti i giornali hanno dato l’elenco degli affittuari privilegiati degli immobili del Pio Albergo Trivulzio. Il caso è stato trattato anche su “Repubblica” di Milano: "Case in centro a 200 euro al mese, ecco la nuova affittopoli di Milano. Agiati professionisti tra gli inquilini del Comune, del Policlinico e del Pio Albergo Trivulzio. I canoni fino a quattro volte più bassi rispetto a quelli di mercato concessi ad amici e parenti". Un prestigioso trilocale di 150 metri quadri in corso Monforte, centro storico di Milano, si affitta tramite agenzia, quindi sul mercato dei privati, a 51mila euro l'anno: 4.250 euro al mese, spese incluse. A poche centinaia di metri da lì, 132 metri quadri con affaccio sulla Galleria Vittorio Emanuele costano all'inquilino che fa parte di un manipolo di "fortunati" poco meno di mille euro al mese. E basta fare ancora pochi passi per arrivare in corso Italia, dove 70 metri quadri costano 210 euro ogni mese. Anche se le condizioni di stabile e appartamento non sono all'altezza dell'indirizzo, il risparmio - va da sé - è notevole.

Comune di Milano, Policlinico, Pio Albergo Trivulzio: tre enti, migliaia di proprietà immobiliari in città e in provincia, un patrimonio poderoso di 3.700 tra case, negozi e locali in uso ad associazioni che, nonostante le promesse cicliche e i ciclici scandali, resta gestito, nella migliore delle ipotesi, con una buona quota di negligenza. Così si disegna una Milano a due facce: quella, maggioritaria, delle famiglie e dei single che devono riservare una grossa fetta del loro reddito all'affitto, spesa imprescindibile, anche a scapito di altre voci altrettanto necessarie. L'altra faccia è quella di una Milano del privilegio, che spesso non ha niente a che fare con il bisogno. Perché, se non è una colpa pagare un canone bassissimo rispetto a un mercato immobiliare tra i più cari d'Italia, è una colpa - degli enti pubblici - aver permesso che per decenni si stratificassero privilegi. Con il risultato che oggi tanti di quegli indirizzi in pienissimo centro sono abitati da professionisti - medici, architetti, giornalisti... - e da qualche amico e parente di. Non solo da quei bisognosi per aiutare i quali erano nati in anni lontani questi serbatoi immobiliari, ancor oggi rimpinguati da lasciti privati. I tre enti, sotto la spinta di partiti d'opposizione e giornali, hanno iniziato a pubblicare sui siti gli elenchi degli immobili. Ma è un'operazione trasparenza con qualche alone di troppo: a volte mancano le date di fine locazione, quasi sempre i nomi degli inquilini, o ancora ci sono generici raggruppamenti di immobili senza alcuna specifica economica. Fa una premessa Mario Breglia, presidente di Scenari immobiliari: "Alcuni palazzi sono malconci, gli enti non pagano le manutenzioni e quindi tocca agli inquilini anche ristrutturare". Ma i confronti sono pesanti. Il quadrilocale in via Dogana vista Duomo a 453 euro al mese, 5.400 euro all'anno? Sul mercato varrebbe cinque volte tanto. I 73 metri quadri in via Bagutta a 331 euro? Un'agenzia immobiliare chiederebbe almeno il triplo. "Il problema, però, non è quello di far pagare di più gli inquilini - argomenta Breglia -, quanto quello della mancanza di regole certe su chi ha diritto a quelle case, e sulle modalità di ricambio degli affittuari. Se un anziano padre ha la pensione minima non dovrebbe subentrargli allo stesso canone il figlio professionista. Milano ha fame di alloggi a canoni bassi per fasce sociali che, altrimenti, sono costrette a lasciare la città". In via Pellico, nel cortile alle spalle di boutique e bar famosi, c'è ancora l'84enne vedova del portinaio dello stabile. Ma nel palazzo successivo c'è anche il modello con pied-a-terre di 80 metri quadri a meno di 500 euro al mese, 5.700 euro in un anno. E in via Caminadella, viuzza chic in zona Cattolica, 177 metri quadri non arrivano a 2mila euro al mese, grazie ai contratti del Policlinico. Per comprendere come sia nata la giungla dei prezzi e dei favori è necessario andare indietro nel tempo fino alla fine degli anni Settanta quando Trivulzio, Policlinico e in parte anche il Comune affittavano le proprie case a prezzi di equo canone con bandi aperti che premiavano i bene informati. "I primi a sapere delle case in affitto erano i primari e i dirigenti dell'ospedale, ma anche i politici - racconta un anziano funzionario del Policlinico, oggi in pensione - lo dicevano agli amici, che facevano richiesta". Nulla cambia fino al 1992, quando la legge 359 introduce i "patti in deroga": ogni ente può decidere se affittare gli appartamenti che si liberano a prezzi di mercato oppure confermando l'equo canone. Trivulzio e Policlinico scelgono la seconda ipotesi per la maggior parte del patrimonio, il Comune valuta caso per caso. Palazzo Marino negli anni Novanta diversifica i nuovi contratti al punto che nello stesso stabile c'è chi paga l'equo canone, chi è "concessionario di spazi" e chi versa cifre vicine a quelle di mercato. Vicine, ma mai troppo: in via della Guastalla, zona Tribunale, 105 metri quadri costano all'inquilino 1.208 euro al mese. Per chi è già dentro le case nulla cambia invece fino al 1998, quando la legge 431 prevede che l'equo canone sia sostituito da tariffe concordate fra Comune, sindacati inquilini e associazioni dei proprietari immobiliari. Da quindici anni almeno, quando un appartamento si svuota viene messo in affitto al prezzo "libero" definito dall'agenzia del Territorio, in media tre quarti del valore corrente. "È sbagliato porre l'accento sui casi di privilegio - dice Marco Bistolfi, segretario provinciale del Sicet - la sopravvivenza del sistema dei prezzi concordati per il rinnovo dei contratti ha consentito a inquilini poveri di evitare il dramma degli sfratti". E a molti "fortunati" di risparmiare migliaia di euro all'anno. 

Dal TGCOM: Affittopoli bis, arrivata lista vip. La busta con i 1064 inquilini di appartamenti di proprietà del Pio Albergo Tribuzio di Milano, ente pubblico senza scopi di lucro, è stata consegnata al presidente della Commissione Casa e Demanio, Barbara Ciabò (Fli). "Se verrà fuori che ci sono politici - ha detto Ciabò - che hanno abusato del loro ruolo per pagare di meno penso che il loro comportamento potrà essere definito moralmente indegno. Vedremo se ci sono delle irregolarità". La lista degli inquilini del Pio Albergo Trivulzio consegnata al Comune di Milano potrebbe non essere completa: è il sospetto sollevato durante i lavori della commissione consiliare Casa. Ad avanzare il dubbio è Barbara Ciabò. "Sembra che manchino 150 immobili - ha attaccato la consigliera futurista - se questo sospetto trovasse fondamento sarebbe gravissimo: un vero affronto al consiglio comunale di Milano". Ad alimentare i sospetti è stato anche Vincenzo Giudice, esponente del Pdl e dipendente del Pat: nell'elenco mancherebbero gli immobili di via Sottocorno e di via Menotti. Una chiave del giallo potrebbe essere legata al fatto che in questi anni i beni non presenti nell'elenco potrebbero essere stati venduti. Ed è proprio sul piano delle dismissioni immobiliari che il Pd è pronto a dar battaglia.

C'è Braida del Milan e un Montezemolo. C'è anche il direttore generale del Milan, Ariedo Braida, tra gli inquilini delle case di proprietà del Pio Albergo Trivulzio. Il suo nome figura infatti nella lista. Il dirigente rossonero vive infatti in piazza del Carmine, nel quartiere Brera, dove ha un contratto dal 1 aprile dello scorso anno: 17.300 euro il canone annuo, più 1.244 di spese per una casa di 84,59 metri quadrati. Tra gli altri nomi spicca anche un Cordero di Montezemolo, il cui nome è però stranamente soltanto puntato con una 'D'. Il soggetto dall'illustre cognome è intestatario dal 29 giugno scorso di un ufficio in piazza Mirabello di 43 metri, per cui paga un canone di 9.100 euro più 1.800 di spese.

Spunta la poliziotta del caso Ruby. Si trova, spulciando l'elenco, anche il dirigente della Sezione criminalità organizzata della Squadra mobile di Milano, impegnata nell'inchiesta sul caso Ruby, Maria José Falcicchia. Il nome della Falcicchia è legato a un'abitazione di 75 metri quadrati in via San Marco 20 angolo via Montebello 7, vicinissimo alla Questura, per il quale è previsto un canone di 11.262 euro più 980 di spese. Il contratto risale al 13 gennaio 2011. Tra gli altri nomi si nota anche Martino Pillitteri, figlio dell'ex sindaco Paolo e cugino dell'attuale assessore ai servizi civici del Comune.

A Carla Fracci un appartamento in via della Spiga. Il nome di Carla Fracci, maestra della danza classica, compare nella lista degli affittuari del Pio Albergo Trivulzio di Milano. La Fracci abita in via dell Spiga 5, nel cuore del quadrilatero della moda, in un appartamento di circa 187 metri quadrati per un affitto di 45.593 euro, più 6.148 euro di spese.

Pisapia: "Fango contro di me". "C'è stato un vortice di telefonate anonime, nel puro stile della macchina del fango. Il fatto è semplice: la mia compagna abita da molti anni, da prima che noi ci conoscessimo, in un appartamento di proprietà di un ente pubblico. Lei non è candidata a niente, è un privato cittadino, è semplicemente una donna che lavora. Paga il regolare affitto che è previsto". Così sul suo blog personale, Giuliano Pisapia, candidato del centrosinistra alla poltrona di sindaco di Milano, spiega l'affaire 'affittopoli' che coinvolgerebbe la compagna e giornalista Cinzia Sasso. Cinzia Sasso, storica penna proprio di Repubblica Milano. L'ipotesi è che la Sasso abbia avuto in locazione dal 1989 una casa del Pio Albergo Trivulzio a prezzi scontati. "Non è un reato, abitare in una casa di proprietà di un ente pubblico. Mentre certo è un problema l'incapacità degli enti che dispongono di un patrimonio immobiliare di gestire al meglio le proprie disponibilità - scrive Pisapia.

Sul punto si riporta la testimonianza di Filippo Facci, vero Giornalista e memoria storica degli eventi italiani e milanesi in particolare. "Anzitutto c’è un conflitto d’interessi, perché sono amico personale di Giuliano Pisapia. Tutto pensavo, inoltre, tranne che l’appartamento in cui vive la simpatica collega Cinzia Sasso, compagna di Pisapia, potesse interessare ancora a qualcuno, visto che me ne occupai la bellezza di 17 anni fa e che ne scrissi addirittura in un paio libri: nel 1994 e nel 1997. Quello che posso fare, ora, è rinfrescare la memoria circa un paio di episodi che nessuno ricorda, forse neppure Cinzia Sasso. La giornalista ha scritto una lettera al Corriere della Sera in cui diceva: «Sono la compagna di Giuliano Pisapia e abito in un appartamento di proprietà del Pat... siccome ho visto che alcuni nomi - ma non il mio - sono stati pubblicati, preferisco violare la mia privacy per raccontarti i fatti miei. Vivo da 22 anni in quell’appartamento... Dal 2008 il mio contratto è scaduto; nel frattempo ho trovato un’altra casa e ho mandato al Pat una lettera di disdetta del contratto di affitto».  Probabile che Cinzia Sasso, mentre scriveva, fosse già stata contattata dal collega di Libero Edoardo Cavadini, a cui aveva detto: «Ero appena arrivata a Milano da Venezia e non avevo ancora conosciuto Giuliano, stavo con il mio ex marito. Con lui ho affittato la casa, ma sinceramente non ricordo come siamo entrati in contatto con il Pio Albergo Trivulzio, è passato troppo tempo». Ecco, su questo posso soccorrerla. A pagina 149 del mio libro-intervista a Paolo Pillitteri «Io li conoscevo bene» (roba del 1994) l’ex sindaco di Milano racconta questo: «Si immagini una mattina di primavera, oltre il Castello Sforzesco, vicino alla Triennale. Io me ne pedalavo in bicicletta per parchi e viali. Incontriamo una giovane coppia con un neonato in braccio, mi fermano: saluti, complimenti, soliti commentini e confidenze». Lei è Cinzia Sasso di Repubblica, lui è Giovanni Cerruti de La Stampa. Continua Pillitteri: «Poi un attimo di serietà e, come spesso mi capitava, una richiesta: il nucleo familiare ha bisogno di un nido, una casa, “tu che puoi, tu che sei il sindaco, tu che ci sei amico”: un classico. Il lunedì successivo cerco il presidente del Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa, e gli chiedo se sia possibile assecondare la famigliola. Io, data l’urgenza, insisto. Ma non è che scossi troppo il pragmatico Chiesa, visto che la settimana dopo si fece viva per una risposta la mammina giornalista. In breve: risollecito Chiesa in modo pressante, quasi gli do un ordine: finché dopo qualche giorno m’informa che il tetto è stato trovato. I due, informati, ringraziano sentitamente, non tanto me ma un mio funzionario». Poi, però, arriva Mani pulite. «Le confesso che non mi sarei mai aspettato», concludeva Pillitteri, «di dover leggere nelle cronache dei loro giornali invettive feroci contro i clientelismi socialisti, questi craxiani “che avevano dato le case ai loro amici”. Sono rimasto senza parole». L’ex sindaco di Milano probabilmente si riferiva anche a quanto avrei annotato in un secondo libro, «Di Pietro, biografia non autorizzata» (1997): cioè che Cinzia Sasso, assieme a Giuseppe Turani, non ebbe problemi a pubblicare «I saccheggiatori. Facevano i politici ma erano dei ladri» (Sperling&Kupfer, 1992) e cioè un libro concentrato soprattutto sul sistema messo in piedi da Mario Chiesa, presidente del pio Albergo Trivulzio: un libro che fu scritto nell’appartamento che Mario Chiesa aveva procurato. Ciascuno sopravvive come può. Se faccio spallucce, ora, è perché ai tempi, quando scrissi il libro-intervista con  Pillitteri, rivelai ben altri affitti di favore: ma non successe assolutamente nulla. Tra questi un equo canone ad Antonio Di Pietro (vicenda che sarebbe esplosa un paio d’anni dopo) e un altro a Giulio Catelani, allora procuratore generale a Milano. Non accadde nulla, perciò,  neanche per il caso più trascurabile di Cinzia Sasso, tanto che la giornalista restò nell'appartamento e rinnovò il contratto nel 1999, come lei stessa ha raccontato. Non averlo disdetto con largo anticipo, rispetto alla candidatura a sindaco del suo attuale compagno, Giuliano Pisapia, è l’ingenuo errore che le si può addebitare." 

Bossi è la Lega e la Lega è Bossi, secondo Facco, nonostante la malattia abbia ridotto il senatùr all'ombra di quel personaggio movimentista del passato recente. Per dimostrarlo, l'autore racconta fatti, episodi, ricordi personali, con tanto di documentazione (sono quasi 400 le note bibliografiche). «Bossi», sostiene l'autore, «è il responsabile principale della trasformazione della Lega in un soggetto politico partitocratico, dove agli scandali si uniscono le truffe perpetrate ai danni, in primis, dei militanti e simpatizzanti. I crac delle Cooperative Padane, del Villaggio in Croazia e della banca padana rappresentano l'epitome del modo di fare politica del "lumbard", circondato da sempre di yes-men (and women) in carriera». Nel libro ci sono diversi fatti inediti, mai conosciuti e-o raccontati: dalla strana busta paga del figlio primogenito a spese dei militanti ignari, fino alla famosa questione della militanza comunista del giovane Umberto: da lui sempre negata, ma ora provata da un documento scoperto in una vecchia sezione del Pci. E poi si va dai tempi in cui elogiava "Mani pulite" alla sequela di condanne penali incassate dai leghisti odierni. Un capitolo, infine, è dedicato alla vita privata di Bossi che «ama la famiglia tradizionale» ma, secondo l'inchiesta di Facco, non sembra negarsi svaghi al di fuori di essa. «E' un'inchiesta che dovevo a me stesso perché ho un passato da leghista, ho creduto in questo movimento e sono stato anche sul Po, alla metà degli anni '90», dice l'autore. «Era giusto scrivere questo libro adesso, in cui la Lega si sente particolarmente forte e pensa di fare il pieno di voti.

Bisogna che tutti gli elettori sappiano chi è il padrone del partito che pensano di votare: un cialtrone, né più né meno».

Ma non è tutto. Due pentiti scrivono la storia di Carrocciopoli, così come ripreso da Alessandro Da Rod sul Riformista.

Due libri coinvolgono i due alti esponenti del partito. Il già titolare della Semplificazione è accusato di furto ai danni della Lega emiliana nel periodo caldo delle cooperative padane. Il già Ministro della Giustizia e viceministro delle Infrastrutture invece sarebbe il candidato “Gamma” favorito dalla malavita calabrese.

Due pentiti. Due libri. Un camion di letame sulla Lega Nord di Umberto Bossi. Non c’è dubbio che giovedì 2 dicembre del 2010 non passerà alla storia del Carroccio come una giornata qualunque. Perché presentare nello stesso giorno due libri come Umberto Magno, l’imperatore della Padania di Leonardo Facco e Metastasi di Gianluigi Nuzzi e Claudio Antonelli, significa scoperchiare l’intero vaso di Pandora di via Bellerio, svelando ciò che il Carroccio ha sempre cercato di nascondere: problemi interni, finanziamenti ai figli di Umberto Bossi, intercettazioni scomode e quant’altro. Il primo è il più pesante. Facco, leghista della prima ora, ex giornalista della Padania, ha riportato in 480 pagine tutta la vita del Senatùr, raccontandone misfatti, debolezze sessuali e di potere. Nel secondo i due cronisti di Libero, non hanno incentrato il loro libro sui rapporti tra la ’ndrangheta e la Lega Nord, ma hanno comunque inserito in un capitolo una storia scomoda per i leghisti. Quella di “Gamma”, leghista di Lecco che ha iniziato a fare carriera nel suo feudo grazie anche all’aiuto dei voti della malavita organizzata. Ex ministro della Giustizia, dirigente di una certa importanza, nessuno ha osato dire il suo nome, ma l’unico che ha alzato la voce per replicare alle illazioni è stato Roberto Castelli, viceministro alle Infrastrutture. Negli ambienti del Carroccio, si vocifera che ci sia una cosa che accomuna i due libri in uscita in questi giorni nelle librerie. Entrambi, in un modo o nell’altro, vanno a colpire, oltre al Senatùr, i due esponenti che in questi mesi hanno perso più posizioni di potere all’interno del partito. Da un lato Castelli, dall’altra Roberto Calderoli, ministro per la Semplificazione. È utile ricordare che il leghista lecchese fu l’unico questa estate a rilasciare un’intervista al Giornale in cui raccontava pubblicamente dei problemi interni al partito. Come allo stesso tempo accadde a Calderoli, finito sulla graticola per l’affare Brancher, il ministro breve del Federalismo, anche lui comparso su svariati quotidiani per difendersi dalle bordate che gli arrivavano dagli uffici di via Bellerio.

Sarà un caso, ma in mesi così difficili per la Lega Nord, tra cerchi magici, colonnelli, varesini e veneti, nel libro di Facco ci si sarebbe potuto aspettare qualcosa di più sul potente ministro dell’Interno Roberto Maroni. In realtà c’è ben poco, se non un richiamo al caso Antonveneta, passando per spedizione in Serbia e la storia dei finanziamenti alla sua portavoce Isabella Votino. Quisquilie se messe in relazione ai file alla Wikileaks che riguardano Castelli e Calderoli. Perché se il primo viene di fatto associato alla malavita organizzata dal pentito Giuseppe Di Bella, sul secondo vengono persino pubblicati i documenti che testimonierebbero un presunto furto ai danni della Lega emiliana nel periodo caldo delle cooperative padane. Partiamo dal ministro per la Semplificazione. A pagina 311 di Umberto Magno, Sacco racconta la storia delle “Coop made in Padania Scrl” creatura bossiana organizzata per finanziare il partito, finita in disgrazia quasi come Credieuronord. Presidente delle Coop in un primo momento era proprio Calderoli. E attraverso le parole di Mario Morelli, ex consigliere di amministrazione della catena di supermercati, Facco ripercorre tutti i disastri dei calderoliani, tra dentifrici in esubero, immobili pagati uno sproposito, flop economici e conti lasciati in sospeso. «Bossi, Calderoli e altri padani - si legge nel libro - pensavano che un pizzico di coraggio, un tantino d’inventiva, un po’ di voglia di fare mischiata all’improvvisazione fossero elementi sufficienti per il successo». In realtà la vicenda, oltre ad avere tratti grotteschi, tra cui quello di 24 milioni di buste di deodorante con il sole della alpi rimaste invendute, finì molto male. Morelli, infatti, a cui fu data la presidenza dopo l’addio di Calderoli nel 1999, si ritrovò di fronte in poco tempo un debito di circa un miliardo di lire e un’azienda sull’orlo del fallimento. «Una mattina - racconta Morelli - Calderoli mi convocò nel suo ufficio chiedendomi di sostituirlo in quell’incarico. Motivò la sua richiesta col fatto che questo incarico incideva negativamente sul rapporto politico che aveva con Bossi». Del resto, quando Morelli parlò della situazione al Senatùr, Bossi non la prese affatto bene. «Mi rispose con parole di fuoco - ricorda Morelli - indirizzate contro il mio predecessore Calderoli: tuoni, fulmini e saette». Non solo. Il caso scottante è che al fallimento delle Coop è conseguita la protesta di chi quei soldi li aveva versati nelle tasche di Calderoli. Emblematica la lettera di Genesio Ferrari, ex segretario della Lega emiliana che chiede indietro i dieci milioni di lire versati anche grazie all’aiuto dei militanti: «Il tutto si è risolto in una bolla di sapone». Quanto a Castelli, si è già scritto molto. Ma il dato è comunque pesante, perché nel ’90 ci fu il boom di voti per i leghisti. Il pentito Di Bella, vicino al boss della 'ndrangheta, Coco Trovato, racconta a Nuzzi e Antonelli che la parola d’ordine tra le ’ndrine di Lecco era votare “Lega”: Gamma era il loro uomo di riferimento.

TANGENTI E MASSONERIA.

Sono Pietro Palau Giovannetti, presidente del Movimento per la Giustizia Robin Hood e della rete "Avvocati senza Frontiere", nonché direttore responsabile del giornale on line www.lavocedirobinhood.it, Enti no profit che dirigo da oltre 25 anni, battendomi in prima persona per l'affermazione del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e una giustizia pulita libera da mafie, partiti, logge massoniche e corruzione. Mi permetto di richiedere la solidarietà di tutti gli spiriti liberi e le persone oneste, perché tra qualche giorno sarò tratto ingiustamente in arresto, senza aver mai commesso alcun reato, se non quello che non può certo considerarsi tale, di aver denunciato, sin dai tempi di "mani pulite", la dilagante corruzione politico-giudiziaria e gli abusi nei confronti dei soggetti più deboli che non hanno mezzi o stuoli di avvocati prezzolati, in grado di condizionare le istituzioni, ostacolando il regolare corso della Giustizia. Se nei prossimi giorni il P.G. di Brescia riterrà di arrestarmi, sono pronto ad andare in carcere a testa alta, perché credo in una Legge molto più grande di quella umana, controllata da logiche perverse e dalle varie mafie che soffocano la legalità. Sono intimamente convinto che in uno «Stato-mafia», come quello in cui viviamo che imprigiona ingiustamente i deboli e lascia deliberatamente impuniti colletti bianchi, criminali politici e mafiosi, "anche una prigione sia un luogo adatto per un uomo giusto", come affermava Henry David Thoreau, grande pensatore del Rinascimento americano, il quale nel saggio "Disobbedienza civile", sosteneva tra l'altro che è ammissibile non rispettare le leggi quando esse vanno contro la coscienza e i diritti dell'uomo, ispirando cosi i primi movimenti di protesta e resistenza non violenta. A fronte del mio incessante impegno civile e lotta alla "massomafia", ho subito oltre 750 procedimenti penali, di cui ben 114 solo in Cassazione, con le accuse più disparate per pseudoreati di natura ideologica, scaturenti dalle mie stesse denunce, ritenute assurdamente "corpi di reato", o dagli articoli pubblicati sui siti web dell'Associazione. Procedimenti da cui sono sempre stato per lo più assolto, per manifesta infondatezza delle notizie di reato. Ma ciò nonostante, dal 1986, sono stato fatto continuamente oggetto di rinvii a giudizio e addirittura di ripetute richieste di perizie psichiatriche, come in uso nelle dittature dei Paesi dell'Est, costringendomi a difendermi, senza sosta, in ogni sede, per gran parte della mia vita. Solo attraverso una ferrea difesa e la mia fede nella vera Giustizia sono riuscito a contrastare questa impressionante mole di attività persecutorie che non trovano precedenti nella storia del diritto internazionale, anche tenuto conto dell'enorme dispendio di risorse pubbliche impiegate per l'istruzione di svariate migliaia di udienze e centinaia di procedimenti penali, privi di qualsiasi consistenza, rilevanza e interesse sociale. Per l'abnormità delle procedure adottate il mio caso richiama quello del pacifista nonviolento, Danilo Dolci, che dagli anni '50, in Sicilia, dedicò la sua vita alla causa degli ultimi, lottando per l'emancipazione dalla povertà e dall'ignoranza, venendo, come me, ingiustamente arrestato e condannato per reati di opinione dalla magistratura di regime dell'epoca, tutt'oggi, purtroppo, ancora, asservita agli interessi della politica e della "massomafia", cioè di quel regime occulto trasversale ai partiti che da oltre 150 anni governa il Paese. La sua condanna venne infatti scandalosamente confermata dalla Suprema Corte di Cassazione, seppure in sua difesa avessero testimoniato Premi Nobel ed intellettuali di fama mondiale del calibro di Carlo Levi, Erich Fromm, Norberto Bobbio, Elio Vittorini, Lucio Lombardo Radice, Padre David Turoldo, Don Zeno, etc., e l'arringa fosse stata pronunciata da Piero Calamandrei, tra i padri fondatori della nostra amata Costituzione. Oggi anch'io rischio il carcere, stante la definitività di alcune inique condanne per oltre 5 anni di reclusione, confermate dalla Cassazione per reati di pretesa "diffamazione, calunnia, oltraggio, resistenza", nei confronti di magistrati, avvocati e altri infedeli rappresentanti delle istituzioni, seppure, come riconosciuto dallo stesso Tribunale di Sorveglianza - che qui cito testualmente - i cosiddetti "precedenti penali" a me ascritti: "concernono sostanzialmente situazioni e contesti legati ad iniziative sociali quali quelle patrocinate dal Movimento per la Giustizia Robin Hood". Ma ciò nonostante mi vogliono mandare in galera dopo avermi perseguitato per oltre un quarto di secolo, neanche rappresentassi un pericolo pubblico! Le condanne inflittemi non colpiscono infatti un pericoloso delinquente, bensì un Human Rights Defender che, da oltre 25 anni, si adopera a tutela della legalità, denunciando gli abusi del potere e l'impunità di cui godono gli affiliati ai vari comitati d'affari e logge massoniche, che hanno occupato lo Stato, soffocando la democrazia, attraverso il controllo capillare delle istituzioni, dell'economia, dei media e della cultura, garantendosi in tal modo il «controllo sociale» e una forma di governo parallelo, che Ernst Fraenkel denominò "Doppio Stato". Cioè, la compresenza nell'assetto statuario di "normatività" e "discrezionalità", dove a fianco di un sistema apparentemente democratico, convive un ordine perverso, che applica, come ai tempi della Germania nazista, la discrezionalità sistematica nell'applicazione e nel rispetto delle leggi, allo scopo di intimidire, reprimere e sopprimere ogni forma di dissenso, perpetuando proprio grazie a questa autoreferenziale contraddizione di sistema, l'organizzazione del consenso e il dominio sui governati, dove le istituzioni sono invase da politici, pubblici amministratori e magistrati corrotti, in simbiosi con banchieri, massoni e mafiosi, mentre una parte sana ma minoritaria e priva di mezzi dello Stato e della Società civile, cerca di contrastarli, a rischio della propria stessa vita o di venire delegittimati, come fu per Falcone, Borsellino, Cordova, De Magistris, Ingroia e tanti altri fedeli servitori dello Stato. A riguardo, sin dagli anni '80, ho infatti inascoltatamente segnalato, anche con grandi manifesti, che la mafia aveva messo le mani sulla città, denunciando l'imperversante speculazione edilizia e gli abusi ambientali nei quartieri metropolitani milanesi, da parte dei vari comitati d'affari che, già da allora, all'ombra di illecite protezioni, spadroneggiavano impunemente, controllando il territorio e i gangli vitali delle istituzioni, attraverso quella che i P.M. di "mani pulite" definirono come "corruzione ambientale", senza poi però riuscire ad andare sino in fondo. Denunce, occorre ricordare, che hanno permesso alla Procura di Milano di portare alla luce massicci episodi di corruzione nella Guardia di Finanza e nella stessa magistratura, portando all'arresto, tra gli altri, del Generale Giuseppe Cerciello, e dell'allora insospettato Presidente del Tribunale di Milano, Diego Curtò, entrambi da me denunciati, sin dal 1989, venendo io, però, dapprima, incriminato per diffamazione e calunnia, nonché preso per "visionario", fino al loro arresto e alla definitiva condanna degli stessi per fatti di corruzione (quest'ultimo, come molti ricorderanno, in relazione alla megatangente Enimont e al lodo Mondadori). Il Movimento per la Giustizia Robin Hood, spezzando in parte l'azione ostruzionistica nei suoi confronti, ottenne poi il riconoscimento quale Onlus nella sezione civile del Registro del Volontariato della Regione Lombardia, con effetto retroattivo dal 1998, in forza di due sentenze del T.A.R., di cui una per obblighi di fare. Nonostante l'alto valore sociale di tali attività, come riconosciuto dallo stesso Tribunale di Sorveglianza, lo scorso 15/1/13, i giudici bresciani che avevano precedentemente sospeso il processo, rinviandolo a nuovo ruolo, in attesa dell'esito dei giudizi pendenti in Cassazione per incidente di esecuzione e avanti la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - che se accolti comportano la revisione automatica del processo "non equo" -, hanno invece cambiato indirizzo, riservandosi sulla revoca del mio affidamento ai Servizi Sociali, cosa che implicherà nei prossimi giorni l'obbligo di arresto per scontare una pena residua di 2 anni, 8 mesi, 17 giorni, dopo aver già espiato anni 1, mesi 5 e giorni 7 di reclusione, oltre ad 1 anno di Libertà controllata, neanche fossi un mafioso o un criminale, per un totale di ben oltre 5 anni di carcerazione! Taluni media falsamente garantisti quando si tratta di coprire i potenti, sicuramente cercheranno di gettare altro fango, insinuando ogni sorta di dubbio e calunnia nei miei confronti, a partire da il Giornale di Sallusti, che ho già avuto modo di denunciare per il contenuto diffamatorio dell'articolo: "Il nuovo eroe antipremier? E' in realtà un bancarottiere condannato per calunnia", articolo apparso in data 14/5/11, in occasione del processo Mills e del mio fermo illegale avanti al Tribunale di Milano, ad opera della Digos, che molti forse ricorderanno, avendo destato anche presso la stampa estera, notevole indignazione e scalpore per le modalità brutali e la manifesta ingiustizia. Voglio quindi si sappia che, al di là delle calunnie della stampa di regime, non ho mai subito alcuna definitiva condanna per reati societari come il padrone di Sallusti e che l'unica vera ragione dell'accanimento di settori deviati della magistratura nei miei confronti, risiede nel fatto che ho denunciato, per primo, l'esistenza di poteri esterni allo Stato, ovvero di un «Regime occulto», in grado di condizionare l'intero arco parlamentare, media, forze dell'ordine e organi giurisdizionali, sino alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, mettendo in luce il ruolo di subalternità delle mafie agli apparati dell'alta finanza e dello Stato e, quel che, sicuramente, più disturba, alla Massoneria internazionale, secondo la stessa prospettiva investigativa di Giovanni Falcone, che partendo dalle rivelazioni di Tommaso Buscetta aveva capito, sin dal 1984, come la Massoneria rappresenti il «collante» dei vari poteri criminali con la politica, le istituzioni e i servizi segreti. Non credo perciò di meritare di andare in carcere per le mie denunce, come non lo meritava neppure Sallusti, seppure coltivasse ragioni diametralmente opposte alle mie, perché in un Paese veramente libero nessuno può venire incarcerato per le proprie idee. Grazie di cuore per la Vs. attenzione e per il Vs. sostegno nelle forme che più riterrete opportune.

Pietro Palau Giovanetti secondo “Il Giornale”. E meno male che Sallusti sa cosa vuol dire essere perseguito per reato di opinione. Le urla, «vergogna, vergogna», gli spintoni, la polizia che arriva e trascina via il contestatore: il tutto sotto gli obiettivi delle telecamere, che documentano in diretta l'ennesimo caso di repressione del dissenso. La scena accade davanti al tribunale di Milano, blindato dale forze dell'ordine per la nuova udienza a carico di Silvio Berlusconi. Protagonista della protesta solitaria, racconteranno le cronache e le telecronache, un avvocato: un professionista indignato per le malefatte del capo del governo, e deciso a manifestare il suo sostegno a Ilda Boccassini e ai suoi colleghi. Ma alle 15.36 di ieri pomeriggio un comunicato dell'Ordine degli avvocati milanesi costringe a rivedere la faccenda: «A seguito dei recenti fatti di cronaca divulgati in data 9 maggio 2011 in relazione allo svolgimento del processo Mills, in occasione del quale si è riferito di un contestatore, Pietro Palau Giovannetti, indicato dalla stampa come avvocato, si comunica che tale Pietro Palau Giovannetti non risulta iscritto negli elenchi professionali tenuti dal consiglio dell'Ordine degli avvocati di Milano». E quindi? Se non è un avvocato, come hanno scritto i giornali, chi è il signore alto e robusto che i carabinieri hanno trascinato via mentre urlava «vergognatevi buffoni» ai militanti del Pdl in attesa di Berlusconi sotto il tribunale? L'aspirante icona della sinistra (emulo di Pietro Ricca, che nel 2003 urlò «buffone» a Berlusconi in tribunale e su questo costruì una carriera) è in realtà un personaggio di cui le cronache giudiziarie si sono dovute occupare in più di un'occasione. Titolare di una piccola azienda di auto d'epoca, la Classic Cars, Palau finisce gambe all'aria all'inizio degli anni Novanta e viene inquisito per bancarotta fraudolenta. A quel punto si trasforma in un implacabile accusatore della magistratura che - a suo dire - lo avrebbe ingiustamente inquisito. Attraverso l'associazione «Robin Hood» di cui è presidente, segretario e unico militante lancia la sua crociata contro le malefatte dei giudici. Se la prende in particolare con il procuratore Francesco Saverio Borrelli, che accusa di malefatte di ogni genere: querelato dal capo di Mani Pulite, Palau viene condannato per calunnia. Ma non si arrende, anzi. E qui la faccenda si fa interessante. Il nome di Palau Giovannetti viene infatti citato in una intervista al Corriere, nel maggio 1997, dal pm Piercamillo Davigo. Si parla del misterioso «dossier Achille», un documento attribuito al Sisde in cui si ipotizzavano tra l'altro infiltrazioni ebraiche e massoniche nel pool Mani Pulite. Ed ecco cosa dice Davigo: «Per carità, io posso fare solo un'ipotesi. L'unica cosa che mi viene in mente è la valanga di denunce presentate da Pietro Palau Giovannetti... La conosce la sua storia? Quel signore abitava in uno stabile di un immobiliarista milanese, Virginio Battanta. Ricevuto lo sfratto, Palau lo ha denunciato. Poi, quando è finito sotto inchiesta per due fallimenti, ha cominciato a presentare esposti a Brescia contro i pm di Milano che, a suo dire, non avrebbero indagato. Di lì è nato un groviglio di inchieste a catena, con decine o forse centinaia di denunce incrociate, penso che ora se ne occupi Trento ma non escludo che prima o poi, passando da una Procura all'altra, finisca tutto a Trieste. Ecco, ricordo che una delle tante denunce di Palau fu indirizzata al procuratore Cordova (all'epoca procuratore di Palmi), che all'epoca era titolare della maxi-inchiesta sulle logge coperte. Che io ricordi, quella è l'unica denuncia che abbia mai ipotizzato infiltrazioni giudaico-massoniche, espressione forse usata in senso generico, approssimativo, tra i magistrati di questa Procura». Sono passati quattordici anni. E lunedì scorso il bancarottiere che allora accusava la Procura milanese di essere un covo di massoni riemerge all'improvviso, trasformandosi in «avvocato» e incarnando per mezza giornata la nuova icona del popolo filo-giudici.

FILIPPO FACCI: UN TESTIMONE DI MANI PULITE.

Tutti si definiscono giornalisti, pochi lo sono veramente. Testimonianza “Per fatto personale”, scritta da Filippo Facci. "Alla fine del mio «Di Pietro, la storia vera» c’è un fuori-capitolo che racchiude alcune peripezie personali che ho sempre omesso di raccontare.  Non farlo neppure stavolta sarebbe stata reticenza."

Avevo ventiquattro anni e volevo fare il giornalista. Nel gennaio 1991 vantavo già tre o quattro querele e fu allora che incontrai Antonio Di Pietro per la prima volta. Avevo cominciato presto, e dal giornaletto in cui spadroneggiavo, a Monza, approdai a delle collaborazioni con «l’Unità» e con «la Repubblica». Tuttavia le querele giungevano scientificamente solo al giornaletto che mi dava da vivere e che perciò dovetti lasciare.

Di Pietro lo conobbi appunto per una querela: era in toga e me l’indicarono; gli rivolsi un saluto formale che lui non ricambiò. Non gl’importava nulla di quella causa, lo si capiva. Sembrava mestamente annoiato dalle sciocchezze e dalle querele di me giornalistucolo, e quella sua burocratica indolenza non me la sarei più schiodata dalla mente. La querela non ebbe seguito.

Finito il militare, i miei contatti con «l’Unità» e con «la Repubblica» erano saltati. Mi ero sposato l’anno prima, a ventitré anni, ed ero disoccupato: l’unico contatto che riuscii a procurarmi fu con la redazione milanese dell’«Avanti!», dove per un paio d’anni avrei lavorato da abusivo. A me importava solo di fare il giornalista.

Mi diedi da fare. Di Pietro lo rividi nel dicembre 1991 quando mi mandarono a intervistarlo con la testuale premessa che era «amico nostro». L’incontrai di nuovo seguendo Mani pulite: l’«Avanti!» era ritenuto il giornale dei ladri e lo chiamavano «la gazzetta degli avvocati», e tra una diffidenza e l’altra i nervi di una mia collega avevano cominciato a cedere; avevano mandato avanti me perché secondo il mio caporedattore ero un «cane sciolto».

Ma un cronista dell’«Avanti!», al tempo, aveva poche alternative tra l’essere considerato un cane sciolto o l’essere considerato un cane. Ricordo quando entrai nella sala stampa del palazzo di giustizia e tutti uscirono, come capitò anche a un cronista del «Secolo d’Italia». Ricordo quando davanti a una clinica privata, dove un famoso finanziere era agli arresti ospedalieri, il gruppetto dei cronisti cambiava marciapiede a seconda della mia posizione. Quando mi capitò di pubblicare dei verbali d’interrogatorio che guastarono i piani di chi scriveva in pool, poi, un collega mi disse a brutto muso che secondo lui i miei verbali erano falsi. Un altro cronista mise in relazione la fuga notturna di un dirigente socialista con una mia possibile spiata. Lo scrisse pure.

In tutto questo la situazione si era fatta ancora più complicata perché la sede romana dell’«Avanti!» vedeva nella redazione milanese un avamposto craxiano – ciò che era – e man mano che decresceva il potere di Craxi cresceva anche il tentativo di isolarci e di toglierci peso. Io formalmente neppure esistevo: non avrei potuto neanche stare in redazione; il direttore di allora, su cui non esprimo un’opinione perché non ho l’immunità parlamentare, si chiamava Roberto Villetti e ogni tanto telefonava da Roma per sincerarsi che io fossi rimasto a casa o scrivessi comunque da fuori, quando invece in redazione praticamente ci dormivo. A un certo punto, in un periodo in cui peraltro non arrivava più una lira perché le tangenti erano finite – questo l’avrei appreso poi – Villetti prese a togliermi anche la firma dagli articoli: ma neppure sempre, a giorni alterni, quando capitava. Pensai di aggirare l’ostacolo ricorrendo alla doppia firma col mio caporedattore milanese, Stefano Carluccio, un amico: ma a un certo punto il direttore risolse togliendo solo la mia firma e lasciando quella di Carluccio sotto articoli che però avevo scritto io.

Nell’insieme: lavoravo da abusivo per il giornale dei ladri, ero disprezzato dai colleghi e da chiunque in quel periodo sapesse dove scrivevo, completamente gratis, in teoria non potevo neppure entrare in redazione e sotto i miei articoli c’era la firma di un altro. Però c’era la salute.

Continuai a seguire Di Pietro e Mani pulite anche quando l’atmosfera si fece ancora più elettrica e quando due persone che conoscevo, inquisite, si suicidarono. Scrivere sull’«Avanti!» certo mi forzava a guardare le cose da un punto di vista speculare, ma probabilmente c’entrava anche il mio carattere e un’età in cui avevo davvero poco da perdere. In ogni caso il clima che ribolliva nel paese non mi piaceva. Mi venne naturale raccogliere del materiale su cui lavorare: di giorno, quindi, seguivo la cronaca, e la sera ci ragionavo, approfondivo, scrivevo, ne discutevo sino a tarda notte.

Continuai a occuparmi di Di Pietro anche quando l’«Avanti!» chiuse i battenti e rimasi a spasso. Era la fine del 1992. Fu un brutto colpo, soprattutto perché ormai ero catturato dagli avvenimenti. La redazione era chiusa ma spesso ci dormivo dentro perché a casa c’era qualche problema. Presi a indagare, feci domande in giro, raccolsi ritagli di giornale. Un paese intero invocava manette e io intanto fingevo di fare il giornalista come di consueto: assumevo informazioni, le ordinavo, le assemblavo, ne parlavo: solo che, il giorno dopo, non usciva nessun mio articolo. Mi limitavo a ingrassare e limare un mio libro impossibile, una sorta di rivisitazione della carriera di Di Pietro e della sua inchiesta devastante. Non avevo nient’altro da fare, né di nient’altro m’importava.

Era il periodo dei governi che non riuscivano a governare, l’anno delle bombe a Milano e a Roma, delle speculazioni internazionali: l’atmosfera da torbido complotto era illuminata solo dalla mirabolante traiettoria di Antonio Di Pietro. Un sondaggio, tra «abbastanza», «molta» e «moltissima», gli attribuiva il 90 per cento della fiducia degli italiani. Neppure certi suicidi eccellenti avevano scosso l’opinione pubblica: il 60 per cento degli italiani riteneva che l’uso della carcerazione preventiva andasse bene così. Neppure quel clima da carboneria e la mia vocazione di bastiancontrario mi divertivano più: ero pur sempre un ragazzo di ventisei anni che voleva fare il giornalista. Cercai di defilarmi.

Scrivevo. Il libro era ormai denso e particolareggiato sino alla paranoia, quasi quattrocento pagine che ingenuamente e nelle maniere più improbabili tentai di proporre a qualche casa editrice. Non interessò a nessuno perché ero un perfetto sconosciuto, ma nondimeno perché era il periodo che era. Sulla copertina di «tv Sorrisi e Canzoni » l’icona del magistrato più amato dagli italiani troneggiava su un titolo cubitale: Di Pietro facci sognare.

Conobbi Bettino Craxi semplicemente telefonandogli: fu poco prima che quasi lo linciassero all’Hotel Raphaël, all’inizio del 1993. Non dirò nulla di lui. Conobbi altre persone tra le più care, in quel periodo: uomini e ragazzi che difendevano storie che non erano le loro, e che dicevano follie che un giorno sarebbero state ovvie. L’effervescenza di Mani pulite mi disvelò codardie raggelanti e dignità insospettabili.

Il mondo delle persone normali, a poco a poco, mi perse. Sfumarono amicizie e affetti, il matrimonio era ormai consunto, mio padre intanto leggeva il forcaiolo «Indipendente» di Vittorio Feltri. Poi, un giorno di aprile, mi telefonò un personaggio di una fantomatica casa editrice straniera, uno che diceva di aver saputo del mio dattiloscritto da qualche collega di Palazzo Marino, la sede del Comune di Milano. Si disse interessato. Ci vedemmo due volte in un bar del centro e nel secondo incontro mi mostrò anche un libro pubblicato da questa casa editrice straniera, la Marshall di Dublino. Nel trattenere una copia del mio lavoro mi disse che uno scritto come il mio in Italia non sarebbe mai stato pubblicato, e con mio sbigottimento mi diede una busta che – verificai poi – conteneva 4 milioni in contanti. Gli lasciai anche due mie foto. Una, lo feci per scherzare, mi ritraeva che avevo circa un anno.

A metà luglio il settimanale «Il Sabato» pubblicò un dossier che conteneva tutta una serie di notizie imbarazzanti per Antonio Di Pietro. Erano cose che perlopiù conoscevo e che nel mio libro fantasma avevo sviluppato in parte meglio e in parte peggio. Furono sbrigativamente bollate come «calunnie» come capitava a ogni minimo rilievo mosso contro Di Pietro, ma fu un altro fatto a colpirmi. Mi suonavano stranamente familiari, di quel dossier, almeno un paio di passaggi. Ebbi l’impressione che l’estensore avesse quantomeno consultato il mio libro fantasma, ma fu solo un primo campanello d’allarme. Presto un altro episodio l’avrebbe terribilmente superato.

Il mio ex caporedattore, Stefano Carluccio, mi convinse a fare causa all’«Avanti!» così da ottenere almeno il praticantato d’ufficio, un riconoscimento legale che mi avrebbe permesso di fare l’esame da giornalista professionista. All’Ordine della Lombardia c’era Franco Abruzzo, ritenuto vicino a quel che rimaneva del Psi. La mia causa fu accolta. A Roma feci l’esame scritto e scelsi un tema sul cosiddetto «nuovismo» maturato dopo Mani pulite, anche se l’enfasi della titolazione avrebbe potuto indurmi a migliori consigli. Fui soddisfatto del mio lavoro, ma tempo dopo appresi che mi avevano bocciato. Diedi di nuovo l’esame scritto e scelsi l’analisi di un decreto legge sulla giustizia, il Decreto Gargani. Presi il voto più alto di tutta la sessione. Preparai l’orale e intanto non combinavo granché.

Nel dicembre 1992 avevo conosciuto l’ex sindaco di Milano Paolo Pillitteri, ex amicone di Antonio Di Pietro, e mi aveva già confidato qualche notevole aneddoto su Tonino, Ninì come lo chiamava lui. Passavo a trovarlo nella ridicola speranza che potesse aiutarmi a trovare lavoro e mi dava udienza anche perché era avvolto da una solitudine impressionante. Un giorno mi mostrò un faldone pieno di appunti infarciti di correzioni illeggibili, voleva una valutazione. La forma faceva abbastanza schifo e glielo dissi, ma gli proposi di fare un libro intervista purché corredato di domande e risposte vere. Pillitteri aveva lottizzato e piazzato giornalisti ai più alti livelli, ora aveva me. Ci mise un po’ ad accettare. A lavoro finito, l’ex sindaco mi favorì due appuntamenti con due editori, ma andò male. Nel febbraio 1994 tentai di mia iniziativa con la romana Newton Compton e sorpresa: accettarono. Mi posero dei tempi di consegna strettissimi così da uscire entro le elezioni del 27 marzo. Ero sbalordito.

L’esame orale da giornalista fu sempre in febbraio. Si doveva discutere una tesina scelta dal candidato e rispondere a un po’ di domande. I commissari sbirciarono il voto dello scritto e si compiacquero. Ma poi, di fronte a una commissione composta da magistrati e giornalisti, cominciai a discutere la tesina «Commistioni tra magistrati e giornalisti nell’inchiesta Mani pulite» perché ero fatto così. Anche un po’ scemo, a riguardarmi oggi, ma ero uno che non mollava mai. Gli altri aspiranti professionisti sgranarono gli occhi di fronte all’harakiri e l’esame non fu piacevole, durò almeno il doppio del consueto e anche la camera di consiglio si protrasse per un’ora secca. Fui promosso col minimo dei voti, grazie, appresi, a un commissario che poi venne a cercarmi.

Ero finalmente un disoccupato professionista e pensai che l’importante fosse non fermarsi. Cominciai a girare da un avvocato all’altro per raccogliere varie storie di malagiustizia, mia vecchia passione di quando sedicenne militavo nei Radicali. Cercai di condensare queste storie in un altro volume in cerca di fortuna. Ogni tanto ripensavo all’improbabilità di quell’editore straniero, tutte le stranezze, i contanti senza ricevuta, neppure un numero telefonico o un indirizzo dove rintracciarlo. Era sparito e pensai che potesse essere normale in un periodo in cui nulla lo era.

Un vecchio amico di mio padre lavorava alla neonata «Voce» di Montanelli, e provai lì. Erano in overbooking, ma il tizio mi procurò un appuntamento con Maurizio Belpietro, vicedirettore del «Giornale ». Quest’ultimo mi accompagnò dal capo della cronaca di Milano, Daniele Vimercati, e gli propose di mettermi alla prova. Ma non mi chiamò mai. Era un ottimo giornalista, era vicino alle posizioni di Bossi e io ero uno che aveva lavorato all’«Avanti!» da abusivo.

Un mattino mi segnalarono uno dei tanti anonimi su Mani pulite che circolavano per le redazioni. C’era una copertina grigia col titolo Gli omissis di Mani pulite e risultava edito da una certa «Marshall Ltd-Irlanda», firmato da Anonimo giornalista. Centonovantadue pagine fitte. Era il mio libro, Anonimo giornalista ero io. Sulla retrocopertina, piccolina, c’era anche la mia foto di quando avevo un anno.

Rimasi di sale. Da una parte la rabbia per quell’incredibile lavoro perduto nell’oceano degli anonimi, dall’altra un timore irrazionale di venire scoperto per aver fatto qualcosa che in realtà non volevo neppure nascondere. Fu difficile non parlarne con nessuno per mesi, per anni. Tanto più quando il settimanale «Panorama», poco tempo dopo, in un trafiletto, fece cenno al volume e titolò Veleni contro Mani pulite. Mi raccontarono che alcuni colleghi della giudiziaria si divertirono con la caccia all’autore e seppi che non sospettarono di me perché non mi ritenevano all’altezza.

Il libro intervista con Pillitteri, Io li conoscevo bene, uscì a marzo inoltrato. «Panorama» ci dedicò un’intera pagina e altri articoli uscirono sulla «Stampa» e sul «Messaggero». Spesso neppure mi nominavano, ma fui contento anche se dell’argomento principe del libro, Antonio Di Pietro e certi suoi legami imbarazzanti, preferirono non parlare.

Già lavoravo ad altro: la raccolta delle storie di malagiustizia mi appassionava. In luglio, nei giorni del disgraziato Decreto Biondi, il mio amico Luca Josi mi propose di presentarle sotto forma di libro in via di pubblicazione, anche se propriamente non c’era il libro e non c’era l’editore; diceva che si poteva contrapporlo a quanti, a fronte delle lagnanze garantiste, invocavano ogni volta esempi e casi concreti.

Nella saletta di un hotel romano, non certo grazie a me, intervennero Vittorio Sgarbi, l’avvocato Nicolò Amato e il professor Paolo Ungari. Uscì un trafiletto sul «Giornale» e uno sul «Corriere della Sera». Fu un risultato, dati i tempi. Qualche giorno dopo si fece vivo tal Roberto Maggi, già editore di Sgarbi con la sua Larus di Bergamo. Aveva letto il trafiletto sul «Corriere ». Disse che il libro gli interessava molto ma tutto venne rimandato a settembre. Gli credetti. Passai l’intero agosto a lavorarci sopra.

In settembre, dopo ripetuti rinvii, Maggi si rese irreperibile e compresi poi perché: stava per pubblicare La Costituzione italiana: diritti e doveri commentata da Antonio Di Pietro con prefazione di Francesco Cossiga. Presto avrebbe editato anche due testi di educazione civica sempre firmati dall’ex magistrato. Roberto Maggi cercò di convincermi che aveva grandi progetti e che non avrebbe avuto problemi a pubblicare anche me, perché era un liberale, e la cosa incredibile è che io credetti anche a questo. Continuai a lavorarci. Non ero cretino: ero di mente lineare, poco incline al barocchismo e al retroscena, figlio di mezzi tedeschi, soprattutto crederci era gratis.

Il mio ultimo appuntamento alla Larus di Bergamo fu il 3 febbraio 1995. Attesi due ore in una saletta e poi eccomi nell’ufficio di Maggi, dove appesa al muro c’era una gigantografia di Antonio Di Pietro firmata da Bob Krieger. Mi spiegò che non poteva permettersi di pubblicare il mio lavoro perché l’aveva mostrato all’ex magistrato. In sostanza aveva cercato di farsi bello con lui bloccando il mio libretto. Questo disse, almeno. Rimasi malissimo.

I primi di giugno 1995 ero a Monza a giocare a pallacanestro. Non possedevo un telefono cellulare e sul bordo del campetto d’un tratto comparve mio padre: mi disse che mi stavano cercando urgentemente dal «Giornale», quotidiano che intanto lui era passato a leggere. Finii la partita e solo molto più tardi, da una cabina del telefono, appresi che Di Pietro era stato inquisito a Brescia, e mi proposero di scrivere un articolo tipo «io l’avevo detto» sulla base di quanto avevo già scritto nel libro-intervista a Pillitteri. Dovetti precipitarmi al «Giornale» con la canottiera ancora madida di sudore e ricordo l’orrore negli occhi di Vittorio Feltri che allora se la tirava con l’eleganza british-campagnola. Scrissi un affresco sul reticolo di amicizie discutibili dell’eroe nazionale. Il giorno dopo, più di un quotidiano fu costretto a inseguirmi. «L’Unità», circa il libro intervista con Pillitteri, scrisse di «veleni», e «la Repubblica» che «il pamphlet rischia di diventare un best seller che pare già depositato agli atti dell’inchiesta di Brescia». Il best seller mi fruttò in tutto 1.081.623 lire. Cominciai a scrivere sul piccolo quotidiano «L’Opinione» grazie a una raccomandazione di Pillitteri, ma stavano per addensarsi nubi davvero nere.

Procure e redazioni, al tempo, erano invase da scritti anonimi contro la magistratura milanese, e si prospettava l’ombra di un Mister X che fungesse da suggeritore dei cosiddetti veleni indirizzati contro Di Pietro. Il clima da spy-story era a mille. Il 3 luglio 1995 sul «Giornale» lessi questo titolo: Mister X era già in un libro di due anni fa. Sottotitolo: Un memoriale anonimo pubblicizzò tutti i veleni e gli omissis del gruppo di Mani pulite. Testo: «Oggi andrebbe a ruba. Allora, nel maggio 1993, circolò per il tribunale come i samizdat clandestini del dissenso russo. Gli omissis di Mani pulite, un pamphlet di 192 pagine, raccontava già tutto. Gli anonimi e i Mister X che sono venuti dopo avevano alle spalle quel superdossier».

Avevo la certezza che non sarebbe finita lì. Ebbi l’irrazionale sensazione che qualcuno mi stesse cercando. Non mi trovò la Spectre, ma Stefano Zurlo del «Giornale». Mi telefonò e mi chiese esplicitamente se Mister X fossi io. Negai. Per giorni. A un mio generalizzato timore si accompagnava la consapevolezza che la storia dell’inglese che scippa i libri dei giovani cronisti era incredibile, nel senso di poco credibile.

Cedetti, ovviamente. La verità per la verità interessava relativamente, lo sapevo bene: la scoperta di un ingenuo Mister X probabilmente avrebbe potuto smentire chi prefigurava dei potenti burattinai di centrodestra dietro la diffusione dei dossier anonimi. Decisi di correre il rischio. Al «Giornale» incontrai Maurizio Belpietro per la quinta volta in una quinta veste diversa: prima ero stato un imberbe che cercava lavoro, poi l’autore di un libro intervista con Pillitteri, poi l’autore di un libro inesistente su casi di malagiustizia, poi un giocatore di basket avvolto da un alone non propriamente di mistero, ora un Mister X di ventotto anni che viveva al quartiere Giambellino. Gli chiesi come avessero fatto ad arrivare a me e mi rispose che mi aveva riconosciuto dalla foto di bambino stampata dietro il dossier.

«Il Giornale», il 24 luglio, aprì la prima pagina con uno spaventoso titolone: Ecco l’autore del dossier Di Pietro. Sottotitolo: Filippo Facci, un giovane cronista dell’«Avanti!», scrisse due anni fa un rapporto in cui anticipava le accuse all’eroe di Mani pulite. Si insisteva ancora col «samizdat clandestino del dissenso russo». Stavo per finire in un mare di guai. La Procura di Brescia mi convocò e mi interrogò per sei ore: il samizdat russo finì agli atti. Anche il libro intervista con Pillitteri era già finito agli atti. Vi finì anche la faccenda del libro sui casi di malagiustizia fermato dalla Larus. Mi chiesero del presunto editore inglese o irlandese e risposi che mi si era presentato come «Olinco» o forse «Holinko», non avevo mai visto il suo nome per iscritto. Gli inquirenti, com’era prevedibile, mi chiesero se avessi mai ricevuto altri dossier anonimi e gli consegnai quelli che avevo. Vollero sapere se li avessi utilizzati per scrivere il mio libro e li invitai a verificare che in qualche caso li avevo addirittura smentiti. Il giorno dopo, sul «Giornale»: Caso Di Pietro, cronista sotto torchio. Sottotitolo: Sei ore e mezzo senza neanche una pausa caffè. Pochi giorni dopo trovai la casa perquisita e devastata da chi cercava chissà che cosa. Non mancava nulla, a parte qualche documento poco significante. Sporsi denuncia alla polizia e fui interrogato di nuovo a Brescia.

Settembre coincise con propositi di rinnovata normalità: scrivevo sempre per «L’Opinione», mi concentravo sul lato oscuro di Antonio Di Pietro e setacciavo nuovi casi di malagiustizia. Ogni tanto, almeno una volta alla settimana, sentivo Craxi al telefono. Mi chiamava lui. Gli piaceva che io venissi praticamente dal nulla, per quanto poteva saperne.

Il 12 settembre 1995 sulla «Repubblica» uscì un articolone titolato Il Mistero Holinko. Sottotitolo: Salamone indaga su un libro contro Mani pulite. Un estratto: Chi è il signor Anthony Holinko? E chi si nasconde dietro la Marshall Ltd, casa editrice fantasma con sede forse a Dublino? La Digos bresciana sta indagando sul misterioso emissario dell’ancor più misteriosa Marshall, la casa editrice che nel ’93 pubblicò il libro Gli omissis di Mani pulite, un pamphlet che in Italia circolò semiclandestino, spesso in fotocopie, e che anticipava alcuni dei temi recenti delle accuse contro Di Pietro. Il pm Salamone sta cercando di capire se esistono dei legami tra la casa editrice irlandese e un’altra entità oscura apparsa sullo scenario recente di Mani pulite, l’agenzia investigativa americana, ma con ufficio di corrispondenza a Parigi, che avrebbe svolto, per conto di chissà chi, lunghe indagini sul passato dello scopritore di Tangentopoli.

Brescia. Dublino. L’America. Parigi. Il Giambellino. Un mattino mi contattò l’ex mezzobusto del Tg2 Alda D’Eusanio, mai conosciuta prima. Disse che aveva letto le mie disavventure e mi elencò dei colleghi che le avevano parlato bene di me, tutti nomi però a me sconosciuti. La incontrai a Roma e mi spiegò che per il programma «L’Italia in diretta», su Raidue, avrei potuto fare dei servizi su casi di malagiustizia purché non trattassero di politici. Accettai e iniziai la trafila per il contratto. Pensai che potessero c’entrare Pillitteri o Craxi.

Il 14 settembre ero ancora a Monza a giocare a pallacanestro. Trillò il cellulare che mi ero finalmente procurato: era Craxi. Cercai di capire se c’entrasse con la faccenda di Raidue: «La conduttrice mi ha parlato di come si potrebbe trattare il tema del garantismo», gli dissi, omettendo nomi e cognomi come era d’uso. Ma non riuscii a capire.

La conclusione della telefonata, testuale, fu la seguente:

Craxi: A te ti controlleranno il telefono, devo supporre…

Facci: Sì, forse, ma non è un problema…

Craxi (scherzoso): Nessunissimo problema, neanch’io nessunissimo problema…

In realtà c’era problema. Aspettando la Rai, mi ributtai sull’«Opinione » e su Di Pietro, tema che tirava molto. Furoreggiava l’inchiesta su Affittopoli e io mi ero fissato di trovare i dati sull’appartamento a equo canone che il Fondo pensioni Cariplo aveva concesso all’ex magistrato alla fine degli anni Ottanta. Ne avevo già scritto nel mio libro fantasma e nel mio libro intervista a Pillitteri, con tanto di indirizzo, ma la notizia non era mai deflagrata. Mi procurai lo schedario del Fondo pensioni Cariplo e un funzionario mi diede tutte le conferme del caso. Mi capitò di parlarne al telefono col mio amico Luca Josi. Sinché un mattino, per coincidenze varie, capii che «il Giornale» avrebbe probabilmente sparato la notizia l’indomani e mi prese il panico. Allertai il direttore dell’«Opinione», Arturo Diaconale, e scrissi l’articolo in un battibaleno. Nel tentativo di anticipare «il Giornale» telefonai a tutte le agenzie di stampa perché preannunciassero quel che «L’Opinione» avrebbe pubblicato, ma servì a poco. «Il Giornale» l’indomani sparò la notizia in prima pagina e quasi nessuno si accorse che sull’«Opinione» ne avevo scritto anch’io. Era il 22 settembre.

Il pandemonio fu il 29 settembre. Il pubblico ministero Paolo Ielo, al Tribunale di Milano, denunciò «campagne giornalistiche coordinate da Hammamet» e citò espressamente gli articoli che «il Giornale» aveva dedicato all’equo canone di Di Pietro: disse che la diffusione della notizia era stata pilotata da Craxi a Vittorio Feltri, e la riprova, aggiunse, ne era un’intercettazione telefonica tra Craxi e Luca Josi, il mio amico. Feltri venne additato come un robot craxiano e i telegiornali di mezzogiorno si scatenarono. Io ci misi poco a capire com’era andata davvero: io avevo parlato a Josi dell’articolo che stavo preparando per «L’Opinione» e lui probabilmente ne aveva fatto cenno a Craxi, ma le varie telefonate erano state intercettate e i magistrati avevano capito che si parlasse di un articolo per «il Giornale» anziché per «L’Opinione». Passai una mezz’ora disperata: che fare? Esporsi di nuovo? Temevo per il mio contratto con la Rai.

Mi esposi, chiaro. Telefonai al «Giornale» e feci pure fatica a farmi ascoltare. Il giorno dopo, morale, ecco un’altra intervista dove spiegavo tutta la dinamica. Vittorio Feltri titolò il suo editoriale Esigiamo pubbliche scuse e però scrisse così: «Filippo Facci, e non un mio redattore, ha attinto notizie da fonte socialista riguardo a Di Pietro … “L’Opinione” ha pubblicato la notizia in questione proprio su segnalazione di Luca Josi. Facci, che è persona onesta, ammette tutto ciò in un’intervista che riportiamo». Ma come? Era il contrario della verità: io nell’intervista non dicevo niente del genere, non avevo attinto a nessuna fonte socialista, avevo solo parlato a Josi di un articolo che stavo preparando. Ma niente da fare, Feltri ripeté le stesse cose al «Messaggero» e alla «Repubblica». In un’intervista al «Corriere della Sera» giunse a dire: «Avevo ragione. Abbiamo rintracciato Filippo Facci il quale ci ha confermato quel che sospettavamo». Cioè: adesso erano stati loro ad aver capito, e ad aver rintracciato me, ricettore di notizie provenienti da Hammamet.

Il robot craxiano ero diventato io. Telefonai al «Giornale» e l’indomani fu abbozzata una rettifica dallo stesso Feltri, ma era tardi: un altro delirante articolo di un cronista giudiziario, sempre e incredibilmente sul «Giornale» dello stesso giorno, mi citava tra gli «irriducibili collaboratori di Craxi» e cercava di dimostrare chissà che cosa con un collage di intercettazioni varie. Intanto «la Repubblica» titolava Craxi, il burattinaio e il «Corriere della Sera» È Craxi il segretario di Forza Italia. Tutti i giornali pubblicarono centinaia di intercettazioni tra Craxi e il resto del mondo. Altri telefonisti craxiani erano Veronica Lario, moglie di Silvio Berlusconi, e giornalisti come Enrico Mentana, Emilio Fede e Bruno Vespa. Un altro telefonista, Alessandro Caprettini, direttore dell’«Italia settimanale», fu licenziato. Il mio ex compagno di scrivania all’«Avanti!» Luca Mantovani, portavoce del parlamentare di Forza Italia Vittorio Dotti, fu licenziato a sua volta perché aveva spedito a Craxi la copia di un’interrogazione parlamentare. Mancavo io.

Tra i telefonisti c’era anche Alda D’Eusanio, l’ex mezzobusto che mi aveva proposto il lavoro alla Rai. I giornali pubblicarono un’intercettazione dove lei diceva a Craxi «Sarò la tua voce» e l’associarono a un’altra intercettazione, questa:

Craxi: A te ti controlleranno il telefono, devo supporre…

Facci: Sì, forse, ma non è un problema…

Craxi (scherzoso): Nessunissimo problema, neanch’io nessunissimo problema…

C’era problema. «L’Unità» del 5 ottobre deprecava il mio «contratto milionario» (66 milioni di lire lordi per un anno) e tre interpellanze parlamentari fecero il resto. Il contratto venne stracciato con il consenso del presidente della Rai Letizia Moratti. In sintesi: avevo dato una notizia vera, l’equo canone goduto da Di Pietro, e avevo perso il lavoro.

Nel giorno in cui «l’Unità» sanciva la fine di ogni mia velleità contrattuale, oltretutto, «Panorama» mi ritirava in ballo per il libro fantasma: un lungo e complicato articolo citava un dossier anonimo che avevo consegnato alla Procura di Brescia, uno dei tanti, e lo definiva «in stile Fbi». Si ritirava in ballo il samizdat russo o irlandese scritto al Giambellino. Il quotidiano «L’Indipendente» titolò Di Pietro spiato dai servizi segreti, citandomi.

Avevo ventott’anni, volevo fare il giornalista.

Nel periodo successivo divenni una specie di pendolare tra Milano e Brescia, nella duplice veste di cronista e di testimone. Di Pietro ormai era nel mio destino. Un’altra mia inchiesta sull’«Opinione», dopo una testimonianza che rilasciai sempre a Brescia, fece aprire un filone d’indagine contro l’ex magistrato per alcune sue presunte concussioni al ministero della Giustizia. Senza farla troppo lunga: mi sarebbe capitato di far iscrivere Di Pietro nel registro degli indagati altre due volte.

Di Pietro mi seppellì di querele e mi denunciò anche per calunnia. In una memoria difensiva chiese di appurare i miei rapporti con Craxi e di inoltrare rogatorie internazionali in Irlanda. Quando si discusse il rinvio a giudizio per calunnia, pochi mesi dopo, l’udienza preliminare durò sei ore e io e Di Pietro sfiorammo lo scontro fisico. L’ex magistrato ce l’aveva in particolare col mio libro fantasma: «È da quel dossier» disse «che sono cominciati tutti i miei guai». Ma quel dossier, che diversamente da altri non era un dossier ma solo un disperato e tentato libro, diceva tutte cose vere. Cose che reggono, ancor oggi, la prova del tempo. Fui prosciolto.

L’aria cambiò lentamente, ma cambiò.

Le storie di malagiustizia che riuscivo a trovare, grazie al rinnovato garantismo berlusconiano e al mio buon rapporto con Maurizio Belpietro, ottennero spazio sul «Giornale». Presi a collaborare anche con «Il Foglio» di Giuliano Ferrara. Ogni tanto, per esempio su «Panorama», uscivano articoli imbarazzanti che mi esaltavano come «il cronista che sapeva troppo ». Un quotidiano di Trento, non trovandomi, e in mancanza d’altro, intervistò mio padre. Dopo vari tentativi nel 1996 riuscii a trovare un editore anche per il libro sui casi di malagiustizia, intitolato Presunti colpevoli: lo pubblicò Mondadori. Altri giornali si soffermarono sul mio caso e a dirla giusta fu «Il Foglio»: «Dopo tre anni di peregrinazioni, Filippo Facci ha trovato l’editore, ma più probabilmente le condizioni politiche». Era la verità. Le stesse condizioni politiche, un anno dopo, mi permisero di pubblicare una prima biografia su Antonio Di Pietro sempre per Mondadori. Temendo chissà che cosa, Di Pietro disse alla «Repubblica»: «So cosa vogliono fare, … chi lo fa. E ho preso le mie contromisure. Anzi vorrei dare un consiglio: chi sta realizzando la diffusione di un pamphlet che mi riguarda, ci pensi due volte».

Il libro uscì lo stesso. In autunno, davanti al palazzo di giustizia milanese, per la stupida legge dei corsi e ricorsi, ci fu una manifestazione del centrodestra in cui il libro fu addirittura agitato da qualche manifestante, o questo almeno lessi.

I primi di giugno 1999 ero di nuovo a Monza a giocare a pallacanestro quando un mio compagno di squadra mi disse che alla sua fidanzata, studentessa alla Cattolica, avevano chiesto di me durante un esame. Impossibile, dissi. Era vero. L’esame era Storia del giornalismo italiano e nel tomo intitolato appunto Storia del giornalismo italiano dalle origini ai giorni nostri, a pagina 366, c’era un capitoletto titolato «Le fonti e le disavventure delle notizie». Si parlava di «tre casi limite, espressione di tre diversi momenti della storia italiana: portano il nome di Zicari, Pecorelli e Facci».

Di Giorgio Zicari ricordavo che era talmente ben informato che l’accusarono di essere colluso coi servizi segreti, di Mino Pecorelli che ebbe la fama di ricattatore prima di essere preso a revolverate nel 1979. Il terzo ero io.

"Curiosa e ambigua la vicenda di Filippo Facci, un giovane di 26 anni nel 1993, che rimane disoccupato quando l’«Avanti!» chiude il 31 dicembre 1992. Il quotidiano del Partito socialista, fondato il 25 dicembre 1896 da Leonida Bissolati, viene travolto dallo scandalo di Tangentopoli che distrugge la carriera politica di Bettino Craxi, costretto a fuggire in esilio nella sua villa di Hammamet, Tunisia. Facci è autore di un libro intervista al cognato di Craxi, Paolo Pillitteri, ex sindaco di Milano. S’intitola Io li conoscevo bene. Nel 1993, colleziona particolari e notizie su Antonio Di Pietro, ne escono centonovantadue pagine che documentano le amicizie pericolose del pubblico ministero più famoso d’Italia e simbolo del rinnovamento morale. Il dattiloscritto viene pagato 4 milioni da un oscuro personaggio, sedicente editore di una piccola casa editrice irlandese. Alcuni mesi dopo, pagine del libro iniziano a comparire sui quotidiani, ma il volume ancora non è stampato. Circolerà in seguito clandestinamente. I contenuti entreranno nell’inchiesta giudiziaria su Di Pietro che si concluderà a Brescia nel marzo 1996 con il proscioglimento dell’ex magistrato."

In autunno ricevetti qualche invito residuo a presentare la biografia su Di Pietro, e uno mi colpì in particolare: era del Rotary Club Milano Giardini, accanto al palazzo della stampa dove c’era la redazione dell’«Avanti!». Il giornalista che mi aveva invitato era lo stesso che anni prima aveva impaginato quel Di Pietro, facci sognare che troneggiava sulla copertina di «tv Sorrisi e Canzoni». Fu lui a dirmelo. Quella sera, per farmi voler bene, dissi subito qualcosa che ripeto ancor oggi: «Negli anni di Mani pulite, la percentuale di italiani favorevoli ad Antonio Di Pietro ha oscillato tra il 90 e il 95 per cento. Se mi applaudite, ora, presumo che sia perché al tempo rientravate in quel residuo 5-10 per cento».

Nel maggio 2000, vagando per Milano in motorino, imboccai sparato via Giulio Uberti in netto contromano: un’auto blu dovette inchiodare e rischiò seriamente di mettermi sotto, la ruota anteriore del mio scooter si fermò a non più di un centimetro dal suo paraurti. Alzai il braccio per scusarmi. Mi avvicinai e vidi che alla guida c’era il pubblico ministero Paolo Ielo, autore peraltro di un paio di querele contro di me. Sembrava impietrito. Abbassò il finestrino e mi disse: «Facci, ma se poi ti mettevo sotto, chi ci credeva che era colpa tua?».

Antonio Di Pietro, per molti anni, rifiutò ogni invito in programmi televisivi dove fosse prevista la mia presenza. Ha cambiato atteggiamento dal 2005 in poi.

Dei colleghi che uscivano dalla sala stampa quando vi entravo io, ora, almeno quattro sono discreti amici. Il collega che mi accusò d’aver pubblicato dei verbali falsi è passato a scrivere gialli metropolitani, come in fondo faceva già allora. L’altro collega che m’accusò di aver favorito la fuga di un dirigente socialista ha sposato una mia amica.

Nel tardo agosto 2009, con il ritorno di Vittorio Feltri in via Negri, ho abbandonato «il Giornale» dopo quindici anni. Il collega che fece un collage di intercettazioni telefoniche sul «Giornale» e fece strappare il mio contratto, Gianluigi Nuzzi, oggi condivide il mio stesso incarico – inviato speciale a «Libero» – sotto il mio stesso direttore, Maurizio Belpietro.

Dal 1992 a oggi è passata una mezza generazione e ci sono giovani e meno giovani che di Antonio Di Pietro sanno a malapena che faceva il magistrato. Credo di aver scritto questo libro anche per loro.

NON SOLO MANI PULITE.

Non solo Expo 2015, scrivono Emilio Randacio ed Attilio Bolzoni su “La Repubblica. Primo Greganti, Gianstefano Frigerio, Angelo Paris e gli altri arrestati e indagati nell’inchiesta milanese gestivano appalti anche nella Sanità lombarda. Intanto emergono nuovi particolari nell’indagine che ha portato all’arresto dell’ex ministro di Forza Italia Claudio Scajola. E da Dubai, dove si trova da latitante, Amedeo Matacena dice a Repubblica: faccio il maître, non tornerò in Italia. Ieri sera la Cassazione ha confermato la condanna a 7 anni di reclusione per Marcello Dell’Utri. La «cupola» o la «cordata»: così nelle carte della procura viene indicato il gruppo di sette persone finite in carcere a Milano per associazione a delinquere all’alba di giovedì. Un «circuito deflagrante e perverso», scrive sempre la procura, pilotato dagli gli ex parlamentari Luigi Grillo e Gian Stefano Frigerio insieme al «compagno G» Primo Greganti. Quest’ultimo, alla vista dei militari che gli notificavano l’ordinanza diciannove anni dopo quella che lo portò in cella durante Tangentopoli, è scoppiato in lacrime. Insieme al direttore generale degli acquisti Expo Angelo Paris, all’ex segretario Udc ligure Sergio Mattozzo (al quale i militari hanno trovato in casa 12.500 in contanti nascosti), puntavano a mettere le mani su appalti per mezzo miliardo. La fetta più corposa erano gli oltre 300 milioni che vale il progetto della “Città della salute”, le cui buste con le offerte dovevano essere segrete e sono invece state rinvenute e sequestrate durante gli arresti.

Expo e sanità, il sistema spiegato da un factotum dell’ex dc Frigerio. L’accordo con Greganti. «Ragazzi, adesso c’è la Città della Salute», scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. Il manuale d’istruzioni della catena di montaggio degli appalti truccati, l’autopsia in diretta dei «delitti» compiuti nei lavori della sanità o delle opere pubbliche come Expo: il Virgilio che guida in questo girone infernale è, in una impagabile intercettazione ambientale nel circolo culturale milanese «Tommaso Moro» dell’arrestato ex dc ed ex parlamentare berlusconiano Gianstefano Frigerio, il suo factotum di fiducia: l’indagato Giovanni Rodighiero, orgoglioso il 31 luglio 2012 di magnificare il sistema a un non identificato dirigente sanitario tanto desideroso di esservi ammesso. «I primari, i medici che gareggiano, vengono e vanno dai politici perché la Sanità è gestita dai politici - esordisce Rodighiero - . Allora se tu hai il santo protettore», che nel contesto sarebbe Frigerio, «il santo protettore ne prende atto (delle tue esigenze ndr ), ti chiede il curriculum e poi va a parlare con chi di dovere... Se gli garantisce il direttore generale che lo porta quello là, questo si afferma... fa la gara e vince lui...». Il risultato è che «lui è riconoscente a Gianstefano» e «Gianstefano è riconoscente al direttore generale». E «dato che soldi non ce ne sono sempre», o «si rompe le scatole al direttore generale di dargli un po’ di soldi o di mettere questo cavolo di macchinario che serve... capito?». Si può così passare alla fase due: la gara d’appalto per il tipo di fornitura in questione, e cioè - riassume il gip Fabio Antezza - «i meccanismi tramite i quali si riesce a predeterminare l’aggiudicazione a favore delle imprese per cui opera l’associazione, in primo luogo con il confezionamento ad hoc di bandi di gara e capitolati». Anche qui lo spiega Rodighiero, che fa l’esempio di una gara da 40 milioni di euro nella ristorazione in ambito ospedaliero: «C’è il provveditore e c’è l’ingegnere che stanno preparando il tutto, l’ingegnere l’ho fatto conoscere all’azienda. Come è pronto il documento (lo schema del bando ndr ), viene dato a una persona fidata, va in azienda, glielo dà, lo guardano... “questo non va bene e questo va bene... c’è da aggiungere questo questo e questo... farla su misura a me”... Viene ridato, l’ingegnere mette dentro e toglie (quello che l’impresa aveva chiesto di aggiungere e levare ndr ), il provveditore e l’ingegnere sono in sintonia. E quando è pronto il capitolato, è stato fatto su misura a te e non ad altri». Terzo tempo: adesso c’è da concordare il prezzo per la corruzione. «Se hai vinto, c’è un accordo a monte, che tu devi riconoscere ics...». Anche con rateizzazioni della mazzetta: l’appalto «viene dato a te, perché si chiude con l’accordo a te e tu sei l’uomo che deve andare dal direttore generale a dargli i soldi, ogni anno... Subito tutti non li hai... hai un anticipo annuale alla firma. Quando hai vinto l’appalto, un ics... ti tieni la tua parte e il resto gliela dai a quello là... l’anno prossimo quando fanno i pagamenti gli dai la rata... per nove anni». Quarta e ultima fase: il mantenimento degli accordi. E qui, per quanto buffo possa sembrare nel contesto tangentizio, la credibilità è tutto. L’importante è che l’accordo sia osservato qualunque cosa succeda, perfino se quel determinato manager statale corrotto dovesse cambiare posto: «Lui va via? Vai avanti a dargliela, eh?... è sempre stato così». Perciò i componenti dell’associazione a delinquere temono come la peste quegli imprenditori che non siano puntuali nel rispettare la tabella dei pagamenti programmati. Lo si ascolta, in un’altra intercettazione, quando il 15 marzo 2013 uno dei mediatori che collaborano con Frigerio, Walter Iacaccia, gli esprime l’irritazione per un imprenditore che non sta onorando una rata di 50.000 euro, che Frigerio a sua volta attende di dover poi consegnare a un pubblico ufficiale: «Io gli ho semplicemente detto (all’imprenditore inadempiente ndr ): non devi farmi fare figure di cacca... perché se tu fai così, non sai cosa ti precludi... ma soprattutto non puoi più chiedere favori... Ma che persona sei? Io ci metto la faccia sempre... ma porca miseria, ma tu pensi veramente di poter lavorare senza di noi?». Ieri, intanto, dai politici evocati «de relato» nelle intercettazioni sono arrivate altre smentite. Dopo aver letto che Frigerio asseriva «devo mandare un biglietto a Maurizio Lupi con il nome di Antonio Rognoni (allora direttore generale uscente di Infrastrutture Lombarde ndr ) per suggerirlo come presidente Anas», l’alfaniano ministro delle Infrastrutture ieri ha dichiarato «con assoluta certezza di non aver mai ricevuto quel biglietto né alcun altro tipo di comunicazione». Di «illazioni o millanterie» aveva già parlato anche l’ex segretario pd Pierluigi Bersani, citato il 7 settembre 2012 da Frigerio che aggiornava Rognoni sul progetto della Città della Salute a Sesto San Giovanni, del valore di 323 milioni e con stazione appaltante proprio Infrastrutture Lombarde: «Ho sentito un po’ a Roma Bersani e poi gli altri sulla Città della Salute, tu devi cominciare a fare delle riflessioni, poi, senza responsabilità tue, mi dici come far partire un colosso macello perché è una cosa grossa... Poi Bersani mi ha detto “a sinistra cosa fate?”, bisogna che senta, se Rognoni mi dice Manutencoop per me va bene». Ma per Bersani questo discorso non c’è mai stato. Le buste sigillate con le offerte relative alla gara ancora da aggiudicare per la realizzazione della Città della Salute sono fra le carte che l’altro ieri gli inquirenti hanno sequestrato a margine dei 7 arresti: a detta del gip, per l’associazione capeggiata da Frigerio era «necessario coinvolgere da subito un grande pool di imprese», procedendo «in accordo con Primo Greganti» e spingendo sulla «Cooperativa Manutencoop» (il cui indagato amministratore Claudio Levorato è una delle 12 persone per cui il gip ha respinto l’arresto per carenza di esigenze cautelari) «in quanto la coop ha i necessari collegamenti» a sinistra, là dove Frigerio si ritiene «coperto» appunto da Greganti, il «compagno G» già arrestato in Mani pulite vent’anni fa. Sin dal settembre 2012, ritiene quindi il gip, «il sodalizio imposta la consueta strategia di individuazione delle opzioni anche politiche in grado di assicurare un intervento efficace, e degli imprenditori da favorire con avvicinamento e corteggiamento». Che le intercettazioni possano sempre avere più spunti di lettura, del resto, affiora persino nel caso di Rognoni, sul cui conto l’arrestato Sergio Cattozzo (ex segretario dell’Udc ligure e collaboratore di Frigerio) il 20 gennaio di quest’anno esprimeva delusione dopo un iniziale periodo di abboccamenti reciproci, concordando con Frigerio su quanto fosse invece il caso di investire meno su Rognoni e più sul successore Angelo Paris, general manager di Expo 2015 pure arrestato giovedì: «...perché fra poco c’è la Città della Salute, ragazzi!... E siccome Rognoni a noi non ha dato niente, non abbiamo nemmeno debiti nei suoi confronti». Greganti, per parte sua, appare molto interessato a ritagliarsi un ruolo nella realizzazione del padiglione della Cina (con la quale ha noti legami d’affari) all’Expo 2015. Il 21 marzo scorso, al telefono con il liquidatore di Tempi Moderni S.r.l., Greganti - annota il gip - «sottolinea che la Cina ha intenzione di predisporre l’intero padiglione in modalità self-built», cioè costruendoselo da sola, «tuttavia Greganti riferisce di aver comunque rappresentato l’importanza della sua mediazione», per la quale sembrerebbe tenere rapporti con l’ambasciata di Pechino e mandare una memoria in Cina. Intanto le comiche, come talvolta accade, fanno capolino al confine di cose serie. E così giovedì, durante le perquisizioni Gdf contemporanee all’arresto delle 7 persone, Cattozzo è quasi riuscito a far sparire davanti ai militari, strappandoli da una agenda e nascondendoli nelle mutande, alcuni post-it. I foglietti, una volta recuperati dall’imbarazzante nascondiglio, si sono rivelati annotazioni di cifre e percentuali e nomi: forse proprio la medesima contabilità delle tangenti su una gara di Expo 2015 che i pm Antonio D’Alessio e Claudio Gittardi avevano ascoltato in una intercettazione.

Caso Expo, Greganti e la pista cinese. Come per Mani pulite la Cina è il cuore del business dell'ex tesoriere Pci: il suo braccio operativo è la società Seinco, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Sindrome cinese: scavi nell'Expo di Milano e sbuchi in Cina. Negli affari di Primo Greganti, il «compagno G» tornato in cella a ventun anni da Tangentopoli, riaffiora prepotentemente la potenza asiatica. Di Cina l'ex tesoriere del partito comunista torinese aveva già parlato nel 1993, quando aveva cercato di convincere i pm milanesi che i 621 milioni incassati da Panzavolta non erano destinati a Botteghe Oscure ma a cercare appalti nella Repubblica Popolare. E di Cina si torna a parlare nelle carte della retata che l'altro ieri rispedisce in carcere Greganti insieme al suo coevo dell'altra sponda, l'ex dc Gianstefano Frigerio.A stimolare l'interesse di Greganti è il padiglione che il governo di Pechino deve realizzare per l'esposizione universale milanese del 2015. Business di «grande interesse», secondo l'ordine di custodia, per il «compagno G», che tiene rapporti con l'Ambasciata cinese in Italia e manda memorie in Cina. «Beh i cinesi li abbiamo incontrati, li ho incontrati a Milano», dice Greganti in una intercettazione, «fanno fare tutto giù in Cina, qui c'è solo un problema di montaggio (...) Perché c'è un rapporto con le Istituzioni, con l'Amministrazione, un rapporto con le altre imprese che lavorano lì». «Comunque - aggiunge - in ogni caso, gli abbiamo detto noi siamo qua (...) che se avete bisogno noi ci siamo, insomma, vi assistiamo in tutto, voi state tranquilli, definiamo prima quali sono i costi, voi sicuramente risparmiate, accelerate i tempi e noi vi diamo una mano». D'altronde «la Cmc già c'ha un ufficio in Cina a Shangai». L'ultima affermazione è interessante, perché riporta a uno degli assi conduttori dell'inchiesta su Expo: il rapporto tra Greganti e le cooperative rosse, il ruolo del «compagno G» nell'assicurare alle coop fette rilevanti della torta milanese. Secondo la Procura, il braccio operativo di Greganti è una società torinese che si chiama Seinco. È a nome della Seinco, per esempio, che l'11 dicembre scorso Greganti telefona a Riccardo Casale, amministratore delegato di Sogin, il colosso pubblico dello smaltimento nucleare: «Sono della società Seinco, gli dica Primo Greganti, lui si ricorderà probabilmente». Oggi, negli uffici della Seinco i telefoni suonano a vuoto, la mail è irraggiungibile. Ma fino a pochi mesi fa la Seinco era pienamente operativa, il sito vanta appalti in Cina, a Cuba, lavori per le cooperative e per il gruppo Ferruzzi (sarà ancora la consulenza dei 621 milioni?). Per il giudice preliminare Fabio Antezza la Seinco è lo scherma dietro cui viaggiano le tangenti: «Il documento in oggetto - scrive il gip commentando uno scambio di mail tra Greganti e un dirigente della cooperativa Cmc - conferma il sovente (sic) utilizzo da parte degli associati di fittizi contratti di consulenza come mezzo attraverso cui giustificare la percezione delle indebite dazioni di denaro». Il confine tra consulenza e tangente può risultare esile: e proprio su questa linea è facile prevedere che si attesterà Greganti, quando dopodomani si troverà faccia a faccia col giudice che lo ha arrestato. Anche a lui, come vent'anni fa a Di Pietro, il tarchiato ex cassiere del Pci spiegherà di non essere un collettore di mazzette ma un semplice, scrupoloso cucitore di rapporti commerciali. D'altronde, anche a leggerle una per una, è impossibile trovare nelle intercettazioni una sola frase in cui Greganti si sbilanci. Mentre Frigerio ne dice di cotte e di crude, Greganti è sempre lui: attento, preciso, taciturno. È innocente, o ha semplicemente imparato la lezione?

C'è il compagno G, D'Alema si scopre garantista. L'ex premier freddo sull'inchiesta. E Lupi si difende sul pizzino di Frigerio: mai ricevuto, scrive Giannino della Frattina su“Il Giornale”. Dopo i sette arresti dell'alba di giovedì e le 80 perquisizioni in 15 città che hanno decapitato i vertici dell'Expo con il general manager Angelo Paris finito a San Vittore, Massimo D'Alema si riscopre garantista. Sarà perché questa volta alle patrie galere sono state associate anche due vecchie conoscenze di Mani pulite come l'allora segretario della Dc Gianstefano Frigerio e il cassiere del Pci Primo Greganti e quello erano tempi in cui «Baffino» era giovane e sognava per sé un futuro ben più radioso di quanto sia poi stato. O forse perché quando l'inchiesta cominciò a occuparsi delle tangenti rosse al Pci-Pds, fu proprio D'Alema a definire con disprezzo il pool «soviet di Milano». In realtà un soviet che si occupò di tutti fuorché dei comunisti, spianando loro la strada verso un potere che mai avrebbero conquistato. Son passati gli anni ed ecco D'Alema a difendere (forse per gratitudine) il «compagno G», quel «militante di scarsa fama, ma di sicura fede» che, arrestato nel '93, tenne testa ai magistrati negando che una tangente da 1,2 miliardi di lire fosse destinata al suo partito. Risparmiando così qualche guaio ai «rossi», ma arrecandone parecchi al nostro sventurato Paese. «Sono molto prudente a parlare di vicende giudiziarie che non conosco», ha detto ieri D'Alema presentando il suo Non solo euro al Salone del libro di Torino con il direttore del Tg3 Bianca Berlinguer. Tanto per non andare troppo lontano. «Ho imparato - ha assicurato iper garantista - che il 40-45 per cento delle persone accusate vengono prosciolte». Dicendosi perciò scettico sulla «smania di pronunciare sentenze su istruttorie parziali». E assicurando che «oggi sono finiti i partiti ma non la corruzione che è un fattore endemico nella società italiana». A Roma, intanto, un «biglietto» galeotto fa tremare il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi che nella sfida dell'Expo si è buttato a capofitto. Perché molti lavori e finanziamenti sono di sua competenza, ma anche perché sogna di correre tra due anni per diventare sindaco di Milano dove fu assessore nella giunta Albertini. Allora formigoniano di ferro, oggi in rampa di lancio per prendere il suo posto al vertice di quella galassia ciellina da cui sta cercando di estromettere il Celeste, ormai troppo invischiato nelle vicende giudiziarie per essere un buon testimonial del nuovo corso dell'Ncd alfaniano. «Leggo che nell'ordinanza per gli arresti dell'indagine sugli appalti di Expo - si legge in una nota di Lupi - vengo citato da Gianstefano Frigerio. Il quale, il 29 aprile dell'anno scorso, affermava: Devo mandare un biglietto a Maurizio Lupi con il nome di Antonio per suggerirlo come presidente Anas. Posso dire con assoluta certezza di non aver mai ricevuto quel biglietto né alcun altro tipo di comunicazione». A parlare del biglietto è il gip di Milano Fabio Antezza nell'ordinanza di custodia cautelare, mentre l'Antonio di cui si parla è quel Rognoni arrestato un mese fa nell'inchiesta su Infrastrutture Lombarde. A Milano, intanto, il giorno dopo le manette il sindaco Giuliano Pisapia e il governatore Maroni spingono per accelerare al massimo la nomina del sostituto di Paris. «Purtroppo - dice Maroni - Paris faceva tutto e deve essere sostituito immediatamente con una persona che abbia due requisiti: grande competenza e professionalità e, visto questo rigurgito di Tangentopoli, magari se viene da fuori e non ha avuto rapporti con questi ambienti è meglio». Fretta e condizioni che sembra non siano piaciute al commissario Expo Giuseppe Sala a cui spetta la decisione. E martedì a Milano arriva il premier Matteo Renzi.

Come prima, più di prima, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Per piacere: evitateci lo stupore scandalizzato, «chi se lo immaginava?», «non l’avrei mai detto...». Tutto sono, gli arresti di ieri per l’Expo 2015, tranne che una clamorosa sorpresa. Perché, ferma restando l’innocenza di tutti fino alle sentenze, le cose stavano procedendo esattamente come era andata troppe altre volte. Il solito copione. Recitato per i Mondiali di nuoto, le Universiadi, la World Cup di calcio, l’Anno Santo... Anni perduti nei preliminari, discussioni infinite sui progetti, liti e ripicche sulla gestione e poi, di colpo, l’allarme: oddio, non ce la faremo mai! Ed ecco l’affannosa accelerazione, le deroghe, il commissariamento, le scorciatoie per aggirare lacci e lacciuoli, le commesse strapagate, i costosissimi cantieri notturni non stop. Sono sei anni, dal 31 marzo 2008, che sappiamo di dovere organizzare l’Expo 2015. E anni che sappiamo, dopo i trionfi di Shanghai 2010 dove il nostro padiglione fece un figurone, che l’impresa è difficile se non temeraria. Eppure solo Napolitano, all’ultimo istante, si precipitò alla grandiosa esposizione cinese per ricevere il passaggio del testimone e mettere una toppa sulle vistose assenze del nostro governo. Dopo di allora, tanti proclami, annunci, rassicurazioni... Mentre cresceva, nonostante l’impegno generoso di tanti, la paura di non farcela. È una maledizione, la fretta. E ci caschiamo sempre. O forse è peggio ancora: c’è anche chi scommette sui ritardi e sulla accelerazione febbrile col cuore in gola. Quando il rischio che salti tutto fa saltare le regole che erano state fissate e i prezzi schizzano sempre più su, più su, più su. Proprio come previde nel 2010 la presidente degli architetti milanesi denunciando «perplessità in merito al rispetto delle scadenze per il completamento dei lavori, alla trasparenza delle procedure e alle modalità che saranno utilizzate per affidare gli appalti». Già la prima di quelle gare, del resto, fu un’avvisaglia: vinse un’impresa con un ribasso enorme da 90 a 58 milioni ma l’anno dopo già batteva cassa per averne 88. Per non dire delle infiltrazioni nei subappalti di imprese in odore di mafia: il capo della polizia Pansa, mesi fa, comunicò che 23 aziende erano state escluse. Lo stesso sindaco Pisapia, però, spiegò d’essere sulle spine: troppi, sei mesi di analisi burocratiche, per verificare la serietà di una ditta. Tanto più se la fretta si fa angosciosa. L’unica sorpresa, nella retata di ieri che segue il fermo un mese fa del direttore generale di Infrastrutture Lombarde Giulio Rognoni, sono i nomi di alcuni degli arrestati. Già tirati in ballo vent’anni fa, nella stagione di Mani pulite, come se non fosse cambiato niente. Dal costruttore Enrico Maltauro all’ex pci Primo Greganti fino all’ex dicì Gianstefano Frigerio, poi candidato da Forza Italia (lifting anagrafico...) col nome d’arte di Carlo. Ma come, direte: ancora? Ancora, accusano i magistrati. E parlano d’«una cupola» che «condizionava gli appalti» in favore di «imprese riconducibili a tutti i partiti». Cosa significa «tutti»? Mancano solo un paio di settimane alle elezioni europee. E un anno all’apertura dell’Expo: i dubbi su quello che è oggi il più grande investimento nazionale e rischia di trasformarsi da vetrina della speranza e del rilancio in una vetrina infangata devono essere spazzati via in fretta.

Romanzo criminale bipartisan, scrive Marco Lillo su “Il Fatto Quotidiano”. Gli arresti di Reggio Calabria nei confronti di Claudio Scajola (per aver favorito nella latitanza l’ex deputato di Forza Italia Amedeo Matacena) e quelli nei confronti di due ex democristiani passati a Forza Italia, Gianstefano Frigerio e Luigi Grillo, per gli appalti dell’Expo di Milano, insieme al compagno Primo Greganti, fotografano due momenti di un unica storia iniziata venti anni fa. Se le accuse saranno confermate non sarà poi tanto esagerato parlare di un ‘romanzo criminale’ che affianca e spesso si intreccia con la storia ufficiale del partito fondato e tuttora guidato nei fatti da Silvio Berlusconi. Claudio Scajola è stato arrestato, con l’accusa di avere favorito l’ex parlamentare calabrese di Forza Italia Amedeo Matacena nella sua latitanza. L’ex parlamentare calabrese che ha avuto un momento di gloria quando testimoniò in favore di Marcello Dell’Utri al suo processo, è stato condannato a 5 anni per i suoi rapporti con le cosche di Reggio. Voleva andare in Libano da Dubai dove era stato localizzato ed era in attesa di estradizione.    Nella sua ordinanza, il gip scrive che le investigazioni “vedono Scajola in pole position nell’impegno volto all’individuazione di uno Stato estero che evitasse per quanto possibile l’estradizione di Matacena o la rendesse quantomeno molto difficile e laboriosa. Tale Stato Scajola lo individuava nel Libano, impegnandosi con personaggi esteri di rango istituzionale per ottenere tale appoggio per tramite di importanti amicizie”. La storia è intrigante perché c’è un punto di connessione tra la fuga di Dell’Utri e quella del suo vecchio amico degli inizi di Forza Italia. Secondo il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho: “C’è qualche identità personale in relazione alle due indagini. Si tratta di un personaggio destinatario di perquisizione che ci risulta protagonista nella vicenda Dell’Utri, Speziali”, cioé Vincenzo Speziali, nipote e omonimo dell’ex senatore del Pdl, sarebbe lui l’uomo che aveva un gancio con l’ex presidente del Libano Gemayel, candidato alle prossime elezioni e in buoni rapporti con Silvio Berlusconi. L’indagine della Dia di Reggio Calabria racconta quindi che un ex ministro dell’interno nonché ex coordinatore del partito di Silvio Berlusconi, avrebbe favorito un condannato definitivo per concorso esterno con la ’ndrangheta nella sua fuga. Non solo. Ci racconta che la destinazione finale e il gancio della fuga di Matacena a Beirut sarebbero comuni con quella appena avvenuta del fondatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri. L’immagine di Scajola, ministro dell’Interno che guidò il Viminale nel triste momento del G8 di Genova nel 2001, che viene portato negli uffici della Dia di Roma e poi nel carcere di Regina Coeli è certamente inquietante ma almeno appartiene ormai al passato dell’Italia berlusconiana. Come anche l’immagine di Marcello Dell’Utri trattenuto in ospedale a Beirut o quella di Matacena, per ora libero di circolare a Dubai. L'altra indagine, quella di Milano sugli appalti delll’Expo, invece è molto più inquietante perché riguarda l’oggi. Non solo nel campo del centrodestra ma anche in quello del centrosinistra. L’ordinanza di arresto di Milano ha colpito quella che sembra, secondo la ricostruzione dell’accusa, una sorta di cupola bipartisan degli appalti. Sono stati infatti arrestati Primo Greganti, il compagno G simbolo del coinvolgimento del Pci nell’indagine Mani Pulite nel 1992 da un lato e Gianstefano Frigerio, simbolo della continuità tra le mazzette della prima repubblica e la politica della seconda repubblica, dall’altro lato. Frigerio infatti, nato nel 1939 a Cernusco sul Naviglio, è stato condannato definitivamente a tre anni e nove mesi per le mazzette sulle discariche lombarde (corruzione) e a due anni e undici mesi in altri due processi della Tangentopoli milanese. Era il capo della Dc a Milano ed è diventato deputato di Forza Italia grazie a Berlusconi nel 2001.    Primo Greganti, classe 1944, divenne famoso per il suo silenzio con i magistrati ai tempi di Tangentopoli. Il primo marzo 1993 venne arrestato su richiesta del pm Antonio Di Pietro, con l’accusa di corruzione, per aver ricevuto in Svizzera, tra il 1990 e il 1992, 621 milioni dal gruppo Ferruzzi per appalti Enel. Denaro che, secondo la magistratura, rappresentava la prima delle due quote riservate al Pci-Pds delle tangenti concordate con il sistema dei partiti (l’1,6 per cento sul valore delle commesse). Il compagno G. negò sempre ogni addebito e continuò a ripetere che si trattava di consulenze personali. Alla fine Greganti patteggiò solo una pena di 3 anni poi ridotta di sei mesi. Tra gli arrestati di ieri c’è anche un vecchio democristiano ligure, Luigi Grillo, poi passato a Forza Italia e decisivo nella nascita del primo Governo Berlusconi nel 1994. Grillo parlava al telefono con l’ex ministro della difesa del primo Governo Berlusconi. Non dei bei tempi del 1994 ma della nomina di un manager pubblico, Giuseppe Nucci, che aspirava a una nomina a Terna. Previti parla con Grillo dell’argomento Nucci e quest’ultimo parla con Greganti. Insomma, se Frigerio, Greganti e Grillo sono personaggi del passato. Gli affari di cui si occupavano sono quelli di oggi, dell’expo di Milano. In carcere è finito infatti anche il direttore dell’ufficio contratti dell’Esposizione di Milano, Angelo Paris. I pm contestano un’associazione a delinquere per pilotare bandi. In carcere è finito anche il genovese Sergio Catozzo, ex Cisl, ex Udc infine berlusconiano. Ai domiciliari Antonio Rognoni, direttore generale di Infrastrutture Lombarde, già arrestato due mesi fa per presunte irregolarità negli appalti delle opere pubbliche. E’ indagato anche il ras della Manutencoop Claudio Levorato. Al presidente della cooperativa bolognese rossa, come si diceva una volta, i magistrati contestano l’associazione a delinquere finalizzata alla turbativa d’asta e al traffico di influenze. L’uomo della Manutencoop Levorato e l’amico di Berlusconi, Gianstefano Frigerio, sono stati intercettati il 7 novembre 2013 mentre parlavano dell’appalto della Città della Salute. Frigerio propone, mentre una cimice della Dia registra le sue parole, a Levorato di usare i suoi appoggi politici nel Governo di centrosinistra (allora guidato da Letta) per favorire la nomina di Antonio Rognoni, allora presidente della società Infrastrutture Lombarde che si occupa degli appalti dell’Expo, alla guida dell’Anas. Frigerio dice: “io gli ho detto che una mano gliela do, per quello che posso fare io , della parte di Governo con cui ho rapporti io. Questa è una carta che può servire anche a lei perché un pezzo di Govemo ce l’ha anche lei … forse anche di più”. Frigerio suggerisce di piazzarlo al posto di direttore dell’Anas e Levorato non si scandalizza. In una conversazione intercettata c’è anche una telefonata del febbraio scorso in cui Frigerio sostiene di volersi mettere in contatto con Lorenzo Guerini, il nuovo portavoce della segreteria, il volto nuovo del Pd di Matteo Renzi. Il 24 febbraio scorso Frigerio dice all’amico Cattozzo “devo parlarne con Guerini” e Cattozzo replica: “devo organizzare un incontro con te e Guerini così lo tiriamo dentro, stiamo parlando di sette miliardi di lavoro”. Ma Lorenzo Guerini dice al Fatto: “Non li ho mai visti né sentiti. Non so chi sia questo Cattozzo”. Anche Pierluigi Bersani è tirato in ballo da Frigerio. L’ex parlamentare berlusconiano racconta di avere parlato con lui degli appalti dell’expo. Bersani al Fatto dice: “Pura millanteria non ho mai incontrato questa persona. Non mi sono mai occupato di queste questioni”.

La giustizia è e rimane la vera questione politica in Italia, scrive Fabio Camilleri su “La voce di New York”. Gli ultimi “clamorosi arresti” quali monotone variazioni sul tema. E mettere la testa sotto la sabbia non serve, a meno di non volerla perdere. A Milano arrestano l’Expo, a Reggio Calabria arrestano l’ex ministro Claudio Scajola e, per non restare indietro con la campagna elettorale, arresta pure la Camera dei Deputati, autorizzando i ceppi per Francantonio Genovese, deputato del partito Democratico, già sindaco di Messina. Per una volta, provo a ritenere che siano stati raccolti sufficienti indizi di colpevolezza in ciascuno di questi casi. Solo che rinchiudere in prigione prima del processo, lo sanno ormai anche i muri, dopo ventidue anni di ManiPulite Continua, è possibile se ricorrono uno o più dei “pericoli” per il processo medesimo: e cioè che l’inquisito si dia alla macchia, oppure che ricada nel peccato, o, infine, che provi a strappare le carte del Pubblico Ministero. Gli stessi muri di prima sanno che queste ultime generalmente sono tutte previsioni (di legge) che si autoavverano. In concreto, il pericolo c’è se chi accusa lo afferma. Perciò non ci resta che giurare in verba magistri: se li hanno arrestati, evidentemente un motivo c’era. Così va in Italia e così, per una volta, vorrei provare a ritenere anch’io. Solo che la mia buona volontà Legge e Ordine viene subito messa alla berlina. Già Scajola ristretto (in via cautelare) perché avrebbe aiutato un condannato per un reato di dubbia oggettività (“vicinanza”, “sostegno intermittente”, “contatti” “conoscenze” e via enumerando da una secolare coscienza, si dice per dire, inquisitoria) a fuggire, da uno stato in cui era legittimamente libero (gli Emirati Arabi Uniti, che avevano rigettato le richieste italiane) ad uno (il Libano) in cui è invece possibile l’arresto (come per Dell’Utri), qualche scossone alle mie buone intenzioni lo dà subito. Ma il vero tormento viene da Milano. Perché il Procuratore Aggiunto Robledo ha formalmente espresso il suo dissenso sull’indagine Expo, e non ha controfirmato, come gli altri, l’ordinanza di custodia cautelare? Perché il Procuratore Capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati ha ribadito che “Robledo non ha condiviso l’impostazione dell’inchiesta e non ha vistato gli atti”? Prima, possibile, risposta. Sono cosucce, miserie burocratiche; allora la conferenza stampa risulterebbe una tribuna vistosamente sproporzionata per una bega interna. Seconda, possibile, risposta. No, in effetti non sono proprio cosucce, tanto è vero che si è aperto un conflitto pure innanzi il Consiglio Superiore della Magistratura; allora non è chiaro in che cosa consista “l’impostazione dell’inchiesta”. Se le manette hanno fondamento, allora è grave che un alto magistrato, con funzioni direttive, faccia mancare la sua approvazione in un momento così delicato, qual è la presentazione al pubblico, sia pure al pubblico-bue dei risultati di un’indagine preliminare così significativa. Se è fondata l’opposizione, allora è grave che un altro alto magistrato con funzioni direttive abbia chiesto la custodia cautelare, nonostante un così incisivo dissenso sui contenuti dell’indagine. C’è una terza ipotesi, però. Che il contrasto non sorga realmente dai contenuti dell’indagine, ma che riduca questi ad un semplice sfondo spendibile sul piano formale, su cui possano ergersi maestose le supreme ragioni del “riparto dei fascicoli”. Sarebbe l’ipotesi peggiore, se possibile. Significherebbe la manifesta e totale strumentalità delle indagini rispetto a vicende di rango, se così si può dire, eminentemente personale. E le persone in galera? E noi che osserviamo? Insisto: se gli arresti per la vicenda Expo sono fondati, cioè vi sono elementi sufficienti di colpevolezza e così via, non si può discettare di “impostazione dell’inchiesta” e inscenare un improbabile aventino procuratorio; se, invece, “l’impostazione dell’inchiesta” non è questione di “incompetenza per scrivania”, ma è locuzione che tradisce verità contenutistiche, rimaniamo col dubbio che la libertà personale di un certo numero di persone sia stata impropriamente mutilata, senza però, che ci si spinga oltre una sorta di arbitrato interno, eretto, con regale indifferenza, su carne viva. E sorvolo sul timing. Questa ulteriore espressione di eccellenza istituzionale e civile dovrebbe interessare anche il Governo in carica. Invece, la custodia permessa nei confronti dell’On. Genovese, quanto al Partito Democratico, olezza di viltà preelettorale. L’indagine che lo riguarda è aperta da anni; ha già attinto alla moglie, amici, collaboratori e vari altri soggetti; aveva ripetutamente espresso l’autodafè contemporaneo (“dichiaro la mia piena fiducia nell’operato della magistratura”, o formula equivalente), gli indizi sono acquisiti e stanno ormai macerando come neanche i mosti d’annata; dunque, l’arresto preventivo serve per “comunicare”. Ignorare le implicazioni allusive delle “indagini sensibili” non serve, caro Renzi. Significherebbe riconoscere di essere sotto tutela. Se vuole fare qualcosa di nuovo, di veramente politico e nobile, il Presidente del Consiglio deve intestarsi la questione giustizia e calarvi con la scure di Gordio: carriere, CSM, responsabilità civile, nuovi codici, soprattutto, nuovo Ordinamento Giudiziario, non a carriera “automatizzata”: altrimenti, può già preparare il collo; e la testa non la salva nemmeno se la ficca cinque metri sotto la sabbia dell’ignavia. L’annunciato trionfo elettorale, se non agisce in questa direzione, servirà solo ad amplificare il tonfo della caduta. 

Ancora manette in favore di tv. L'arresto di Scajola e l'agghiacciante parabola di questi 20 anni. Da Renzi ci si aspetta il segno di una riforma intellettuale e morale, Fabrizio Rondolino su “Europa Quotidiano”. Il nostro codice di procedura penale, all’articolo 274, è molto chiaro: le «esigenze cautelari», cioè l’obbligo di arresto, necessitano di tre requisiti essenziali: il rischio di inquinamento delle prove («purché si tratti di pericolo concreto e attuale»), il rischio di fuga dell’imputato, il rischio di reiterazione del reato. È molto difficile ravvisare nell’arresto di Claudio Scajola la presenza anche di un solo requisito richiesto dal codice. Scajola non stava fuggendo (e, nel caso, sarebbe bastato ritiragli il passaporto come per esempio è accaduto con Berlusconi), non inquinava nessuna prova perché al momento prove contro di lui non ce ne sono, né tantomeno era in procinto di reiterare il reato. Già, il reato. Di che cosa è accusato l’ex ministro? Secondo la Dia di Reggio Calabria, Scajola avrebbe intrattenuto rapporti “sospetti” con Chiara Rizzo, la moglie dell’ex parlamentare del Pdl Amedeo Matacena, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa (un reato a sua volta di assai incerta definizione), e avrebbe “interessato” un faccendiere italiano con interessi in Libano – lo stesso implicato nella fuga di Dell’Utri – per favorirne la latitanza. La parabola di questi vent’anni è agghiacciante. Nel fuoco di Tangentopoli un isolato deputato missino agitò le manette nell’aula di Montecitorio e fu, giustamente, subissato di critiche. E molti, se non tutti, si scandalizzarono alle immagini di Enzo Carra, allora portavoce di Forlani, ammanettato come un assassino colto in flagrante. Oggi la galera ha sostituito l’avviso di garanzia, fra gli applausi della plebe urlante (che spesso e volentieri magari passa col rosso, non paga le tasse e devasta gli stadi) e di mezzo sistema politico. Non era necessario arrestare Scajola, e tanto meno era necessario allestire una gogna pubblica, chiamando giornalisti, fotografi e telecamere come se si trattasse di una conferenza stampa o di un reality show. E non era neppure necessario richiedere l’arresto di Francantonio Genovese, il deputato del Pd coinvolto nell’inchiesta della procura di Messina sui finanziamenti alla formazione professionale: eppure la Giunta per le autorizzazioni, con il voto decisivo di un Pd evidentemente spaventato dalla campagna elettorale, ha concesso senza batter ciglio ciò che i pm chiedevano. Lasciamo da parte, per favore, la solita stucchevole retorica sulla presunzione d’innocenza e sulla piena fiducia nell’operato dei giudici. In Italia da molti anni non è così, le sentenze si emettono prima dei processi (mentre spesso i processi si concludono con un nulla di fatto) e vale invece, sempre, la presunzione di colpevolezza, tanto più se sei un politico. I politici, come per esempio sostengono ormai apertamente Travaglio o Grillo, si dividono in inquisiti e non ancora inquisiti. Ai primi le manette in favore di telecamera, ai secondi il sospetto incancellabile. Può andare avanti un paese così? No, non può. Non si cura la rabbia con la vendetta, non si placa l’indignazione (spesso giustificata) con l’esemplarità del gesto inquisitorio. Succede invece l’esatto contrario, in una spirale di rancore e di rivalsa dalla quale, alla fine, nessuno può sperare di salvarsi. Soprattutto, nessuno può sperare che così si ricostituisca una civiltà giuridica ormai dispersa e si gettino le basi di una nuova, indispensabile etica pubblica. Da Matteo Renzi, che alla sua ultima Leopolda prima di diventare segretario del Pd e presidente del consiglio aveva pronunciato parole importanti e impegnative sulla giustizia, ci si aspetta non una battuta più o meno polemica né tantomeno una guerra ideologica e personalissima “a la Berlusconi”, ma il segno di un cambiamento culturale, psicologico, emotivo – di una riforma intellettuale e morale.

La bufala della "giustizia a orologeria": nel 2014 almeno 27 fra condanne, arresti, indagini e prescrizioni, scrive Claudio Forleo su “International Business Times”. Ecco, puntuali come un orologio rotto che segna l'ora giusta solo due volte al giorno, arrivare i commenti dei soliti fenomeni che vedono negli arresti di oggi non una classe politica marcia fino al midollo, ma il solito complotto ordito dalle toghe politicizzate. E' la colossale balla della "giustizia ad orologeria", quella che si farebbe viva solo prima delle Elezioni, allo scopo di condizionare il voto.  Lo sostiene Elisabetta Gardini, candidata alle Europee nel partito di Berlusconi: "Avvenimenti come l'arresto di Scajola impediscono di parlare di ciò che preme alla gente".  Le fa eco su Twitter Bruno Vespa, uno che ama solo i processi 'alla Cogne', non quelli ai politici. "Arresti eccellenti in campagna elettorale. Giusto per rendere il clima più sereno e trasparente". Chiaro, no? Se un ex ministro dell'Interno, fino all'altro ieri in corsa per un posto alle Europee, viene accusato di aver aiutato la latitanza di un condannato per mafia, chi se ne frega! Se si vota ogni anno (Politiche, Europee, Comunali, Regionali) e se la classe dirigente si fa arrestare, condannare o indagare almeno una volta al mese, è ovviamente colpa dei magistrati che fanno politica e che avvelenano il clima. Teoria riciclata anche quando le elezioni non sono alle porte. Qualsiasi arresto, sentenza o apertura di indagine è sempre 'a orologeria', che sia Ferragosto o Natale una 'spiegazione' si trova sempre. Purtroppo per questi teorici del complotto di serie Z notizie del genere sono le più frequenti quando si parla di politica in Italia, voto o non voto. Da gennaio ad oggi contiamo almeno 3 condanne, 6 rinvii a giudizio, 6 arresti o richieste di arresto (compresi i casi Scajola, Greganti e Frigerio) 10 aperture di indagini e 2 prescrizioni.

Parlamentari, ministri, candidati, consiglieri regionali, membri di spicco dei partiti (presenti e passati). Ecco il dettaglio:

2 maggioLuigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, poi senatore del PD, condannato a otto anni di carcere per appropriazione indebita. Avrebbe intascato 25 milioni di euro. 

16 aprileMaurizio Gasparri, ex ministro e vicepresidente del Senato, rinviato a giudizio per peculato. Si sarebbe appropriato di una somma pari a 600mila euro dell'allora gruppo PDL per intestarsi una polizza sulla vita.

11 aprile: richiesta d'arresto per Marcello Dell'Utri. Il braccio destro di Silvio Berlusconi che, pur non facendo più politica attiva, resta il padrino di Forza Italia che riscrive la Costituzione con Renzi. Ma la "persona perbenissimo" (copyright dell'ex premier) fugge a Beirut. La richiesta di estradizione è di 48 ore fa.

3 aprile: nuovo arresto per Nicola Cosentino, già reduce da svariati mesi a Secondigliano (solo dopo aver perso il seggio da parlamentare), poi tornato a fare politica attiva con Forza Campania e ad incontrarsi con Denis Verdini nei giorni che precedono la nascita del governo Renzi. L'accusa è di concorrenza sleale ed estorsione con metodo mafioso.

1° aprile: chiusa indagine sulle spese pazze nella Regione Campania e notifica dell'atto, che in genere precede la richiesta di rinvio a giudizio, per Umberto Del Basso De Caro (PD, sottosegretario alla Sanità), Domenico De Siano ed Eva Longo (senatori di Forza Italia). Per tutti l'accusa è di peculato.

31 marzoSilvio Berlusconi incassa l'ennesima prescrizione, la settima della sua 'carriera', nell'ambito del procedimento Fassino-Consorte. Dopo la condanna in primo grado ad un anno per rivelazione di segreti d'ufficio, la Corte d'Appello di Milano dichiara il reato estinto.

27 marzo: il governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti, da poco passato con il NCD di Alfano, viene condannato a sei anni di reclusione e all'interdizione dai pubblici uffici per aver firmato falsi bilanci all'epoca in cui era sindaco di Reggio Calabria, Comune poi sciolto per infiltrazioni mafiose, il primo capoluogo di provincia nella storia d'Italia a subire questo provvedimento. Scopelliti, che avrebbe comunque dovuto lasciare la carica per effetto della legge Severino, non fa una piega, come il ministro degli Interni e leader del suo partito: candidato alle Europee.

27 marzo: l'ex tesoriere dell'UDC Giuseppe Naro è condannato ad un anno di reclusione per concorso in finanziamento illecito ai partiti: avrebbe intascato dall'imprenditore Di Lernia una tangente da 200mila euro. 

26 marzo: Lorenzo Cesa, segretario dell'UDC e candidato alle Europee, è indagato per finanziamento illecito nell'inchiesta su tangenti e fondi neri che coinvolge Finmeccanica e il SISTRI, il sistema di tracciabilità dei rifiuti mai entrato in funzione. 

19 marzo: richiesta d'arresto per il deputato del Partito Democratico Francantonio Genovese, re delle preferenze alle parlamentarie PD, ras di Messina e dintorni. portatore di conflitti di interesse e soprattutto re della formazione professionale in Sicilia. Lui si 'autosospende' dal partito, in compenso i colleghi della Giunta per le Autorizzazioni di Montecitorio se la prendono comoda: Genovese resterà al suo posto almeno fino a dopo le Europee. Ma guai a parlare di 'ritardi ad orologeria', sono solo molto scrupolosi.

3 marzo: l'ex presidente della Regione Lombardia, oggi presidente della Commissione Agricoltura nonchè 'diversamente berlusconiano', il Celeste Roberto Formigoni, viene rinviato a giudizio. per associazione a delinquere e corruzione nell'ambito dell'inchiesta sulla Sanità: la sua Giunta, nel corso degli anni, avrebbe adottato provvedimenti favorevoli ad aziende private, in cambio di viaggi e regali di varia natura. 

Marzo: al sottosegretario alla Cultura Francesca Barraciu, già indagata per peculato in Sardegna, vengono contestati altri 40mila euro di rimborsi non giusitificati ottenuti all'epoca in cui era consigliere regionale. La posizione della Barraciu si aggrava nonostante le rassicurazioni arrivate dal PD sul chiarimento che il sottosegretario avrebbe offerto ai magistrati. 

28 febbraio: il ministro per le Infrastrutture Maurizio Lupi è indagato per concorso in abuso di atti d'ufficio per la nomina all'Authority di Olbia di un ex deputato del PDL, Fedele Sanciu, il quale non avrebbe i titoli per ricoprire tale incarico.

27 febbraioFilippo Penati, accusato di concussione a Monza nell'inchiesto sulle tangenti del cosiddetto 'sistema Sesto' incassa la prescrizione nonostante avesse più volte dichiarato di volerci rinunciare.

21 febbraio: l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno e l'ex presidente della Regione Lazio Renata Polverini sono indagati per finanziamento illecito relativamente ad una provvista di denaro di 25mila euro, che sarebbe stata "realizzata con false fatture di Accenture e destinata ad un falso sondaggio sulla qualità dei servizi scolastici".

28 gennaio: Nunzia De Girolamo, ex ministro delle Politiche Agricole, viene iscritta nel registro degli indagati nell'ambito dell'inchiesta condotta sulle nomine all'ASL di Benevento.

23 gennaio: Silvio Berlusconi è iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Milano nel terzo filone di inchiesta sul caso Ruby (per cui ha già ricevuto una condanna in primo grado a sette anni). Per lui e gli avvocati-parlamentari Longo e Ghedini l'accusa è di corruzione in atti giudiziari. 

16 gennaio: richiesta di rinvio a giudizio per l'ex presidente della Regione Piemonte Roberto Cota e per altri 39 consiglieri regionali. L'inchiesta è ancora sul grande scandalo delle spese pazze. 

14 gennaio: Davide Faraone, membro della segreteria PD, è indagato nell'ambito dell'inchiesta sulle spese pazze nella Regione Sicilia.

Una lista infinita, e abbiamo considerato solo l'anno in corso. Ma condanne, imputazioni o indagini a carico non limitano la carriera dei politici o dei manager che orbitano nella stessa galassia. Nonostante il rinvio a giudizio per la strage di Viareggio (disastro colposo plurimo), Mauro Moretti è stato scelto dal governo Renzi come AD di Finmeccanica. Paolo Scaroni ha guidato l'ENI per un decennio nonostante una condanna ricevuta durante Mani Pulite e altre indagini a carico. Come dimenticare le liste dei partiti per le prossime Europee, piene di impresentabili, come abbiamo riassunto nell'articolo dello scorso 17 aprile. Quella della giustizia ad orologeria è una bufala, mentre una bella indagine a carico, meglio ancora una condanna, fa curriculum.

Da Ruby a Tangentopoli bis: a Milano inchieste col trucco. Dalle carte del Csm sullo scontro tra Bruti e il suo vice Robledo spuntano anomalie anche per assegnare il caso Expo. Le nuove accuse del pg Minale. E il procuratore capo attacca i pm. Scomparsa gli indagati per mafia dal fascicolo sull'esposizione 2015, scrivono Michelangelo Bonessa e Luca Fazzo su “Il Giornale”. Che fine hanno fatto le accuse di associazione mafiosa che Ilda Boccassini ha utilizzato per conquistare la gestione dell'inchiesta sugli appalti dell'Expo? Di queste accuse, nell'ordine di custodia eseguito l'altro ieri mattina, quello che ha portato in carcere tra gli altri Primo Greganti e Gianstefano Frigerio, non c'è più traccia. E così anche di questo dovrà occuparsi il Consiglio superiore della magistratura, che la prossima settimana interrogherà tra gli altri proprio la Boccassini: e dovrà capire se lo scontro in corso a Milano sia figlio di protagonismi personali e di «populismo giudiziario», come sostiene ieri il procuratore Bruti Liberati. O se invece, come afferma il principale accusatore di Bruti, il procuratore aggiunto Alfredo Robledo, a Milano una ristretta cerchia di magistrati, tutti più o meno legati a Magistratura Democratica, si impadronisca di tutti i fascicoli più delicati in violazione delle regole della stessa Procura. Nelle carte già in mano al Csm ci sono già alcuni dati di fatto da cui sarà impossibile distaccarsi. Sono i punti fermi che ha messo Manlio Minale, l'anziano procuratore generale, spiegando al Csm che in almeno due casi non è stata attivata la «necessaria interlocuzione» con Robledo, modo ostico per dire che il procuratore aggiunto è stato scavalcato, e che nell'inchiesta sulla Serravalle, che lambiva il Comune di Milano, il ritardo di Bruti nell'avviarla «ha pregiudicato le indagini». Ma davanti al Csm, Minale ha parlato anche di Expo, e qui le cose si fanno ancora più interessanti. Al Csm, Robledo aveva denunciato come una plateale anomalia il fatto che una inchiesta per reati di corruzione non fosse coordinata da lui, competente per questi reati, ma da Ilda Boccassini, ovvero dal pool antimafia. Ed ecco quanto dichiara Minale: «Robledo era portatore di un convincimento assoluto, che in quel procedimento ci fossero solo reati contro la pubblica amministrazione» e che dunque lui «fosse stato ingannato e messo da parte (...) tant'è che anche ultimamente ho detto: Guarda che io voglio essere tranquillo, mi sono fatto dare le iscrizioni e risultano iscritti alcuni indagati per 416 bis», cioè per associazione mafiosa. Così, con la presenza anche di un filone mafioso dell'indagine su Expo, si giustificherebbe la presenza della Boccassini nell'inchiesta. Ma l'altro ieri vengono eseguiti gli arresti, e nell'ordine di cattura non c'è traccia di accuse di mafia. Nella retata dell'Expo si parla di appalti, di tangenti, di politica, ma non di Cosa Nostra né di 'ndrangheta. E allora, che fascicolo venne fatto vedere a Minale, con le accuse di associazione mafiosa? Forse i vecchi fascicoli sulla penetrazione 'ndranghetista in Lombardia, da cui ufficialmente scaturisce l'inchiesta Expo. Ma è una parentela assai remota, passata per mille passaggi successivi. Non era certo di quei filoni, che Robledo si sentiva spodestato per scarsa affidabilità politica. Proprio ieri, per andare al contrattacco Bruti Liberati sceglie un convegno all'università Statale. E lì afferma esplicitamente che il «populismo giudiziario è un virus endemico nei corridoi delle Procure della Repubblica, ma da noi a Milano ha potenti antidoti». La frase di Bruti parte da una citazione di un libro di Luigi Ferrajoli, padre fondatore di Magistratura Democratica, che si riferiva soprattutto a Antonio Ingroia, capofila di quei pm che «cercano di costruire un consenso popolare non solo alle proprie indagini ma anche per la propria persona». Ma questo, per Bruti, è anche il caso di Alfredo Robledo. E quei «potenti antidoti» di cui parla ieri Bruti sembrano voler dire che il procuratore è convinto di uscire vincente dallo scontro, in cui si sente attaccato non in nome della trasparenza ma del «populismo» e dell'ambizione personale.

MIRACOLATI. I SALVATI DA MANI PULITE.

Mani Pulite, in tv i conti non tornano, scrive Michele Brambilla su “La Stampa”. Ci sono leggende metropolitane che resistono ai secoli come gli spinaci che danno forza, e quindi non c’è da stupirsi se «1992» comincia con la scena, mille volte raccontata, di Mario Chiesa che butta nel water sette milioni di lire e tira lo sciacquone. Un fatto totalmente inventato. Ma l’ex presidente della Baggina milanese, che ha minacciato Sky di trascinarla in tribunale per quella scena, dovrebbe soprassedere perché a inventare quell’episodio fu proprio lui. Me lo confidò egli stesso nel decennale del suo arresto, in un’intervista. Quando gli agenti andarono ad arrestarlo, gli sequestrarono sette milioni in banconote pagategli dall’imprenditore Luca Magni, che aveva spifferato tutto a Di Pietro. Ma gli investigatori sapevano che i milioni avrebbero dovuto essere quattordici, divisi in due tranche: e chiesero notizie degli altri sette. «Li ho buttati nel water», rispose Chiesa, ma in realtà i soldi erano lì in bella vista sulla scrivania, incartati in un giornale, sotto il naso degli agenti che non se ne accorsero. Sarebbero serviti, poco dopo, per pagare l’anticipo all’avvocato difensore. Ma a parte questa, che è più che altro una curiosità, sono altri i conti che non tornano a chi ha vissuto quei giorni come testimone privilegiato, cioè come giornalista che scrisse già il primo giorno la cronaca dell’arresto, e che poi avrebbe continuato a seguire gli sviluppi dell’inchiesta con ahimè nefaste conseguenze sulla vita privata, visto che Di Pietro era dotato di un’energia sovrumana e gli arresti si succedevano senza soste giorno e notte. Intanto, a seguire Mani Pulite per il Corriere della Sera non c’era la bella bionda di «1992» ma i meno attraenti Goffredo Buccini e il sottoscritto. Ma è un dettaglio. Quello che il giornalista non ritrova è altro. È la resistenza a confessare da parte degli imprenditori, resistenza che si noterà soprattutto nella seconda puntata. In realtà gli imprenditori facevano la fila per andare a confessare le tangenti. Noi cronisti li vedevamo, al pomeriggio, in coda di fronte alla porta di Di Pietro. Perché confessavano? Un po’ perché avevano paura di essere beccati, ma molto perché a Milano c’era tutto un mondo che si era stancato di ingrassare i partiti. È per quella stanchezza, o almeno anche per quella, che Mani Pulite è decollata. Poi c’è Di Pietro. Quando ha fatto il politico, diciamo che non ha mostrato proprio il physique du rôle. Ma come investigatore era un fenomeno. Noi cronisti giudiziari avevamo già assistito a qualche inchiesta sulla corruzione, ma avevamo assistito anche alla loro conclusione: il nulla o quasi. Al massimo finiva in galera qualche sottopanza della politica, però ai pezzi grossi non si arrivava mai. La sera in cui arrestarono Chiesa, invece, noi tutti capimmo che era successo qualcosa di nuovo, perché Chiesa era uno degli uomini più potenti di Milano, e se avevano osato mettergli le manette voleva dire che avevano prove mai avute prima. E allora: un po’ perché Chiesa era stato preso «con le mani nella marmellata», come ci disse Di Pietro la mattina dopo, un po’ perché avevamo visto tanti imprenditori che parevano penitenti in fila davanti a un confessionale, capimmo che Mani Pulite sarebbe stata davvero un grande ribaltone. Fu il giornalismo politico a non comprendere subito che i vecchi partiti erano al capolinea. Alle elezioni di aprile 1992 i grandi quotidiani, in blocco, appoggiarono il Pri di Giorgio La Malfa, scambiato per il nuovo che avanzava e destinato, invece, a guadagnare lo zero virgola. Il Paese andava da un’altra parte e sarebbe stata la Lega – che nella fiction ha il volto rozzo dell’ex soldato Pietro Bosco – a sfondare a sorpresa. «1992», comunque, non pretende di essere un documentario ma narrativa, e ha il merito di rendere bene l’Italia di quegli anni, oltre che di non farcela rimpiangere. E non rimpiangere il passato, di questi tempi, è già qualcosa.

Da Chiesa all’avviso a Berlusconi. I segreti dell’inchiesta e di uno scoop. Protagonisti e retroscena dell'inchiesta che ha cambiato l'Italia, scrive Goffredo Buccini su “Il Corriere della Sera”. Eravamo giovani, pensavamo che il bene stesse tutto di qua e il male tutto di là. Mani pulite la vedemmo così, dall’inizio e per molto tempo. Mario Chiesa l’avevano preso del resto come un magliaro, mentre cercava di buttare nel water una mazzetta da sette milioni d’allora, lirette: il cattivo ridotto a caricatura per punizione. In quei primi giorni girava una battuta tra noi, nella sala stampa del Palazzo di Giustizia: «Figuriamoci se parla!». Al tempo, non usava. Infatti l’ingegnere amico di Bettino Craxi, che si sognava sindaco di Milano ed era frattanto diventato signore e padrone della «Baggina», l’ospizio dei milanesi con un patrimonio immobiliare miliardario, se ne restò muto come un pesce nelle prime settimane a San Vittore. Aveva due insidiose spine nel fianco, è vero: Luca Magni, il piccolo imprenditore che, strangolato dalle tangenti, s’era rivolto al capitano dei carabinieri Roberto Zuliani per disperazione e l’aveva inguaiato; e Laura Sala, che di Chiesa era la moglie separata, e aveva cominciato a raccogliere per la causa civile carte bancarie che sarebbero poi diventate micidiali in mano agli investigatori. Tutto sommato, però, il primo arrestato di Mani pulite aveva fondati motivi per essere fiducioso e per pensare che stavolta non fosse diversa dalle altre. Quando, sette anni prima, avevano portato in galera Antonio Natali, presidente della Metropolitana milanese e imbuto delle tangenti per i partiti di maggioranza e opposizione, Craxi in persona s’era mosso, da presidente del Consiglio, per fargli coraggio con una calorosa visitina in cella. Poi lo aveva fatto eleggere senatore, e allorché Saverio Borrelli aveva chiesto l’autorizzazione a procedere, il Senato gliel’aveva negata tra applausi da centro, destra e sinistra dell’emiciclo, raccontano i verbali della seduta. L’inchiesta Mani pulite poteva cominciare già nell’85, ma allora i partiti comandavano, gli imprenditori avevano il loro tornaconto, le ruberie finivano sotto la voce «costi della politica» e tutti facevano finta che fosse normale. «Figuriamoci se parla!», ci dicevano quindi vecchie lenze della giudiziaria come Annibale Carenzo o Adriano Solazzo, al bar senza orpelli di via Freguglia che odorava di mensa aziendale, in un Palazzo di Giustizia che, come loro, ne aveva vissute tante ma era assolutamente marginale nella mappa del reale potere cittadino e mai aveva visto un politico finire e restare seriamente impigliato nella rete. Chiesa lo sapeva. E aspettava con calma che venisse qualcuno a liberarlo. Lo chiamavano «il Kennedy di Quarto Oggiaro» per via del ciuffo giovanilista. Dal Pio Albergo Trivulzio, la «Baggina» per la sua collocazione nella periferia grigia e dignitosa di Baggio, questo manager svelto di mano aveva distribuito case a prezzi stracciati ad amici e amici degli amici, giornalisti inclusi, e aveva tenuto la borsa aperta per le bustarelle socialiste del dopo-Natali. Ne sapeva insomma abbastanza per essere convinto di finire tra i salvati con un trattamento simile all’antico boss della Metro, che di Craxi era ritenuto da molti il papà politico. Il 17 febbraio Ettore Botti, capocronista del Corriere, richiamò chi era di corta: al telefono di casa, perché i cellulari (giganteschi e pesanti, Fabio Poletti di Radio Popolare usava uno zaino per portare il suo, da campo...) ce li avrebbero «cuciti» addosso solo di lì a poco, quando l’inchiesta sarebbe diventata un lavoro senza pausa dalle nove di mattina alle due di notte. Ettore era un napoletano che aveva fatto strada a Milano: calvinista creativo, generoso e iracondo, detestava intrallazzi e intrallazzatori e s’era puntato già da un pezzo la fasulla icona della metropoli da bere che nascondeva party alla coca, modelle alla Terry Broome e tanta, tanta politica marcia. «Questo è uno grosso, ma chissà se parla», disse. Era già un passo avanti rispetto al «figuriamoci» di noi ingenui, Ettore aveva fiuto e talento. A Milano giravano del resto da anni barzellette sui socialisti ladri, e finivano per insozzare così la migliore tradizione d’una città governata per decenni da socialisti e socialdemocratici perbene, quelli come Bucalossi o Aniasi, che avevano fatto la Resistenza, creato una metropoli operosa e aperta, incoraggiato una cultura di cui Streheler e il Piccolo Teatro erano solo la manifestazione più visibile. Prima che arrestassero Chiesa un ragazzo di bottega della cronaca giudiziaria poteva imparare molto sull’inossidabilità di certa politica, assistere allo smantellamento del processo per le tangenti Icomec, agli inutili sforzi del sostituto procuratore Francesco Greco per acciuffare ancora e sempre Natali, reso inattaccabile dal Parlamento. Si intuiva una corruzione «sistemica», come nel caso delle bustarelle all’assessorato per l’Edilizia privata, con l’ufficetto parallelo da cui Sergio Sommazzi velocizzava le pratiche dei grandi costruttori milanesi. Di gente come Silvano Larini si parlava a mezza voce, come di una fantomatica foto di Craxi col boss Epaminonda che tutti cercammo e nessuno trovò mai: nelle notti di Brera balordi e politici, fandonie e perdizioni si mischiavano in un cocktail fascinoso come una canzone della Vanoni. Il primo squarcio davvero imbarazzante, e subito richiuso, venne da un’inchiesta pittoresca, cui pochi crederono davvero. A fine anni Ottanta, nel nucleo operativo dei carabinieri di via Moscova lavorava un tenente toscano con una faccia da bambino che gli faceva dimostrare persino meno della sua età. Si chiamava Sergio De Caprio, tutta Italia l’avrebbe conosciuto più tardi come il Capitano Ultimo capace di piantare una Beretta sulla faccia di Totò Riina. A Milano s’inventò la Crimor, la squadretta specializzata contro boss e picciotti, mettendo insieme gli avanzi delle altre sezioni, mattocchi come lui che nessuno voleva tra i piedi. Usavano nomi di battaglia come Aspide o Vichingo, si mimetizzavano per settimane vivendo come i sospetti che pedinavano, piazzavano cimici ovunque. Seguendo Tonino Carollo, rampollo ripulito del clan Fidanzati che assieme a un gruppo di immobiliaristi sognava di lottizzare terreni a sud di Milano, finirono per inciampare in Attilio Schemmari, potente assessore all’Urbanistica, e a sfiorare Paolo Pillitteri, primo cittadino e cognato di Craxi, che quando entrava a San Siro si faceva precedere in tribuna vip da un portavoce capace di dire seriamente frasi come «fate largo, sta passando il sindaco». In Procura c’era una giovane pm, Ilda «la Rossa» Boccassini, che a volte superava per passione certi limiti e che, tanto per avviare l’interrogatorio della moglie d’un indagato, le chiese: «Signora, lo sa che suo marito ha un’amante?». L’inchiesta di Ilda e Ultimo la chiamammo Duomo Connection, senza molta fantasia, il grande intrigo di Pizza Connection era di pochi anni prima: costò il futuro politico a Schemmari (un altro che, come Chiesa, si sognava sindaco) ma arrivò meno lontano di quanto immaginassimo. Presero un po’ di colletti bianchi, qualche prestanome, Pillitteri fu lambito con cautela, nei giornali di Milano il Psi contava parecchio. Questa era la città dove tutto incominciò. Tonino Di Pietro ha raccontato di recente a Marco Damilano che, prima delle vacanze di Natale del 1991, ci fu una riunione tra i rappresentanti degli imprenditori e i segretari amministrativi dei partiti nazionali. Le «migliori imprese», un centinaio, erano tutte coinvolte nel sistema, ha ricordato. Si stabilirono le percentuali, quella volta: 25 per cento alla Dc, 25 al Psi, 25 ai ministri in carica dei partiti minori, 25 al Pci-Pds non in forma di quattrini ma di quota lavoro per le cooperative. Un anno prima di pizzicare Chiesa, Tonino aveva descritto nel numero di maggio di Società Civile il sistema della dazione ambientale, dove salta il confine tra corruzione e concussione, e chi deve pagare non aspetta nemmeno la richiesta perché sa che in quell’ambiente così fan tutti. A Natale 1991, il sistema aveva ormai una sua contabilità condivisa. Ma i soldi stavano finendo, e con essi andava logorandosi il patto che tutto teneva. In questa Milano, Di Pietro era l’archetipo dell’outsider furbo e deciso a salire in alto. Stava nella stanza 254 della Procura, esattamente all’altro capo del lunghissimo corridoio che si dipanava dagli uffici del procuratore Borrelli: un segno di marginalità, perché il peso dei sostituti si misurava con la prossimità al capo. Eppure Tonino ne faceva anche un tratto di indipendenza. Andava per le spicce. Quattro anni prima, indagando sulle patenti facili, aveva arrestato un centinaio di esaminatori e esaminandi, li aveva fatti portare in una caserma della stradale e li interrogava sbraitando, agitandosi, passando a grandi falcate da un terzo grado all’altro, con un innato senso scenico. Aveva messo in piedi anche lui una squadretta come quella di De Caprio. Ma i suoi moschettieri, raccolti in prevalenza tra poliziotti e vigili urbani, non sembravano pervasi dal sacro fuoco come i carabinieri di Ultimo. Comunicavano un senso di trattativa. Come Tonino. Rocco Stragapede, il più fedele, ciabattava come Tonino, come Tonino ammiccava, lasciandoci passare infine con il sussiego d’un maggiordomo fidatissimo. Lui ci riceveva nella 254 coi piedi sulla scrivania, si tirava su i calzoni e si grattava le caviglie con voluttà: chiamava tutti noi, ragazzini borghesi dagli studi facili, «dottori», un po’ con rispetto e un po’ con ironia. Faceva il Bertoldo, stava sperimentando un personaggio, il figliolo di mamma Annina, il contadino di Montenero di Bisaccia emigrato al nord, laureato chissà come mentre faceva mille lavori e assurto infine alla gloria della toga: noi non sapevamo nemmeno dove fosse Montenero di Bisaccia. Se recalcitrava nel darci qualche notizia talvolta banale, lo punivamo storpiandogli il cognome tutti insieme, nei pezzi del giorno dopo: diventava per refuso Antonio Di Dietro, e allora borbottava senza prendersela più di tanto. Eravamo tutti attorno ai trent’anni, la sala stampa non era ancora affollata dai colleghi delle tv, i vecchi marpioni della giudiziaria non credevano s’andasse lontano e lasciavano fare a noi ragazzini. In quei primi giorni d’inchiesta, la scoperta di una seconda cassaforte segreta di Chiesa ci apparve una notizia clamorosa e definitiva. Nemmeno Di Pietro immaginava fino in fondo dove si sarebbe arrivati. Borrelli, figlio d’arte (il padre Manlio era stato presidente di corte d’appello), napoletano raffinato e certo non inviso dapprincipio ai salotti politici della città, l’aveva sempre guardato dalla siderale distanza del corridoio, entomologo illustre che contempla una curiosa specie d’insetto: continuava a gravarlo di processetti per droga, finché una parola sbagliata cambiò il corso degli eventi come una valanga. L’ingegnere della Baggina aveva resistito quando Di Pietro gli aveva scovato in Svizzera i conti Levissima e Fiuggi e, beffardo, aveva sibilato all’avvocato Diodà: «Riferisca al suo cliente che l’acqua minerale è finita». Crollò quando Craxi, sotto una pressione popolare inattesa che di lì a poco sarebbe sfociata nel terremoto elettorale del 5 aprile (crollo del pentapartito, primo boom della Lega), gli affibbiò il famoso epiteto di «mariuolo»: una mela marcia isolata, insomma. C’era un prefabbricato giallo al centro del cortile della procura: attorno carabinieri e poliziotti, dentro Tonino e il «mariuolo». Ogni tanto Nerio Diodà faceva capolino per prendere aria, e aveva una faccia diversa. Chiesa stava parlando, parlò per sette giorni. Quando smise di parlare, ci fu un attimo di sospensione, giusto il tempo di digerire il risultato elettorale. Poi, il 22 aprile, arrestarono otto imprenditori: avevano lavorato per il Pio Albergo Trivulzio, pagato il solito obolo all’ingordo ingegnere. Entrarono a San Vittore, confessarono, uscirono. Noi stavamo nei giardinetti davanti al carcere, basiti, a prendere appunti, quando spuntò Vittorio D’Ajello, difensore di uno degli otto, un vecchio avvocato chiacchierone e affabile che ne aveva viste di cotte e di crude, e quasi strillò: «Andranno avanti per anni! Faranno centinaia di arresti!». Verso sera, Di Pietro si lasciò andare a una confessione con Paolo Colonnello, il cronista del Giorno, che tra noi gli era più vicino: «Potrei arrivare a Craxi… ma bisogna andarci piano». Quella notte, chiusi i giornali, noi ragazzi della giudiziaria la tirammo lunga in una trattoria di via Moscova vicino al Corriere. Il pool dei giornalisti nacque così, quando capimmo che ci sarebbero stati da raccontare dieci avvisi di garanzia e cinque arresti al giorno, e bisognava controllare che le notizie fossero tutte vere e non inquinate, in un contesto dove già si vedevano all’opera i primi avvelenatori di pozzi: non vale la pena di evocare qui la corte dei miracoli di faccendieri, cialtroni, spie a mezzo servizio e finti giornalisti che già da quel ’92 hanno messo le loro mani sporche dentro e sopra Mani pulite, sarebbe un’altra storia. E si è detto fin troppo su quel gruppetto di ragazzi che fummo; ma per il tempo che durò la nostra leale collaborazione tra cronisti di testate rivali – meno d’un anno – nessuna notizia fu occultata, ciascuna fu verificata almeno due volte, i colleghi dei giornali più deboli e quindi più esposti a pressioni politiche furono protetti dal fatto che tutti gli altri giornali avrebbero dato quella notizia e dunque capiredattori e direttori non avrebbero avuto motivo di censurare il loro lavoro. Il salto di Mani pulite avvenne perché gli otto imprenditori denunciarono i cassieri segreti dei partiti, gli «elemosinieri», e mandarono in galera personaggi come Maurizio Prada della Dc o Sergio Radaelli del Psi: così il muro del silenzio si incrinò. Uno del calibro Prada, allora presidente dell’azienda municipale dei trasporti, dovette infatti vivere la faccenda come un tradimento e iniziò a raccontare le tangenti che le aziende a loro volta offrivano per primeggiare. Un’autentica reazione a catena, tipica del sistema messo a punto da Di Pietro: vai dentro, denunci i complici, diventi per loro inaffidabile, esci. Confessioni estorte? Indubbiamente sì, da un certo punto di vista. E tuttavia perfettamente legali. Roberto Mongini, presidente milanese della Dc, capace di emergere da San Vittore indossando una maglietta «Mani Pulite Team» che fece furore, ha di recente spiegato a Federico Ferrero come, se non fosse stata usata la carcerazione preventiva «con mano piuttosto pesante», è chiaro che avrebbe parlato il 10 per cento di chi ha invece confessato. Si potrà discutere altri vent’anni sull’accettabilità di una procedura del genere (sempre avallata da un gip, sempre dallo stesso gip, Italo Ghitti). Quasi tutte le grandi aziende finirono nei guai, la Fiat tra le prime: il Corriere di Ugo Stille, allora affidato di fatto al vicedirettore Giulio Anselmi, aveva Fiat nella proprietà ma tenne la barra dritta. Sei giorni dopo la confessione degli otto, ventitré giorni dopo le elezioni politiche, Borrelli capì che Tonino non poteva restare solo, e gli affiancò due pm di cui aveva grande fiducia, Colombo e Davigo. Gherardo Colombo era un colto cattolico di sinistra che aveva guardato in faccia il drago, avendo scoperto col collega Turone gli elenchi della P2 e lavorato sui fondi neri dell’Iri. Piercamillo Davigo era un giurista affilato, incorruttibile, prodotto di una destra perbenista e militaresca. I nemici lo chiamavano Vichinsky, il procuratore delle purghe staliniane. A conoscerlo, lo si sarebbe detto più simile a Javert, il drammatico sbirro dei Miserabili. «Non ci sono innocenti ma colpevoli non ancora scoperti», usava dire, ed era difficile capire fin dove scherzasse. Dietro di loro, il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, «zio Jerry», da molti sospettato di essere una quinta colonna del Pci che gli avrebbe pagato gli studi da ragazzo povero, in realtà giudice espertissimo dai tempi di piazza Fontana, amico di Galli e Alessandrini ammazzati dal terrorismo rosso. Il Primo maggio caddero sotto gli avvisi di garanzia il sindaco in carica e il suo predecessore, Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli. Si aprì ufficialmente la caccia a Craxi, che al bar del tribunale presero a chiamare «Cinghialone»: la 2021 dimensione umana degli indagati era già passata in un tritacarne e dimenticata. Anche da noi giornalisti. Nato un metodo, molto controverso, nato il pool Mani pulite, l’Italia impazzì. «Liberaci dal male che ci perseguita», scrivono a Tonino da ogni parte dello Stivale. Nascono comitati, si fanno fiaccolate, manifestazioni di sostegno sotto Palazzo di Giustizia al grido di «Tonino non mollare!», si mescolano le facce di Sabina Guzzanti e Paolo Rossi a quelle degli ancora missini di Gianfranco Fini. Escono agiografie in cui si racconta seriamente che l’estate prima Di Pietro ha salvato una donna che stava affogando in mare, portandola al sicuro con poche maschie bracciate, acclamato «come un Dio» dagli altri bagnanti. Va a ruba il poster degli Intoccabili con le facce del pool in fotomontaggio, Borrelli e i suoi si concedono due passi in Galleria e l’evento diventa un bagno di folla. In capo a un anno le televisioni renderanno permanente questo show, con il bravo Andrea Pamparana a seguire i processi per il nuovo tg di Mentana e il surreale Paolo Brosio piantato da Fede davanti alle rotaie del tram ad annunciare la fine del mondo: tv berlusconiane, perché a lungo il Cavaliere tentò, se non di andar d’accordo coi pm, di farli suoi, come fuoriclasse stranieri che è meglio giochino nella tua squadra. Mi capitò di scendere a Montenero di Bisaccia per la morte di mamma Annina, la madre di Di Pietro, e di portare da Milano in macchina con me Davigo e Colombo: fu come avere sui sedili il Gigi Riva dei mondiali messicani e il Mussolini della conquista d’Etiopia, alle stazioni di servizio la gente cercava di entrarmi nell’abitacolo dai finestrini. Molto, e molto di male, si può dire adesso di tanti voltagabbana che, dopo avere votato e omaggiato potenti e corrotti per decenni, si misero ad applaudire come tricoteuse coloro che stavano mozzandone la testa. E tuttavia nella garagista che dalle parti del tribunale ci implorava, «dite a Tonino che sto con lui», c’era anche altro, una voglia di cambiare genuina, poi andata persa. Quella fu l’estate di Craxi, ancora a giugno candidato alla presidenza del Consiglio e affossato da una prima ondata di indiscrezioni sui verbali di Chiesa. Sentendo che il suo tempo stava per finire, Bettino pronunciò un memorabile discorso alla Camera sul sistema di finanziamento della politica che sapeva di chiamata in correità per tutti gli altri leader di partito (tranne un giovane Massimo D’Alema, nessuno fiatò). Poi, nel segno di quella duplicità tra uomo di Stato e nemico dei magistrati che lo stava perdendo, lasciò circolare voci insistenti sul suo «poker contro Di Pietro», un miscuglio di veleni e mezze notizie che riscaldarono molto il clima di quei mesi già roventi: apripista di un lungo elenco di rivelazioni vere o presunte, tutte volte a dimostrare che l’eroe nazionale era un mezzo eroe o, addirittura, un poco di buono. Dalla Mercedes facile ai cento milioni in prestito a costo zero, dai rapporti con D’Adamo e Gorrini all’abitudine che Pillitteri aveva di chiamarlo simpaticamente «Ninì» quando non era ancora un pm spaccamontagne, dall’amicizia con il discusso ex capo della Mobile Eleuterio Rea fino all’ambiguo Chicchi Pacini Battaglia sulla cui intercettazione («sbancato» o «sbiancato» da Tonino?) si interrogheranno i posteri se ne avranno voglia, va rammentato che Di Pietro conosceva, sì, qualcuno tra quelli che arrestò e tuttavia l’arrestò ugualmente, e che è uscito pulito da una lunga serie di processi: anche se non ama ricordare che il proscioglimento a Brescia conteneva rilievi deontologici abbastanza insidiosi da porre in una luce meno romantica il suo successivo abbandono della magistratura, con la toga sfilata per l’ultima volta davanti alle telecamere, in diretta come tutto quello che avveniva ormai in tribunale, il 6 dicembre ’94. Tuttavia, se in questa parte della vicenda non tutti gli angoli sono stati illuminati è anche colpa di noi giornalisti, di quegli stessi che seguirono l’inchiesta dalle prime battute. Giovani entusiasti com’eravamo, non ci demmo pena di guardare se in tanto fango ci fosse qualche fiorellino di verità. Manichei come chi trova in ogni atto giudiziario la conferma di ciò che ha sempre pensato, derubricammo alla voce «veleni» quanto di dissonante poteva emergere dal 22 23 passato di Di Pietro, perdendo così qualcosa della nostra funzione. Fu un grave errore, perché lasciammo per mesi il monopolio di questi filoni a un giornalismo di parte, preso in una logica di scontro tra fazioni, e dunque non consentimmo ai lettori indipendenti e moderati di formarsi sin da subito un’opinione in proposito. Ma più grave, perché avveniva sotto i nostri occhi ogni giorno, fu non dare peso alla processione degli avvocati accompagnatori, quei legali che in barba alla loro deontologia salivano in procura non per difendere il cliente ma soltanto per farlo confessare in fretta ciò che i pm volevano: grave fu non interrogarci subito sull’archetipo di questa stravagante categoria forense, il mercuriale e quasi ignoto Geppino Lucibello, amico intimo di Di Pietro, diventato in un attimo e per lungo tempo l’avvocato che con più certezza garantiva all’indagato un veloce disbrigo della pratica e spesso gli evitava il fastidioso passaggio all’ufficio matricola del carcere milanese. Il 15 dicembre del ’92 si levarono infine grida di giubilo in sala stampa quando arrivò la notizia che a Craxi era stato consegnato il primo avviso di garanzia. Troppi erano, ormai da troppo, troppo vicini all’inchiesta. Il primo a suicidarsi fu Renato Amorese, segretario socialista di Lodi: non un personaggio di primo piano, ma la dignità non presuppone appeal da copertina. «Mi hanno sputtanato», disse. Sergio Moroni, deputato socialista, s’ammazzo il 2 settembre, dopo avere mandato a Napolitano, allora presidente della Camera, una lettera terribile in cui s’interrogava su una politica da cambiare ma parlava anche di processo «sommario e violento» e di «decimazioni». Sua figlia Chiara, che ne ha ereditato la passione e siede in Parlamento, ha raccontato a Federico Ferrero che era insopportabile per lui «essere scaraventato nel calderone dei ladri». Poi si uccisero Gabriele Cagliari e Raul Gardini. Il saggio recente di Ferrero cita uno studio di Nando Dalla Chiesa e colloca a 43 il numero delle vittime «per cui è accertata una morte cagionata dall’onta del coinvolgimento nel giro della corruzione e del finanziamento illecito». Molti anni dopo è doveroso riflettere su questo dato. In un’Italia che festeggiava, come liberata dall’invasore, l’azione dei pm che annunciavano di dovere «rovesciare il Paese come un calzino», c’era chi, abbandonato in un cono d’ombra con le proprie paure e i propri rimorsi, decideva di non poter sopravvivere in questo mondo sottosopra. La sensazione di uno smottamento complessivo era tangibile. A dicembre del ’93, un anno dopo il primo avviso di garanzia a Craxi e un anno prima dell’addio di Di Pietro alla toga, Saverio Borrelli accettò di darmi una delle tre interviste che, in nemmeno dieci mesi, gli avrebbero attirato l’astio di una bella fetta di mondo politico o di ciò che ne sarebbe rimasto. Mancava poco alle nuove elezioni legislative, che si sarebbero poi tenute a marzo del ’94. I partiti tradizionali affogavano, Achille Occhetto pensava di avere tra le mani una «gioiosa macchina da guerra», sui muri delle grandi città erano apparsi manifesti misteriosi con bambini su sfondo azzurro che balbettavano teneramente uno slogan: «Fozza Itaia». Alla domanda «non temete di influenzare pesantemente il voto?», Borrelli mi rispose: «Vorrei rilanciare la palla sull’altra sponda, a chi farà politica domani: prendete consapevolezza di questa situazione, dico io. Chi sa di avere scheletri nell’armadio, vergogne del passato, apra l’armadio e si tiri da parte. Tiratevi da parte prima che ci arriviamo noi…». È difficile capire perché un magistrato introverso, che da ragazzo si sognava pianista e aveva indossato la toga solo cedendo al padre, uno che se n’era stato zitto fino ai sessant’anni e oltre, decidesse di colpo di uscire allo scoperto così clamorosamente. Può darsi, come insinuano molti, che le luci della ribalta abbagliarono l’antico giurista secchione. Può darsi anche, però, che il procuratore sentì davvero come compito suo quello di esporsi per mettere al riparo i propri sostituti: la sua successiva uscita di scena, in punta di piedi, con il solo incarico di presidente dell’amato Conservatorio di Milano che poi gli sarebbe stato tolto dalla Gelmini senza troppi complimenti, farebbe propendere per questa seconda ipotesi. Alcuni eventi avevano infatti caricato sulle spalle dei magistrati milanesi un fardello pesante come mai. Nell’inchiesta erano entrati la Fininvest di Berlusconi e il Pci-Pds, e i fascicoli relativi avevano portato uno strascico ideologico inquinante. Il filone delle tangenti rosse venne affidato a Tiziana Parenti, detta Titti, che subito puntò sul tesoriere Pds Marcello Stefanini per le mazzette che sarebbero state versate dal gruppo Ferruzzi a Primo Greganti. In galera, il «compagno G.» ruppe lo schema confessione-scarcerazione e non disse una parola sul suo partito, accreditando ulteriormente l’idea di una certa diversità comunista. Titti non aveva grande esperienza, pareva spaesata nella macchina ormai rodata del pool, dal suo buen retiro all’Elba accusò i colleghi più anziani di «isolarla»; il tifo della stampa di destra non l’aiutava di certo. L’avviso di garanzia a Stefanini fu il punto di non ritorno nella crisi dei suoi rapporti con D’Ambrosio, incaricato di sovrintendere a questo filone e da sempre sospettato di essere troppo tenero con Botteghe Oscure. Le accuse reciproche di avere voluto affossare o salvare gli ex comunisti accompagneranno entrambi: Titti avrà un seggio con Forza Italia e poi mollerà la politica, D’Ambrosio è attualmente un senatore del Partito democratico. È ormai il tempo dei grandi latitanti. Il 7 febbraio del ’93 si consegnerà a Di Pietro, appena varcato il valico di Ventimiglia dopo mesi trascorsi in Polinesia, Silvano Larini, l’architetto amico di Craxi, l’uomo delle notti al Giamaica di Brera, detentore di uno dei segreti più resistenti della storia repubblicana: il mistero del conto Protezione, numero 633369 sull’Ubs di Lugano, spuntato per la prima volta oltre dieci anni addietro dalle carte della P2 di Licio Gelli. Il conto è sempre stato suo, spiega, ma Craxi, accompagnato da Claudio Martelli, durante una passeggiata tra corso di Porta Romana e piazza Missori, nell’autunno dell’80, gli chiese di prestarglielo per operazioni di finanziamento all’estero: i primi tre milioni e mezzo di dollari arrivarono il mese stesso, altrettanti furono accreditati a febbraio dell’anno successivo. La via della latitanza l’aveva presa anche Giovanni Manzi. Meno picaresco dell’architetto, Manzi era presidente della società aeroportuale e soprattutto veniva considerato uno dei grandi collettori delle tangenti socialiste. A metà gennaio, pochi giorni prima della resa di Larini, Ettore Botti nel suo ufficio da capocronista del Corriere ebbe una dritta buona da Adriano Solazzo, il decano dei cronisti giudiziari, ormai pensionato ma sempre informatissimo: Manzi era stato visto qualche settimana addietro a Santo Domingo, puerto escondido dei fuggiaschi di mezzo mondo. Ettore volle mandare me, che avevo pochissima esperienza di estero. Il direttore Paolo Mieli mi mise accanto Alessandro Sallusti, a quel tempo formidabile collega dell’ufficio centrale. Sandro e io partimmo con l’incarico di trovare almeno una foto, una ricevuta, insomma una prova non taroccata del passaggio di Manzi nell’isola dove vero e falso s’acquistavano per un pugno di banconote. Sbarcati in quella specie di lunapark del sesso gremito di italiani pieni di voglie, ci dividemmo andando dove vanno due cronisti che non sanno che pesci pigliare: Sandro in ambasciata, io nel giornale locale. Entrambi con una domanda cauta ma chiara: dove potrebbe sistemarsi un connazionale danaroso che desidera riservatezza? La sera ci ritrovammo in albergo con la medesima risposta: Casa de Campo, un resort di lusso con cinquecento ville, a un’ora e mezzo di macchina dalla capitale. Ci mettemmo una settimana, villa dopo villa, cancello dopo cancello, con un pacco di foto del «señor Giovanni» e un pacchetto di dollari da distribuire ai giardinieri. All’ultima villa, quella giusta, dietro un ennesimo cancello sbattuto in faccia, sentimmo parlare italiano. Restammo acquattati nell’erba davanti al muro di cinta per tutta la mattina. Quando Manzi ci mandò fuori il suo gigantesco guardaspalle, Julio, cominciò la trattativa: avevamo ricostruito i suoi quattro indirizzi precedenti, Santo Domingo era un’isola cara ai socialisti, se voleva lasciar fuori chi l’aveva aiutato doveva incontrarci. La mattina 26 27 dopo «el señor Giovanni» si lasciò intervistare nel nostro albergo. I poliziotti non l’avevano trovato per mesi; due giornalisti qualsiasi, venuti da Milano, ci misero sette giorni. Fu uno scandalo, i dominicani non poterono più far finta di nulla: dovettero arrestarlo, rimpatriarlo. Manzi scese dall’aereo a Malpensa e trovò i carabinieri, noi trovammo Botti che «corrompendo» il personale di terra era venuto a prenderci sotto la scaletta dell’aereo per festeggiarci. Quell’autunno gli italiani guardarono in diretta tv il disfacimento dell’Italia sino ad allora conosciuta. Il 28 ottobre Di Pietro portò in aula, per la tangente Enimont, Sergio Cusani: tutte le udienze furono trasmesse dalla Rai in una infinita soap opera che registrò ascolti clamorosi. Bocconiano, ex leader del Movimento studentesco, amico personale di Gardini, Cusani era accusato di avere mediato tra il patron della Ferruzzi e i politici. Non volendo tradire il rapporto con Gardini, morto nel frattempo suicida, rifiutò di collaborare coi pm e mantenne – tra i pochi – un atteggiamento di grande dignità, scegliendo il difensore più lontano per storia e attitudine dagli «avvocati accompagnatori »: Giuliano Spazzali, un passato in Soccorso Rosso, vero antagonista della cultura del pentimento catartico sottesa a Mani pulite. Decidendo di processarlo da solo, Di Pietro volle trascinare alla sbarra in qualità di testimoni, e dunque con l’obbligo di rispondere e dire il vero, i principali leader dei partiti che finora erano sempre sfuggiti a un confronto diretto con lui grazie alle guarentigie parlamentari. Processualmente, zero. Mediaticamente, un cataclisma. Ne sortirono udienze memorabili. I milanesi facevano la fila nei corridoi del tribunale per trovare posto in aula. Tutti, tranne l’orgoglioso Craxi, uscirono con le ossa rotte. Il penoso farfugliamento di Arnaldo Forlani, incapace di controllare la propria salivazione davanti alle telecamere, resta forse l’immagine più imbarazzante di quel cambio di stagione. Di Pietro, esaltato dalle tv e da firme importanti come Gian Antonio Stella e Paolo Guzzanti infine apparse accanto a noi ragazzi a ritrarne il profilo, affinò il dipietrese, cominciando a usare scientificamente frasi come «che c’azzecca?», entrate poi nel lessico popolare. Quello, per lui, fu il vero diploma di laurea. Quell’autunno gli italiani guardarono in diretta tv il disfacimento dell’Italia sino ad allora conosciuta. Il 28 ottobre Di Pietro portò in aula, per la tangente Enimont, Sergio Cusani: tutte le udienze furono trasmesse dalla Rai in una infinita soap opera che registrò ascolti clamorosi. Bocconiano, ex leader del Movimento studentesco, amico personale di Gardini, Cusani era accusato di avere mediato tra il patron della Ferruzzi e i politici. Non volendo tradire il rapporto con Gardini, morto nel frattempo suicida, rifiutò di collaborare coi pm e mantenne – tra i pochi – un atteggiamento di grande dignità, scegliendo il difensore più lontano per storia e attitudine dagli «avvocati accompagnatori »: Giuliano Spazzali, un passato in Soccorso Rosso, vero antagonista della cultura del pentimento catartico sottesa a Mani pulite. Decidendo di processarlo da solo, Di Pietro volle trascinare alla sbarra in qualità di testimoni, e dunque con l’obbligo di rispondere e dire il vero, i principali leader dei partiti che finora erano sempre sfuggiti a un confronto diretto con lui grazie alle guarentigie parlamentari. Processualmente, zero. Mediaticamente, un cataclisma. Ne sortirono udienze memorabili. I milanesi facevano la fila nei corridoi del tribunale per trovare posto in aula. Tutti, tranne l’orgoglioso Craxi, uscirono con le ossa rotte. Il penoso farfugliamento di Arnaldo Forlani, incapace di controllare la propria salivazione davanti alle telecamere, resta forse l’immagine più imbarazzante di quel cambio di stagione. Di Pietro, esaltato dalle tv e da firme importanti come Gian Antonio Stella e Paolo Guzzanti infine apparse accanto a noi ragazzi a ritrarne il profilo, affinò il dipietrese, cominciando a usare scientificamente frasi come «che c’azzecca?», entrate poi nel lessico popolare. Quello, per lui, fu il vero diploma di laurea. Era pronto all’ultimo grande salto, in politica. Il nuovo padrone dell’Italia, Silvio Berlusconi, uscito trionfatore dalle elezioni del 27 marzo 1994, pensò di offrirgli il trampolino del ministero degli Interni, invitandolo a parlarne a Roma, in via Cicerone, nello studio di Cesare Previti. Tonino ha raccontato di avere cortesemente rifiutato, avendo un lavoro da finire (quello di ripulire l’Italia, evidentemente). Io ho sempre saputo che fu fermato in corsa da Borrelli e da Davigo, altro oggetto dei desideri del nuovo centrodestra berlusconiano. Il clima, tra politica e magistratura, era, se possibile, perfino peggiorato. In un’intervista agli inizi di maggio, Borrelli mi disse che, ove tutto fosse precipitato, loro avrebbero accettato un incarico di governo «se Scalfaro gliel’avesse chiesto». Gli diedero del golpista. In realtà la risposta venne dopo mie estenuanti insistenze e molte ipotetiche e subordinate, ma il titolo uscì secco: essendo il procuratore un galantuomo, non smentì una virgola. Ben più grave, dal punto di vista dei rapporti tra poteri dello Stato, il pronunciamento di Di Pietro e dei suoi colleghi a luglio, che affossò il decreto del neoministro Biondi sui limiti alla carcerazione preventiva: ancora e sempre in diretta tv, si minacciarono dimissioni di massa, forzando la mano al presidente Scalfaro che non firmò il decreto. La pausa estiva non placò le acque. Tra governo e pm si andava allo scontro finale. Il 5 ottobre Borrelli si lasciò intervistare di nuovo e mi disse che sarebbero arrivati «a livelli altissimi». Si riferiva all’inchiesta su Telepiù, ma tutti lessero quella frase come un preavviso di garanzia a Berlusconi. Che il Cavaliere fosse ormai nel mirino era un segreto di Pulcinella. Quando successe ero a Roma, alla Camera: Paolo Mieli mi aveva fatto inviato e spedito a seguire anche la politica, era il 21 novembre. Gianluca Di Feo, il mio socio di quegli anni, da figlio di carabiniere qual era, capì che quel movimento di generali in procura non poteva spiegarsi, come gli dissero, con la festa della Virgo Fidelis, protettrice dell’Arma: sapeva che non erano quelli i giorni giusti. Si attivò così la macchina dei nostri controlli, in poche ore Gianluca ed io arrivammo all’invito a comparire che i pm di Milano avevano mandato a Berlusconi mentre presiedeva a Napoli una conferenza mondiale sulla criminalità. Una storia molte volte raccontata, compreso l’abbraccio con Mieli prima di andare a scrivere, il suo scaramantico fondo di dimissioni pronto nel cassetto, la notte insonne che io e Gianluca passammo nel timore di avere preso un abbaglio. Molte volte ci chiesero chi fosse la nostra fonte. Gianluca e io siamo gli unici a conoscerne l’identità. Non l’abbiamo ovviamente mai rivelata allora, anche protetti da un direttore galantuomo come Mieli, non lo faremo certo adesso. Fece bene la Procura a mandare quell’atto al presidente del Consiglio mentre era impegnato su un palcoscenico mondiale? Penso di no. Dovevamo pubblicare la notizia noi, quando l’avemmo? Sono sicuro di sì. Il resto non credo sia così importante in un Paese che vent’anni dopo ancora non ha riportato il proprio tasso di corruzione a livelli fisiologici. Pochi mesi fa, è tornata al disonore delle cronache l’autostrada Milano-Serravalle. Fu uno dei piatti forti dell’estate 1992. Bruno Binasco, un imprenditore ora indagato, lo era anche allora, sia pure come braccio destro di Marcellino Gavio, che nel frattempo è morto. Con qualche ragione, questo decano dell’intrallazzo racconta di avere conosciuto tutti i politici. Tutti. Mani pulite non ci ha salvato, forse perché dovevamo salvarci da soli. Dovremo farlo, prima o poi: per non restare ingabbiati altri vent’anni in un déjà vu collettivo peggiore di qualsiasi galera.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano” racconta Mani Pulite: così Di Pietro diventò idolo. Tangentopoli 20 anni dopo: murales, strisioni, titoloni dei giornali: un carrozzone che ha reso il pm "meglio di Pelè". Ieri raccontavamo che i cosiddetti principi del foro, con poche eccezioni, durante Mani pulite non batterono chiodo. Non era sfuggito che avvocati poco noti, ma graditi ad Antonio Di Pietro, erano i difensori di tutti i principali accusatori di Tangentopoli: cambiare avvocato si traduceva in un cambio di atteggiamento e in una potenziale svolta processuale, ergo si usciva dal carcere o neppure ci si entrava. Il semi-sconosciuto Giuseppe Lucibello, compagno di bisboccia di Tonino, assunse difese clamorose come quella del banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia. Anche il democristiano Roberto Mongini, che di legali ne cambiò addirittura tre, cambiò e cominciò a parlare. Uno come Salvatore Ligresti rimase in carcere per cinque mesi sinché cambiò avvocati e fu subito liberato previo cambio di atteggiamento. Autentica guerra di nervi fu poi quella combattuta da Michele Saponara, presidente dell’Ordine degli Avvocati: il socialista Loris Zaffra, da lui difeso, rimase a San Vittore per sei mesi sinché non dette incarico a un altro e fu l’apriti sesamo. Eppure, fiutata l’aria, Zaffra era giunto a far verbalizzare: «Non intendo avvalermi di un altro avvocato ». «La Procura», accusò Saponara, «fece sapere alla famiglia di Zaffra che se voleva tornare libero doveva cambiare avvocato». A tal proposito, ascoltato dagli ispettori ministeriali nel 1995, Saponara produrrà una testimonianza secondo il quale un pm del Pool aveva urlato a Zaffra: «Se non cambia legale, si dimentichi di uscire». Ma le accuse non trovarono conferma. Col tempo, e col progredire dell’inchiesta, architrave di Mani pulite diverrà invece lo studio del professor Federico Stella, eminenza grigia, difensore dell’Eni e futuro ghostwriter di Antonio Di Pietro. Il professor Stella difese l’imprenditore Fabrizio Garampelli, che con le sue confessioni spedì in galera praticamente chiunque tranne se stesso; difese uno sterminato numero di dirigenti dell’Eni «buono» ed elaborerà ben due proposte di legge per uscire da Tangentopoli, entrambe appoggiate dal Pool: una a ottobre 1992, elaborata in seno all’Assolombarda, di cui pure era difensore, e un’altra praticamente identica nel settembre 1994, presentata in pompa magna alla Statale di Milano. A dispetto di queste semplificazioni, comunque, in Mani pulite trovarono spazio anche avvocati con posizioni più varie e sfumate. Quando L’Espresso nella primavera 1993 pubblicò una specie di hit parade degli avvocati di Tangentopoli (titolata «Primo Bovio, ultimo Chiusano») il presunto vincitore, Corso Bovio, scrisse così al settimanale: «La qualità di un avvocato non si misura dalla durata della carcerazione... Credo che la sua funzione sia quella di far rispettare la dialettica del processo. Mi autoassolvo, ma non sento di assolvere il mio ruolo... Perry Mason non è famoso perché pilota le confessioni o patteggia le pene. Oggi sono vincenti l’inquisizione, il pentitismo, lo Stato di Polizia con le sue manette e le sue galere». Intanto il pool proseguiva con una tripartizione precisa: Di Pietro interrogava, Colombo spulciava le carte e Davigo vergava le richieste di autorizzazione a procedere. Italo Ghitti invece autorizzava gli arresti «privilegiando la rapidità al cesello», come dirà Colombo. Dirà invece Di Pietro, appena più grezzo: «Io andavo dai colleghi e segnalavo un’operazione che mi puzzava. "Vedi che cosa è successo qui?" Questo secondo me è un reato di porcata... Cari Davigo e Colombo, cavoli vostri, entro domattina trovate una soluzione che dal punto di vista giuridico non faccia una piega perché non voglio rischiare una sconfitta dal tribunale della Libertà”». Traduzione: io lo metto dentro, il come e il perché trovatelo voi. Ha raccontato Primo Greganti, storico inquisito comunista: «Avevano emesso un mandato d’arresto illegittimo. Ma, dopo aver ammesso l’errore, Di Pietro mi disse: “Adesso vado da Davigo, e vedrai che lui un motivo per tenerti dentro lo trova”. Fatto sta che tornai in cella per altri ventisei giorni». A Di Pietro era permesso tutto, anche perché si avviava a divenire un eroe nazionale: partecipò alla festa della Polizia e l’applaudirono per due minuti. Il suo status era cambiato in un niente: gli avevano riverniciato la stanza, aveva quattro scrivanie, tre computer e due poltroncine girevoli in similpelle. Gli giungevano migliaia di lettere da tutt’Italia, soprattutto immaginette sacre e santini di Padre Pio, e la sera le portava a casa per leggerle al figlio. Il Corriere della Sera, nella sola settimana dal 7 al 15 maggio, sfoderò questi titoli: «Il pm contadino, quasi un eroe», «La domenica tranquilla dell’eroe», «Il fascino discreto dell’uomo onesto». Il dipietrismo nacque ufficialmente in maggio. La prima scritta era stata individuata nel parcheggio dello stadio di San Siro: «Di Pietro, sei meglio di Pelè». Poi un «Grazie Di Pietro» in via Manin e poi lo striscione «Di Pietro sindaco» ancora a San Siro. E così via. «La rabbia degli onesti corre sui muri» titolò l’Unità del 10 maggio. A metà del mese ecco la prima fiaccolata pro Di Pietro con cabaret finale a cura di Lella Costa, David Riondino, Paolo Rossi più una giovanissima Sabina Guzzanti. Il 30 maggio, su Italia Uno, Gianfranco Funari nel suo programma «Mezzogiorno italiano» fece partire uno spot quotidiano con immagine di Di Pietro che camminava e una voce di sottofondo che lo incitava: «Vai avanti... vai avanti...». Anche la strage di Capaci registrò il tentativo di sfruttare la morte di Falcone per portare acqua a Mani pulite. Il magistrato morì un sabato, e lunedì 25 maggio «la Repubblica» uscì in edizione straordinaria col titolo «L’ultima telefonata con Di Pietro». La morte del magistrato siciliano ebbe il potere di accelerare l’elezione del presidente della Repubblica dopo un interminabile gioco di fumate nere, veti e contro-veti. Il 25 maggio elessero Oscar Luigi Scalfaro, sponsorizzato da Marco Pannella e Bettino Craxi, che non se ne pentiranno mai abbastanza. Dopo le tormentate elezioni di Giorgio Napolitano e Giovanni Spadolini alla Camera e al Senato, anche la corsa per palazzo Chigi s’avviava a conclusione: «Craxi», sussurravano tutti. Ma la sera del 3 giugno la notizia era un’altra: «C’è anche il nome di Craxi nell’inchiesta sulle tangenti» disse il Tg1. Di Pietro precisò: «Allo stato il mio ufficio non ha rilevato nulla di penalmente rilevante che possa riguardare la famiglia Craxi». Allo stato, Craxi non sarebbe stato presidente del Consiglio, punto. La sua parabola si fece discendente anche se il 3 luglio pronunciò un discorso alla Camera destinato a passare alla Storia, parole che per buona parte riverserà in un altro discorso che pronuncerà il successivo 29 aprile 1993, giorno precedente all’assedio dell’Hotel Raphael. Craxi chiese al Parlamento di assumersi le proprie responsabilità per trovare una soluzione politica alla crisi della Prima Repubblica. Lo fece quando mancavano quasi sei mesi a un suo coinvolgimento effettivo in Mani pulite, e quando l’eventualità che potesse essere inquisito pareva semplicemente impensabile. Racconterà il segretario amministrativo della Dc Severino Citaristi: «Dissi a Forlani che era il momento di prendere posizione, ma invano». Secondo Giovanni Pellegrino, Pds, allora presidente della giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato, «Quando Craxi fece quel discorso c’era ancora qualche margine per fare almeno delle riforme che consentissero di uscire dal pantano, ma non se ne fece niente perché Occhetto aveva altri programmi: pensava che il Pds sarebbe uscito indenne e che gli altri partiti sarebbero stati cancellati dalla geografia politica». Agosto fu il mese dei  tre corsivi sull’«Avanti!» vergati da Bettino Craxi. Il segretario socialista il 23 la mise giù dura: «Col tempo potrebbe persino risultare che il dottor Di Pietro è tutt’altro che l’eroe di cui si sente parlare, e che non è proprio oro tutto quello che riluce». Senza farla tanto lunga: il poker di Craxi non era un bluff, tutte le  carte - Mercedes svendute, frequentazioni, prestiti eccetera - verranno calate negli anni successivi e saranno decisive per le dimissioni di Di Pietro dalla magistratura. Ma allora non c’era neanche il tavolo per giocare. Di fatto, per qualche tempo, fioccarono le scarcerazioni: «Come mai», notò anche il Corriere della Sera, «Di Pietro rinuncia alla sua proverbiale risolutezza? Perché una linea tanto morbida?» Se lo chiese anche Gherardo Colombo: «È successo che tornando dalle ferie estive dissentisse su iniziative di Piercamillo e mie in tema di custodia cautelare... Ciò si verificava contestualmente al fatto che la stampa avesse avuto da ridire su alcuni aspetti dell’indagine». Ma forse, a contribuire a una certa cautela, il 3 settembre era stato anche il terribile suicidio del deputato socialista Sergio Moroni. La sua toccante lettera spedita al Presidente della Camera, letta al Tg2 e pubblicata da tutti i giornali, denunciava un clima da caccia alle streghe e risvegliò qualche orgoglio parlamentare. Ma erano colpi di coda. Il 19 settembre il cassiere socialista Vincenzo Balzamo passò da Palazzo di Giustizia e fu preso d’assalto dai cronisti: e nessuno di loro ricorda quel giorno con particolare orgoglio. Ma la sindrome era tale che L’Avanti!, poco tempo dopo, titolò «Querci: ho dato 400 milioni a Balzamo» quando nessun altro giornale fece altrettanto, anche perché Balzamo intanto era sul letto di morte. Il 2 novembre fu stroncato da un infarto e l’Indipendente titolò in prima pagina «Balzamo, infarto da mazzetta». Quello stesso giorno altri giornali titolavano invece «Di Pietro in autostrada soccorre una ferita» e resta il fatto che tutte le accuse contro il segretario amministrativo del Psi, di lì poi, sarebbero state deviate su Craxi.

Filippo Facci su "Libero Quotidiano. Mani Pulite vent'anni dopo: Tangentopoli? E' finita per coprire Tonino Di Pietro. Il leader Idv di dimise alla fine del 1994, spaventato dall’ispezione ministeriale: aveva troppe cose da nascondere. Sono in pochi ad avere il coraggio di dire la verità (tutta) circa la fine di Mani pulite: perché è una verità che non serve a nessuno. Non serve a quei manettari professionali che hanno sempre bisogno di prefigurare un'elite disonesta e vessatoria (in genere politica) che a loro dire lucra su una maggioranza onesta e vessata, ciò che un tempo avrebbero chiamato società civile. Non serve ai partiti d'ampio respiro che vorrebbero rappresentare grandi fasce di popolazione: troppo estese per poter rivendicare moralità e moralismi come precetti-cardine. Non conviene alla magistratura più militante, tantomeno conviene a quell'informazione che sullo sfondo della contrapposizione casta/cittadini si illude di raschiare eternamente copie e ascolti. Sicché circolano scampoli di verità. Mani pulite finì perché Antonio Di Pietro si dimise alla fine del 1994: il neogoverno berlusconiano gli sventolò un'ispezione ministeriale davanti al naso e poi, un secondo dopo che si era dimesso, la richiuse; Di Pietro ammise pubblicamente di essere rimasto condizionato dall'ispezione - se non ricattato - talché si dimise dopo averne saputo la chiusura, e però intanto continuò a spiegare al mondo che non aveva niente da nascondere. Un sostanziale baratto, un affare in cui ciascuno pensava di fottere l'altro: da una parte perché Di Pietro da nascondere aveva un sacco di cose (tutte nero su bianco nella sentenza del Tribunale di Brescia n.65/1997 del 29.1.1997, dove si spiega che certi suoi comportamenti gli avrebbero fruttato perlomeno dei provvedimenti disciplinari) e dall'altra perché le sue ambizioni politiche erano stagliate da un pezzo, e lo si è visto. E perché? Perché «Mani pulite è finita, i tempi sono cambiati, non c’è più acqua nel mulino delle indagini, voglio scendere da cavallo prima di essere disarcionato»: così aveva confidato al gip Italo Ghitti nell'aprile precedente. Senza un certo clima, poi, Di Pietro valeva poco: e lo dimostra quando accadde al Pool dopo l'abbandono. Pm come Paolo Ielo ed Elio Ramondini tentarono di riesumare, concludere, archiviare o smistare procedimenti che erano stati l'architrave di Mani pulite: ma che erano rimasti un po' così, sospesi in quella fase preliminare dominata dagli interrogatori di Di Pietro, che in definitiva aveva portato sino in fondo solo il processo-vetrina a Sergio Cusani e il processo Enimont che ne era il clone: istruttorie semplici perché fondate perlopiù su confessioni. Ramondini e Ielo ebbero l'ingrato compito di raccappezzarsi nelle montagne di faldoni di cui soltanto Di Pietro conosceva una logica che spesso non c'era. Ramondini scoprì che montagne di atti sulla Fiat erano preclusi alle procure di mezz'Italia. Ielo perdette mesi per riordinare le carte dei filoni Pci-Pds, e quei pochi processi che si sono conclusi si devono a lui. La vecchia guardia del Pool, invece, puntava su Berlusconi: e questo convinceva pochissimo una larghissima fetta di Paese. Lo scenario era stava cambiando. Prima c'era Di Pietro che martellava, mentre agli altri pm, come dirà Francesco Greco, «competeva un lavoro di ricostruzione successivo agli interrogatori... ma la situazione si è modificata nel corso del 1994 quando le collaborazioni diminuirono fino a cessare. Fu lo stesso Di Pietro a dire che non arrivava più acqua al suo mulino, la tecnica investigativa cambiò». L'acqua, a dirla tutta, arrivava al mulino direttamente dal carcere. Era il carcere, irrogato o temuto, che stimolava le collaborazioni. Era il carcere, coi suoi effetti, che era venuto a mancare durante quel cambio di stagione che Tonino aveva subodorato. E' quasi divertente come i colleghi Barbacetto e Gomez e Travaglio, nel loro tomo «Mani pulite», appena rinfrescato, cerchino di dissimulare questa verità elementare: «Fin dai primi interrogatori, per una fortunata e forse irripetibile somma di abilità investigative, situazioni psicologiche e condizioni politiche, economiche e ambientali, i magistrati si trovano davanti persone che presto o tardi finiscono per confessare». Cioè: confessavano perché erano in galera e volevano uscire. Confessavano perché non volevano finirci, bene che andasse. Erano quelle le «situazioni psicologiche»: le altre, «politiche, economiche e ambientali», fecero parte del contesto «irripetibile» che permise un uso spropositato delle manette. La prassi di Mani pulite, sin dall'inizio, aveva ipotizzato reati i più gravi possibili così da giustificare ogni volta la carcerazione preventiva: questo anche per violazioni di tipo amministrativo come il noto finanziamento illecito dei partiti. Per capirlo, in fondo, è sufficiente guardare quanti dei 1230 condannati di Mani pulite abbiano subito delle carcerazioni preventive a dispetto di pene poi risultate inferiori ai due anni, condanne ossia a cosiddette pene sospese, con la condizionale: quasi tutti. E' noto: effettive condanne al carcere, alla fine di Mani pulite, praticamente non ce ne sono state. Eppure la regola è sempre stata chiara: tizio, se è presumibile che sarà condannato a meno di due anni, in carcere preventivo, non ce lo dovresti mettere; certo, la regola implica una capacità «prognostica» - direbbe un tecnico - di prevedere a quanti anni Tizio sarà probabilmente condannato: tra i compiti del magistrato c'è anche il cercare di presumerlo. Diciamo che il Pool ha sempre presunto molto male. Di Pietro ne era maestro da sempre: sparare reati incredibili e sbattere dentro perché tanto, per derubricare un reato, c'era sempre tempo. Il clima manettaro che aveva permesso ogni cosa, dalla fine del 1994 e con le dimissioni di Di Pietro, scomparve. Dall'altra parte, bene o male, c'era una classe politica rinnovata e legittimata, non è che il Pool avrebbe potuto respingere a vita tutte le norme del Parlamento. Dall'estate 1994, oltretutto, molti indagati dell'inchiesta sulle Fiamme Gialle (e su Berlusconi) non avevano collaborato neppure se carcerati: perché erano militari, forse, o perché non vollero e basta. Capitò anche con la Fininvest: del resto collaborare, assecondare l'accusa, non è obbligatorio. Dirsi innocenti, o crederlo, o addirittura esserlo, è ancora possibile, è lecito: e non per questo si marcisce dentro, nei paesi civili. Nei paesi civili si va in galera dopo una condanna, non prima. E si attende il processo con la prospettiva di finirci, non di uscirne. Da qui la svolta spiegata dal pm Francesco Greco: «Dopo le dimissioni di Di Pietro cominciammo a lavorare prevalentemente su documenti e con altre tecniche, quali intercettazioni telefoniche ed ambientali, in precedenza trascurate in quanto non necessarie».  Non necessarie perché c'era il carcere. Ora, invece, potevano e dovevano ricominciare a lavorare come dei magistrati normali. Ma questi sono scampoli di verità, come detto. La verità tutta, per dirla male, anzi malissimo, è che troppa gente rimase insospettita dal mancato coinvolgimento dei vertici del Pci e viceversa dalla pervicacia con cui si puntava su Berlusconi. Ma detta un po' meglio, il vero problema non fu la serpeggiante impressione che Mani pulite fosse ormai agli sgoccioli: stanca, talvolta astratta, con tutti quei cronisti che ciondolavano per i corridoi facendosi domande sul proprio futuro. Altri colpi di scena, del resto, non sarebbero mancati. Il problema, come il Pool non comprese per forma mentis, fu che l’inesorabile fine di una stagione non potè non coincidere con l'indagine sulla Guardia di Finanza. Quegli imprenditori che cominciarono a confessare d’aver pagato anche i finanzieri, perché chiudessero un occhio, fu l'inizio di una voragine che in potenza non avrebbe mai avuto fine. Un reparto accusò l’altro, un reparto arrestò l’altro. Intere legioni di militari finirono in carcere e alcuni erano collaboratori del Pool: qualcuno arrestato, qualcuno suicidato. Quell’immagine di finanzieri che iniziavano ad arrestarsi tra di loro divenne la metafora di un Paese che si stava divorando. Onesti e disonesti, concussi e concussori, taglieggiatori e vittime: parole sempre più svuotate di significato, termini utili per delimitare, secondo fazione, le proprie simpatie e i propri interessi. Nel Paese in cui tutti pagavano tutti si scoprì che, poveretti, gli agenti della Guardia di Finanza incassavano mazzette perché avevano stipendi da fame, e trescavano con l’esercente che, poveretto, senza fatture false avrebbe chiuso bottega, e trescavano col grande stilista che, poveretto, senza fatture false la bottega non l’avrebbe neanche aperta. La famosa dazione ambientale, che da lontano e sui giornali pareva solo un’associazione per delinquere, era vicina, vicinissima: dal fiscalista, dal commercialista, dal certificatore di bilanci, dall’impiegato comunale e regionale e statale, dall’avvocato, dal notaio, in negozio, al bar, nelle famiglie, con la domestica, nel 740, nello scontrino che non ti hanno dato, ma che tu non hai preteso. La cosiddetta inchiesta «Fiamme sporche» contò centinaia e centinaia di indagati ma comincerà a trasfigurare lo spettacolo di Mani pulite agli occhi del suo pubblico, a confondere proscenio e platea, a disamorare progressivamente da un'ubriacatura legalitaria ormai triennale e che dapprima era parsa tuttavia così liberatoria, espiatoria, deresponsabilizzante. Poi non più. Dirà anni dopo Francesco Saverio Borrelli: «L’atteggiamento dell’opinione pubblica cominciò a cambiare più o meno in coincidenza con l’indagine sulla Guardia di finanza... finché si trattò di colpire l’alta politica e i suoi rappresentanti, i grandi personaggi dei partiti che stavano sullo stomaco a tutti, non ci furono grandi reazioni contrarie. Anzi. Ma, quando si andò oltre, apparve chiaro che il problema della corruzione non riguardava solo la politica, ma larghe fasce della società, insomma che investiva gli alti livelli proprio in quanto partiva dal basso». Dirà pure Piercamillo Davigo: «Le vicende che mi hanno più depresso sono le piccole vicende. Mi sono capitati processi dove centinaia di persone hanno pagato somme di qualche milione per non fare il servizio militare. Centinaia di persone... Eppure tutti i giovani venivano da buone famiglie che li finanziavano, perché a diciannove anni non si hanno dei milioni cash nel portafogli. Questo la dice molto lunga sulla diffusione di certi comportamenti e sulla valutazione che di essi viene data nel complesso della società». La ciliegina finale è a cura di Enzo Carra, ex portavoce democristiano (ora all'Udc) che proprio Davigo aveva fatto condannare: «Mani pulite fu un piccolo squarcio nei nostri vizi pubblici e privati; poteva essere una grande occasione per metterli sotto accusa, questi vizi, insieme ai corrotti e ai corruttori. E’ stata una grande occasione mancata per cambiare le regole e i comportamenti nella nostra società... Con un’eccezionale prova dell’italianissima arte di arrangiarsi il cammino è ripreso come prima, o quasi... Invece di cambiare sistema si è cambiato discorso». Non c'è molto altro da aggiungere.

Filippo Facci su "Libero Quotidiano": Eccessi e le forzature che stravolsero Mani Pulite. Vent'anni dopo. I pm di Milano hanno calpestato l'articolo secondo cui solo in aula una testimonianza diventa prova. La verità è che il Pool di Milano era assortito fantasticamente e fu insuperabile nel fare ciò che volle fare. Di Pietro. Davigo. Colombo. Borrelli. Poi Ielo e Greco. Un po' meno D'Ambrosio, che in realtà non faceva un tubo se non dichiarazioni disastrose. Resta che per abbattere una Repubblica - che non è, in genere, un compito del potere togato - il Pool e tutta la magistratura stravolsero o sovra-interpretarono il Codice di procedura penale varato nel 1989: lo neutralizzarono e poi ridestarono come un frankenstein inquisitorio/accusatorio. A un Di Pietro usato come ariete (le manette come regola) si affiancò infatti una contro-legislazione operata dall’alto: alcune sentenze della Corte costituzionale  (su tutte la 255/92) e una legge  suicida  (il Decreto Scotti-Martelli) ristabilirono lo strapotere delle indagini preliminari; ai pm era sufficiente estrarre verbali d’interrogatorio e riversarli in processi che non contavano più nulla, ridotti a vidimazioni notarili delle carte in mano all’accusa. La loro totale discrezionalità dipendeva perlopiù dalla loro buona o cattiva disposizione, dalle trattative ossia che l’indagato fosse disposto ad accettare pur di uscire dal procedimento o dalla galera preventiva: colpevole o innocente che si ritenesse. Le condanne di Mani pulite (si parla di Milano) nacquero in maggioranza da patteggiamenti e riti abbreviati: 847 su 1254, esiti che erano stati ottenuti quando il carcere preventivo era la regola e quando nelle indagini tutto si esauriva, complice la stampa e le sue storture. Tutti quei nuovi riti erano divenuti le scorciatoie pagate a caro prezzo da chi aveva voluto uscire dal tritacarne giudiziario, dal Rito ambrosiano: ma tutto erano fuorché normalità, soprattutto per chi non era disposto a starci. Forse non è un caso che tra i 1320 indagati che il Pool spedì ad altre procure competenti il numero dei proscioglimenti fu altissimo. Tutta gente non colpevole ma che non figura, però, nella casistica ufficiale di Mani Pulite, come se Milano avesse teso a sbarazzarsi delle posizioni scomode e indisponibili alla confessione liberatoria. Si dovrà aspettare anni perché una riforma elementare ristabilisca un principio chiave che Mani pulite aveva fatto a pezzi: l'articolo 513, quello in base al quale solo nel processo una testimonianza può diventare una prova, non nel parlatorio di un carcere o in una caserma di polizia. Esattamente come accade nei film americani, dove tutto ciò che non avviene durante il processo, semplicemente, non esiste. In una sentenza bresciana che trattava delle omissioni di Mani pulite - sentenza favorevole a Di Pietro - il giudice fu costretto a scrivere che «le mancanze di approfondimenti rilevate appaiono del tutto in linea con i già evocati frenetici ritmi di lavoro che connotarono la prima fase di Mani Pulite». Chiamato a testimoniare, il pm Francesco Greco la mise così: «Difficilmente in Mani pulite i filoni investigativi venivano approfonditi oltre un certo livello, perché non c’era il tempo per farlo. Scoperto un episodio si andava a quello dopo». Il Pool era composto da gente cazzuta e competente, ma Mani pulite per certi aspetti fu un’indagine superficiale in cui la velocità primeggiò sulla qualità e sull’accuratezza. I magistrati sceglievano gli obiettivi a seconda delle possibilità del momento, e fu Francesco Saverio Borrelli a parlare di «Blitzkrieg»: «Era la guerra lampo tipica degli eserciti germanici, una penetrazione impetuosa su una fascia molto ristretta di territorio, lasciando ai margini le sacche laterali». Il Pool agiva allo stesso modo: «Tendeva ad arrivare rapidamente ad assicurarsi risultati certi, lasciando ai margini una quantità di vicende da esplorare in un secondo momento». Il punto è che i risultati giunsero perciò in un secondo momento (quando giunsero) oppure dal 1994 in poi, quando la stampa e il Paese già pensavano ad altro. Le carte che dimostrano come il Pds si finanziò in maniera illecita, per fare l'esempio più clamoroso, diventarono migliaia in tutto lo Stivale: ma non se ne accorse nessuno, perché nella fase più calda ed efficace - quando tutto era possibile, forzature comprese - il Pool si era concentrato sul Psi e sulla Dc. Il Pci-Pds si salvò anche per questo. Il Pool di Milano fece delle scelte. Forse non poteva evitarle, ma le fece, e questo contribuì a scrivere una storia perlomeno parziale. Per descrivere i singoli casi (segretari di partito abbattuti o neppure sfiorati, imprenditori salvati e altri suicidati, Eni buono ed Eni cattivo eccetera) non basterebbe un libro, ma il vizio d'origine è riscontrabile sin dai primi mesi dell'inchiesta, quando si propinò la favoletta degli imprenditori concussi e dei cattivi concussori, cioè i politici. Il 28 novembre 1992, a botta calda, il famoso Mario Chiesa fu condannato a sei anni e sei mesi e sei miliardi da restituire: il 160 per cento dei soldi ricevuti; mentre Fabrizio Garampelli, il concusso, difeso da legali graditi all'accusa, dovette rimborsare solo il 15 per cento senza che frattanto avesse mai smesso di lavorare: la sua azienda vinceva gli appalti del Pio Albergo Trivulzio da vent'anni - con ogni presidente - e continuò a farlo. Altri imprenditori se la cavarono con meno di due anni e la condizionale. Dirà lo stesso Mario Chiesa: ««Tangentopoli non nasce solo per la prepotenza dei politici. Di imprenditori estorti non c’è nemmeno l’ombra... corruttori pronti a prendere calci nel culo, a subire ogni vessazione, sempre pronti a presentarti ventisette donne pur di non uscire dalla loro nicchia ed evitare di misurarsi col libero mercato... Una logica da gironi danteschi: nel primo c’erano le imprese garantite per i lavori a cavallo del miliardo, nel secondo quelle per opere sui tre miliardi... sino alla Cupola, sei o sette imprese che si riuniscono e pianificano investimenti e leggi ad hoc per dividersi gli appalti secondo una logica mafiosa». Confermerà, molti anni dopo, Piercamillo Davigo: «Le imprese si sono sempre giustificate dicendo che erano state costrette a farlo, che erano concusse, ma quello che si è appurato nei processi o nei patteggiamenti, con le innumerevoli condanne, mi fa propendere per l’altra ipotesi, quella di una prevalente corruzione. Anche perché, molte volte, al versamento delle tangenti si accompagnavano sistematiche pratiche di alterazione delle gare attraverso gli accordi tra le imprese stesse. Insomma, molti imprenditori costituivano una categoria di soggetti abituati a vivere di ‘protezione’, al riparo della concorrenza, con un mercato privilegiato in cui gli appalti venivano suddivisi e spartiti al loro interno; in questa situazione il costo delle tangenti era rappresentato, a ben vedere, da cifre tutto sommato modiche rispetto ai benefici che se ne ottenevano». Mani pulite è anche questo, anzi, fu soprattutto questo, un'inchiesta giudiziaria che ebbe conseguenze politiche alla cui ombra potè accadere ogni cosa. E per forza: il Paese, agli albori del 1993, era un groviglio di manette, di malcontento e di retorica. Retate ad Ancona, Vercelli, Bergamo, Monza, in tutte le città d'Italia. Una manifestazione contro la manovra economica degenerò in scontri con 60 feriti. Gli scioperi fiorirono dappertutto e vennero contestati i sindacati. La Lega invitò a non acquistare i Bot, fallì un attentato contro la sede della Confindustria, scesero in piazza i commercianti contro l'annunciata minimum tax. Al segretario della Cisl, Sergio D’Antoni, tirarono un bullone in testa. Arrestarono l'intera giunta regionale dell’Abruzzo e l'intera giunta comunale di Vercelli. Ma è impossibile, ora, spiegare lo scenario in cui scivolavano le inchieste di quel periodo, ed è ancor oggi impossibile trovare un filo comune tra accadimenti che mozzavano il respiro: la bomba che il 14 maggio 1993 scoppiò al quartiere Parioli di Roma, l'autobomba che il 27 luglio scoppiò a Milano in via Palestro, le altre due l'indomani scoppiarono a Roma in piazza San Giovanni in Laterano e a San Giorgio al Velabro. L'opinione pubblica e i mass media si ritrovarono in un conformismo che si pensava smarrito. Durante il funerale delle vittime di via Palestro si distinsero frasi come queste: «Metteteli tutti a pane e acqua: la forca, ci vuole la forca!»;  «Giuràtelo che li metterete tutti alla forca!»; Di Pietro, fatti ridare i soldi che hanno rubato, devi sequestrare tutto, hai capito?». Dopo quel paio di suicidi eccellenti che avevano calamitato l’attenzione sui metodi della magistratura (Gabriele Cagliari e Raul Gardini) si ripartì tranquillamente in quarta. Un sondaggio, elaborato dopo i suicidi, spiegava che il 60 per cento degli italiani riteneva che la carcerazione andasse bene così. Ormai la magistratura prendeva i contorni di un grande gendarme con potere d’interdizione permanente su uomini e cose. Un faro accecante sul vuoto della politica. Il mondo giornalistico intanto esplodeva in entusiasmi conformisti di cui solo noi siamo capaci, come l'era Monti in parte dimostra. Il settimanale «L’Europeo» regalava gli adesivi circolari «Forza Di Pietro», «Panorama» esaltava l’Italia «dei tanti Di Pietro che sono fedeli alle mogli, una nuova specie di uomo». Chiara Beria di Argentine scriveva sull'Espresso sempre su Di Pietro: «Un implacabile nemico delle mazzette, un giudice mastino che interrompe i lunghi, estenuanti interrogatori offrendo Ferrero Rocher». Maria Laura Rodotà scriveva su Panorama: «Il nuovo eroe italiano, il nuovo modello, a grande richiesta... Di Pietro, eroe tranquillo, un role model, un modello di comportamento italiano». Laura Maragnani scriveva su Donna: «Di Pietro fa sognare anche le donne. Piace. Strapiace. C'è chi lo definisce un sex symbol, un eroe per gli anni Novanta... Dicono di lui che sia duro, testardo, di metodi spicci. E che sia onesto, onestissimo. Basta questo a farlo adorare alle donne? O è merito anche del suo anti-look, del calzino corto che si ribella alla tirannia sell'apparire?». Ah, saperlo.

Si è tradito sulle manette facili ai tempi di Mani Pulite. Il commento di Filippo Facci. L'ex pm ribatte alle accuse, ma finisce per ammettere: non ho mai violato la legge, volontariamente. «Cosa può dirci dei rapporti tra Craxi e Ligresti?». La domanda fu rivolta a Mario Chiesa pochi giorni dopo il suo arresto (17 febbraio 1992, alba di Mani pulite) e peccato che non c’entrasse un tubo con la faccenduola per cui Chiesa era stato arrestato. Ma per almeno un anno, di lì in poi, la parola «Craxi» diverrà la parola più ricorrente dell’intera inchiesta nonché «l’apriti sesamo» in grado di far lasciare il carcere a chiunque si decidesse a pronunciarla, venendo così incontro alle attese degli inquirenti. Ecco perché ci vuole un certo coraggio (o semplice ignoranza o cattiva memoria, a distanza di vent’anni) per negare o non ricordare che Bettino Craxi e il Psi siano stati palesemente l’obiettivo di Mani pulite sin dal principio", spiega Filippo Facci su Libero in edicola oggi. In questi giorni Antonio Di Pietro, uno dei grandi protagonisti di Tangentopoli, è stato accusato di aver usato in modo scriteriato la carcerazione preventiva nel corso dei giorni dell'inchiesta. E l'ex pm ribatte, ma si tradisce e finisce per ammettere: non ho mai violato la legge, volontariamente. E infatti sono i numeri a rivelare l'utilizzo politico che il pool fece delle manette. Per ogni reato - questo il metodo - si ipotizzava l'affiliazione a un sistema per giustificare la detenzione. E questo lo capirono tutti, non solo gli ex ambasciatori Usa (che oggi, seppur post-mortem, lo accusano).

Cimici, furti, spiate e bombe: quanti gialli nell'era del pool, scrive Filippo Facci su "Libero Quotidiano". Nei primi anni di Mani pulite una trentina di case, uffici e studi vengono «visitati» non si sa da chi. Tra questi quelli dei parlamentari Arnaldo Forlani, Giorgio Postal (sottosegretario ai Servizi di sicurezza), Calogero Pumilia, Riccardo Misasi, Calogero Mannino, Guido Carli (a quest’ultimo rubano la chiave del suo studio privato al ministero del Tesoro), Gianni De Michelis, Carmelo Conte, Rino Formica, Margherita Boniver (nei giorni in cui presentava una relazione sul caso Moro), Carlo Vizzini, Alfredo Biondi, Giorgio Pisanò, Silvia Costa, Gianfranco Macis (della Commissione stragi, sostenne che cercassero alcuni documenti) e Giovanni Galloni (vicepresidente del Csm). Il 9 gennaio 1991 Vincenzo Parisi, ascoltato dalla Commissione stragi, afferma che «vorrebbero fare dell’Italia una terra di nessuno». I Servizi segreti? «Escludo quelli di casa nostra». Il 19 giugno 1991, giorno in cui si apprende del trasferimento a Roma di Giovanni Falcone, viene visitato l’ufficio del ministro della Giustizia Claudio Martelli. Il 19 marzo 1992 viene visitato l’ufficio romano del ministro dell’Interno Vincenzo Scotti. Il 20 marzo 1992 viene visitato l’ufficio del sottosegretario alla Difesa Clemente Mastella. Nello stesso giorno viene visitato il monolocale del giornalista Michele Santoro. Il 16 marzo 1992 l’agenzia Ansa trasmette d’intesa la notizia di una circolare del capo della polizia Vincenzo Parisi in cui si allertano i prefetti contro un fantomatico piano mirante a destabilizzare le istituzioni. «In tale ottica», spiega Parisi, «potrebbero inquadrarsi l’intrusione notturna negli archivi della Commissione parlamentare sul caso Bnl-Atlanta e la serie di furti e avvertimenti a danno di periti, consulenti, difensori, giornalisti, ufficiali di polizia giudiziaria connessi all’inchiesta condotta dal giudice Rosario Priore sul caso Ustica». Dal giugno 1992 in poi circolò una quantità incredibile di verbali falsi, «veline» e dossier anonimi. Tra il 5 e il 6 luglio 1992, ignoti s’introducono nell’ufficio milanese di Bettino Craxi di piazza Duomo. Due porte blindate vengono superate senza scasso ma non viene asportato nulla. L’inquilina della porta accanto (peraltro, in quel periodo, intervistata da Piero Chiambretti), uscita nottetempo in pianerottolo per via di alcuni trambusti notturni, raccontò di essere stata così tranquillizzata: «Non si preoccupi, Pubblica sicurezza». Episodio analogo due giorni dopo al Club Turati di via Brera 18, dove Vittorio Craxi, figlio di Bettino, aveva un ufficio. Identiche modalità di scasso nell’ufficio di un’associazione di cui era presidente Anna Craxi. Visite notturne sono state denunciate anche da un legale di Craxi, Enzo Lo Giudice, e dall’ex segretaria Enza Tommaselli. Il 5 febbraio 1993 una telefonata annuncia una bomba nell’ufficio romano di Stefania Craxi e Marco Bassetti. La Digos, intervenuta, non trova bombe ma, nell’appartamento adiacente, rinviene un calco della serratura dell’ufficio. Negli stessi giorni il deputato Dc Bruno Tabacci denuncia il ritrovamento di una microspia nella tasca laterale della sua automobile. Nel marzo 1993 un inconoscibile personaggio offriva materiale (fotocopie di assegni della Cassa di Risparmio di Torino, tabulati, verbali di protesto) allo scopo di dimostrare che Giuseppe Davigo, padre di Piercamillo, avesse emesso assegni a vuoto per decine di milioni nel corso del 1992. Il 16 aprile 1993 l’avvocato Giuseppe Lucibello scopre una microspia lungo il cavo telefonico del suo ufficio. Il 27 luglio 1993 bombe a Milano e a Roma. Ventidue minuti dopo la mezzanotte, Palazzo Chigi rimane telefonicamente isolato fino alle tre. Nel dicembre 1993 e nel gennaio 1994 vengono visitati gli appartamenti romani di due deputati leghisti. L’onorevole Publio Fiori trova una «cimice» nella cornetta del telefono e un’altra viene trovata più tardi dai tecnici intervenuti per la bonifica. Il 27 e 28 aprile 1995 vengono visitate le congregazioni di Piazza Pio XII e l’ufficio dell’arcivescovo argentino Jorge Mejia. Spariscono vari fascicoli riservati. Nell’agosto 1995 viene devastata e semidistrutta persino l’abitazione dello scrivente, come regolarmente denunciato. Vengono asportati alcuni documenti d’archivio. In un’altra visita del primo ottobre vengono asportati alcuni floppy-disk. L’11 e 12 novembre 1995 vengono visitati gli uffici del dicastero del cardinale Joseph Ratzinger e messi a soqquadro. Vengono inoltre saccheggiati i cassetti del sottosegretario alla Congregazione monsignor Joseph Zlathansky (contenevano dossier in copia unica sulle carriere degli ecclesiastici). Il 29 novembre 1995 viene visitato l’appartamento del parlamentare Giuseppe Tatarella. Il 4 febbraio 1996 viene visitato l’appartamento di Marco Pannella. Nello stesso periodo vengono visitati gli uffici di Willer Bordon e Clemente Mastella. Nel febbraio 1996 si apprende che erano stati intercettati per clonazione oltre duecento telefoni cellulari di politici, manager, giudici e giornalisti. Tra questi: i parlamentari Gianni Letta e Adolfo Urso, l’ex questore Achille Serra, alcuni dirigenti del Pds, della Rai, del Centro nazionale ricerca, della Consob, il giudice Michele Coiro, un generale della guardia di finanza e uno dei carabinieri, sette cronisti di La Repubblica e due dell’Ansa. Il 21 marzo 1996 nell’appartamento del parlamentare Cosimo Ventucci irrompono quattro uomini vestiti come poliziotti. Lo immobilizzano, maltrattano la moglie e la figlia e spariscono senza asportare nulla. Il 6 luglio 1996 viene visitato l’appartamento del parlamentare Roberto Maroni.

Chi ricorda quando Pisapia sparava a zero su Di Pietro?. Oggi costretti a convivere, ma in passato il sindaco di Milano criticava Tonino: "Arresti per le confessioni", scrive Filippo Facci su "Libero Quotidiano". Politica significa scendere a patti col diavolo o addirittura con Di Pietro. Non esiste passato, non esiste memoria: altrimenti mettere insieme tre personaggi come loro - Antonio Di Pietro, Giuliano Pisapia e Bruno Tabacci  - risulterebbe impossibile. È vero, alla fine l’Italia dei valori non è entrata nella giunta milanese: ma spunteranno altri incarichi, perché la politica è questo. Resta da chiedersi: ma come fanno? Non si fa politica col risentimento, è vero, ma lo stesso: come fanno? Cominciamo con Bruno Tabacci, uno che a poco più di trent'anni dirigeva l'ufficio studi del Ministero dell’Industria  e in seguito ha diretto la segreteria tecnica del Ministero del Tesoro. Dal 1987 al 1989 è stato presidente della Regione Lombardia e ha affrontato brillantemente l'emergenza dell'alluvione in Valtellina, poi è arrivato Di Pietro e gli ha rovinato la vita. No, non solo con Mani pulite: prima ancora. Nel 1989 Tabacci fu indagato nella cosiddetta inchiesta «Oltrepò Pavese» (che verteva su anomale distrazioni della Protezione Civile a favore di un centinaio di parroci) ma dopo un po’ di frittura fu prosciolto una prima volta. Però aveva già tratto un’impressione precisa: «Di Pietro», disse, «era ansioso di utilizzare le inchieste anche per la pubblicità che gliene derivava sui giornali. Un furbo. Ho scoperto dopo che le mie frequentazioni milanesi erano più prudenti delle sue». Poi, eletto deputato nell’anno di Mani pulite, la procura di Mantova notificò a Tabacci quattro avvisi di garanzia, e chiese anche l’autorizzazione per arrestarlo: per scongiurare che scattassero le manette dovette intervenire il pidiessino Giovanni Correnti. Ma nel 1996 Tabacci fu prosciolto ancora. Poi, nella primavera 1993, riecco Di Pietro a chiedere l’autorizzazione a procedere sempre contro di lui: ricettazione e finanziamento illecito dei partiti. E Tabacci, nel marzo 1996, fu assolto anche per questi due reati. Morale: per colpa di Di Pietro era stato decapitato come presidente della regione Lombardia, come segretario regionale della Dc e come aspirante ministro: anzi, a margine dell’ultimo proscioglimento, nel 1996, Tabacci dovette avvedersi che ministro, semmai, era divenuto il suo accusatore. Ecco: come fanno? Come fa, lui, a stare dalla  stessa parte di uno come Di Pietro? Come è possibile che nel gennaio 2008, a proposito di nuovi partiti, si leggesse addirittura di una fantomatica «cosa bianca» condivisa da Tabacci e Di Pietro? Poi c'è Giuliano Pisapia, che non era soltanto l'avvocato di Tabacci: era e resta un garantista coi fiocchi, figlio di quel professor Giandomenico Pisapia che era stato relatore del nuovo Codice Penale varato nel 1989. Doveva essere una rivoluzione copernicana, quel Codice: nelle intenzioni si proponeva la terzietà del giudice, la pari dignità giuridica tra accusa e difesa, la custodia cautelare come extrema ratio, la segretezza delle indagini, la pubblicità del processo, soprattutto la prova e il contraddittorio che dovevano formarsi rigorosamente in aula. E chi è stato il prim'attore nello stravolgimento del Nuovo Codice, simbolicamente ma anche praticamente? Lui, quel Di Pietro che Pisapia aveva già conosciuto quando istruiva sconosciutissime indagini sulle messaggerie telefoniche del Videotel: «Di Pietro», ha raccontato Pisapia, «fece scattare un grosso blitz: senza seguire le regole, alcune persone, anziché essere invitate a comparire come previsto dal Nuovo codice, furono prelevate alle 6 di mattina e portate non in Procura ma nella sede della Criminalpol, e interrogate con modalità non conformi al Codice, nella convinzione che questo modo choccante di interrogare favorisse la racconta di dichiarazioni utili». Un'inchiesta finita in nulla. Poi lo aveva incontrato ancora nell’inchiesta cosiddetta Patenti facili, un'istruttoria estenuante durante la quale Di Pietro chiese assoluzioni e derubricazioni per gli stessi reati che pure gli avevano consentito arresti di massa. Disse Pisapia: «L'ho conosciuto all'interrogatorio di un'anziana titolare di una scuola guida che era stata convocata a piede libero ma con modalità estranee al Codice, e cioè non con un formale invito a comparire in Procura ma con una telefonata e in una caserma della polizia stradale. Pochi giorni dopo ho ritrovato Di Pietro all'interrogatorio di un funzionario della Motorizzazione civile, arrestato. Tutte e due furono prosciolti: la donna già alla fine delle indagini preliminari, l'uomo in appello, dopo aver scontato numerosi mesi tra carcere e arresti domiciliari. Da subito emerse chiaramente la sua concezione dell'arresto o della minaccia all'arresto, troppo spesso finalizzato alla ricerca della prova, della confessione». Ora quell'uomo è suo alleato politico, suo e di Bruno Tabacci. Non esiste passato, non esiste memoria.

«Mani Pulite ha tolto libertà a magistrati». Le accuse della Forleo in un libro: «Indagare sulla destra va bene, ma se cambi colore di caimano ti fai male», scrive Giuseppe Guastella su “Il Corriere della Sera”. «Fino a Tangentopoli, e fino a qualche anno fa, il problema era dell’indipendenza della magistratura dal potere politico, adesso è dell’indipendenza del magistrato rispetto alla magistratura ». Il «singolo magistrato » che «non si vuole allineare, non si vuole schierare, vuole essere libero, finisce per pagare i suoi errori. E li paga cari». Parola del gip Clementina Forleo, che il Csm ha trasferito a Cremona per incompatibilità ambientale, la quale vede questa situazione come la conseguenza degli «eccessi» di Mani Pulite, specialmente nell’uso del carcere, che hanno «rafforzato il consenso popolare verso certa politica» e minato «la fiducia» nei magistrati. Torna sul tema dei «poteri forti», Forleo, in un libro-intervista di Antonio Massari (Alberti). Nel '94, quando lei diventò giudice a Milano, i «magistrati erano uniti» nella «battaglia fisiologica e sempre in corso» contro un potere politico che «aveva un colore ben definito: c’era un nemico». «Berlusconi?», chiede l’autore. «Il pool si ribellò a un decreto del governo Berlusconi» risponde parlando in astratto. I fatti erano «gravissimi, ma lo strumento carcerario doveva essere limitato ai più gravi». E anche se «il sistema era talmente radicato che c’erano poche vie d’uscita», non farlo fu un errore. Il risultato del rafforzamento del potere politico è che ora i magistrati sono «più prudenti» e gli inquirenti «finiscono comunque per rispondere alle logiche di potere interne, nonostante l’obbligatorietà dell’azione penale», ragiona Forleo, gip dell’inchiesta Unipol- Antonveneta, firmataria della custodia per il banchiere Gianpiero Fiorani, chiedendosi retoricamente se «Fazio (indagato, ndr.) e sua moglie sarebbero rimasti liberi all’epoca di Tangentopoli». «Fiorani, in galera, c’è finito. Fazio invece no. Né lui che all’epoca dei fatti era il governatore della Banca d’Italia, né sua moglie che, peraltro, non mi risulta sia stata indagata, neanche per favoreggiamento, nonostante fosse anch’ella in contatto con Fiorani» con cui scambiava «informazioni importanti». «Oggi si è rotto l’idillio tra certa magistratura e certa politica e ciò ha causato autentici scempi, quale il silenzio dell’Anm di fronte alla vicenda di Luigi de Magistris», il quale aveva scoperto che tra i magistrati potevano esserci «personaggi conniventi con i potentati politici ed economici». La magistratura faccia «i conti con se stessa» affrontando «la questione morale», perché «oggi il singolo magistrato è più debole» e c’è il rischio che qualcuno possa «scivolare in comodi compromessi», come le è già capitato di vedere con amarezza. Le sue posizioni a difesa di de Magistris, per la separazione delle carriere, contro le correnti e la richiesta al Parlamento di usare nell’inchiesta Unipol le telefonate degli allora ds Latorre e D’Alema («consapevoli complici di un disegno criminoso», scrisse) hanno dato il via ai «vergognosi attacchi» contro di lei, anche dalla magistratura: «Si sono toccati i fili che fanno morire. Perché fino a quando s’era attaccato il nemico della magistratura, il nemico di destra, era andato tutto bene. Avevo avuto la solidarietà. La magistratura era stata compatta nel proteggere il giudice Forleo. Poi, quando spunteranno caimani d’altro colore, tutti si dilegueranno». Tre giorni dopo, lesse l’appello ai giudici del presidente Napolitano alla «riservatezza» e a non inserire in atti «valutazioni non pertinenti» come «una pressione» che le fece «male», «un’offesa al Paese». In un altro passaggio definisce caimano «il potere esecutivo, qualunque colore abbia». Il libro ripercorre i procedimenti del Csm che l’avrebbe trasferita dopo «un processo sommario», «una pagina nera nella storia della magistratura » che l’ha fatta sentire come «un dissidente perseguitato», dichiara. Lì parlò dell’ex procuratore Gerardo D’Ambrosio il quale, eletto senatore ds, si schierò «contro la trascrizione delle telefonate». Lo vide andare a pranzo con i pm delle scalate bancarie e la cosa la indignò: «Se qualcuno lascia la toga per diventare un politico, poi dovrebbe avere il buon gusto di non creare confusione di ruoli. Io non ho avuto dubbi sul rigore dei colleghi: colsi l’inopportunità del gesto di D’Ambrosio». L’ex procuratore ha sempre ribattuto che si trattò di un incontro occasionale e non si parlò delle inchieste. Una rivelazione, infine. Ha ricevuto la proposta di candidatura. Da chi? «Non dal centrodestra» né dall’Idv di Di Pietro.

Ci fu una regia occulta degli Usa dietro Mani pulite? Le rivelazioni dell'ex ambasciatore americano. L'ex ambasciatore americano in Italia Bartholomew, prima di morire, racconta che intervenne per spezzare i legami tra il Consolato Usa a Milano e il pool di Mani pulite, scrive Orlando Sacchelli il 29/08/2012 su “Il Giornale”. Domenica scorso è morto Reginald Bartholomew, ambasciatore degli Stati Uniti in Italia dal 1993 al 1997. Aveva 76 anni e servì il suo Paese sotto la presidenza di Bill Clinton. Prima di morire ha voluto togliersi alcuni sassolini dalle scarpe, raccontano dettagli inediti sulla sua esperienza nel Belpaese in quelli che furono anni molto caldi, in piena "Mani pulite", con la crisi finale (e poi la scomparsa) della Prima Repubblica e la nascita della Seconda. "Quella era la stagione di Mani Pulite - racconta l'ex ambasciatore - un pool di magistrati di Milano che nell’intento di combattere la corruzione politica dilagante era andato ben oltre, violando sistematicamente i diritti di difesa degli imputati in maniera inaccettabile in una democrazia come l’Italia". Sembra di risentire le parole di Bettino Craxi. Invece no. A puntare il dito contro certi metodi è un uomo non coinvolto direttamente nello scontro politico italiano. Un personaggio che potremmo definire super partes. "La classe politica si stava sgretolando - ha ricordato Bartholomew - ponendo rischi per la stabilità di un alleato strategico nel bel mezzo del Mediterraneo". Qualcosa, aggiunge, nel consolato a Milano "non quadrava". L’ex ambasciatore quel punto "rivendica il merito di aver rimesso sui binari della politica il rapporto fra Washington e l’Italia". In che modo? Pose fine a quello strano legame diretto che si era creato tra il Consolato e il pool di Mani pulite - tollerato dal suo predecessere Peter Secchia - e riportò la gestione dei rapporti a Roma, all'ambasciata. Potrebbe essere la conferma, sia pure indiretta, dell'esistenza di un rapporto tra gli Usa e l'inchiesta che spazzò via la classe politica che aveva governato l'Italia per oltre 40 anni. Una "manina" oltreoceano aveva schiacciato il bottone per far saltare tutti i vecchi equilibri (ormai superati vista la caduta del Muro) e ridisegnare la politica nel nostro Paese? L'ex ministro socialista Rino Formica alcuni mesi fa parlò del ruolo che, a suo dire, avrebbe giocato l'Fbi. Bartholomew racconta a Molinari anche di un'importante iniziativa che prese. Quella di far venire a Villa Taverna (sede dell'ambasciata Usa a Roma) il giudice della Corte Suprema americana Antonino Scalia, approfittando di una sua visita in Italia. Gli fece incontrare "sette importanti giudici italiani" e li spinse a confrontarsi sui metodi usati dalla Procura di Milano. "Nessuno obiettò quando Scalia disse che il comportamento di Mani pulite con la detenzione preventiva violava i diritti basilari degli imputati", andando contro i "principi cardine del diritto anglosassone". Il racconto poi vira sui nuovi interlocutori politici degli Usa dopo il disfacimento della vecchia classe politica: D'Alema, Fini e, inevitabilmente, Berlusconi. Il Cavaliere si presentò accompagnato da Letta e "voleva il mio imprimatur per la sua entrata in politica". C'è anche un curioso aneddoto su Prodi, che si offese a morte per non essere stato ricevuto alla Casa Bianca dopo il suo ingresso a Palazzo Chigi nel 1996. Bartholomew si sofferma anche sull’avviso di garanzia a Berlusconi del 1994, che fu anticipato dai giornali quando Berlusconi presiedeva, a Napoli, i lavori per la Conferenza mondiale sulla criminalità organizzata, sotto l'egida dell'Onu. L'ex ambasciatore rivela che fu "un’offesa al presidente degli Stati Uniti, perché era al vertice e il pool di Mani Pulite aveva deciso di sfruttarlo per aumentare l’impatto della sua iniziativa giudiziaria contro Berlusconi". C'è un po' di confusione sulle date: l'avviso, infatti, arrivò il 21 novembre 1994 e non nel luglio precedente durante i lavori del G7. La sostanza però non cambia di molto. Alcuni osservano che Bartholomew fu ambasciatore in Italia proprio negli anni in cui prese corpo il grande piano di privatizzazioni (o svendita?) del patrimonio pubblico del nostro Paese, pianificato a bordo del panfilo reale Britannia nel giugno 1992. Ma questo è un altro mistero su cui presto, forse, bisognerebbe provare a fare piena luce. Parlando a Radio 24 Antonio Di Pietro ha commentato la ricostruzione dell'ex ambasciatore: "Queste cose dette da una persona che non c’è mi spingono a dire 'pace all’anima sua'. Altrimenti l’avremmo chiamato immediatamente a rispondere delle sue affermazioni per dirci 'chi, come, dove e quando'. Io non ho mai incontrato questo Bartholemew, invece so che gli Stati Uniti all’epoca furono molto collaborativi per quanto riguarda le rogatorie che noi effettuammo. Vent’anni dopo una persona fa delle affermazioni in relazione a comportamenti che lo stesso suo Paese ha fatto in modo totalmente diverso, mi sembra una cosa che non ha né capo né piedi. Bartholemew è una persona che vuole sconfessare se stesso e il suo Paese e quindi non fa onore al suo Paese, ma ripeto non c’è più quindi pace all’anima sua". Di tutt'altro avviso è Bobo Craxi, responsabile Esteri del Psi nonché figlio dell'ex leader socialista: ""Appare con tutta evidenza l’inquietante intreccio, nel 1992-94, tra il pool dei magistrati milanesi e il Consolato generale dell’alleato americano. La mano straniera che ha orientato il golpe mediatico-giudiziario non è un’invenzione, ma è rivelato dalle parole del diplomatico americano: c’è materia per storici e per politici. Se non vi fosse anchilosi, bisognerebbe per lo meno promuovere una commissione d’inchiesta". Ma secondo Bobo Craxi "non verrà fatta neanche un’interrogazione parlamentare, in questa legislatura". Per Stefania Craxi (Riformisti italiani) "la verità si fa lentamente strada". La primogenita di Bettino Craxi si domanda: "Come mai nessuno si agita per proporre una Commissione parlamentare di inchiesta, l’unico strumento che potrebbe forse squarciare il fitto velo di ipocrisia che ancora copre quella torbida stagione?". Si fa sentire anche l'ex procuratore capo di Milano ai tempi di Mani pulite, Francesco Saverio Borrelli: "Mi stupiscono queste dichiarazioni perché provengono da un americano e se ci sono prassi poliziesche o carcerarie contrarie ai diritti dell’uomo sono proprio certe prassi seguite negli Usa". Anche lui, come Di Pietro, dice di non voler polemizzare con un defunto, ma respinge in modo secco quelle dichiarazioni "perché non c’è nulla di fondato". Gherado Colombo e Pier Camillo Davigo, invece, preferiscono non commentare.

La verità scottante dell'ex console americano: "Di Pietro mi anticipò l'inchiesta su Craxi e la Dc". Semler, console Usa a Milano ai tempi di Tangentopoli: "Alla fine del '91 Di Pietro mi anticipò l'arresto di Chiesa". E l'ex pm cosa dice? Continua a smentire, scrive Orlando Sacchelli, il 30/08/2012 su “Il Giornale”. L'ex ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, Reginald Bartholomew, prima di morire ha svelato a un giornalista de La Stampa, Maurizio Molinari, gli stretti legami tra il Consolato americano di Milano e il pool di Mani pulite. Un retroscena inquietante. Subito Di Pietro e Borrelli sono scattati sulla difensiva. Il primo minacciando querela (come al solito), il secondo argomentando che "se c'è qualcuno che viola i diritti umani sono proprio gli americani" (Batholomew ha accusato il pool di aver operato violando in modo inaccettabile i diritti della difesa). Oggi tocca a Peter Semler, 80 anni, ex console degli Stati Uniti a Milano, dare la propria versione dei fatti. L'uomo che avrebbe avuto un filo diretto con Di Pietro in un'intervista a La Stampa racconta particolari molto interessanti. "Parlai con Di Pietro, lo incontrai nel suo ufficio, mi disse su cosa stava lavorando prima che l'inchiesta sulla corruzione divenisse cosa pubblica. Mi disse - aggiunge - che vi sarebbero stati degli arresti". Altri dettagli su cui riflettere: i due si incontrarono alla fine del 1991 ("credo in novembre", dice Semler). E Di Pietro cosa fa? Preannuncia al console americano che l'esponente socialista milanese Mario Chiesa stava per essere arrestato (le manette scattarono il 17 febbraio 1992). Ma che interesse aveva, il pm, a svelare il contenuto - segreto - delle proprie indagini a un diplomatico americano? Semler va avanti e racconta: "Mi disse (Di Pietro, ndr) che le indagini avrebbero raggiunto Bettino Craxi e la Dc. Aveva ben chiaro dove le indagini avrebbero portato". Preveggenza? Semplice fiuto di ex poliziotto? O qualcosa di più? Gli interrogativi sono tanti. L'ex console prosegue parlando del viaggio di Di Pietro negli Stati Uniti: "Sono stato io a suggerire all'ambasciata di Roma di invitarlo, poi fu il Dipartimento di Stato a organizzargli il viaggio. Avvenne dopo l'inizio delle indagini". E il suo giudizio sull'ex pm a distanza di anni resta molto positivo: "Era un personaggio straordinario, cambiò l'Italia". Insomma, Semler conferma quanto raccontato da Bartholomew. Di Pietro continua a respingere al mittente ogni accusa. E in un'intervista a La Stampa puntualizza: "Mani pulite non è cominciata nel '92. E' cominciata a metà degli Anni Ottanta con una serie di inchieste che portarono a nulla per ragioni politiche... noi invertimmo il percorso. Che Dc e Psi e anche il Pci fossero partiti corrotti in Italia lo sapevano tutti. In fondo Mani pulite fu la scoperta dell'acqua calda".  Sappiamo bene, però, che a essere spazzati via furono i partiti che erano al governo. L'ex Pci si salvò. E sugli "strani" rapporti con Semler? Di Pietro ammette, ma solo in parte: dice che lo incontrava perché lui (l'ex console) lo desiderava: "Faceva il suo lavoro, voleva capire e capì perfettamente". Poi dice: "Non ho mai violato il segreto istruttorio". Semler, però, dice il contrario. Uno dei due mente.

Lo strano legame degli Usa con il pool di Mani pulite, scrive “Il Giornale”. La regia degli Usa dietro Mani pulite. O meglio, un legame troppo stretto fra Washington e il Pool di Antonio Di Pietro. Una liason che passava attraverso il consolato di Milano. È una voce autorevole, anzi autorevolissima, quella che a tanti anni di distanza dà corpo a una delle leggende che accompagnarono la Rivoluzione italiana: quella che sosteneva la vicinanza fra l'establishment statunitense e i pm della Procura di Milano. A confermare quella lettura inquietante di uno dei periodi più controversi e drammatici della storia italiana è, nientemeno, l'ex ambasciatore in Italia Reginald Bartholomew. Le sue parole sono state raccolte circa un mese fa da Maurizio Molinari della Stampa e il colloquio è stata pubblicato ieri dal quotidiano torinese, tre giorni dopo la morte del diplomatico, avvenuta domenica a 76 anni in un ospedale di New York. Bartholomew, ricorda Molinari, fu catapultato a Roma in piena tempesta. Mani pulite era scoppiata il 17 febbraio dell'anno precedente, il 1992, con l'arresto di Mario Chiesa e il Pool macinava arresti su arresti. L'Italia era di fatto nelle mani di un gruppetto di magistrati, osannato dall'opinione pubblica: Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo, Gerardo D'Ambrosio, il coordinatore, il procuratore della Repubblica Francesco Saverio Borrelli. Clinton, preoccupatissimo per la piega che aveva preso il nostro Paese, di fatto in decomposizione, decise di puntare su un ambasciatore non politico. Finalmente nel '93 ecco il veterano del Foreign Service in Via Veneto. «Qualcosa non quadrava - è il suo racconto - nel rapporto fra il consolato Usa di Milano e il pool Mani pulite», un gruppo di magistrati «che nell'intento di combattere la corruzione dilagante era andato ben oltre violando sistematicamente i diritti di difesa degli imputati in maniera inaccettabile in una democrazia come l'Italia, a cui ogni americano si sente legato». Dunque, come si può capire, la realtà era molto complessa. Ma la sostanza era che l'allora console generale a Milano Peter Semler aveva dato disco verde a Borrelli e ai suoi pm. E questo per Bartholomew era inaccettabile. Se il suo predecessore a Villa Taverna aveva lasciato fare, lui decise che così non si poteva andare avanti. Bartholomew, su cui Clinton aveva scommesso, era convinto che la nuova Italia, uscita dalle macerie della prima repubblica, dovesse essere disegnata da una nuova classe politica e non da un manipolo di toghe. «D'ora in avanti - svela il diplomatico, riferendosi a quel rapporto speciale fra il consolato e il palazzo di giustizia - tutto ciò con me cessò». Anzi, Bartholomew prese alcune iniziative per sensibilizzare l'establishment americano su quel che stava avvenendo nelle aule di giustizia italiane. Qualcosa che andava ben oltre i confini dello stato di diritto. Così l'ambasciatore fece venire a Villa Taverna «il giudice della Corte Suprema Antonino Scalia, sfruttando una sua visita in Italia, per fargli incontrare sette importanti giudici italiani e spingerli a confrontarsi con la violazione dei diritti di difesa da parte di Mani pulite». Infine Bartholomew parla di quel che accadde nel'94 con l'avviso di garanzia a Berlusconi e in realtà sembra pasticciare con le date mescolando l'arrivo in Italia per il G7 di Clinton, nell'estate, e l'emissione del provvedimento giudiziario che colpì il premier, recapitato direttamente in edicola dal Corriere della Sera in autunno, nel corso di una conferenza internazionale contro al criminalità. «Si trattò - spiega lui - di un'offesa al presidente degli Stati Uniti, perché era al vertice e il pool di Mani pulite aveva deciso di sfruttarlo per aumentare l'impatto della sua iniziativa contro Berlusconi». «Gliela feci pagare - è la secca conclusione - a Mani pulite». Come? Forse altre rivelazioni arriveranno con una seconda probabile puntata, ma certo Barholomew racconta di aver tessuto freneticamente la tela dei rapporti con i politici emergenti: D'Alema, Berlusconi, Fini. Ignorò invece completamente Di Pietro e soci. «Queste cose dette da una persona che oggi non c'è più - ribatte ai microfoni di Radio24 Antonio Di Pietro - mi spingono a dire pace all'anima sua. Altrimenti l'avremmo chiamato immediatamente a rispondere delle sue affermazioni per dirci chi, come, dove e quando. Io - aggiunge l'ex pm - non ho mai incontrato questo Bartholomew, invece so che gli Usa all'epoca furono molto collaborativi per quanto riguarda le rogatorie». Ancora più duro Francesco Saverio Borrelli: «Mi stupiscono queste dichiarazioni perché provengono da un americano e se ci sono prassi poliziesche o carcerarie contrarie ai diritti dell'uomo sono proprio certe prassi seguite negli Usa. Non voglio polemizzare con un defunto, ma respingo quelle dichiarazioni e valutazioni radicalmente, perché non c'è nulla di fondato». Per Bobo Craxi, figlio di Bettino, Bartholomew narra invece quel che si è sempre sospettato: «La mano straniera che ha orientato il golpe non è un'invenzione e esprimere stupore e sorpresa per l'intervista sarebbe persino riduttivo». E il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto si sofferma sui «singolari rapporti fra il consolato di Milano e Di Pietro», riproponendo una domanda antica: «Ma chi era Di Pietro?».

Vent’anni di Mani Pulite. Quando la giustizia era giustizialista e l’ideale socialdemocratico non era rappresentato dall’ex PCI, scrive Iljester su “Paper Blog”. Quando si parla di ‘Mani Pulite’, il complottismo è un ingrediente quasi inevitabile, ma non tanto perché ci piace, quanto perché ripercorrendo gli eventi di quella stagione, tuttora la domanda è pressante: perché il partito socialista e la democrazia cristiana sì e il partito comunista no? Del resto non credo che Bettino Craxi mentisse quando affermò nell’aprile del 1993, nel suo discorso al Parlamento, che tutto il panorama politico italiano era coinvolto in un sistema di finanziamenti illeciti ai partiti. Era questo un sistema che non poteva non coinvolgere tutti. Non poteva essere che esistessero partiti — soprattutto grandi e potenti (e il PCI-PDS era piuttosto potente) — che lo ignorassero e non lo utilizzassero. Credo invece che ci si volle fermare lì. A un passo dalla completezza dell’indagine che fece crollare mezza Repubblica italiana. E questo rende ancora più evidente l’ingiustizia di quegli anni e l’idea che si volle agevolare una precisa parte politica a danno delle altre. Forse perché quella parte politica ormai era destinata a cadere in disuso, e forse perché il suo vero avversario non era la Democrazia Cristiana, ma il suo stesso partito ‘fratello’, il Partito Socialista, ormai il vero interlocutore a sinistra in un contesto socialdemocratico che teneva fuori i comunisti o gli ex-comunisti dal governo e persino dal PSE. Del resto, analizzando col senno di poi gli eventi di quegli anni ci si accorge come siamo in un contesto storico piuttosto particolare sia dal punto di vista nazionale che internazionale. Abbiamo la caduta del muro di Berlino e la Germania riunita. Abbiamo il dissolvimento dei regimi comunisti in Europa, abbiamo una forte crisi del socialismo reale in mezzo mondo e abbiamo gli attentati mortali (e mafiosi) a Falcone e Borsellino in un contesto di profonda debolezza economica della lira. Un vero e proprio momento di vulnerabilità politico-economica che se non fu orchestrato di sana pianta (e ci sarebbe voluto un Grande Fratello orwelliano per questo) fu comunque sfruttato per azzerare la politica italiana e sostituire come grande interlocutore a sinistra il partito socialista con il neonato partito post-comunista, appena riciclatosi come entità socialdemocratica dopo la fine del Comunismo, che altrimenti rischiava di scomparire nella soffitta delle obsolescenze ideologiche. Dunque, l’idea parve essere questa: ridisegnare il panorama politico italiano, spostando l’asse della politica italiana ancor più a sinistra, con un nuovo (per modo di dire) soggetto politico diverso dal partito socialista ma capace di prenderne il posto anche nel Governo. E Mani Pulite fu lo strumento forse inconsapevole di questo progetto. Fino a che punto poi ci siano state delle responsabilità personali, io sinceramente non lo so. So per certo che quando il Partito Socialista tracollò, trascinandosi dietro la Democrazia Cristiana, e si preannunciarono le elezioni del 1994, il Partito Democratico della Sinistra, l’ex P.C.I. (la mitologica macchina da guerra di Achille Occhetto) pensava già di avere il governo in tasca, forte del fatto che nel panorama politico — visto pure il clima di caccia alle streghe — non vi era (più) nessuna forza politica in grado di contrastarlo. Poi sappiamo come andò a finire quella storia. Ciononostante, i dubbi sulla completa bontà di quella stagione rimangono. L’Italia non è mai stato un paese cristallino (ma del resto, è difficile trovare una nazione che non abbia i suoi scheletri nell’armadio), e niente nel nostro paese è mai accaduto per caso. Perciò, a distanza di venti anni, ci si domanda ancora perché? Perché l’allora PDS, ex PCI, non fu toccato dal vortice giudiziario? Guardando l’Italia degli ultimi venti anni, è difficile credere alla integrale moralità di un partito ed è difficile pensare che quella stagione segnò la fine di un sistema di corruzione politica che tuttora persiste e insiste, coinvolgendo volente o nolente, guarda caso, anche l’erede di quel PCI scampato a Mani Pulite, oggi chiamato PD.

Mani pulite favorì alcuni imputati, scrive Franca Selvatici su “La Repubblica”. "Noi siamo usciti da Mani Pulite perché si è pagato... quelli più bravi di noi non ci sono nemmeno entrati". Così parlò Chicchi Pacini Battaglia nell' ormai celebre sfogo del 10 gennaio 1996. Gli aggiustamenti di tiro e le precisazioni fatte uscire dal carcere non sono bastate a dissipare l' ombra del dubbio sull'inchiesta milanese avviata nel 1992 da Antonio Di Pietro. Dubbi ne hanno, sicuramente, gli investigatori del Gico della Guardia di Finanza, che hanno indagato su Pacini e sulla "banda delle ferrovie". Le recentissime trame del banchiere e dei suoi amici dimostrano - secondo gli uomini delle Fiamme Gialle - che Mani Pulite non ha fatto emergere tutta la verità sulla corruzione. E' un concetto che gli investigatori ripetono più volte nel loro rapporto del 26 luglio ' 96 che ha dato corpo all'inchiesta spezzina e che oggi è - con vasti omissis - allegato agli atti depositati. Del "sodalizio" scoperto dal Gico fanno parte - si sottolinea nel rapporto - anche "vecchie conoscenze delle inchieste cosiddette Mani Pulite, essendo stati peraltro in tale contesto anche arrestati". Ne deriva - secondo gli investigatori - "che tali attività giudiziarie non avevano minimamente inciso sul vincolo associativo; ma anzi i partecipi stavano realizzando nuovi piani delittuosi a testimonianza dell'indissolubilità del vincolo". Il concetto è ulteriormente chiarito in un altro passaggio del rapporto: che "alcuni dei partecipi di attività illecita anche pregressa siano ancora strettamente legati al Pacini e che i capitali accumulati da essi con l'illecita attività siano gestiti dallo stesso Pacini" lo si capisce "dalle quotidiane disposizioni impartite dal Pacini alla segretaria Pensieroso". "Parallelamente - sostengono gli investigatori - tali circostanze dimostrano come il ruolo del Pacini, evidenziatosi nelle indagini condotte dalla autorità giudiziaria di Milano, sia emerso solo parzialmente e come la sua collaborazione con tale autorità giudiziaria sia stata meramente strumentale e rivolta esclusivamente a rendere dichiarazioni tese a limitare i danni". Della "estesa e pericolosissima lobby" che l'inchiesta di La Spezia ha scoperto attiva e rampante ancora nel corso del 1996 facevano parte - sostiene il Gico - anche Publio Fiori, Paolo Cirino Pomicino e Luigi Bisignani: "gli ultimi due vecchie conoscenze delle inchieste Mani Pulite". Ma gli investigatori si spingono più avanti: a loro giudizio, le nuove indagini hanno fatto emergere elementi di prova su "come alcuni partecipi (della lobby, ndr) possano essere stati favoriti da appartenenti alla autorità giudiziaria, in concorso anche con l'avvocato Federico Stella di Milano". Affermazione, a quanto pare, sviluppata in una parte del rapporto coperta da omissis. Le conclusioni del Gico sono molto pesanti. Mani Pulite ha fatto flop. Mani Pulite non ha tagliato alle radici la mala pianta. "Evidentemente - concludono le Fiamme Gialle - la sola via giudiziaria, peraltro notoriamente lunga e incerta, non è servita e non serve a debellare tale fenomeno che sembra connaturato alla vita sociale del nostro Paese. C' è peraltro da sottolineare che la cosiddetta via giudiziaria, già oggettivamente insufficiente vista la carenza di strutture, uomini e mezzi adeguati, appare - sia alla luce di noti fatti di cronaca che dai risultati della presente indagine - resa più difficile se non impossibile da attività contrarie ai doveri d' ufficio, quando non ci si trovi di fronte a vere e proprie partecipazioni associative, di un rilevante numero di appartenenti alla autorità giudiziaria". Soprattutto a Roma - precisano in un altro passo del rapporto - ma forse anche a Milano. Fra gli scampati di Mani Pulite, gli investigatori del Gico iscrivono a pieno titolo l'ex amministratore delle Ferrovie Lorenzo Necci, accusato di corruzione da vari arrestati ma difeso a spada tratta da Pacini Battaglia che da allora - secondo il Gico - lo tiene in pugno ("Sono il suo salvatore della patria", grida in una conversazione) oltre ad amministrarne i risparmi all' estero. Proprio ieri al tribunale del riesame, il pm Alberto Cardino ha depositato due intercettazioni che riguardano la moglie di Necci, Paola Marconi. E' il 22 gennaio 1996. Nei suoi uffici di viale Parioli, Pacini "annota appuntamenti e dazioni di denaro" con la segretaria Eliana Pensieroso (che secondo il Gico ha "accantonato un miliardo di lire nella banca svizzera del principale"). Pacini: "Devi segnà una scheda Paola e una scheda Renzo... Erre". Pensieroso: "Erre". Pacini: "Poi ti spiego tutto. Mi ci scrivi Erre, 1996, e ci metti: 80, 130, 140... fermati, posso sbagliare, Erre te lo do subito... fermati... dov'è? scusa, ecco... cento, cento?". Pensieroso: "... Quaranta mi ha detto: ' 96, 140". Pacini: "' 96, 140, segna". Pensieroso: "L' ho segnati". Pacini: "Ora ti dovresti segnare Paola... e ci scrivi ' 96, 30". Pensieroso: "Allora: '96, 30". Pacini: "E dobbiamo... a Paola... dargliene altri 70... lo puoi mettè fra parentesi, 30 più 70, poi ti si dice quando gli si danno... chiaro?". Qualche giorno più tardi, il 30 gennaio, Pacini e la segretaria fanno il riepilogo. Pensieroso: "Poi vabbè Orlando me lo segno io perché è roba mia... poi ci ho 70. Paola? Lei quel biglietto che le ho dato io me l'ha fatto strappare, però...". Pacini si vanta di avere rapporti privilegiati con alcuni di loro, ma li odia, li teme e li disprezza. "Ricordati bene - dice all'amico Emo Danesi - che tutta la gente ha sempre molta paura, non sa se tu sei controllato, non sa se i giudici ti guardano, non sa se c'hai quei servizi che ti controllano... sei in un merdume". I giudici che gli piacciono sono quelli che incassano e archiviano. Per questo è furioso con Giorgio Castellucci, il pm romano che coordina l' inchiesta sulla Tav e che non la chiude. L' 11 gennaio si sfoga con Danesi: "Io sono stato molto chiaro. Ho detto: ragazzi, chiamate Castellucci e gli dite: ' Hai preso i soldi? Sì. L'hai distribuiti con quegli altri? Sì. Ora hai rotto i coglioni, ora te questa pratica la chiudi perché se non la chiudi te, noi ti mandiamo sul giornale e ti diciamo anche come hai preso i soldi... perché noi ne abbiamo le palle piene". E il 2 febbraio rincara la dose: "Castellucci becca i soldi e incrimina gli altri... quello (Renato Squillante, ndr) becca i soldi e ci rompe i coglioni...". Il 19 febbraio Alessandra, figlia di Lorenzo Necci, si consiglia con Pacini Battaglia sul suo futuro politico. "Alle quattro vedo Letta per parlare un attimino del mio collegio", annuncia. Pacini è perplesso: "Io sono convinto che lui (il papà di Alessandra, ndr) non si schiera con Forza Italia... te fai Forza Italia e lui no... è troppo ridicolo". Alessandra: "Perché tu dici che lui si schiera a sinistra?". Pacini: "Lui credo che non si schieri da nessuna parte, poveromo, perché da qualsiasi parte si schiera lo fanno a pezzi...". Ma Alessandra è tentata e allora Pacini le suggerisce di fare una bella intervista, o meglio di farla fare a papà, per spiegare che lei è maggiorenne e ha fatto tutto di testa sua. Pacini: "Lo deve far papà, non tu... lo fai te dicendo: io ho preso la decisione contro il volere di mio padre...". Poi Pacini spiega ad Alessandra come pagarsi la campagna elettorale: "Io muovo i fondi neri, tu ti fai sponsorizzare da Ciarrapico, che c'ha tutti i soldi lui, e prendi Mazzi, Todini, Salini, è già risolto, lo mettono nel loro bilancio, alla luce del sole".

Dallo Ior a Mani pulite: le verità di Bisignani. Le rivelazioni nel libro intervista di Paolo Madron, scrive “Lettera 43”. Il destino dello Ior, che papa Francesco «ha intenzione di riformare trasformandolo in una vera banca della solidarietà al servizio dell'evangelizzazione». I rapporti dei servizi segreti degli Stati Uniti con Beppe Grillo. E il gotha della finanza, da Agnelli a De Benedetti, che «cercò disperatamente di bloccare il pool dei giudici di Milano» nell'inchiesta Mani pulite. Ne L'uomo che sussurra ai potenti, nel libro scritto con Paolo Madron, ed edito da Chiarelettere (in libreria dal 30 maggio) Luigi Bisignani alza il velo su fatti centrali della recente storia politica italiana, come la «congiura» di Alfano e Schifani alle spalle di Berlusconi prima che lo stesso Cavaliere annunciasse la sua nuova discesa in politica alle elezioni politiche di febbraio 2013. «Secondo alcune autorevoli indiscrezioni», svela, papa Francesco ha intenzione di fare della banca vaticana «uno strumento di aiuto per le chiese povere e per le missioni sparse nel mondo. I centri missionari saranno uno dei punti fondamentali di papa Francesco, secondo la miglior tradizione dei gesuiti». Secondo Bisignani, la riforma dello Ior avverrà attraverso la riclassificazione di tutti i conti e saranno «autorizzati solo quelli che fanno capo ufficialmente a congregazioni e ordini religiosi. Nessuno potrà più gestire fondi, depositi e titoli se non nell'esclusivo interesse di enti religiosi». Bisignani ha quindi spiegato che «la Curia conosce bene le sue intenzioni». «Non fu un caso se nel conclave precedente, per scampare il pericolo della sua salita al soglio pontificio come voleva il suo grande elettore di allora, Carlo Maria Martini, gesuita come lui, gli fu preferito Ratzinger. Meglio conosciuto nei palazzi apostolici e quindi considerato più malleabile». I rapporti dei servizi segreti degli Stati Uniti con Beppe Grillo sono il tema di un altro capitolo del libro- intervista. Bisignani oltre a raccontare una vicenda già conosciuta come il pranzo tra Beppe Grippo e alcuni agenti e diplomatici amercani e il dispaccio dell'ex ambasciatore Ronald Spogli, aggiunge: «Avendo avuto anch'io il dispaccio in mano, c'è qualcosa che andrebbe approfondito» in quanto sono stati occultati «chirurgicamente quasi tutti i destinatari sensibili» tra cui oltre alla Casa Bianca, al dipartimento di Stato e alla Cia «c'è da scommetterci ci fosse il dipartimento dell'Energia e la National secuity agency, che si occupa soprattutto di terrorismo informatico». «Agli americani è noto il rapporto strettissimo che Grillo ha con due loro vecchie conoscenze. Franco Maranzana, un geologo controcorrente di 78 anni, considerato il suo più grande suggeritore su tematiche energetiche e ambientali non politically correct, in contrasto così con la linea ecologica che viene attribuita al movimento. E soprattutto Umberto Rapetto, un ex colonnello della guardia di finanza». Secondo Bisignani l'incontro con Grillo dovrebbe essere avvenuto nel marzo del 2008 in quanto il rapporto dell'ambasciatore Spogli dal titolo Nessuna speranza. Un'ossessione per la corruzione reca la data del 7 marzo 2008. Con ogni probabilità, secondo Bisignani, quel documento è finito nelle mani del presidente Obama. Quindi fornisce le conclusioni del rapporto sulle idee di Grillo: «La sua miscela fatta di spumeggiante umorismo, supportata da dati statistici e ricerche, fa di lui un credibile interlocutore per capire dal di fuori il sistema politico italiano». Inoltre, racconta che dopo le elezioni del febbraio scorso una delegazione di grillini «capeggiata dai due capigruppo in parlamento, Vito Crimi e Roberta Lombardi, è andata a omaggiare l'ambasciatore David Thorne. Lo stesso che, parlando agli studenti, ha pubblicamente lodato il nuovo movimento come motore necessario per le riforme di cui ha bisogno l'Italia». La fortezza in cui si arroccò il capitalismo per respingere l'offensiva giudiziaria di Mani pulite contro il sistema delle tangenti fu «Mediobanca». «Fu lì», racconta Bisignani, «che si tenne una riunione riservata presieduta da Enrico Cuccia, il custode di tutti i segreti. Vi presero parte, oltre all'avvocato Agnelli e a Cesare Romiti, Leopoldo Pirelli accompagnato da Marco Tronchetti Provera, Carlo De Benedetti, Giampiero Pesenti, Carlo Sama per il Gruppo Ferruzzi e ovviamente l'amministratore delegato dell'istituto Vincenzo Maranghi». Proprio Maranghi, dopo una perquisizione della polizia giudiziaria a Piazzetta Cuccia, organizzò nella notte «un pulmino che portò via tutte quelle carte dal contenuto inquietante» che non erano state scoperte. Agli investigatori era infatti sfuggita una parete mobile «celata dietro una libreria in una delle sale del piano nobile dell'istituto, dove si custodivano altri segreti». Secondo Bisignani, «tutta la storia di Mediobanca è fitta di episodi simili» a quello sul 'pulmino' di Maranghi, come il caso dei fondi neri scoperti nella Spafid, la fiduciaria di Mediobanca che «custodiva la contabilità ufficiale e parallela dei grandi gruppi», fino alle «carte segrete su Gemina» rinvenute in «una botola» dalla guardia di finanza. Tornando alla riunione 'anti-pool' in Mediobanca «fu unanimemente decisa la totale chiusura a ogni possibile collaborazione con la procura di Milano» nonché la «perentoria denuncia dei metodi che stavano destabilizzando il paese e la sua economia». Cuccia incaricò Romiti di «coordinare ogni iniziativa» e ordinò «a quegli imprenditori che avevano interessi nell'editoria» di supportare la linea «senza tentennamenti». Il fronte però si sfaldò presto un po' perché i tg di Berlusconi, che «all'epoca non faceva parte del giro di Mediobanca», cavalcarono l'onda di Mani Pulite ma soprattutto perché le delle ammissioni di un dirigente Fiat «fecero cambiare radicalmente la strategia decisa» facendo scattare il «tana libera tutti».

Follie televisive. Le sedute spiritiche di Formigli…., scrive Pietro Cerullo il 24 marzo 2015 su “Destra.it”. Lunedì 23, Formigli, più che “Piazza pulita”, ha condotto una seduta spiritica: evocato è apparso Claudio Signorile, già numero due del Partito Socialista di Bettino Craxi e ministro non compianto dei trasporti negli anni ottanta, quando scomparve avvolto dalle famigerate “lenzuola d’oro” delle FF.SS. Come in un gioco di prestigio. Il desso, con la supponenza dell’intellettuale abusivo, ha spiegato che non esistono i corrotti, ma la corruzione. C'è dunque l’opera, ma non gli autori. Per la contraddizion che non consente, direbbe Dante, se c’è l’effetto c’è la causa; se c’è il quadro c’è l’autore. Causa ed autore, udite udite, è il sistema. Ma se il sistema non è figlio della politica e della burocrazia , sarà figlio del popolo? Per un verso potrebbe esserlo, dato che il popolo vota i politici che poi scelgono gli alti burocrati. Chi si arricchisce e ruba però sono loro, non gli elettori. In effetti Signorile detto il sottile propone una spiegazione, se non originale, consueta: la colpa è del Fascismo: nel dopoguerra ci fu soluzione di continuità - argomenta - sul piano istituzionale, con il passaggio dalla monarchia alla repubblica, non quella dell’apparato burocratico. Intende che non ci fu lo sterminio di tutti i pubblici impiegati, anche se molti soccombettero alle vendette partigiane ed all’epurazione? La matematica non gli suggerisce che i superstiti si sono nel frattempo comunque estinti, per l’ineluttabile trascorrere degli anni? Se non erro, ricorre il settantesimo anniversario della Repubblica democratica antifascista nata dalla Resistenza. Da un pezzo non ci può essere in servizio attivo chi sia, non dico formato, ma nato sotto il Fascismo! Estinta non è purtroppo la razza ladrona cresciuta all’ombra dei partiti, dei sindacati, delle Regioni, tutta roba che non c’era durante il Fascismo e che nessuna inchiesta della magistratura è riuscita ad espiantare. Che, anzi, riemerge non nelle sedute spiritiche, ma nelle dirette televisive per spiegarci che ancora si aggira, di persona o tramite figli e nipoti, nelle stanze dei ministeri, per esempio come il figlio dello stesso Claudio Signorile, per proporre ad Incalza “un sistema di monitoraggio anticorruzione”. Ha detto letteralmente così. Che dobbiamo fare?

Appalti grandi opere: caso Incalza, i rapporti di Claudio Signorile, l’autostrada Roma-Latina e “l’interesse” del figlio. Il tarantino ex ministro, definito da Michele Emiliano padre della Patria. Per ora, padre di uno che secondo i Ros era in un'operazione "limitativa della concorrenza delle piccole imprese", scrive “Noi Notizie”, citando “La Rete”. Il caso di Ercole Incalza, il salentino di Francavilla Fontana che è in galera per presunte tangenti, è visto come una sorta di tangentopoli dei nostri tempi. Il ministro che si è dimesso (senza essere indagato) è emblema della gravità della situazione. Poi spuntano fuori anche individui del passato che provano a esserci pure nel presente. Esempio: Claudio Signorile, di Taranto. Era ministro dei Trasporti trent’anni fa e pochi mesi orsono, il candidato del centrosinistra alla presidenza della Regione Puglia, Michele Emiliano, ne ha parlato come di padre della Patria. Ecco come  descrivono lui e il figlio, Jacopo Benedetto, in odore di candidatura al consiglio regionale pugliese, i carabinieri del Ros, nell’ambito dell’inchiesta sul caso Incalza e su ipotesi di tangenti a tanti zeri (complessivamente, e in euro) sulle grandi opere. Testo pubblicato dal Corriere della Sera. Con una doverosa premessa: fino a prova del contrario, in un procedimento giudiziario sono tutti innocenti. Chissà perché, allora, finiti nelle stesse carte della stessa inchiesta, uno deve andarsene e un altro è considerato, da chi sta per assumere un ruolo-chiave, padre della Patria. Chissà che ne pensi Michele Emiliano, oggi. “Dall’attività di indagine è emerso che l’ex ministro Claudio Signorile e il figlio Jacopo Benedetto, sono tuttora in rapporti, per vicende riguardanti appalti pubblici, sia con Incalza e Pacella (ora ai domiciliari) che con Perotti. In particolare sono state rilevate comunicazioni, circa l’interesse di Jacopo Benedetto Signorile di entrare, insieme a Perotti, nella direzione lavori per la realizzazione dell’autostrada Roma Latina (opera da 2,8 miliardi di euro, di cui 970 di contributo pubblico, progetto preliminare approvato dal Cipe nel 2004) su cui l’Anac presieduta dal dottor Raffaele Cantone, nel novembre 2014, ha accolto i rilievi segnalati da Ance Lazio e Acer (costruttori di Roma) in quanto limitativa per la concorrenza delle piccole imprese”.

La seconda generazione di Tangentopoli. Perotti, Li Calzi, Trane, Gaspari: hanno ereditato da padri e zii le posizioni chiave negli appalti. E adesso li sostituiscono anche come protagonisti degli scandali. Lo spaccato più amaro di come funziona l'Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso. Largo ai giovani. Basta con i vecchietti di Mani Pulite, gli anziani reduci alla Primo Greganti e Gianstefano Frigerio che hanno continuato a smistare mazzette per decenni. Anche per loro è arrivata la rottamazione, perché adesso la scena è tutta per la seconda generazione di Tangentopoli: i figli di coloro che vent'anni fa dominavano il mercato delle bustarelle e degli appalti. L'inchiesta di Firenze segna uno storico passaggio di testimone, anzi di imputato: nel 1992 erano stati i padri a finire in cella, adesso la stessa sorte tocca a loro. L'ereditarietà della corruzione è incarnata dalla saga della famiglia Perotti. Negli anni Sessanta Massimo è stato l'enfant prodige degli appalti: entra all'Anas con concorso ed è il più giovane ingegnere a dirigere i lavori dell'Autosole. Scala la gerarchia interna fino a diventare direttore generale dell'Azienda pubblica: costruisce due terzi delle strade siciliane, arbitrando quei cantieri che fanno da sfondo al “Giorno della civetta” di Leonardo Sciascia. Una carriera che negli anni Ottanta lo porta alla presidenza della Cassa del Mezzogiorno, la più grande mangiatoia della Prima Repubblica, con l'incarico di liquidarla. Venne arrestato dalla procura di Milano nel 1985, in uno scandalo di grandi opere e finanziamenti alla politica che anticipava Mani Pulite: la vittima più celebre fu Pietro Longo, il segretario del Psdi, che perse la poltrona e si ritrovò poi per cinque mesi a Rebibbia con una condanna definitiva. Perotti senior dovette lasciare la Cassa, pur respingendo le accuse di concussione. Dopo un mese di cella è tornato a casa. E che casa: una villa che domina Firenze, usata pochi mesi fa per girare lo spot di un marchio di calze interpretato da Julia Roberts. Il procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo spiega il meccanismo con il quale l'ex dirigente del ministero dei Lavori pubblici (ora consulente esterno) Ercole Incalza avrebbe manovrato numerosi appalti pubblici assieme all'ingegner Stefano Perotti. A Perotti sarebbe stata affidata la direzione dei lavori in cambio di consulenze retribuite allo stesso Incalza. Secondo il pm Creazzo "il meccanismo ha favorito un incremento dei costi" delle opere.di Andrea Lattanzi. La dimora con vista sulla cupola di Brunelleschi non è l'unico lascito che Massimo Perotti ha consegnato all'erede Stefano, protagonista assieme a Ercole Incalza dell'ultima retata. In un ventennio di appalti il babbo aveva intessuto rapporti con tutti i signori delle infrastrutture, un capitale senza prezzo, trasmesso integralmente al rampollo. Lo racconta la moglie di Perotti junior, parlandone al figlio Philippe, destinato a essere il terzo della dinasty: «Tuo padre sì si è sposato a 23 anni, a 24 ha dato la tesi a 25 aveva appena appena iniziato a lavorare. Come  te, uguale. E  non aveva fatto un cazzo nella vita. Aveva avuto tanto da suo padre, perché aveva avuto già una casa, il permesso di sposarsi senza guadagnare però nient'altro». Eccolo, il modello dominante dell'Italia di sempre: il merito non esiste, contano le relazioni, conta essere dentro il giro importante, dimostrare la fedeltà a una consorteria. «Per cui  tu non devi pensare: “Io oggi non sono come papà”... Perchè che tu ti devi paragonare con i soldi che fa  papà è questo che sbagli Philo... Perchè papà oltretutto se guadagna bene e tanto e anche perchè  ci sono state delle coincidenze. Papà è bravo...  però ha avuto delle coincidenze fortunate di entrare nel mondo della politica grazie a suo padre... okay? Grazie ad un certo giro di politica... lavori pubblici  eccetera  che  non è detto che  in futuro sarà sempre  uguale a come  è stato fino adesso...». Il passaggio dinastico è simile anche per Giovanni Li Calzi, figlio dell'architetto rosso di Tangentopoli. Il padre Epifanio ebbe un posto in pole position: fu Mario Chiesa ad accusarlo nel primo verbale firmato a San Vittore. Progettista di grido, ex assessore ai Lavori Pubblici delle giunte di sinistra della Milano da bere, alla fine di febbraio 1992 Epifanio Li Calzi fu chiamato a sostituire proprio il “mariuolo” Chiesa come direttore dei lavori dell'ospedale Sacco. L'incarico durò poco: è entrato in carcere come collettore del Pci-Pds nella spartizione metropolitana. Era già stato indagato quattro anni prima, nello scandalo delle “Carceri d'oro” e poi assolto. Dai processi di Mani Pulite invece esce grazie alla prescrizione. E torna in affari. Con il figlio Giovanni Li Calzi crea la InAr, che macina appalti in Lombardia e nel mondo: costruiscono i padiglioni degli ospedali in Brianza e nel Sud Sudan. Creano anche una fondazione per promuovere l'architettura sociale. Ormai il suo passato rosso è dimenticato e gravita nell'area ciellina, la stessa del ministro Maurizio Lupi ma soprattutto del Celeste Roberto Formigoni che dal Pirellone domina la Regione. Li Calzi senior è morto l'anno scorso, quando il quarantenne Giovanni – come dimostrano le intercettazioni del Ros che lo hanno fatto finire nel registro degi indagati – è ormai pienamente inserito nel sistema di potere. Una grande differenza tra padri e figli è l'orientamento politico. La prima generazione aveva referenti chiari nei partiti. Perotti era considerato uomo del Psi, Li Calzi del Pci anche se gli atti giudiziari li descrivono come maestri nell'applicare il manuale Cencelli alla spartizione degli appalti: sanno stare al mondo e dialogare con chiunque. I quarantenni si sono evoluti e sembrano avere sostituito i rapporti personali alle tessere. Come Pasquale Trane, erede del leggendario Rocco ed esponente di punta della “Sinistra ferroviaria” di matrice socialista. Rocco Trane era l'ombra di Claudio Signorile, potente ministro dei Trasporti, il factotum nelle transazioni oscure. Come le mazzette sul piano aeroporti da 1350 miliardi di lire che gli fruttarono una condanna per concussione. Ma solo in primo grado. Perché la prescrizione è stata una benedizione per gli assi di denari della Prima Repubblica. Rocco Trane si è spento all'improvviso due anni fa, mentre partecipava al meeting di Rimini di Comunione e Liberazione: un altro indizio di come si sia spostato il baricentro degli interessi. Ma il giovane Pasquale è rimasto lungo gli stessi binari: sempre treni, anche se ad alta velocità. Per i quali adesso è sotto inchiesta. Nel settore di famiglia si è radicato un altro nome da amarcord: Giovanni Paolo Gaspari, nipote di quel Remo entrato negli annali come il “cementificatore d'Abruzzo”. Lo zio è stato un pilastro della Dc, al governo per quasi trent'anni; il giovane subito dopo la laurea è entrato alla Comunità europea, due anni dopo era all'Eni. Nel 1994 è direttore finanziario della Tav e dal 2001 con Pietro Lunardi si installa al dicastero delle Infrastrutture, come consigliere del ministro, incarico che ha mantenuto ancora oggi passando indenne attraverso i cambiamenti di maggioranza. È sua la frase intercettata che per i pm incastra Ercole Incalza: «Ercolino… è lui che decide i nomi… fa il bello e il cattivo tempo ormai là dentro…o dominus totale».

CLAUDIO SIGNORILE. Bari 9 settembre 1937. Politico. Eletto alla Camera nel 1972, 1976, 1979, 1983, 1987, 1992 (Psi), fu ministro per il Mezzogiorno nello Spadolini I e II (1981-1982), per i Rapporti col Parlamento nel Fanfani V (1982-1983), dei Trasporti nel Craxi I e II (1983-1987). Da ultimo nel Pd: nel 2007 partecipò alle primarie per l’assemblea costituente ma non fu eletto, «comunque va bene anche così: la nostra lista ha raccolto un bel po’ di voti. Mentre lo Sdi guarda al passato, noi andiamo verso il futuro».

«Faceva rima con ferrovie, dove c’era un treno, un ponte, una bretella c’era lui» (Antonello Caporale).

«È stato uno dei grandi leader del Partito socialista, uno dei protagonisti della svolta del Midas che vide l’inizio dell’ascesa di Bettino Craxi. Quando il suo partito è stato travolto da Mani Pulite, si è chiamato fuori. Mentre la maggior parte dei suoi compagni migrava verso Arcore lui è rimasto socialista, anzi socialista di sinistra» (Claudio Sabelli Fioretti).

Famiglia borghese. Elementari e medie a Bari, liceo a Taranto, università a Roma. «La mia generazione era indifferente tra socialisti e comunisti. Era la sinistra. Il mio primo comizio lo feci a Roccanova, in un fienile che era insieme sezione della Cgil, del Psi e del Pci. La scelta socialista la feci dopo l’Ungheria».

Giorgio Dell’Arti - Massimo Parrini Catalogo dei viventi 2009, Marsilio

Taranto: la città in cui una parte della Magistratura si è ribellata totalmente al Potere Politico, scrive Michele Imperio su “La Notte On Line”. Procede nel caos più assoluto l’opera risanatrice – se così si può chiamare – dell’Ilva di Taranto. I fatti più recenti sono che il g.i.p. del Tribunale di Taranto che si occupa di questa vicenda Patrizia Todisco ha respinto un’istanza del commissario governativo Sandro Bondi intesa a ottenere il reimpiego nell’opera di risanamento di 230 milioni di euro sequestrati alla famiglia Riva, come disposto da una delle leggi chiamate salva-Ilva, minacciando un nuovo sequestro senza facoltà d’uso da parte del Procuratore della Repubblica Franco Sebastio perchè i lavori di risanamento si stanno svolgendo con ritardo. Ormai tutti a Taranto hanno compreso che, al di là della vicenda giuridica e dell’opera risanatrice, due schieramenti sono a confronto in singolar tenzone fra loro. L’uno che vuole ribaltare la titolarità dello stabilimento e passarlo dai Riva ad un altro gruppo industriale, segnatamente i Gavio, dei quali – secondo taluni – sarebbe socio occulto il potente ex Ministro dei Trasporti tarantino Claudio Signorile, l’altro invece che vorrebbe risanare l’Ilva nel segno della continuità della famiglia Riva. Il primo schieramento si fa forte di alcuni segmenti mediatici e politici. Scrive l’Huffigston post un blog molto vicino al settimanale “L’Espresso” e quindi all’ex Sinistra democristiana di Carlo De Benedetti e di Matteo Renzi: “La storia dell’Ilva è nota, ed è noto che dopo anni di colpevole distrazione la magistratura è intervenuta per riportare legalità nel polo siderurgico tarantino, uno dei più grandi e dei peggio gestiti, rispetto all’impatto su ambiente e salute, del mondo. Diranno le sentenze, se e quando arriveranno, in che dimensione e fino a quale profondità la politica nazionale e locale si sia fatta autrice o complice di reati; in particolare complice dei reati contestati alla famiglia Riva, che acquistò per poche lire la fabbrica dall’Iri negli anni ’90 e per quindici anni ha accumulato miliardi di profitti (Falso: Riva ha gestito l’Ilva per quindici anni l’ha pagata un miliardo e mezzo di vecchie lire nel 1995 il massimo che potesse pagare un imprenditore privato dell’acciaio italiano in quanto la produzione di acciaio era stata fino ad allora quasi tutta in mano pubblica e negli anni buoni i profitti sono ammontati fino a un massimo di 800 milioni di euro ma poi ci sono stati anche gli anni di crisi n.d.r.) senza impiegarne lo “zero virgola” per ridurre, come prescrive la legge e come si è fatto nella siderurgia di mezzo mondo dalla Germania alla Corea (con il concorso finanziario al 50% dello Stato, che in Italia invece non vuole contribuire n.d.r.), la potenza di avvelenamento dei forni e dei depositi (tuttora a cielo aperto) di ferro e carbone (Falso anche questo: Riva ha investito in ambientalizzazione e precisamente in elettrofiltri, sistema dell’urea, altoforno 4 rifatto ex novo e altre opere oltre 4 miliardi di euro n.d.r). Ma in attesa dei processi e delle sentenze – continua l’Huffigton post – alcune verità già sono assodate. Una è che dei veleni dell’Ilva e delle omissioni dei Riva si sa da tempo. Le prime denunce sull’altissimo impatto inquinante della fabbrica di acciaio tarantina risalgono a più di vent’anni fa, merito di associazioni ecologiste e di gruppi auto-organizzati di abitanti di Taranto che a lungo sono stati gli unici a urlare che mettere lavoro contro ambiente e salute era una scelta senza dignità e senza futuro. Gli altri, quasi tutti gli altri, hanno lasciato che il problema marcisse: l’azienda naturalmente, il sindacato, la politica. Di questa fitta rete di silenzi, compiacenze e aperte complicità ha fatto parte integrante la sinistra, che governa la Regione da 8 anni e Taranto da 6. La sinistra che con troppi suoi esponenti sia locali che nazionali ha intrattenuto robuste relazioni “informali” con i Riva: valgano per tutti gli esempi di Pierluigi Bersani (ieri osannato in quanto supporter di Prodi presidente della Repubblica oggi invece criminalizzato in quanto ostile a Matteo Renzi n.d.r.), che da responsabile economico dei Ds accolse dai proprietari dell’Ilva nel 2006 un finanziamento elettorale di 100 mila euro – formalmente lecito ma quanto meno “inopportuno” -, o di Ludovico Vico, già deputato Pd e oggi commissario del Partito democratico a Lecce, che nel 2010 al telefono con Girolamo Archinà (“spicciafaccende” dei Riva) prometteva di far “buttare sangue” a uno dei due scriventi, colpevole di battersi in Parlamento contro un’ennesima norma “ad aziendam” inventata per legalizzare l’illegalità dell’Ilva.” Il segmento politico che appoggia i Gavio è quello che ruota attorno al ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni dell’allegra brigata Saccomanni, Draghi, gitanti del Britannia e vari e della rediviva corrente del P.D. che fa capo all’on.le Claudio Signorile. L’imprenditore Beniamino Gavio aveva dato notizia tramite il quotidiano “Repubblica” di essere a capo di una cordata di imprenditori interessata a rilevare l’Ilva e a risanarla. Tra questi aveva incluso anche l’imprenditore Vittorio Malacalza imprenditore notoriamente molto liquido. Ma intervistato da “Il Messaggero” Vittorio Malacalza lo ha smentito: “La cordata di imprenditori per l’Ilva proposta da Beniamino Gavio – ha detto – “non e’ una boutade”, ma “e’ un”operazione difficile” e la famiglia Malacalza al momento non intende farsi coinvolgere. Ho letto le dichiarazioni di Gavio e, dopo quell’ipotesi qualcuno mi ha anche chiamato dal ministero dell’Economia per sapere se veramente eravamo interessati. Dunque il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni spinge in questa direzione. Gavio quindi ha bleffato dichiarando disponibilità che in effetti non ci sono e quindi – allo stato – l’ipotesi più plausibile per un risanamento italiano (a meno che non si voglia dare anche l’Ilva a soggetti stranieri) rimane ancora quella dei Riva, i quali sono già titolari dello stabilimento e quindi non devono alcunchè per rilevarlo e inoltre sono gli imprenditori dell’acciaio in Italia dotati ancora di maggiori disponibilità finanziarie. Ma Emilio Riva il capostipite fiaccato dai processi e ormai ottantaseienne sta morendo e i figli vorrebbero – giustamente – una garanzia politica che lo stabilimento dopo il risanamento rimanga il loro e non passi invece, risanato e per un piatto di lenticchie a qualche altro imprenditore sostenuto da parti politiche a loro avverse. A livello mediatico i Riva non hanno alcuno sponsor mentre a livello politico essi sono – forse – sostenuti dall’attuale ministro dell’Ambiente Andrea Orlando, il quale recentemente ha autorizzato con decreto ministeriale senza prescrizioni alcune discariche interne all’Ilva per le quali la Procura della Repubblica di Taranto, ritenendole illegittime, aveva disposto addirittura l’arresto del presidente  della Provincia Gianni Florido ultimo dei moikani P.D. pro-Riva e tuttora detenuto neanche per averle autorizzate ma solo per aver tentato, senza riuscirci, di farle autorizzare con prescrizioni. Ma i Riva sono mal visti dal gruppo pelilliano-signoriliano che attualmente spadroneggia nel P.D. tarantino. All’ultimo congresso provinciale del P.D. i floridiani (ossia i seguaci del presidente della Provincia Gianni Florido attualmente detenuto per la questione delle discariche e di tendenza lavorista) sono praticamente scomparsi e tutta la segreteria comunale e provinciale si compone ora di pelilliani-signoriliani (pelilliani da Michele Pelillo deputato unico rappresentate del P.D. tarantino in Parlamento e vicino alle posizioni dell’on.le Claudio Signorile) i quali ora si atteggiano a spassionati ambientalisti. C’è stato alcuni mesi fa un referendum cittadino in questo senso cha ha visto la partecipazione di solo il 15% della cittadinanza, a riprova del favore della cittadinanza per il risanamento e non per la dismissione dell’impianto. Ebbene il nuovo segretario del P.D. Walter Musillo appena eletto, ha significativamente dichiarato: “Al referendum  per la dismissione o la continuità dell’Ilva ho votato per la totale dismissione dell’Ilva”. Quasi a voler far intendere quale sarà la sua linea politica: spingere per la dismissione totale dell’impianto per assimilare il P.d. alla Todisco, agli ambientalisti e ai grillini e al tempo stesso per favorire lo spossessamento della titolarità dello stabilimento in capo ai Riva se dovesse prendere piede il piano Gavio-Signorile.

Continua Michele Imperio su “La Notte On Line”. Il partito socialista dal nostro punto di vista era un bel partito. Ha garantito liberà e benessere agli italiani per quasi cinquanta anni (1945-1992). Ha supportato molti imprenditori di successo che hanno dato benessere e occupazione a migliaia di famiglie italiane. Però il Partito Socialista aveva al suo interno una pecora zoppa. Questa pecora zoppa era l’on.le Claudio Signorile. Anche lui come altri esponenti socialisti ha puntato su alcuni imprenditori Lucio Manisco Simi, Aldo Belleli (Belleli) ma poi li ha scaricati. I maligni dicono perchè non ha ricevuto quanto richiesto. Però non si possono comprendere – secondo noi – le odierne vicende giudiziarie dell’Ilva di Taranto se prima non si conoscono sia pure per pochi cenni le vicende personali di questo ex parlamentare. Dopo le stragi palermitane del 1992 che servirono – come disse Riina – a sbalzare di sella Craxi e Andreotti e dopo le inchieste parallele alle stragi cosiddette di Tangentopoli, nessun socialista è rimasto politicamente in vita tranne lui Claudio Signorile. Nessuna inchiesta lo ha mai sfiorato né mai la stampa ha pronunciato il suo nome. Una volta è stato processato e condannato a tre anni di reclusione per la bancarotta fraudolenta di Edilevante la società che gestiva il giornale di sua proprietà il Quotidiano di Lecce Brindisi e Taranto. Ebbene mai alcun giornale locale ha dedicato un rigo a questa vicenda. Mai! Chi lo ha saputo, se lo ha saputo, è per il tramite del passaparola. Sicuramente ha entratura anche in magistratura perchè le inchieste sul finanziamento illegale del partito socialista non lo hanno mai nemmeno sfiorato. Nel tempo Signorile ha fatto una metamorfosi, si è trasformato da uomo politico in business men, cioè il soggetto che mette la sua fitta rete di relazioni nella stampa, nella politica, probabilmente anche nella magistratura a disposizione di imprenditori che vogliono emergere e che sorretti da lui, effettivamente emergono. Che stia ora dietro i Gavio non è un mistero per nessuno e – guarda caso – Bemiamino Gavio da Alessandria è già – in pratica – il principale imprenditore che opera nel porto di Taranto. Ora è anche interessato a rilevare l’Ilva. Lo dice lui stesso al quotidiano “Repubblica”: «Sono pronto a dar vita a una cordata con banche e imprenditori per rilevare l’Ilva». L’annuncio di una nuova avventura imprenditoriale in uno dei pochi business che ancora mancano al gruppo, l’acciaio, oppure una sorta di chiamata alle armi della migliore imprenditoria italiana per evitare che il colosso malato faccia la fine di Parmalat e, una volta risanato, finisca in mani straniere? La battaglia perduta con il gruppo Salini per il controllo di Impregilo si è conclusa con una buonuscita di poco inferiore ai cinquecento milioni. E ora questa liquidità potrebbe essere investita in nuove operazioni. Magari in alleanza con l’altra famiglia più liquida d’Italia, i Malacalza, che dall’addio alla produzione siderurgica hanno incassato più di un miliardo di euro. Il patron Vittorio, che di Marcellino Gavio, padre di Beniamino era grande amico, per il momento resta alla finestra. Lui non è uomo da cordata, anche se ritiene la sfida “stimolante e difficile”, ma la mossa di Gavio ha bisogno dei suoi tempi e potrebbe presto riservare nuove sorprese. Si tratta solo di attendere, anche perché nella massima riservatezza il governo sarebbe già sceso in campo per verificare le reali disponibilità delle banche e degli imprenditori “sollecitati” da Beniamino Gavio con le sue dichiarazioni. Signorile ha sempre considerato Taranto una cosa sua e ha sempre concorso indirettamente per l’elezione del sindaco. Nel 1993 totalmente integrato nel PDS dopo la fine rovinosa del partito socialista Signorile in pieno scandalo delle lenzuola d’oro, uno scandalo che sembrava doverlo lambire ma che poi – dopo la morte misteriosa di Ludovico Ligato - non lo ha più interessato, impose alla Sinistra tarantina il suo candidato sindaco che era nientedimeno che l’allora Procuratore Aggiunto della Repubblica Gaetano Minervini, quindi un Magistrato. Minervini perse le elezioni non fu eletto sindaco. La colpa fu attribuita alla sponsorizzazione di Signorile il quale, per questo motivo venne temporaneamente scaricato dal PDS. Un altro sarebbe a quel punto politicamente morto ma Signorile no, lui può fare tutto quello che vuole, stare a destra come stare a sinistra. Fa un accordo con Silvio Berlusconi per le successive elezioni regionali. La sua nuova proiezione politica, la dott.sa Rossana Di Bello (Forza Italia), eletta alla Regione Puglia nel listino bloccato senza voti, diventa immediatamente assessore regionale al turismo nella Giunta Distaso (centro-destra) e poi per due volte  sindaco di Taranto per un centro-destra di marca finiana-democristiana che esclude la destra civica locale. Sia nella prima che nella seconda occasione Claudio Signorile si mobilita a suo sostegno. Ma un anno dopo la sua seconda elezione Signorile ripassa nel P.D., la dott.sa Di Bello non lo segue e litiga con l’ex parlamentare. Ebbene sul capo della dott.sa Di Bello si riversano quasi contemporaneamente un dissesto dei conti del Comune e trentasei processi per abuso innominato in atti d’ufficio più la minaccia di un mandato di cattura se non si dimette immediatamente da sindaco. Lei si dimette – ovviamente – ma dopo nella fase dibattimentale in nessuno di questi trentasei processi la Giudicante trova il vantaggio patrimoniale essenziale e la sussistenza del reato. Dunque per trentacinque volte la Di Bello viene  assolta. Manca ancora all’appello il trentaseiesimo processo da cui pure la dott.sa Rosanna Di Bello sarà assolta ma che viene di volta in volta rinviato per non sbloccare il sequestro dei beni del coimputato l’ex vicesindaco di Taranto on.le Michele Tucci, con grave disdoro della Procura della Repubblica. Il giudice che ha istruito questi trentasei processi è la stessa persona che il Procuratore capo della Repubblica Franco Sebastio ha selezionato all’atto del al suo insediamento (2009) – su diciannove magistrati in organico alla Procura della Repubblica di Taranto – per condurre l’inchiesta “Ambiente Svenduto” quella che riguarda le presunte corruzioni poste in essere dall’Ilva per andare avanti in condizioni di illegalità sotto il profilo del’impatto ambientale. Questo Magistrato che conduce questa inchiesta ha sicuramente qualche contatto con il signoriliano onorevole Michele Pelillo se è vero come è vero che a inizio 2012 quando c’è la campagna elettorale per l’elezione del sindaco (vinta  dal vendoliano Ippazio Stefano proprio grazie al veto opposto dalla direzione regionale del P.D. alla candidatura del signoriliano Michele Pelillo) Pelillo in televisione dichiara furioso: IO SO CHI NON VUOLE CHE IO DIVENTI SINDACO A TARANTO!  CHI NON LO VUOLE E’ LA GRANDE INDUSTRIA, MA VEDRETE!!!!!!!! VEDRETE CHE FINE FARA’ LA GRANDE INDUSTRIA!!!!!!!!!! VEDRETE!!!!!!!!!!!! E infatti pochi mesi dopo a luglio 2012 dopo che Ippazio Stefano ha vinto le elezioni comunali (si dice per l’appoggio di Emilio Riva patron dell’Ilva) parte con gran clamore l’inchiesta sull’Ilva con il sequestro senza facoltà d’uso dell’impianto (per fortuna non andato in porto grazie all’intervento del governo che così ha evitato che quarantamila lavoratori fra occupazione diretta e indotta fra Taranto e Genova andassero a spasso) l’arresto di Emilio e Nicola Riva i titolari dello stabilimento poi esteso anche al figlio di Emilio Fabio Riva tuttora latitante a Londra, l’arresto dell’addetto alle pubbliche relazioni dell’Ilva Girolamo Archinà, dell’assessore provinciale Michele Conserva, del presidente della Provincia Gianni Florido, l’incriminazione a piede libero del governatore della Puglia Niky Vendola dell’assessore all’ambiente Lorenzo Nicastro,, dell’onorevole Nicola Fratoianni, del sindaco di Taranto Ippazio Stefano, il maxisequestro di otto miliardi di euro in danno della famiglia Riva. Insomma una strage. L’inchiesta è sicuramente una risposta al dramma ambientale tarantino, laddove l’inquinamento prodotto dall’Ilva (ma non solo dall’Ilva) è tale che ci sono bambini che si ammalano di cancro a sette anni e che consapevoli del loro destino scrivono al padre: Papà distruggi quel mostro (riferito all’Ilva)! Ma dietro il dramma c’è anche la strumentalizzazione. Se ne accorge per primo il vescovo di Taranto Mons. Benigno Papa il quale già nel 2009 pubblicamente denuncia: “quello che non dovrebbe accadere è cavalcare la giusta tematica della salvaguardia dell’ambiente per motivazioni strumentali cioè non tanto perchè stia veramente a cuore questo problema  ma perché dalla protesta si possa ricavare un qualche utile personale o di gruppo. Qualora dovesse accadere questo, dovrei pensare che ci sia un inquinamento spirituale che è peggiore dell’inquinamento ambientale!” Perchè parlava così? Era per caso informato Benigno Papa di quanto alcuni Magistrati e alcuni politici stavano per fare? Voleva mandare un messaggio a quei Magistrati? Non lo sappiamo. Sappiamo per certo però che quelle parole sono state pagate a caro prezzo perché nel Norimberga bis (così viene chiamato a Taranto il processo Ambiente svenduto con 56 imputati eccellenti) c’è anche il suo segretario particolare Marco Gerardo che a momenti veniva arrestato dai magistrati della Procura per aver accettato da Emilio Riva un contributo di poche migliaia di euro per una processione. Alcuni addirittura insinuano che anche quella sarebbe stata una tangente. Pazzesco! L’inchiesta “Norimberga bis” o “Ambiente Svenduto” come lo si vuol chiamare, viene condotta con un sospetta severità : il presidente della Provincia Gianni Florido ha una discussione con un suo funzionario Luigi Romandini? Tentata concussione! Arrestato! Il presidente della Regione Niky Vendola ha una discussione con un suo funzionario Giorgio Assennato? Concussione! Incriminato! E hai voglia a chiarire da parte di Assennato per otto ore che non c’è stata nessuna concussione. Solo differenti punti di vista tra lui e il governatore Niky Vendola laddove alla fine Giorgio Assennato ha riconosciuto che il presidente Vendola aveva ragione e lui torto! Niente da fare! Incriminato anche lui! Per falsa testimonianza! Il sindaco di Taranto Ippazio Stefano non ha avuto discussioni con nessuno (per fortuna sua) ma viene incriminato lo stesso! Anche lui! Omissioni di atti d’ufficio! Non ha emesso ordinanze contingibili e urgenti! Il sindaco confida agli amici: “Non capisco cosa stia succedendo! Mi sento boicottato da tutti! In particolare da quelli del P.D.”. In effetti i Magistrati cercano di creare un clima di “caccia alle streghe” di “dagli all’untore” intorno all’inchiesta “Ambiente Svenduto”. Chiunque non si è allineato sin da principio alla linea di ambientalismo estremo sostenuta da verdi e grillini e anche dalla Procura viene criminalizzato. Ma ciò non per ragioni di giustizia bensì per chiari scopi politici. Il primo è chiaramente quello di assimilare i giudici e il P.D. al movimento ambientalista estremo di Beppe Grillo: e quindi lo scopo è quello di fare di Taranto il primo laboratorio politico in Italia per la formazione di una maggioranza alternativa a quella delle larghe intese (Grillo-Verdi-P.D). Il secondo – come abbiamo già detto – è quello di favorire il passaggio di proprietà dell’Ilva di Taranto a un altro gruppo industriale che potrebbe diventare sponsor di quell’altra maggioranza alternativa alle larghe intese. Lo denuncia questa volta non viene dall’arcivescovo ma dal quotidiano “Il Sole 24 ore” L’intento dei giudici di Taranto – scrive espressamente il giornale  della Confindustria – sembra essere quello di spossessare i Riva della titolarità della fabbrica. 

L’Ilva di Taranto è strettamente connessa all’Ilva di Genova nel senso che a Taranto si produce l’acciaio a caldo che serve anche alle produzioni a freddo di Genova, continua Michele Imperio su “La Notte On Line”. Se si ferma l’Ilva di Taranto si ferma anche l’Ilva di Genova. Né si possono differenziare le due proprietà nel senso di attribuire a una famiglia la proprietà dello stabilimento di Taranto e ad altra famiglia la proprietà dello stabilimento di Genova. Questa è la principale ragione per cui è in atto un incredibile scontro fra Magistratura e Potere Politico. Da una parte infatti quella fetta di Magistratura tarantina di fede o di impronta signoriliana (diciamo così ) fa il tifo per la soluzione Gavio-Signorile. Dall’altra parte il Potere Politico ligure ma anche quello nazionale semplicemente aborriscono all’idea che le maestranze liguri possano finire sotto le grinfie di un Signorile e si comportano di conseguenza. Secondo il Procuratore generale della Corte di Appello di Lecce Giuseppe Vignola, Magistrato integerrimo e universalmente stimato, la mossa di minacciare la chiusura totale e definitiva dell’Ilva adottata dal dott. Franco Sebastio Procuratore Capo della Repubblica di Taranto il 12 luglio 2012 era una mossa tendente in realtà a sollecitare il Governo a revisionare l’Aia concessa all’Ilva. Infatti un un’intervista a “Repubblica” del 18 agosto u.s. il dott. Giuseppe Vignola ha così dichiarato: “Questa (la revisione dell’Aia) è proprio una bella notizia. Leggo che i ministri hanno sostanzialmente recepito tutte le nostre indicazioni, facendole proprie e inserendole come diktat nell’Aia, l’autorizzazione governativa che permette all’Ilva di lavorare. Se non le rispettano, devono chiudere. È lo stesso concetto che sostenevamo noi. Significa quindi che quello che era stato fatto andava nella direzione giusta, e soprattutto che non eravamo impazziti. Ordinare la chiusura di una produzione industriale è stato un provvedimento assai sofferto, ma secondo noi era l’unica strada percorribile. Il punto principale è che l’Ilva rispetti le prescrizioni. Se lo può fare, continuando a produrre per noi non ci sono problemi. La risposta in questo senso la potranno dare i tecnici che sono stati nominati custodi, ma credo che sia assolutamente possibile. Fermo restando la legge, deve prevalere il buon senso………… Il sequestro era inevitabile. Siamo di fronte a un lavoro davvero ineccepibile che non ci lasciava altre strade, visto anche l’atteggiamento tenuto fino a quel momento dell’Ilva. L’azienda, lo dissi subito dopo il sequestro, di giorno rispettava le prescrizioni imposte e di notte le violava come confermano i rilievi fotografici che abbiamo eseguito per più di un mese nel corso dell’inchiesta. Non era un atteggiamento collaborativo e la maggior parte delle volte nascondeva i problemi con interventi di facciata. Sono davvero contento dell’intervento del governo. Mai come in questo momento sono contento della sintonia tra pezzi dello Stato proprio nel momento in cui sembrava riprodursi un braccio di ferro tra politica e magistratura. Mi dà tranquillità, non volevamo sentirci soli in una battaglia così importante. Una battaglia che stiamo vincendo”. Quindi un conflitto Magistratura -potere Politico, secondo Vignola, solo apparente e momentaneo e rivolto a fin di bene. Però i Magistrati tarantini, che fino a un certo punto si sono coordinati con lui, non sono sembrati poi del suo stesso parere. Infatti subito dopo l’emissione dell’AIA la Procura di Taranto ha abbandonato questo coordinamento (diciamo così) con la Procura Generale di Lecce e ha imbastito invece una strana alleanza con la Procura della Repubblica di Milano. Infatti Procura di Taranto e Procura di Milano in sinergia fra loro dopo la revisione dell’Aia e al fine di far fallire ogni possibile accordo fra Stato e impresa, hanno caricato l’Ilva di due sequestri non a caso notificati a Riva lo stesso giorno. uno del valore di otto miliardi e mezzo di euro proveniente dalla Procura della Repubblica di Taranto , l’altro del valore di un miliardo e mezzo di euro proveniente dalla Procura della Repubblica di Milano per frode fiscale, provvedimenti che – peraltro – hanno inibito Riva dal presentare e dal finanziare il piano industriale per il risanamento, che doveva essere presentato il giorno dopo. Come si spiega allora questa mossa, particolarmente aggressiva, con le parole rassicuranti del Procuratore Generale della Corte di Appello di Lecce? Il tempestivo intervento della Procura della Repubblica di Milano in questa vicenda fa pensare invece all’ennesimo tentativo di questo Ufficio Giudiziario di voler condizionare al massimo livello possibile tutte le vicende politiche di questo paese nel terrore che possa salire al Potere un giorno una coalizione di governo che faccia finalmente luce sia sulle odiose responsabilità di questa Procura nelle stragi di Palermo del 1992 (ne era sicuramente coinvolto il suo giudice Francesco Di Maggio e i suoi due agenti segreti a lui più vicini gli ordinovisti neofascisti Rosario Cataffi e Giuseppe Gullotti) sia sulle sue altrettanto odiose responsabilità nella cosiddetta trattativa Stato-Magistratura-Mafia, che cominciò proprio a Milano nel 1994 quando alcuni Magistrati della Procura della Repubblica di Milano (e segnatamente – secondo la denuncia di Pierluigi Vigna Armando Spataro, Francesco Di Maggio e Alberto Nobili, marito di Ilda Boccassini) decisero di coprire i miliardari traffici illeciti dell’Autoparco Milanese di Cosa Nostra in cambio di indicibili contropartite politiche. Quali odiose manovre politiche si nascondono dunque dietro lo smarcamento dalla Procura Generale di Lecce sotto questa nuova sinergia fra Procura della Repubblica di Taranto e Procura della Repubblica di Milano? Otto miliardi di euro di cui si vorrebbe il sequestro in danno dei Riva sarebbe il costo delle opere di risanamento ambientale che Riva in questi anni non avrebbe fatto per ambientalizzare lo stabilimento. Si tratta chiaramente di una cifra esagerata, cui si è giunti sulla base della stima di uan semplice impiegata dell’Arpa Puglia Barbara Valenzano. Peraltro Riva ha acquistato l’impianto sedici anni fa (1996) e il massimo dell’utile netto di esercizio è stato di 800 milioni di euro. Poi ci sono stati anche gli anni in cui l’utile è stato sensibilmente inferiore. Riva – peraltro – ha già investito in ambientalizzazioni quattro miliardi e mezzo di euro. Dunque quelle somme non le ha mai guadagnate. Come si può pretendere da un imprenditore che debba spendere più di quanto incassa? Ad imposibilia nemo tenetur – dicevano i latini. I tecnici del Ministero dell’Ambiente che hanno revisionato l’AIA hanno invece quantificato il valore delle opere di ambientalizzazione in un miliardo e ottocento milioni di euro. Naturalmente nessuno dice la verità. La verità è che l’Ilva di Taranto guadagna in modo esponenziale in funzione della produzione ed è congegnata nel senso che se produce sette milioni di tonnellata d’acciaio pareggia i costi, se produce otto milioni di tonnellate d’acciaio guadagna se produce nove milioni di tonnellate di acciaio guadagna bene se produce dai dieci milioni di tonnellate in su straguadagna. Fino al 2002 Riva è stato autorizzato a produrre fino a otto milioni di tonnellate di acciaio. Dopo il 2002 con la concentrazione su Taranto delle produzioni a caldo di Taranto e di Genova Riva è stato autorizzato a produrre fino a dodici milioni di acciaio a caldo con l’intesa però che il superguadagno sarebbe stato destinato anche al risanamento ambientale, risanamento che, fino a oggi, con le violazioni che denunciava Vignola, aveva fatto solo parzialmente. Gli aneliti affaristici e i giochi di potere di cui abbiamo parlato nelle puntate scorse, confermati da questa sinergia fra Procura di Taranto e Procura di Milano (i due Uffici fanno anche riunioni congiunte per meglio coordinarsi) hanno fatto sì che tutte le regole codicistiche che ripartiscono funzioni e ruoli dei vari uffici giudiziari in questo processo siano saltate. Soprattutto è mancata la figura del giudice terzo fra accusa e difesa ruolo totalmente obliterato dalla dott.sa Patrizia Todisco. Com’è noto il legislatore istituì la figura del g.i.p. come giudice terzo che doveva verificare se l’attività istruttoria dei P.M. fosse eccessivamente sbilanciata rispetto alle posizioni dell’accusa e nel caso attenuarla. Invece in questo processo il g.i.p. Patrizia Todisco si è spesso affiancata all’azione dei pubblici ministeri a volte scavalcandoli come quando ad esempio con un’ordinanza di 500 pagine ha sollecitato l’incriminazione del governatore della Puglia Niky Vendola (per molto meno la dott.ssa Clementina Forleo fu trasferita su due piedi da Milano a Cremona) oppure (caso ancora più clamoroso) quando ha sequestrato al liquidità delle aziende dei Riva a Brescia e a Verona contro la volontà dichiarata anche alle stampe del Procuratore capo della Repubblica di Taranto Franco Sebastio. Avendo capito che identificandosi ancora in Riva la titolarità dell’azienda ogni mossa della magistratura tarantina (e milanese) provocava il plauso fragoroso del popolo ambientalista e grillino schizzato a Taranto a percentuali vicine al 33% dei consensi, il Potere Politico ligure abilmente gestito dal valoroso esponente del P.D. Andrea Orlando attuale ministro dell’ambiente e quello nazionale a un certo punto hanno sostituito Riva con due figure neutre i commissari Sandro Bondi e Edo Ronchi ma l’aggressione giudiziaria contro l’Ilva al di là dei buoni intendimenti del Procuratore generale di Lecce Giuseppe Vignola è continuata lo stesso. Quattro mesi fa invocando l’ottemperanza di una legge salva-Ilva il commissario Bondi aveva chiesto lo sblocco di 230 milioni di euro sequestrati ai Riva per destinarli al risanamento dell’impianto. Per quattro mesi la dott.sa Patrizia Todisco non ha risposto. Dopo quattro mesi ha risposto: rigetto perchè il lavori si stanno svolgendo con ritardo. In realtà le opere sono state tutte appaltate ma sono ferme perchè i sindacati nazionali vorrebbero il coinvolgimento delle imprese locali. E mentre l’Ilva rischia di fermarsi di nuovo, l’impresa Marcegaglia (pannelli fotovoltaici) ha annunciato la cessazione delle attività della sua azienda a Taranto, con la conseguente chiusura e il licenziamento di 134 dipendenti, dal prossimo 31 dicembre 2013. Vestas (turbine eoliche) ha confermato la indisponibilità’ a riaprire l’attività’ di produzione delle turbine eoliche nel sito di Taranto e conseguentemente ha confermato l’esubero di 120 unità’ lavorative (solo parte dei quali saranno riassorbiti in un altro sito industriale della stessa azienda sul posto). A giorni anche Evergrin (trasporti marittimi) annuncerà il proprio disimpegno da Taranto per trasferirsi in un porto istriano, con il licenziamento di altre migliaia di lavoratori. Poi sarà la volta dell’Ilva stessa che annuncerà che a Taranto continuerà solo la produzione a freddo perché la produzione a caldo sarà trasferita almeno momentaneamente in Brasile (il che significherà il licenziamento di altri 5.000 dipendenti). Certo, ognuno ha le sue buone ragioni ufficiali, ma perchè tutti assieme? Quanto avrà inciso alla fine su questa devastazione occupazionale di Taranto il conflitto – che c’è, nessuno lo può negare – tra una parte della Magistratura tarantina e il Potere Politico Nazionale?

Io, la sinistra e i meriti di Craxi". Amato: quanti errori, ma fu un rapporto pulito, scrive Franca Selvatici su “La Repubblica”.

Presidente Amato, molti vorrebbero capire come e perché la sua storia politica la portò al fianco di Craxi, a condividerne le responsabilità e le idee; come e perché foste insieme per anni, come e perché lui e altri furono travolti dalla slavina politica e lei invece no.

"Dovremo fare un passo indietro e cominciare dall'epoca in cui Bettino Craxi emerse nella politica italiana, quando il Psi sembrava affondare (...) Nel partito il nostro leader di riferimento restava Giolitti, ma lo scossone interno al partito, nel famoso Comitato centrale dell'hotel Midas, portò all'ascesa di Craxi come segretario. Ci aspettavamo che fosse possibile eleggere Giolitti alla segreteria e invece un'intesa tra quelli che chiamavamo "i colonnelli" (Craxi, Claudio Signorile, Enrico Manca) lo aveva impedito. Tuttavia pensavamo che il nuovo assetto interno non avrebbe retto, che la competizione tra le correnti avrebbe reso la situazione altamente instabile. Più avanti, nel 1980, ci fu un Comitato centrale in cui sembrava che la prospettiva di una segreteria Giolitti si potesse realizzare. All'epoca non ricoprivo una posizione dirigenziale nel partito, ma facevo parte del Cc e del gruppo che si riconosceva in Giolitti. Grazie al rapporto che avevo con Norberto Bobbio, convinsi anche lui a partecipare alla riunione per sostenere la candidatura giolittiana. Ma in quell'occasione furono due, a mio avviso, gli eventi determinanti. Il primo fu il discorso dello stesso Giolitti, che non riuscì a far breccia nella maggioranza. L'altro fu il sostegno fornito a Craxi da Gianni De Michelis, che si staccò dalla corrente della sinistra lombardiana guidata da Signorile. A quel punto non c'era più nulla da fare (...)".

Il tentativo di farlo fuori deve averlo non poco innervosito.

"Passò del tempo e dovetti riconoscere che Craxi, ormai saldamente in sella come segretario del Psi, si era dimostrato in grado di fare cose di cui prima, per quel poco che lo conoscevo, non lo avrei creduto capace. A un certo punto maturarono in me due convinzioni. La prima era che l'uomo era riuscito a dare una voce unica ai socialisti, accrescendone enormemente la credibilità. Per lungo tempo il Psi era stato visto come un partito in cui non c'era accordo su nulla (...). Con Craxi tutto ciò era finito: era lui ad esprimere la posizione socialista, sovrastando ogni altra voce. Il suo secondo merito era stato quello di agganciare il Psi alla famiglia del socialismo internazionale. Così, in una successiva riunione del Cc socialista, intervenni per differenziarmi dalla componente giolittiana. Piuttosto che rimanere su un'incerta posizione di astensione, dissi, è meglio prendere "il Craxi per le corna" cioè accettarne pregi e difetti per lavorare con lui in un clima di leale cooperazione".

Molti ebbero l'impressione che a un certo punto, negli anni del pentapartito, l'obiettivo ultimo dell'alternativa fosse andato smarrito.

"Questo fu materia di disputa tra me e Giolitti. Si può dire che Craxi, una volta rientrato il Psi al governo, avesse abbandonato l'orizzonte dell'alternativa, assumendo come prospettiva strategica l'alleanza con la Dc? Io continuavo a pensare che non fosse così. Per come si misero poi le cose nel 1989-90, devo dire che forse aveva ragione Giolitti. Ma il governo Craxi, nel 1983, nacque all'insegna di una felice ambivalenza. E all'epoca il Psi raccoglieva consensi proprio in questa prospettiva".

Nel 1983 lei fu chiamato da Craxi al governo, come sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Qui viene la fase centrale della sua esperienza con lui. Fu all'altezza delle aspettative che la avevano spinta a schierarsi con lui e a separarsi da Giolitti?

"Sì, e a Palazzo Chigi vidi emergere altre doti del personaggio. Constatai che, dopo aver affermato la predominanza della propria voce sul cicaleccio del Psi, si rivelava in grado di imporsi e decidere anche in sede di governo. In un esecutivo di coalizione è fondamentale che il capo del governo senta il momento della decisione, se ne assuma la responsabilità e la sappia imporre, facendo percepire a tutti che la scelta tocca a lui e a nessun altro. Ebbene, questa capacità Craxi la dimostrò più volte in modo efficacissimo. Si ricorda soprattutto il clamoroso episodio di Sigonella, che suscitò consensi anche a sinistra per una certa riscoperta dell'orgoglio nazionale nei riguardi degli Stati Uniti (...). Penso poi alla decisione di scommettere la testa, nel 1985, sul referendum promosso dal Pci per abrogare il decreto che aveva tagliato la scala mobile: fu una scelta salvifica per l'economia nazionale. Ma Craxi lo emanò anche perché su quel terreno era in grado di contrapporsi ai comunisti, di sfidarli in un duello che lui aveva la possibilità di vincere".

Nello scontro tra Berlinguer e Craxi, che divampò sulla scala mobile, c'erano anche altre poste. La questione morale era già un problema acuto.

"C'è da osservare come i due leader concentrassero la loro attenzione su aspetti diversi ed egualmente importanti della crisi italiana, ma come nessuno dei due riuscisse a cogliere quanto di buono c'era nelle posizioni dell'altro (...). Berlinguer, tramontato il progetto del compromesso storico, aveva sottolineato con forza la diversità comunista come espressione di una superiore tensione morale, rispetto alle gravi degenerazioni della vita pubblica. A Craxi quel tema non interessava: era un uomo di potere, attento anche ai poteri abusivi, e non vide la portata di una questione che stava crescendo nel Paese. Nel Psi cominciavano a emergere fenomeni negativi, ma non erano al centro della sua attenzione. Al contrario Berlinguer aveva capito che la questione morale sarebbe presto divenuta esplosiva, ma non avvertiva la domanda di un governo responsabile che saliva dalla società".

La lotta tra Pci e Psi era una lotta per la vita o per la morte; sia Craxi che Berlinguer sembravano viverla così. Il che lasciava ben poco spazio a possibilità d'intesa.

"E' stata proprio questa attitudine a concepire la lotta politica in termini di mors tua vita mea a determinare l'epilogo sbagliato del lungo duello a sinistra, vanificando la "felice ambiguità" che avrebbe dovuto portare all'alternativa. Ciò avvenne dopo la caduta del Muro di Berlino, quando i socialisti commisero un errore letale, del quale anch'io, che pure non ero convinto della linea adottata allora dal partito, devo assumere la mia parte di responsabilità. Qui s'intrecciano comportamenti personali e fatti politici. Io non ero tra quelli che dicevano sempre di sì a Craxi. Non era così il mio rapporto con lui. E a volte lui si accorgeva che non ero d'accordo semplicemente perché tacevo. Piuttosto che manifestare fragorosamente il mio dissenso, come faceva in qualche occasione De Michelis, preferivo rimanere in silenzio. Perché lo facevo? Perché sentivo la soverchiante autorità del capo? Oppure perché affidavo il rapporto con il mio interlocutore a un gioco intellettuale, nel quale un'argomentazione che non viene raccolta finisce per cadere? Non lo so, potrebbero essere vere entrambe le cose. Fatto sta che molte volte Craxi aveva accolto il mio punto di vista perché aveva percepito che io, tacendo, non condividevo il suo. Comunque sia, dopo il 1989 Craxi era il leader potenziale di tutta la sinistra italiana".

Ma intanto arrivano governi democristiani: Fanfani, Goria, De Mita, Andreotti e il Caf.

"Nella legislatura iniziata nel 1987, le ragioni della governabilità ci avevano indotto a sostenere governi a guida democristiana. Ma gli eventi ormai stavano maturando e pareva che quella fase di transizione storica dovesse finire. La caduta del Muro faceva pensare che fosse ormai una questione di mesi. Ci fu il governo Goria, nel quale io fui vicepresidente del Consiglio e ministro del Tesoro. Lasciai il governo nel 1989, quando a Palazzo Chigi tornò Giulio Andreotti, perché - così mi disse Craxi - con le mie politiche di bilancio e il sostegno al ticket ospedaliero avevo superato il limite che il Psi poteva tollerare. Se anche altre fossero le ragioni della mia esclusione dall'esecutivo, non l'ho mai saputo (...). Per due mesi mi isolai completamente nella mia casa di Ansedonia. Poi Craxi mi telefonò e mi prospettò l'ipotesi che il partito, entrato Martelli al governo, avesse non più uno, ma tre vicesegretari, tra i quali dovevo esserci anch'io. Accettai e tornai a via del Corso, con un compito che in sostanza era sempre lo stesso e, lo sottolineo, non aveva niente a che fare con l'amministrazione del partito. Era ormai alle spalle il crollo del Muro di Berlino, il Pci si era sciolto, era nato il Pds. Quello poteva essere l'anno della conquista di una sinistra unita. Quando cadde, nel 1991, il governo Andreotti, messo in crisi dal Psi, io ebbi la sensazione che fosse arrivato il momento di sciogliere la "felice ambiguità" e puntare sull'alternativa. Si trattava di provocare lo scioglimento anticipato delle Camere e cambiare le carte in tavola. Il mondo mutava sotto i nostri occhi, era caduto il Muro, la nostra collaborazione con la Dc si faceva sempre più stentata (...). La crisi del 1991 sembrava offrire l'occasione per una svolta. Non andò così. Per un insieme di circostanze, Craxi accettò che nascesse un nuovo governo Andreotti. Osteggiato dalla Dc e dagli stessi pidiessini, che in teoria erano i beneficiari della crisi, ma non osavano affrontare le elezioni, Craxi rinunciò. E io ho sempre pensato che, nonostante le enormi difficoltà della situazione, il Craxi di Sigonella non avrebbe rinunciato".

Aveva perso le doti dell'epoca di Palazzo Chigi? E come mai?

"Non so se avesse dei motivi particolari di preoccupazione. Forse ebbe un peso anche la sua malattia, molto seria, alla quale teneva testa solo grazie alla sua fibra veramente robusta, perché nei fatti non si curava, era sregolatissimo. Mi venne detto da medici esperti che l'incedere del diabete determina anche incertezze nuove nel carattere delle persone che ne soffrono. Può essere dunque che il suo ritrarsi da una decisione rischiosa fosse anche la conseguenza di un cattivo stato di salute. Certo è che fu un passaggio determinante, perché a quel punto finimmo per contare più sulla definitiva disfatta dell'ex Pci che non sulla prospettiva di assumere noi la guida della sinistra. Sbagliammo: invece di attendere che il cadavere del Pds passasse sul fiume, avremmo dovuto invocare noi le ragioni della convergenza. Questa fu la prima occasione nella quale colsi in Craxi un certo appannamento. La seconda, notissima, riguardò il referendum sulla preferenza unica. Craxi esortò gli elettori ad astenersi, chiese loro di andare al mare e non ai seggi, senza rendersi conto che avrebbe ottenuto l'effetto opposto" (...).

Poi nel 1992 esplose Tangentopoli, che costrinse Craxi a rinunciare all'ipotesi di tornare a Palazzo Chigi. E a quel punto nacque il primo governo Amato. Ci furono tentativi di coinvolgere direttamente Palazzo Chigi nello scontro tra i giudici di Milano e i politici inquisiti.

"C'è, che molti mi rimproverano, del cosiddetto 'poker d'assi'. Io, come capo del governo, non pensavo di dover partecipare alla direzione del partito né che quella fosse la sede adatta per fare i conti con Antonio Di Pietro. Ci fu alla fine di agosto, a via del Corso, una riunione cui Craxi mi invitò, perché tenessi una relazione sulla situazione economica alla vigilia della legge finanziaria. Io illustrai i problemi dei conti pubblici e poi lui affrontò l'argomento Di Pietro, enumerando le accuse nei suoi confronti che sono passate alla storia come "poker d'assi": un'espressione attribuita a Rino Formica, benché lui non l'avesse usata. Da allora non partecipai più alla direzione del Psi, anche perché non ero d'accordo con quel modo di procedere. Craxi, prima dell'estate, aveva espresso più volte i suoi dubbi sulla persona di Di Pietro, che poi sono stati anche oggetto di indagini della procura di Brescia, dalle quali l'ex pm di Mani pulite è uscito completamente scagionato. All'epoca io, Balzamo e Martelli suggerimmo a Craxi di passare quegli elementi ai suoi avvocati, in modo che facessero un esposto in sede giudiziaria. Rimanemmo tutti sorpresi quando invece vedemmo gli stessi argomenti apparire in forma di corsivi dell'"Avanti!". Fu una scelta personale di Craxi, che non condivisi assolutamente".

Poi viene il momento forse più acuto di contrasto con Craxi e di tensione tra il suo governo e l'opinione pubblica. Il segretario del Psi voleva chiaramente provvedimenti politici di garanzia per i politici accusati di corruzione.

"Gli ultimi colloqui che ebbi con lui riguardarono proprio questi temi. Si pose la questione del finanziamento illecito dei partiti. Io ritenevo corretto depenalizzarlo, come in effetti poi si è fatto, ma reputavo impensabile eliminare ogni sanzione per comportamenti del genere o addirittura depenalizzare reati molto gravi come la corruzione e la concussione. Anche qui tra me e Craxi ci furono punti di vista diversi. Io gli spiegavo che qualcosa si poteva fare, ma c'erano dei limiti invalicabili. Craxi mi ascoltava, non mi contraddiceva, ma chiaramente non era persuaso. Nel nostro ultimo incontro, però, parlammo anche di politica. E lui mi disse: "Visto che si va verso un sistema elettorale maggioritario, tu devi cercare di ridurre la tensione tra noi e gli ex comunisti, perché in futuro un rapporto con loro lo dovremo comunque riallacciare". Mi parlò così anche se la sua vicenda giudiziaria era già cominciata e stava iniziando, da parte del Pds, un'inaudita strumentalizzazione dell'inchiesta Mani pulite per distruggere Craxi".

In definitiva oggi qual è il suo giudizio sulla figura di Craxi?

"E' una persona che ha contato molto nella mia vita, mi ha fatto crescere e mi ha fatto anche soffrire. Ho sempre continuato a rispettarlo, anche dopo la sua disgrazia politica. I socialisti, in questi ultimi anni, si sono specializzati nelle polemiche personali. Io invece certe riflessioni critiche continuo a tenermele dentro. Considero immorale attaccare una persona con cui ho avuto quel tipo di legame. Posso comportarmi così perché il mio rapporto con Craxi è stato sempre pulito, per cui non devo prendere le distanze da lui per rendere la mia immagine più accettabile ad altri. Per queste ragioni non mi sono mai associato a facili cori di critica, nemmeno dopo che tra me e lui era sceso il silenzio, che ciascuno di noi due probabilmente spiegava con una responsabilità dell'altro: io che non lo avevo più cercato dopo la sua partenza definitiva per Hammamet, lui che non mi aveva fatto neppure una telefonata dopo la caduta del mio governo".

Infine venne l'epoca dei fax da Hammamet.

"Ho taciuto anche quando lui, reagendo regolarmente allorché leggeva cose che non gli garbavano in qualche mia intervista, mandava in giro fax contenenti allusioni su di me che assolutamente non meritavo, no proprio non meritavo (e lui lo sapeva bene). In simili circostanze ho ritenuto che fosse mio dovere morale astenermi da ogni commento. Il mio silenzio può essere stato male interpretato, ma non me ne importa niente, perché conosco la realtà di quel rapporto e continuo a rispettarlo".

Ha imparato cose da lui?

"Da Craxi ho imparato diverse cose su come si fa politica, perché è stato un leader di grandi qualità. Da lui ho imparato a percepire quando arriva il momento della decisione e tu te ne devi assumere la responsabilità. Ho imparato inoltre che non si può esaurire la politica sulla scena domestica: quando ancora non si parlava di globalizzazione, lui mi fece capire bene che bisogna guardare sempre oltre l'orticello di casa e sapersi creare una rete di rapporti internazionali (...). Craxi commise diversi errori, ma quando si valuta l'opera di un uomo, bisogna fare con equanimità il bilancio del bene e del male".

Craxi, siluro ad Amato: è colpevole come me, scrive Sebastiano Messina su “La Repubblica”. Quando era ancora presidente del Consiglio, Giuliano Amato andò a parlare alla London School of Economics. E ai giornalisti inglesi che gli chiedevano di Tangentopoli rispose così: "Io ritengo che ben poche persone erano al corrente delle cose che stiamo scoprendo adesso...". Quattro anni sono passati, ma Bettino Craxi non ha dimenticato quella frase. Macché, tuona adesso dal suo rifugio di Hammamet: tu lo sapevi benissimo, caro Giuliano, avevi le mani in pasta come me, pagavi le tue campagne elettorali con i soldi del cassiere di Via del Corso e raccoglievi fondi anche per conto tuo. E giù con una scarica di accuse, una requisitoria che evoca anche nel lessico gli ordini di cattura scritti da Di Pietro ("Egli non poteva non sapere..."), una mitragliata contro il suo ex consigliere più fidato, contro l' uomo che una volta, prima di essere travolto dagli eventi, lui stesso designò come il suo successore alla guida del Psi. Altri tempi. Allora Craxi comandava a Via del Corso e Amato era ben saldo a Palazzo Chigi. Poi è venuta la grande piena di Mani Pulite, che ha spazzato via i socialisti, comprese le ville, le auto blindate e quel sorriso arrogante che nascondeva la certezza di un potere eterno e crescente. E oggi che la bufera è finita, l' ex leader socialista non riesce a mandar giù il fatto che il destino cinico e baro abbia riservato al suo fedelissimo una sorte così diversa dalla sua. Lui, Bettino, costretto a curarsi i suoi mali tra i palmizi tunisini, con un ordine di arresto che pende sulla sua testa, mentre Giuliano non è stato sfiorato da un solo processo, anzi guida solennemente l' Antitrust, con tutti gli onori, la blindata e la scorta, e sta addirittura per mettere il bollo socialista all' "operazione Cosa 2". Poteva, Craxi, lasciare che il fato continuasse su questa strada biforcuta? Figuratevi. Ha aspettato il momento giusto, la vigilia di quel congresso pidiessino dove gli ex avversari delle Botteghe Oscure stenderanno un tappeto rosso per accogliere il compagno Amato, poi ha affidato all' ultima arma che gli è rimasta - il fax - la sua requisitoria contro l' ex Dottor Sottile. Aggiungendo perfidamente che ci sarà un seguito, non finisce mica qui: "Di tutto ciò si può tornare a parlare più nel dettaglio...". Ma vediamo cosa c' è scritto nel suo atto d' accusa. Nella mente di Craxi, il suo ex braccio destro deve aver commesso il reato di usurpazione di potere. "Giuliano Amato - scrive Craxi - tutto può fare salvo che ergersi a giudice delle presunte malefatte del Psi, di cui egli, al pari di altri dirigenti, porta semmai per intero la sua parte di responsabilità... Il sottoscritto, per le sue responsabilità di segretario, è trattato alla stregua di un gangster e condannato all' ergastolo... Guarda caso, invece, a Giuliano Amato, vicesegretario vicario del Psi, forte delle sue amicizie e altolocate protezioni, non è toccato nulla di nulla. Buon per lui". Poi vengono gli insulti. Craxi chiama Amato "becchino del Psi", "trasformista", "voltagabbana", e - citando Cossiga - addirittura "una cosa vomitevole", come "tutti i craxiani che sono diventati anti-craxiani". Un uomo, dice, che "si è impancato a sputar sentenze morali". Non può farlo, lo sferza l' ex segretario, proprio lui che con "le cattive abitudini contratte dal Psi, finanziamento illegale in testa, è stato a contatto quotidiano", come "potrebbe risultare in modo inconfutabile". E qui cominciano le accuse, quella che un magistrato definirebbe una chiamata in correità. "Innanzitutto va ricordato che, dopo aver per intero condiviso avventure e disavventure del craxismo di governo, Giuliano Amato si dedicò interamente al partito. Negli anni in cui io mi occupai delle Nazioni Unite, lavorando per lunghi periodi nel mio ufficio al Palazzo di vetro di New York, Amato era vicesegretario vicario ed era impegnato nella gestione del partito. I suoi rapporti personali con l' amministratore Vincenzo Balzamo erano diretti ed eccellenti...". Da questa premessa Craxi fa discendere cinque capi d' accusa. Primo: sapeva tutto. "Egli era perfettamente al corrente della natura complessiva del finanziamento del partito. Era evidente che egli non poteva non sapere". Secondo: prendeva i soldi anche lui. "Di questi finanziamenti egli si è sempre avvalso naturalmente e personalmente per le sue spese di lavoro politico, per le sue campagne elettorali che furono sempre finanziate dal partito, tanto in sede nazionale che in sede locale. Anche in questo caso non credo che il tutto avvenisse tramite assegni e trasferimenti bancari documentati". Terzo: forse si muoveva anche in proprio. "Resta inoltre da considerare se per far fronte alle spese delle sue campagne elettorali, furono organizzate, come pare, anche raccolte di fondi che non rientravano nel controllo dell' amministrazione centrale". Quarto: collaborava. "E' poi certamente toccato a Giuliano Amato di occuparsi di iniziative, strutture e progetti di interesse del partito e che tuttavia comportavano un interessamento diretto, ed incarichi specifici di collaborazione con l' amministrazione del Psi". Quinto: era consenziente. "Non è mai capitato a mia memoria che Giuliano Amato in incontri personali e confidenziali con il segretario del partito avesse esternato le sue perplessità, le sue preoccupazioni e il suo disappunto per il sistema generale su cui si imperniava il finanziamento del partito, parte del quale, come tutti sapevano, era costituito da forme che si concretavano in aperta e risaputa violazione della legge sul finanziamento dei partiti". La requisitoria finisce qui, con l' inquietante accenno a quei "dettagli" di cui "si può tornare a parlare". Amato, che i suoi collaboratori definiscono "addolorato" dalla bordata craxiana, è amareggiato ma non sorpreso. Sapeva da tempo di essere, come gli dicevano i suoi amici, "sotto impeachment craxiano". Già quattro mesi fa aveva ricevuto la prima avvisaglia, leggendo un'intervista in cui Craxi lo accostava a Martelli e a Formica per dire: "Potrei fare una lunga lista di traditori e vigliacchi. C' è perfino chi si impanca a moralizzatore. Parola di Giuda". Conoscendo bene Bettino, Giuliano Amato capì che quello era solo l'inizio. Non si sbagliava.

Il primo traditore di Craxi fu suo figlio Bobo. Accusa il Cavaliere di non essere stato un amico, ma quando scoppiò tangentopoli disse: Non sono mai stato craxiano, scrive Filippo Facci su “Il Giornale”. Meriti la peggiore delle cattiverie, Bobo: la verità. Meriti ciò che fedeli e amici di tuo padre, anzi del padre di tua sorella Stefania, si sono ripetutamente e sommessamente ripetuti per anni, silenziosamente, scuotendo la testa, consolandosi nella speranza che peggio, in fondo, tu non potessi dire né fare. E invece sì, ci riesci ogni volta, ci riesci per la vergogna nostra: e parlo senza timor di smentita di compagni e amici e ripeto familiari che Bettino Craxi amava senza disperazione, com’era invece nel tuo caso. Ora ti sei inventato questo, Bobo: che Silvio Berlusconi non andò ad Hammamet dal 1994 al 2000 e che dunque non fu un buon amico. «È evidente che ha tradito un rapporto». Vien da rispondere che il rapporto intellettivo con tuo padre, tu, l’hai tradito alla nascita, Bobo, ma sarebbe una battuta becera e degna di quell’Umberto Cicconi, ex fotografo di tuo padre, che resta il tuo intellettuale di riferimento. Niente battute, Bobo, la verità basta e avanza. Perché vedi, tu eri il figlio con dei problemi, quello che avrebbe fatto sembrare un lavoratore persino Claudio Martelli, il figlio da sopportare nonostante la sua arroganza che faceva danni incommensurabili ogni qualvolta apriva bocca. Eri quello che non aveva né ha mai lavorato in vita sua e che da solo non avrebbe sfondato in politica neppure in dieci vite, il figlio che boicottava ogni giovane anima di cui tuo padre, pardon il padre di tua sorella, amava circondarsi anche ad Hammamet: nella speranza che qualcuno, certo non tu, potesse raccogliere il suo testimone politico e comportarsi magari come un figlio. Ti fu perdonato tutto, Bobo: persino quella volta che ti scappò quel «non mi sono mai considerato un craxiano» dopo il primo avviso di garanzia spedito al tuo ex padre, nel dicembre 1992, quando stavi per tentare il salto del quaglione tra coloro che volevano «restituire l’onore ai socialisti», ricordi? Ora però basta, Bobo, basta davvero. Il Craxi perdente e zoppicante, la sera tardi, amava ripetere che tutto avrebbe voluto, diceva, «tranne che essere riabilitato da coloro che mi hanno ucciso». C’è chi, come tua sorella, ha incorniciato questa frase dietro la scrivania: la stessa sorella che ormai ti definisce pubblicamente «una tragedia familiare» che non è nazionale, per fortuna, solo per via della tua irrilevanza politica. Hai bussato col cappello in mano dai lanciatori di monetine, hai fatto bisboccia cogli odiatori professionali, con le iene che poi hanno tentato di smangiucchiare ogni visione craxiana con due lustri di ritardo. In politica il tradimento non esiste o quasi, Bobo: ma tu eri un figlio, perlomeno di sangue. Non eri altro, non avevi altro. Da vent’anni davi aria alle parole col tuo politichese vacuo e fatto di nulla: poi, per un collegio di lenticcchie, per il posticino con lo stipendino e la pensioncina, hai svenduto a prezzi di saldo un cognome che non ti appartiene più da tempo, perché l’hai regalato agli scippatori del socialismo europeo, a coloro cui neppure una latitanza parve bastare. Questi sono i tuoi compagni di strada, i traditori indicati da tuo padre: ecco perché della tua biografia, Bobo, resterà l’esser nato come figlio di Bettino Craxi e in secondo luogo il tuo esser passato con quelli che lui giudicò i propri assassini, punto, amen, riposi in pace, pensavamo. E invece no. Ancora parli. Parli di Berlusconi: con tutti gli sciacalli che pure ci furono anche a destra, tu vai a parlare proprio di Berlusconi, vai a parlare dell’uomo che per almeno dieci anni si cercò di associare al padre di tua sorella perlomeno sotto il profilo dell’epilogo politico-giudiziario. Eppure tutto era cominciato proprio nel periodo in cui Berlusconi già orecchiava la politica o a esser precisi il consenso: il periodo in cui una percentuale di italiani che sfiorava il 90 per cento voleva Craxi espressamente in galera, e insomma lo odiava di un odio viscerale, liberatorio, risolutore. Ebbene, giusto all’acme di questa passione civile (sera del 29 aprile, dopo alcune mancate autorizzazioni a procedere contro Craxi) il Berlusconi già mentalmente politico non ebbe a rifuggire le telecamere di Raitre, e così disse: sono venuto a trovare un amico perché sono tanto contento per lui. Un gesto che molti che circondano Berlusconi (oggi) non vollero o poterono permettersi (allora) ma che il futuro vincitore delle elezioni avrebbe comunque pagato salato. E Berlusconi quel prezzo lo pagò, ma è la ragione per cui non poté mai più permettersi di incontrare Craxi da vivo: anche perché il primo a sconsigliarlo politicamente fu proprio Craxi, se non lo sai. Andarono altri, ad Hammamet. Il padre di tua sorella li portava alla Medina per una menta fresca e per un passaggio finto distratto nel cimitero italiano dove avrebbe voluto essere sepolto, diceva. Berlusconi il cimitero l’ha visto per la prima volta nel 2000, nel giorno dei funerali, quando disse che non c’era nulla da dire. E tu ovviamente parlavi, Bobo.

Ecco cosa c'è dentro i messaggi di Bettino Craxi". Stefania, la figlia dello statista e segretario del Psi, racconta com'è nato il libro ("Io parlo, e continuerò a parlare") raccolta dei pensieri del padre in esilio - Il Libro, scrive Paola Sacchi su “Panorama”. «Scriveva di notte o la mattina. In quegli appunti Bettino Craxi fotografa vent’anni prima l’Italia di oggi: il dramma della disoccupazione giovanile, i problemi con l’Europa. Mette in guardia dai pericoli di una democrazia che si stava avvitando su se stessa diventando una finta democrazia, oppure una videocrazia, così la definì.  Ci sono i ritratti di quelli che definiva gli extraterrestri: da Giuliano Amato a Giorgio Napolitano a Romano Prodi e Massimo D’Alema, gli uomini nuovi della Seconda Repubblica che nuovi non erano. Ma in Craxi non c’è mai rancore, c’è una lucidità politica impressionante che fa la differenza tra chi è uno statista, un grande politico e chi non lo è». Stefania Craxi, presidente della Fondazione dedicata alla memoria del padre, racconta a Panorama.it come è nato il libro «Io parlo e continuerò a parlare» (Mondadori), raccolta degli scritti dell’esilio tunisino (1994-2000) per il 70 per cento inediti a cura dello storico Andrea Spiri.

Quando ha iniziato a nascere l’idea di questo libro?

«Da una delle ultime interviste in cui Craxi dice: “La Storia andrà riscritta bene con tutti i suoi falsi eroi e falsi miti, è l’unica cosa che posso fare, ma la partita della storia non gliela faccio vincere”. E termina dicendo: “Io parlo e continuerò a parlare”».

Quindi, la sua unica arma rimasta erano quegli appunti. 

«Sì, scriveva. Senza mai decidersi a fare un libro di memorie. Forse non lo voleva fare o forse quando lo ha deciso era troppo tardi. E scriveva dietro i fogli riciclati della rassegna stampa che ogni giorno un compagno gli mandava, uno di quei compagni  che niente gli doveva, mai stato senatore, mai stato deputato o presidente di qualcosa,  ma legato a Craxi solo dalla militanza politica. E quindi, lui la mattina scriveva o le riflessioni delle notte insonni, oppure reagiva a quello che leggeva».

Inviava poi i suoi scritti in Italia, attraverso il famoso fax di Hammamet.

«Sì, cercava di farli pubblicare, spesso venivano cestinati nelle redazioni, qualcuno veniva pubblicato su un foglio dell’Avanti clandestino. Il libro che ne viene fuori (è solo una parte degli appunti) è uno sguardo sulla seconda Repubblica visto da Hammamet. Ed è da un lato una cronaca puntuale di quello che accadeva in quegli anni, dall’altro non è un libro di memorie ma di attualità. Lui vede con vent’anni di anticipo che questo paese sarebbe stato ridotto in macerie. Lui vede cosa sarebbe successo dell’Europa così come si andava costruendo e di come  avrebbe messo l’Italia in difficoltà. È strabiliante perché il libro sembra scritto ieri. Ma chi cerca scoop o parole di rancore non ne troverà. Troverà una descrizione senza infingimenti del sistema politico e la visione di quella che sarebbe stata la Seconda Repubblica».

E dei personaggi della Seconda Repubblica cosa dice?

«C’è qualche notazione sui cosiddetti uomini nuovi che si aggiravano in quel momento sullo scenario politico come degli extraterrestri (così lui li definiva), spacciandosi per essere stati fino al giorno prima sulla luna. Lui sostanzialmente dice: ma come nuovi, se hanno partecipato tutti attivamente alla Prima Repubblica?  C’è la rivendicazione orgogliosa di una vita vissuta, anche con tutto il suo carico di errori, per il bene del paese. L’altra cosa che emerge, per chi vuole leggere questo libro anche con l’anima non solo con l’intelletto, è un dolore, una nostalgia che a chi non ha pregiudizi fanno molto male al cuore. Sono le pagine dedicate all’esilio».

Qualche aggettivo per definire i cosiddetti personaggi nuovi?

«C’è una carrellata su Amato, Napolitano D’Alema, Prodi…Sono ritratti precisi e c’è per tutti un’invocazione a dire la verità sulla storia della Prima Repubblica di cui avrebbero potuto essere precisi e autorevoli testimoni. Per ognuno c’è una definizione, ma questo lasciamolo al lettore. Craxi rivendica anche i meriti della Prima Repubblica che aveva risollevato le sorti di un paese contadino uscito dalla guerra che diventò la quinta potenza mondiale».

Come vedeva Silvio Berlusconi già da allora?

«Craxi preconizza la persecuzione giudiziaria nei suoi confronti e il tradimento di Fini. Quanto agli altri politici della Seconda Repubblica sostanzialmente Craxi dà loro dei bugiardi».

Stefania Craxi intervistata da Sabelli Fioretti. Oltre 150 interviste sugli old boys net, sui voltagabbana e sui leccapiedi. Un nome ricorrente, Bettino Craxi. Da lui hanno riparato molti ex sessantottini quando hanno avuto bisogno di un tetto, attorno a lui si è formata una corte di incredibili adulatori, partendo da lui si è verificato quel fenomeno carsico dei craxiani, prima osannanti, poi rinneganti, poi di nuovo entusiasti. Stefania Craxi ha letto quasi tutte le interviste. E ogni volta che compariva il nome del leader socialista ha preso appunti. Poi mi ha detto: “Vogliamo fare il punto su tutte le bugie che sono state raccontate?” Ed io: “Vogliamo”. Eccoci qui ad esaminare, una per una, le bugie degli intervistati.

E’ armata?

“Perché?”

Ho letto che gira armata.

“Una volta. Quando era vivo mio padre”.

Lo avrebbe difeso sparando?

“Si”.

Meno male che non c’era il giorno delle monetine al Raphael.

“Meno male”.

Lo avrebbe difeso sparando?

“Sarebbe stato eccessivo. Però sicuramente avrei reagito”.

Cazzotti?

“Anche”.

Ha preso mai a cazzotti qualcuno?

“Da bambina”.

Chi?

“Toby Varley. Era una specie di torello scozzese che stava in classe con me. Gli diedi un pugno perché aveva picchiato mio fratello”.

Bobo, suo fratello, adesso è a destra con un po’ di socialisti. Lei?

“Io no. Nemmeno mio padre, se fosse vivo, farebbe più politica”.

Mi dica la prima bugia letta in queste interviste.

“La corte di Craxi. Non è mai esistita. E’ un’invenzione giornalistica”.

Non esistevano i craxiani?

“Esistevano i craxini. Quelli che, dicendo di agire in nome e per conto di mio padre, avevano comportamenti indifendibili”.

Molti craxiani si sono eclissati.

“Davanti all’aggressione subita si sono nascosti, hanno trovato rifugio dove meglio hanno potuto”.

Ottimo rifugio Forza Italia. L’ha votata anche lei?

“Sì, nel ’94”.

E dopo?

“Dovevo scegliere fra uno di An e Giuliano Amato. Ho preso la scheda e ho scritto:“Viva Craxi”.”

Craxi ha distrutto il partito socialista. Parola di Enzo Biagi.

“Mio padre ha preso il Psi al 9,5% e ha indicato a tutta la sinistra la strada del socialismo riformista. Prima di Blair, di Schroeder, di Jospin. Adesso in Italia sono tutti riformisti, perfino Bossi. Io allora sono conservatrice. Sa che ci sono tante bugie nelle sue interviste?”

Ho ricevuto complimenti migliori.

“Non è colpa sua. E’ colpa di tutta questa gente che ora dice che con era mai d’accordo con mio padre. Tutto questo dissenso io non lo ricordo”.

Evidentemente era sottotraccia.

“Amato un giorno ha detto: “Quando ero in dissenso con Craxi stavo zitto”. Ah però! Che dissenso!

Erano tutti giolittiani.

“Giolittiani, e lombardiani, e achilliani. Dovevano essere correnti grossissime”.

Amato l’ha delusa…

“Perché non è venuto al funerale di mio padre? Senza di lui Amato sarebbe ancora oggi un professore universitario. Nessun moto dell’animo l’ha spinto a fare un gesto, ad andare sulla sua tomba?”

Una scelta di sopravvivenza. Galli della Loggia mi ha detto: “Doveva abbandonare Craxi se voleva continuare ad avere un ruolo politico”.

“Una scelta umanamente ignobile. Non si può fare politica senza sentimenti. Se Amato avesse difeso una storia che era anche la sua, avrebbe avuto un grandissimo ruolo nella sinistra oggi”.

La Boniver ha invece marcato la sua fedeltà a Bettino Craxi.

“Per forza. E’ una donna”.

Anche Ugo Intini. Piero Fassino mi ha detto che è uno leale, coerente, onesto, gli facevano ponti d’oro per andare a destra ed è rimasto a sinistra.

“Mi scusi: ha detto Ugo Intini? Quello che ha rifatto il Psi, poi se n’è andato, poi s’è spostato di qua e di là come tutti? Io non tollero questa scrematura moralistica tra i socialisti onesti e i socialisti disonesti”.

Perché no? Ci sono i socialisti che hanno rubato e quelli che non hanno rubato.

“Intini era il più anticomunista di tutta la dirigenza craxiana e si è fatto eleggere dai comunisti. E’ un raro caso di sindrome di Stoccolma politica. Nessuno, nessuno, nessuno di quelli che avevano responsabilità politiche poteva non sapere come si finanziavano. Non potevano prendere venti milioni al mese e dire adesso: “Toh!”. Però, tutto sommato, non ho voglia di prendermela con i pesci piccoli”.

E prendiamocela con quelli grossi allora. Martelli mi ha detto: “Ho restituito 500 milioni dei miei, Craxi non l’ha fatto”. Come dire: Craxi si è arricchito e non ha restituito una lira.

“Traditori come Martelli saranno giudicati dalla storia. O magari anche dalla cronaca. Mio padre non è morto ricco. Non aveva gusti lussuosi. Una volta a Saint Moritz, ospite di Berlusconi, gli servirono a tavola una cernia. Lui chiese: “Dove hai preso un pesce a Saint Moritz?” Berlusconi disse: “Non sai quanto mi è costato”. E Craxi: “Fallo portare indietro. Voglio un uovo al tegamino”.

Era il partito dei satrapi, degli arroganti…

“Ci sono socialisti, che hanno avuto un comportamento indifendibile. Mio padre rimase molto colpito quando vide la villa sull’Appia di Claudio Martelli. E vide camerieri in guanti bianchi servire la cena”.

Massimo Fini mi ha detto: Martelli potrebbe essere qualunque cosa. Non ha morale.

“Martelli non era socialista. A casa nostra, per tutta la vita, abbiamo avuto la cameriera a ore. Mia mamma quando papà era premier, andava a fare la spesa al mercato in tram”.

Però il tesoro del Psi…

“C’è. Ne sono sicura. Dov’è?”

E lo chiede a me?

“Se lo sono fregato. Ne sono sicura. Sono spariti conti, sono spariti immobili. C’è gente che si è tenuta per sé i soldi del partito dopo il disastro. Il conto del partito che aveva Pacini Battaglia dove è andato a finire? Qualcuno ha richiesto i soldi indietro a Chiesa?”

Come finanzia la Fondazione Craxi?

“Con soldi miei. Io faccio l’imprenditore. Fortunatamente non sono riuscita a fare quello che volevo fare. La giornalista”.

L’ha fatto per un po’.

“Volevo fare l’inviato di guerra. Sono riuscita a fare qualche collaborazione. Tele Alto Milanese, Donna Moderna, Montecarlo, Canale 5. Poi con mio marito decidemmo di fare i produttori”.

Solita domanda. Il nome facilita?

“Ancora oggi nessuno si fa negare se sente che lo chiama Stefania Craxi. E’ evidente che io non ho avuto le condizioni di partenza del figlio del portinaio. Ma la mia società di produzione ha avuto uno sviluppo enorme negli anni in cui mio padre è stato in esilio”.

Esilio? Latitanza.

“E-si-li-o”.

Craxi stimolava l’adulazione?

“Mio padre aveva talmente nella testa altro, che tra un adulatore, un mariuolo e una brava persona, a volte non coglieva la differenza”.

Lei era una figlia ribelle?

“Io la domenica non uscivo con gli amici fino a quando non capivo che mio padre non mi avrebbe portato con sé. Mi ricordo quando prendevamo la metropolitana e andavamo alle corse dei cavalli. Poi, quando è diventato presidente del Consiglio, tutto questo è scomparso. E’ scomparsa anche l’intimità. Venivo a Roma, andavamo a mangiare al ristorante e con noi c’erano quindici persone. E tra le quindici persone c’erano anche gli adulatori”.

Tanti nani, tante ballerine.

“Bugia. Nell’assemblea nazionale di cui tanto si parla forse c’era qualche ballerina di troppo ma c’erano anche Veronesi, Treu, Portoghesi, Pini”.

Quando Craxi non fu più trendy, sparirono tutti.

“Sparì tutto il gruppo dirigente”.

Perfino Formica.

“A Formica voglio bene. Ma glielo ho detto: avete fatto politica insieme per 40 anni, sono legami più forti di un matrimonio. Com’è che non sei andato a trovarlo?”

Giulio Anselmi mi ha raccontato di una telefonata violenta che gli fece Craxi. “Dopo le elezioni”, gli urlò, “la farò cacciare giù dalle scale del Corriere della Sera”. È possibile?

“Possibilissimo. Ma non era un atto di arroganza”.

Di gentilezza?

“Arrogante è chi maltratta i deboli e adula i forti. Mio padre era umorale con tutti. Ma non ha fatto mai cacciato nessuno da nessun posto”.

Paolo Flores d’Arcais mi ha raccontato di essere stato cacciato da Mondo Operaio.

“Mio padre non ha mai cacciato nessuno”.

Flores non se n’è andato da solo.

“Flores me lo ricordo al congresso di Torino, mi stava sempre appiccicato. Mi dicono sia uno psicolabile, ma non lo conosco. Passava per essere un giovane intellettuale di moda”.

Simona Ercolani mi ha raccontato della televisione di Anja Pieroni.

“Era la televisione del partito”.

Anja fu una passione di suo padre.

“Cazzi suoi. Mia mamma ne ha sofferto. Ma io non credo ai santi. A mio padre le donne piacevano, aveva preso una sbandata. Mi rese furibonda, ma oggi posso capirlo. Detto questo il rapporto fra mio padre e mia madre fu solidissimo, importantissimo, bellissmo, fortissimo. Fino all’ultimo. Sa una cosa?”.

Dica.

“Lei è magnanimo nei miei confronti. Guardi che può essere anche più duro”.

La accontento. Lei aveva una casa a Nervi per il week end da 5 milioni al mese.

“Non sono mai stata aiutata dalla famiglia, ma non ero povera. Era il ’92, ’93. Ero già un imprenditore”.

Era l’’88, ’89.

“Non ho mai avuto soldi dai miei”.

Con suo padre aveva un rapporto tosto…

“Litigavamo spesso sulle persone che si metteva intorno”.

Come quelli della moda. Tutti craxiani…

“Quelli della moda devono molto al governo di mio padre”.

Che fine hanno fatto?

“Spariti. Qualcuno ha perfino smentito di avere “vestito” mia madre”.

E i giornalisti?

“Mio padre non ha mai avuto un buon rapporto con loro. Pensava che fossero tutti un po’ cialtroni”.

Giampaolo Pansa mi ha detto: “Il Tg2 non è socialista, è craxiano”. Che fine hanno fatto tutti questi craxiani televisivi?

“Ci sono la Maglie, Anna La Rosa, Giuliana Del Bufalo…Donne. Solo le donne”.

Ferdinando Adornato mi ha detto dei craxiani che hanno fatto gli spot per Bettino e poi l’hanno dimenticato, folgorati sulla via di Occhetto. Alludeva alla Foschini, a Michele Cucuzza…

“Scomparsi. Ma io non stigmatizzo. La gente tiene famiglia. C’era la caccia al socialista”.

Voltagabbana per legittima difesa?

“Solo gli stupidi non cambiano mai opinione”.

Questa è una sciocchezza. Chi cambia idea per interesse è un lazzarone.

“Bettiza, quando lei lo ha intervistato, si è definito molto amico di mio padre”.

Vero.

“Strano. Gli ho chiesto di venire a fare una conferenza su Craxi per la Fondazione e mi ha detto di no”.

C’è qualche altro giornalista che le è rimasto impresso?

“Peppino Turani. Fu un campione di moralismo su mio padre e poi finì nel processo Enimont. Ma sa, io provo un rancore tanto grande che non ho posto per i piccoli rancori”.

Quando pensa a un voltagabbana, chi le viene in mente?

“Oscar Luigi Scalfaro. E’ stato quattro anni ministro di mio padre e poi è stato complice di tutto quello che è successo a mio padre”.

Renzo Foa ha ricordato che, dentro il Pci, “craxiano” era diventato un insulto. Un po’ come fascista.

“E’ vero. Anche Berlinguer diceva delle cose gravissime su mio padre. Craxi è un pericolo per la democrazia”.

C’era un’antipatia reciproca fisica.

“Nella storia di questo Paese Berlinguer è un conservatore e mio padre è un modernizzatore”.

Antonio Ghirelli mi ha detto che anche Pertini detestava Craxi.

“Pertini detestava chiunque. Ce l’aveva col mondo. Era cattivissimo. L’ho sempre sentito parlare male di tutti”.

Ghirelli racconta anche che Craxi gli raccomandò Onofrio Pirrotta.

“Lo faceva per aiutare. Diceva: quello ha bisogno di lavorare. Una volta mi chiamò per raccomandarmi Alessandra Mussolini. Diceva: poverina, con quel cognome non la fa lavorare nessuno”.

E lei l’ha fatta lavorare?

“No. E lei, dopo, disse cose poco gradevoli su mio padre”.

Luciano Pellicani mi ha detto: grande stima, però io Craxi non lo frequentavo.

“Gli amici di mio padre erano a Milano ed erano pochissimi, Massimo Pini, Caterina Caselli, Nedda Liguori. A Roma solo Spartaco Vannoni. Quella frase, comunque, non fa onore a Pellicani”.

Curzi mi ha detto: se facevi la voce grossa, Craxi ti rispettava.

“Non è così. Se mio padre si rendeva conto di avere torto, non chiedeva scusa ma trovava il modo di fartelo capire. Era molto orgoglioso”.

Giulio Savelli mi ha detto: il governo Craxi non ha cambiato nulla.

“Il taglio della scala mobile, i missili Pershing e Cruise, il Concordato…non riuscì a fare la grande riforma dello Stato, questo è vero, però aveva un partito piccolo e governava sempre contro. Contro una parte del sindacato, contro i poteri forti, contro i comunisti, contro la chiesa cattolica, contro la Democrazia Cristiana”.

I suoi figli come hanno preso le vicende del nonno?

“Al più grande, a scuola, gli altri bambini dicevano: “Tanto tuo nonno Di Pietro lo arresta”.Ancora oggi è un bambino sofferente. Mia figlia Anna no. L’altro giorno ha cominciato un tema così: “Io sono la nipote di Bettino Craxi”.”

Adesso dobbiamo fare il gioco della torre.

“Dio mio”.

Vespa-Santoro, chi salva?

“Vespa non ha mai usato la piazza, i sentimenti”.

Che male c’è a far leva sui sentimenti della gente?

“Dove sta scritto che i sentimenti della gente sono buoni? Santoro agisce sugli istinti bassi delle persone”.

Sgarbi-Urbani?

“Salvo Sgarbi. Nel bene e nel male è un patriota”.

Berlusconi-Agnelli?

“Salvo Berlusconi”.

Anche suo padre lo salvò.

“Mio padre lo ha aiutato molto. E mi farebbe piacere che Berlusconi se lo ricordasse di più”.

Perché lo aiutò?

“Rompeva il monopolio Rai”.

Il risultato è che siamo di nuovo al monopolio.

“Adesso Berlusconi fossilizza il mercato. Ma allora raccontava che avrebbe contrastato il potere americano culturale nel mondo”.

Craxi che rientra precipitosamente in Italia per fare un decreto che riaccenda le tv berlusconiane spente dai pretori…

“Credeva di fare bene. Poi Berlusconi era bravo a raccontarla. “I lavoratori…come facciamo…siamo costretti a licenziarli”.

Berlusconi è mai andato ad Hammamet?

“Durante l’esilio mai. Quando l’ho visto al funerale gli ho detto: “Sei qui con sette anni di ritardo”.”

Cofferati-D’Alema?

“Salvo D’Alema. Cofferati me lo ricordo riformista pacato e me lo ritrovo capopopolo che porta la sinistra in un vicolo cieco”.

Lerner-Ferrara?

“Salvo Ferrara. Ha continuato sempre a dichiararsi craxiano”.

Di Pietro-Spazzali?

“Sono stati entrambi le pedine di un brutto gioco”.

Dotti-Previti?

Salvo Previti. La sua battaglia sugli elenchi dei giudici politicizzati mi sembra sacrosanta”.

Fassino-Rutelli?

“Butterei Rutelli anche se fosse da solo. Ha detto che voleva vedere mio padre mangiare il rancio della galera”.

E lei gli ha detto che era un grandissimo stronzo. Come è finita la causa?

“L’ho persa in tribunale, in appello e in Cassazione. Adesso devo pagare la multa. 50 mila lire”.

Ha chiesto la rateizzazione in 36 rate.

“Così per 36 volte posso scrivere dietro al bollettino postale la causale “per aver dato del grandissimo stronzo al sindaco di Roma”. Una soddisfazione. Mio padre disse: “Grazie a mia figlia oggi si sa quanto costa dare del grandissimo stronzo al sindaco”.”

Salvi Fiat e Romiti. Scrive Filippo Facci per "Libero Quotidiano". Cesare Romiti ha scritto «Storia segreta del capitalismo italiano» (Longanesi, prefazione di Ferruccio de Bortoli) e racconta un sacco di cose, ma colpisce in particolare il passaggio dove rivela - scriveva ieri il Corriere - che «sono stati i magistrati del pool di Mani Pulite a "suggerirgli" di scrivere la lettera-articolo sul «Corriere della Sera» nella quale il 24 aprile 1993 si rivolge agli industriali invitandoli a collaborare con i giudici». Interessante davvero, perché se è vero che «la storia la si racconta, non la si cambia» (parole dello stesso Romiti) forse è la volta che un pezzo della storia della Fiat e di Tangentopoli si può raccontarla davvero. Proviamoci. Si torna dunque alla primavera 1993, periodo di passione anche per la Fiat: il 17 aprile si diffusero voci su un possibile arresto di Cesare Romiti. Gianni Agnelli, nello stesso momento, parlava al Teatro la Fenice di Venezia (che presto sarebbe andato a fuoco) e il suo discorso fu interpretato come un segnale: «Anche da noi», disse, «si sono verificati episodi non corretti». E qui, secondo una leggenda giornalistica, accadde qualcosa. Un paio d'ore dopo, i pm Colombo e Di Pietro uscirono dall'ufficio e si chiusero in un angoletto coi loro cellulari. C'è un cronista che lo giura ancor oggi: avrebbe udito un «fermate gli arresti» mentre un altro cronista sentì distintamente «fermate l'arresto». Ma i pm hanno smentito. Alla fine comunque erano tutti contenti: Davigo disse che c'era stato «un segnale positivo» e altri quattro manager Fiat, già latitanti, rientrarono con dei voli privati. Solo l'avvocato Carlo Taormina non era tanto contento: «Il mio cliente Giuseppe Ciarrapico», disse con prosa non proprio indiretta, «è in galera: perché Romiti no?». Il procuratore Capo, Francesco Saverio Borrelli, rispose: «I legali della Fiat hanno espresso disponibilità a collaborare». Taormina replicò ancora: «Il codice non prevede soluzioni del genere, un arresto o è motivato o non lo è. Alla base di ogni collaborazione, inoltre, vi è sempre un accordo: quale?». Il 21 aprile 1993 un elicottero sorvolò Milano segnalando la propria posizione praticamente ogni secondo. Atterrò e il prezioso passeggero fu chiuso in questura, completamente isolata per l'occasione. Giunsero delle volanti a sirene spiegate: era il Pool. Questo per interrogare un semplice teste: Romiti. Il numero due della Fiat lodò dapprima Enrico Berlinguer (la questione morale) e poi disse che le responsabilità delle tangenti Fiat erano tutte addebitabili agli amministratori delle società controllate (dunque non a lui) e parlò di un conto estero di nome Sacisa. Disse ai magistrati: «In altre circostanze saremmo diventati amici». Il clima si distese. Di Pietro fece persino il burlone: telefonò all'avvocato della Fiat e gli disse davanti a tutti: «Guardi che per Romiti le cose si mettono male». E risate. Anche di Romiti. Ecco, però due giorni prima, come risulterà, Romiti aveva fatto bruciare delle carte: il manager Antonio Mosconi metterà a verbale che «A Vaduz (Liechtenstein, ndr) dovevano scegliere chi doveva attribuirsi i fatti... hanno deciso di distruggere tutto il resto del conto Sacisa, in modo da dare ai magistrati qualche informazione per farla contenta e chiudere il conto con la Procura... ritengo che tutto ciò sia stato coordinato e disposto da Romiti, in quanto fu lo stesso Romiti che dette ordine in tal senso». Ma tutto questo, allora, non si sapeva ancora, e Romiti era tutto preso dalla sua opera di distensione con la procura: su esplicita richiesta del Pool, apprendiamo oggi. Già, perché qui arriviamo al «suggerimento» dei magistrati che il 24 aprile sfociò in questo titolo cubitale del Corriere della Sera: «Aiutiamoli questi giudici, stanno ripulendo l'Italia». L'esortazione di Romiti, notare, giungeva a un anno e mezzo dall'inizio dell'inchiesta, dopo una quindicina di arresti in casa Fiat, dopo la minaccia del commissariamento e dopo la fuga di quattro dirigenti latitanti. Romiti, quel mattino, si presentò in procura con Corriere della Sera in mano e presentò un memoriale che accennava a «degenerazioni politico-istituzionali non addebitabili alla volontà degli imprenditori». Al chiaro compiacimento del Pool si opporranno le perplessità del gip Italo Ghitti, cui non piaceva per niente quella collaborazione. Nei fatti, Romiti non era neppure indagato e i pm accettarono che le responsabilità fossero state attribuite ai dirigenti subalterni. La maggior parte dei giornali scrisse della deposizione di Romiti definendola «una svolta» (il generale è roba da far impallidire il filo-berlusconismo del Tg4) e fece eccezione qualche altra uscita di Carlo Taormina («Devo rilevare disparità di trattamenti rispetto ad altri personaggi», disse) ma soprattutto l'articolo «latitante, ripassi domani» scritto da Frank Cimini sul Mattino il 28 aprile. Fu querelato assieme al suo direttore: «La tesi era che alcuni grandi imprenditori prima facevano accordi con i politici per avere i soldi e poi facevano accordi con i magistrati per non andare in galera. L'articolo non piacque ai pm milanesi che mi citarono in giudizio». Il 29 aprile 1993, in compenso, il Corriere della Sera titolò così: «Il Mattino: l'editore non vuole più Pasquale Nonno». L'editore era Stefano Romanazzi, in stretti rapporti d'affari con la Fiat. Pasquale Nonno lasciò la direzione trenta giorni dopo. Ma per scoprire che la deposizione di Romiti era stata ridicola non sarebbe occorso molto tempo. Il 21 gennaio 1994, al valico di Ponte Chiasso, i finanzieri infatti fermarono il manager Fiat Ugo Montevecchi con una valigia di carte: stava cercando di far rientrare qualche scampolo documentale dello stesso conto Sacisa che Romiti aveva ordinato di bruciare dopo averlo fatto trasferire da Lugano a Vaduz. Nella valigia furono trovate anche delle altre carte che lasciavano intuire l'esistenza di un altro conto che Romiti aveva celato agli inquirenti. Per capirne di più, i magistrati tornarono a torchiare il manager Antonio Mosconi, che cedette: Romiti, disse, sapeva e disponeva del conto Sacisa e aveva predisposto una riunione a Vaduz per far bruciare un po' di carte. Inoltre, a Milano, aveva presentato un memoriale che era una collezione di omissioni. Mosconi stava prefigurando una serie di esemplari inquinamenti probatori, roba da arresto. Il Pool arrestò Romiti? No, la Fiat licenziò Mosconi. Il manager Francesco Torri sostituì Mosconi e diventò amministratore delegato. E il 13 dicembre venne liquidata un'altra lingua lunga: Giorgio Garuzzo, licenziato da Giovanni Agnelli in persona. L'altro manager Paolo Mattioli, invece, condannato a due anni e mezzo, non fu licenziato: il suo nome fu stampigliato nella gerenza del quotidiano «La Stampa». Il dignitoso primato di chi ha maggiormente premiato i silenti e punito i delatori, in Mani pulite, fu conteso tra la Fiat e il Pds.

1992: questa è la realtà, non la fiction. La lettera del suicida Gabriele Cagliari, scrive “Tempi”. Grazie alla serie in onda su Sky si torna a parlare di Tangentopoli e Mani Pulite. Ripubblichiamo il messaggio inviato alla famiglia dall’allora presidente di Eni prima di togliersi la vita in carcere. Grazie alla fiction in onda su Sky, “1992”, in Italia si è tornato a parlare di Tangentopoli e Mani Pulite. A nostro modesto avviso, non c’è modo migliore per capire cosa accadde in quegli anni che rileggere questa lettera di Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni arrestato nel 1993 dai pm milanesi Fabio De Pasquale ed Antonio Di Pietro. Cagliari fu accusato di aver versato ai partiti una maxi tangente. Dopo quattro mesi nel carcere di San Vittore a Milano si suicidò il 20 luglio del 1993. Questa è la lettera che inviò alla sua famiglia il 10 luglio 1993. «Miei carissimi Bruna, Stefano, Silvano, Francesco, Ghiti: sto per darvi un nuovo, grandissimo dolore. Ho riflettuto intensamente e ho deciso che non posso sopportare più a lungo questa vergogna. La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto. Ci trattano veramente come non-persone, come cani ricacciati ogni volta al canile. Sono qui da oltre quattro mesi, illegittimamente trattenuto. Tutto quanto mi viene contestato non corre alcun pericolo di essere rifatto, né le prove relative a questi fatti possono essere inquinate in quanto non ho più alcun potere di fare né di decidere, né ho alcun documento che possa essere alterato. Neppure potrei fuggire senza passaporto, senza carta d’identità e comunque assiduamente controllato come costoro usano fare. Per di più ho sessantasette anni e la legge richiede che sussistano oggettive circostanze di eccezionale gravità e pericolosità per trattenermi in condizioni tanto degradanti. Ma, come sapete, i motivi di questo infierire sono ben altri e ci vengono anche ripetutamente detti dagli stessi magistrati, se pure con il divieto assoluto di essere messi a verbale, come invece si dovrebbe regolarmente fare. L’obbiettivo di questi magistrati, quelli della Procura di Milano in modo particolare, è quello di costringere ciascuno di noi a rompere, definitivamente e irrevocabilmente, con quello che loro chiamano il nostro “ambiente”. Ciascuno di noi, già compromesso nella propria dignità agli occhi della opinione pubblica per il solo fatto di essere inquisito o, peggio, essere stato arrestato, deve adottare un atteggiamento di “collaborazione” che consiste in tradimenti e delazioni che lo rendano infido, inattendibile, inaffidabile: che diventi cioè quello che loro stessi chiamano un “infame”. Secondo questi magistrati, a ognuno di noi deve dunque essere precluso ogni futuro, quindi la vita, anche in quello che loro chiamano il nostro “ambiente”. La vita, dicevo, perché il suo ambiente, per ognuno, è la vita: la famiglia, gli amici, i colleghi, le conoscenze locali e internazionali, gli interessi sui quali loro e loro complici intendono mettere le mani. Già molti sostengono, infatti, che agli inquisiti come me dovrà essere interdetta ogni possibilità di lavoro non solo nell’Amministrazione pubblica o parapubblica, ma anche nelle Amministrazioni delle aziende private, come si fa a volte per i falliti. Si vuole insomma creare una massa di morti civili, disperati e perseguitati, proprio come sta facendo l’altro complice infame della magistratura che è il sistema carcerario. La convinzione che mi sono fatto è che i magistrati considerano il carcere nient’altro che uno strumento di lavoro, di tortura psicologica, dove le pratiche possono venire a maturazione, o ammuffire, indifferentemente, anche se si tratta della pelle della gente. Il carcere non è altro che un serraglio per animali senza teste né anima. Qui dentro ciascuno è abbandonato a stesso, nell’ignoranza coltivata e imposta dei propri diritti, custodito nell’inattività nell’ignavia; la gente impigrisce, si degrada e si dispera diventando inevitabilmente un ulteriore moltiplicatore di malavita. Come dicevo, siamo cani in un canile dal quale ogni procuratore può prelevarci per fare la propria esercitazione e dimostrare che è più bravo o più severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione alcuni giorni prima o alcune ore prima. Anche tra loro c’è la stessa competizione o sopraffazione che vige nel mercato, con differenza che, in questo caso, il gioco è fatto sulla pelle della gente. Non è dunque possibile accettare il loro giudizio, qualunque esso sia. Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto, stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro Stato autoritario, al loro regime della totale asocialità. Io non ci voglio essere. Hanno distrutto la dignità dell’intera categoria degli avvocati penalisti ormai incapaci di dibattere o di reagire alle continue violazioni del nostro fondamentale diritto di essere inquisiti, e giudicati poi, in accordo con le leggi della Repubblica. Non sono soltanto gli avvocati, i sacerdoti laici della società, a perdere la guerra; ma è l’intera nazione che ne soffrirà le conseguenze per molto tempo a venire. Già oggi i processi, e non solo a Milano, sono farse tragiche, allucinanti, con pene smisurate comminate da giudici che a malapena conoscono il caso, sonnecchiano o addirittura dormono durante le udienze per poi decidere in cinque minuti di Camera di consiglio. Non parliamo poi dei tribunali della libertà, asserviti anche loro ai pubblici ministeri, né dei tribunali di sorveglianza che infieriscono sui detenuti condannati con il cinismo dei peggiori burocrati e ne calpestano continuamente i diritti. L’accelerazione dei processi, invocata e favorita dal ministro Conso, non è altro che la sostanziale istituzionalizzazione dei tribunali speciali del regime di polizia prossimo venturo. Quei pochi di noi caduti nelle mani di questa “giustizia” rischiano di essere i capri espiatori della tragedia nazionale generata da questa rivoluzione. Io sono convinto di dover rifiutare questo ruolo. E’ una decisione che prendo in tutta lucidità e coscienza, con la certezza di fare una cosa giusta. La responsabilità per colpe che posso avere commesso sono esclusivamente mie e mie sono le conseguenze. Esiste certamente il pericolo che altri possano attribuirmi colpe non mie quando non potrò più difendermi. Affidatevi alla mia coscienza di questo momento di verità totale per difendere e conservare al mio nome la dignità che gli spetta. Sento di essere stato prima di tutto un marito e un padre di famiglia, poi un lavoratore impegnato e onesto che ha cercato di portare un po’ più avanti il nostro nome e che, per la sua piccolissima parte, ha contribuito a portare più in alto questo paese nella considerazione del mondo. Non lasciamo sporcare questa immagine da nessuna “mano pulita”. Questo vi chiedo, nel chiedere il vostro perdono per questo addio con il quale lascio per sempre. Non ho molto altro da dirvi poiché questi lunghissimi mesi di lontananza siamo parlati con tante lettere, ci siamo tenuti vicini. Salvo che a Bruna, alla quale devo tutto. Vorrei parlarti Bruna, all’infinito, per tutte le ore e i giorni che ho taciuto, preso da questi problemi inesistenti che alla fine mi hanno fatto arrivare qui. Ma in questo tragico momento cosa ti posso dire, Bruna, anima dell’anima mia, unico grandissimo amore, che lascio con un impagabile debito di assiduità, di incontri sempre rimandati, fino a questi ultimi giorni che avevamo pattuito essere migliaia da passare sempre insieme, io te, in ogni posto, e che invece qui sto riducendo a un solo sospiro? Concludo una vita vissuta di corsa, in affanno, rimandando continuamente le cose veramente importanti, la vita vera, per farne altre, lontane come miraggi e, alla fine, inutili. Anche su questo, soprattutto su questo, ho riflettuto a lungo, concludendo che solo così avremo finalmente pace. Ho la certezza che la tua grande forza d’animo, i nostri figli, il nostro nipotino, ti aiuteranno a vivere con serenità e a ricordarmi, perdonato da voi per questo brusco addio. Non riesco a dirti altro: il pensiero di non vederti più, il rimorso di avere distrutto i nostri anni più sereni, come dovevano essere i nostri futuri, mi chiude la gola. Penso ai nostri ragazzi, la nostra parte più bella, e penso con serenità al loro futuro. Mi sembra che abbiano una strada tracciata davanti a sé. Sarà una strada difficile, in salita, come sono tutte le cose di questo mondo: dure e piene di ostacoli. Sono certo che ciascuno l’affronterà con impegno e con grande serenità come ha già fatto Stefano e come sta facendo Silvano. Si dovranno aiutare l’un l’altro come spero che già stiano facendo, secondo quanto abbiamo discusso più volte in questi ultimi mesi, scrivendoci lettere affettuose. Stefano resta con un peso più grave sul cuore per essere improvvisamente rimasto privato della nostra carissima Mariarosa. Al dolcissimo Francesco, piccolino senza mamma, daremo tutto il calore del nostro affetto e voi gli darete anche il mio, quella parte serena che vi lascio per lui. Le mie sorelle, una più brava dell’altra, in una sequenza senza fine, con le loro bravissime figliole, con Giulio e Claudio, sono le altre persone care che lascio con tanta tristezza. Carissime Giuliana e Lella, a questo punto cruciale della mia vita non ho saputo fare altro, non ho trovato altra soluzione. Ricordo Sergio e la sua famiglia con tanto affetto, ricordo i miei cugini di Guastalla, i Cavazzani e i loro figli. Da tutti ho avuto qualcosa di valore, qualcosa di importante, come l’affetto, la simpatia, l’amicizia. A tutti lascio il ricordo di me che vorrei non fosse quello di una scheggia che improvvisamente sparisce senza una ragione, come se fosse impazzita. Non è così, questo è un addio al quale ho pensato e ripensato con lucidità, chiarezza e determinazione. Non ho alternative. Desidero essere cremato e che Bruna, la mia compagna di ogni momento triste o felice, conservi le ceneri fino alla morte. Dopo di che siano sparse in qualunque mare. Addio mia dolcissima sposa e compagna, Bruna, addio per sempre. Addio Stefano, Silvano, Francesco; addio Ghiti, Lella, Giuliana, addio. Addio a tutti. Miei carissimi, vi abbraccio tutti insieme per l’ultima volta. Il vostro sposo, papà, nonno, fratello. Gabriele»

Intervista al giornalista Frank Cimini: "QUELLO PARLA DA SOLO" di Stefano Carluccio su “Critica Sociale”. Frank Cimini, cronista di giudiziaria al Palazzo di giustizia di Milano, è da sempre una voce fuori dal coro. E’ forse uno dei pochi giornalisti che non ha ceduto al lavaggio del cervello da parte dei procuratori e dei loro sostituti. Al punto da guadagnarsi una querela miliardaria per aver scritto, l’unico a farlo, che nell’ufficio di Borrelli si era consumato un patto ignobile per evitare il carcere all’amministratore delegato della Fiat, Cesare Romiti.

Ma per quale ragione non passare le veline della procura rischia di mandarti fuori gioco?

“Per i cronisti l’imputato è sempre il diavolo, è il mostro. Il cronista sta sempre dalla parte dell’accusa, perché sono i p.m. che passano le notizie sulle inchieste, sono i p.m. che forniscono il pane quotidiano. Ma questa non è una novità di tangentopoli: è sempre accaduto”.

Essere garantisti oggi, significa passare per complici di malfattori. Non si sta giocando con i principi?

“Si è sempre giocato con i principi. Ma l’Italia è il paese dei miracoli. Ora il miracolo è il garantismo del Pci - Pds. D’Alema garantista, Violante garantista: cose da non credere. E questo solo perché un sostituto procuratore sta scrivendo in forma giudiziaria una verità storica e politica arcinota, cioè che il Pci- Pds si è sempre finanziato con il denaro delle cooperative a cui faceva vincere le gare d’appalto nelle regioni rosse e non solo lì. Da cronista mi pare di capire che D’Alema teme che il miracolo di essere passato fin qui illeso possa terminare e allora compie il miracolo di scoprirsi garantista. In realtà la cultura giuridica del Pci-Pds è storicamente l’opposto della cultura dello Stato di diritto”.

Omissioni?

“Beh, gran parte delle notizie sul finanziamento illecito al Pci - Pds era già tutto nelle carte della procura di Milano. Ma i magistrati si sono mossi con opportunismo. Esattamente come hanno fatto con la Fiat, con i nuovi vertici dell’Eni, ecc. Hanno ritenuto che non fosse opportuno proseguire le indagini su determinati filoni probabilmente in cambio di un consolidamento del loro ruolo. I mandati di cattura per Craxi potevano essere spiccati già un anno fa, vista la piega presa. Eppure hanno aspettato. Perché? Perché, lo sanno anche i muri del Tribunale, il pool vorrebbe ad ogni costo bloccare Salamone che indaga su Di Pietro. Un’azione giudiziaria in base a un’opportunità. Ma nel codice di procedura penale non esiste la nozione di opportunità”.

Si tratta di colpi di coda?

“Non c’è dubbio che nelle recenti misure adottate dal pool contro Craxi c’è il tentativo di reagire anche ad un calo sensibile del consenso fin qui registrato dall’inchiesta. Insomma per riguadagnare terreno e spazio sui giornali tornano a gettare tutto sul capro espiatorio, il simbolo di ogni male. Ma Craxi non ha inventato il sistema delle tangenti, lo ha ereditato. Forse non avrà fatto nulla per cambiare la situazione, ma almeno è stato l’unico ad ammettere che la politica si finanziava in modo anche illecito. E’ l’unico che ha detto la verità, mentre altri continuano a far finta di nulla. E forse sta pagando anche per questa verità”.

Le polemiche vanno avanti da anni, ma come spezzare il connubio tra toghe e media?

“Il problema è di metodo. La stampa crea gli eroi, ma alla fine il successo divora le sue creature. E allora: i pubblici ministeri sono terrorizzati all’idea che qualcuno limiti l’uso del carcere e l’uso dei pentiti, perché dovrebbero fare le indagini che non hanno mai fatto. Gli toccherebbe lavorare. Bene: una riformetta piccola piccola potrebbe essere, allora, quella di vietare di pubblicare sui giornali nome e cognome dei singoli magistrati che conducono le inchieste. Si taglierebbe la testa a tanto protagonismo che, come la vicenda Tortora ancora ha la forza di confermare, è il più delle volte all’origine dei comportamenti dei magistrati. Se sui giornali comparisse solo l’ufficio che sta conducendo una determinata inchiesta, tante violazioni non avrebbero nemmeno più scopo e tutti lavorerebbero con più libertà: i magistrati e i giornalisti. Ma credo che alla corporazione togata quest’idea non piaccia. Come farebbe Caselli ad andare tre volte alla settimana in televisione a fare il suo comizio? S’è mai alzata una vestale della par condicio a dire ‘Che fa questo, parla da solo?“.

Falsa rivoluzione. Intervista a Frank Cimini su “L’Inkiesta”. Non lo dice adesso che sono passati vent’anni e una revisione critica di quei fatti appare fisiologica, prima che doverosa. Lo scriveva, unico, già allora, quando i giornalisti erano i “cantori” del pool di toghe milanesi guidato da Antonio Di Pietro. «Tangentopoli è una falsa rivoluzione e i magistrati finti eroi che volevano accrescere il potere della loro casta». Sotto la barba ispida e nera e lo sguardo acuto di Frank Cimini sono passati trent’anni di cronaca giudiziaria milanese. Tra i capitoli più turbolenti, “Mani Pulite”. Cimini fu il primo a prendersi una querela dai magistrati che indagavano sulla corruzione. «Il pool mi chiese 400 milioni per un articolo pubblicato nel 1993 sul Il Mattino intitolato “Latitante, ripassi domani” in cui spiegavo che i pubblici ministeri non volevano interrogare un manager della Fiat perché temevano raccontasse le tangenti all’ombra dell’azienda torinese, verso la quale la Procura mantenne sempre un trattamento di favore. Persi in primo grado, ma vinsi in appello». Per Cimini ci sarebbe un “epitaffio” efficace in grado di commemorare Tangentopoli. «L’unico modo serio e paradossale di celebrare quest’anniversario sarebbe apporre una targa con incise le parole intercettate dal Gico della Guardia di Finanza al banchiere Francesco Pacini Battaglia: “A me Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato, si pagò per uscire da Mani Pulite”».

Perché proprio quelle parole per ricordare un fenomeno complesso come Tangentopoli?

Mani Pulite è caratterizzata da una serie di imputati, tra i quali lo stesso Pacini Battaglia, Prada, Redaelli, che erano difesi dall’avvocato Giuseppe Lucibello, intimo amico di Di Pietro. Nell’ intercettazione si faceva riferimento all’unica disastrosa operazione finanziaria compiuta da Pacini Battaglia a vantaggio del costruttore Antonio D’Adamo, che a Di Pietro aveva regalato un cellulare e una macchina.

Di Pietro venne però assolto per quella vicenda dopo essere stato indagato dalla Procura di Brescia per concussione.

Fu prosciolto perché l’Anm, per la prima e unica volta nella sua storia, si schierò con un indagato, ed era Di Pietro, che non si poteva toccare. Al di là dell’esito giudiziario, ci sono dei fatti storici che lo stesso pubblico ministero non ha mai smentito: il prestito di 100 milioni di lire ricevuto da Giancarlo Gorrini e poi restituito dal magistrato in una scatola delle scarpe, il figlio del magistrato che lavorava per lo stesso Gorrini, i vestiti che Di Pietro comprava in una boutique di Porta Venezia e il costruttore D’Adamo pagava. Questo era l’uomo simbolo di Mani Pulite.

Da dove arriva quella che lei inquadra come l’onnipotenza di Di Pietro e dei magistrati che lo affiancavano? Come nasce Mani Pulite?

Mani Pulite è potuta scoppiare per un’anomalia tutta italiana. I partiti si erano molto indeboliti perché avevano delegato completamente alla magistratura la soluzione della vera emergenza di quegli anni, il terrorismo. La magistratura acquistò un enorme credito verso i politici che, in quegli anni, si erano dimostrati incapaci di dare una risposta agli “anni di piombo” ed erano impegnati a ingrassare alle spalle degli imprenditori.

Ma prima del 1992 la politica non era corrotta? E perché la magistratura non perseguiva i politici corrotti?

Prima del 1992 le notizie di reato c’erano, eccome, ma si faceva finta di niente per due ragioni. La prima era di politica internazionale. Fino al 1989, anno della caduta del muro di Berlino, le forze politiche italiane costituivano un blocco molto unito, impossibile da scalfire. La seconda era quella a cui accennavo prima: la politica era un potere forte che s’indebolì in seguito all’incapacità di trovare una soluzione politica per la madre di tutte le emergenze, il terrorismo. Certamente è innegabile che la politica “facilitò” il lavoro della magistratura perché era largamente corrotta.

Nella sua azione contro la corruzione, la magistratura usò metodi oggi riconosciuti da molti come non rispettosi della Costituzione. È d’accordo?

È vero. Il pool fece violenza sulla Costituzione. Mi ricordo quei magistrati andare in televisione e parlare senza contraddittorio, da eroi intoccabili. Si verificò, inoltre, un uso spropositato della custodia cautelare, e si registrarono tanti episodi di arroganza e mancanza di umanità. Uno su tutti: quando Borrelli negò all’indagato Pillitteri di andare ai funerali del cognato Bettino Craxi nel 2000.

Il comportamento dei magistrati è colpevole anche nella rilettura di alcuni suicidi di detenuti eccellenti?

Raul Gardini, che si tolse la vita, fu trattato come un delinquente. Chiese di poter essere interrogato, ma non gli venne concesso. A differenza di quanto accadde per Romiti e De Benedetti che ebbero questa opportunità. Cusani, che non aveva incarichi in Montedison, fu condannato al doppio della pena rispetto a Carlo Sama, dotato di poteri a lui ben superiori, perché non collaborò. Nacque in quegli anni l’idea di premiare chi collaborava coi magistrati. Alcuni indagati che non collaborarono arrivarono a togliersi la vita.

Perché la magistratura esercitò quelli che definisce abusi di potere?

Perché, a parte Di Pietro, che agiva per sua vanità e tornaconto personale, gli altri volevano accrescere il potere della casta, arrivare a governare il paese. Tanto che Borrelli, a un certo punto, disse: “Se il Presidente della Repubblica ci chiama per governare, noi dobbiamo andare”. Nella sua opera fu aiutata anche dagli avvocati che, pur di ottenere le parcelle milionarie, si vendevano alla Procura i loro assistiti. Tanti di questi legali poi sono diventati garantisti, ma allora funzionava così, quello era il clima.

Prima ha detto che alcuni imprenditori furono salvati. Chi erano e perché gli si risparmiò l’umiliazione del carcere?

Cominciamo dalla Fiat, che era intoccabile. Andò così. Agnelli, che allora non aveva poteri formali all’interno dell’azienda, disse: “Dobbiamo uscirne”. Allora Romiti si presentò a Di Pietro e, in un memoriale, elencò le tangenti che la Fiat aveva pagato, ma, come poi emergerà da altre indagini, quello rappresentò l’inquinamento probatorio più clamoroso di Mani Pulite perché erano più le tangenti nascoste da Romiti che quelle rivelate. Nei giorni seguenti, si svolse una riunione negli uffici di Borrelli, a cui partecipò anche l’avvocato Giandomenico Pisapia, il papà di Giuliano, legale dell’azienda, e dal quel momento le indagini si fermarono. La stessa cosa accadde per De Benedetti, che presentò un memoriale in cui ometteva molte cose, ma si salvò.

Parte della vulgata su Tangentopoli, alimentata anche da una lettura degli eventi di Berlusconi, racconta che le “toghe rosse” risparmiarono il Pci-Pds. Come andò?

Questa delle “toghe rosse” è una becera leggenda berlusconiana. La verità è che i magistrati e in particolare Borrelli, uomo molto intelligente, sapeva che se si fosse indagato su tutte le forze politiche il Parlamento si sarebbe compattato contro la magistratura, avrebbe votato l’amnistia e i pm sarebbero andati a casa. L’unica che provò a indagare fu Tiziana Parenti ma tutto il pool la bloccò e chiese al gip l’archiviazione per Marcello Stefanini, il tesoriere diessino. Il gip si oppose all’archiviazione e invitò i pm a indagare sui rapporti tra Greganti e i vertici del partito, ma loro non fecero nulla.

Siamo a un bilancio. Quali sono stati gli esiti di Tangentopoli?

Fu una falsa rivoluzione. Quella vera la può fare solo la politica, i processi penali non trasformano la società. Ad alimentare questo falso mito contribuì la stampa perché gli editori erano sotto schiaffo del pool. In Italia nessuno ha dei bilanci puliti e venne sancito un patto tra editori e magistrati. Noi vi sosteniamo mediaticamente, voi ci salvate. Fino all’avviso di garanzia a Berlusconi, che cambiò le cose perché i suoi giornali si rivoltarono contro il pool, ero la sola voce critica in Procura. Litigavo spesso con D’Ambrosio, che pure stimavo.

Oggi Gherardo Colombo va nelle scuole e predica che va cambiata la società civile attraverso un’assimilazione delle regole. Ma anche allora la società civile sembrava pervasa da un moralismo anti – corruzione.

La società civile non esiste ora e non esisteva allora. Il popolo si entusiasmò per il regicidio , ma poi ogni italiano, quando può, se ne frega e non paga le tasse. In Italia non c’è cultura delle regole. A Colombo, che ha scritto un libro intitolato “Farla Franca: la legge è uguale per tutti?”, io dico: l’hanno fatta franca gli imprenditori perché la magistratura li ha salvati; l’ha fatta franca Di Pietro perché per molto meno altri sono andati in galera. I magistrati facciano i magistrati, non hanno credibilità per dare lezioni di morale a nessuno.

Tangenti rosse: gli antenati di Penati. Quel che accade in questi giorni ha un famoso precedente: quello svelato nell'inchiesta Mani pulite. Che però non portò a indagini in tutte le direzioni. Un giornalista che in quegli anni era in prima linea sul fronte di Tangentopoli spiega che cosa successe davvero. E perché, scrive Frank Cimini su “Panorama”. Ma se le accuse si dimostrassero fondate, che cosa può avere spinto gli esponenti della sinistra oggi nel mirino a mantenere in piedi il meccanismo dei finanziamenti come se Mani pulite non fosse mai esistita? Che cosa può avere fatto loro credere che l’avrebbero comunque fatta franca? Forse proprio l’esperienza della prima Tangentopoli e le indulgenze che la magistratura milanese ritenne di dovere applicare a Primo Greganti e Achille Occhetto, storici antenati di Penati e Bersani. Se si torna con la memoria a quegli anni ci si rende facilmente conto che il buco nero di Mani pulite è rappresentato non tanto dalle indagini fatte e come, ma da quelle non eseguite fino in fondo a causa della necessità – secondo l’impostazione del mitico pool coordinato da Francesco Saverio Borrelli – di avere una sponda dentro il palazzo della politica in modo da evitare che l’eventuale coinvolgimento di tutti i partiti portasse a un’amnistia destinata a vanificare tutto il lavoro investigativo. A livello politico a beneficiarne fu il Pci-Pds. Punto centrale dell’intera vicenda fu nel 1993 la decisione del gip storico dell’inchiesta Italo Ghitti di rigettare per ben due volte la richiesta di archiviare le accuse a carico dell’allora tesoriere del partito Marcello Stefanini, ordinando nuove indagini in 12 punti che non furono eseguite, al di là di una folkloristica rogatoria a Berlino quattro anni dopo la caduta del Muro. Ghitti fece un elenco lungo. Chiese, al punto A (e le sue «tirate d’orecchie» arrivarono sino alla lettera N) di «accertare se Stefanini Marcello o qualche altro funzionario della tesoreria Pci/Pds avesse nel 1990 e 1991 la disponibilità del conto corrente 132316 presso Sbs di Chiasso; in caso negativo, accertare chi ne avesse la disponibilità effettiva nel 1990 e 1991». Su quel conto, secondo indiscrezioni, erano transitati 1 miliardo e 50 milioni arrivati dalla Germania Est sul conto «Gabbietta» di Primo Greganti, più altri 100 milioni. Nei punti immediatamente successivi, Ghitti indicava di proseguire gli accertamenti su Primo Greganti: conti correnti suoi, delle aziende, della famiglia, patrimonio immobiliare suo, delle sue società, della sua famiglia. Voleva sapere se da questi conti ci fosse stato un movimento di denaro a favore di Stefanini, o di manifestazioni del partito, o di società di cui il partito deteneva o detiene quote di maggioranza. Indagini non eseguite. Al punto G, Ghitti chiedeva di accertare «quali contributi siano stati erogati dalla Forni impianti industriali ingegner De Bartolomeis spa in ciascuno degli anni decorrenti dal 1988 a oggi, in via ufficiale e occulta, alla tesoreria del Pci/Pds». Seguivano altre richieste di accertamenti per società di Greganti o per altre ancora, e infine la ricostruzione minuziosa dell’acquisto, da parte del compagno G, dell’appartamento di via Tirso a Roma, dove da due anni si era trasferito con la famiglia. A questo punto, dopo un simile cannoneggiamento Ghitti ipotizzava che il  pool fosse stato sul fronte Pci/Pds molto meno efficiente di quanto accaduto nei confronti, per esempio, dei socialisti. Tra i 12 punti da approfondire figurava la società Maritalia in rapporto con Greganti, comparsa anni dopo tra le carte del dossier Mitrokhin. Dopo la primavera, l’autunno. Il pool ribadì la richiesta di archiviazione. Ghitti rigettò per la seconda volta. Il pool dei pm fece in sostanza finta di niente. Accadde che il giudice fu candidato ed eletto al Csm. La pratica passò a una collega che archiviò, come è spesso accaduto nella storia giudiziaria. Nel senso che, se una procura tiene il punto e decide che le indagini non le fa, non c’è verso di schiodarla. A Milano è accaduta in anni recenti una vicenda clamorosa, quella del piccolo aereo finito contro il Pirellone nel 2002. Il gip indicò i punti sui quali indagare, con i nomi delle persone da iscrivere nell’apposito registro; in aula il pm replicò papale papale che non avrebbe fatto nulla di tutto ciò. Il giudice andò in maternità, subentrò un collega che archiviò. Insomma, il pool era forte di una prassi. Ma sarebbe sbagliato, anche a 20 anni dai fatti, pensare che solo il Pci-Pds beneficiò della logica dei due pesi e due misure. L’elenco è lungo. Basta ricordare la Mediobanca che si era pappata la Montedison con le parole dell’avvocato Giuliano Spazzali al teleprocesso contro Sergio Cusani: «Se il dottor Di Pietro decidesse di farsi una passeggiata in via Filodrammatici lo accompagnerei volentieri». La Fiat «graziata» dopo che Cesare Romiti aveva presentato un elenco di mazzette pagate pieno di lacune. In una riunione con i legali del gruppo nell’ufficio del procuratore capo Borrelli si decise non solo di non chiedere la custodia cautelare per il pericolo di inquinamento delle prove ma di non indagare più. Lo stesso accadde per Carlo De Benedetti, altro imprenditore dalla memoria corta. L’indagine rispondeva a criteri politici, non nel senso delle «toghe rosse», ma del consenso da ricercare anche tramite i giornali di cui erano editori molti indagati eccellenti i quali si trovavano sotto schiaffo. Gli imprenditori furono salvati a scapito dei politici, con l’eccezione della Quercia. Su una sola azienda si indagherà poi fino in fondo. In tutto l’Occidente non c’è impresa privata che abbia subito il numero di perquisizioni e di arresti di Fininvest e a giustificare il tutto c’era la discesa in campo del fondatore al quale evidentemente non bastò nel 1992 e nel 1993 l’appoggio alla «rivoluzione giudiziaria» con le sue tv e Paolo Brosio 24 ore su 24 davanti al palazzo per conto del Tg4. Che l’uomo simbolo di quel «repulisti», Gerardo D’Ambrosio, sia stato eletto senatore nelle liste dell’unico partito miracolato dalle indagini è solo la ciliegina sulla torta. Del miliardo di lire pagato sulla defiscalizzazione di Enimont fu accertata la destinazione di Botteghe Oscure ma non l’identità delle persone che incassarono i quattrini e quel gran giurista di Antonio Di Pietro, altro inquisitore finito in politica, ricordò a tutti noi comuni mortali: «La responsabilità penale è personale».

Negli anni di Mani Pulite, Frank Cimini è stato il corrispondente da Milano del Mattino di Napoli. Sempre presente in Procura e in tribunale, è stato uno dei giornalisti più attenti e affidabili fra quanti raccontarono Tangentopoli.

«Dalle Br alle Olgettine, vi racconto come politici e magistrati hanno sfasciato la giustizia», scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Va in pensione Frank Cimini, uno dei più noti cronisti di giudiziaria in Italia, testimone critico di 35 anni di processi. «Tutto è andato a rotoli quando la politica si è consegnata alla magistratura». Va in pensione oggi Frank Cimini, 60 anni, cronista di giudiziaria diventato un’istituzione a Milano. Barba socratica e battuta pronta e tagliente, Cimini, dopo un’esperienza come ferroviere, ha cominciato la professione tra il 1976 e il 1977: prima come praticante al Manifesto, poi come corrispondente del quotidiano il Mattino di Napoli (Cimini è nato in Connecticut, a New Haven, da genitori originari della costiera amafiltana). In 35 anni di carriera è stato testimone oculare, e critico, della storia giudiziaria e politica italiana.

Cimini, come si sente ad andare in pensione?

«Ho solo finito il lavoro come giornalista dipendente, ma proseguirò quello più divertente da giornalista indipendente con un blog appena nato: giustiziami.it. Su questo sito, cui lavorano anche altri giovani e attenti cronisti di giudiziaria di Milano, avrò più libertà di scrittura perché non dovrò dipendere da alcuna linea editoriale».

Dai processi alle Br a quelli alle olgettine. Come ha visto cambiare la giustizia italiana in questi anni e qual è oggi il suo giudizio sul sistema del nostro paese?

«Resto molto critico: mi pare che si vada di male in peggio, e questo al di là dal fatto che, personalmente, trovo terrificante un sistema di uomini che giudicano altri uomini. Ora quando sento parlare di riforma della giustizia mi viene l’orticaria. Negli ultimi anni non la si è fatta perché Silvio Berlusconi la intende come una legge per salvarsi dai suoi processi, mentre i suoi avversari intendono mantenere lo status quo. Non penso che la situazione cambierà nel breve-medio periodo. Negli anni di cui sono stato testimone, la giustizia ha subìto dei danni e, secondo me, questo è accaduto prima della discesa in campo del Cavaliere. La situazione si è poi aggravata con Berlusconi, ma non solo per colpa sua. Qualsiasi persona di buon senso sa che non c’è una via d’uscita a breve, e questo perché la classe politica non ha le competenze per affrontare la situazione e riformarla, dato che governa sulla base della cronaca quotidiana, di emergenza in emergenza».

Di chi è la responsabilità di questo peggioramento della situazione?

«Le responsabilità sono tanto della magistratura quanto delle classe politica. La politica, ad esempio, si è consegnata mani e piedi alla magistratura per la “lotta al terrorismo”. Da quella, che è stata la “madre delle emergenze”, si è passati ad altre emergenze: la mafia, Mani pulite… Così, negli anni Novanta la magistratura è saltata al collo della politica. In mezzo a questo ciclone di eventi è arrivato Berlusconi, e la situazione è peggiorata».

È arcinota, tra cronisti e avvocati, la sua antipatia nei confronti di un pm “storico” di Milano, Antonio Di Pietro. Perché?

«Personalizzare è sbagliato. Ma volendo rispondere dico che un personaggio come Di Pietro, per fermarsi agli ultimi vent’anni, ha finito per nuocere alla stessa magistratura che lo aveva scelto a proprio simbolo. Di Pietro è un personaggio negativo sotto ogni punto di vista: ha usato il codice di procedura penale come carta igienica. A mio avviso, la magistratura ha usato la sua figura per aumentare il proprio peso, il proprio potere, ma sarebbe stato meglio se si fossero scelti un simbolo migliore, visti i metodi che ha usato. A Palazzo di giustizia tutti ne hanno parlato come di personaggio che viveva a “scrocco” degli indagati, e che faceva cose che nessun magistrato avrebbe dovuto fare. Se queste azioni furono commesse, ciò è avvenuto però con la “copertura mediatica” del “giudice che ripuliva l’Italia dalla corruzione e dal malaffare”. Il 1993 è stato davvero l’anno del terrore e i politici hanno avuto paura di un magistrato che in realtà non era molto più lindo di coloro su cui indagava».

Oggi in un’intervista Luciano Violante, ex magistrato, da sempre di sinistra, concorda con la sua analisi e sostiene che la politica ha abdicato alla magistatura, delegandole grandi questioni politiche, come il terrorismo, mafia e corruzione. Poi aggiunge che «Vanno separate le carriere. Ma quelle di pm e giornalisti». Lei che ne pensa?

«Su questo posso essere d’accordo: i giornalisti le informazioni le prendono direttamente dalle procure e appena c’è un’inchiesta, salvo altri scopi editoriali, i giornali sono schierati con l’accusa. Il punto, però, è da che pulpito viene la predica. Violante è un altro magistrato che con le sue inchieste ha fatto scandalo: un esempio è l’inchiesta intimidatoria e senza riscontri che condusse su Edgardo Sogno (personaggio che comunque giudico scandaloso). Violante lo accusò di essere autore di un golpe e lo mise in carcere: Sogno venne prosciolto in seguito da ogni accusa. Non dimentichiamo poi che Violante è stato uno dei fondatori del partito dei giudici, e all’epoca dell’antiterrorismo è stato tra coloro che si sono più battuti per una “delega in bianco” alla magistratura. Ora, va bene che solo i paracarri non cambiano idea, e prendiamo atto che Violante lo ha fatto: ma lui è uno di quelli che ha voluto le leggi premiali sui pentiti e con i disastri che ne sono stata conseguenza, sarà impossibile uscire dal pantano che si è creato. Violante è stato una delle incarnazioni della via giudiziaria al socialismo».

L’opinione pubblica oggi parla sempre di più di temi finora trascurati, come l’abuso della custodia cautelare o l’emergenza delle carceri. Crede che qualcosa stia cambiando sotto questo profilo?

«Ho visto il carcere usato sempre più come una discarica sociale, e usato anche all’interno degli scontri di potere tra politica e magistratura per regolare i conti. In Italia c’è un uso eccessivo del carcere e della custodia cautelare ma li vedo ancora come problemi che nel nostro paese sono ridotti a tema da convegni e manifestazioni, senza che poi di fatto cambi nulla».

Trasferito da Milano a Portici e licenziato, scrive “Iustitia”. Negli anni caldi di Tangentopoli Frank Cimini è stata la firma giudiziaria del Mattino da Milano, sempre presente con il suo barbone nelle riprese televisive dalle aule del tribunale appena dietro alla Boccassini, a Colombo, a Di Pietro e agli altri protagonisti del pool guidato da Francesco Saverio Borrelli. Per Massimo Bordin, storico direttore di Radio Radicale, è tra i cronisti giudiziari più affidabili sulla piazza milanese. “Con il pool – ricorda Cimini - ho ancora un contenzioso giudiziario aperto, insieme all’allora direttore Pasquale Nonno. Scrissi poco meno di venti anni fa un articolo intitolato “Latitante, ripassi domani’. La nostra tesi era che alcuni grandi imprenditori prima facevano accordi con i politici per avere i soldi e poi facevano accordi con i magistrati per non andare in galera. L’articolo non piacque ai pm milanesi che citarono in giudizio me e Nonno. Condannati in primo grado, assolti in appello, aspettiamo la sentenza della Cassazione”. Nato nel Connecticut, a New Haven, da genitori emigrati dalla costiera amalfitana, Cimini ha speso al Mattino venticinque dei suoi cinquantasette anni: due da collaboratore, sei da redattore (l’assume il primo novembre del 1987 Pasquale Nonno), otto da inviato, otto da corrispondente e uno, l’ultimo, da cassintegrato. Venticinque anni interrotti il 30 agosto da una lettera di licenziamento. Ma facciamo un passo indietro. Nel giugno 2009 viene firmato lo stato di crisi per il Mattino e l’azienda lo inserisce nell’elenco dei giornalisti in cassa integrazione, che termina il 30 giugno 2010; un mese prima gli arriva una lettera ‘sorprendente’: lei non è più il corrispondente da Milano, ma da Portici-Ercolano, un trasferimento che significa l’intera autostrada del Sole e un pezzetto della Napoli - Pompei - Salerno, per un totale di 775 chilometri. Cimini affida la replica a Mario Fezzi, uno dei maggiori esperti italiani di lavoro giornalistico. Il 9 agosto arriva la “contestazione di addebito”: “Ci risulta che Ella continua a tutt’oggi a non fornire e scrivere articoli in relazione agli avvenimenti della zona di Sua competenza”. Seguono il dettaglio dei giorni nei quali non ha scritto le corrispondenze richieste e la chiusa: “La invitiamo a farci pervenire le Sue giustificazioni entro il termine di 5 giorni dal ricevimento della presente”, con la firma di Massimo Garzilli. Il 30 agosto l’atto conclusivo: “Le intimiamo il licenziamento per giusta causa con effetto immediato dalla ricezione della presente”. Firmano la lettera Garzilli e il direttore Virman Cusenza, che aveva già sottoscritto a maggio, insieme al capo del personale Raffaele Del Noce, la notifica del trasferimento. Chi segue questa vicenda con animo ingenuo rimane sorpreso dalle due firme. Sorprende la firma di Cusenza per ragioni, usiamo un aggettivo fuori dal tempo, ‘umane’: si può sottoscrivere il licenziamento costruito a tavolino di un proprio giornalista senza cercare una mediazione? Ancora più sorprendente la firma di Garzilli, che dopo oltre venti anni da direttore amministrativo dal 2008 è in pensione, ma firma ancora le lettere di contestazione e le lettere di licenziamento. E allora, dal gennaio 2008 in che cosa è cambiato il ruolo di Garzilli? In attesa di un intervento del comitato di redazione del Mattino (Marisa La Penna, Daniela Limoncelli e Salvo Sapio), c’è da registrare la dura presa di posizione del sindacato milanese. “È stato attuato – dichiara a Iustitia Giovanni Negri, presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti - un licenziamento annunciato. Un trasferimento di ottocento chilometri per un giornalista che lavora da più di trent’anni a Milano e scrive per il Mattino da venticinque era inaccettabile. La Lombarda ha gestito oltre sessanta stati di crisi, occupandosi anche delle redazioni o dei corrispondenti milanesi di giornali di altre regioni e ha trovato soluzioni accettabili e condivise. In questo caso invece il dottor Garzilli, che conosco da trent’anni e si è sempre proposto come interlocutore serio delle rappresentanze sindacali, non ha trovato il tempo per coinvolgere la Fnsi e l’Associazione lombarda, che è il sindacato regionale con il maggior numero d’iscritti d’Italia, per cercare insieme una soluzione potabile per un problema drammatico. In ogni caso non è mai troppo tardi per discutere”. 

La “medaglia” di Frank, scrive Boffi Emanuele su "Tempi". Era il cronista del Mattino di Napoli. Scriveva verità scomode. Fu il primo giornalista querelato dal pool di Milano. Detto tutto su Mani Pulite? Per il soldato Cimini: “C’è di più, c’è di più”. Il Foglio ha cominciato, e condurrà fino alla fine di quest’anno, una rievocazione dei fatti del ’93, «l’anno più lungo della storia italiana», l’anno in cui «fu abrogata per via giudiziaria la vecchia e infragilita democrazia dei partiti» come ha scritto Giuliano Ferrara (Il Foglio, 13.01.03). Nella sua rubrica delle lettere sul Corriere della Sera Paolo Mieli è ritornato spesso sulle vicende di quel periodo. Mieli era direttore del quotidiano di via Solferino nell’aprile del ’94 quando, con un formidabile scoop, raccontò dell’avviso di garanzia al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi un giorno prima che gli fosse recapitato. I contorni di quella vicenda sono ancora per molti aspetti da definire ma, di fatto, fu proprio l’ex direttore del Corriere ad avere, sulle pagine di Tempi, un primo ripensamento di quel periodo (Tempi, 1 aprile ’98, ripresa allora anche da Panorama e l’Espresso). Abbiamo chiesto a Frank Cimini, che lavora oggi per Ap Biscom e che in quegli anni era cronista de Il Mattino, di tornare su quelle vicende. Cimini faceva parte di quel ristretto “pool di giornalisti” che seguì da vicino le indagini della Procura di Milano.

Cimini, sono passati dieci anni da quel ’93 e si comincia a dire qualcosa di diverso.

«Beh, meglio tardi che mai…»

Nell’intervista a Tempi del ’98 Mieli dichiarò che la stampa aveva aiutato i magistrati, aveva teso un tranello a Berlusconi, si era intiepidita col successivo governo Prodi.

«Ma c’è di più, c’è di più».

Prego.

«È chiaro che la stampa usò i magistrati e che i magistrati usarono la stampa. Il problema è che, come ho detto in un’intervista a Sette qualche anno fa, e mi son preso pure una querela con il giornalista che mi ha intervistato…»

Un attimo. Chi ha querelato chi?

«Piercamillo Davigo ha querelato me e Michele Brambilla. Io per quel che avevo detto e lui perché l’aveva riportato. Ma ormai la vicenda è finita nel dimenticatoio».

Qual è la tua tesi su Tangentopoli?

«Ci fu uno scambio. Chi erano e chi sono gli editori dei grandi giornali? Erano tutte persone che erano imputate e che si schierarono, come “aziende” diciamo, come nel caso della Fiat, dalla parte della Procura. In cambio ebbero l’impunità; sono ridicole le indagini che vennero fatte sull’azienda torinese, su De Benedetti, su Mediobanca, se confrontate con quello che successe dopo a Berlusconi. E Berlusconi è stato messo sotto torchio non in quanto imprenditore, perché i grandi industriali non l’hanno pagata, ma per quella sua “discesa in campo”. Se non fosse entrato in politica avrebbe ricevuto lo stesso trattamento di favore che hanno ricevuto gli imprenditori. La logica di Tangentopoli fu di salvare i grandi industriali e di farla pagare ai politici. E, per quel che riguarda le notizie…»

C’era un accordo fra voi giornalisti e i magistrati di Milano?

«No, non c’era bisogno. Era un accordo tacito e nella logica delle cose. Tutti i mezzi di informazione erano schierati, non si riusciva nemmeno a sollevare una qualunque obiezione. Nessuno si poneva domande, comprese le televisioni di Mediaset. Ancora oggi io non capisco certi atteggiamenti di esponenti di Forza Italia e di Alleanza Nazionale che distinguono in un periodo “buono” di Mani Pulite, fino al ’94, e in uno “cattivo”, dal ’94 in poi. Eh no! O è stato tutto “buono” o è stato tutto “cattivo”».

Cioè?

«È stato tutto un errore fin dall’inizio. La logica che c’era dietro, l’utilizzo della carcerazione preventiva, il clima che si respirava…»

Perché certi partiti ebbero un “trattamento di favore”?

«I magistrati avevano bisogno di una sponda politica. Se avessero condotto le indagini che dovevano fare, se fossero arrivati ai vertici dei Ds, Occhetto e D’Alema, se tutto questo fosse avvenuto… io penso che in tre giorni avrebbero fatto l’amnistia e l’operazione sarebbe finita. Non è un caso che abbiano lasciato fuori quel partito la cui unica operazione di potere che gli era riuscita, da quando esisteva, era stata quella di inserirsi nella magistratura».

Quando hai iniziato a renderti conto di come andavano veramente le cose?

«Ho iniziato a essere critico dopo che il povero Lorenzo Papi fu incarcerato».

Eri libero di raccontare quel che vedevi?

«Io, purtroppo, ne sto ancora pagando le conseguenze. Lucibello mi insegue chiedendomi miliardi. Io ho solo una cosa che, a questo punto, è una medaglia. Era l’aprile del ’93; io fui il primo ad essere querelato da Di Pietro e dal pool per un articolo sulla Fiat dal titolo: “Latitante ripassi domani”. Era stata fatta una riunione nell’ufficio di Borrelli con gli avvocati di Romiti. Nonostante avessero ammesso alcune tangenti, Romiti non venne arrestato. Ma la vicenda grave non è questa, perché io sono sempre contento se uno non viene imprigionato. Non bisogna arrestare mai».

Allora qual era il problema?

«Il problema è che, dopo quell’episodio, non vennero più fatte indagini sulla Fiat che era il motore principale del rapporto fra affari e politica in quegli anni. Quell’articolo mi costò una citazione in una causa civile che dura tuttora».

Quante medaglie hai collezionato?

«Questa è quella di cui vado più fiero, perché sono stato il primo. Fino ad allora era impensabile che il pool potesse querelare un giornalista. Io sono stato il primo e purtroppo, dopo di me, è toccato a tanti altri».

Vuoi farmi credere che eri l’unica voce fuori dal coro?

«Assolutamente no. Erano in tanti a capire ma, forse per mancanza di coraggio, non so, la verità è stata detta solo molto dopo. Certo, meglio tardi che mai».

E dopo la querela ti sei dato una calmata o hai continuato?

«Sono sempre andato avanti. Certo, nei limiti del possibile».

In che senso?

«Mi è andata abbastanza bene finché al Mattino rimase come direttore Pasquale Nonno, anche lui inquisito e con molti amici inquisiti. Chi può essere più garantista di un inquisito con amici inquisiti? Solo che dopo…»

Solo che dopo…

«Ad un certo punto Nonno lasciò Il Mattino e per me, con il nuovo direttore Sergio Zavoli, iniziarono i problemi».

Cioè? Non ti proteggevano più?

«Non solo, non mi pubblicavano più i pezzi. La storia del miliardo di Sama al Pci, Il Mattino non me la pubblicò; uscì solo su La Gazzetta del Mezzogiorno. Era il dicembre del ’93, era un sabato e la domenica dopo c’era il ballottaggio a Napoli Bassolino-Mussolini. E così non mi pubblicarono la notizia che anche il Pci, per la defiscalizzazione di Enimont, aveva preso un miliardo, almeno così diceva Sama. E non me lo pubblicarono dicendomi, testualmente, che «avrebbe influito sul ballottaggio»».

Scusa, non vorrei aggiungere una stelletta sulla tua divisa. Ho il permesso di scrivere tutto?

«E perché? Mi sembra di essere stato nei limiti della decenza, no?» 

Stefania Craxi: "Con mio padre oggi l'Italia starebbe meglio". La figlia di Bettino Craxi difende il padre e attacca la sinistra: "È guidata da un democristiano", scrive Francesco Curridori su “Il Giornale”. "Je suis Craxi” è la scritta, volutamente polemica, che compare su una foto che la figlia Stefania ha postato sul suo profilo Facebook per ricordare i quindici anni dalla scomparsa del padre Bettino. Intervistata dal Messaggero, lei attacca la sinistra italiana per aver “perso l’ennesima occasione per fare i conti con Craxi” a differenza della “stragrande maggioranza dei cittadini italiani” che “è disposta a riconoscere i meriti di mio padre, perché fa un confronto fra un'Italia che cresceva prospera e la nazione miserrima di oggi, la sinistra non ne è capace”. “Trovo vergognosa – continua Stefania Craxi - l’incapacità della sinistra, che si dichiara a mezza bocca socialista, di confrontarsi con la storia”, e che ha subito una "grande sconfitta storica" essendo guidata da “un giovane democristiano, che li ha portati proprio nel Partito socialista europeo, di cui uno dei fondatori è proprio mio padre”. Per quanto riguarda l’ex sottosegretario agli Esteri suo padre “non ha mai corrotto nessuno” e Tangentopoli, fatta eccezione per qualche ladro, riguardava perlopiù il “finanziamento illegale ai partiti a cui tutti partecipavano, non ruberie personali”. “Era – aggiunge - una debolezza del sistema nata con l'avvento della Repubblica, durante la Guerra Fredda” e suo padre, con quel famoso discorso alla Camera, chiedeva solo “di dare una morte politica alla Prima Repubblica” perché “quel reato andava giudicato non dalla magistratura, ma alla luce della storia”. L’ex deputata definisce, poi, la scena delle monetine lanciate fuori dall’Hotel Raphael “una scena vergognosa e infame”, compiuta da italiani che “cercano sempre un capro espiatorio, ma subito dopo vogliono l'uomo della provvidenza che li tiri fuori dai guai, lavandosene le mani e non assumendosi le proprie responsabilità”. Infine, sulla candidatura di Amato al Quirinale la figlia Stefania si chiede: “Com’è possibile che il vice di mio padre diventi Capo dello Stato mentre lui, considerato dalla sinistra un delinquente, è morto in esilio?”. Alla fine si dice convinta che se suo padre oggi fosse alla guida del Paese “l’Italia non sarebbe in queste condizioni”.

Hammamet, i socialisti con la maglietta "Je suis Craxi" per ricordare il leader del Psi, scrive Paolo Corallo, dell’Ansa su huffingtonpost. Il capanno non è più lì, sulla spiaggia di Salloum, a pochi chilometri da Hammamet. Una mareggiata l'ha spazzato via. Ma Stefania Craxi ha comunque voluto iniziare in quel posto le commemorazioni del padre a quindici anni dalla morte (la ricorrenza esatta sarà lunedì prossimo) insieme al centinaio di vecchi socialisti che hanno accolto l'invito della Fondazione Craxi e sono venuti in Tunisia per ricordare il loro leader. Nel luogo dove Craxi si ritirava per giornate intere a leggere e a scrivere all'ombra del capanno che aveva costruito lui stesso con l'aiuto di Nicola Mansi, l'uomo che è stato sempre al suo fianco e che sarebbe ingiusto definire solo autista. Pochi i volti noti tra gli italiani giunti ad Hammamet per la ricorrenza. Qualche ex deputato, come Saverio Zavettieri, e chi, come Lucio Barani, parlamentare lo è diventato nella Seconda Repubblica, eletto nelle liste di Forza Italia. Barani, noto per portare sempre un garofano rosso al bavero della giacca, questa volta si è presentato con una maglietta nera con su ricamata la frase "Je suis Craxi" e l'immancabile garofano. Ne ha fatte fare una decina che ha distribuito per fare delle foto di gruppo. Ad Hammamet è venuta anche l'eurodeputata azzurra Elisabetta Gardini, che non ha un passato socialista, ma che è qui per la vecchia amicizia che la lega a Stefania Craxi. E c'è l'ex sottosegretario nel governo Monti Gianfranco Polillo, anche lui da tempo esponente del partito di Berlusconi. Assenti invece i principali dirigenti del Psi craxiano. Era previsto Fabrizio Cicchitto, che però ha dovuto rinunciare a causa di un'influenza che lo ha colto alla vigilia della partenza. Stesso motivo che sembra abbia bloccato a Roma l'altro figlio di Bettino Craxi, Bobo, che pure aveva annunciato di voler essere presente. Completamente assenti i massimi dirigenti del partito socialista dell'era craxiana. Ma i commenti acidi sono riservati solo ad uno, Giuliano Amato, forse perchè sui giornali lo si dà per favorito nella corsa al Quirinale. Certo è che tutti tengono a ricordare che Amato non è mai venuto ad Hammamet, nè prima nè dopo la morte di Craxi. "Brava!" è il commento generale che accoglie la lettura ad alta voce da parte di Stefania di una sua intervista fresca di giornata al "Fatto Quotidiano", in cui le frecciatine ad Amato abbondano. "Mi fa piacere se viene eletto - dice Stefania - ma poi qualcuno mi dovrà spiegare perchè mio padre è morto in esilio ed il suo vice va ora al Quirinale". E così Amato viene accomunato ai comunisti, da sempre accusati di non aver mosso un dito per Craxi, ma di aver anzi pensato di poter avere un vantaggio dalla sua rovina politica e giudiziaria. Di questo si è parlato per tutto il tempo trascorso dove prima c'era il capanno, mangiando nella casa dei pescatori tunisini, ricavata da un vecchio bunker della Seconda Guerra Mondiale. Stefania ha organizzato una grigliata nel patio della povera abitazione dove spesso Craxi si fermava a pranzo. La padrona di casa conserva ancora le foto, belle incorniciate, di quando Bettino Craxi si presentava con la spesa fatta e stava delle ore in loro compagnia. "Vengo qui ogni anno il giorno della sua morte - spiega Stefania con un sorriso triste - è la mia messa laica". Per la prima volta ha voluto portare un gruppo di vecchi socialisti nel luogo dove il padre scriveva le sua verità che poi mandava via fax ai giornalisti che lo avevano seguito quando era uno dei più influenti uomini politici del paese. E da quella spiaggia scrutava il mare, puntando verso la Sicilia, l'Italia, che è poco distante, appena oltre la linea dell'orizzonte. Forse ricordando quando nella casa di Giuseppe Garibaldi a Caprera, dove si recava ogni 2 giugno per l'anniversario della morte, si fermava sempre davanti ad una finestra e spiegava che l'eroe risorgimentale si sedeva spesso lì a guardare verso l'Italia. Questo quando Garibaldi era un esule, così come anche Craxi, si considerava, costretto alla lontananza da una patria ingrata.

“Je suis Craxi”, Barani: un messaggio, una parabola che racchiude il senso politico di un programma, scrive Monica Gasbarri su “Il Clandestino web”. In occasione della ricorrenza dei 15 anni dalla morte di Bettino Craxi, il senatore del gruppo Grandi Autonomie e Libertà, eletto nelle file di Forza Italia, Lucio Barani, si è recato ad Hammamet per commemorare questo anniversario con un’iniziativa che lui stesso ha raccontato: “Sono sbarcato ad Hammamet per commemorare il quindicesimo anniversario della scomparsa di Bettino Craxi con indosso la polo nera e la scritta “Je suis Craxi” con accanto un garofano”. Barani, intervistato da Data24News, ha spiegato come è nata questa idea e qual è il significato profondo di una frase che ha fatto immediatamente presa.

Senatore, in occasione dell’anniversario della scomparsa di Bettino Craxi, lei si è recato ad Hammamet per partecipare alla commemorazione. Che significato ha la vicenda Craxi nella storia politica italiana?

«E’ una vicenda ancora attuale a 15 anni dalla morte di Craxi, e, soprattutto, a oltre 20 anni dal golpe mediatico-giudiziario ordito nei confronti dell’Italia e degli italiani per cancellare alcuni partiti politici (come i Socialisti, i Socialdemocratici, i Liberali, i Repubblicani e la Democrazia Cristiana più riformista) per portare al potere il Partito comunista e i catto-comunisti. Un golpe ordito dai poteri forti per impadronirsi, insieme ai giudici e a certa stampa, del potere in Italia ed essere congeniali al gioco internazionale di vendita e invasione dei mercati italiani. Come ci insegna Gian Battista Vico, anche questa situazione è un esempio dei tanti “corsi e ricorsi storici”: una volta le invasioni si facevano con i mercenari e gli eserciti, oggi con l’economia».

Qual è invece la genesi della frase “Je suis Craxi” di cui lei si è fatto promotore?

«Si tratta di uno slogan inventato da me, come segretario del nuovo PSI e come socialista, ma non ha un tono nostalgico; perché sono convinto che non ci sarebbe stato bisogno del Je suis Charlie nell’Europa di Craxi, di Mitterand, Kohl, della Thatcher, di Aznar: erano politici, conoscevano l’arte del dialogo. Un politico non si inventa, non si prende dalla società civile. “Je suis Craxi” è un messaggio, una parabola, il senso politico di un programma di sviluppo. Ha tutto in sé, passato presente e futuro».

Questa frase, quindi, è anche una proposta…

«Perciò questa frase è la storia di quello che è stato e di quello che non sarebbe stato se ci fossero stati degli statisti, dei riformisti. Craxi era l’uomo del dialogo, della tolleranza e della solidarietà internazionale, come ha ricordato il vescovo ad Hammamet. Se si fosse tenuta questa linea saremmo stati una grande Italia».

Oggi, si può tornare indietro a quell’Italia?

«Per la situazione che stiamo vivendo ora le responsabilità ci sono e vanno ricercate nell’incapacità del Partito Comunista di governare, negli abusi delle cooperative rosse. In questo senso sono convinto dell’attualità di Craxi: c’è bisogno che tornino dei riformisti veri e non dei dilettanti. Serve qualcuno che torni a fare la politica, e questo vale anche per il Presidente della Repubblica».

Ci può tracciare un identikit del suo Presidente ideale?

«Deve assolutamente essere un politico come Pertini. La diagnosi per la cura di una malattia è facile: se hai un’infezione ci vuole un antibiotico, ma il tuo organismo non deve essergli resistente. Quindi non può essere un comunista. Ci vuole qualcuno che combatta e che lo sappia fare e che abbia dimostrato scientificamente che è bravo, che è capace».

Se dovesse fare un nome?

«Non vorrei fare nomi, per non bruciare nessuno, ma Craxi aveva un figlio politico che lo ha seguito in tutto il suo percorso: Giuliano Amato. Nonostante io possa avere dei risentimenti nei suoi confronti… ma non possiamo vivere di sentimenti e risentimenti, perché da politici deve prevalere l’interesse nazionale».

Tornando a Craxi, un suo ricordo personale…

«Senza dubbio quando gli ho portato la cittadinanza onoraria con fascia tricolore e gonfalone. E lui ha pianto dicendomi: “hai avuto un coraggio che nessuno ha avuto, ora che sono in disgrazia. Questo gesto mi conforta”. Nel suo discorso di ringraziamento si è dovuto interrompere sette volte per la commozione. Questo è il “mio” Craxi. L’altro ricordo che ho fortissimo in mento è il momento in cui ho dato la prima palata di terra a nome di tutti i socialisti nel cimitero di Hammamet dove io ero l’unico con la fascia tricolore».

Chiudiamo, invece, con un ricordo politico…

«Quando ha fatto circondare l’aereo americano a Sigonella. In quel momento è venuto fuori l’orgoglio italiano. Ne eravamo tutti fieri. E questo è un ricordo molto attuale: perché se lui ci fosse stato, gli indiani i marò non li avrebbero mai presi, e se lo avessero fatto, lui sarebbe andato lì a riprendersi i suoi ragazzi».

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: Ad Hammamet tutti dicono "Je suis Bettino". Chi ha rubato la memoria di Craxi? La scritta “Je suis Craxi” risalta sulla maglietta a sfondo nero. Ecco, questa non l’avevo ancora vista. Per il resto, io ne ho viste cose che voi renziani non potete immaginarvi. Erano tutti qui, a Tunisi, esattamente quindici anni fa, durante i funerali di Bettino Craxi nella cattedrale di Place de l’Independence: seicento posti a sedere, oltre mille persone in piedi, voli dall’Italia raddoppiati più tre charter da Roma e Milano e Reggio Calabria. Berlusconi che venne col suo volo privato e ospitò Francesco Cossiga. Il premier - che nel 2000 era D’Alema - aveva offerto i funerali di Stato e funerali di Stato furono: ma dello stato tunisino. Le divise del picchetto d’onore erano berbere. Le litanie erano in arabo. D’Alema spedì un po’ di sottosegretari e dintorni - Minniti, Dini, Angius - che entrarono nella cattedrale qualche minuto dopo, ma finirono nel ciclone lo stesso. Li presero a monetine, all’uscita, com’era capitato a Craxi sotto il Raphael sette anni prima. Chi le tirò, a Tunisi? Difficile dirlo, perché non c’erano solo reduci, fedelissimi, famigli, ex indagati, ex assessori e amministratori e boiardi, e poi tanti giornalisti, tanti amici: c’era anche tanta gente cosiddetta comune, oltre a tanti, troppi voltagabbana e forcaioli che avevano tradito Craxi nel momento di massima debolezza: ma che erano lì, sfrontati e impuniti, a spiare il vento, sedicenti “socialisti” che erano tornati a invocare riabilitazioni tardive, postume, fuori tempo massimo. Piccoli e grandi uomini al cospetto della bara di Bettino Craxi, uomo di stato italiano, 1934-2000. Ma qui in Tunisia lui è sempre stato “Monsieur le president”, c’è la sua casa con la sua moglie che risiede e paga le tasse qui, c’è la sua tomba, c’è una via dedicata a lui, ci sono ristoranti come il mitico Achour che espongono ancora il suo ritratto: quello che non c’è è il problema della sua “riabilitazione”, della sua eredità politica, tutto il discorso del dividere il grano dal loglio, lo statista da Tangentopoli. Craxi, qui, è sempre rimasto Craxi. Non dovranno passare cent’anni, qui, perché un popolo intero se ne ricordi una volta per tutte. Quello che c’è, pure, qui, è un pellegrinaggio continuo alla sua tomba. E poi le commemorazioni, come questa che è stata organizzata dalla Fondazione Craxi e cioè da Stefania. Sarebbe interessante chiedersi quante altre tombe di politici italiani, a parte Mussolini a Predappio, vivano una situazione del genere: in terra straniera, poi. Io ne ho viste cose che non voglio ripensare, la verità è questa. Io sono già stato qui. Il cimitero dov’è sepolto, Craxi, me lo mostrò quand’era ancora vivo, nel luglio 1999. Sono già stato anche alla capanna sul mare a Salloum, dove Bettino andava a scrivere e a pensare. E anche a dormire: i suoi amici pescatori mostrano il suo letto e le fotografie con lui. È quasi una visita guidata, qualche decina di craxiani ha sborsato 400 euro per tre giorni in camera doppia (cinque stelle: vabbeh, lasciamo stare) e volo da Milano e Roma. Piccole visite, la proiezione del film “Esilio”, una messa in francese, una commemorazione al cimitero vicino alla medina. E c’è un sacco di gente, vecchie glorie, vecchio sottobosco ma anche ragazzini, politici giovani con moglie, parlamentari, ex parlamentari, europarlamentari. Il vulcanico Lucio Barani ha portato le magliette con ricamato “Je suis Craxi”. Barani è l’ex sindaco di Aulla e Villafranca che concesse la cittadinanza onoraria a Craxi e gli fece erigere un monumento da latitante; ai funerali del 2000 fu l’unico sindaco d’Italia presente con la fascia tricolore. Ecco: qui è pieno di tanto come lui, in perfetto equilibrio tra l’integrità politica e la scampagnata. La parte della nostalgica un po’ mesta, che le viene bene, se la prende Stefania Craxi: è lei che ha organizzato tutto, ovviamente. Su Facebook ha ricevuto 37mila messaggi. Mentre nessun residuale partitino socialista, in Italia, ha organizzato niente. Ma niente proprio: la grande rimozione continua. Anche se, intanto, l’immagine di Craxi è sempre più ingombrante e quella dei socialisti italiani è inesistente. Il sole sta calando e la messa per Craxi sta per cominciare. Poi domattina tutti al cimitero cristiano, accanto alla medina, prima di ripartire.

BETTINO PER SEMPRE - QUANDO CRAXI SPIEGÒ IL SOCIALISMO: “CHE CAZZO SIA, NON L’HA ANCORA CAPITO NESSUNO” - BERLUSCONI: ‘’LA MORTE IN ESILIO PAGINA VERGOGNOSA” - E IL SENATORE BARANI IN AULA MOSTRA LA MAGLIETTA “JE SUIS CRAXI”.

Filippo Facci: 15 anni senza Bettino: una messa in francese, una cena in piedi e tanti aneddoti per ricordare l’ex premier - La lettera di Berlusconi a Stefania Craxi e l’intervento in Aula di Barani: “Una volta nessuno si sarebbe permesso di rapire delle volontarie italiane, di imprigionare dei militari italiani. Con Craxi l’Italia era rispettata nel mondo”...scrive “Dagospia”.

Filippo Facci per “Libero Quotidiano”. Ci sono un po’ di cose che disorientano. La messa per Craxi, alle 18, è in francese, e la chiesa (presunta) ha l’illuminazione di uno studio televisivo: è difficile trovare un po’ di nostalgico raccoglimento. Disorienta la capanna sul mare a Salloum, dove Bettino andava a scrivere e a pensare: perché non c’è alcuna capanna, d’inverno tolgono il cannicciato e restano quattro pali, c’è solo una spiaggia bella e sporca, qualche mucca, un dromedario disinvolto - pare - e uno scenario da Cinico tv; la casa dei pescatori tunisini, dove Craxi arrivata con le buste della spesa, è ricavata da un vecchio bunker della Seconda Guerra Mondiale. Stefania ha organizzato una grigliata. In serata, poi, disorienta un po’ meno il docufilm «Esilio» proiettato in una sala dell’hotel: molti l’hanno già visto, ma almeno si vede Craxi dopo tre giorni passati a parlare di Craxi. Quando passa l’immagine di Giuliano Amato i fischi sono inevitabili. La saletta è piccola ma strapiena, si vede quell’omone che parla con tanti personaggi che sono morti anche loro: Mitterrand, Reagan, la Thatcher, Arafat, un incredibile quantità di politici o ex politici nostrani, amici come Lucio Dalla, Luciano Pavarotti. E allora viene da pensare che un’epoca sarebbe morta comunque, anche se Craxi non fosse morto prematuramente e in quella maniera ingiusta e irrisolta. Lo capisci anche perché a questa commemorazione mancano amici storici - il formidabile autista Nicola Mansi, le segretarie Serenella Carloni ed Enza Tomaselli - che intanto sono morti anche loro. Lo capisci perché ci sono un sacco di vecchi che parlano di vecchiaia, è tutto un amarcord anche se alcuni erano nessuno e ora, però, ti sommergono di aneddoti. Ci sono personaggi straordinari, belli, dignitosissimi, soprattutto dal sud e dall’Umbria. Mentre da Milano, patria del riformismo e del craxismo, nessuno. In compenso ci sono giovani in numero sorprendente. Nel registro del cimitero è pieno di «Non ti ho mai conosciuto, ma». Facciamo qualche nome: gli ex parlamentari Saverio Zavettieri e Angelo Cresco, il penalista Roberto Ruggiero che difendeva Ferdinando Mach di Palmstein e Maurizio Costanzo, gli ex segretari Gianfranco Polillo (ora collaboratore di Brunetta: coraggio) e Costantino Dell’Osso, l’assessore Stefano Maullu della giunta Formigoni, e naturalmente il senatore Lucio Barani che è in formissima: è lui ad aver portato le magliette «Je suis Craxi». C’era anche tanto sottobosco romano e qualcuno che ha disertato la messa perché si è infilato in camera con una squillo ventenne, mentre alla cerimonia ha mandato la moglie. Disorientano molte cose, si diceva: ma d’un tratto, sabato sera, si sono ricomposte tutte. È successo a route El Fawara, nella mitica villa di Craxi dove Anna - la moglie, che vive e risiede lì - accoglie una minoranza di fedelissimi. E per chi manca da una quindicina d’anni, ecco: forse quello è l’unico momento davvero commovente, duro da affrontare benché annegato in una cena in piedi semplicemente fantastica (soprattutto perché il cibo tunisino, fuori di lì, è da suicidio) dove tutto pareva come prima, col dettaglio che manca Craxi. È cambiato il televisore, la tappezzeria dei divani, qualche dettaglio: ma la mitica stanza dei fax è identica, il tavolone rotondo che era ingombro di libri e giornali è sempre lo stesso. La piscina è vuota, logico. Ecco, la piscina. L’ultima volta che vidi Craxi, nel luglio 1999, lo vidi alzarsi faticosamente dalla sdraio e - malato com’era - saltellare su un piede solo per poi tuffarsi nell’acqua di testa. Era un pazzo, Craxi. Tre anni prima, nel 1996, ero ancora lì a casa sua, nella famosa villa che nel 1969 costava 40 dinari al mq: qualcosa che - compreso un giardino di circa 400 mq - si poteva comprare per l’equivalente di 7500-10mila euro di oggi; ero in quella villa con Luca Josi, comunque, e verso le tre del mattino ricordo Craxi che stava ammaliando un bivacco di attenti ragazzotti (da ore) spaziando da incredibili retroscena sul terrorismo a improbabili affreschi sulla guerra d’Africa; si parlava del socialismo, ovviamente: il socialismo di qua, il socialismo di là, perché il socialismo, del resto il socialismo. «Che poi il socialismo», scandì Bettino, e ci mise in mezzo un pausa delle sue, lunga, lunghissima, «che cazzo sia, non l’ha ancora capito nessuno». Risate timide dei ragazzotti. Poi isteriche. Poi a un certo punto stramazzarono dal ridere, e Bettino li guardava come se gli stessero facendo un affronto, ma poi sorrise, cominciò a ridere anche lui, forte, ma un po’ di lato, perché si vergognava. Qualche tempo dopo Lucio Barani, sindaco in provincia di Massa, gli portò la cittadinanza onoraria con la fascia tricolore e il gonfalone. Craxi pianse. Poi il 19 gennaio 2000 morì, e tutto quel che accadde quel giorno lo racconteremo un’altra volta. L’Ansa diede la notizia alle 17.46, mentre la Camera discuteva di una possibile commissione d’inchiesta su Tangentopoli che non si farà mai, e che Craxi chiedeva già il 24 gennaio 1993. Al Senato, dopo che Nicola Mancino diede la notizia della morte, ci fu un silenzio di quattro minuti. Poi ancora l’Ansa: «Da Palazzo Chigi si fa sapere che si è pronti ai funerali di Stato». I familiari li rifiuteranno. Bettino fu vestito in grigio come nelle grandi occasioni, cravatta rossa, garofano all’occhiello, un ramoscello coi fiori del giardino di Hammamet, tra le mani un rosario inviato dal Papa. Fu trasportato su un furgone Transit fin dentro una fossa (nel casino generale un fotografo ci cadde dentro, lo tirarono fuori i colleghi a braccia) ma la bara era troppo piccola: dovettero togliere il rivestimento di zinco per poterla chiudere. La bara veniva dall’Italia, ultimo coerente omaggio del suo Paese: nei paesi musulmani i morti si avvolgono in un lenzuolo. C’erano vicino - ci sono ancora - alcune tombe di nobili francesi dell’altro secolo, e poi quella della madre di Anna Craxi, Giuseppina, più uno spazio vuoto che Anna ha riservato per sé, vicino a Bettino. I due lo decisero insieme nel 1967. Silvio Berlusconi non venne al funerale, venne direttamente al cimitero e pianse insieme a Francesco Cossiga. Domenica ha diffuso una lettera indirizzata a Stefania Craxi: ha celebrato l’amico che «colse e anticipò i temi ancora attuali della politica italiana» e la cui morte resta «tra le pagine più vergognose della nostra storia recente». Il senatore Lucio Barani, invece, ieri è intervenuto in aula con la polo «Je suis Craxi». Ha detto questo: «Una volta nessuno si sarebbe permesso di rapire delle volontarie italiane, di imprigionare dei militari italiani. Nessuno si sarebbe permesso di buttare bombe nella redazione di un giornale satirico. Un tempo esisteva la politica, arte della mediazione e del dialogo. Craxi sapeva dialogare con varie ideologie nel contesto internazionale, e per questo l’Italia era rispettata in Europa e nel mondo intero». Qualcosa da aggiungere?

Il Cav ricorda Craxi: "La morte in esilio pagina vergognosa". "Bettino seppe cogliere e anticipare i temi ancora oggi attuali della politica italiana", scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. Silvio Berlusconi scrive a Stefania Craxi per ricordare Bettino, "un amico leale e sincero, un uomo più avanti del suo tempo". Nella lettera per il quindicennale della scomparsa del leader socialista che la Fondazione Craxi ha organizzato ad Hammamet, l'ex premier sottolinea che la capacità di Bettino Craxi di "cogliere e anticipare i temi ancora oggi attuali della politica italiana lo rendono tuttora protagonista a pieno titolo delle vicende di questi giorni". "Il tuo papà è stato per me un amico leale e sincero al quale mi univa un affetto profondo - scrive Berlusconi a Stefania Craxi - è stato un uomo più avanti del suo tempo. Le sue idee, la sua capacità di cogliere e di anticipare con lucidità i temi ancora oggi attuali della politica italiana lo tendono tuttora protagonista a pieno titolo delle vicende dei nostri giorni". Il Cavaliere ricorda come Craxi seppe cogliere, "quando nessuno ne era consapevole, la necessità di riformare in nostro assetto istituzionale, per mettere il nostro Paese in condizione di essere governabile e di poter competere con le altre nazioni", dando così vita a "una sinistra moderna, democratica, europea". La sua morte in esilio è per Berlusconi "tra le pagine più vergognose della nostra storia recente". Dopo aver manifestato la propria amarezza per non essere presente ad Hammamet, Berlusconi ha fatto notare che adesso Craxi riposa in una terra che amava. "Una terra che, in questi anni turbolenti, ha dimostrato di saper scegliere la strada della democrazia, della tolleranza e della laicità dello stato - ha scritto l'ex premier - una strada che lui stesso avrebbe indicato e favorito, se fosse stato ancora presente. Speriamo che la scelta della Tunisia possa essere di esempio alle molte situazioni difficili e tormentate del mondo arabo". Per Berlusconi la strada indicata da Craxi fin dagli anni Ottanta si è rivelata quella giusta. "La sinistra comunista è morta, anche se le sopravvivono molti dei suoi protagonisti e dei suoi metodi - ha spiegato il leader di Forza Italia - il socialismo liberale e riformatore è invece forte e attivo e sarà un protagonista del 21° secolo. Anche le riforme istituzionali, dopo decenni di tentativi infruttuosi, sono finalmente avviate proprio come lui aveva preconizzato". Con questi ricordi e con questi sentimenti Berlusconi ci ha tenuto a manigestare la propria vicinanza a Stefania Craxi. "Il tuo papà è certamente molto orgoglioso di una figlia che gli dimostra tanto amore e che ha dedicato e continua a dedicare la sua vita alla difesa e al ricordo del suo papà Bettino - ha concluso - ti prego di far giungere alla tua mamma, a Bobo e a tutti gli amici che sono lì convenuti per ricordarlo, il mio saluto più partecipe e affettuoso".

Bettino Craxi e le profezie su Berlusconi, Fini, D'Alema e Napolitano, scrive “Libero Quotidiano”. "L’on. Napolitano non poteva non avere un ruolo nel sistema di relazioni politiche tra il Pci, il potere sovietico ed i regimi comunisti dell’est, cui era connesso un sistema articolato di finanziamenti illegali di cui i comunisti italiani erano i primi, tra i partiti comunisti e non del mondo, ad avvantaggiarsene". Parola di Bettino Craxi. Il volume Bettino Craxi. Io parlo, e continuerò a parlare, curato dallo storico Andrea Speri, raccoglie appunti, profezie e commenti sulla politica italiana del leader socialista annotate con cura nei suoi anni ad Hammamet. Craxi parla di tutti, da Napolitano a Berlusconi, da Fini a D'Alema. Su Re Giorgio Craxi è durissimo e lo mette davanti alle sue responsabilità storiche: "Per gli incarichi politici che ha rivestito, per le esperienze e le conoscenze che ha accumulato, e d’altro canto certamente non solo lui, non potrebbe senza dubbio non rendere su tutta la materia una preziosa testimonianza. Ricostruire in modo completo, chiaro ed onesto, i termini reali in cui si svolse la lotta politica in Italia e la lotta per il potere, è diventato sempre più necessario, specie di fronte a tante mistificazioni, a tante censure ed anche a tante ingiustizie". Poi è il turno di Berlusconi. Craxi già prevede l'accanimento giudiziario durato per venti lunghi anni: "C’è un vero e proprio piano al massacro che procede con gradualità e per linee convergenti, ma che ha al fondo un obiettivo, uno e uno solo, e cioè Silvio Berlusconi. Del resto il trattamento sin qui riservato al gruppo Fininvest attraverso indagini, inchieste, processi e quant’altro, ha un carattere eccezionalissimo che non è stato riservato proprio a nessuno. Gli strateghi della conquista del potere, i teorici della "falsa rivoluzione", e i loro collaboratori ed aiutanti, puntando alla distruzione politica personale di Berlusconi sanno che questa comporterà quasi automaticamente il disfacimento di Forza Italia. Nel frattempo ci si preoccuperà di accentuare l’isolamento e la criminalizzazione di Bossi. la via sarà allora definitivamente aperta a un ventennio almeno di egemonia catto-comunista". Poi Craxi parla di Gianfranco Fini e delle sue mosse politiche mentre il Cav dovrà combattere negli anni la sua battaglia contro l'assedio giudiziario: "Fini invece, se sarà risparmiato dall’attacco dei più sfegatati, verrà affidato il compito di dimostrare che la democrazia funziona e che l’opposizione può svolgere il suo ruolo di opposizione senza rompere troppo le scatole. Nel frattempo, in attesa del risultato finale, si svolgono le manovre di accompagnamento che seguono, come in questi casi la storia insegna, tattiche consuete. Una volta è il bastone e la carota, un’altra è il pugno di ferro e il guanto di velluto, un’altra ancora è il giorno delle promesse, delle concessioni, delle generose diplomazie segrete". A questo punto Craxi parla di D'Alema e delle sue manovre a sinistra dopo la caduta dei socialisti sotto i colpi di Tangentopoli: "D’Alema vuole ridare la vita ai socialisti facendoli rinascere dalle "macerie" del Socialismo craxiano. E chi é? Mai questo eroico condottiero che i socialisti dovrebbero accogliere come il loro liberatore? Purtroppo non è altro che uno dei tanti che hanno concorso o hanno assistito cinicamente al massacro socialista ed alla distruzione di uno dei grandi edifici della democrazia italiana". Poi l'accusa a Baffino: "L’aggressione politica antisocialista, che era scuola, cultura ed anima della nuova generazione comunista, visti i tempi, non sarebbe di certo bastata. Per ridurre il psi in un cumulo di rovine è stata necessaria un’aggressione politica-giudiziaria di portata impressionante e dall’altro lato il concorso pusillanime di una classe dirigente socialista che, almeno per la sua gran parte, ha dato prova di opportunismo e di viltà". Infine già a fine anni 90, Craxi prevede un futuro nero per l'Italia in Europa: “C’è da chiedersi perché si continua a magnificare l’entrata in Europa come una sorta di miraggio, dietro il quale si delineano le delizie del paradiso terrestre. Non sarà così. alle condizioni attuali, dal quadro dei vincoli così come sono stati definiti, ad aspettare l’Italia non c’è affatto un paradiso terrestre. Senza una nuova trattativa e senza una definizione di nuove condizioni, l’Italia nella migliore delle ipotesi finirà in un limbo, ma nella peggiore andrà all’inferno”.

Giuliano Amato al Quirinale? Craxi disse: è quello che si è comportato peggio. Giancarlo Perna ha ricostruito la storia politica di Giuliano Amato, dal legame con Bettino Craxi alla Corte Costituzionale. Ritratto spietato di un personaggio eminente di cui si parla come possibile Presidente della Repubblica, scrive Blitz quotidiano. “Giuliano Amato al Quirinale” scatena il pungiglione di Giancarlo Perna su Libero. Quello di Giuliano Amato, avverte Giancarlo Perna, è”un nome che spunta sempre quando è vacante una poltrona. Non è mai il primo a essere fatto, ma è immancabile. Amato era già stato in lizza nel 1999 e nel 2006. A volerlo al posto di Carlo Azeglio Ciampi era nientemeno che Papa Wojtyla. Sette anni dopo, fu Berlusconi a candidarlo per il centrodestra nel tentativo di bloccare Giorgio Napolitano. In entrambi i casi, Amato fu sconfitto senza fare una piega e continuò a navigare”. Rinunciando a analizzare “le sue tecniche di sopravvivenza” Giancarlo Perna ne tenta una casistica: “Pur restando a sinistra, ha strizzato l’occhio ai cattolici, si è mostrato comprensivo con Berlusconi, ha dato una mano alla destra collaborando con Gianni Alemanno sindaco di Roma. Di qui, le simpatie sparse che si è conquistato. Compensate dalle diffuse diffidenze per questo volteggiare tra gli opposti. Amato ha avuto un cursus impareggiabile. A volte è in auge, altre in ombra ma sempre in possesso di una poltrona, grande o piccola che sia. L’importante per lui è sedere su qualcosa. [...] È l’uomo delle emergenze, il commissario straordinario che si chiama al capezzale di un organismo in coma. È stato premier (due volte, 1992 e 2000), ministro del Tesoro e dell’Interno, vicepresidente della Convenzione che ha varato la Costituzione Ue, giudice della Coorte costituzionale dal 2013. Va aggiunto che, salito prestissimo alla cattedra di Diritto Pubblico, Giuliano è stato, per unanime riconoscimento, il costituzionalista principe della sua generazione. [...]Come ex parlamentare (cinque legislature) riceve novemila euro mensili, più altri ventiduemila tra vitalizio di ex docente e l’indennità di ex presidente dell’Antitrust (è stato anche questo, me ne ero dimenticato!). Un totale di 31mila euro lordi al mese, più di mille al giorno, l’ideale per suscitare l’ira popolare. Stufo di essere preso di mira, Amato ha precisato di tenere per sé solo i ventiduemila euro - che netti sono la metà - e di dare ai poveri i novemila di ex parlamentare (…) “All’origine dei suoi successi non ci sono solo le capacità” tuona Perna: “La sua strada è costellata anche di inquietanti bugie e odiosi voltafaccia. Ripercorriamoli. Quando fu premier la prima volta dichiarò: «Con questo concludo la mia carriera politica. Non pretendo di essere il protagonista di molte stagioni». Oggi, ventitre anni e cinquanta incarichi dopo, stiamo ancora parlando di lui. Poi si mise all’opera e ci scippò nottetempo i soldi dai conti correnti bancari il 10 luglio 1992. Una randellata sul rapporto di fiducia tra cittadino e stato. Più indicativa la sua storia con Craxi. Prima che Bettino diventasse segretario nel ’76, lo osteggiò da sinistra (Giuliano militò anche nel Psiup). Quando poi i craxiani vinsero, scrisse ai suoi amici Stefano Rodotà e Franco Bassanini: «Piuttosto che fare politica con questi cravattari sarebbe meglio ritirarsi a vita privata. Noi invece non ci ritireremo». Infatti, dopo un anno era già prostrato ai piedi di Bettino di cui fu per un quindicennio il caudatario, condividendone le tresche al governo e nel Psi. Quando Craxi fu soprannominato Ghino di Tacco, Amato fu detto Ghino del taschino per sottolinearne la soggezione. Il nomignolo si aggiunse a quello di Dottor Sottile che si era guadagnato per l’abilità manovriera e l’acume spaccacapello di cui era dotato. Quando poi, con Tangentopoli, voltò le spalle a Craxi con la frase «non immaginavo tanto marciume» (lui che sapeva tutto), fu detto il Cobra (…)

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: vi racconto il giorno delle monetine a Craxi, quando nacque l'antipolitica. Vent'anni fa: la folla livorosa davanti all'Hotel Raphael, l'ascolto tv impazzito, il discorso alla Camera, tra polizia e telecamere, moriva il craxismo e si chiudeva la Prima Repubblica. L’episodio delle monetine contro Craxi all'Hotel Raphael (30 aprile 1993, vent’anni ieri) viene evocato e ritrasmesso di continuo perché resta il principale simbolo di un decennio, l’iconografia del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica: eppure le vere ricostruzioni storiche, al di là di raffazzonati copia/incolla giornalistici, latitano. Persino il discorso alla Camera pronunciato il giorno prima in un silenzio tombale (discorso citatissimo e poco letto) viene ancor oggi confuso con un altro del luglio precedente, e questo per la semplice ragione che Craxi, il 29 aprile 1993, lo riprese testualmente. Furono i giorni dell’assedio all'Hotel Raphael e del linciaggio come estetica rivoluzionaria, forse la nascita ufficiale dell’antipolitica. Craxi scrisse il suo discorso a Monte Mario, a casa di un’amica. Il discorso pareva funzionare, ma il calcolo dei voti pro e contro non lasciava scampo. Antichi favori andavano nella direzione di un appoggio segreto dei Radicali e della parte di Rifondazione comunista legata ad Armando Cossutta e al Manifesto, ma non bastava. Mancavano almeno 58 voti. Il 29 aprile Craxi si affacciò nell'Emiciclo vestito di blu e con una cartellina rosa sotto braccio. Dopo il suo discorso, il voto fu una scheggia: la voce del presidente della Camera Giorgio Napolitano scandì la concessione di sole due autorizzazioni a procedere su sei, fatto che viene sempre trascurato: sì alle indagini per corruzione a Roma e per finanziamento illecito a Milano, no per corruzione «in luogo non accertato» e per il reato di ricettazione. C'era una logica, non era «un’assoluzione» come si è sempre detto. Ma lo spettacolo stava per cominciare: striscioni, mazzi di volantini gettati tra i banchi, un deputato leghista che incrociò le braccia simbolizzando le manette, pugni battuti sui banchi, e grida, «Ladri di regime», «Mafiosi», il presidente della Camera che ordinò di sgomberare le tribune, e tafferugli, risse tra parlamentari. Tutti i volantini e i cartelli di protesta erano già stati preparati, dunque preventivati. Il democristiano Francesco D’Onofrio fece capire che i voti a favore di Craxi erano giocoforza venuti anche dall’opposizione, e Gianfranco Fini perse la calma: «Se dici queste cose sei un mascalzone, siete dei ladri che avete difeso altri ladri». Più tardi annuncerà una lettera al procuratore capo di Milano  Francesco Saverio Borrelli in cui esprimerà «solidarietà e sincero apprezzamento», e soprattutto auspicherà che sia superato «l’inammissibile scudo dell’immunità parlamentare». In quelle ore, del resto, lo chiesero un po’ tutti. La sinistra ritirò il sostegno al governo Ciampi alle 20 e 22: il nuovo Consiglio dei ministri non si era neppure insediato. Il verde Francesco Rutelli era stato ministro dell’Ambiente per poche ore, tanto che il premier Carlo Azeglio Ciampi sarà costretto a un rimpasto prima ancora di aver ricevuto la fiducia dalle Camere. Presto il voto segreto per le autorizzazioni a procedere verrà abolito, e i lavoratori, il 1° maggio, l’unica festa vorranno farla a Craxi. Dirà Giovanni Pellegrino, Pds, allora presidente della giunta per le autorizzazioni a procedere del senato: «Noi della sinistra consentimmo che venisse cancellato l’istituto dell’autorizzazione a procedere, strumento a tutela dell’autonomia del potere politico rispetto al potere giudiziario. E si aprì la strada alla mattanza di partiti di governo. Avevamo una sponda al Quirinale, e l’ansia di raccogliere i frutti sul piano elettorale era tale che facemmo in modo che quel Parlamento venisse sciolto anticipatamente». Eppure, quel 29 aprile, Bettino Craxi ancora non sapeva che cosa l’avrebbe atteso l’indomani. Cenò all’hotel Raphael, tranquillamente, con pochi fedelissimi e con la donna che amava. Sembrava tutto normale. Più volte raccontato o più spesso mostrato, il racconto del giorno successivo riposa anche sui ricordi della giornalista che raccolse quelle immagini ormai celebri, la giornalista Rai Valeria Coiante: «Eravamo a Piazza Navona, c’era la manifestazione del Pds, facevo le mie interviste di routine. Arriva la notizia: negata autorizzazione a procedere per Craxi. Si avvicina il collega Fabrizio Falconi del Tg4: «Andiamo al Raphael, si sta radunando un sacco di gente». C’eravamo solo noi, quel giorno, io col mio operatore e lui col suo. A un certo punto il cordone dei poliziotti mi allontana dall’operatore, io comincio a dargli istruzioni col microfono, lui era in cuffia, era l’unico modo per comunicare con lui in quel casino: «Rimani sempre acceso, prendi tutto, fammi quelli coi cartelli e con le mille lire... ». La folla urlava sempre di più, un mare di persone si riversava nel vicolo stretto, la polizia infilava i caschi e parava gli scudi. Craxi esce dal portone, esplode un boato, «Eccolo eccolo» urlo nel microfono, mi abbasso e supero il cordone di polizia, corro verso la macchina di Craxi. Vengo investita da una tonnellata di metallo vario in tondini, monete, «stanno tirando di tutto! Pezzi di vetro, monete, tirano di tutto!»...La sera, in montaggio, mentre ero lì che assemblavo il pezzo e pulivo la pista audio, entra in sala Gianni Minoli (allora creatore del celeberrimo Mixer e direttore di Raidue) . «Fammi vedere», dice. «Aspetta, sto levando l’audio e sto mettendo gli effetti». «No, fammelo vedere così». Va be’, penso io, la voce la levo dopo. «Ok, è incredibile. Perfetto. Va bene così, non toccare niente». «Ma sembro ‘na pazza... fammi levare almeno dove sfondo i livelli». «Non se ne parla, va in onda così». Quel filmato fece sette milioni di telespettatori al primo passaggio». Largo Febo, cioè la piazzola davanti al Raphael, in realtà è un buco che le immagini di repertorio restituiscono ogni volta molto più grande: non è che ci stia tutta questa folla, tra auto e polizia e telecamere. Eppure, oggi, a sentir le testimonianze, erano tutti lì. C’erano quelli del Msi, della Lega, c’erano i reduci di un comizio di Achille Occhetto in Piazza Navona, passarono di lì anche molti studenti del Liceo Mamiani che erano in corteo: nell'insieme fu più che sufficiente per far scrivere a tutti che quella era «l’Italia». Il che, tutto sommato, era drammaticamente vero.

Il sindaco Pisapia indagato: sì, no, forse? La Procura indaga sulle trascrizioni delle unioni gay. Il primo cittadino si autoaccusa. I pm negano: inchiesta contro ignoti. Ma lui insiste. A ragione, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Sabato 17 gennaio 2015, durante un convegno del Pd, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia aveva pubblicamente annunciato di essere indagato dalla Procura di Milano: l'accusa? L'omissione in atti d’ufficio, per avere trascritto alcuni matrimoni gay contratti all’estero, contravvenendo alla richiesta del prefetto Francesco Paolo Tronca, che in ottobre gli aveva ordinato di cancellare tutte le trascrizioni in materia basandosi a sua volta su una circolare del ministro dell'Interno, Angelino Alfano. Il problema è che ieri, lunedì 19 gennaio, il procuratore Edmondo Bruti Liberati e il pubblico ministero Letizia Mannella hanno comunicato ufficialmente che non è vero: insomma, c'è sì un’inchiesta a carico di ignoti, però Pisapia non è affatto indagato. E (sotto, sotto) i due pubblici ministeri hanno anche fatto capire che l'indagine probabilmente finirà in nulla, con una richiesta di archiviazione. La Procura di Milano, a quanto pare, non ha alcun desiderio d'ipotizzare un reato per il sindaco. Ma, da buon penalista, Pisapia insiste: com'è possibile che la Procura apra un’inchiesta sulle trascrizioni dei matrimoni gay, e che il reato venga lasciato "a carico di ignoti" quando è palese che il presunto colpevole è solo lui? “Quegli ignoti, in realtà, sono noti" dichiara Pisapia, rivendicando con responsabilità e onestà intellettuale il suo diritto a essere indagato, e sottolineando correttamente come il problema non dovesse rimanere chiuso nei cassetti della procura. "Le trascrizioni le ho fatte io perché le ritenevo legittime" ha aggiunto il sindaco. "Io non so se cercassero ignoti tra soggetti che, invece, ignoti non lo erano. Era comunque giusto che mi assumessi le responsabilità di quello che ho fatto”. Parole che gli fanno onore.

Procura di Milano, alla fine per lo scontro pagherà solo Robledo. La Procura generale della Cassazione chiede al Csm di rimuovere il procuratore aggiunto: contro di lui le intercettazioni con l'avvocato della Lega Nord, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Poteva finire con un nulla di fatto, con entrambi i contendenti lasciati in qualche modo al loro posto; poteva finire con la cacciata di entrambi i contendenti, e con l'azzeramento di fatto del gruppo dirigente della Procura; e invece con un colpo di scena la faida interna al palazzo di giustizia milanese sembra avviata a risolversi con la sconfitta piena solo di Alfredo Robledo, il procuratore aggiunto che con il suo esposto al Consiglio superiore della magistratura aveva sollevato nel marzo dello scorso anno il caso delle presunte irregolarità nella gestione da parte del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati praticamente di tutte le inchieste più delicate. Nei confronti di Robledo, il procuratore generale della Cassazione ha fatto partire nei giorni scorsi una richiesta eccezionale: trasferimento immediato in via cautelare, di fatto l'allontanamento dall'ufficio e il trasferimento a un altro incarico. Tecnicamente, le accuse che potrebbero portare al defenestramento di Robledo non sono collegate ai temi sollevati nel suo esposto, e di cui si è molto discusso in questi mesi. La richiesta di rimozione del magistrato viene motivata dal pg con una serie di intercettazioni che arrivano dall'altro capo d'Italia, ovvero dalla indagine che la procura di Reggio Calabria sta svolgendo sui contatti tra alcuni esponenti della Lega Nord e il mondo della criminalità organizzata: è l'indagine che ha portato all'incriminazione dell'ex tesoriere del Carroccio, Belsito, accusato di avere utilizzato canali contigui alla 'ndrangheta per spostare e investire all'estero parte dei fondi del partito. Nell'ambito di quella inchiesta è stato intercettato anche l'avvocato di fiducia dei vertici leghisti, Domenico Aiello, e così la Dia ha registrato una serie di contatti telefonici tra il legale e Robledo, all'epoca titolare delle indagini sui finanziamenti pubblici al partito di Bossi. Contatti che indicano una certa confidenza tra i due, e nei quali Robledo sembra garantire a Aiello che l'inchiesta sarebbe stata condotta anche a carico di esponenti di altri partiti. Ma è evidente che le notizie provenienti da Reggio Calabria hanno finito col fare parte a pieno titolo dello scontro senza precedenti in corso alla Procura di Milano, dove Robledo accusava Bruti di avere forzato la mano per affidare tutte le inchieste con risvolti politici (dal San Raffaele a Ruby alla Serravalle a Expo) solo a pm di sua fiducia, aggirando le norme interne all'ufficio e le competenze dei diversi dipartimenti. Lo stesso consiglio giudiziario di Milano, l'organismo locale di autogoverno della magistratura, ha stigmatizzato questo comportamento di Bruti. Ma sia il procuratore capo che Robledo (accusato da Bruti di interferenze e comportamenti irregolari) erano usciti incolumi dalle azioni disciplinari avviate dal Csm. E la settimana scorsa aveva preso quota la ipotesi di una soluzione ponte, con Robledo parcheggiato in un'altra procura in attesa del pensionamento di Bruti. Invece stamane a sorpresa dal Csm arriva la notizia della richiesta di rimozione immediata di Robledo avanzat dal pg della Cassazione, Ciani. Una richiesta che verrà esaminata dal Csm in tempi brevissimi, e che se dovesse venire accolta segnerebbe una vittoria per ko di Bruti e del suo schieramento nello scontro con Robledo.

Milano, altri guai per il pm Alfredo Robledo: "Ha favorito l'avvocato della Lega Nord". Il pg della Cassazione contro l'aggiunto di Milano, già al centro di uno scontro con il procuratore capo Bruti Liberati. Il motivo sono le intercettazioni di un'inchiesta antimafia rivelate da l'Espresso. Secondo l'accusa il legale girava a Roberto Maroni e Matteo Salvini le notizie ottenute dal magistrato che indagava su Belsito, scrive Paolo Biondani “L’Espresso”. Alfredo Robledo Il procuratore aggiunto di Milano, Alfredo Robledo, rischia il posto per i suoi rapporti telefonici con l'avvocato della Lega, Domenico Aiello. Un caso giudiziario nato da una serie di intercettazioni della procura antimafia di Reggio Calabria e rivelato per la prima volta il 25 ottobre scorso da un articolo de “l'Espresso” . Robledo è il magistrato che da mesi è protagonista di uno scontro senza precedenti con il suo procuratore capo, Edmondo Bruti Liberati. Oggi il procuratore generale della Cassazione, Gianfranco Ciani, titolare dell'azione disciplinare, ha depositato al Csm una richiesta di trasferimento d'ufficio a carico di Robledo, chiedendo che venga decisa d'urgenza, come misura cautelare. Secondo l'accusa, Robledo dovrebbe non solo cambiare città, ma addirittura perdere le funzioni di pubblico ministero. Il vice-presidente del Csm, Giovanni Legnini, ha già fissato un'apposita udienza della sezione disciplinare, che è chiamata a pronunciarsi il 5 febbraio. Il trasferimento forzato di Robledo consacrerebbe la vittoria di Bruti Liberati nella scontro con il suo aggiunto, che è già stato rimosso dall'incarico di coordinatore delle indagini milanesi sui reati collegati alla corruzione. Il Csm e lo stesso pg della Cassazione, però, devono ancora pronunciarsi sugli altri capitoli ancora aperti della disfida tra toghe che ha spaccato la procura di Milano. A Robledo vengono contestati i rapporti amichevoli con Domenico Aiello, il penalista di fiducia di Roberto Maroni, diventato l'avvocato della Lega dopo lo scandalo dei finanziamenti pubblici sottratti dall'ex tesoriere Belsito, che ha coinvolto anche Umberto Bossi favorendo il cambio della guardia al vertice del partito. Quell'inchiesta era diretta proprio da Robledo. Tra il 2012 e il 2013, mentre era ancora in corso l'indagine milanese sui soldi della Lega, la procura reggina ha intercettato l'avvocato Aiello per tutt'altri motivi: il professionista, che è di origine calabrese, risultava in contatto con imprenditori sospettati di collusioni con la 'ndrangheta. Quella procura antimafia ha così intercettato anche Robledo, ma solo indirettamente, perché era in contatto con l'avvocato Aiello. Anche i parlamentari leghisti sono stati intercettati solo indirettamente: sotto controllo c'era solo il telefonino Aiello. Nella primavera del 2013 la procura di Reggio Calabria ha trasmesso un faldone di intercettazioni ai pm di Brescia, competenti a indagare sui magistrati di Milano, ipotizzando che Robledo avesse rivelato all'avvocato della Lega notizie riservate sulle proprie indagini. Dopo un anno di accertamenti, i pm bresciani Fabio Salamone e Paolo Savio hanno chiesto l'archiviazione di tutte le accuse a carico di Robledo. Secondo i due magistrati competenti, quelle comunicazioni tra Robledo e Aiello non hanno rilevanza penale: non ci sono i presupposti per accusare il pm milanese, in particolare, di ipotetiche violazioni del segreto istruttorio. Nelle motivazioni della loro richiesta, gli stessi pm bresciani precisano però che l'archiviazione riguarda solo la vicenda penale, «al di là di ogni valutazione sull'opportunità di frequenti contatti» tra magistrato e avvocato «per ragioni non sempre strettamente correlate con le rispettive qualità». Ora il pg della Cassazione, che invece rappresenta l'accusa nei procedimenti disciplinari e può occuparsi anche di vicende personali che non costituiscono reato, ha riletto gli stessi atti dell'indagine bresciana ipotizzando, come precisa l'agenzia Ansa, uno «scambio di favori»: un comportamento penalmente irrilevante, ma considerato inopportuno per un magistrato. Sotto accusa, in particolare, ci sono alcuni sms inviati da Robledo ad Aiello, e da quest'ultimo a parlamentari della Lega come Maroni, Salvini e Speroni, mentre era ancora in corso l'inchiesta milanese sul caso Belsito. Il 28 dicembre 2012, ad esempio, Aiello manda a Maroni un sms che allude a una riunione dei pm milanesi: «Finita riunione in Procura con capo e agg. Domani sera mi daranno altri nominativi ns consiglieri indagati. Hanno intercettazioni gravi contro Pdl, mentre su di noi pare ci sia una impiegata gola profonda». Nello stesso periodo l'avvocato Aiello telefona anche all'attuale leader leghista Matteo Salvini, sostenendo che Robledo gli avrebbe promesso di spedire, prima delle elezioni del 2013, «gli stessi avvisi a Pd, Idv e Pensionati. (…) Mi ha detto: “Domenico, te lo garantisco, ci puoi spendere la tua credibilità”». Quando l'inchiesta milanese sui rimborsi-truffa coinvolge effettivamente anche gli altri partiti, l'avvocato della Lega scrive un sms di ringraziamento al pm milanese: «Uomo di parola! Poi grande magistrato!». E Robledo gli risponde con una citazione in latino che sembra confermare una promessa: «Caro avvocato, promissio boni viri est obligatio!». Esaminate tutte le intercettazioni, i magistrati bresciani hanno concluso che va giudicato «assolutamente comprensibile» che l'avvocato della Lega si preoccupi di informarsi sulla posizione degli indagati della proprio parte politica. Quanto alle notizie sugli altri partiti, Robledo si sarebbe limitato a fornirgli una «generica informazione che l'indagine avrebbe riguardato in tempi brevi anche l'opposizione», senza però rivelargli segreti investigativi. Ora però il pg della Cassazione rilancia l'accusa, sostenendo che Robledo, il 18 dicembre 2012, avrebbe anticipato ad Aiello almeno una notizia molto precisa, e cioè che la sua inchiesta stava per coinvolgere altri 7-8 consiglieri regionali. Cosa effettivamente successa il giorno dopo. Sotto accusa, sempre sul piano disciplinare, c'è anche una serie di telefonate in cui Robledo avrebbe suggerito ad Aiello di chiedere copia di una consulenza tecnica a carico della Lega, che era stata anticipata nel febbraio 2013 da “l'Espresso”. Quando poi Aiello si vide negare quei documenti integrali, Robledo, sempre secondo il pg della Cassazione, avrebbe scaricato la colpa sul procuratore capo, Bruti Liberati. Da altre telefonate, sempre secondo la ricostruzione dei pm bresciani, risulta «evidente che Robledo si sia avvalso dell'aiuto del legale per intervenire nella procedura dinanzi la Commissione europea» che lo vedeva contrapposto all'ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini, mentre quest'ultimo si era candidato alle regionali in Lombardia contro Maroni. Nei mesi precedenti, Albertini aveva accusato il pm milanese di aver condotto indagini illegali sui derivati finanziari acquistati dal Comune di Milano. Contro-denunciato da Robledo, l'ex sindaco, che rivestiva la carica di europarlamentare di Forza Italia, aveva chiesto l'immunità politica, che però gli è stata negata. Di questo caso si era occupata la stessa procura di Brescia, che alla fine ha chiesto di processare proprio Albertini per calunnia ai danni di Robledo. In quel contesto, nelle sue conversazioni con l'avvocato Aiello, Robledo chiedeva «solo che la mia lettera vada alla Commissione, che prenda atto che questo ha detto balle totali». Ora però il pg della Cassazione sostiene che Robledo, per poter preparare la sua lettera, avrebbe ricevuto dall'avvocato Aiello una serie di documenti, presentati da Albertini al Parlamento europeo per ottenere l'immunità, che andrebbero considerati «non pubblici». Aiello glieli avrebbe fatti arrivare per email. Nell'indagine bresciana erano finite anche alcune intercettazioni, registrate sempre dai pm antimafia calabresi, delle telefonate tra Aiello e il pm milanese Eugenio Fusco, titolare di un'inchiesta sul gruppo Finmeccanica che sembrava poter coinvolgere anche la Lega. Ma i magistrati bresciani hanno concluso che queste conversazioni, oltre a essere penalmente irrilevanti, «rientrano nella prassi comune dei contatti tra pm e difensori». Sull'archiviazione dell'inchiesta penale su Robledo, l'ultima parola spetterà ai giudici bresciani. Ma ora il procuratore aggiunto rischia di essere allontanato da Milano con un trasferimento disciplinare che potrebbe segnare la fine della lunga stagione dei veleni in procura.

Quel filo segreto tra la Lega e Robledo. Il pm di Milano intercettato al telefono con l’avvocato di Maroni. L’antimafia lo denuncia. E l’indagine finisce a Brescia, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Da una parte c’è il procuratore aggiunto di Milano, Alfredo Robledo, che in quei giorni sta indagando sui presunti ladroni del cerchio magico di Umberto Bossi. All’altro capo del telefono c’è l’avvocato Domenico Aiello, che dopo aver difeso Roberto Maroni sta diventando, proprio per effetto di quel terremoto giudiziario, il penalista di fiducia dell’intero partito padano. E in mezzo, ad ascoltare tutto, ci sono i carabinieri di una procura antimafia del Sud Italia. Che non si aspettavano certo di dover registrare dei colloqui riservati tra il pm anti-Lega e l’avvocato della Lega. Su questo strano cortocircuito tra giustizia e politica sta indagando da circa un anno la Procura di Brescia. Un’inchiesta riservatissima, che per il pm Robledo era iniziata molto male. L’alto magistrato, almeno fino a pochi giorni fa, risultava ancora indagato, a quanto pare per un’ipotetica violazione del segreto istruttorio. Ma in questi mesi i pubblici ministeri bresciani hanno ormai approfondito il caso, che sembra essersi ridimensionato. E ora a Brescia, dove nel frattempo il nuovo procuratore Tommaso Buonanno ha scalzato lo storico pm Fabio Salamone, i magistrati sarebbero orientati a chiedere l’archiviazione. Il verdetto finale comunque spetterà ai giudici delle indagini e fino ad allora Robledo resterà, suo malgrado, formalmente inquisito. Proprio come il suo grande nemico, il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati, a sua volta sospettato di omissione di atti d’ufficio, per un’inchiesta sulla Sea dimenticata in cassaforte e rivendicata da Robledo dopo un articolo de “l’Espresso”. La nuova indagine bresciana non c’entra nulla con il feroce scontro tra Robledo e Bruti: è invece uno spezzone di un’istruttoria altrui, molto più ampia e ancora segreta. Si sa soltanto che una procura antimafia, per ricostruire le trame di un colletto bianco, ha intercettato (come sempre) tutti i suoi interlocutori, imbattendosi per caso in Aiello. E così, tra il 2012 e il 2013, per qualche tempo finisce sotto controllo pure il telefonino dell’avvocato. Che, a sorpresa, si sente più volte con Robledo. I carabinieri annotano. E nella primavera 2013 la loro procura manda a Brescia due denunce di reato. Il tenore delle intercettazioni ha convinto quella procura antimafia che il pm Robledo e l’avvocato Aiello stiano orchestrando manovre per colpire l’ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini. Che è un rivale politico: proprio in quei mesi si è candidato contro Maroni in Lombardia. Altre telefonate fanno temere che il magistrato possa avere anticipato all’avvocato qualche notizia riservata della sua inchiesta sui presunti rimborsi-truffa incassati da altri partiti. Di qui la trasmissione al Nord delle intercettazioni. A Brescia però, per fortuna di Robledo, i pm sono in grado di ricostruire un quadro più completo. Albertini, infatti, è già indagato (e oggi rischia il processo) con l’accusa di calunnia proprio ai danni del magistrato milanese: era lui che tentava di screditarlo. Denunciato da Robledo, l’ex sindaco cercava di avere l’immunità dal parlamento europeo, che poi lo ha bocciato. In quelle telefonate Robledo non nasconde l’antipatia per Albertini, ma cerca solo di d’informarsi se la Lega a Bruxelles voterà a suo favore. Mentre per i rimborsi, all’avvocato che gli contesta di perseguitare solo la Lega, il pm ribatte che indagherà su tutti i partiti, come poi succederà, ma senza fornirgli particolari segreti. In attesa che i giudici bresciani tirino le somme, certo è che il pm e l’avvocato non parlavano di altre indagini che avrebbero potuto interessare entrambi. Nel 2010, quando è diventato il difensore di Maroni, Aiello guidava il ramo penale dello studio internazionale “Dla Piper”, dove a gestire il settore degli appalti era l’avvocata Giorgia Romitelli. Che nel marzo 2014, su richiesta di Robledo, è finita agli arresti domiciliari nell’inchiesta che ha decapitato Infrastrutture Lombarde, la centrale regionale delle grandi opere. 

Robledo chiede alla Finanza di aiutarlo a incastrare Bruti. Caos a Milano, l'aggiunto scrive al Csm e controaccusa il suo capo: "Su Expo dice il falso, ho le prove". E allega una relazione della GdF, scrive Anna Maria Greco su  “Il Giornale”. Alfredo Robledo non ci sta. Reagisce con durezza alle controaccuse del procuratore di Milano, Bruti Liberati, e scrive una nota al Csm, accusandolo di aver detto il «falso» e chiedendo di essere ascoltato per replicare. «Sono radicalmente inventate e prive di qualunque fondamento - tuona - le affermazioni su Expo». E da Magistratura indipendente arriva l'appello al Guardasigilli Andrea Orlando: si mandino gli ispettori alla Procura di Milano. Raccontano che l'aggiunto abbia dato in escandescenze martedì, quando ha saputo che nella lettera mandata al Csm il suo capo denunciasse l'episodio, definito «surreale», del doppio pedinamento di un indagato, che l'aggiunto avrebbe disposto rischiando di far saltare le indagini sull'Expo 2015. No, Robledo non ci sta e ha richiesto urgentemente alla Guardia di finanza una dettagliata relazione, allegata alla nota di due pagine inviata al Csm, per confutare la ricostruzione del suo capo. Una ricostruzione che tenta di presentare lui, il grande accusatore di irregolarità e violazioni nel Palazzo di giustizia milanese, come il colpevole di iniziative che hanno portato «grave intralcio» ad importanti inchieste. Ma Robledo fa una smentita a tutto campo. E con toni durissimi: «Le inveritiere affermazioni del procuratore» di Milano Edmondo Bruti Liberati - scrive - sul presunto "doppio pedinamento" (nelle indagini su Expo, ndr) appaiono altamente lesive della dignità della funzione di procuratore aggiunto, coordinatore del dipartimento dei reati contro la pubblica amministrazione che attualmente svolgo, e turba «il regolare svolgimento della funzione». Uno scontro senza precedenti. Nella sua lettera al Csm, resa nota martedì, Bruti contesta il fatto che l'aggiunto (il quale polemicamente non ha firmato le 7 richieste d'arresto per l'inchiesta Expo, sostenendo che gli sarebbe stato impedito di valutare compiutamente i fatti, «in violazione della normativa») non sia stato tenuto al corrente delle indagini. Nate, secondo il capo, nella Direzione antimafia guidata da Ilda Boccassini e coassegnate al Dipartimento sui reati contro la pubblica amministrazione, di cui Robledo è responsabile. Come esempio dei danni che l'aggiunto avrebbe causato, mettendosi di traverso alla sua gestione della procura, il capo parla della vicenda del doppio pedinamento. Contro il suo aggiunto ribelle Bruti denuncia molto altro, sostenendo di non aver potuto dire tutto nell'audizione a Roma del 15 aprile, perché allora l'indagine sull'Expo era ancora coperta dal segreto. Il procuratore sostiene infatti che, inviando il mese scorso al Csm copie di atti di questo procedimento, ancora «in delicatissima fase di indagine», Robledo «ha posto a grave rischio il segreto delle indagini». Ma l'aggiunto controbatte, su tutta la linea. Palazzo de' Marescialli deve ora valutare la fondatezza delle accuse di Robledo e delle controaccuse di Bruti Liberati. Per il primo, il procuratore avrebbe affidato troppe inchieste politicamente delicate (a cominciare da quella Ruby) a pm come la Boccassini e Francesco Greco, non per competenza ma perché li riteneva più fidati. Da notare, che Bruti Liberati è uno degli storici esponenti della corrente di sinistra Magistratura democratica, mentre Robledo è vicino a Magistratura indipendente. E proprio da Magistratura indipendente è arrivata la richiesta di un'ispezione. A farla il togato Antonello Racanelli, nel corso del plenum del Csm alla presenza del Guardasigilli Andrea Orlando. Il ministro ha replicato dicendo di attendere le decisioni del Csm per decidere. «Il quadro ormai è chiaro - racconta un consigliere di una delle commissioni interessate, la prima (incompatibilità ambientale e funzionale) e la settima (organizzazione degli uffici) - non ci dovrebbero essere altre audizioni». Il procuratore capo Bruti, che a luglio termina il suo incarico, dopo questo scontro clamoroso difficilmente potrà essere confermato alla guida dell'ufficio di Milano. Ma per lui, anche se la vicenda al Csm si chiude senza conseguenze, potrebbe profilarsi un'indagine disciplinare. In particolare, sulla vicenda del fascicolo Sea-Gamberale, dimenticato dal procuratore in cassaforte, come lui stesso ha ammesso. Ma anche per il suo vice Robledo potrebbero esserci conseguenze, perché anche se il suo comportamento fosse ritenuto «incolpevole», ci potrebbe essere all'orizzonte un trasferimento per incompatibilità con i colleghi dell'ufficio.

Ed ancora. «Incompatibilità ambientale» Via da Milano il pm Esposito, scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. Stop come pm e via dalla Procura di Milano: la sezione disciplinare del Csm ha deciso in via cautelare il trasferimento a Torino di Ferdinando Esposito per «incompatibilità ambientale» (con la sede giudiziaria di Milano) e «funzionale» (con il ruolo inquirente) del pm della Procura di Milano, nipote dell?ex procuratore generale della Cassazione (Vitaliano) e figlio del magistrato (Antonio) che in Cassazione nell?estate 2013 presiedette il collegio di 5 giudici che condannarono Silvio Berlusconi per frode fiscale Mediaset. Tra i capi di «incolpazione» disciplinare (per cui ora proseguirà il procedimento di merito) c?erano la disponibilità per quasi 4 anni di un attico per il quale circa 150.000 euro di affitto furono saldati dalla società di un manager e da un banchiere all?epoca inquisito dalla Procura di Milano; i rapporti con l?avvocato ed ex amico Michele Morenghi, per i quali il pm è al momento indagato a Brescia; prestiti di denaro da più persone, tra le quali un consulente proposto a un collega pm; e la storia del bigliettino dato durante le indagini a questo collega pm per chiedergli «inventiamoci qualcosa?è una cazzata ma è importante che le versioni coincidano». Esposito impugnerà il trasferimento cautelare disciplinare alle Sezioni Unite civili della Cassazione.

IN MEMORIA DI RENATO ALTISSIMO: L’INGANNO DI TANGENTOPOLI.

Addio a Renato Altissimo, fu il volto del Pli durante la Prima Repubblica.

17 aprile 2015. Si è spento a 75 anni a Roma l’ex segretario del Partito Liberale Italiano. Più volte ministro con Cossiga, Spadolini, Craxi e Fanfani, scrive “Il Corriere della Sera”. È morto dopo una lunga malattia l’ex segretario del Partito Liberale italiano, Renato Altissimo. Più volte ministro e deputato, era ricoverato all’Ospedale Gemelli di Roma. Del Pli fu segretario dal congresso di Genova del maggio 1986 alle dimissioni del maggio 1993. Fu più volte ministro: della Sanità nel Governo Cossiga I, nei Governi Spadolini I e II, nel Governo Fanfani V, Ministro dell’Industria nel Governo Craxi I, tra il 1983 e il 1986. All’esplodere di Tangentopoli, per qualche periodo potè sbandierare un singolare record: quello di essere l’unico segretario dell’allora «pentapartito» - ovvero i governi formati da una coalizione composta da Dc, Psi, Pri, Psdi e appunto Pli - a non essere indagato. Da Forlani a Craxi, tutti gli altri erano stati raggiunti da avvisi di garanzia.

Il Pli e quel record di pochi mesi: nessun indagato in Mani Pulite. Mentre la Prima Repubblica franava travolta dal ciclone di Mani Pulite, Altissimo ebbe buon gioco nel mostrare, solitario, il vessillo immacolato della «questione morale» sventolato dal Pli. Ma il primato però durò poco meno di un anno: il 15 marzo 1993 anche il nome del leader liberale finì nelle carte giudiziarie della procura di Milano. Il 4 dicembre 1993 Altissimo ammette in conferenza stampa (in effetti tutti gli altri leader di partito fecero la medesima ammissione soltanto in tribunale) di aver ricevuto denaro in maniera illecita, 200 milioni di lire in contanti. Imputato poi nel processo per la maxi tangente Enimont, è stato definitivamente condannato per finanziamento illecito ad 8 mesi nel giugno 1998. Dopo la condanna, Altissimo sostanzialmente sparì dalla scena politica. Piemontese, figlio di industriali (per un certo periodo fu anche vicepresidente di Confindustria, la sua attività era nell’indotto Fiat) all’ex segretario Pli (sovente assai abbronzato, sovente sorridente) era accostata la parola «galantuomo», forse perchè - salvo l’inciampo di Tangentopoli - il suo nome non venne mai associato a scandali e a pratiche di lottizzazione. Fama (anche) di seduttore e viveur: nelle foto pre-tangentopoli lo si vedeva sempre accanto a bellissime donne. E con De Michelis (altro ministro-viveur) lo si vedeva a quel «Tartarughino» che fu un buen retiro serale, a Roma, per diversi esponenti della Prima Repubblica. Altissimo era ricoverato al Gemelli da diverse settimane per numerosi problemi cardiaci e respiratori che si sono aggravati progressivamente ed estesi ad altri organi, tanto da far decidere ai sanitari, negli ultimi giorni, il suo trasferimento al centro di rianimazione a causa di una progressiva insufficienza multi-organo che lo ha portato alla morte.

Con Altissimo muore il sogno di noi giovani liberali. Lo storico segretario Pli fu il primo a capire la modernità e le intuizioni di Craxi, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa che per prima colpiva noi giovani liberali, spesso neanche maggiorenni, di Renato Altissimo era la sua abbronzatura. Ma era, appunto, solo la prima impressione. Due sere fa è mancato. E per chi alla fine degli anni 80 ha creduto nel Partito liberale, questa scomparsa rappresenta una botta. Altissimo per noi giovani della Gli (così si chiamavano gli under 26 iscritti al Partito liberale pre-Mani pulite) è stato il segretario. Chi ha passato qualche anno della propria vita a via Frattina, la sede storica del Pli, sapeva che Altissimo era sempre lì. A due passi sempre vicino a lui Luca De Martino, al piano di sotto lo stanzone della direzione, di fronte gli uffici dei funzionari e quello di Camillo Ricci, la sua ombra stampa. E ancora un piano più sotto Gregorio Fontana che ieri, come oggi, si occupava di organizzazione interna del partito. Renato Altissimo doveva fare i conti con il partito più storico della Prima repubblica, con la sua proverbiale litigiosità, ma al contempo si era circondato di giovani ragazzi, che in quella organizzazione innestavano linfa vitale. Poi è arrivata Mani pulite: si pensava di esserne fuori. E poi le indagini su de Lorenzo, e la crisi e il congresso che vide prevalere Raffaele Costa. Altissimo per noi giovani liberali, se ancora non lo aveste capito, era qualcosa di più di un leader politico. Anche in quelle ore veramente drammatiche, in cui perdemmo la nostra verginità, non riuscivamo a farne una colpa ad Altissimo. Con le sue sigarette, la sua perenne tazza di caffè americano in mano, i suoi week end in Costa azzurra, alla fine Renato era sempre e comunque uno di noi. Gli piaceva il nostro partito, gli ha dedicato la sua vita, almeno quella che ho conosciuto. Era appassionato come può esserlo un liberale, che mantiene sempre quell'arietta blasé di chi ha vissuto ben altro. Sì certo, per noi destri liberali era troppo social , troppo affascinato dall'aura di Craxi. Ma con il senno di poi, aveva forse torto? Era quello un brandello di modernità, sia pure arrogante, per tratti marcia, che comunque Renato aveva intuito e ben compreso. Amava le imprese, anzi l'industria da cui per storia familiare proveniva. La conosceva nelle sue viscere e ci parlava da pari a pari. Quanto più lontano si possa immaginare dall'aristocratico snobismo di un Malagodi, ma al tempo stesso il migliore testimone di quella tradizione. Il Pli finisce con Mani pulite. Per molti di noi ha cessato di esistere un paio di sere fa al Gemelli di Roma.

Morto Renato Altissimo, volto e anima dei liberali della prima Repubblica, scrive Matteo Basile su “Il Giornale”. L'ultimo messaggio lo ha affidato a Twitter lo scorso 22 febbraio 2015: «Sono abbastanza curioso di vedere 1992. Vediamo se per la prima volta ci sarà una ricostruzione obiettiva di Tangentopoli». Difficilmente Renato Altissimo sarà rimasto soddisfatto perché la serie tv di fedele alla storia ha ben poco. L'ex storico segretario del partito liberale è scomparso ieri a al Policlinico Gemelli di Roma prima di assistere alla fine della fiction su una delle pagine più controverse della storia d'Italia. Una pagina che lo ha visto protagonista. Come protagonista Altissimo è stato, tra luci e ombre, della vita politica del nostro Paese degli ultimi 30 anni. Altissimo è stato esponente di spicco del Partito liberale italiano, del quale è stato segretario dal 1986 fino alle dimissioni del maggio 1993, travolto da Tangentopoli, e dopo essere stato più volte ministro. Alla Sanità, nel primo governo guidato da Cossiga e nei Governi Spadolini e Fanfani, poi ministro dell'Industria con Craxi tra il 1983 e il 1986. Una carriera sempre in prima fila, fino allo scandalo tangenti. Il 15 marzo 1993 riceve alcuni avvisi di garanzia e dopo due mesi ammette di aver ricevuto denaro in maniera illecita: 200 milioni di lire in contanti. Imputato nel processo per la maxi tangente Enimont, è stato condannato ad 8 mesi nel giugno 1998. Ma la passione per la politica non lo ha mai abbandonato. Nel 2004 entra nel nuovo Partito Liberale Italiano e si schiera nel Centrodestra, con cui si candida nel 2006 senza essere eletto. Nel 2011 entra nel Consiglio nazionale del Pli e lo scorso anno, poco prima delle elezioni europee, insieme agli storici amici e compagni di partito Alfredo Biondi e Carlo Scognamiglio fonda «I Liberali» con l'obiettivo da lui stesso dichiarato di «Rifondare un'Italia liberale». Quei Liberali che pochi minuti dopo la notizia della sua scomparsa lo hanno ricordato così: «Addio, e grazie a Renato Altissimo, oggi i liberali italiani perdono una colonna della loro storia».

Etica e diritti Vademecum per la famiglia dei liberali, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. M a i liberali tifano per il Brasile o per la Germania? Lo chiedo dopo aver visto l'abuso di liberalismo per giustificare tutto e tutti, cani e porci. Non solo il trionfo dei porci comodi e l'individualismo più sfrenato, ma anche il gay pride, l'animalismo e gli uteri in affitto, le droghe (ma leggere, mi raccomando) e i figli artificiali (ma non più di dieci a testa, mi raccomando). Tutto nel nome della civiltà liberale, compresa la scomparsa della civiltà. Eppure io sapevo che il liberalismo non ha una vocazione totalitaria, è anzi il pensiero fondato sulla limitazione dei poteri, si ferma alle soglie dell'ambito privato, vigila per evitare le ingerenze dello Stato e tutela la libertà, compresa la libertà d'opinione, rifiutando di concepire reati ideologici. In tema di omosex, ad esempio, sarebbe più liberale auspicare la privatizzazione del sesso e non la sua esibizione pubblica e la sua copertura governativa, la sanzione speciale e penale del sacrilegio di lesa omosessualità e la sua centralità politica, sociale e istituzionale. Sei gay, sono fatti tuoi. Nessuno ti impedisce di esserlo, dice il liberale, e se ledono i tuoi diritti c'è la legge ordinaria a difenderti come tutti i cittadini; ma da qui a fare cortei con sindaci e ministri, innalzare l'omosessualità a programma parlamentare, chiedere la statalizzazione (...)(...) della gayezza, la sua tutela a norma di legge come per i beni artistici, reclamare lo stravolgimento della realtà e della natura, confondere unioni gay con famiglie, ce ne corre. E poi ci sono liberali e liberali. Si può essere liberali e conservatori, liberali e patrioti, come furono i grandi liberali italiani, risorgimentali e continentali, e si può essere liberal e progressisti, liberal e internazionalisti, come furono in gran parte gli angloamericani. Se non mi sono distratto nel frattempo, Il Giornale rientra nella prima specie, sin dai tempi di Montanelli. La «e» dopo liberal conta molto, e conta molto pure la congiunzione che ne segue: visto che tutti si definiscono liberali, e dunque non è un segno distintivo, mi dite poi che altro siete oltre che liberali? Non vorrei che si usasse la definizione di liberale per coprire il fallimento sui veri temi liberali: visto che non si abbassa la pressione fiscale, non si sfoltiscono le leggi e i vincoli, non si smette di vessare i cittadini e non si riconosce la libertà come responsabilità e intreccio di diritti e di doveri, allora usiamo la scorciatoia variopinta di applicare il liberalismo monodose, uso individuale, in casa e da passeggio, col gatto, la provetta e il gay. Mi sembra la sorte parallela a quella della sinistra che, avendo smesso di fare la lotta di classe e di tutelare i proletari (con prole) e avendo accettato il dominio del capitalismo, risarcisce il gentile pubblico col liberalismo domestico o da sfilata, quello della libertà individuale di sesso, transgenia, droga, morte e migrazione. L'argomento che usano ambedue è lo stesso: ma se lui è gay a te che importa, mica tocca la tua famiglia e la tua vita. Ma avete mai sentito dire che c'è una differenza tra sfera pubblica e sfera privata, c'è una differenza tra due che insieme fanno figli e due omosessuali e la prima dicesi famiglia, la seconda è unione; c'è differenza tra padre e madre, c'è differenza tra persone e animali (voi direte, a vantaggio degli animali e sulla battuta ci sto anch'io, ma si dà il caso che siamo uomini; e fino a che i codici non li scriveranno i cani, nella gerarchia degli esseri gli uomini vengono prima degli animali)? Non dobbiamo tener conto di queste differenze? Avete mai sentito parlare di civiltà, sapete che cos'è una comunità, famigliare o civica? Beh, la civiltà, come le comunità, ha un ambito privato e un altro in cui interagisci con gli altri, ti connetti a un tessuto comune e rispetti linguaggi comuni, costumi, tradizioni, principi condivisi. E poi non conta nulla educare le giovani generazioni, indicare priorità, modelli di vita e beni comuni? E tu, che liberale sei? Mi chiederete. No, io non pretendo di essere liberale, per me la libertà è un mezzo e non un fine, è come l'ossigeno che mi fa vivere, ma non posso avere come ideale di vita l'ossigeno. La libertà è una condizione preliminare, una necessità, e perciò va difesa; ma diventa un valore nell'uso e nei frutti. Non sono liberale ma ho preso lezioni anche dai grandi liberali, a cominciare dai classici che per me sono Tocqueville, Ortega, Berlin e Aron e da noi Cuoco, i risorgimentali, Croce, Pareto, Mosca, Panfilo Gentile e Prezzolini. E non giocando da liberale mi permetto di fare il guardalinee. Non dimenticate che i liberali veri sono sempre stati una piccola, rispettabile minoranza; l'unico partito liberale di Massa era una sezione del Pli nell'omonimo comune. Per diventare popolare, il liberale deve coniugarsi a qualcos'altro, quella «e» famosa che gli dà sostanza e contenuti. Sapete poi che se vi definite liberali e moderati non avete opposto nulla al renzismo? Poteva servire con estremisti e comunisti, non con lui...Tornando a noi, se anche da queste colonne ripetiamo a scoppio ritardato quel che dicono tutti gli altri giornali su gay, sesso, droga, animali, genetica e via dicendo, se ci accodiamo al coro del politically correct, perché dovrebbero preferirci, leggerci e comprarci? Ricordatevi le leggi di mercato, cari liberali. Sono inesorabili e voi dovreste saperlo più di me.

Addio ad Altissimo, ex segretario del Pli. Leader dei liberali, è stato più volte ministro. Morto dopo una lunga malattia, scrive “La Stampa”. «Sono abbastanza curioso di vedere “1992”. Vediamo se per la prima volta ci sarà una ricostruzione obiettiva di Tangentopoli». Così, poco meno di due mesi fa e prima di essere ricoverato al Gemelli di Roma dove è morto questa sera, Renato Altissimo si soffermava via Twitter sulla celebre serie trasmessa qualche giorno fa su Sky e incentrata su una delle vicende chiave della biografia di un pilastro del Partito Liberale Italiano, lo scandalo delle mazzette che rivoluzionò la politica 25 anni fa. Altissimo fu, tra l’altro, deputato in ben cinque legislature e più volte ministro: Nel governo Cossiga I, nei governi Spadolini I e II e nel governo Fanfani V da titolare della Sanità, nel governo Craxi I da responsabile dell’Industria. Celebre anche per essere un “viveur” e un assiduo frequentatore delle notti romane - in particolare di quel “Tartarughino” che fu un buen retiro serale per diversi esponenti della Prima Repubblica - Altissimo, volto abbronzato, fronte ampia e immancabile basettone, fu travolto, come tanti altri, dal principale processo giudiziario di Mani Pulite, l’inchiesta sulla maxitangente Enimont. Lo scandalo delle mazzette da 150 miliardi non travolse solo Altissimo coinvolgendo nomi celebri come La Malfa o Forlani e sotterrando, di fatto, il Pli. Altissimo fu, tra l’altro, deputato in ben cinque legislature e più volte ministro: Nel governo Cossiga I, nei governi Spadolini I e II e nel governo Fanfani V da titolare della Sanità, nel governo Craxi I da responsabile dell’Industria. Celebre anche per essere un “viveur” e un assiduo frequentatore delle notti romane - in particolare di quel “Tartarughino” che fu un buen retiro serale per diversi esponenti della Prima Repubblica - Altissimo, volto abbronzato, fronte ampia e immancabile basettone, fu travolto, come tanti altri, dal principale processo giudiziario di Mani Pulite, l’inchiesta sulla maxitangente Enimont. Lo scandalo delle mazzette da 150 miliardi non travolse solo Altissimo coinvolgendo nomi celebri come La Malfa o Forlani e sotterrando, di fatto, il Pli. Altissimo, che nel 1993 ammise di aver ricevuto diversi milioni in maniera illecita, fu definitivamente condannato a 8 mesi nel 1998. Venti anni dopo, con un libro scritto a quattro mani con Gaetano Pedullà e pubblicato nel 2012 tornerà su quegli anni raccontando le sue verità ed inediti retroscena sotto un titolo che non lasciava spazio a dubbi: «L’inganno di Tangentopoli». Il suo percorso politico, però, non si concluse. Nel 2014, tornava infatti sulla scena con “I Liberali”, movimento che, promuovendo il rilancio dell’economia e un’accelerazione sulle privatizzazioni, raggruppa, tra gli altri, alcuni pilastri del liberalismo italiano come Alfredo Biondi o Carlo Scognamiglio. E, fino a oggi, Renato Altissimo.  

Gli ex della prima Repubblica. RENATO ALTISSIMO: “Silvio adesso si lamenta ma fu lui a esaltare le toghe”. L’ex segretario del Pli: “E’ l’Italia più illiberale che si sia mai vista”. Ricordi e giudizi, scrive Giovanni Cerruti su “La Stampa”. La risata è sempre la stessa, l’abbronzatura anche. «E poi dicevano di noi, che le notti della Prima Repubblica andavamo al Tartarughino... ». Di anni ne son passati quasi venti, le sigarette sono un ricordo e il bicchiere è sempre mezzo pieno, ma è acqua minerale. Le vetrate di Villa Floreana guardano un mare che ha il colore delle nuvole, roba da pomeriggio in depressione. E invece basta un nome, Ruby, e Renato Altissimo si eccita. «Ruby! Il premier rischia di saltare per Ruby! Non lo mandano via perché si è fatto gli affari suoi. No, per Ruby! E il benservito arriva dalla magistratura, non dalla politica! Come per noi nel 1992». Ruby, e all’ultimo segretario del Partito Liberale passa la voglia di ridere e monta la rabbia. «Ma che Paese è diventato il mio Paese? E’ l’Italia più illiberale che abbia mai conosciuto». Sarà per questo che Altissimo, ora che è nonno e si avvicina ai 71 anni, l’altra settimana ha ripreso la tessera del suo partito. «A questa età mi restano due passioni: le belle donne che non mi filano più e la politica che è sparita». Dal ’94 abita tra Londra e questa villa di famiglia. «Ma adesso voglio tornare a Roma a cercare la politica, la bella politica. La rovina dell’Italia non è il bunga bunga, è la politica che non fa più niente». E’ stato quattro volte ministro della Sanità, una dell’Industria, segretario del Pli fino al maggio del ’92. Ha visto cadere la Prima Repubblica, pure a lui sono arrivati avvisi di garanzia, ben 19, e gli è rimasta addosso una condanna piccola e fastidiosa, 8 mesi per un finanziamento di 200 milioni di lire da Montedison. «Sulla magistratura potrei raccontare cose che voi umani nemmeno immaginate. Mi dicono: dài, appena otto mesi, non ci pensare. E io ci penso, perché sono una persona perbene: per pagare le quattordicesime agli impiegati del partito andavo a prelevare i soldi dal conto corrente di mia madre». Mai stato un bacchettone, né un moralista sulle disgrazie altrui. «Andavo al “Tartarughino”, il piano bar dietro piazza Navona. Quante me ne hanno dette per un paio di bicchieri di whisky». Altra epoca. Le cronache mondane, anche le più pettegole, si fermavano sul portoncino. «C’erano belle donne, certo. E tiravamo tardi cantando le canzoni di Sanremo con il duo Antonio&Marcello al piano, sai che peccaminosa trasgressione». Adesso, invece? «Ma adesso invece cosa? Si scopre il filone politica e sesso? E tutti i film degli Anni 70 della serie “All’onorevole piace la gnocca” ve li siete dimenticati?». Sta scrivendo un libro. «Perché voglio che i miei nipoti sappiano che il nonno è stato una persona perbene. E sappiano che la Prima Repubblica è stata ammazzata, che c’è stato un “golpe”, che hanno colpito noi del Pentapartito e salvato ex comunisti, la sinistra Dc di De Mita e quel Msi che campava d’aria, d’amore e lasciti di vedove. Noi vittime della “dittatura della magistratura”, secondo il senatore di sinistra Giovanni Pellegrino. Il risultato è che si è infilato Silvio e in questi anni, senza la politica, c’è stato il “Sacco d’Italia”: l’hanno spogliata e spolpata tutta, Telecom, Autostrade, banche...». Di questo, dopo quasi vent’anni di silenzio, di isolamento volontario, di ritorno agli affari di famiglia, vorrebbe parlare Altissimo. Ma dall’Italia non c’è giorno che non arrivi una nuova puntata di cronaca giudiziaria, con Berlusconi che sembra sempre più in affanno. «Mi capita spesso di pensare ai nostri anni, e alla fine di Bettino Craxi. Perché c’erano anche le telecamere di Mediaset fuori dall’hotel Raphaël, a riprendere quelli che tiravano le monetine a Bettino. E le tv di Silvio ci davano dentro con gli evviva ai magistrati. Oggi lui si lamenta e paga: sono state anche le sue tv a inaugurare tutto questo scempio». L’ha conosciuto bene, il Cavaliere. Nella Roma dei primi Anni 90, alle colazioni del mercoledì con Fedele Confalonieri e Gianni Letta in via dell’Anima, Renato Altissimo aveva un posto fisso. «Ci ha aiutato, non lo dimentico. Gli spot elettorali del Partito Liberale sulle sue reti erano gratis. Ci avesse dato mozzarelle e le avessimo rivendute, negli anni di Tangentopoli saremmo finiti in galera». Ma il Berlusconi politico non l’ha mai convinto. «Con questa legge elettorale, poi, che ammazza la politica: il mio labrador si chiama Kim e lo consiglierei per il Senato: è meno ingombrante di un cavallo, non tradisce e non manda sms». A vent’anni, lui veneto di Portogruaro, ha cominciato a imparare il dialetto piemontese battendo circoli e bocciofile attorno a Torino, a cercare iscritti per il suo Pli. «Ecco perché non mi piace l’Italia di oggi e sono convinto che sia giusto tornare. Perché non c’è la politica, non c’è la passione, non ci sono idee. La Prima Repubblica non è caduta perché erano tutti una massa di ladroni, ma perché la “dittatura della magistratura” ha voluto distruggere e Silvio è stato svelto ad approfittarne. Io ero un giovane ricco che con la politica si è impoverito, e dei miei colleghi di allora nessuno vive da nababbo». L’Italia è vicina, i giornali arrivano, la tv è sempre accesa, il computer anche. Da Londra o Cap Ferrat non si è perso una puntata delle ultime su Berlusconi. E per il vecchio amico non riesce a prevedere un radioso futuro. «Se si dimette si arrende alla magistratura, se resta è uno sfregio alle istituzioni, dipendesse da lui e dai suoi resterebbe lì tutta la vita. Forse dovrebbe andare a elezioni anticipate: “Voglio riformare questa Repubblica Giudiziaria - potrebbe dire -, poi tolgo il disturbo e vado a occuparmi dei miei affari e delle mie Ruby”. E se ogni tanto volesse invitare quelli che andavano al Tartarughino...». Quegli applausi alle toghe«C’erano anche le tv del Cavaliere a riprendere quelli che tiravano le monetine a Bettino. E ci davano dentro con gli evviva ai magistrati, inaugurando tutto questo scempio»Se questa è politica...«Il premier rischia di saltare per Ruby! Non lo mandano via perché si è fatto gli affari suoi. No, per Ruby! E il benservito arriva dalla magistratura! Come per noi nel 1992»Tangentopoli insegna«La Prima Repubblica è stata ammazzata, c’è stato un "golpe", hanno colpito noi del Pentapartito e salvato ex comunisti, la sinistra Dc di De Mita e il Msi».

Le verità di Altissimo «Mi chiesero il 5% per pagare il Pci», scrive Fabrizio Boschi su  “Il Giornale”. Lui sa cose che in pochi sanno, e soprattutto, ha visto cose che in pochissimi in Italia avrebbero il coraggio di raccontare. Non solo l'ex leader del partito Liberale, Renato Altissimo oggi le racconta, nero su bianco. È uscito il suo libro intervista con l'ex direttore del Tempo, Gaetano Pedullà L'inganno di Tangentopoli (Marsilio, prefazione di Giuliano Ferrara), che a vent'anni da Mani Pulite, smaschera politici e imprenditori complici di quella diabolica macchina raccatta soldi. Altissimo (oggi 72enne), esce allo scoperto e apre gli armadi della vergogna, tirando fuori tutti gli scheletri possibili. Quando politici e manager «trattenevano» per loro le mazzette, quando negli affari tra l'Italia e i paesi ex Urss una quota era destinata al Pci, quando Cuccia invitò Craxi a guidare una «rivoluzione», portando al governo la sinistra socialista e comunista, marginalizzando la Dc: Craxi rifiutò e venne abbattuto. Il più volte ministro svela inediti retroscena di quella stagione buia della storia d'Italia di cui Dagospia ha pubblicato alcune anticipazioni. Bombe a ripetizione. Negli anni Settanta, quando lavorava nell'azienda di famiglia, la Altissimo, che produceva fanaleria per auto, ricevette una visita. «Mi contattò un tale ragionier Bianchi, a nome di una azienda di import-export di Milano, che mi propose di entrare nel mercato jugoslavo. Ma per farlo dovevamo versare il 5% su un conto in Svizzera del Partito comunista italiano». Poi c'erano le «creste di Tangentopoli». «Eravamo vicini alle elezioni del '92 e andai al gruppo industriale Sama. Mi consegnarono una valigetta dicendomi che era un contributo per la campagna elettorale del Pli. Fui poi condannato per aver preso 200 milioni di lire, ma in quella valigetta c'era molto meno. Qualcuno aveva fatto la cresta persino sui soldi destinati al finanziamento della politica». Nel marzo '93, dopo l'avviso di garanzia, Altissimo racconta di aver chiamato l'allora direttore della Stampa, Ezio Mauro, per replicare nelle sue pagine. «Non mi faccia perdere tempo - fu la risposta - non c'è niente da spiegare. I soldi li ha presi o no?». Poco dopo la sua nomina alla Stampa, Altissimo ne parlò con Agnelli. «Come mai - gli chiese - avete messo un filocomunista al timone del giornale di Torino?». «Perché un comunista in redazione val bene la pace in fabbrica», rispose l'avvocato. Da ministro dell'Industria (con Craxi), conobbe l'ad della Heinz, produttrice del famoso Ketchup, che voleva comprare la Sme, sotto il controllo pubblico, per circa 3.500 miliardi di lire. «Feci presente questo interesse a Prodi, allora presidente dell'Iri, a cui faceva capo la Sme». Ma lui si mise a ridere: «Mi rivelò che la Sme era zeppa di liquidità e l'Iri non avrebbe mai potuto venderla». Qualche mese dopo Altissimo ricevette una telefonata dell'ingegner De Benedetti. «Renato, volevo informarti che abbiamo concluso ieri l'acquisto della Sme». Era stata venduta per soli 497 miliardi, pagabili in cinque anni. E Prodi? «Fu lui a telefonarmi - racconta Altissimo nel libro - "Renatino, volevo dirti che ho venduto la Sme. Sarai contento finalmente". Gli chiesi come mai era stata venduta a sette volte meno il suo valore, mentre c'erano soggetti pronti a offrire di più. "Perché De Benedetti ha un taglietto sul pisello che altri non hanno", fu la risposta di Prodi, alludendo a pressioni di consorterie ebraiche».

L' inganno di Tangentopoli. Dialogo sull'Italia...Anche questa era Tangentopoli. Recensione di Giovanni Basile. Gira e rigira l’argomento Tangentopoli tira comunque in libreria, forse perché mai passato di moda. Per come vanno le cose al momento, viene spontaneo il trito e ritrito “si stava meglio quando si stava peggio”: ieri si arraffava per il partito, oggi per se stessi. I politici targati Prima repubblica avevano quanto meno più spessore culturale e competenza in confronto ai correnti nani, ballerine, veline, imbucati, improvvisati e mangioni di ogni risma proliferanti a livello nazionale e locale. In questo libro intervista a Renato Altissimo si ripercorre lo scandalo delle tangenti proprio da chi ha sbagliato: qualche avviso di garanzia per finanziamento illecito al partito e successiva condanna. Altissimo, già segretario del glorioso Partito Liberale Italiano - oggi vive a Londra -, era quel politico che in televisione vedevi sempre in forma smagliante, fisico asciutto, perenne abbronzatura, uno insomma dall’aria di sapersi godere la vita. Ex manager nel settore industriale, varie volte deputato e ministro, Altissimo snocciola la propria versione su Mani Pulite: racconto di parte, il suo, ma lucido e significativo. Dopo il crollo del muro di Berlino, la magistratura avrebbe avuto mano libera nell’inchiodare alle proprie responsabilità i partiti di allora, usciti distrutti ad eccezione di Msi e Pci: il primo in quanto fuori dall’ arco costituzionale e, quindi, dai giochi di potere; il secondo perché di struttura così bene organizzata da rendere difficile provare l’esistenza di finanziamenti illeciti e corruzioni. Parte della magistratura avrebbe tenuto un orientamento più morbido verso Botteghe Oscure, rispetto alle altre forze politiche coinvolte nello scandalo. La discesa in campo del Cavaliere di Arcore avrebbe ribaltato le aspettative della gioiosa macchina da guerra occhettiana, pronta a prendere le briglie del potere per manifesta dissolvenza di democristiani e socialisti, alle prese con avvisi di garanzia e manette. Tesi, queste, dal sapore revisionista ma con qualche fondamento, forse, da non scartare a priori. Chissà: la Storia fornirà un giorno le risposte. Senza alcun dubbio, quella classe politica non può però certo passare per vittima sacrificale di giudici prevenuti e in malafede: di degrado e fanghiglia da scoprire ce n’erano eccome, e questa è ormai verità giudiziaria. Un intero assetto istituzionale, stratificato a più livelli, pur con differenti gradazioni di responsabilità, era comunque contaminato dal sistematico ricorso alla corruzione in tutte le sue forme - soprattutto attraverso le cosiddette “dazioni di danaro” con cui i partiti si finanziavano. Gaetano Pedullà intervista l’ex segretario PLI con domande ficcanti, il quale non nasconde le responsabilità avute in quella vicenda. Il dialogo rivela fatti poco edificanti, intrecci, collusioni e qualche innegabile strumentalizzazione dietro quella clamorosa inchiesta. Purtroppo, il bubbone, a distanza di vent’anni, sembra tutt’altro che sanato: anzi, le cronache degli ultimi mesi dicono che niente è cambiato, se non addirittura peggiorato. Non meno interessante, argomentata, partigiana, è l’introduzione del rissoso Giuliano Ferrara. Forza e coraggio, allora: queste pagine provocanti sul nostro recente passato meritano attenzione.

Altissimo Renato; Pedullà Gaetano - L' inganno di Tangentopoli. Dialogo sull'Italia...Dopo aver messo "l'Italia in esilio" per un finanziamento al partito che gli è costato una condanna nell'inchiesta di Mani pulite, da Nizza e da Londra, dove vive, Renato Altissimo non ha mai smesso di osservare con attenzione le vicende italiane. Mai prima d'ora, però, aveva sentito così vicino il clima cupo di quegli anni, tanto da voler rendere pubblica in questo libro-intervista con Gaetano Pedullà una dettagliata, quanto scomoda, testimonianza diretta, per capire fino in fondo quella stagione e non ricadere negli stessi errori. Se è vero che la storia è scritta dai vincitori, infatti, Tangentopoli rischia di restare una vicenda senza storia. Non solo perché a vent'anni di distanza i vizi dell'Italia sono sempre gli stessi, la corruzione è diffusa, il debito pubblico ha toccato vette inesplorate e il vento dell'antipolitica ha svuotato di potere istituzioni e democrazia. Se a questo si aggiungono l'indignazione ancora percepibile in gran parte del Paese e il camaleontismo di chi ha tratto grandissimi benefici da quella stagione, ecco che diventa difficile trasferire i fatti di allora dalle pagine della cronaca a quelle della storia. Un compito arduo quanto doveroso, perché senza determinarne gli anticorpi, presto o tardi potremmo trovarci a dover fare i conti con una nuova Tangentopoli, persino più dirompente di vent'anni fa. Prefazione di Giuliano Ferrara.

Bombastico libro intervista dell'ex leader del Partito liberale Renato Altissimo con il giornalista Gaetano Pedullà, dal 27 giugno in libreria, scrive “Dagospia”. A vent'anni da Mani Pulite, "L'inganno di Tangentopoli", edito da Marsilio, svela inediti retroscena di quella stagione, ancora oggi di concertante attualità per le analogie con il virus della corruzione, la debolezza della classe politica, la "facile soluzione" di svendere pezzi dello Stato per uscire dalla crisi. Eccone alcune anticipazioni.

RENATO ALTISSIMO. TANGENTI AL PCI, UN FIUME DA MOSCA. Qui racconto per la prima volta una storia che mi vide personalmente coinvolto non come esponente politico, ma come imprenditore. Negli anni settanta lavoravo nell'azienda di famiglia, la Altissimo, una delle società leader in Europa nella produzione di fanaleria per auto. Un giorno fui contattato da un tale ragionier Bianchi, a nome di una piccola azienda di import/export di Milano, che mi chiese un appuntamento e mi venne a proporre di entrare nel mercato jugoslavo. Nel Paese di Tito c'era un importante produttore di auto (su licenza Fiat), la Zastava, di cui avevamo tentato più volte di diventare fornitori. Sempre però senza successo. Il ragionier Bianchi pose subito in chiaro le cose. Se volevamo lavorare con quella azienda c'era solo un modo: il 3% delle commesse andava versato su un conto svizzero intestato ad alcune persone che avrei dovuto incontrare in Jugoslavia; il 2% andava alla società del ragionier Bianchi e un altro 5% su un altro conto, pure questo in Svizzera, di pertinenza del partito. Quale partito? Il ragionier Bianchi mi disse candidamente: Partito comunista italiano. Mi sembrò incredibile. E per verificare che il mio interlocutore dicesse il vero andai personalmente a Belgrado per incontrare i generali che avrebbero potuto consentire quell'affare. Ogni dettaglio dell'offerta era vero. Questo episodio, seppur minimo, testimonia come su tutto quanto veniva intermediato tra l'Italia e i Paesi ex sovietici c'era da accantonare una quota per il Pci. E siccome parliamo di Paesi ricchi di materie prime, a cominciare da gas ed energia, è chiaro che di soldi dovevano arrivarne tanti.

LA "CRESTA" SU TANGENTOPOLI. C'erano in vista le elezioni del 1992 e andai a trovare Sama - come era d'uso con i vertici dei grandi gruppi industriali - per presentargli il programma del mio partito, soprattutto sulla politica economica. Lui mi trattenne pochissimo, mostrandosi poco interessato al programma, ma accompagnandomi cordialmente alla porta del suo ufficio mi consegnò una valigetta dicendomi che era un contributo per la prossima campagna elettorale del Pli. Appena rientrato a Torino consegnai la valigetta al funzionario del partito che si occupava dell'amministrazione dei fondi elettorali. Tempo dopo, al processo fui chiamato a rispondere per questo finanziamento e condannato per aver preso 200 milioni di lire. Anche se in realtà in quella valigetta non c'erano tutti quei soldi. Che vuol dire? Quanto c'era davvero in quella valigetta? C'erano 150 milioni di lire. Al processo però non lo rivelai perché non volevo mettere in difficoltà il funzionario del mio partito, che avrebbe potuto essere accusato di aver preso per sé una parte della somma. Dunque, lei rivelò al processo di aver ricevuto 200 milioni di lire, ma nella valigetta ce n'erano solo 150. Come mai? Qualcuno aveva fatto la cresta persino sui soldi destinati al finanziamento della politica? È la spiegazione più plausibile. D'altra parte, poi ho scoperto che questo era un comportamento diffuso. Se c'erano i politici che trattenevano per sé una parte o la totalità dei soldi che intascavano, c'erano anche manager o funzionari delle imprese che allo stesso modo approfittarono di quell'andazzo, tenendo per sé qualche mazzetta. Con i soldi che arrivavano, che ci facevano i partiti? I dirigenti potevano usare quelle somme a piacimento? Assolutamente no. E poi c'era poco da usare... quei soldi erano sempre molto meno di quanto costassero segreterie, campagne elettorali, stipendi ai dipendenti, materiale per la propaganda... Certo un uso disinvolto, come quello che ha potuto fare vent'anni dopo il tesoriere della Margherita Luigi Lusi, non era proprio pensabile.

LA POLITICA DA "ABBATTERE". Craxi diventa il simbolo della vecchia politica corrotta. La gente gli tira le monetine...Che paradosso! Craxi che voleva modernizzare il Paese trasformato in simbolo del vecchio... Ma tutto ha una sua logica. Uno come lui non avrebbe mai consentito quell'assalto alla diligenza, quel grande banchetto ai danni dello Stato, che avvenne poco dopo grazie al «nuovo» corso della politica, imposto dalle inchieste e dai tribunali. Un episodio illuminante in questo senso lo racconta Paolo Cirino Pomicino nel suo libro Dietro le quinte. È Craxi a parlare. «Era l'estate del 1990. Venne un grande amico imprenditore e mi portò un messaggio di Enrico Cuccia. In pratica mi invitava a nome della grande borghesia azionista e anticlericale a guidare una sorta di "rivoluzione", portando al governo l'intera sinistra socialista e comunista e marginalizzando la Dc, che nel frattempo avrebbe dovuto frantumarsi». Il presidente di Mediobanca, dunque, cercava già allora uno spazio di espressione politica per quei circoli azionisti costretti, da cinquant'anni, a muoversi da padroni soltanto nel recinto finanziario tra via Filodrammatici, Fiat e Banca d'Italia. «Ma Craxi lasciò cadere il messaggio: in esso vedeva il primo passo dell'asservimento della politica agli interessi economici dei poteri forti». Per tutti questi motivi Craxi era il vero ostacolo da abbattere. E fu abbattuto.

PRODI, DE BENEDETTI E QUEL TAGLIETTO SUL...Era il 1985 e all'epoca ero ministro dell'Industria. A gennaio fui invitato a Nizza a una cena organizzata da Tito Tettamanti, un amico svizzero, e qui conobbi l'amministratore delegato della Heinz, un colosso mondiale del settore alimentare che produce, tra l'altro, il famoso Ketchup. Questo signore mi fece i complimenti per gli orientamenti espressi dal governo - era premier Bettino Craxi - in materia di privatizzazioni e mi rivelò di essere molto interessato all'acquisto della Sme, fiore all'occhiello dell'industria agroalimentare italiana, sotto il controllo pubblico. Suoi erano importanti marchi come Motta, Alemagna, Bertolli, i supermercati Gs e Autogrill. Gli spiegai subito che una possibile vendita non era competenza del Ministero dell'Industria, ma di quello delle Partecipazioni statali. Comunque avrei fatto presente la manifestazione d'interesse al professor Romano Prodi, allora presidente dell'Iri, a cui faceva capo la Sme. Gliene parlò? Certo. Prodi mi invitò a colazione nella foresteria della sede dell'Iri a via Veneto; colazione alla quale parteciparono anche Natalino Irti, membro del Consiglio di presidenza dell'istituto, e Michele Tedeschi, direttore dell'Iri. La posta in ballo era alta e gli americani erano disponibili a pagare bene. Una grossa opportunità per le casse dello Stato. Prodi però si fece una grande risata e ci disse subito che non era possibile nemmeno minimamente pensare a una cessione. La Sme, ci rivelò, era zeppa di liquidità e l'Iri non avrebbe mai potuto venderla perché assoluta-mente indispensabile per far cassa e comunque essenziale per gli equilibri del gruppo. Il prezzo, inoltre, era molto elevato. La valutazione che ne fece fu di circa 3500 miliardi di lire. Concluso l'incontro, chiamai al telefono il mio amico Tettamanti e gli spiegai che l'Iri non intendeva vendere la Sme, ritenendola fortemente strategica in termini finanziari. Peccato, fu la risposta, perché gli americani avrebbero probabilmente potuto pagare la cifra ipotizzata dal professor Prodi. Dopo qualche mese ricevetti attraverso la batteria del Viminale una telefonata dell'ingegner De Benedetti. «Renato, volevo informarti che abbiamo concluso ieri l'accordo per acquisire la Sme», mi disse candidamente. Cercando di nascondere la sorpresa, risposi di essere compiaciuto in quanto da sempre favorevole alla privatizzazione dell'imponente apparato industriale dello Stato. Subito dopo però scoprii che la Sme era stata venduta non per i 3500 miliardi di lire ipotizzati da Prodi, ma per appena 497 miliardi, per di più pagabili in cinque anni. Ne chiese conto al professor Prodi? Certo. Fu proprio lui a telefonarmi. «Renatino, volevo dirti che ho venduto la Sme. Sarai contento finalmente», mi disse con tono ironico. Io però gli chiesi subito come mai il gruppo era stato venduto a un acquirente che pagava sette volte meno il valore stimato dall'Iri, mentre c'erano altri soggetti interessati e pronti a offrire di più. «Perché De Benedetti ha un taglietto sul pisello che altri non hanno», fu la risposta di Prodi, alludendo, immagino ancora ironicamente, a presunte pressioni di consorterie ebraiche. Una versione che non stava in piedi. Come tutta quell'operazione che infatti crollò. Merito di Craxi, che chiamò molti, me compreso, per sollecitare Barilla a partecipare con Ferrero e Berlusconi a una cordata capace di avanzare una controproposta.

MAURO, UN COMUNISTA IN REDAZIONE. La Dc, il Psi, ma anche voi che avevate fatto parte di molti governi, possibile che siate rimasti improvvisamente senza un megafono, senza la possibilità di spiegare le vostre ragioni? Si chiusero tutte le porte. Per dare un'idea posso raccontare un episodio. Dopo aver ricevuto un avviso di garanzia, riportato con enfasi da tutta la stampa italiana, cerco il direttore della «Stampa», Ezio Mauro, e gli chiedo di dire la mia dalle pagine del suo giornale. «Non mi faccia perdere tempo - fu la risposta - non c'è niente da spiegare. I soldi li ha presi o no?» I processi si facevano così. I giornali erano i tribunali. E il filo diretto con le procure non era un mistero per nessuno. Bastava vedere gli atti che pubblicavano. Verbali di interrogatori, intercettazioni telefoniche... tutti documenti che in gran parte non sarebbero potuti uscire dai tribunali. Si è fatto un'idea di come sia avvenuta questa saldatura tra grande stampa e tribunali? L'Italia è un Paese che non ha editori puri. E allora come ora i giornali servivano a tutt'altro che a informare i lettori. Ne ebbi una prova lampante proprio con Mauro. Poco dopo la sua nomina alla direzione della «Stampa», ne avevo parlato con l'avvocato Agnelli. «Come mai - gli chiesi - avete messo un filocomunista al timone del giornale di Torino?». «Perché un comunista in redazione val bene la pace in fabbrica» mi rispose l'avvocato. Anche così si usavano i giornali. E la sinistra aveva occupato molte posizioni di comando, inserendo centinaia di giornalisti, molti dei quali in contatto diretto con le procure.

L'inganno di Tangentopoli: Dialogo sull'Italia a vent'anni da Mani Pulite. Pierantonio Zanotti, Gaetano Pedullà. Marsilio Editori - 162 pagine.

1 Recensione. Dopo aver messo «l'Italia in esilio» per un finanziamento al partito che gli è costato una condanna nell'inchiesta di Mani Pulite, da Nizza e da Londra, dove vive, Renato Altissimo non ha mai smesso di osservare con attenzione le vicende italiane. Mai prima d'ora, però, aveva sentito così vicino il clima cupo di quegli anni, tanto da voler rendere pubblica in questo libro-intervista con Gaetano Pedullà una dettagliata, quanto scomoda, testimonianza diretta, per capire fino in fondo quella stagione e non ricadere negli stessi errori. Se è vero che la storia è scritta dai vincitori, infatti, Tangentopoli rischia di restare una vicenda senza storia. Non solo perché a vent'anni di distanza i vizi dell'Italia sono sempre gli stessi, la corruzione è diffusa, il debito pubblico ha toccato vette inesplorate e il vento dell'antipolitica ha svuotato di potere istituzioni e democrazia. Se a questo si aggiungono l'indignazione ancora percepibile in gran parte del Paese e il camaleontismo di chi ha tratto grandissimi benefici da quella stagione, ecco che diventa difficile trasferire i fatti di allora dalle pagine della cronaca a quelle della storia. Un compito arduo quanto doveroso, perché senza determinarne gli anticorpi, presto o tardi potremmo trovarci a dover fare i conti con una nuova Tangentopoli, persino più dirompente di vent'anni fa.

Cosa dicono le persone: Finalmente comincia a venire a galla la verità che la sinistra giustizialista e i suoi armigeri (alias procuratori e magistrati - la vera casta- la più pericolosa!!!) ha tenuto nel fondo della sabbie mobili e spero che i cadaveri della verità possano affiorare..... Un esempio? La bara di D'Ambrosio come mai è stata omaggiata dal Capo Borelli e alcuni suoi accoliti (in alta uniforme) ma non da Di Pietro..... Come mai? Sarebbe interessante poter ascoltare il cervello dell'Antonio e non dalla sua lingua. Direbbe cose diverse!!!

 

 

 

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